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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di LUGLIO 2017

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aggiornamento al 31.07.2017

aggiornamento al 17.07.2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 31.07.2017

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Regione Lombardia:
ecco la nuova modulistica unificata e standardizzata in materia edilizia.

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 29.07.2017, "Modulistica edilizia unificata e standardizzata: adeguamento alle normative specifiche e di settore di Regione Lombardia dei contenuti informativi dei moduli nazionali per la presentazione delle segnalazioni, comunicazioni e istanze in materia di attività edilizia" (deliberazione G.R. 17.07.2017 n. 6894).
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EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 24.07.2017, "Modulistica edilizia unificata e profili applicativi della disciplina edilizia" (circolare regionale 20.07.2017 n. 10).
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Per comodità di lettura e compilazione, si leggano i vari allegati qui pubblicati separatamente sia in formato .pdf sia in formato .doc (editabile):
Allegato 1: Comunicazione di Inizio Lavori (C.I.L.) à formato editabile
Allegato 2: “Modulo unico” (à formato editabile) da compilare a cura del titolare per:
     - Comunicazione di inizio lavori asseverata (C.I.L.A.),
     - Segnalazione Certificata di inizio attività (S.C.I.A.),
     - Segnalazione Certificata di inizio attività alternativa al permesso di costruire (S.C.I.A. ALTERNATIVA),
     - Istanza del Permesso di Costruire (P.d.C.);
Allegato 3: Relazione tecnica di Asseverazione  (à formato editabile) da compilare, a cura del professionista, per:
     - Comunicazione di inizio lavori asseverata (
C.I.L.A.),
     - Segnalazione Certificata di inizio attività (
S.C.I.A.),
     - Segnalazione Certificata di inizio attività alternativa al permesso di costruire (
S.C.I.A. ALTERNATIVA),
     - Permesso di Costruire (
P.d.C.),
Allegato 4: Soggetti coinvolti à formato editabile
Allegato 5: Comunicazione di fine lavori à formato editabile
Allegato 6: Comunicazione di inizio lavori asseverata (C.I.L.A.) à formato editabile
Allegato 7: Segnalazione Certificata di inizio attività (S.C.I.A.) à formato editabile
Allegato 8: Segnalazione certificata di inizio attività alternativa al Permesso di Costruire (S.C.I.A. ALTERNATIVA) à formato editabile
Allegato 9: Permesso di Costruire (P.d.C.) à formato editabile
    
Allegato 9-bis: nota per la compilazione del punto 32 del Permesso di Costruire (P.d.C.)
Allegato 10: Segnalazione Certificata per l’Agibilità (S.C.A.) à formato editabile
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Per approfondimenti si veda anche l'apposita pagina web della Regione Lombardia.

EDILIZIA PRIVATARecupero sottotetti, Scia o Pc. Lombardia.
Recupero abitativo dei sottotetti in Lombardia: regime giuridico da individuare di volta per volta sulla base degli elementi progettuali. In quanto essendo considerata «ristrutturazione edilizia», la disciplina applicabile non è più quello della denuncia di inizio attività. Potrà essere una Scia o un permesso di costruire per la ristrutturazione c.d. «leggera» e permesso di costruire o Scia alternativa per la ristrutturazione c.d. «pesante».

Questi i chiarimenti contenuti nella
circolare 20.07.2017 n. 10 della Regione Lombardia.
Le novità introdotte dai decreti legislativi n. 126 e n. 222 del 2016 -ricorda la circolare- hanno reso necessario l'adeguamento della modulistica per i titoli edilizi (si veda ItaliaOggi del 17.05.2017). Tutti i nuovi moduli edilizi unificati e standardizzati, approvati il 4 maggio e il 6 luglio scorsi in conferenza unificata, con accordo tra il governo, le regioni e gli enti locali, sono stati adeguati alle normative regionali e approvati, in un unico provvedimento, con la deliberazione della Giunta regionale Lombarda del 17.07.2017, n. 6894.
Nelle more di un aggiornamento e riallineamento della normativa regionale, i tecnici lombardi forniscono alcune considerazioni in merito ad aspetti della disciplina edilizia di più frequente ricorrenza: come noto, infatti, il dpr 06.06.2001, n. 380 (Testo unico dell'edilizia) è stato interessato negli ultimi tempi da ripetuti interventi di modifica. I funzionari Lombardi inoltre sottolineano che a fronte di una giurisprudenza costituzionale consolidata in questi anni, si è affermato espressamente che «la definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta allo Stato».
Pertanto la disciplina degli interventi edilizi dettata all'articolo 27 della legge regionale n. 12/2005 è da considerarsi superata, dovendosi ormai fare riferimento alle definizioni di cui all'articolo 3 del dpr 380/2001, in quanto disposizioni espressamente qualificate dalla corte costituzionale come «principi fondamentali della materia» (articolo ItaliaOggi del 28.07.2017).

 
 

Inchiesta sul PARCO ADDA NORD: trapelano altri dettagli...

ENTI LOCALI: Olginate. Parco Adda Nord: abusi ambientali. La minoranza interroga.
Un’interpellanza, una mozione e la richiesta di convocare al più presto una commissione consiliare presentate dalla minoranza Olginate si Cambia all’amministrazione comunale per avere delucidazioni in merito al caso della cava nel Parco Adda Nord, oggetto, tra le altre cose, di alcune verifiche eseguite da una Commissione d’inchiesta istituita da Regione Lombardia.
La notizia, riportata oggi, giovedì, sul Corriere della Sera, ha subito mobilitato il gruppo di minoranza: “Stando a quanto affermato nell’articolo parrebbe che nel Parco Adda Nord siano state eseguite violazioni ambientali e urbanistiche per danni stimati in oltre 1milione e 200mila euro su una superficie pari a 6.500 mq” si legge nell’interpellanza indirizzata al sindaco
Marco Passoni. L’inchiesta, come riportato dal quotidiano, parte da alcuni rilievi condotti dalle Guardie del corpo forestale che 4 anni e mezzo fa avrebbero riscontrato alcune pesanti irregolarità: in particolare la ditta esecutrice dei lavori avrebbe sconfinato in alcuni terreni all’interno del Parco di proprietà del Comune di Olginate: opere edilizie su un’area di 6.500 metri quadrati con rimozione di alberi e asportazione di terreno.
Il 20.09.2016 –proseguono i consiglieri di Olginate si cambia– il sindaco
Passoni e il presidente del Parco Adda Nord Agostino Agostinelli avrebbero firmato con la ditta indicata come esecutrice delle violazioni un accordo con il quale si stabiliva, a carico della ditta, una sanzione parti a 17mila euro su una superficie pari a 180 mq”. Una riduzione notevole dell’effettiva area oggetto delle violazioni ambientali, avvenuta di anno in anno in seguito ad alcune contestazioni della ditta.
Si ipotizza oggi un pesantissimo danno erariale a carico dell’Amministrazione Pubblica. Alla luce di ciò chiediamo se le notizie e i dati riportati dal Corriere corrispondano al vero e se il sindaco
Passoni, assessore all’Ambiente ai tempi dell’avvio delle indagini della Guardia Forestale, fosse a conoscenza delle violazioni ambientali oggi accertate all’interno dell’area interessata”.
L’interpellanza prosegue con altre richieste: “Vorremmo sapere quali sono le documentazioni che il 20 settembre scorso avrebbero indotto il sindaco e il presidente
Agostinelli a firmare l’accordo con la ditta indiziata, considerato che l’articolo citato evidenzia che ‘la riduzione della superficie, sulla quale sono stati riscontrati abusi e danni ambientali, non sia avvenuta sulla base di un’istruttoria supportata da elementi veritieri e documentati bensì in base ad una richiesta della ditta …’ e, infine, chiediamo al sindaco quali sono le azioni che il Comune intende attivare per evitare un presunto danno erariale”.
La minoranza ha quindi presentato una mozione, chiedendo in via urgente “la trattazione della presente mozione per l’istituzione immediata di una Commissione Comunale ad hoc, costituita da almeno due consiglieri comunali sia di maggioranza che di minoranza, tecnico comunale ed assessore di riferimento, segretario comunale, al fine di verificare l’intero iter comunale degli abusi accertati e delle motivazioni che hanno portato Sindaco e Presidente del Parco alla quantificazione delle sanzioni emesse”.
Nessun commento per il momento da parte del primo cittadino che, contattato, ha dichiarato di non avere ancora preso visione dell’interpellanza della minoranza (20.07.2017 - tratto da e link a www.lecconotizie.com).).

ENTI LOCALI: La cricca del Parco Adda Nord. Olginate, la cava degli abusi. Un buco da un milione di euro.
Il nuovo filone su cui si è concentrata la commissione d’inchiesta di Regione Lombardia. Scavi e lavori edilizi su 6.500 metri quadrati in più con danni alla vegetazione arborea.
Violazioni ambientali e urbanistiche nel Parco Adda Nord per danni stimati in oltre un milione e 200mila euro. Soldi che i vertici del Parco avrebbero dovuto incassare da una società, responsabile di scavi non autorizzati, ma che non sono mai entrati nelle casse pubbliche.
La cava degli abusi è l’ennesimo filone su cui si è concentrata la commissione d’inchiesta istituita da Regione Lombardia il 19.10.2016, composta tra gli altri da due componenti dell’Agenzia Anticorruzione (Arac), Giovanna Ceribelli e Sergio Arcuri. Le verifiche si sono concluse lo scorso 21 giugno, con una relazione di 47 pagine che il Corriere ha visionato. Il dossier è stato consegnato all’assessore all’Ambiente Claudia Terzi (Lega). Dopo le indagini su assunzioni e promozioni a mogli, amiche e funzionari compiacenti e lo scandalo del call center fantasma, emersi nei giorni scorsi, adesso il lavoro degli ispettori si concentra su un presunto danno erariale. In un’area di interesse naturalistico e paesaggistico.
Tutto parte dai rilievi delle Guardie del corpo forestale che, ben quattro anni e mezzo fa, hanno riscontrato pesanti irregolarità. La ditta
Benedetti, che si occupa del commercio di ghiaia e sabbia per l’edilizia, è accusata di avere sconfinato a partire dal 2008 su terreni all’interno del Parco non di sua proprietà (in corrispondenza del Comune di Olginate). In base agli accertamenti svolti sono stati scavati e sono state fatte opere edilizie su 6.500 metri quadrati in più. Con rimozione degli alberi, asportazione di rilevanti quantità di terreno, creazione di terrazzamenti e rampe di accesso per gli automezzi.
La sanzione prevista di oltre 1milione e 200mila euro è direttamente proporzionale alla superficie invasa irregolarmente. Il problema —da quanto emerge dal lavoro degli ispettori Ceribelli e Arcuri— è che negli anni le metrature dell’abuso sono state ridotte, in seguito alle contestazioni della ditta
Benedetti, fino ad arrivare a poco più di 180 metri. Così, in un accordo del 20.09.2016 firmato dal sindaco di Olginate Marco Passoni e dal presidente del Parco Agostino Agostinelli (Pd) con la ditta Benedetti, la sanzione scende a 17mila euro. Un taglio, secondo Ceribelli e Arcuri, irregolare.
«Il direttore del Parco architetto
Minei non ha proceduto a chiudere la pratica ma ha continuamente richiesto all’ufficio di vigilanza la modifica dei conteggi, con conseguente riduzione delle aree —si legge nei documenti—. (...) Dall’analisi degli accordi sostitutivi si può rilevare come la riduzione della superficie, sulla quale sono stati riscontrati abusi e danni ambientali, non sia avvenuta sulla base di un’istruttoria supportata da elementi veritieri e documentati bensì in base a una richiesta della ditta Benedetti».
Adesso il Parco è chiamato a rettificare la superficie degli abusi ridotta. Nelle casse pubbliche potrebbe entrare oltre un milione e 200mila euro (cifra che da sola ripagherebbe Regione Lombardia dei costi sostenuti per il funzionamento di Arac). Tutte le carte sono in Procura a Milano (20.07.2017 - tratto da e link a http://milano.corriere.it).

ENTI LOCALI: L’inchiesta sul Parco Adda Nord. Il call center per i turisti di Expo 2015: un fantasma da 45 mila euro.
Finanziato dalla Regione Lombardia con i fondi europei doveva fornire informazioni ai visitatori durante i sei mesi dell’Esposizione. Ma non è mai entrato in funzione.

«Il telefono risponde a vuoto da tempo. Il trasferimento di chiamata è stato effettuato?». Il 28.12.2016 il nuovo direttore del Parco Adda Nord
Cristina Capetta verifica se le telefonate sono state deviate sui numeri del personale del Parco. Il problema da risolvere non è di poco conto. Il call center per informazioni turistiche —finanziato con 37.500 euro di fondi europei erogati da Regione Lombardia— doveva entrare in funzione nel luglio/agosto 2015 in concomitanza con Expo, ma del servizio non c’è traccia. Il tentativo è di trovare un’alternativa: una voce che risponda al posto di chi avrebbe dovuto farlo per contratto.
Il centralino doveva essere attivo per 18 mesi sei giorni la settimana. Ai turisti doveva essere garantita un’infoline telefonica. Il progetto s’intitolava: «Passaggio sull’Adda. Da Leonardo ad Expo». Ma i risultati delle verifiche, terminate lo scorso 21 giugno, portano a una conclusione sorprendente: «La creazione e il funzionamento del call center non risultano documentati in alcun modo —scrivono Giovanna Ceribelli e Sergio Arcuri dell’Anticorruzione regionale (Arac), entrambi componenti della commissione ispettiva sul Parco Adda Nord istituita da Regione Lombardia—. Dalle dichiarazioni raccolte pare non essere mai stato funzionante nonostante il servizio sia stato pagato». Da una delibera del 20.08.2015 il compenso risulta di 45.750 euro.
La decisione del nuovo dg
Capetta di deviare le chiamate non è casuale. Viene presa quando al Parco Adda Nord sono già al lavoro gli ispettori regionali che vogliono fare chiarezza su presunti comportamenti di dubbia legittimità. Tra questi ci sono anche gli incarichi conferiti alla cooperativa Coclea, vincitrice di 30 appalti in otto anni per un importo di quasi 400mila euro, compreso il bando per l’attivazione del call center fantasma. L’aggiudicazione risale all’aprile 2015 durante la direzione del Parco da parte dell’architetto Giuseppe Luigi Minei, già nel mirino della commissione di inchiesta per l’«incaricopoli» del Parco, come raccontato nei giorni scorsi dal Corriere.
Il call center per informazioni turistiche sulle visite alle bellezze del Parco risulta mai attivato sulla base di svariati indizi: le testimonianze stesse del personale del Parco, la rendicontazione di soli sei mesi di attività (gennaio-giugno 2015) da parte della cooperativa Coclea e l’incongruenza tra la data del report di attività e quella di aggiudicazione dell’appalto (aprile 2015). Uno dei soci fondatori della cooperativa,
Andrea Biffi, scrive: «Il servizio è stato portato a regime nei mesi da gennaio a giugno 2015. Il centralino è stato presidiato da due operatori».
Ma si domandano gli ispettori regionali: «Com’è possibile che la cooperativa abbia rendicontato l’erogazione di un servizio dal mese di gennaio 2015, quando l’appalto è stato aggiudicato solo nell’aprile 2015?». Non risultano altre relazioni sull’attività del centralino: «Ma il Parco ha provveduto al pagamento dell’intero corrispettivo». E sugli appalti alla cooperativa Coclea gli ispettori scrivono: «Emerge la violazione dei principi di trasparenza, economicità, imparzialità e parità di trattamento nella gestione delle procedure» (16.07.2017 - tratto da e link a http://milano.corriere.it).

 
 

Nell'interpretazione della legge, deve ritenersi superato il canone "in claris non fit intepretatio".

ATTI AMMINISTRATIVINell'ipotesi in cui l'interpretazione letterale di una norma di legge sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della "mens legis", specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore.
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16.
L'art. 12 delle disp. prel. cod. civ. impone che debba applicarsi la legge secondo il significato fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore. Il criterio testuale, dunque, si basa sulla determinazione del significato dell'espressione legislativa in base al suo valore semantico secondo l'uso linguistico generale.
Questa Corte di legittimità (vd. Cass. 11359/1993; SS.UU. 4000/1982; 5128/2001) ha, inoltre, avuto modo di chiarire che
nell'ipotesi in cui l'interpretazione letterale di una norma di legge sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della "mens legis", specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore.
17.
Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l'elemento letterale e l'intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, sì che il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all'equivocità del testo da interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito all'interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell'ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è intesa (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 13.07.2017 n. 17356).

ATTI AMMINISTRATIVIE' ormai consolidato il principio che l'art. 12 delle preleggi, laddove stabilisce che nell'applicare la legge non si può attribuire alla stessa altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dall'intenzione del legislatore, non privilegia il criterio interpretativo letterale poiché evidenzia, con il riferimento «all'intenzione del legislatore», un essenziale riferimento alla coerenza della norma e del sistema.
Di conseguenza il dualismo, presente nell'art. 12, tra lettera («significato proprio delle parole secondo la connessione di esse») e spirito o ratio («intenzione del legislatore») va risolto con la svalutazione del primo criterio, rilevandosi inadeguata la stessa idea di interpretazione puramente letterale.

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10. Richiamando precedenti ormai remoti, l’appellante sostiene l’autosufficienza della lettura letterale della norma da applicarsi e, in definitiva, invoca il canone in claris non fit intepretatio.
10.1 Sennonché questo canone non trova alcun conforto negli orientamenti della giurisprudenza più recente. Al contrario, è ormai consolidato il principio che l'art. 12 delle preleggi, laddove stabilisce che nell'applicare la legge non si può attribuire alla stessa altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dall'intenzione del legislatore, non privilegia il criterio interpretativo letterale poiché evidenzia, con il riferimento «all'intenzione del legislatore», un essenziale riferimento alla coerenza della norma e del sistema.
Di conseguenza il dualismo, presente nell'art. 12, tra lettera («significato proprio delle parole secondo la connessione di esse») e spirito o ratiointenzione del legislatore») va risolto con la svalutazione del primo criterio, rilevandosi inadeguata la stessa idea di interpretazione puramente letterale (cfr. Cons. Stato, sez. V, 13.12.2012, n. 6392; Id., 07.10.2013, n. 4920; Id., sez. IV, 11.02.2016, n. 606; Cass. civ., sez. lav., 11.02.2014, n. 3036; Id., sez. III, 20.03.2014, n. 6514) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.06.2017 n. 3233 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl senso della disposizione «fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse» è il primo canone di interpretazione della legge (ex art. 12, comma primo, preleggi).
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10. È infine infondato anche l'ultimo motivo.
L'art. 17, comma 1, d.lgs. 15.12.1997, n. 446, così dispone: «per i soggetti che alla data di entrata in vigore del presente decreto hanno acquisito il diritto a fruire di uno dei regimi di esenzione decennale a carattere territoriale dell'imposta locale sui redditi nel rispetto delle condizioni e dei requisiti previsti dalle singole leggi di esonero, il valore prodotto nel territorio della regione ove è ubicato lo stabilimento o l'impianto cui il regime agevolativo si riferisce, determinato a norma degli articoli 4 e 5, è ridotto per il residuo periodo di applicabilità del detto regime di un ammontare pari al reddito che ne avrebbe fruito».
Il senso di tale disposizione «fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse» (primo canone di interpretazione della legge ex art. 12, comma primo, preleggi) appare univocamente quello di stabilire che l'agevolazione di cui il soggetto passivo aveva acquisito il diritto sotto il vigore della precedente imposta locale sui redditi si riflette con riferimento alla nuova imposta solo attraverso la riduzione della nuova base imponibile di importo corrispondente all'imponibile che, secondo la precedente imposta, avrebbe beneficiato della previste esenzione (Corte di Cassazione, Sez. V civile, sentenza 17.05.2017 n. 12286).

ATTI AMMINISTRATIVIIl significato proprio delle parole secondo la connessione di esse deve essere ritenuto decisivo dall'art. 12 prel. c.c. ai fini dell'interpretazione della legge.
Va riconosciuto carattere interpretativo soltanto a quelle disposizioni che hanno il fine obiettivo di chiarire il senso di norme preesistenti ovvero di escludere o di enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di imporre a chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata un determinato significato normativo.
La possibilità che il legislatore adotti disposizioni di interpretazione autentica, che è ammessa in linea generale non solo ove sussistano situazioni di incertezza nell'applicazione del diritto o siano insorti contrasti giurisprudenziali ma anche in presenza di indirizzi giurisprudenziali omogenei, trova comunque un limite nella circostanza che la scelta imposta per vincolare il significato ascrivibile alla legge anteriore rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, dovendo altrimenti ritenersi che la disposizione asseritamente interpretativa non abbia valore che per l'avvenire, giusta la previsione generale di cui all'art. 11 prel. c.c..

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- che, essendo il significato proprio delle parole secondo la connessione di esse ritenuto decisivo dall'art. 12 prel. c.c. ai fini dell'interpretazione della legge (v. in tal senso Cass. n. 1111 del 2012, ove ampi riferimenti alla giurisprudenza di questa Corte), sembra doversi concludere che il testo dell'art. 51, comma 6, cit., non consente se non di ritenere irrilevante, ai fini dell'individuazione della nozione di trasfertista, la modalità continuativa o meno di corresponsione delle indennità in questione, per attribuire rilievo all'obbligo contrattuale assunto dal dipendente di espletare normalmente le proprie attività lavorative in luoghi sempre variabili e diversi e quindi al di fuori di una qualsiasi sede di lavoro prestabilita (così, espressamente, ancora Cass. n. 396 del 2012);
- che, potendo essere riconosciuto carattere interpretativo soltanto a quelle disposizioni che hanno il fine obiettivo di chiarire il senso di norme preesistenti ovvero di escludere o di enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di imporre a chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata un determinato significato normativo (v. tra le più recenti Corte cost. n. 314 del 2013), l'attribuzione di senso operata dall'art. 7-quinquies, d.l. n. 193/2016 (conv. con I. n. 225/2016), nei confronti dell'art. 51, comma 6, T.U. n. 917/1986, pare avere valore innovativo, avendo nei fatti il significato di sopprimere la locuzione congiuntiva "anche se", che figura nella disposizione interpretata;
- che la possibilità che il legislatore adotti disposizioni di interpretazione autentica, che è ammessa in linea generale non solo ove sussistano situazioni di incertezza nell'applicazione del diritto o siano insorti contrasti giurisprudenziali ma anche in presenza di indirizzi giurisprudenziali omogenei, trova comunque un limite nella circostanza che la scelta imposta per vincolare il significato ascrivibile alla legge anteriore rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario (v. ex plurimis Corte cost. nn. 15 del 2012, 271 del 2011, 209 del 2010, 525 del 2000), dovendo altrimenti ritenersi che la disposizione asseritamente interpretativa non abbia valore che per l'avvenire, giusta la previsione generale di cui all'art. 11 prel. c.c. (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 18.04.2017 n. 9731).

ATTI AMMINISTRATIVISebbene la norma che qui viene in rilievo non brilli per chiarezza, ritiene il Collegio che non sia condivisibile la interpretazione alla stessa data dalla Corte territoriale, laddove il giudice di appello ha del tutto omesso l'esame dei commi successivi al primo ed ha in tal modo violato il canone di ermeneutica fissato dall'art. 12 delle preleggi, che, pur valorizzando la interpretazione letterale, dà rilievo "al significato proprio delle parole secondo la connessione di esse", e, quindi, esclude che l'interprete, a fronte di un testo normativo composto di più commi, possa prescindere dall'esame di quelle parti della disposizione che risultano inscindibilmente legate a quella oggetto di esegesi.
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2.2 - Sebbene la norma che qui viene in rilievo non brilli per chiarezza, ritiene il Collegio che non sia condivisibile la interpretazione alla stessa data dalla Corte territoriale, che ha ritenuto di potere prescindere dall'intervento della Giunta Regionale e di dovere riconoscere alla delibera richiamata nel comma 1 il valore di una "mera presa d'atto".
Nel pervenire a dette conclusioni il giudice di appello ha del tutto omesso l'esame dei commi successivi al primo ed ha in tal modo violato il canone di ermeneutica fissato dall'art. 12 delle preleggi, che, pur valorizzando la interpretazione letterale, dà rilievo "al significato proprio delle parole secondo la connessione di esse", e, quindi, esclude che l'interprete, a fronte di un testo normativo composto di più commi, possa prescindere dall'esame di quelle parti della disposizione che risultano inscindibilmente legate a quella oggetto di esegesi (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 02.01.2017 n. 5).

ATTI AMMINISTRATIVI: La "chiarezza" che consente di evitare ogni altra indagine interpretativa non è, infatti, "una chiarezza lessicale in sé e per sé considerata, avulsa dalla considerazione della comune volontà delle parti". Al contrario, "la chiarezza che preclude qualsiasi approfondimento interpretativo del testo contrattuale è la chiarezza delle intenzioni dei contraenti".
Soltanto ove lettera ed intenzione delle parti siano effettivamente chiari e tra loro coerenti potrà, dunque, arrestarsi l'indagine dell'interprete. Con la conseguenza che è da escludere che l'anzidetto principio possa trovare applicazione "nel caso in cui il testo negoziale sia chiaro, ma non coerente con ulteriori ed esterni indici rivelatori della volontà dei contraenti".

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4.1.2. - In siffatto contesto occorre, dunque, intendere il principio (non ricompreso fra i criteri d'interpretazione del contratto accolti dal codice vigente) secondo cui in claris non fit interpretatio.
Come precisato da Cass., 09.12.2014, n. 25840, la "chiarezza" che consente di evitare ogni altra indagine interpretativa non è, infatti, "una chiarezza lessicale in sé e per sé considerata, avulsa dalla considerazione della comune volontà delle parti". Al contrario, "la chiarezza che preclude qualsiasi approfondimento interpretativo del testo contrattuale è la chiarezza delle intenzioni dei contraenti".
Soltanto ove lettera ed intenzione delle parti siano effettivamente chiari e tra loro coerenti potrà, dunque, arrestarsi l'indagine dell'interprete. Con la conseguenza che è da escludere che l'anzidetto principio possa trovare applicazione "nel caso in cui il testo negoziale sia chiaro, ma non coerente con ulteriori ed esterni indici rivelatori della volontà dei contraenti" (così ancora Cass. n. 25840, cit.) (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 15.07.2016 n. 14432).

ATTI AMMINISTRATIVISe si vuol seguire la tesi circa la prevalenza del criterio letterale nell’interpretazione della norma di legge, laddove essa -per vero- ha un significato chiaro e non equivoco ma -al contempo- manifesta un’aporia testuale del sistema, in tal caso soccorre il principio evincibile dall'art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, laddove stabilisce che, nell'applicare la legge non le può attribuire un altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la loro connessione e dalla intenzione del legislatore, non privilegia il criterio interpretativo letterale poiché evidenzia, con riguardo alla «intenzione del legislatore», un essenziale riferimento alla coerenza della norma e del sistema.
Considerato pertanto che il dualismo del metodo interpretativo, che s’evince dall’art. 12 stesso e che s’invera nella compresenza del criterio letterale («significato proprio delle parole secondo la connessione di esse» e spirito o ratio («intenzione del legislatore»), va risolto se non con la mera o definitiva svalutazione, certo con la possibilità di far recedere il primo criterio rispetto al secondo, rilevandosi inadeguata la stessa idea d’interpretazione puramente letterale, soprattutto quando il risultato di tal operazione si mostri paradossale o incoerente con il sistema giuridico stesso.
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- Considerato in diritto che, con il ricorso in epigrafe ed oltre a concludere per il rigetto anche dei due ulteriori motivi di primo grado assorbiti dal TAR, le Amministrazioni statali appellanti lamentano l’erroneità dell’interpretazione analogica tentata dal TAR sul medesimo art. 120, c. 1, in quanto, per un verso, va preferito per giurisprudenza prevalente il criterio ermeneutico letterale quando esso sia adeguato ad individuare in modo chiaro ed univoco il significato della norma e, per altro verso, non è utilizzabile la disciplina sulla revoca della patente di guida fuori da tal contesto, ponendosi il c. 2 del medesimo art. 120 in un rapporto di specialità rispetto al regime recato dal c. 1 e non essendo in ogni caso invocabile l’art. 27 Cost. nella specie poiché riguarda le sole sanzioni penali;
- Considerato al riguardo che, mentre il c. 1 del ripetuto art. 120, per quel che qui interessa, dispone che «… non possono conseguire la patente di guida… le persone condannate per i reati di cui agli articoli 73 e 74 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 09.10.1990, n. 309…», il successivo c. 2 prevede che (I per.) «… se le condizioni soggettive indicate nel primo periodo del comma 1… intervengono in data successivo al rilascio, il prefetto dispone la revoca della patente di guida…», ma (II per.) «… la revoca non può essere disposta se sono trascorsi più di tre anni dalla data… di passaggio in giudicato della sentenza di condanna per i reati indicati nel primo periodo del medesimo comma…»;
- Considerato sul punto che, come evincesi dalla serena lettura congiunta dei citati due commi, v’è un’evidente simmetria logica, afferendo entrambi i casi alla (non) sussistenza dei requisiti morali di chi chiede o, rispettivamente, possiede la patente di guida, tra i presupposti del diniego di rilascio e quelli di revoca della patente già rilasciata, ossia la condanna per uno dei reati indicati nell’art. 120, c. 1, I per., tra cui quello per il quale fu condannato il sig. Be.;
- Considerato nondimeno che tal simmetria non s’estende alle conseguenze del passaggio del tempo dalla condanna, per cui, mentre il legislatore ha reputato a priori congruo un periodo ultratriennale dalla definizione della condanna quale termine estintivo della potestà prefettizia di revoca, nulla si prevede coeteris paribus per la vicenda del rilascio;
- Considerato allora che, se si vuol seguire la tesi delle Amministrazioni appellanti sulla prevalenza del criterio letterale nell’interpretazione delle norme de quibus, esse per vero hanno un significato chiaro e non equivoco, ma al contempo manifestano un’aporia testuale del sistema, nel senso, cioè, che la condanna per i reati ex art. 120, c. 1, I per., ove letta da sola e senza un criterio di ragionevole raccordo con l’ordinamento generale, si mostra in sé preclusiva sine die dell’accesso del soggetto condannato alla patente di guida;
- Considerato che un tal risultato ermeneutico s’appalesa irrazionale non solo o non tanto rispetto alla funzione ed agli effetti della pena —che non sono poi del tutto estranei all’esercizio della funzione amministrativa (cfr., p. es., il rinnovo del permesso di soggiorno previa specifica verifica sulla pericolosità sociale dell’interessato, seppur condannato, escludendosi ogni forma di automatismo preclusivo (arg. ex Cons. St., III, 03.12.2015 n. 5474)—, ma soprattutto con l’obiettivo di protezione cui il diniego di rilascio è preordinato, ossia la presenza dei requisiti morali indicati dalla norma stessa, i quali, però, possono variare nel tempo e, dunque, di tali variazioni, in meglio o in peggio, l’ordinamento deve tener conto senza rigidezze o definitive preclusioni, al fine di realizzare una seria ed efficace uguaglianza di trattamento a parità di presupposti;
- Considerato che in tal caso soccorre il principio evincibile proprio dall'art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, laddove stabilisce che, nell'applicare la legge non le può attribuire un altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la loro connessione e dalla intenzione del legislatore, non privilegia il criterio interpretativo letterale poiché evidenzia, con riguardo alla «intenzione del legislatore», un essenziale riferimento alla coerenza della norma e del sistema (arg. ex Cons. St., V, 07.10.2013 n. 4920);
- Considerato pertanto che il dualismo del metodo interpretativo, che s’evince dall’art. 12 stesso e che s’invera nella compresenza del criterio letterale («significato proprio delle parole secondo la connessione di esse» e spirito o ratiointenzione del legislatore»), va risolto se non con la mera o definitiva svalutazione, certo con la possibilità di far recedere il primo criterio rispetto al secondo, rilevandosi inadeguata la stessa idea d’interpretazione puramente letterale, soprattutto quando il risultato di tal operazione si mostri paradossale o incoerente con il sistema giuridico stesso (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.02.2016 n. 606 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa "chiarezza" che preclude ogni altra indagine interpretativa non è una chiarezza lessicale in sé e per sé considerata, avulsa dalla considerazione della comune volontà delle parti.
Al contrario, la chiarezza che preclude qualsiasi approfondimento interpretativo del testo contrattuale è la chiarezza delle intenzioni dei contraenti.
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Il principio "in claris non fit interpretatio" deve essere rettamente inteso  secondo i seguenti princìpi di diritto:
   (a)
Il primo criterio da seguire nell'interpretazione del contratto è la ricerca della comune volontà delle parti, che deve avvenire non solo sulla base del testo negoziale, ma in base alla condotta delle parti ed al complesso dei patti contrattuali.
   (b)
Nell'interpretazione del contratto la regola "in claris non fit interpretatio" non è applicabile in presenza di clausole che, pur chiare se riguardate in sé, non siano coerenti con l'intenzione delle parti, per come desumibile dalle altre parti del contratto.
   (c)
Nel caso di collegamento negoziale tra più contratti, ciascuno di essi va interpretato tenendo conto della condotta tenuta dai contraenti nella stipula e nell'esecuzione dei contratti collegati, se reciprocamente nota.
   (d)
Se una delle parti del contratto manifesti la volontà di attribuire un certo significato ad una clausola ambigua, e l'altra presti acquiescenza a tali manifestazioni di volontà, l'interpretazione del contratto secondo buona fede, ai sensi dell'art. 1366 c.c., impone di ritenere quella interpretazione coerente con la comune volontà delle parti.

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3.5. La seconda ragione per la quale la sentenza impugnata ha violato l'art. 1362 c.c. è l'erronea applicazione del principio in claris non fit interpretatio. Con questa espressione, come noto, si sintetizza la massima d'esperienza secondo cui quando il testo del contratto è indiscutibile, diviene superfluo indagare la comune intenzione delle parti.
Il principio in claris non fit interpretatio tuttavia deve essere rettamente inteso.
La "chiarezza" che preclude ogni altra indagine interpretativa non è una chiarezza lessicale in sé e per sé considerata, avulsa dalla considerazione della comune volontà delle parti. Al contrario, la chiarezza che preclude qualsiasi approfondimento interpretativo del testo contrattuale è la chiarezza delle intenzioni dei contraenti (principio ripetutamente affermato da questa Corte, a partire da Sez. L, Sentenza n. 866 del 08/03/1975, Rv. 374242).
Così, ad esempio, non v'è dubbio che sia lessicalmente chiaro il testo contrattuale "Tizio vende a Calo il fondo Tuscolano"; ma se nel medesimo contratto le parti avessero premesso che Caio intendeva avere la disponibilità del fondo per un periodo di tempo determinato dietro pagamento di un canone, la chiarezza del testo cessa di essere tale, perché confliggente con la dichiarata comune intenzione delle parti. Tre, dunque, sono le possibilità teoricamente concepibili, dalle quali dipende la scelta del corretto  metodo interpretativo d'un contratto.
Può accadere, innanzitutto, che in un contratto siano chiari e tra loro coerenti la lettera e l'intenzione delle parti, ed in tal caso nessuna ulteriore attività interpretativa è consentita (in applicazione, appunto, del principio "in claris").
Può accadere, poi, che sia chiara ed inequivoca la comune intenzione delle parti, mentre sia ambiguo il testo: anche in tal caso non si porrà alcun problema interpretativo, dovendo il giudice privilegiare l'intenzione dei contraenti rispetto al testo letterale.
Infine, può verificarsi che il testo contrattuale sia chiaro, ma non coerente con ulteriori ed esterni indici rivelatori della volontà delle parti. In questo caso la regola "in daris" non può trovare applicazione, per una questione logica prima che giuridica: e cioè che lo iato tra testo e intenzione impedisce di definire "chiaro" il contratto.
La Corte d'appello, in definitiva, ha fatto scorretta applicazione della regola in claris, perché in luogo di accertare se la comune intenzione delle parti risultasse in modo certo ed immediato dal contratto, mediante l'impiego articolato dei vari canoni ermeneutici, ivi compreso il comportamento complessivo delle parti, si è arrestata al testo negoziale considerandolo chiaro di per sé, senza verificare se fosse anche coerente con le dichiarate intenzioni delle parti (così, ex multis, Sez. L, Sentenza n. 12360 del 03/06/2014, Rv. 631051; Sez. 3, Sentenza n. 7083 del 28/03/2006, Rv. 588667).
...
3.8. La sentenza d'appello deve dunque essere cassata con rinvio alla Corte d'appello di Ancona in differente composizione.
Il giudice del rinvio, nel riesaminare il contratto alla luce dell'intero testo negoziale, della condotta delle parti e del principio di buona fede, si atterrà ai seguenti princìpi di diritto:
   (a)
Il primo criterio da seguire nell'interpretazione del contratto è la ricerca della comune volontà delle parti, che deve avvenire non solo sulla base del testo negoziale, ma in base alla condotta delle parti ed al complesso dei patti contrattuali.
   (b)
Nell'interpretazione del contratto la regola "in claris non fit interpretatio" non è applicabile in presenza di clausole che, pur chiare se riguardate in sé, non siano coerenti con l'intenzione delle parti, per come desumibile dalle altre parti del contratto.
   (c)
Nel caso di collegamento negoziale tra più contratti, ciascuno di essi va interpretato tenendo conto della condotta tenuta dai contraenti nella stipula e nell'esecuzione dei contratti collegati, se reciprocamente nota.
   (d)
Se una delle parti del contratto manifesti la volontà di attribuire un certo significato ad una clausola ambigua, e l'altra presti acquiescenza a tali manifestazioni di volontà, l'interpretazione del contratto secondo buona fede, ai sensi dell'art. 1366 c.c., impone di ritenere quella interpretazione coerente con la comune volontà delle parti (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 09.12.2014 n. 25840).

ATTI AMMINISTRATIVINell'ipotesi in cui l'interpretazione letterale di una norma di legge o regolamentare sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della mens legis, specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore.
Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua, e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario, l'elemento letterale e l'intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, sì che il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all'equivocità del testo da interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito all'interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell'ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è intesa.

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La questione sollevata con il primo motivo di ricorso investe il significato da attribuirsi alla locuzione "imprese già beneficiarie", sostenendo il ricorrente che la stessa dovrebbe interpretarsi nel senso di imprese che già abbiano beneficiato dello sgravio contributivo generale contemplato dalla norma richiamata.
L'indagine deve essere naturalmente svolta alla luce del disposto dell'art. 12, comma 1, delle disposizioni sulle legge in generale, a mente del quale "Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore".
Secondo il condiviso orientamento della giurisprudenza di legittimità,
nell'ipotesi in cui l'interpretazione letterale di una norma di legge o regolamentare sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l'interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della mens legis, specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore; soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua, e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario, l'elemento letterale e l'intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, sì che il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all'equivocità del testo da interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non essendo consentito all'interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono nell'ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è intesa (cfr, ex plurimis, Cass., n. 5128/2001) (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 11.02.2014 n. 3036).

ATTI AMMINISTRATIVICome precisato dalla giurisprudenza anche di questa Sezione, l'art. 12 delle preleggi “non privilegia in assoluto il criterio interpretativo letterale, poiché evidenzia, attraverso il riferimento "all'intenzione del legislatore" un essenziale riferimento alla coerenza della norma e del sistema; di conseguenza il dualismo, presente nell' art. 12, tra lettera "significato proprio delle parole secondo la connessione di esse" e spirito o ratio "intenzione del legislatore" va risolto con la svalutazione del primo criterio, rilevandosi inadeguata la stessa idea di interpretazione puramente letterale”.
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1. Con unico articolato motivo di censura il ricorrente deduce l’erroneità della gravata sentenza laddove, da un lato, ha attribuito al termine “prospiciente” richiamato dall’art. 139 delle N.T.A. del P.R.G. un significato riduttivo rispetto a quello letterale e, dall’altro, non ha riconosciuto la violazione del principio di liberalizzazione vigente in materia .
Assume, al riguardo, che dal fondo di sua proprietà (ubicato in una fascia di rispetto ambientale) può esercitarsi l’affaccio senza ostacoli su una zona D5 senza che, in proposito, possa rilevare l’esistenza –tra detto fondo e detta zona– di due sedi stradali e di un’altra fascia di rispetto, o una specifica ratio sottesa all’emanazione del citato art. 139.
L’art. 12 delle preleggi escluderebbe, infatti, il ricorso al criterio ermeneutico di tipo teleologico tutte le volte in cui le parole utilizzate dal legislatore non lascino margine di dubbio sul loro significato.
La locuzione “prospiciente” sarebbe chiara e concettualmente del tutto autonoma dalle diverse espressioni usate dal medesimo articolo 139 (ossia quelle di “contatto” e di “ricadente”), con conseguente doverosità, per l’Amministrazione comunale, di autorizzare l’installazione dell’impianto.
Sostiene, poi, che consentire l’apertura di stazioni di rifornimento per le sole esigenze di determinate aree (e non già di tutti gli utenti della strada) sarebbe contrastante con il principio di liberalizzazione vigente in materia.
2. La doglianza non può essere condivisa.
3. Ed invero, come precisato dalla giurisprudenza anche di questa Sezione, l'art. 12 delle preleggi “non privilegia in assoluto il criterio interpretativo letterale, poiché evidenzia, attraverso il riferimento "all'intenzione del legislatore" un essenziale riferimento alla coerenza della norma e del sistema; di conseguenza il dualismo, presente nell'art. 12, tra lettera "significato proprio delle parole secondo la connessione di esse" e spirito o ratio "intenzione del legislatore" va risolto con la svalutazione del primo criterio, rilevandosi inadeguata la stessa idea di interpretazione puramente letterale” (Cons. Stato, Sez. V, 13.12.2012, n. 6392).
Nella specie, proprio in considerazione della ratio sottesa all’adozione dell’art. 139 delle NTA del PRG del Comune di Perugia, non è quindi irragionevole ritenere che il termine “prospiciente”, utilizzato in una disposizione di natura urbanistica, possa non avere lo stesso identico significato ad esso attribuito nel linguaggio comune.
Ed in merito all’individuazione di detta ratio, il Collegio non ha motivo di discostarsi da quanto rilevato dal primo giudice.
L’art. 139 delle N.T.A. del Comune di Perugia -secondo una previsione generale, emanata in considerazione della natura del territorio e nell’ambito della pianificazione urbanistica dello stesso– permette infatti di realizzare, nelle fasce di rispetto ambientale, impianti di distribuzione di carburante solo ed esclusivamente se funzionali alle contigue zone artigianali ed industriali (D1, D2, D3 e D5), agricole (Ea, Eb, Ep), ovvero destinate ad ospitare infrastrutture e servizi generali (Fa, Sg, Spr, Sa).
Pertanto, in un siffatto contesto, è del tutto ragionevole ritenere che al termine “prospiciente” debba attribuirsi un significato più ristretto rispetto a quello comunemente inteso (e cioè di “orientato nella direzione corrispondente a una data veduta”, come specificato dal Devoto-Oli), poiché altrimenti potrebbero essere autorizzati impianti senza alcuna diretta e concreta correlazione con (ed utilità per) le zone sopra indicate,siccome realizzabili anche ad elevata distanza dalle stesse, con ciò vanificandosi il fine perseguito dalla norma.
In altri termini, l’art. 139 in questione consente di intervenire su aree di particolare rilievo quali sono le fasce di rispetto ambientale , solo ed in ragione del fatto che gli impianti ivi previsti risultino oggettivamente a diretto ed immediato servizio delle zone considerate che, pertanto, devono risultare strettamente contigue.
Nella specie,pertanto,il significato di prospicienza deve ragionevolmente essere inteso in senso restrittivo e, quindi, fatto coincidere con quello di “immediata vicinanza” tra la fascia di rispetto ambientale e le zone D1/D2/D3/D5/EA/B/Ep/Fa/Sg/Spr/Sa del PRG.
E detta “immediata vicinanza”, come correttamente rilevato dal Tar, non è riscontrabile nel caso di specie.
Il ricorrente,infatti, ha progettato l’impianto per cui è causa su un terreno sito sul lato opposto rispetto alla zona D5, e separato da quest’ultima da ben due strade (il raccordo autostradale Perugia/Bettolle e la via “Trasimeno ovest”), nonché da una diversa ed ulteriore fascia di rispetto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.10.2013 n. 4920 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nella lettura ed accezione di una clausola dal chiaro tenore letterale, di per sé sola idonea a palesare l'intenzione delle parti, è sufficiente attenersi al principio in claris non fit intepretatio, che costituisce la regola interpretativa primaria e fondamentale, che esime il giudice dal ricorso a quelle di interpretazione sistematica ed ai criteri sussidiari dettati dagli articoli seguenti al 1362 c.c., in tutti i casi in cui le parole adoperate dai contraenti denotino inequivocamente e con immediatezza il contenuto della pattuizione.
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La corte di merito, invero, nella lettura ed accezione di una clausola dal chiaro tenore letterale, di per sé sola idonea a palesare l'intenzione delle parti, si è attenuta al principio in claris non fit intepretatio, che costituisce la regola interpretativa primaria e fondamentale, che esime il giudice dal ricorso a quelle di interpretazione sistematica ed ai criteri sussidiari dettati dagli articoli seguenti al 1362 c.c., in tutti i casi in cui le parole adoperate dai contraenti denotino inequivocamente e con immediatezza il contenuto della pattuizione (tra le tante, v. Cass. nn. 3552/2012, 16298/2010, 9786/2010, 6852/2010, 11392/1995) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 21.12.2012 n. 23828).

ATTI AMMINISTRATIVIL’art. 12 delle preleggi, laddove stabilisce che nell’applicare la legge (criterio che va seguito anche nell’interpretazione della sentenza) non si può attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dall’intenzione del legislatore, non privilegia il criterio interpretativo letterale, poiché evidenzia, attraverso il riferimento “all’intenzione del legislatore” un essenziale riferimento alla coerenza della norma e del sistema (il dualismo, irrisolto dall’art. 12, tra lettera «significato proprio delle parole secondo la connessione di esse» e spirito o ratio «intenzione del legislatore» è stato invero sciolto dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominanti attraverso la «svalutazione» del primo criterio, rilevandosi la inadeguatezza della stessa idea di interpretazione puramente letterale).
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6.1 - Con il primo motivo d’appello, i ricorrenti censurano la sentenza per aver dato una lettura erronea sul piano grammaticale e sintattico della sentenza n. 182 del 1988 ed al di fuori dei canoni ermeneutici di cui all’art. 12 delle preleggi.
La censura non ha pregio.
L’art. 12 delle preleggi, laddove stabilisce che nell’applicare la legge (criterio che va seguito anche nell’interpretazione della sentenza) non si può attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dall’intenzione del legislatore, non privilegia il criterio interpretativo letterale, poiché evidenzia, attraverso il riferimento “all’intenzione del legislatore” un essenziale riferimento alla coerenza della norma e del sistema (il dualismo, irrisolto dall’art. 12, tra lettera «significato proprio delle parole secondo la connessione di esse» e spirito o ratio «intenzione del legislatore» è stato invero sciolto dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominanti attraverso la «svalutazione» del primo criterio, rilevandosi la inadeguatezza della stessa idea di interpretazione puramente letterale) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.12.2012 n. 6392 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIE' fondamentale canone di ermeneutica, sancito dall'ad 12 delle preleggi, che la norma giuridica deve essere interpretata, innanzi tutto e principalmente, dal punto di vista letterale, non potendosi al testo "attribuire altro senso se non quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse".
Pertanto, nell'ipotesi in cui l'interpretazione letterale di una norma di legge sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l'interprete non deve ricorrere ai criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della mens legis, specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma, così come inequivocabilmente espressa dal legislatore.
Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l'elemento letterale e l'intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, cosicché il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all'equivocità del testo da interpretare.

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Secondo la giurisprudenza di questa Corte è fondamentale canone di ermeneutica, sancito dall'art. 12 delle preleggi, che la norma giuridica deve essere interpretata, innanzi tutto e principalmente, dal punto di vista letterale, non potendosi al testo "attribuire altro senso se non quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse"; pertanto, nell'ipotesi in cui l'interpretazione letterale di una norma di legge sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l'interprete non deve ricorrere ai criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della mens legis, specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma, così come inequivocabilmente espressa dal legislatore; soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l'elemento letterale e l'intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, cosicché il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all'equivocità del testo da interpretare (cfr., ex plurimis, Cass., nn. 3359/1975; 2454/1983; 3495/1996; 5128/2001; nonché, in applicazione dei medesimi principi, ex plurimis, Cass., nn. 12081/2003; 3382/2009; 12136/2011) (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 26.01.2012 n. 1111).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVIDeve intendersi per “eccezionale” ogni norma che non sia riconducibile ai principi generali o fondamentali dell’ordinamento giuridico, ma che anzi faccia eccezione ai detti principi o sia in contrasto con essi.
Orbene, con riguardo alle norme eccezionali, la giurisprudenza ha costantemente ritenuto che delle stesse non sia consentita una “interpretazione analogica”, mentre ammette che le medesime disposizioni possano essere interpretate estensivamente.
Anche con riguardo alle norme penali, la giurisprudenza opera la medesima distinzione, ritenendo non consentita l’applicazione analogica, risolvendosi essa in una interpretazione “in malam partem” (e, ragionevolmente, in una violazione dell’art. 25 Cost.), mentre ammette l’interpretazione estensiva.
Tale distinzione, tradizionalmente operata dalla giurisprudenza, appare condivisibile (nei limiti in cui è possibile affrontare nella presente sede un problema plurisecolare di teoria dell’interpretazione giuridica), posto che l’interpretazione analogica attiene ai metodi di integrazione del diritto (ed è quindi, secondo talune ricostruzioni, un atto di costruzione normativa), mentre l’interpretazione estensiva rientra nei metodi interpretativi propriamente detti.
Infatti, nel caso della cd. interpretazione analogica (art. 12, comma 2, preleggi), in realtà si applica una norma ad un caso che si riconosce come escluso dal suo campo di applicazione, ma che tuttavia abbisogna di una disciplina che l’interprete deve rinvenire nell’ordinamento giuridico. Nel caso, invece, dell’interpretazione estensiva si estende il significato di un termine o di una locuzione oltre il suo significato letterale più immediato, al fine di ricavare dalla disposizione il contenuto normativo genuino che è in essa presente.
Appare, dunque, del tutto ragionevole che la locuzione “norma di stretta interpretazione”, tipicamente utilizzata per le norme eccezionali, debba essere intesa come escludente la interpretazione analogica (poiché l’applicazione di una norma a casi ad essa certamente estranei ne estende l’ambito di applicazione e quindi infrange la barriera della “eccezionalità”), ma, al tempo stesso, essa non è tale da impedire che l’interprete (e comunque chi di essa debba fare applicazione) ricerchi il più genuino e congruo significato normativo scaturente dalla disposizione, anche attraverso il “significato proprio delle parole secondo la connessione di esse” e “l’intenzione del legislatore”.
Diversamente opinando, si perviene ad affermare che, a fronte di norme eccezionali, l’interprete debba fermarsi ad una interpretazione letterale, intendendo quest’ultima, per di più, in una accezione che la lega meramente ed esclusivamente al primo, più immediato significato scaturente dalle parole, precludendosi in tal modo ogni possibilità di comprensione del dettato normativo per come esso effettivamente risulta dalla disposizione, dal coordinamento della stessa con il (più ampio) testo normativo, dalle finalità perseguite dal legislatore.
Paradossalmente, accedendo ad una tale “lettura” della “stretta interpretazione” delle norme eccezionali, occorrerebbe affermare l’impossibilità della stessa interpretazione secondo Costituzione (o costituzionalmente orientata) della norma, non rientrando certamente quest’ultima nell’ambito della interpretazione letterale.
E’ del tutto evidente, in accordo con la costante giurisprudenza, che la interpretazione delle norme eccezionali non può essere di tipo strettamente letterale, potendo quest’ultima pervenire a risultati insoddisfacenti, se non paradossali, al punto da porre l’interprete, come nel caso di specie, innanzi alla possibilità di altre, anche più plausibili interpretazioni, che lo stesso interprete ritiene tuttavia essergli precluse dal limite di stretta interpretazione, inteso come interpretazione puramente letterale.

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Deve intendersi per “eccezionale” ogni norma che non sia riconducibile ai principi generali o fondamentali dell’ordinamento giuridico, ma che anzi faccia eccezione ai detti principi o sia in contrasto con essi. In ragione di ciò, l’art. 5 l. n. 225/1992 è senza dubbio definibile come “norma eccezionale”, posto che, con lo stesso, si deroga al principio di gerarchia delle fonti e, in aggiunta, con l’attribuire efficacia derogatoria non già ad un atto-fonte, ma ad un atto amministrativo, sia pure di “alta amministrazione”. Allo stesso modo, devono essere definite “eccezionali” le concrete previsioni di deroga a norme di legge contenute nelle ordinanze.
Orbene, con riguardo alle norme eccezionali, la giurisprudenza ha costantemente ritenuto che delle stesse non sia consentita una “interpretazione analogica” (da ultimo, Cass., sez. lav., 24.05.2011 n. 11359; Cass. Civ., sez. III, 29.09.2009 n. 20744), mentre ammette che le medesime disposizioni possano essere interpretate estensivamente (da ultimo, Cass. Civ., sez. III, 16.07.2010 n. 16647; sez. II, 13.04.2010 n. 8778; sez. I, 05.03.2009 n. 5297).
Anche con riguardo alle norme penali, la giurisprudenza opera la medesima distinzione, ritenendo non consentita l’applicazione analogica, risolvendosi essa in una interpretazione “in malam partem” (e, ragionevolmente, in una violazione dell’art. 25 Cost.), mentre ammette l’interpretazione estensiva (Cass. Pen., sez. un., 25.06.2009 n. 38691; sez. III, 22.10.2009 n. 43385 e 13.07.2009 n. 39078).
Tale distinzione, tradizionalmente operata dalla giurisprudenza, appare condivisibile (nei limiti in cui è possibile affrontare nella presente sede un problema plurisecolare di teoria dell’interpretazione giuridica), posto che l’interpretazione analogica attiene ai metodi di integrazione del diritto (ed è quindi, secondo talune ricostruzioni, un atto di costruzione normativa), mentre l’interpretazione estensiva rientra nei metodi interpretativi propriamente detti.
Infatti, nel caso della cd. interpretazione analogica (art. 12, comma 2, preleggi), in realtà si applica una norma ad un caso che si riconosce come escluso dal suo campo di applicazione, ma che tuttavia abbisogna di una disciplina che l’interprete deve rinvenire nell’ordinamento giuridico. Nel caso, invece, dell’interpretazione estensiva si estende il significato di un termine o di una locuzione oltre il suo significato letterale più immediato, al fine di ricavare dalla disposizione il contenuto normativo genuino che è in essa presente.
Appare, dunque, del tutto ragionevole che la locuzione “norma di stretta interpretazione”, tipicamente utilizzata per le norme eccezionali, debba essere intesa come escludente la interpretazione analogica (poiché l’applicazione di una norma a casi ad essa certamente estranei ne estende l’ambito di applicazione e quindi infrange la barriera della “eccezionalità”), ma, al tempo stesso, essa non è tale da impedire che l’interprete (e comunque chi di essa debba fare applicazione) ricerchi il più genuino e congruo significato normativo scaturente dalla disposizione, anche attraverso il “significato proprio delle parole secondo la connessione di esse” e “l’intenzione del legislatore”.
Diversamente opinando, si perviene ad affermare che, a fronte di norme eccezionali, l’interprete debba fermarsi ad una interpretazione letterale, intendendo quest’ultima, per di più, in una accezione che la lega meramente ed esclusivamente al primo, più immediato significato scaturente dalle parole, precludendosi in tal modo ogni possibilità di comprensione del dettato normativo per come esso effettivamente risulta dalla disposizione, dal coordinamento della stessa con il (più ampio) testo normativo, dalle finalità perseguite dal legislatore.
Paradossalmente, accedendo ad una tale “lettura” della “stretta interpretazione” delle norme eccezionali, occorrerebbe affermare l’impossibilità della stessa interpretazione secondo Costituzione (o costituzionalmente orientata) della norma, non rientrando certamente quest’ultima nell’ambito della interpretazione letterale.
E’ del tutto evidente, in accordo con la costante giurisprudenza, che la interpretazione delle norme eccezionali non può essere di tipo strettamente letterale, potendo quest’ultima pervenire a risultati insoddisfacenti, se non paradossali, al punto da porre l’interprete, come nel caso di specie, innanzi alla possibilità di altre, anche più plausibili interpretazioni, che lo stesso interprete ritiene tuttavia essergli precluse dal limite di stretta interpretazione, inteso come interpretazione puramente letterale.
Proprio in virtù di tale non idonea conclusione, la sentenza appellata, pur prendendo atto dell’esistenza di altre “prospettazioni plausibili”, ha non condivisibilmente concluso negando ogni possibilità di interpretazione estensiva “quantunque quest’ultima sia basata (nel caso di specie) su plausibili argomenti ermeneutici” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.10.2011 n. 5799 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: ULTERIORI NOVITA’ PER TRATTENUTA DEL 2,5% SULLA RETRIBUZIONE DEL PERSONALE IN REGIME DI TFR (CSA di Milano, 05.06.2017).

PUBBLICO IMPIEGO: Guida alle pensioni 2017 - QUELLO CHE DEVI SAPERE SU: Lavoratori precoci | Ape Social | Ape Volontaria | RITA (INCA-CGIL, maggio 2017).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ENTI LOCALI - VARI: Oggetto: Direttiva per garantire un'azione coordinata delle Forze di Polizia per la prevenzione e il contrasto ai comportamenti che sono le principali cause di incidenti stradali (Ministero dell'Interno, direttiva 21.07.2017 n. 300/A/5620/17/144/5/20/3 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Legge regionale 10.03.2017, n. 7 (BURL n. 11 del 13 marzo) – Recupero dei vani e locali seminterrati esistenti – Indicazioni per l’individuazione degli ambiti di esclusione di cui all’art. 4 (Regione Lombardia, Direzione Generale Welfare, nota 19.07.2017 n. 23689 di prot.)

APPALTI: Oggetto: Conversione della manovra correttiva (D.L. 50/2017) principali misure di natura fiscale (ANCE di Bergamo, circolare 14.07.2017 n. 127).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Distributori di carburante ad uso privato e trasporto di carburanti in recipienti mobili: nuova normativa regionale (ANCE di Bergamo, circolare 30.06.2017 n. 121).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Manifestazioni pubbliche. Indicazioni di carattere tecnico in merito a misure di safety (Ministero dell'Interno, Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile, nota 19.06.2017 n. 11464 di prot.).

URBANISTICA: NOTA DI LETTURA L.R. 16/2017 - Modifiche all’art. 5 della L.R. 28.11.2014 n. 31 (Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato) (ANCI Lombardia, nota 14.06.2017 n. 4165 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: NOTA DI LETTURA DELLE NORME URBANISTICHE CONTENUTE NELLA L.R. 15/2017 - (art. 26 - modifiche alla L.R. 12/2005) (ANCI Lombardia, nota 14.06.2017 n. 4165 di prot.).

APPALTI - INCARICHI PROGETTUALI: Oggetto: Informativa sul "Decreto Correttivo" (D.Lgs. 19.04.2017, n. 56) contenete disposizioni integrative e correttive al D.Lgs. 18.04.2016, n. 50 (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 29.05.2017 n. 71).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Oggetto: Accatastamento dei fabbricati rurali (Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati, nota 04.11.2016 n. 15086).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 29.07.2017, "Modulistica edilizia unificata e standardizzata: adeguamento alle normative specifiche e di settore di Regione Lombardia dei contenuti informativi dei moduli nazionali per la presentazione delle segnalazioni, comunicazioni e istanze in materia di attività edilizia" (deliberazione G.R. 17.07.2017 n. 6894).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 25.07.2017, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in acustica ambientale alla data del 30.06.2017, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 20.07.2017 n. 119).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 24.07.2017, "Modulistica edilizia unificata e profili applicativi della disciplina edilizia" (circolare regionale 20.07.2017 n. 10).

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 21.07.2017 n. 169 "Disposizioni in ordine alla sicurezza ed alla tutela dell’incolumità pubblica in occasione dell’accensione di fuochi artificiali autorizzata ai sensi dell’art. 57 del T.U.L.P.S. - Fuochi acquatici - Emissioni sonore" [Ministero dell'Interno, circolare 13.07.2017 n. 557/PAS/U/010693/XV.A.MASS(1)].

AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 29 del 21.07.2017, "Gestione faunistico - Venatoria del cinghiale e recupero degli ungulati feriti" (L.R. 17.07.2017 n. 19).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 20.07.2017 "Quinto aggiornamento 2017 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (deliberazione G.R. 17.07.2017 n. 8674).

ATTI AMMINISTRATIVI: G.U. 19.07.2017 n. 167 "Modalità di versamento del contributo unificato per i ricorsi promossi dinanzi al giudice amministrativo, per i ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica e per i ricorsi straordinari al Presidente della Regione siciliana" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 27.06.2017).

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 19.07.2017 n. 167 "Revisione della disciplina in materia di impresa sociale, a norma dell’articolo 2, comma 2, lettera c) della legge 06.06.2016, n. 106" (D.Lgs. 03.07.2017 n. 112).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 17.07.2017, "Approvazione dello schema d’intesa ANCI - Regione Lombardia «Intesa per la distribuzione regionale della quota assegnata a Regione Lombardia del fondo nazionale per l’associazionismo comunale»" (deliberazione G.R. 12.07.2017 n. 6849).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 17.07.2017, "Pubblicazione dell’ elenco, istituito con d.d.u.o. 21.04.2017, n. 4578, dei membri di indicazione regionale per le commissioni d’esame dei corsi in acustica di cui al d.lgs. 17.02.2017, n. 42, allegato 2, parte b, punto 2" (comunicato regionale 05.07.2017 n. 112).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 17.07.2017 n. 165 "Indirizzi per l’attuazione dei commi 1 e 2, dell’articolo 14, della legge 07.08.2015, n. 124 e linee guida contenenti regole inerenti all’organizzazione del lavoro finalizzate a promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei dipendenti (Direttiva n. 3/2017)" (Presidente del Consiglio dei Ministri, direttiva 01.06.2017 n. 3/2017).

PATRIMONIO: G.U. 17.07.2017 n. 165 "Aggiornamento delle «Linee guida per l’applicazione della legge n. 717 del 29.07.1949, recante norme per l’arte negli edifici pubblici»" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 15.05.2017).
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G.U. 25.07.2017 n. 172 "Comunicato relativo al decreto 15.05.2017, recante: «Aggiornamento delle “Linee guida per l’applicazione della legge n. 717 del 29.07.1949, recante norme per l’arte negli edifici pubblici”»".

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ATTI AMMINISTRATIVI: C. Zucchelli, Il “provvedere” ai tempi della globalizzazione. Riflessi sul rapporto autorità/libertà (Relazione tenuta al Convegno: “Il provvedimento amministrativo tra forma e sostanza”) (29.07.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: V. Neri, Danno ambientale: tutela civilistica versus tutela amministrativa. La green economy e l’impatto sul codice degli appalti (28.07.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti a contratto, staff e portavoce: meglio dire che si tratta di finanziamento pubblico ai partiti (29.07.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni nella PA bloccate ma non per tutte (29.07.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Appalti semplificati sotto soglia: Oepv non obbligatoria (28.07.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Nuove progressioni verticali: un intricato rebus procedurale (22.07.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Appalti ed atti amministrativi: occorre ripristinare i controlli preventivi (16.07.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale: le nuove maglie strette del piano triennale dei fabbisogni (09.07.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Commissioni di gara: l’iperburocrazia di codice ed Anac blocca l’efficienza (08.07.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: La "rivolta" immaginaria dei "burocrati" contro la pubblicazione delle retribuzioni (07.07.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Produttività? Nella PA è solo un’illusione (02.07.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Stop alle collaborazioni coordinate e continuative nella PA (25.06.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi a contratto sempre più mostruosità giuridica (17.06.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuovi "voucher" nella PA - prestazioni occasionali da motivare (16.06.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Lavoro pubblico, riforma Madia: materie di competenza della contrattazione collettiva (15.06.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

SEGRETARI COMUNALI: Segretario comunale: la distorta visione dei media su suoi ruolo e funzioni (10.06.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

INCARICHI PROGETTUALI: I Servizi di Ingegneria e Architettura alla luce del Correttivo del Codice dei Contratti e degli atti attuativi emanati dall’ANAC - D.Lgs. 50/2016 - D.Lgs. 56/2017 - Linee Guida ANAC (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, giugno 2017).

ENTI LOCALI: La nuova disciplina delle società partecipate dalle Pubbliche Amministrazioni - IL D.LGS 19.08.2016, N. 175 ALLA LUCE DELLE DISPOSIZIONI INTEGRATIVE E CORRETTIVE APPORTATE DAL D.LGS. 16.06.2017, N. 100, PUBBLICATO IN G.U. IL 26.06.2017 (ANCI, giugno 2017).

EDILIZIA PRIVATA: Il D.P.R. 13.02.2017, n. 31 - La semplificazione dei procedimenti di tutela paesaggistica - IL RACCORDO CON I PROVVEDIMENTI EDILIZI (ANCI, aprile 2017).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOsservatorio Viminale/ Sui gruppi parla il regolamento.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale può disciplinare la costituzione del gruppo misto nel senso di prevedere che lo stesso sia composto da almeno due consiglieri, impedendo, pertanto, la formazione del gruppo misto monopersonale?

L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge e la relativa materia è regolata dalle norme statutarie e regolamentari dei singoli enti locali.
Nel caso di specie, il regolamento del consiglio comunale vieta espressamente la possibilità di costituire il gruppo misto uni personale; pertanto, nonostante il Ministero dell'interno abbia già in precedenza espresso il proprio orientamento -evidenziando che, «in assenza di disposizioni che escludano espressamente la possibilità di istituire il gruppo misto anche con la partecipazione di un unico componente, si potrebbe accedere ad un'interpretazione delle fonti di autonomia locale orientata alla valorizzazione dei diritti dei singoli di poter aderire a un gruppo consiliare»- va da sé che tale avviso non possa essere adattato al diverso contesto normativo in vigore nel comune in esame.
A tal proposito il Consiglio di stato, con sentenza n. 3357 del 2010, ha affermato che, una volta adottato il regolamento recante le norme sul funzionamento del consiglio comunale, queste ultime non possono essere disapplicate se non previo ritiro. Conseguentemente, poiché la materia dei «gruppi consiliari» è interamente demandata alla competenza delle fonti di autonomia locale, è in tale ambito che potrà essere valutata l'opportunità di adottare apposite modifiche alla normativa in questione (articolo ItaliaOggi del 07.07.2017).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consiglieri, accessi online. Possono visionare il protocollo informatico. Non è ammissibile opporre il segreto né chiedere di specificare l'oggetto.
Un consigliere comunale può chiedere l'accesso al sistema informatico interno, anche contabile, dell'ente?

Secondo il consolidato orientamento del ministero dell'interno, «non paiono sussistere elementi ostativi all'accoglimento della richiesta», sebbene la materia dovrebbe trovare apposita disciplina nel regolamento dell'ente. Al riguardo il Tar Sardegna, con sentenza n. 29/2007, ha affermato che è consentito prendere visione del protocollo generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono tenuti al segreto ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000.
Il Tar Lombardia, Brescia, con sentenza 01.03.2004, n. 163, ha ritenuto non ammissibile imporre ai consiglieri l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli atti che intendono visionare poiché trattasi di informazioni di cui gli stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso. La previa visione dei vari protocolli (dei quali il protocollo informatico rappresenta una innovazione tecnologica prevista, tra l'altro, dall'art. 17 del decreto legislativo n. 82/2005 e successive modificazioni - codice dell'amministrazione digitale) è, pertanto, necessaria per poter individuare gli estremi degli atti sui quali si andrà ad esercitare l'accesso vero e proprio.
In merito, anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, con parere del 22.02.2011, ha osservato che, ai sensi della vigente normativa (dpr 20.10.1998, n. 428, dpcm 31.10.2000, dpr 28.12.2000 n. 445, dpcm 14.10.2003) ogni comune deve provvedere a realizzare il protocollo informatico, a cui possono liberamente accedere i consiglieri comunali, i quali, pertanto, possono prendere visione in via informatica di tutte le determinazioni e le delibere adottate dall'ente; ciò in ottemperanza al principio generale di economicità dell'azione amministrativa, che riduce allo stretto necessario la redazione in forma cartacea dei documenti amministrativi.
I successivi pareri espressi dalla commissione per l'accesso ai documenti amministrativi rafforzano l'orientamento favorevole già manifestato. In particolare la Commissione, con il parere del 03.02.2009, ha precisato che «il ricorso a supporti magnetici o l'accesso al sistema informatico interno dell'ente, ove operante, sono strumenti di accesso certamente consentiti al consigliere comunale che favorirebbero la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l'ordinaria attività amministrativa».
Con il parere del 16.03.2010, ha ribadito l'accessibilità del consigliere comunale al sistema informatico dell'ente tramite utilizzo di apposita password, ove operante, ferma restando la responsabilità della segretezza della password di cui il consigliere è stato messo a conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, Tuel); infine, con il parere del 25.05.2010, ha rimarcato il diritto del consigliere di accedere anche al protocollo informatico (articolo ItaliaOggi del 30.06.2017).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Statuto, il sindaco vota. Va ricompreso nel quorum per le modifiche. Il primo cittadino è componente del consiglio a tutti gli effetti.
Può considerarsi legittima la deliberazione consiliare con la quale è stata approvata una modifica allo statuto dell'ente, considerando anche il voto del sindaco nel computo del quorum funzionale previsto dall'art. 6, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000?
Sulla questione l'orientamento del giudice amministrativo non è univoco (cfr. Tar Puglia sent. 1301/2004, Tar Lazio, sez. II ter, sentenza n. 497/2011 e Tar Lombardia sentenza n. 1604/2011).
Il legislatore, con l'art. 6, comma 4 del Tuel, nel disporre che «gli statuti sono deliberati dai rispettivi consigli con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati, le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche alle modifiche statutarie», prevede un «procedimento aggravato» per l'approvazione delle norme statutarie, nonché delle relative modifiche; ciò, sia disponendo che, in caso di mancata approvazione dei due terzi dell'assemblea, si debba ripetere la votazione entro 30 giorni, sia prescrivendo che lo statuto sia approvato se ottiene per due volte, in sedute successive, il voto favorevole della maggioranza assoluta dei membri assegnati al collegio.
L'approvazione dello statuto, pertanto, attesa la natura di atto normativo «fondamentale» sua propria (comma 2, art. 6 cit.), comporta che su di esso converga il più elevato numero di consensi attraverso un'ampia discussione e comparazione d'interessi da parte della maggioranza e dell'opposizione consiliare.
Tale esigenza ha determinato, conseguentemente, la previsione di maggioranze speciali disponendo che i quorum, rispettivamente della prima e delle altre votazioni, siano ragguagliati ai due terzi o alla maggioranza assoluta non dei votanti, ma dei consiglieri assegnati.
Pertanto, l'iter deliberativo di approvazione dello statuto e delle sue modifiche comporta che in sede di prima votazione la delibera sia approvata con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati ivi compreso il sindaco, che è componente del consiglio comunale ai sensi dell'art. 37 del citato Testo unico.
Infatti, nelle ipotesi in cui l'ordinamento non ha inteso computare il sindaco, o il presidente della provincia, nel quorum richiesto per la validità di una seduta, lo ha indicato espressamente usando la formula «senza computare a tal fine il sindaco ed il presidente della provincia»
(articolo ItaliaOggi del 23.06.2017).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni, esterni out. Esclusa la presenza di chi non è consigliere. Gli organi devono rispecchiare la composizione del consiglio.
Ai sensi dell'art. 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, in materia di composizione delle commissioni comunali, è legittimo il regolamento del consiglio comunale di un ente locale che prevede la presenza, nelle commissioni consiliari permanenti, di membri esterni al consiglio nominati dalla giunta comunale?

Secondo il citato art. 38, comma 6, lo statuto può prevedere la costituzione di commissioni consiliari, istituite dal consiglio «nel proprio seno». Quando sono istituite, le suddette commissioni sono disciplinate dal regolamento comunale con l'unico limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale. Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio debbono essere il più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il loro peso numerico e di voto.
Nel caso di specie, lo statuto del Comune ha stabilito che il consiglio costituisce, nel proprio seno, le commissioni consiliari permanenti; il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale prevede, invece, che la composizione delle stesse commissioni consiliari possa essere integrata dalla presenza di membri non consiglieri nominati dalla giunta.
Tale previsione sarebbe espressione dell'intento della amministrazione di dare attuazione ai principi della partecipazione popolare di cui all'art. 8 del Tuel.
In merito, la formulazione della norma regolamentare non appare coerente con la disciplina dettata dal legislatore, e ribadita dallo statuto dell'ente, circa la indefettibilità dello status di consigliere comunale in capo ai componenti delle commissioni consiliari ex art. 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000. Ai sensi della norma statale citata, infatti, «il consiglio si avvale di commissioni costituite nel proprio seno con criterio proporzionale» ed è, quindi, preclusiva della possibilità che soggetti estranei al consiglio possano farne parte a titolo di veri e propri componenti.
Tale impostazione risulta confermata anche dalla dottrina, che sostiene che la composizione delle commissioni deve rispecchiare con criterio proporzionale le forze politiche presenti in consiglio, «con esclusione di componenti non facenti parte del consiglio stesso». L'ente, pertanto, dovrà valutare l'opportunità di pervenire ad una modifica della normativa regolamentare (articolo ItaliaOggi del 16.06.2017).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum, vince lo statuto. In caso di contrasto con il regolamento. Cosa succede quando c'è discrasia sul numero minimo di consiglieri.
Qual è il quorum strutturale per la validità delle sedute del consiglio comunale convocate in seconda convocazione?
Nella fattispecie in esame, il regolamento di organizzazione e funzionamento del consiglio comunale prevede, per la validità delle sedute del consiglio comunale convocate in seconda convocazione, la presenza di almeno 14 consiglieri. Lo statuto comunale, invece, dispone che le medesime sedute siano valide con la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati, escluso il sindaco.
La discrasia tra le norme richiamate deve ricondursi alla modifica, introdotta dalla legge n. 148/2011, che ha inciso sulla composizione dei consigli operando una riduzione del numero dei consiglieri rientranti nella fascia demografica dell'ente locale di cui trattasi.
In merito all'individuazione della disposizione normativa che deve essere applicata, al fine di computare il numero di consiglieri necessario per la validità delle sedute del consiglio riunito in seconda convocazione, l'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/00, demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto» la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il limite che detto numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia».
Quest'ultimo assunto deve essere inteso nel senso che, limitatamente al computo del «terzo» dei consiglieri, il sindaco deve essere escluso.
Nel caso di specie, la disposizione regolamentare deve essere disapplicata, prevalendo la norma statutaria in ossequio al principio della gerarchia delle fonti e conformemente anche all'articolo 7 del citato decreto legislativo n. 267/2000 che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011).
Deve, tuttavia, considerarsi opportuno un intervento correttivo volto ad armonizzare le previsioni recate dalle citate fonti di autonomia locale (articolo ItaliaOggi del 09.06.2017).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONEL’ipotesi in cui, nel corso dell’esercizio in essere, l’amministrazione non abbia né costituito il fondo né provveduto a sottoscrivere il contratto decentrato trova espressa disciplina nel punto 5.2 del principio contabile, alla stregua del quale: “in caso di mancata costituzione del Fondo nell’anno di riferimento, le economie di bilancio confluiscono nel risultato di amministrazione, vincolato per la sola quota del fondo obbligatoriamente prevista dalla contrattazione collettiva nazionale”, con la conseguenza che tutte le risorse di natura variabile ivi incluse quelle da “riportare a nuovo” vanno a costituire vere e proprie economie di spesa.
Peraltro, la quota variabile del “Fondo per le politiche di sviluppo delle risorse umane e della produttività” comprende voci che, avendo carattere occasionale o essendo soggette a variazioni anno per anno, non possono consolidarsi nei fondi, ma devono e possono trovare applicazione solo nell’anno in cui sono state discrezionalmente previste e alle rigide condizioni, da riscontrarsi anno per anno, indicate nei CCNL di riferimento: “quello che emerge dalla lettura della norma è l’esigenza di un momento ricognitivo sulla consistenza del ‘Fondo’, nelle sue componenti stabile e variabile, che intervenga entro l’esercizio di riferimento. Momento ricognitivo la cui mancanza si pone come elemento in grado di impedire che le risorse non riferibili alla ‘…quota del fondo obbligatoriamente prevista dalla contrattazione collettiva nazionale…’ possano confluire nell’avanzo vincolato”.
Del resto, già in precedenza sono state manifestate riserve sulla liceità di contratti collettivi integrativi che non solo siano conclusi dopo la scadenza del periodo di riferimento ma che individuino criteri predeterminati e processi di verifica, di fatto impossibili, proprio a causa della mancanza dei criteri preliminari).
Pertanto, non appaiono meritevoli di accoglimento le argomentazioni avanzate dall’ente al fine di prospettare la possibilità di procedere al riparto delle risorse di natura variabile dei fondi 2013-2015 dopo la fine dell’esercizio d’attinenza, anche in assenza della costituzione del fondo e della stipula del CCDI negli anni di riferimento (cfr., con particolare riferimento alla natura vincolata delle risorse che alimentano anche la parte variabile del Fondo, ARAN-Orientamenti applicativi delle Regioni-Autonome locali n. 482 del 02.11.2012).
Del resto, non possono costituire un valido fondamento normativo le affermazioni, anch’esse richiamate dall’ente, contenute nella circolare n. 19 del 27.04.2017 del Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, stante l’efficacia meramente interna e la pacifica assenza di valore normativo dell’atto, essendo lo stesso privo del potere di innovare l’ordinamento giuridico.
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Il Sindaco del Comune di Campobasso, con nota prot. n. 22427 del 29.05.2017, assunta al protocollo di questa Sezione n. 1385 del 06.06.2017, sulla scorta di quanto indicato da questa Sezione con la Deliberazione n. 218/2015/PAR (“in caso di mancata costituzione del fondo nell’anno di riferimento le economie di bilancio confluiscono nel risultato di amministrazione, vincolato per la sola quota del fondo obbligatoriamente prevista dalla contrattazione collettiva nazionale”) ha chiesto di esprimere motivato parere in merito al concetto di quota del fondo obbligatoriamente prevista dalla contrattazione collettiva nazionale.
Più precisamente l’ente chiede se la quota del fondo obbligatoriamente prevista coincida con le risorse stabili del fondo ovvero se includa anche quelle risorse variabili specificatamente disciplinate dalla contrattazione collettiva nazionale (ad es. la quota del 1,2% del monte salari della dirigenza 1997 prevista dall’art. 26, comma 2, del CCNL del 23.12.1999 – l’incentivo per il dirigente avvocato in relazione alle sentenze favorevoli all’ente previsto dal CCNL del 23.12.1999 – l’incentivo per la progettazione di opere pubbliche previsto dall’art. 92, co. 5 e 6, del D.lgs. n. 163/2006).
...
In via preliminare, per una migliore analisi della questione sottoposta all’esame di questa Sezione, si richiama in sintesi quanto esposto dal Comune istante.
In particolare, si ricorda che con delibera di Giunta n. 2 dell’11.01.2013 è stata approvata la piattaforma per il rinnovo del Contratto collettivo decentrato integrativo (CCDI) normativo del personale dirigente per il triennio 2013-2015 ed è stata avviata la trattativa con le organizzazioni sindacali, raggiungendo l’accordo solo in data 20/10/2016. Pertanto, si è in seguito provveduto alla stipula della preintesa, certificata dal Collegio dei Revisori dell’ente in data 03.11.2016, ed in data 20.12.2016 è intervenuta la stipula definitiva del CCDI normativo 2013-2015 del personale dirigente.
Si rende inoltre noto che l’ente, nelle more della stipula del CCDI ed in assenza dello stesso, non ha provveduto, entro la fine dei rispettivi anni, alla formale costituzione dei fondi, né ha provveduto alla contrattazione per il riparto dei fondi per la retribuzione di posizione e di risultato. Ciò nonostante, le risorse sono state previste nei documenti di programmazione finanziaria riferiti agli esercizi 2013-2014-2015.
Successivamente alla stipula del CCDI normativo, con delibera di Giunta n. 290 del 21.12.2016, l’ente ha infine emanato le direttive per la costituzione e il riparto dei fondi per la retribuzione di posizione e di risultato del personale dirigente. In data 27.12.2016 sono state peraltro sottoscritte le ipotesi di CCDI per il riparto dei fondi 2013-2014-2015, successivamente sottoposte al Collegio dei revisori dei conti per la certificazione di competenza.
In tale occasione il Collegio dei revisori ha in primo luogo certificato la compatibilità dei costi della contrattazione collettiva decentrata di cui alle ipotesi del CCDI con i vincoli di bilancio e con quelli risultanti dall’applicazione di norme di legge limitatamente alla parte stabile ovvero alla sola quota del fondo obbligatoriamente prevista dalla Contrattazione Collettiva Nazionale.
D’altro canto, relativamente alle risorse di natura variabile dei fondi dal 2013 al 2015, il Collegio ha ritenuto che, in assenza della costituzione del fondo e della approvazione della contrattazione decentrata negli anni di riferimento, queste debbano costituire economie di spesa e, pertanto, non possano essere oggetto di riparto.
Tanto esposto il Comune, tenendo in considerazione quanto indicato da questa Sezione con la deliberazione n. 218/2015/PAR, secondo cui “in caso di mancata costituzione del fondo nell’anno di riferimento le economie di bilancio confluiscono nel risultato di amministrazione, vincolato per la sola quota del fondo obbligatoriamente prevista dalla contrattazione collettiva nazionale”, ha chiesto di esprimere motivato parere in merito al concetto di quota del fondo obbligatoriamente prevista dalla contrattazione collettiva nazionale.
Più precisamente, l’ente chiede se la quota del fondo obbligatoriamente prevista coincida con le risorse stabili del fondo ovvero se includa anche quelle risorse variabili specificatamente disciplinate dalla contrattazione collettiva nazionale. A tale ultimo riguardo, si citano, a titolo esemplificativo, la quota del 1,2% del monte salari della dirigenza 1997 prevista dall’art. 26, comma 2, del CCNL del 23.12.1999, l’incentivo per il dirigente avvocato in relazione alle sentenze favorevoli all’ente previsto dal CCNL del 23.12.1999 e l’incentivo per la progettazione di opere pubbliche previsto dall’art. 92, co. 5 e 6, del D.lgs. n. 163/2006.
Al fine di fornire risposta al suddetto quesito, la Sezione, richiamando quanto già dalla stessa espresso nella citata deliberazione n. 218/2015/PAR, intende fornire ulteriori specificazioni, aderendo al riguardo alle indicazioni contenute nella deliberazione della Sezione di Controllo del Veneto n. 263/2016/PAR.
Invero, la Sezione di Controllo del Veneto, analizzando una fattispecie sovrapponibile a quella esposta dal Comune di Campobasso e partendo dall’orientamento espresso dalla Sezione di Controllo per il Molise nella deliberazione n. 218/2015/PAR, stabilisce che
l’ipotesi in cui nel corso dell’esercizio in essere l’amministrazione non abbia né costituito il fondo né provveduto a sottoscrivere il contratto decentrato trova espressa disciplina nel punto 5.2 del principio contabile, alla stregua del quale: “in caso di mancata costituzione del Fondo nell’anno di riferimento, le economie di bilancio confluiscono nel risultato di amministrazione, vincolato per la sola quota del fondo obbligatoriamente prevista dalla contrattazione collettiva nazionale (cfr. sul punto anche la Sezione regionale di Controllo per il Molise deliberazione n. 218/2015/PAR).
La Sezione conclude pertanto ritenendo che “
l’effetto, dunque, della mancata costituzione del Fondo è quella di far confluire nel risultato di amministrazione, vincolato, la sola quota del fondo obbligatoriamente prevista dalla contrattazione collettiva nazionale, ovvero la parte stabile: con la conseguenza che tutte le risorse di natura variabile ivi incluse quelle da “riportare a nuovo” vanno a costituire vere e proprie economie di spesa”.
Peraltro, la Sezione regionale di controllo del Veneto nella medesima deliberazione, ai fini della determinazione delle modalità per la costituzione del “Fondo per le politiche di sviluppo delle risorse umane e della produttività” (successivamente denominato “Fondo”) e, in particolare, con l’obiettivo di definire l’ambito della determinazione della quota variabile di detto “Fondo”, precisa altresì che: “
tale quota comprende, infatti, voci che, avendo carattere occasionale o essendo soggette a variazioni anno per anno, non possono consolidarsi nei fondi, ma devono e possono trovare applicazione solo nell’anno in cui sono state discrezionalmente previste e alle rigide condizioni, da riscontrarsi anno per anno, indicate nei CCNL di riferimento”.
Meritevole di segnalazione è inoltre quanto statuito dalla Sezione regionale di controllo per il Veneto in ordine ad ulteriori aspetti normativi che avevano già creato rilevanti dubbi interpretativi.
In particolare, si afferma che: “
come emerge chiaramente dal dettato normativo e come anche rilevato in precedenza, è la formale deliberazione di costituzione del “Fondo” che assume rilievo quale atto costitutivo finalizzato ad attribuire il vincolo contabile alle risorse atteso che la disposizione prevede come: “…nelle more della sottoscrizione della contrattazione integrativa, sulla base della formale delibera di costituzione del fondo, vista la certificazione dei revisori, le risorse destinate al finanziamento del fondo risultano definitivamente vincolate”.
La Sezione chiarisce inoltre che “
quello che emerge dalla lettura della norma è l’esigenza di un momento ricognitivo sulla consistenza del ‘Fondo’, nelle sue componenti stabile e variabile, che intervenga entro l’esercizio di riferimento. Momento ricognitivo la cui mancanza si pone come elemento in grado di impedire che le risorse non riferibili alla ‘…quota del fondo obbligatoriamente prevista dalla contrattazione collettiva nazionale…’ possano confluire nell’avanzo vincolato”.
Infine,
la Sezione “fugando i dubbi interpretativi che emergono dalla richiamata formulazione del testo normativo (delibera di costituzione), ritiene che la costituzione del “Fondo” sia atto da ricondurre alla competenza della dirigenza atteso che lo stesso deve essere non solo ricognitivo della presenza di sufficienti risorse in bilancio ma ben si colloca nell’ambito delle attribuzioni della stessa dirigenza in ordine alla verifica: della correttezza della quantificazione delle risorse iscritte in bilancio destinate alla contrattazione decentrata e del rispetto dei vincoli di finanza pubblica che ne influenzano la modalità di determinazione”.
Del resto,
la giurisprudenza contabile già in precedenza aveva manifestato delle riserve sulla diffusa prassi, invalsa prima dell’entrata in vigore del nuovo sistema di contabilità armonizzata, della cosiddetta contrattazione tardiva, così definita in quanto interveniente nell’esercizio successivo a quello di riferimento.
Al riguardo, basti citare la deliberazione n. 287/2011 della Sezione regionale di controllo della Lombardia secondo cui: “
sussistono forti dubbi sulla liceità di contratti collettivi integrativi che non solo siano conclusi dopo la scadenza del periodo di riferimento ma che individuino criteri predeterminati prima dell’inizio del periodo di riferimento che di qualsivoglia processo di verifica, di fatto impossibile, proprio a causa della mancanza dei criteri preliminari”.
Da ultimo, tornando alla richiesta di parere avanzata dal Comune di Campobasso, va peraltro evidenziato che
non appaiono meritevoli di accoglimento le argomentazioni avanzate dall’ente al fine di prospettare la possibilità di procedere al riparto delle risorse di natura variabile dei fondi 2013-2015 dopo la fine dell’esercizio d’attinenza, anche in assenza della costituzione del fondo e della stipula del CCDI negli anni di riferimento.
Si ha riguardo, in primo luogo, all’affermazione secondo cui gli incentivi per le sentenze favorevoli e per la progettazione interna hanno specifiche fonti di finanziamento che alimentano il fondo per la contrattazione decentrata e le relative risorse non possono essere distratte dalle finalità incentivanti cui sono destinate.
Al riguardo, con particolare riferimento alla natura vincolata delle risorse che alimentano anche la parte variabile del Fondo, appare utile richiamare l’elaborazione effettuata dall’ARAN, che la Sezione intende in questa sede condividere.
In particolare, secondo l’ARAN: “le fonti di alimentazione di tale tipologia di risorse sono espressamente indicate nell’art. 31, co. 3, del CCNL del 22.01.2004, che le finalizzano a specifici obiettivi a tal fine individuati (v. ad esempio, art. 15, co. 1 e 2, del CCNL dell’01.04.1999; risorse destinate alla progettazione; ecc.).
Sulla base delle fonti legittimanti, ogni determinazione in materia, comunque, è demandata alle autonome valutazioni dei singoli enti, sia all’an che sul quantum. Conseguentemente, in virtù della specifica finalizzazione annuale e della loro natura variabile (sia il loro stanziamento che l’entità delle stesse possono variare da un anno all’altro), le risorse di cui si tratta non possono né essere utilizzate per altri scopi, diversi da quelli prefissati, né, a maggior ragione, essere trasportate sull’esercizio successivo in caso di non utilizzo nell’anno di riferimento. Diversamente ritenendo, esse finirebbero sostanzialmente per “stabilizzarsi” nel tempo, in contrasto con la ratio della previsione del CCNL e con la specifica finalizzazione delle risorse stesse, che è alla base del loro stanziamento annuale.
Pertanto, si ritiene che le risorse di cui si tratta, ove non utilizzate per le specifiche finalità cui sono destinate nell’anno nel quale sono stanziate (per il mancato o solo parziale raggiungimento degli obiettivi stabiliti ed in relazione ai quali si è proceduto all’incremento delle risorse variabili), nello stesso anno diventano economie di bilancio e tornano nella disponibilità dell’ente. In questo caso, quindi, in considerazione della particolare natura delle risorse variabili e della loro specifica finalizzazione nell’anno di riferimento, non può trovare applicazione la previsione dell’art. 17, co. 5, del CCNL dell’01.04.1999
” (ARAN-Orientamenti applicativi delle Regioni-Autonome locali n. 482 del 02.11.2012).
Del resto,
non possono costituire un valido fondamento normativo le affermazioni, anch’esse richiamate dall’ente, contenute nella circolare n. 19 del 27.04.2017 del Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, stante l’efficacia meramente interna e la pacifica assenza di valore normativo dell’atto, essendo lo stesso privo del potere di innovare l’ordinamento giuridico (cfr. Corte di Cassazione, sentenza 09.10.2007, n. 23031 e sentenza 09.01.2009, n. 237) (Corte dei Conti, Sez. controllo Molise, parere 21.07.2017 n. 161).

NEWS

EDILIZIA PRIVATARecupero sottotetti, Scia o Pc. Lombardia.
Recupero abitativo dei sottotetti in Lombardia: regime giuridico da individuare di volta per volta sulla base degli elementi progettuali. In quanto essendo considerata «ristrutturazione edilizia», la disciplina applicabile non è più quello della denuncia di inizio attività. Potrà essere una Scia o un permesso di costruire per la ristrutturazione c.d. «leggera» e permesso di costruire o Scia alternativa per la ristrutturazione c.d. «pesante».

Questi i chiarimenti contenuti nella
circolare 20.07.2017 n. 10 della Regione Lombardia.
Le novità introdotte dai decreti legislativi n. 126 e n. 222 del 2016 -ricorda la circolare- hanno reso necessario l'adeguamento della modulistica per i titoli edilizi (si veda ItaliaOggi del 17.05.2017). Tutti i nuovi moduli edilizi unificati e standardizzati, approvati il 4 maggio e il 6 luglio scorsi in conferenza unificata, con accordo tra il governo, le regioni e gli enti locali, sono stati adeguati alle normative regionali e approvati, in un unico provvedimento, con la deliberazione della Giunta regionale Lombarda del 17.07.2017, n. 6894.
Nelle more di un aggiornamento e riallineamento della normativa regionale, i tecnici lombardi forniscono alcune considerazioni in merito ad aspetti della disciplina edilizia di più frequente ricorrenza: come noto, infatti, il dpr 06.06.2001, n. 380 (Testo unico dell'edilizia) è stato interessato negli ultimi tempi da ripetuti interventi di modifica. I funzionari Lombardi inoltre sottolineano che a fronte di una giurisprudenza costituzionale consolidata in questi anni, si è affermato espressamente che «la definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta allo Stato».
Pertanto la disciplina degli interventi edilizi dettata all'articolo 27 della legge regionale n. 12/2005 è da considerarsi superata, dovendosi ormai fare riferimento alle definizioni di cui all'articolo 3 del dpr 380/2001, in quanto disposizioni espressamente qualificate dalla corte costituzionale come «principi fondamentali della materia» (articolo ItaliaOggi del 28.07.2017).

ENTI LOCALI - VARI: Autovelox: addio cartelli con l’avviso se non c’è alcun controllo. Fuorilegge i cartelli che avvisano della presenza di un autovelox che poi non c’è o se il box ai margini della strada è vuoto.
Da oggi in poi, se troveremo un cartello con su scritto «controllo elettronico della velocità» vorrà dire che, molto probabilmente, l’autovelox c’è davvero. Non potranno più esistere –e se ci sono andranno rimossi– gli avvisi posti in quei luoghi ove la polizia non fa più le multe con i dispositivi di controllo a distanza come tutor, autovelox e telelaser.
A stabilirlo è il Ministero degli Interni che, due giorni fa, ha diramato una importante direttiva (direttiva 21.07.2017 n. 300/A/5620/17/144/5/20/3 di prot.  - che probabilmente, da oggi in poi, sarà meglio nota come circolare Minniti) e che aggiorna le regole stabilite dalla altrettanto famosa direttiva Maroni del 2009 in tema di prevenzione degli incidenti stradali e di contrasto alle violazioni del codice della strada. Tra i tanti aspetti trattati dal documento ministeriale vi è la messa la bando dei segnali permanenti che evidenziano l’accertamento elettronico della velocità se il tratto stradale non viene utilizzato sistematicamente per l’attività di controllo.
Addio quindi a tutta quell’infinita serie di segnali di avviso di controllo elettronico della velocità, disseminati qua e là sulle nostre autostrade, figli di epoche in cui l’utilizzo degli autovelox era selvaggio e massiccio.
Dopo i numerosi ricorsi da parte degli automobilisti, i Comuni hanno compreso che non basta più mettere un cartello con scritto «controllo elettronico della velocità» per poter fotografare un automobilista e poi inviargli la multa a casa. Ci sono distanze da rispettare, autorizzazioni Prefettizie da chiedere e segnaletiche da apporre. In tutto questo, anche se l’uso degli autovelox continua ad essere il principale spauracchio per molti automobilisti, di certo la tecnica del tranello si è dovuta raffinare rispettando le numerose (e spesso confuse) regole.
Ora, dopo otto anni dalla famosa circolare Maroni che aveva tentato di disciplinare l’utilizzo degli autovelox, la circolare Minniti chiede quantomeno un po’ di ordine: che si tolgano dai lati delle strade gli avvisi di controllo della velocità che non fanno altro che rallentare il traffico sul più bello anche laddove non ve n’è bisogno.
Diventano così fuori legge i segnali che avvertono della presenza di un controllore elettronico senza alcuna strumentazione nei paraggi.
Riportiamo il testo della circolare che qui interessa di più: «Per le postazioni temporanee possono essere utilizzati segnali collocati in modo permanente sulla strada solo quando la posizione dei dispositivi di rilevamento sia stata oggetto di preventiva pianificazione coordinata ed i loro impiego in quel tratto di strada non sia occasionale, ma, per la frequenza dei controlli, assuma il carattere di sistematicità.
Per «pianificazione del servizio di attività di controllo con misuratori di velocità» si intende quella possibilmente definita in seno alla conferenza provinciale permanente.
L’attività pianificata, se programmata con carattere sistematico, dovrà necessariamente assumere una natura non occasionale (esempio almeno X giorni la settimana per X mesi o con altra cadenza) assumendo a tal fine importanza prioritaria non tanto la determinazione di un numero X di controlli, ma la indicazione dell’intervallo temporale in cui viene effettuata l’attività di controllo stesso. Pertanto l’effettuazione di un numero X di periodi di controlli ripetuti, in un arco temporale definito, fa assumere all’attività di controllo il carattere di sistematicità. Ovvio che più è frequente l’attività meglio credibile risulta anche il segnalamento.
Salvo i caso sopracitati, infatti, l’utilizzazione di segnaletica permanente per segnalare postazioni temporanee, se pur non vietate dalle disposizioni vigenti, risulta non coerente con la tipologia utilizzata e con l’esigenza di credibilità che il messaggio segnaletico deve fornire. Pertanto, salvo i casi sopraindicati, le postazioni temporanee dovrebbero essere segnalate con segnali stradali temporanei
» (23.07.2017 - link a www.laleggepertutti.it).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Nel caso di accesso ad atti di origine extraprocessuale che non risultano coperti da segreto o dal vincolo del sequestro, non ricorrendo alcuna ipotesi di esclusione normativamente prevista, deve essere riconosciuto il diritto all’ostensione.
L'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall’obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990.
In effetti l’art. 24 della legge n. 241 del 1990 al comma 6, lettera d), nell’elencare i casi di possibile esclusione del diritto di accesso fa riferimento ai documenti che riguardano “l’attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini”, ipotesi che sicuramente non ricorre nella fattispecie trattandosi di attività amministrativa, e non di attività di polizia giudiziaria, per la quale allo stato non risultano essere stati adottati specifici provvedimenti da parte della magistratura penale.
In termini analoghi si era già espresso in precedenza TAR Campania-Napoli: "La circostanza dell'avvenuta trasmissione degli atti, oggetto della domanda di accesso, al vaglio della magistratura penale, peraltro senza un provvedimento di sequestro, non giustifica il rifiuto o il differimento dell'accesso, né comporta uno specifico obbligo di segretezza che escluda o limiti la facoltà per i soggetti interessati di prendere conoscenza degli atti, anche alla luce della previsione dell'art. 258 c.p.p.".
Anche la Corte di Cassazione penale, nell’individuare gli atti e i documenti coperti dal segreto ex art. 329 c.p.p., per i quali vige il divieto di pubblicazione di cui all’art. 114 c.p.p., ha puntualizzato che non rientrano nel divieto in oggetto i documenti di origine extraprocessuale acquisiti al procedimento e non compiuti dal P.M. o dalla polizia giudiziaria (“Se per gli atti di indagine in senso stretto formati dal P.M. o dalla p.g. (esami di persone informate, interrogatori di indagati, confronti, ricognizioni, ecc.) nessun problema -a questi fini- si pone, atteso che si tratta di necessità, sempre e comunque, di atti ricadenti nel primo comma dell'art. 329 c.p.p., diverso -e differenziato- non può non essere il discorso per la categoria dei documenti che pur siano entrati nel contenitore processuale. Essi, invero, ai fini del segreto, rientrano nella previsione di legge ove abbiano origine nell'azione diretta o nell'iniziativa del P.M. o della p.g., e dunque quando il loro momento genetico, e la strutturale ragion d'essere, sia in tali organi. Ma tale conclusione di certo non può valere ove si tratti di documenti aventi origine autonoma, privata o pubblica che essa sia, non processuale, generati non da iniziativa degli organi delle indagini, ma da diversa fonte soggettiva e secondo linee giustificative a sé stanti. Non possono, dunque, rientrare nella categoria del segreto, ai fini in esame, i documenti che non siano stati compiuti dal P.M. o dalla p.g., come recita l'art. 329 c.p.p., comma 1, ma siano entrati nel procedimento per disposta acquisizione”).
Invero, se il segreto istruttorio fosse riferibile anche agli atti amministrativi semplicemente connessi a denunce effettuate all’A.G., sarebbe sufficiente per l’amministrazione presentare una denuncia agli organi giudiziari per sottrarre in modo del tutto arbitrario intere categorie di documenti dal diritto di accesso agli atti; ma un’interpretazione del genere sarebbe in completa distonia con le norme di rango primario dettate in materia.
Va, quindi, pienamente condivisa la Giurisprudenza secondo la quale <<deve trovare applicazione l’insegnamento della più recente giurisprudenza, secondo cui non ogni denuncia di reato presentata dalla P.A. all’Autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio e –come tale– è sottratta all’accesso. Infatti, qualora la denuncia sia presentata dalla P.A. nell’esercizio delle sue istituzionali funzioni amministrative, non si ricade nell’ambito applicativo dell’art. 329 c.p.p.; se, invece, la P.A. che trasmette all’Autorità giudiziaria una notizia di reato non lo fa nell’esercizio di tali funzioni, ma nell’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria ad essa specificamente attribuite dall’ordinamento, si è in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria che, come tali, sono sottoposti al segreto istruttorio ex art. 329 c.p.p. e, per conseguenza, sono sottratti all’accesso ai sensi dell’art. 24 della l. n. 241/1990.
Ne discende che, ai fini della valutazione dell’ammissibilità o meno dell’istanza ostensiva, debbono distinguersi tre ipotesi:
   a) quella in cui gli atti siano stati delegati dall’Autorità giudiziaria, nel qual caso l’ostensione non sarà possibile;
   b) quella in cui gli atti coincidano con le notitiae criminis poste in essere dagli organi comunali nell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria ad essi attribuite specificamente dall’ordinamento, nel qual caso, parimenti, l’ostensione non è possibile;
   c) quella in cui, infine, ci si trovi dinanzi ad atti di indagine e di accertamento, se del caso tradottisi in denunce all’Autorità giudiziaria, non compiuti dagli organi comunali nell’esercizio di funzioni di P.G., bensì nell’esercizio delle proprie istituzionali funzioni amministrative, nel qual caso non sussistono, per la giurisprudenza in esame, impedimenti ad ammettere l’accesso su tali atti>>.

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Il ricorrente, titolare dell’“Oa.Ci.” che svolge attività di rifugio sanitario per il ricovero di cani randagi, ha impugnato il silenzio serbato dal comune in intestazione sull’istanza, avanzata il 09.11.2016, di accesso agli atti posti a base della esclusione dell’Oasi Cisternazza dalla gara indetta nel 2016 dal Comune di Catania per l’affidamento del servizio di “… cattura, ricovero, adozione e mantenimento in vita di cani randagi anche traumatizzati catturati nel territorio comunale per un periodo di 32 giorni”.
Alla gara predetta ha partecipato soltanto la parte ricorrente, che dal verbale del 23.08.2016 risulta essere stata esclusa in quanto “dalla documentazione esistente agli atti d’ufficio che riguardano l’affidamento degli stessi servizi alla stessa Società Oa.Ci. di Ro.Da. & C. sas, negli anni 2014/2015, si rilevano gravi inadempienze della società nella gestione del servizio affidatogli…” .
L’esclusione della ricorrente dalla gara è stata poi formalizzata con determina dirigenziale n. 13/694 del 01.09.2016.
Il ricorrente, con istanza del 09.11.2016, ha chiesto di accedere a tutti gli atti richiamati nella predetta determinazione dirigenziale, ed in particolare alla nota del Direttore della Direzione Ecologia e Ambiente prot. N. 23202 del 22.01.2015 indirizzata alla Procura della Repubblica di Catania e alla comunicazione fatta pervenire al Comune di Catania dall'ENPA in esito ai sopralluoghi effettuati presso la struttura del ricorrente.
Con il ricorso in esame, parte ricorrente chiede pertanto l’accertamento del proprio diritto di accedere alla documentazione richiesta, con la conseguente condanna dell’amministrazione comunale a consentire l’accesso, e l’ulteriore condanna del Comune al risarcimento dei danni conseguenti alla mancata aggiudicazione dell’appalto.
Si è costituito per resistere al ricorso il Comune di Catania, sostenendo che gli atti richiesti dal ricorrente non sarebbero accessibili perché oggetto di una procedura di indagine in corso, e opponendosi all’istanza risarcitoria.
La prospettazione del Comune resistente, quanto all’accesso agli atti, non può essere condivisa.
La giurisprudenza di questa Sezione (cfr. TAR Catania, sez. III, 02.02.2017, n. 229) ha chiarito che l'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso (cfr. altresì TAR Puglia, Lecce, n. 2331/2014).
Soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla polizia giudiziaria sono coperti dall’obbligo di segreto nei procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di attività di vigilanza, controllo e di accertamento di illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella disponibilità dell'amministrazione fintanto che non intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei loro confronti, l'accesso garantito all'interessato dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990.
In effetti l’art. 24 della legge n. 241 del 1990 al comma 6, lettera d), nell’elencare i casi di possibile esclusione del diritto di accesso fa riferimento ai documenti che riguardano “l’attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini”, ipotesi che sicuramente non ricorre nella fattispecie trattandosi di attività amministrativa, e non di attività di polizia giudiziaria, per la quale allo stato non risultano essere stati adottati specifici provvedimenti da parte della magistratura penale.
In termini analoghi si era già espresso in precedenza TAR Campania Napoli, Sez. I, 23.02.1995, n. 38: "La circostanza dell'avvenuta trasmissione degli atti, oggetto della domanda di accesso, al vaglio della magistratura penale, peraltro senza un provvedimento di sequestro, non giustifica il rifiuto o il differimento dell'accesso, né comporta uno specifico obbligo di segretezza che escluda o limiti la facoltà per i soggetti interessati di prendere conoscenza degli atti, anche alla luce della previsione dell'art. 258 c.p.p." (conformi anche Cons. Stato, Sez. IV, 28.10.1996, n. 1170, TAR Bari, sentenza n. 287/2011).
Anche la Corte di Cassazione, V Sezione Penale, sentenza 09.03.2011, n. 13494, nell’individuare gli atti e i documenti coperti dal segreto ex art. 329 c.p.p., per i quali vige il divieto di pubblicazione di cui all’art. 114 c.p.p., ha puntualizzato che non rientrano nel divieto in oggetto i documenti di origine extraprocessuale acquisiti al procedimento e non compiuti dal P.M. o dalla polizia giudiziaria (“Se per gli atti di indagine in senso stretto formati dal P.M. o dalla p.g. (esami di persone informate, interrogatori di indagati, confronti, ricognizioni, ecc.) nessun problema -a questi fini- si pone, atteso che si tratta di necessità, sempre e comunque, di atti ricadenti nel primo comma dell'art. 329 c.p.p., diverso -e differenziato- non può non essere il discorso per la categoria dei documenti che pur siano entrati nel contenitore processuale. Essi, invero, ai fini del segreto, rientrano nella previsione di legge ove abbiano origine nell'azione diretta o nell'iniziativa del P.M. o della p.g., e dunque quando il loro momento genetico, e la strutturale ragion d'essere, sia in tali organi. Ma tale conclusione di certo non può valere ove si tratti di documenti aventi origine autonoma, privata o pubblica che essa sia, non processuale, generati non da iniziativa degli organi delle indagini, ma da diversa fonte soggettiva e secondo linee giustificative a sé stanti. Non possono, dunque, rientrare nella categoria del segreto, ai fini in esame, i documenti che non siano stati compiuti dal P.M. o dalla p.g., come recita l'art. 329 c.p.p., comma 1, ma siano entrati nel procedimento per disposta acquisizione”).
Invero, se il segreto istruttorio fosse riferibile anche agli atti amministrativi semplicemente connessi a denunce effettuate all’A.G., sarebbe sufficiente per l’amministrazione presentare una denuncia agli organi giudiziari per sottrarre in modo del tutto arbitrario intere categorie di documenti dal diritto di accesso agli atti; ma un’interpretazione del genere sarebbe in completa distonia con le norme di rango primario dettate in materia.
Va, quindi, pienamente condivisa la Giurisprudenza secondo la quale (cfr. TAR Lazio Latina, Sez. I, 16.01.2014, n. 17) <<deve trovare applicazione l’insegnamento della più recente giurisprudenza (cfr. C.d.S., Sez. VI, 29.01.2013, n. 547), secondo cui non ogni denuncia di reato presentata dalla P.A. all’Autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio e –come tale– è sottratta all’accesso. Infatti, qualora la denuncia sia presentata dalla P.A. nell’esercizio delle sue istituzionali funzioni amministrative, non si ricade nell’ambito applicativo dell’art. 329 c.p.p.; se, invece, la P.A. che trasmette all’Autorità giudiziaria una notizia di reato non lo fa nell’esercizio di tali funzioni, ma nell’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria ad essa specificamente attribuite dall’ordinamento, si è in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria che, come tali, sono sottoposti al segreto istruttorio ex art. 329 c.p.p. e, per conseguenza, sono sottratti all’accesso ai sensi dell’art. 24 della l. n. 241/1990 (C.d.S., Sez. VI, 09.12.2008, n. 6117).
Ne discende che, ai fini della valutazione dell’ammissibilità o meno dell’istanza ostensiva, debbono distinguersi tre ipotesi:
   a) quella in cui gli atti siano stati delegati dall’Autorità giudiziaria, nel qual caso l’ostensione non sarà possibile;
   b) quella in cui gli atti coincidano con le notitiae criminis poste in essere dagli organi comunali nell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria ad essi attribuite specificamente dall’ordinamento, nel qual caso, parimenti, l’ostensione non è possibile;
   c) quella in cui, infine, ci si trovi dinanzi ad atti di indagine e di accertamento, se del caso tradottisi in denunce all’Autorità giudiziaria, non compiuti dagli organi comunali nell’esercizio di funzioni di P.G., bensì nell’esercizio delle proprie istituzionali funzioni amministrative, nel qual caso non sussistono, per la giurisprudenza in esame, impedimenti ad ammettere l’accesso su tali atti
>>.
Nel caso di specie l’accesso è stato richiesto in relazione ad atti di origine extraprocessuale che non risultano coperti da segreto o dal vincolo del sequestro, sicché in definitiva, non ricorrendo alcuna ipotesi di esclusione normativamente prevista, deve essere riconosciuto al ricorrente il diritto all’ostensione, per effetto del quale il Comune resistente dovrà consentire l’accesso.
Non può invece trovare accoglimento la domanda di risarcimento del danno, in quanto non risulta che il ricorrente abbia impugnato la propria esclusione ovvero la mancata aggiudicazione della gara (TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 25.07.2017 n. 1943 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Legittimato passivo della pretesa risarcitoria da occupazione illegittima nel caso di successione a titolo particolare tra enti.
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Espropriazione per pubblica utilità – Indennità di esproprio – Creazione nuovo ente locale per effetto di distacco di una parte del territorio di un altro preesistente – Transito debito indennitario – Esclusione.
Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione illegittima – Risarcimento danni - Conseguente rinuncia alla proprietà del bene.
In tema di procedure ablative, nel caso di creazione di un ulteriore ente locale mediante distacco di una parte del territorio di un altro preesistente, non è possibile far transitare nel patrimonio del nuovo il debito indennitario già sorto a carico del vecchio per effetto di un decreto di esproprio emesso prima della sua istituzione; invece, il debito maturato successivamente alla creazione dell’ente grava su quest’ultimo, in quanto titolare dei relativi poteri, oltre che soggetto beneficiario dell’espropriazione, la quale non può che avvenire in suo favore, una volta che il bene è entrato a far parte del territorio del nuovo ente (1).
Il privato, che abbia subito un’occupazione illegittima, fermo restando il diritto alla restituzione del bene, può chiedere il solo risarcimento del danno subito, rinunciando in tal modo alla proprietà del bene ed alla sua restituzione (in quanto non interessato a quest’ultima) (2).

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   (1) Ha chiarito il Tar che occorre, al fine di accertare quale sia il soggetto legittimato passivo della pretesa risarcitoria da occupazione illegittima nel caso di successione a titolo particolare tra enti, indagare sul momento in cui è sorto il debito risarcitorio.
Quanto alla questione della decorrenza del termine prescrizionale a fronte dell’illecito da occupazione illegittima, specificando che: appare palese la natura permanente dell'illecito della P.A. finché dura l’illegittima occupazione del bene in assenza di un valido titolo che determini il trasferimento della proprietà in capo ad essa, onde non si configura alcuna prescrizione del relativo diritto al risarcimento; il termine quinquennale di detta prescrizione non decorre finché v’è tal illecito ed al più esso inizia a farlo solo dalla proposizione della domanda per quanto riguarda la reintegrazione per equivalente o dalle singole annualità relativamente alla domanda risarcitoria sul mancato godimento del bene (Cons. St., sez. IV, n. 4636 del 2016; id. n. 5364 del 2016); la domanda a cui si fa riferimento, ai fini della cessazione dell’illecito e quindi della decorrenza della detta prescrizione, non può certo essere una generica domanda di pagamento di indennità di esproprio, sulla quale, peraltro, l’amministrazione nega la propria legittimazione passiva, occorrendo, piuttosto, una rinuncia abdicativa (implicita alla richiesta di risarcimento dei danni per equivalente), capace di determinare la cessazione dell’illecito ed in cui la liquidazione del danno da parte dell’amministrazione rappresenta il mancato inveramento della condizione risolutiva implicitamente apposta al proprietario al proprio atto abdicativo, che di esso rappresenta il presupposto; il che comporta la sussistenza di elementi nel caso non riscontrati.
   (2) Cons. St., sez. IV, 30.06.2017, n. 3234.
Ha chiarito il Tar che la rinuncia alla proprietà del bene ha carattere meramente abdicativo e non traslativo, con la conseguenza che da essa non può conseguire, quale effetto automatico, l’acquisto della proprietà del fondo da parte dell’Amministrazione; in tale ipotesi il provvedimento con il quale l’amministrazione procede alla effettiva liquidazione del danno, rappresentando il mancato inveramento della condizione risolutiva implicitamente apposta dal proprietario al proprio atto abdicativo, che di esso rappresenta il presupposto, costituisce atto da trascriversi ai sensi degli artt. 2643, comma 1, n. 5 e 2645 cod. civ., anche al fine di conseguire gli effetti dell’acquisizione del diritto di proprietà in capo all’amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di rinuncia (Cons. St., sez. IV, n. 4636 del 2016) (
TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 20.07.2017 n. 1170 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1.1. Va premesso che, contrariamente a quanto ritenuto da parte ricorrente, l’eccezione sollevata dalla Provincia di Catanzaro non è tardiva, atteso che il difetto di legittimazione passiva può essere dedotto in ogni stato e grado del processo, senza limiti di decadenza; essa, però, parimenti a quella sollevata dalla Provincia di Vibo Valentia, è infondata.
1.2. A questo riguardo, conviene innanzitutto ricordare che,
proprio in tema di procedure ablative, la Suprema Corte ha in più occasioni affermato (v. C. Cass. 1999/398, 2001/7258 e 2002/11045) che, nel caso di creazione di un ulteriore ente locale mediante distacco di una parte del territorio di un altro preesistente, non è possibile far transitare nel patrimonio del nuovo il debito indennitario già sorto a carico del vecchio per effetto di un decreto di esproprio emesso prima della sua istituzione (v., negli stessi termini, anche C. Cass. 1983/6106, peraltro pronunciata in un'ipotesi di accessione invertita); nel caso, invece, di debito maturato successivamente alla creazione dell’ente, esso grava su quest’ultimo, in quanto titolare dei relativi poteri, oltre che soggetto beneficiario dell’espropriazione, la quale non può che avvenire in suo favore, una volta che il bene è entrato a far parte del territorio del nuovo ente.
Occorre, quindi, al fine di accertare quale sia il soggetto legittimato passivo della pretesa risarcitoria in questione (essendo quella indennitaria, giova ricordare, stata rimessa alla giurisdizione del giudice ordinario, per come esposto in fatto), indagare sul momento in cui è sorto il debito risarcitorio, ossia se in epoca anteriore o successiva alla costituzione della Provincia di Vibo Valentia.
...
2. Va rigettata, poi, l’eccezione di prescrizione sollevata dalla Provincia di Catanzaro nei propri confronti, a fronte di un illecito permanente, qual è quello in questione, con le dovute conseguenze sul piano della prescrizione, come meglio specificate al successivo punto 3.
Nel caso, comunque, innanzi ai detti decreti di occupazione (del 17/02/1986 e del 20/03/1990), come prorogati in forza dell’art. 14, comma 2, d.l. n. 534/1987 e art. 22 L. n. 158/1991, è incontestato che i ricorrenti hanno richiesto all’amministrazione provinciale (con note del 19.01.2000 e del 02.04.2001) il pagamento della somma dovuta e che, con atto di citazione, notificato il 15/12/2005, hanno intrapreso nei suoi confronti la causa innanzi al giudice ordinario, di modo che la relativa eccezione non appare in alcun modo fondata.
3. Anche la Provincia di Vibo Valentia solleva eccezione di prescrizione.
Sostiene la Provincia che, ai sensi della sentenza 09.02.2016, n. 2, dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, il termine di prescrizione quinquennale decorrerebbe dalla proposizione della domanda basata sull’occupazione contra ius ovvero dalle singole annualità per quella basata sul mancato godimento del bene, con la conseguenza che, avendo parte ricorrente presentato la domanda risarcitoria all’amministrazione provinciale di Vibo Valentia in data 19.01.2000 (come allegato nel fascicolo principale di parte ricorrente), sarebbero venuti meno gli effetti permanenti dell’illecito e, conseguentemente, l’atto di integrazione del contraddittorio sarebbe stato notificato (il 20.06.2017) quando oramai il relativo diritto si era prescritto.
3.1. Il Collegio ritiene che anche questa eccezione sia infondata.
La questione è quella di stabilire quando decorra il termine prescrizionale a fronte dell’illecito permanente in questione e se, nel caso, possa dirsi il diritto risarcitorio prescritto, potendo decorrere il termine quinquennale dalla nota indicata dalla Provincia di Vibo Valentia (del 19.01.2000), con la quale la parte ricorrente chiede alla stessa, per quanto di spettanza, il pagamento delle indennità di esproprio in questione.
3.1.1. Secondo la sentenza n. 2 del 2016 Ad, Pl. cit,.
in linea generale, quale che sia la sua forma di manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa, occupazione acquisitiva), la condotta illecita della P.A. incidente sul diritto di proprietà non può comportare l’acquisizione del fondo e configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c. –con la conseguente decorrenza del termine di prescrizione quinquennale dalla proposizione della domanda basata sull’occupazione contra ius, ovvero, dalle singole annualità per quella basata sul mancato godimento del bene– che viene a cessare solo in conseguenza:
   a) della restituzione del fondo;
   b) di un accordo transattivo;
   c) della rinunzia abdicativa (e non traslativa, secondo una certa prospettazione delle SS.UU.) da parte del proprietario implicita nella richiesta di risarcimento del danno per equivalente monetario a fronte della irreversibile trasformazione del fondo;
   d) di una compiuta usucapione, ma solo nei ristretti limiti perspicuamente individuati dal Consiglio di Stato allo scopo di evitare che sotto mentite spoglie (i.e. alleviare gli oneri finanziari altrimenti gravanti sull’Amministrazione responsabile), si reintroduca una forma surrettizia di espropriazione indiretta in violazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale della Cedu;
   e) di un provvedimento emanato ex art. 42-bis del D.P.R. 08.06.2001, n. 327 (T.U. espropriazione per p.u.).

3.2. Orbene,
ritiene il Collegio che:
   -
appare palese la natura permanente dell'illecito della P.A. finché dura l’illegittima occupazione del bene in assenza di un valido titolo che determini il trasferimento della proprietà in capo ad essa, onde non si configura alcuna prescrizione del relativo diritto al risarcimento;
   -
il termine quinquennale di detta prescrizione non decorre finché v’è tal illecito ed al più esso inizia a farlo solo dalla proposizione della domanda per quanto riguarda la reintegrazione per equivalente o dalle singole annualità relativamente alla domanda risarcitoria sul mancato godimento del bene (cfr. Cons. St., IV, n. 4636 del 2016; IV, n. 5364 del 2016);
   -
la domanda a cui si fa riferimento, ai fini della cessazione dell’illecito e quindi della decorrenza della detta prescrizione, non può certo essere una generica domanda di pagamento di indennità di esproprio, sulla quale, peraltro, l’amministrazione nega la propria legittimazione passiva, occorrendo, piuttosto, una rinuncia abdicativa (implicita alla richiesta di risarcimento dei danni per equivalente), capace di determinare la cessazione dell’illecito ed in cui la liquidazione del danno da parte dell’amministrazione rappresenta il mancato inveramento della condizione risolutiva implicitamente apposta al proprietario al proprio atto abdicativo, che di esso rappresenta il presupposto; il che comporta la sussistenza di elementi nel caso non riscontrati.
Alla luce di tali principi, la domanda risarcitoria non può dirsi prescritta nemmeno nei confronti della Provincia di Vibo Valentia.
4. Nel merito il ricorso è fondato nei termini che seguono.
A fronte di un’occupazione illegittima e della mancanza di un legittimo atto di acquisizione (come nel caso ove a seguito della dichiarazione di p.u. non ha fatto seguito il decreto di espropriazione nei termini), il proprietario, fermo restando il diritto alla restituzione del bene occupato, può formulare una domanda di mero risarcimento del danno per equivalente a fronte dell’irreversibile trasformazione del fondo.
Ritiene, infatti, il Collegio, aderendo ai recenti e oramai consolidati approdi giurisprudenziali (confermati da ultimo con la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 30.06.2017 n. 3234), che il privato, che abbia subito un’occupazione illegittima, fermo restando il diritto alla restituzione del bene, non costituendo la realizzazione dell’opera pubblica un impedimento alla possibilità di restituire l’area illegittimamente appresa (cfr. C. Cost. 04.10.2010 n. 293; Cons. Stato, Sez. V, 02.11.2011 n. 5844), ben può chiedere il solo risarcimento del danno subito, rinunciando in tal modo alla proprietà del bene ed alla sua restituzione (in quanto non interessato a quest’ultima).
Va specificato che
la rinuncia abdicativa su suolo irreversibilmente trasformato, che muove la presente richiesta risarcitoria, ha carattere meramente abdicativo (Cass. S.U. 19.01.2015, n. 735, Cons. St. Ad. Pl. n. 2/2016) e non traslativo, donde da essa non può conseguire, quale effetto automatico, l’acquisto della proprietà del fondo da parte dell’Amministrazione; in tale ipotesi il provvedimento con il quale l’amministrazione procede alla effettiva liquidazione del danno, come sopra detto, rappresentando il mancato inveramento della condizione risolutiva implicitamente apposta dal proprietario al proprio atto abdicativo, che di esso rappresenta il presupposto, costituisce atto da trascriversi ai sensi degli artt. 2643, primo comma, n. 5 e 2645 cod. civ., anche al fine di conseguire gli effetti dell’acquisizione del diritto di proprietà in capo all’amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di rinuncia (Cons. St. sez. IV, 4636 del 2016).
4.1.
Risulta agli atti che, permanendo l’occupazione anche in data successiva alla scadenza dell’efficacia dei provvedimenti legittimanti l’immissione in possesso, l’occupazione dei terreni di proprietà di parte ricorrente si sia protratta illegittimamente, con efficacia lesiva della situazione giuridica fatta valere in questa sede; deve pertanto riconoscersi alla parte ricorrente il risarcimento del danno per la mancata disponibilità del bene per tutto il periodo di occupazione sine titulo oltre che il danno per equivalente per la perdita del bene, cui parte ricorrente ha implicitamente rinunciato, da calcolarsi secondo i criteri che di seguito vengono indicati ex art. 34, co. 4, c.p.a. (condivisi dalla recente giurisprudenza in tema: cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 07.11.2016 n. 4636; TAR Lazio Roma, sez. II, 12.06.2017 n. 6894):
   a)
in ordine alla determinazione del quantum del risarcimento, questo va commisurato al valore venale del bene al momento in cui si perfeziona la rinuncia abdicativa del proprietario al proprio diritto reale, e, trattandosi di debito di valore, con rivalutazione ed interessi al tasso legale, da calcolarsi fino al momento dell’effettivo soddisfo, tenendo presente che in materia di occupazione acquisitiva di un terreno, il risarcimento del danno è calcolato esclusivamente sul suo valore al momento in cui si è verificata la perdita del diritto di proprietà e l’ammontare del danno deve poi essere rivalutato e devono essere corrisposti gli interessi legali semplici applicati al capitale progressivamente rivalutato, non potendo essere riconosciute ulteriori ragioni di danno (cfr. Corte europea diritti dell’uomo, 22.12.2009, Guiso–Gallisay c. Italia; successivamente Cass. civ., sez. I, 09.07.2014, n. 14604);
   b)
quanto alla determinazione del risarcimento del danno per mancato godimento del bene a cagione dell’occupazione illegittima (per il periodo antecedente al momento abdicativo del diritto di proprietà), questo può essere calcolato –ai sensi dell’art. 34, co. 4, c.p.a., in assenza di opposizione delle parti e in difetto della prova rigorosa di diversi ulteriori profili di danno– facendo applicazione, in via equitativa, dei criteri risarcitori dettati dall’art. 42-bisu. espr. (cfr. da ultimo sul punto Cons. Stato, sez. IV, 23.09.2016 n. 3929; 28.01.2016 n. 329; 02.11.2011 n. 5844), e dunque in una somma pari al 5% annuo del valore del terreno;
   c)
non spetta, invece, in difetto di prova specifica, alcuna liquidazione in misura forfettaria del danno non patrimoniale sia in quanto ciò è previsto, dall’art. 42-bis, co. 1 e 5, t.u. espr. solo per il caso di correlativa acquisizione del bene con decreto della pubblica amministrazione (e non già in presenza di un negozio abdicativo del privato), sia in quanto –con riferimento non già alla perdita del diritto di proprietà ma solo con riferimento alla compressione delle facoltà di godimento– la misura del risarcimento disposta in via equitativa è da ritenersi omnicomprensiva di ogni ulteriore posta, ivi compresi gli accessori (interessi legali e rivalutazione monetaria);
   d)
quanto alla prescrizione del diritto al risarcimento del danno da mancato godimento, occorre precisare che esso cessa, come è evidente, nel momento stesso in cui si verifichi la perdita del diritto di proprietà e dunque, nel caso di specie, nel momento in cui risulta perfezionata la rinuncia a tale diritto, implicita nella proposizione della domanda di risarcimento del danno in sede giudiziaria; pertanto, la prescrizione quinquennale ex art. 2947, co. 1, c.c. (trattandosi di illecito extracontrattuale), avuto riguardo al mancato godimento del bene (e cioè alla mancata percezione di un reddito annuo derivante dall’utilizzazione giuridicamente legittima del terreno occupato), decorre dalle singole annualità e fino al momento di perdita del diritto di proprietà.

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Allegazione del Piano degli indicatori e dei risultati al bilancio di previsione e al bilancio consuntivo.
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Enti locali – Bilancio - Piano degli indicatori e dei risultati attesi di bilancio – Allegazione al bilancio di previsione e al bilancio consuntivo – Necessità.
Il Piano degli indicatori e dei risultati attesi di bilancio al bilancio di previsione e al bilancio consuntivo, di cui all’art. 18-bis, d.lgs. 23.06.2011, n. 118, deve essere allegato da enti locali ed i loro enti e organismi strumentali al bilancio di previsione e al bilancio consuntivo e ne deve seguire deve seguire tutto l’iter, dal deposito del progetto sino all’approvazione (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che se il piano degli indicatori è uno strumento per rendere comparabili, agli occhi della generalità dei consociati, i bilanci degli Enti locali, mercé la sua pubblicazione sul sito Internet istituzionale dell’Ente, a maggior ragione tale strumento deve essere messo a disposizione dei consiglieri comunali, chiamati dare o negare approvazione al bilancio reso comparabile del piano degli indicatori.
Dunque, se il piano deve essere allegato al bilancio di previsione e al bilancio consuntivo, ne deve seguire tutto l’iter, dal deposito del progetto sino all’approvazione.
Né si potrebbe affermare che esso debba essere allegato solo dopo l’approvazione del bilancio cui è accessorio, allo scopo di tener conto di eventuali emendamenti. Al contrario, gli emendamenti al bilancio eventualmente approvati s riverbereranno anche in una modifica del Piano. Una conferma a tale indicazione è data dal punto 4.2., lett. d), dell’allegato 4/1 al d.lgs. 23.06.2011, n. 118, recante il principio contabile applicato concernente la programmazione di bilancio. In tale allegato, infatti, si legge che il piano degli indicatori di bilancio, presentato al Consiglio unitamente al bilancio di previsione e al rendiconto, rappresenta uno strumento della programmazione degli Enti locali.
Deve dunque essere annullato il bilancio di previsione di un Comune nel caso in cui il Piano degli indicatori e dei risultati attesi di bilancio non sia stato depositato, nei termini previsti dal regolamento di contabilità, insieme al progetto di bilancio e agli altri documenti contabili obbligatori (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 20.07.2017 n. 1156 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. - I ricorrenti, consiglieri comunale del Comune di Montepaone, impugnano la convocazione del Consiglio comunale per la data del 30.03.2017 e le delibere assunte in tale seduta, in quanto:
   a) non sarebbe stato rispettato quanto previsto dall’art. 29 del regolamento di contabilità, secondo il quale i documenti di contabilità debbono essere depositati per dieci giorni consecutivi presso l’Ufficio ragioneria, onde consentire ai consiglieri il deposito di emendamenti;
   b) il deposito sarebbe incompleto, non essendo stato reso disponibile, unitamente allo schema di bilancio, il Piano degli indicatori e dei risultati attesi di bilancio, obbligatorio ai sensi dell’art. 18-bis d.lgs. 23.06.2011, n. 118, e del d.m. Interno 22.12.2015;
   c) non sarebbe stato rispettato quanto previsto dall’art. 14 del regolamento per il funzionamento del Consiglio, per il quale tra la data di convocazione e la data di svolgimento del Consiglio comunale debbono intercorrere 5 giorni;
Tali violazioni avrebbero leso le prerogative dei ricorrenti, non consentendo una consapevole partecipazione all’adunanza consiliare, nel corso della quale, comunque, essi non avevano partecipato ai lavori o avevano votato contro le delibere assunte.
2. - Il Comune di Montepaone si è costituito e ha resistito all’avversa azione.
3. - Alla Camera di Consiglio del 19.07.2017 il ricorso, sussistendone i presupposti e previo avviso alle parti, è stato trattato nel merito e spedito in decisione.
4. –
Deve innanzitutto escludersi in via generale, benché l’amministrazione resistente opini diversamente, che vi siano controinteressati al ricorso proposto da alcuni consiglieri comunali per lesione dello ius in officium, che abbia per oggetto l’avviso di convocazione del Consiglio comunale e le delibere approvate dall’adunanza, alle quali si estenderebbe l’illegittimità della convocazione (cfr., sia pure in termini dubitativi, Cons. Stato, Sez. V, 14.09.2012, n. 4892).
In ogni caso, si osserva che le deliberazioni approvate in data 30.03.2017 hanno tutte portata generale, sicché non è possibile individuare chi abbia interesse alla conservazione dei provvedimenti impugnati.
5. – Va quindi premesso che i motivi di ricorso saranno esaminati con un approccio sostanzialistico, per cui rimangono irrilevanti le violazione formali delle regole poste a presidio delle prerogative dei consiglieri comunali allorché essi siano stati comunque posti nelle condizioni di esercitare adeguatamente e consapevolmente il proprio munus (cfr., nella giurisprudenza di questo Tribunale, le sentenze della Sezione II, 30.07.2015, n. 1319, e 20.12.2016, n. 2535; cfr. anche Cons. Stato, Sez. V, ord. 27.08.2014, n. 3824; TAR Molise, 12.05.2010, n. 207; TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, 23.05.2012, n. 1029.
6. – Ciò posto, il terzo motivo va esaminato prioritariamente, avendo riflessi su tutte le deliberazioni assunte all’adunanza del 30 marzo 2017.
6.1. – Il funzionamento dei consigli comunali è disciplinato dal regolamento nel quadro dei principi stabiliti dallo Statuto (art. 38, d.lgs. 18.08.2000, n. 267); tale regolamento deve prevedere, tra l'altro, le modalità per la convocazione dell'assemblea nonché il numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute; la materia è stata, dunque, delegificata, sicché
spetta ai singoli comuni, dotati di autonomia normativa e funzionale, regolamentare il funzionamento dei propri organi più rappresentativi con l'unico limite del rispetto dei principi statutari nonché ordinamentali e delle norme costituzionali, come anche sancito nel novellato Titolo V della Costituzione (TAR Lazio–Latina, 24.04.2007, n. 296).
L’art. 14 del regolamento relativo all’organizzazione e al funzionamento del Consiglio comunale, in accordo con l’art. 12 dello Statuto, stabilisce che gli avvisi di convocazione debbono essere consegnati ai consiglieri cinque giorni prima per le convocazione in seduta ordinaria.
6.2. – Tale regolamentazione, dettata in autonomia dal Comune di Montepaone, ricalca quella già contenuta nell’art. 125 r.d. 04.02.1915, n. 148, sicché essa può essere interpretata allo stesso modo in cui veniva interpretata quella. In particolare,
si riteneva (e deve quindi ritenersi) che, da una interpretazione letterale e logico-sistematica della disposizione citata, si evince che il periodo di tempo tra convocazione e adunanza non possa comprendere né il giorno della consegna dell'avviso di convocazione né quello della adunanza (Cons. Stato, Sez. I, parere 07.02.2014, n. 461; Cons. Stato, Sez. I, parere 22.01.2010, n. 228).
Infatti,
il termine previsto è costituito da giorni liberi e interi che devono interamente decorrere prima dello svolgimento dell’attività cui sono preordinati, in quanto il consigliere comunale deve essere messo nelle condizioni di svolgere con pienezza di funzioni il proprio ruolo elettivo e quindi ha diritto ad una piena e fattiva partecipazione ad ogni attività del Consiglio Comunale con cognizione di causa.
6.3. – Nel caso di specie, dunque, l’avviso di convocazione è stato recapitato ai consiglieri ricorrenti in ritardo, rispetto a quanto stabilito nel regolamento relativo all’organizzazione e al funzionamento del Consiglio comunale.
Vi è, però, che gli odierni ricorrenti, come risulta dai verbali dedotti in giudizio, hanno potuto partecipare alla seduta del Consiglio comunale, sebbene alcuni di essi ne abbiano abbandonato i lavori.
In ogni caso, essi non hanno specificato se, e in che misura, essi non abbiano avuto modo di approfondire adeguatamente gli argomenti posti all’ordine del giorno.
6.4. – Per tali ragioni, il motivo non può essere accolto.
7. - Può quindi essere scrutinato il primo motivo di ricorso.
7.1. – L’art. 29 del regolamento di contabilità stabilisce che i documenti contabili debbano essere depositati per dieci giorni consecutivi presso l’Ufficio ragioneria; nel medesimo termine, i consiglieri possono proporvi emendamenti, dei quali deve essere data notizia nell’avviso di convocazione.
Dalla lettura della normativa è evidente che l’avviso di convocazione del Consiglio comunale debba seguire allo spirare del termine per la proposizione degli emendamenti, che è di dieci giorni dal deposito dei documenti contabili.
7.2. – Ebbene, l’avviso di deposito degli atti di bilancio è stato dato il giorno 15.03.2017, per cui gli atti avrebbero dovuto rimanere depositati sino al 25.03.2017. L’avviso di convocazione del Consiglio comunale, con la notizia degli emendamenti presentati, avrebbe potuto essere notificato solo in data successiva.
Invece, come si è detto, la convocazione del Consiglio comunale è stata notificata già il 25 marzo, sicché –ancora una volta– vi è una violazione formale delle regole di funzionamento degli organi comunali.
7.3. – Vi è però che i ricorrenti non hanno dedotto di essere stati in concreto privati della possibilità di presentare degli emendamenti al bilancio, sicché non vi è stata alcuna lesione attuale delle loro prerogative.
7.4. – Anche tale motivo di censura non può essere accolto.
8. - Coglie invece nel segno il secondo motivo di censura, relativo al mancato deposito del Piano degli indicatori e dei risultati attesi di bilancio.
8.1. –
L’art. 18-bis d.lgs. 23.06.2011, n. 118, stabilisce che gli enti locali allegano il Piano degli indicatori e dei risultati attesi di bilancio al bilancio di previsione e al bilancio consuntivo.
Il d.m. Interno 22.12.2015, emanato allo scopo di fornire gli schemi unitari per la redazione del piano, specifica che, a partire dall’esercizio 2016 gli enti locali ed i loro enti e organismi strumentali allegano il Piano al bilancio di previsione e al bilancio consuntivo.
8.2. – Dunque, se il piano deve essere allegato al bilancio di previsione e al bilancio consuntivo, ne deve seguire tutto l’iter, dal deposito del progetto sino all’approvazione.
Non si può, al contrario, affermare
–come fa la difesa del Comune di Montepaone– che esso debba essere allegato solo dopo l’approvazione del bilancio cui è accessorio, allo scopo di tener conto di eventuali emendamenti. Al contrario, gli emendamenti al bilancio eventualmente approvati s riverbereranno anche in una modifica del Piano.
8.3. –
Una conferma a tale indicazione è data dal punto 4.2., lett. d), dell’allegato 4/1 al d.lgs. 23.06.2011, n. 118, recante il principio contabile applicato concernente la programmazione di bilancio.
In tale allegato, infatti, si legge che il piano degli indicatori di bilancio, presentato al Consiglio unitamente al bilancio di previsione e al rendiconto, rappresenta uno strumento della programmazione degli Enti locali.
8.4. – D’altro canto, se il piano degli indicatori è uno strumento per rendere comparabili, agli occhi della generalità dei consociati, i bilanci degli Enti locali, mercé la sua pubblicazione sul sito Internet istituzionale dell’Ente, a maggior ragione tale strumento deve essere messo a disposizione dei consiglieri comunali, chiamati dare o negare approvazione al bilancio reso comparabile del piano degli indicatori.
8.5. – Ne deriva che, alla luce dell’art. 29 del regolamento di contabilità, il Piano di cui si discute avrebbe dovuto essere depositato insieme al progetto di bilancio preventivo.
In mancanza, la delibera (e solo essa) di approvazione del bilancio di previsione per gli anni 2017-2019 deve essere annullata.
9. – Il ricorso deve essere accolto, dunque, nei limiti di cui in motivazione.

ATTI AMMINISTRATIVI: L'illeggibilità della sottoscrizione della procura alle liti e la mancata indicazione del nome del Sindaco che l'ha conferita non rendono nulla la procura e inammissibile l'atto, giacché l'identità della persona che riveste pro tempore la qualità di Sindaco di un determinato Comune è un dato di pubblico dominio, spettando alla controparte l'onere di contestare specificamente che la firma di mandato provenga dal Sindaco in carica.
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... quanto a b), l'illeggibilità della sottoscrizione della procura alle liti e la mancata indicazione del nome del Sindaco che l'ha conferita non rendono nulla la procura e inammissibile l'atto, giacché l'identità della persona che riveste pro tempore la qualità di Sindaco di un determinato Comune è un dato di pubblico dominio, spettando alla controparte l'onere di contestare specificamente che la firma di mandato provenga dal Sindaco in carica (Cass. 03.05.2004, n. 8320, Rv. 572529; Cass. 17.07.02014, n. 16366, Rv. 632130) (Corte di Cassazione, Sez. V civile, ordinanza 19.07.2017 n. 17843).

APPALTI SERVIZI: Sulla natura ordinaria e non eccezionale dell'affidamento in house.
Stante l'abrogazione referendaria dell'art. 23-bis d.l. n. 112/2008 e la declaratoria di incostituzionalità dell'art. 4 d.l. n. 238/2011 "[…] è venuto meno il principio, con tali disposizioni perseguito, della eccezionalità del modello in house per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica"; ancora, con l'art. 34 del d.l. 18.10.2012, n. 197, sono venute meno le ulteriori limitazioni all'affidamento in house, contenute nell'art. 4, comma 8 del predetto d.l. n. 238 del 2011.
Più di recente, la giurisprudenza ha non solo ribadito la natura ordinaria e non eccezionale dell'affidamento in house, ricorrendone i presupposti, ma ha pure rilevato come la relativa decisione dell'amministrazione, ove motivata, sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salva l'ipotesi di macroscopico travisamento dei fatti o di illogicità manifesta; motivazione che, nel caso di specie, è stata fornita anche a mezzo della citata relazione allegata alla deliberazione consiliare n. 61 del 2012.
A ciò aggiungasi la chiara dizione del quinto Considerando della direttiva 2014/24/UE, laddove si ricorda che "nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva".
Nel caso di affidamento in house, conseguente all'istituzione da parte di più enti locali di una società di capitali da essi interamente partecipata […] il requisito del controllo analogo deve essere verificato secondo un criterio sintetico e non atomistico, sicché è sufficiente che il controllo della mano pubblica sull'ente affidatario, purché effettivo e reale, sia esercitato dagli enti partecipanti nella loro totalità, senza che necessiti una verifica della posizione di ogni singolo ente .
L'art. 202, c. 6, del Dlgs. 152/2006, prevede che vi sia un passaggio diretto e immediato al nuovo gestore del servizio integrato dei rifiuti del personale impiegato a una certa data presso il gestore uscente. La norma si applica espressamente anche nel caso in cui il gestore uscente sia un'impresa privata.
Nel caso di specie, non sussiste la presunta violazione del cit. art. 202 del d.lgs. n. 152/2006, in ordine all'obbligatorio passaggio del personale dal precedente gestore al nuovo, infatti, non si è in presenza di una società terza che subentra ad un'altra (di analoga natura) nell'esecuzione di un contratto, bensì nella riassunzione, da parte della stazione appaltante, della diretta gestione di determinati servizi, sia pure per il tramite di una società operativa.
In ogni caso "la c.d. clausola sociale […] non comporta invece alcun obbligo per l'impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria. Pertanto, non sussistono i presupposti fondanti il predetto subentro" (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 18.07.2017 n. 3554 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa motivazione di un atto amministrativo deve essere tale da consentire di ricostruirne il percorso logico che ha condotto ad emanarlo.
Ciò è di importanza ancora maggiore nei casi come il presente, in cui si controverte di un atto di diniego, perché è solo in base alla motivazione di esso che il privato destinatario può capire eventualmente quali modifiche apportare alla propria domanda, per ottenere in un secondo tempo un risultato comunque a lui favorevole.
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2. Il primo motivo è fondato e va accolto.
E’ principio pacifico, e come tale non richiede puntuali citazioni di giurisprudenza, che la motivazione di un atto amministrativo deve essere tale da consentire di ricostruirne il percorso logico che ha condotto ad emanarlo.
Ciò è di importanza ancora maggiore nei casi come il presente, in cui si controverte di un atto di diniego, perché è solo in base alla motivazione di esso che il privato destinatario può capire eventualmente quali modifiche apportare alla propria domanda, per ottenere in un secondo tempo un risultato comunque a lui favorevole.
Nel caso di specie, la motivazione del diniego, così come riportata in premesse, non soddisfa questi requisiti.
E’ di tutta evidenza infatti che la seconda parte di essa, in cui l’ufficio esprime il timore che l’intervento possa essere replicato sui piani superiori dell’edificio, non è pertinente, perché anche secondo la comune logica consentire una data trasformazione di una parte di un edificio nulla dice sulla possibilità di consentirla o negarla per altre parti di esso.
La prima parte della motivazione stessa è poi generica, perché a rigore qualsiasi intervento modifica l’integrità dell’esistente: occorre spiegare per quali concrete caratteristiche esso si risolve in un peggioramento e non in un miglioramento della qualità architettonica (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.07.2017 n. 3529 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAAllorché nelle more del giudizio di impugnazione di una prescrizione urbanistica intervenga altro strumento, completamente sostitutivo del precedente, più nessun interesse a discutere sul precedente strumento urbanistico può residuare, e ciò anche quando il nuovo abbia riprodotto la prescrizione impugnata, palesandosi altrimenti un'eventuale pronuncia sul primo atto "inutiliter data".
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Come dato atto dalle parti, il ricorso è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse in conseguenza dell’espropriazione di una parte dell’area di proprietà del ricorrente e dell’approvazione della variante generale al piano di governo del territorio, con deliberazione del Consiglio Comunale n. 20 del 28.03.2014.
Invero, allorché nelle more del giudizio di impugnazione di una prescrizione urbanistica intervenga altro strumento, completamente sostitutivo del precedente, più nessun interesse a discutere sul precedente strumento urbanistico può residuare, e ciò anche quando il nuovo abbia riprodotto la prescrizione impugnata, palesandosi altrimenti un'eventuale pronuncia sul primo atto "inutiliter data" (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 03.06.2010, n. 3538; TAR Milano Lombardia, sez. II, 21.07.2004, n. 3160) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 17.07.2017 n. 1625 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ordine di demolizione dell'opera abusiva - Efficacia anche nei confronti dell'erede o dante causa del condannato - Natura di sanzione amministrativa di carattere reale a contenuto ripristinatorio - Giurisprudenza - Art. 31 D.P.R. n. 380/2001.
L'ordine di demolizione dell'opera abusiva, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere reale a contenuto ripristinatorio, conserva la sua efficacia anche nei confronti dell'erede o dante causa del condannato o di chiunque vanti su di esso un diritto reale o personale di godimento, potendo essere revocato solo nel caso in cui siano emanati, dall'ente pubblico cui è affidato il governo del territorio, provvedimenti amministrativi con esso assolutamente incompatibili (Sez. 3, n. 42699 del 07/07/2015, Curcio); (sulla natura di sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio, priva di finalità punitive e con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col bene, indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore dell'abuso, Cass. Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, Delorier) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.07.2017 n. 34550 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Va qualificata come attività edilizia libera la realizzazione di una "fitta staccionata in pali di legno di castagno, di lunghezza ml 19,50 circa, d'altezza media m. 1,50 circa con sovrastante passamano in pali in legno di castagno, d'altezza m. 1,10 circa".
L’intervento edilizio contestato è costituito dalla realizzazione di una "fitta staccionata in pali di legno di castagno, di lunghezza ml 19,50 circa, d'altezza media m. 1,50 circa con sovrastante passamano in pali in legno di castagno, d'altezza m. 1,10 circa".
Dalla relazione del tecnico comunale traspare in modo evidente l'urgente necessità di tale opera, allorché si legge che essa "insiste in una scarpata naturale" ed è "a contenimento di terreno vegetale del retrostante terrapieno di una piccola area del fondo agricolo coperta da vegetazione spontanea ad inclinazione notevole".
È evidente, pertanto, che l’intervento in questione non può essere qualificato come intervento di nuova costruzione, non rientrando in nessuna delle definizioni di cui all’art. 3, comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 380/2001; né può essere qualificato come un intervento di cd. “ristrutturazione pesante” di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), non potendo essere qualificato come un intervento rivolto “a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”.
Tale intervento, piuttosto, va qualificato come un intervento di pratica agro-silvo-pastorale, di cui all’art. 6, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001: la staccionata, oltre a non comportare una trasformazione irreversibile del territorio, è palesemente funzionale al contenimento del terreno. Dunque, va qualificata come un’attività edilizia libera ai sensi dell’art. 6, comma 1 (allora vigente) del d.P.R. n. 380/2001.
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FATTO
Con ricorso iscritto al n. 5571 dell’anno 2016, la parte ricorrente impugnava i provvedimenti indicati in epigrafe. A sostegno delle sue doglianze, premetteva:
   - di essere proprietario di un compendio immobiliare ubicato in località Santa Maria della Neve del Comune di Massa Lubrense, frazione Sant'Agata sui Due Golfi, censito al Foglio della planimetria catastale del medesimo Comune, particelle n. 1479, n. 1213 ed altre (particelle 404, 406, 403 e 402), a queste ultime limitrofe, e che si estendono a quota ancora più bassa, degradando a terrazzamenti verso il golfo di Salerno;
   - che sulla prima delle due particelle —ubicata nella parte di monte– sorge l'unità immobiliare con l'abitazione del proprietario, mentre tutte le rimanenti sono destinate a fondo agricolo. Essa si sviluppa a valle della via dei Campi, dalla quale, in corrispondenza del civico n. 49, parte la stradina privata che -correndo in ripida discesa pressappoco ortogonalmente alle curve di livello– la delimita su due lati e dà accesso, oltre che alla stessa, a diversi altri fondi situati sullo stesso versante;
   - che, ad eccezione della zona più prossima all'abitazione, in particolare occupata dal giardino, e, quindi, costantemente manutenuta, il fondo agricolo -una volta gestito da un colono- era rimasto da molti anni praticamente abbandonato, divenendo col tempo praticamente inaccessibile a causa della gran quantità di vegetazione cresciuta spontaneamente fino a ricoprire completamente le scalette di pietra e le rampe di terreno che collegano a più livelli i diversi terrazzamenti;
   - di aver pertanto deciso di provvedere alla pulizia del terreno, dandone comunicazione al Sindaco di Massa Lubrense con nota 18.07.2014 acquisita in pari data al protocollo comunale;
   - che, durante l'esecuzione di tale intervento di pulizia del terreno, con rimozione di arbusti, rovi, erbacce e potatura di alberi, veniva alla luce che una parte di terreno notevolmente acclive, posta immediatamente a monte del rivolo che funge da confine con una proprietà aliena, era interessata da uno smottamento, probabilmente causato, oltre che dal cedimento del muretto di pietrame posto al piede della scarpata, dalla perdita di coerenza del terreno medesimo non più trattenuto dalle radici delle piante selvatiche rimosse: e pertanto si rendeva oltremodo necessario provvedere urgentemente ad arrestare il fenomeno, per evitare che la frana invadesse il rivolo e si estendesse oltre il confine;
   - che tale intervento -così come rilevato e descritto dal Tecnico Comunale nella relazione del 17/11/2015 prot. 25028, redatta all'esito dell'accertamento in loco eseguito il 16/11/2016- è costituito dalla realizzazione di una "fitta staccionata in pali di legno di castagno, di lunghezza ml 19,50 circa, d'altezza media m.1,50 circa con sovrastante passamano in pali in legno di castagno, d'altezza m. 1,10 circa". Da tale Relazione traspare in modo evidente la urgente necessità di tale opera, allorché si legge che essa "insiste in una scarpata naturale" ed è "a contenimento di terreno vegetale del retrostante terrapieno di una piccola area del fondo agricolo coperta da vegetazione spontanea ad inclinazione notevole";
   - che, pertanto, si tratta –con tutta evidenza– di attività puramente manutentiva;
   - che, ciò nonostante, il Comune di Massa Lubrense ha dapprima ordinato la sospensione dei lavori con ordinanza emessa in data 12/01/2016, allorquando tuttavia l'attività manutentiva risultata già effettuata (come risulta dalla stessa relazione del tecnico comunale del 17/11/2015), e per di più notificata solo in data 08.06.2016 (a distanza di sei mesi, allorquando l'ordine di sospensione aveva perduto di efficacia e comunque non aveva più alcuna ragione la sua stessa notificazione);
   - di aver ribadito la natura delle opere effettuate; che, tuttavia, il Comune adottava gli atti impugnati.
Instava quindi per l’annullamento degli atti impugnati con vittoria di spese processuali.
L’Amministrazione non si costituiva.
All’udienza camerale del 07.02.2017, con ordinanza n. 201/2017, veniva fissata l’udienza di merito ai sensi dell’art. 55, comma 10, c.p.a..
All’udienza del 27.06.2017, il ricorso è stato assunto in decisione.
DIRITTO
La parte ricorrente impugnava i provvedimenti in epigrafe per i seguenti motivi:
   1) il provvedimento impugnato è illegittimo perché esso qualifica l'intervento eseguito dal ricorrente, e costituito da una staccionata in legno a contenimento di una scarpata naturale, come opera soggetta al regime edilizio del permesso di costruire, senza null'altro aggiungere in proposito ed in palese contrasto con le risultanze delle operazioni di accertamento eseguite in loco dal Tecnico Comunale in data 16/11/2015, e riportate nella relazione del 17/11/2015, come già precisato in punto di fatto e nella perizia tecnica a firma dell'Ing. Di.Ad., ed in modo ancor più illegittimo ne dispone la rimozione;
   2) violazione dell’art. 7 l. n. 241/1990, attesa l’omessa comunicazione di avvio del procedimento;
   3) eccesso di potere per difetto di istruttoria, atteso che l’Amministrazione ha utilizzato un modulo prestampato senza alcun effettivo accertamento dello stato dei luoghi.
Il ricorso è fondato e va accolto per i motivi di seguito precisati.
Risultano infatti fondate la prima e la terza censura.
Come si evince dalla relazione del Tecnico Comunale del 17/11/2015 prot. 25028, redatta all'esito dell'accertamento in loco eseguito il 16/11/2016, l’intervento edilizio contestato è costituito dalla realizzazione di una "fitta staccionata in pali di legno di castagno, di lunghezza ml 19,50 circa, d'altezza media m. 1,50 circa con sovrastante passamano in pali in legno di castagno, d'altezza m. 1,10 circa". Da tale Relazione traspare in modo evidente la urgente necessità di tale opera, allorché si legge che essa "insiste in una scarpata naturale" ed è "a contenimento di terreno vegetale del retrostante terrapieno di una piccola area del fondo agricolo coperta da vegetazione spontanea ad inclinazione notevole".
È evidente, pertanto, che l’intervento in questione non può essere qualificato come intervento di nuova costruzione, non rientrando in nessuna delle definizioni di cui all’art. 3, comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 380/2001; né può essere qualificato come un intervento di cd. “ristrutturazione pesante” di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), non potendo essere qualificato come un intervento rivolto “a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”.
Tale intervento, piuttosto, va qualificato come un intervento di pratica agro-silvo-pastorale, di cui all’art. 6, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001: la staccionata, oltre a non comportare una trasformazione irreversibile del territorio, è palesemente funzionale al contenimento del terreno. Dunque, va qualificata come un’attività edilizia libera ai sensi dell’art. 6, comma 1 (allora vigente) del d.P.R. n. 380/2001.
Appare fondata anche la terza censura. Nell’ordinanza di demolizione, infatti, non è riportata neanche la descrizione dell’abuso contestato; ciò che rende verosimile la sussistenza del vizio di eccesso di potere per difetto di istruttoria.
D’altronde, l’intervento contestato è molto diverso dagli abusi edilizi per i quali è prevista la sanzione della demolizione; ed anche tale assunto rende ragionevole la sussistenza del censurato difetto di istruttoria (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 13.07.2017 n. 3749 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: La Corte di giustizia UE si pronuncia su responsabilità solidale tra autore dell’illecito, e proprietario dei terreni in caso di inquinamento.
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Ambiente – Inquinamento – Responsabilità – Proprietario dei fondi – Ammissibilità- Condizioni.
Ambiente – Inquinamento – Sanzioni – Proprietario dei fondi – Condizioni.
Le disposizioni della direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, lette alla luce degli articoli 191 e 193 TFUE devono essere interpretate nel senso che, sempre che la controversia di cui al procedimento principale rientri nel campo di applicazione della direttiva 2004/35, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare, esse non ostano a una normativa nazionale che identifica, oltre agli utilizzatori dei fondi su cui è stato generato l’inquinamento illecito, un’altra categoria di persone solidamente responsabili di un tale danno ambientale, ossia i proprietari di detti fondi, senza che occorra accertare l’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta dei proprietari e il danno constatato, a condizione che tale normativa sia conforme ai principi generali di diritto dell’Unione, nonché ad ogni disposizione pertinente dei Trattati UE e FUE e degli atti di diritto derivato dell’Unione. (1)
L’articolo 16 della direttiva 2004/35 e l’articolo 193 TFUE devono essere interpretati nel senso che, sempre che la controversia di cui al procedimento principale rientri nel campo di applicazione della direttiva 2004/35, essi non ostano a una normativa nazionale, come quella controversa nel procedimento principale, ai sensi della quale non solo i proprietari di fondi sui quali è stato generato un inquinamento illecito rispondono in solido, con gli utilizzatori di tali fondi, di tale danno ambientale, ma nei loro confronti può anche essere inflitta un’ammenda dall’autorità nazionale competente, purché una normativa siffatta sia idonea a contribuire alla realizzazione dell’obiettivo di protezione rafforzata e le modalità di determinazione dell’ammenda non eccedano la misura necessaria per raggiungere tale obiettivo, circostanza che spetta al giudice nazionale verificare. (2)
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(1-2) I.- Con la sentenza in epigrafe, la Corte del Lussemburgo ritorna sul delicato tema dell’estensione della responsabilità da inquinamento nei confronti dei proprietari dei fondi interessati. Nella difficile opera di coordinamento fra i diversi ordinamenti nazionali e quello europeo, la Corte tenta una complicata opera di mediazione, partendo dalla disciplina europea e dai relativi principi. Nel caso de quo pare legittimare una disciplina nazionale (quella ungherese) che presenta aspetti di notevole divergenza da quella italiana (ormai consolidatasi nel senso della mancanza di responsabilità in capo al proprietario incolpevole).
In particolare, la fattispecie rimessa alla Corte origina dall’impugnativa proposta da una impresa avverso un’ammenda inflitta a seguito dell’incenerimento illegale di rifiuti, avvenuto su un terreno di proprietà della stessa impresa, che aveva causato un inquinamento dell’aria.
In sede contenziosa il giudice ungherese, dubitando della conformità alla disciplina sovranazionale dell’ordinamento nazionale che estende la sanzione al proprietario del terreno interessato, ha rimesso la relativa questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del Trattato.
II.- La decisione della Corte europea, riassunta nelle due massime di cui in epigrafe, prende le mosse dalla ricostruzione della disciplina europea e di quella statale interessata.
In via preliminare la Corte:
   a) inquadra i principi del trattato evidenziando come, da un lato, l’articolo 191 -secondo cui la politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela e si basa sul principio «chi inquina paga»- si limita a definire gli obiettivi generali dell’Unione in materia ambientale; dall’altro lato l’articolo 192 che affida al Parlamento europeo e al Consiglio, quindi secondo la procedura legislativa ordinaria, il compito di decidere le azioni da intraprendere per raggiungere detti obiettivi; alla stregua di tale inquadramento, pertanto, esclude che il principio “chi inquina paga” possa ex se giustificare l’inapplicabilità della disciplina nazionale che punisce il proprietario incolpevole;
   b) formula un’ulteriore importante precisazione per delimitare l’operatività delle regole europee: l’inquinamento dell’aria non costituisce di per sé un danno ambientale contemplato dalla direttiva 2004/35, salvo che la lesione all’ambiente includa altresì il danno cagionato da elementi aerodispersi (nella misura in cui possono causare danni all’acqua, al terreno o alle specie e agli habitat naturali protetti, costituenti oggetto diretto della disciplina invocata).
Sulla scorta di tali precisazioni preliminari, la Corte precisa che il regime di responsabilità ambientale previsto dalla direttiva richiede che sia accertato dall’autorità competente un nesso causale tra l’azione di uno o più operatori individuabili e il danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno. In definitiva, il regime di responsabilità istituito dalla direttiva 2004/35 si fonda sul principio di precauzione e sul principio «chi inquina paga»; a questo fine, tale direttiva impone agli operatori obblighi sia di prevenzione sia di riparazione.
Secondo la Corte, le regole europee prevedono la facoltà per gli Stati membri di mantenere o adottare disposizioni più severe in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, compresa l’individuazione di altre attività da assoggettare ai precitati obblighi di prevenzione e di riparazione nonché l’individuazione di altri soggetti responsabili.
È in tale ottica che –nei termini riassunti nella prima massima- viene quindi scrutinata la più severa disciplina nazionale ungherese la quale, secondo la Corte, senza compromettere il principio della responsabilità ricadente in primo luogo sull’utilizzatore, ha la finalità di evitare una carenza di diligenza da parte del proprietario e di incoraggiare lo stesso ad adottare misure e a sviluppare pratiche idonee a minimizzare i rischi di danni ambientali; in tal modo essa contribuisce a prevenire il danno ambientale e conseguentemente a realizzare gli obiettivi della direttiva stessa.
Analoghe considerazioni sono svolte dalla Corte in merito alla sanzione amministrativa, nei termini riassunti nella seconda massima. In particolare, secondo la sentenza un’ammenda amministrativa inflitta al proprietario di un fondo a causa di un inquinamento illecito da lui non impedito e di cui non indica l’autore, può rientrare nel regime di responsabilità, purché la normativa che prevede un’ammenda simile, in conformità al principio di proporzionalità, sia idonea a contribuire alla realizzazione dell’obiettivo di protezione rafforzata perseguito dalla normativa che istituisce la responsabilità solidale, e le modalità di determinazione dell’ammenda non eccedano la misura necessaria per raggiungere tale obiettivo.
III.- Per completezza si segnala:
   c) per la più recente dottrina in materia di danno e ripristino ambientale alla luce dei principi europei, v. LEONARDI, La responsabilità in tema di bonifica dei siti inquinati: dal criterio soggettivo del “chi inquina paga” al criterio oggettivo del “chi è proprietario paga”? in Foro amm., 2015, 1; GRASSI, Bonifica ambientale di siti contaminati, in Diritto dell'ambiente, a cura di G. Rossi, Torino, 2015, 424 ss.; FERRARA - SANDULLI, in Trattato di diritto dell'ambiente, Milano, 2014; R. INVERNIZZI, Inquinamenti risalenti, ordini di bonifica e principio di legalità CEDU: tutto per l'“ambiente”, in Urbanistica e appalti, 2014, 8-9; AMOROSO, Nuovi rilievi sull'attività volta all'accertamento della responsabilità dell'inquinamento del sito, in Riv. giur. amb., 2006, 6; DE LEONARDIS, Il principio di precauzione nell'amministrazione del rischio, Milano, 2005; GOISIS, La natura dell'ordine di bonifica e ripristino ambientale ex art. 17 d.lgs. n. 22 del 1997: la sua retroattività e la posizione del proprietario non responsabile della contaminazione, in Foro amm. - C.d.S., 2004, n. 2; R. LOMBARDI, Il problema dell'individuazione dei soggetti coinvolti nell'attività di bonifica dei siti contaminati, in P.M. VIPIANA PERPETUA (a cura di), La bonifica dei siti inquinati: aspetti problematici, Padova, 2002, 111 ss.;
   d) sul principio “chi inquina paga”, cfr. Corte giustizia UE, sez. III, 04.03.2015, n. 534, in Foro it., 2015, IV, 293; Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario 2015, 3-4, 946, con nota di ANTONIOLI; Urbanistica e appalti, 2015, 635, con nota di CARRERA, secondo cui “La direttiva 2004/35/Ce del parlamento europeo e del consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi”;
   e) sulla natura e consistenza del danno ambientale cfr. Corte cost., 01.06.2016, n. 126 in Foro it. 2016, 11, I, 3409, (oggetto della News US 06.06.2016 ai cui riferimenti si rinvia), secondo cui “E’ infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 311, comma 1, d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 9, 24 e 32 Cost., nonché al principio di ragionevolezza, dal Tribunale ordinario di Lanusei”;
   f) sul riparto di responsabilità da inquinamento nell’ordinamento italiano cfr. Cons. Stato, Ad. plen., ordinanza 25.09.2013 n. 21 in Giornale dir. amm., 2014, 365 con nota di SABATO, e 13.11.2013 n. 25, in Corriere giur., 2013, 514, con nota di CARBONE; Giornale dir. amm., 2013, 729, con nota di BASSI; Urbanistica e appalti, 2013, 696, con nota di BECCARIA; Giur. it., 2014, 947 con nota di VIPIANA;
   g) per la applicazione concreta dei principi elaborati dalle decisioni della Corte di giustizia e dall’Adunanza plenaria, in relazione ai principi generali del diritto ambientale europeo (“chi inquina paga” e del “precauzione”), cfr. Cons. Stato, sez. V, 25.02.2015, n. 933 e 27.12.2013, n. 6250; da ultimo, sez. V, 08.03.2017, n. 1089 secondo cui “Ai sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2, d.lgs. 03.04.2006, n. 152, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla Pubblica amministrazione solamente ai soggetti responsabili dell'inquinamento, e cioè quelli che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità, non essendo configurabile una responsabilità di mera posizione del proprietario del sito inquinato; d'altra parte se è vero, per un verso, che l'Amministrazione non può imporre, ai privati che non abbiano alcuna responsabilità diretta sull'origine del fenomeno contestato, lo svolgimento di attività di recupero e di risanamento, secondo il principio cui si ispira anche la normativa comunitaria -la quale impone al soggetto, che fa correre un rischio di inquinamento, di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione- per altro verso la messa in sicurezza del sito costituisce una misura di prevenzione dei danni e rientra, pertanto, nel genus delle precauzioni, unitamente al principio di precauzione vero e proprio e al principio dell'azione preventiva, che gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone affatto l'accertamento del dolo o della colpa”;
   h) in sede legislativa, il recente decreto legislativo 16.06.2017, n. 104 recante attuazione della direttiva 2014/52/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16.04.2014, che modifica la direttiva 2011/92/UE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, ai sensi degli articoli 1 e 14 della legge 09.07.2015, n. 114;
   i) sul riparto di competenze legislative in materia di tutela dell’ambiente cfr. da ultimo l’ordinanza del Tar per la Calabria-Catanzaro 07.10.2016 n. 1943 (oggetto della News US in data 12.10.2016), secondo cui “Non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della Legge Regionale n. 8/2016 con riferimento all’art. 117, co. 2, lett. s), Costituzione in quanto tale norma –che ha sospeso, nelle more dell’approvazione del nuovo piano regionale di gestione dei rifiuti, i procedimenti in corso per il rilascio delle valutazioni di impatto ambientale e delle autorizzazioni integrate ambientali per la realizzazione e gestione di nuovi impianti di smaltimento o recupero rifiuti sul o nel suolo- si pone in diretta violazione della disciplina nazionale, con cui il legislatore statale ha esercitato la propria competenza esclusiva; con gli artt. 11, comma 5, 13, commi 1 e 3, e 208 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) che stabiliscono termini certi per l’istruttoria e la definizione dei procedimenti autorizzatori, nonché con gli artt. 11, 19, 25 26, 29-bis, 29-ter, 29-quater del medesimo Decreto Legislativo n. 152 nei quali si prevedono termini endoprocedimentali e di definizione del procedimento certi, dettati dal legislatore statale nell’esercizio del monopolio normativo che gli è riconosciuto”; Corte cost. 12.12.2012, n. 278, in Foro it., 2013, I, 412 (cui si rinvia per ogni ulteriore riferimento); Diritto e giurisprudenza agraria, 2013, 2, 92 con nota di GORLANI, secondo cui “l'attribuzione esclusiva dello Stato in materia di ambiente ed ecosistema, di cui all'art. 117, comma 2, lett. s), cost., si riferisce all'"ambiente" in termini generali ed onnicomprensivi e premesso altresì che, in caso di sovrapposizione ad altri ambiti competenziali, la legislazione statale prevale rispetto a quella dettata dalle regioni o dalle province autonome, in materie di competenza propria, in considerazione della disciplina unitaria e complessiva del bene ambiente, che inerisce ad un interesse pubblico di valore costituzionale primario ed assoluto, configurandosi, quindi, la normativa statale come limite alla discrezionalità legislativa che le regioni e le province autonome hanno nelle materie di loro competenza”;
   j) Corte cost., 17.03.2015, n. 38, in Foro it. 2015, I, 1889 (cui si rinvia per ogni ulteriore approfondimento di dottrina e giurisprudenza), secondo cui:
I) È incostituzionale l’art. 65 l.reg. Veneto 02.04.2014 n. 11, nella parte in cui prevede che la giunta regionale, con apposite linee guida, escluda determinati interventi a tutela della rete ecologica regionale «Natura 2000» dalla valutazione di incidenza ambientale (Vinca)”;
II) “È infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19 l.reg. Veneto 02.04.2014 n. 11, nella parte in cui autorizza la giunta regionale a prevedere, nel rapporto con gli appaltatori, la compensazione dell’onere per la realizzazione dei lavori di manutenzione dei corsi d’acqua con il valore del materiale litoide estratto riutilizzabile, in riferimento all’art. 117, 2º comma, lett. s), cost.”;
III) “È infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 56, 1º e 4º comma, l.reg. Veneto 02.04.2014 n. 11, nella parte in cui consente la combustione controllata di materiali agricoli e vegetali sul luogo di produzione, effettuata secondo le normali pratiche e consuetudini, escludendo che essa costituisca attività di gestione dei rifiuti o di combustione illecita, in riferimento all’art. 117, 1º e 2º comma, lett. s), cost.” (Corte di giustizia dell’Unione europea, Sez. II, sentenza 13.07.2017 - C-129/16 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La dichiarazione di inizio attività (segnalazione certificata di inizio attività) costituisce un atto soggettivamente e oggettivamente privato con cui l'interessato esercita la sua legittimazione ex lege all'esercizio di attività liberalizzate.
Tale strumento di semplificazione dei rapporti tra cittadino e PP.AA. può essere utilizzato anche ai fini del mutamento di destinazione d’uso degli immobili, ove ricorrano talune condizioni: “il mutamento di destinazione d'uso è assoggettato solo a Dia (ora Scia), purché però intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica.
Di recente, anche il Consiglio di Stato ha affermato che “Se è vero che un mutamento di destinazione d’uso è sempre consentito, a condizione che, prima e dopo il mutamento, si rimanga all’interno della stessa categoria funzionale, ulteriormente coordinando sul piano ermeneutico la portata dei segmenti dispositivi degli artt. 22 e 23-ter D.P.R. n. 380/2001 (T.U. Edilizia) si giunge alla conclusione che, purché si rimanga nella stessa categoria funzionale, è possibile il cambio di destinazione d’uso attraverso una SCIA”.

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... per l'annullamento della nota prot. 22195 del 09.08.2016 con la quale è stata comunicata l'inefficacia della SCIA inerente il cambio di destinazione d'uso da “artigianale” a “commerciale”, senza esecuzione di opere, dell'immobile sito a Scicli in C.da C..., da destinare a MSV (Media Struttura di Vendita) assieme al contiguo locale commerciale;
...
Il ricorrente Lo.An. espone di aver presentato in data 03.05.2016 al Comune di Scicli una segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) con la quale segnalava l’avvio del cambio di destinazione d’uso -da “artigianale” a “commerciale”- senza realizzazione di opere, di un immobile sito in Scicli, C.da ..., da destinare a Media Struttura di Vendita.
Dopo il completamento dei lavori, con nota del 09.08.2016 (comunicata all’interessato il successivo giorno 16 agosto), lo Sportello unico per le attività produttive del Comune di Scicli ha rilevato che l’intervento proposto non sarebbe ammissibile dal punto di vista della conformità urbanistica, in quanto la destinazione d’uso “commerciale” richiesta confligge con la condizione riportata nella concessione edilizia in sanatoria n. 79/S022182 N del 21/06/2002 rilasciata per l’immobile in questione, che imponeva il mantenimento della destinazione d’uso specificata nel progetto allegato.
In conclusione, l’amministrazione comunale ha ritenuto che la SCIA non abbia prodotto effetti abilitativi e che la destinazione dell’immobile è da intendersi “artigianale”.
...
Il Collegio ritiene di dover confermare la valutazione di fondatezza del ricorso già resa, sulla scorta di un primo esame, nella fase cautelare del giudizio.
In particolare, risulta in via documentale che la nota adottata dal SUAP del Comune di Scicli in data 09.08.2016 -della cui natura provvedimentale deve peraltro dubitarsi, alla luce del fatto che essa contiene l’invito rivolto al destinatario a presentare osservazioni/controdeduzioni, e fissa altresì un termine di conclusione del procedimento decorrente dalla data di notifica della nota stessa; anche se poi, contraddittoriamente, dichiara impugnabile il “provvedimento” innanzi al Tar- sia intervenuta oltre 90 giorni dalla presentazione della SCIA effettuata dal ricorrente.
Risulta, quindi, violato il termine di trenta giorni –quale emerge dal combinato disposto dei commi 3 e 6-bis dell’art. 19 della L. 241/1990 (cd. SCIA in materia edilizia)- entro il quale l’amministrazione può “in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti di cui al comma 1, (…), adotta[re] motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa” (art. 19, co. 3, cit.).
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che “La dichiarazione di inizio attività (segnalazione certificata di inizio attività) costituisce un atto soggettivamente e oggettivamente privato con cui l'interessato esercita la sua legittimazione ex lege all'esercizio di attività liberalizzate” (Cons. Stato, A.P. n. 15/2011). Tale strumento di semplificazione dei rapporti tra cittadino e PP.AA. può essere utilizzato anche ai fini del mutamento di destinazione d’uso degli immobili, ove ricorrano talune condizioni: “il mutamento di destinazione d'uso è assoggettato solo a Dia (ora Scia), purché però intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica” (ex multis, Cass. Pen., III, 26455/2016, Id. 31465/2014).
Di recente, anche il Consiglio di Stato ha affermato che “Se è vero che un mutamento di destinazione d’uso è sempre consentito, a condizione che, prima e dopo il mutamento, si rimanga all’interno della stessa categoria funzionale, ulteriormente coordinando sul piano ermeneutico la portata dei segmenti dispositivi degli artt. 22 e 23-ter D.P.R. n. 380/2001 (T.U. Edilizia) si giunge alla conclusione che, purché si rimanga nella stessa categoria funzionale, è possibile il cambio di destinazione d’uso attraverso una SCIA” (Cons. Stato, VI, 2295/2017).
In conclusione, assorbite le ulteriori censure dedotte, il ricorso va accolto in ragione del ritardo con il quale l’amministrazione comunale è intervenuta per modificare gli effetti prodotti dalla SCIA. Rimane comunque salva, come già indicato nell’ordinanza cautelare, la facoltà per l’amministrazione di esercitare i poteri di vigilanza e di autotutela previsti nell’art. 19, commi 4 e 6-bis, della L. 241/1990 (TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 12.07.2017 n. 1773 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'installazione di tende parasole sul terrazzo pertinenziale non comporta la realizzazione di un volume urbanistico e, pertanto, non rientra nell'alveo applicativo del permesso di costruire.
Sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli interventi di nuova costruzione, categoria nella quale rientrano quelli che realizzano una trasformazione edilizia e urbanistica del territorio. Una struttura in alluminio anodizzato destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico non integra tali caratteristiche.
In particolare, in tali casi l'opera principale non è la struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità abitativa. E considerata in tale contesto, la struttura in alluminio anodizzato si qualifica in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda.
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Con ricorso notificato in data 04.04.2016 e ritualmente depositato il 26 aprile successivo, la Sig.ra An.Sc. impugna l'ordinanza dirigenziale n. 30 del 04.02.2016, notificata il 05.02.2016, con la quale il dirigente del settore Pianificazione e Uso del Territorio le ha ingiunto la rimozione della tenda parasole installata sul terrazzo pertinenziale dell'unità immobiliare sita in via ... n. 2/C nel termine di giorni 90 perché non conforme alla delibera condominiale presentata ai fini del rilascio di permesso di costruire per la installazione di tende aggettanti sulla facciata del fabbricato.
...
Il ricorso è fondato.
Dagli atti di causa risulta che l’intervento in oggetto consiste nell’installazione di tende parasole sia sul lato nord/est del fabbricato che su quello ovest dello stesso, ed in particolare quella posizionato sul primo di detti lati “avrà dimensioni di ml. 10,00 per 4,40, inoltre sarà del tipo “a cappotto”…motorizzata di colore a strisce gialle e avorio, inoltre la struttura sarà costituita da una struttura in alluminio anodizzato di color avorio, mentre le tende posizionate sul lato ovest del fabbricato sono del tipo a caduta sempre di colore a strisce gialle e avorio, saranno sempre dotate di un sistema motorizzato ed avranno una lunghezza lineare di m 9,00”.
Tale intervento, come dedotto con l’assorbente primo motivo di ricorso, non comporta la realizzazione di un volume urbanistico e pertanto non rientra nell’alveo applicativo del permesso di costruire.
In un caso analogo, il Massimo Organo di GA ha affermato che “Sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli interventi di nuova costruzione, categoria nella quale rientrano quelli che realizzano una trasformazione edilizia e urbanistica del territorio. Una struttura in alluminio anodizzato destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico non integra tali caratteristiche. In particolare, in tali casi l'opera principale non è la struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità abitativa. E considerata in tale contesto, la struttura in alluminio anodizzato si qualifica in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 27.04.2016, n. 1619).
Della riconducibilità dell’intervento al più favorevole regime della Dia/Scia mostra di avere consapevolezza lo stesso redattore del provvedimento impugnato, avendo richiamato l’art. 27 del d.p.r. n. 380/2001, che prevede la sola sanzione pecuniaria in caso di abuso. Inoltre, il ricorrente ha dato corso all’esecuzione delle opere dopo la presentazione della d.i.a. prot. n. 66058/2010 e la mera violazione di prescrizioni condominiali non può trasfigurare la consistenza dell’intervento in modo da renderlo soggetto al più gravoso permesso di costruire. Esse, infatti sottendono interessi di natura privatistica, che nulla hanno a che vedere con la rilevanza pubblicistica della disciplina urbanistica, fermo restando che alcuni elementi di origine civilistica possono assumere “una rilevanza qualificata nel procedimento di rilascio della concessione edilizia” (questa Sezione prima, 17.04.2014 n. 740).
Va quindi conclusivamente rilevata la fondatezza del ricorso, laddove, con effetto assorbente di ogni altra censura, si lamenta la inapplicabilità della sanzione ripristinatoria per la stessa consistenza dell’intervento, priva di rilievo plano-volumetrico.
Tanto premesso, il ricorso è fondato a va accolto, con conseguente annullamento dell’atto impugnato (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 12.07.2017 n. 1170 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer poter edificare in zona vincolata occorre ottenere due titoli abilitativi: quello concessorio e l’autorizzazione paesaggistica.
I due titoli, permesso di costruire e nulla osta paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibile le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico.
La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti.
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione del necessario nulla osta paesaggistico.

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Se può dubitarsi che con l’introduzione del codice Urbani (d.lgs. n. 42/2004) l’autorizzazione paesaggistica sia divenuta condizione di validità del permesso di costruire, altrettanto non può dirsi per il passato; la concessione edilizia di cui è causa è stata rilasciata nel vigore della precedente disciplina, allorquando il nulla osta paesaggistico era pacificamente da considerare condizione di efficacia del titolo edilizio.
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Per poter edificare in zona vincolata occorre ottenere due titoli abilitativi: quello concessorio e l’autorizzazione paesaggistica. I due titoli (TAR Campania, sez. VIII n. 2652/2012), permesso di costruire e nulla osta paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue i titoli. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica rende non eseguibile le opere in questione e ben giustifica, in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la concessione edilizia può essere rilasciata anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché non interviene il nulla osta paesaggistico.
La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i provvedimenti (in termini v. Cons. Stato, sez. VI, 02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n. 376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato, sez. II, 10.09.1997, n. 468; Consiglio di Stato sez. VI n. 547 del 10.02.2006).
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione del necessario nulla osta paesaggistico.
Nella fattispecie, come visto, l’autorizzazione paesaggistica non è stata mai richiesta né tanto meno acquisita, legittimamente, pertanto, l’amministrazione ha ingiunto il ripristino dello stato dei luoghi senza dover ricorrere (come in effetti non ha fatto) al potere di autotutela (id est senza dover passare per l’annullamento della concessione edilizia n. 15/1982).
Se, infatti, può dubitarsi che con l’introduzione del codice Urbani (d.lgs. n. 42/2004) l’autorizzazione paesaggistica sia divenuta condizione di validità del permesso di costruire, altrettanto non può dirsi per il passato; la concessione edilizia di cui è causa è stata rilasciata nel vigore della precedente disciplina, allorquando il nulla osta paesaggistico era pacificamente da considerare condizione di efficacia del titolo edilizio (cfr. in argomento C.d.S. n. 547/2006).
In conclusione sul punto, in difetto dell’autorizzazione paesaggistica i danti causa della ricorrente non avrebbero mai dovuto intraprendere i lavori sulla base di una concessione edilizia inefficace (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 11.07.2017 n. 3731 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sul conflitto di interessi del personale delle stazioni appaltanti ex art. 42, c. 2, del d.lgs. n. 50/2016.
La fattispecie descritta dall'art. 42, c. 2, del d.lgs. n. 50/2016, sul conflitto di interesse del personale delle stazioni appaltanti, ha portata generale, come emerge dall'uso della locuzione "in particolare", riferita alla casistica di cui al richiamato art. 7 d.P.R. n. 62/2013, avente dunque mero carattere esemplificativo.
Considerate anche le finalità generali di presidio della trasparenza e dell'imparzialità dell'azione amministrativa, l'espressione "personale" di cui alla norma in questione va riferita non solo ai dipendenti in senso stretto (ossia, i lavoratori subordinati) dei soggetti giuridici ivi richiamati, ma anche a quanti, in base ad un valido titolo giuridico (legislativo o contrattuale), siano in grado di validamente impegnare, nei confronti dei terzi, i propri danti causa o comunque rivestano, di fatto o di diritto, un ruolo tale da poterne obiettivamente influenzare l'attività esterna.
Pertanto, nel caso di specie, è legittima l'esclusione di una società assicurativa da una gara per l'affidamento di servizi assicurativi, disposta ex art. 42, c. 2, d.lgs. n. 50/2017, per i particolari rapporti (societari e personali) tra la compagnia di assicurazione, il suo agente generale territorialmente competente per l'esecuzione del servizio oggetto della gara (in caso di aggiudicazione) ed una terza società - di fatto posseduta da quest'ultimo - a suo tempo incaricata di redigere i capitolati di gara.
Invero, se la norma sul conflitto di interessi si applica sicuramente ai dipendenti "operativi", a maggior ragione andrà applicata anche agli organi ed uffici direttivi e di vertice (nonché ai dirigenti e amministratori pubblici), come si evince proprio dal richiamo all'art. 7 del d.P.R. n. 62 del 2013, per indicare le ampie categorie di soggetti cui fare riferimento (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.07.2017 n. 3415 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Situazioni di conflitto di interessi del personale delle stazioni appaltanti.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Conflitto di interesse – Art. 42, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016 – Ambito di estensione – Individuazione – Fattispecie.
E’ legittima l’esclusione dalla gara per l’affidamento di servizi assicurativi, disposta ai sensi dell’art. 42, comma 2, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, per conflitto di interesse nascente dai particolari rapporti (societari e personali) tra l’operatore economico (in particolare l’agente generale di una Compagnia di assicurazione territorialmente competente per l’esecuzione del servizio oggetto della gara) ed una terza società incaricata di redigere i Capitolati di gara, avendo la norma portata generale ed essendo la locuzione “personale”, in essa contenuta, riferita non solo ai dipendenti in senso stretto (ossia, i lavoratori subordinati) dei soggetti giuridici ivi richiamati, ma anche a quanti, in base ad un valido titolo giuridico (legislativo o contrattuale), siano in grado di validamente impegnare, nei confronti dei terzi, i propri danti causa o comunque rivestano, di fatto o di diritto, un ruolo tale da poterne obiettivamente influenzare l’attività esterna (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che l’espressione “personale”, contenuta nel comma 2 dell’art. 42, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 si riferisce non solo ai dipendenti in senso stretto (ossia, i lavoratori subordinati) dei soggetti giuridici ivi richiamati, ma anche a quanti, in base ad un valido titolo giuridico (legislativo o contrattuale), siano in grado di validamente impegnare, nei confronti dei terzi, i propri danti causa o comunque rivestano, di fatto o di diritto, un ruolo tale da poterne obiettivamente influenzare l’attività esterna.
Diversamente, si entrerebbe nella contraddizione di escludere dalla portata della norma –dalla manifesta funzione preventiva– proprio quei soggetti che più di altri sono in grado di condizionare l’operato dei vari operatori del settore (pubblici e privati) e dunque si darebbe vita a situazioni di conflitto che la norma vuol prevenire, ossia i componenti degli organi di amministrazione e controllo.
Invero, se la norma sul conflitto di interessi si applica sicuramente ai dipendenti “operativi”, a maggior ragione andrà applicata anche agli organi ed uffici direttivi e di vertice (nonché ai dirigenti e amministratori pubblici), come si evince proprio dal richiamo all’art. 7, d.P.R. 16.04.2013, n. 62 (Codice di comportamento dei pubblici dipendenti), per indicare le ampie categorie di soggetti cui fare riferimento.
La Sezione ha escluso che tale conclusione sia incompatibile con la previsione dell’art. 67 (Partecipazione precedente di candidati o offerenti) dello stesso Codice dei contratti pubblici, stante la diversità di presupposti delle due norme (l’art. 67, che recepisce l'art. 41 della direttiva 2014/24/UE, in materia di partecipazione precedente di candidati o offerenti, andrebbe infatti letto in stretta correlazione con il precedente art. 66, relativo alla particolare ipotesi della consultazione di mercato per la preparazione dell’appalto), non richiedendosi, in particolare, il profilo di interesse che caratterizza la fattispecie di cui all’art. 42.
Ha ancora ricordato il giudice di appello che le ipotesi previste nel comma 2 dell’art. 42, d.lgs. n. 56 del 2016 (in termini generali ed astratti) si riferiscono a situazioni in grado di compromettere, anche solo potenzialmente, l’imparzialità richiesta nell’esercizio del potere decisionale. Si verificano quando il “dipendente” pubblico (ad esempio, il Rup ed i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali ed il provvedimento finale, esecuzione contratto e collaudi) ovvero colui (anche un soggetto privato) che sia chiamato a svolgere una funzione strumentale alla conduzione della gara d’appalto, è portatore di interessi della propria o dell’altrui sfera privata, che potrebbero influenzare negativamente l’esercizio imparziale ed obiettivo delle sue funzioni.
La definizione normativa, del resto, appare coerente con lo ius receptum per cui le regole sull’incompatibilità, oltre ad assicurare l’imparzialità dell’azione amministrativa, sono rivolte ad assicurare il prestigio della Pubblica amministrazione, ponendola al di sopra di ogni sospetto, indipendentemente dal fatto che la situazione incompatibile abbia in concreto creato o meno un risultato illegittimo (Cons. St., sez. VI, 13.02.2004, n. 563) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.07.2017 n. 3415 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIPer “danno ingiusto” risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c. si intende non qualsiasi perdita economica, ma solo la perdita economica ingiusta, ovvero verificatasi con modalità contrarie al diritto.
Conseguenza logica della regola è quindi la necessità, per chiunque pretenda un risarcimento, di dimostrare la cd. spettanza del bene della vita, ovvero la necessità di allegare e provare di essere titolare, in base ad una norma giuridica, del bene della vita che ha perduto e di cui attraverso la domanda giudiziale vorrebbe ottenere l’equivalente economico.
Nel caso particolare che qui rileva, della domanda di risarcimento proposta contro la pubblica amministrazione in dipendenza da un atto amministrativo illegittimo, la giurisprudenza ha allora affermato che il mero annullamento giurisdizionale dell’atto, di per sé, non consente di riconoscere un risarcimento.
E’ infatti necessario che il giudicato di annullamento relativo abbia riconosciuto all’interessato, appunto, la spettanza del bene della vita, il che non si verifica quando l’annullamento avvenga per vizi formali, ovvero principalmente per violazione delle norme sul procedimento ovvero per difetto di motivazione.
In tali casi, infatti, l’annullamento non vincola senz’altro l’amministrazione a riconoscere all’interessato quanto da lui richiesto, e quindi non si può dire che un danno ingiusto per non averlo ottenuto esista.

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   - i primi due motivi di appello sono all’evidenza connessi, vanno esaminati congiuntamente e risultano fondati, nei termini che seguono. Per chiarezza, però, va resa esplicita l’argomentazione giuridica che essi sottintendono;
   - in termini generali, è del tutto nota, e non necessita quindi di puntuali citazioni giurisprudenziali, la regola del nostro ordinamento secondo la quale per “danno ingiusto” risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c. si intende non qualsiasi perdita economica, ma solo la perdita economica ingiusta, ovvero verificatasi con modalità contrarie al diritto. Conseguenza logica della regola è quindi la necessità, per chiunque pretenda un risarcimento, di dimostrare la cd. spettanza del bene della vita, ovvero la necessità di allegare e provare di essere titolare, in base ad una norma giuridica, del bene della vita che ha perduto e di cui attraverso la domanda giudiziale vorrebbe ottenere l’equivalente economico.
Nel caso particolare che qui rileva, della domanda di risarcimento proposta contro la pubblica amministrazione in dipendenza da un atto amministrativo illegittimo, la giurisprudenza ha allora affermato -da ultimo, C.d.S. sez. IV 30.01.2017 n. 361- che il mero annullamento giurisdizionale dell’atto, di per sé, non consente di riconoscere un risarcimento.
E’ infatti necessario che il giudicato di annullamento relativo abbia riconosciuto all’interessato, appunto, la spettanza del bene della vita, il che non si verifica quando l’annullamento avvenga per vizi formali, ovvero principalmente per violazione delle norme sul procedimento ovvero per difetto di motivazione.
In tali casi, infatti, l’annullamento non vincola senz’altro l’amministrazione a riconoscere all’interessato quanto da lui richiesto, e quindi non si può dire che un danno ingiusto per non averlo ottenuto esista: così, fra le molte, C.d.S. sez. V 06.03.2017 n. 1037 e 10.02.2015 n. 675, ove ampie ulteriori citazioni (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.07.2017 n. 3392 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa dichiarazione di inizio attività non dà vita ad una fattispecie provvedimentale di assenso tacito, bensì riflette un atto del privato volto a comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge.
Con riferimento sia alle d.i.a. di cui alla normativa di settore (con particolare riferimento all'edilizia) sia al modello generale di cui all'art. 19, l. n. 241 del 1990, presupposti indefettibili perché la d.i.a. possa essere produttiva di effetti sono la completezza e la veridicità delle dichiarazioni contenute nell'autocertificazione.
Infatti, il decorso del termine di trenta giorni non può avere alcun effetto di legittimazione dell'intervento, rispetto ad una dichiarazione inesatta o incompleta, con la conseguenza che l'Amministrazione ha la facoltà e il potere di inibire l'attività o di sospendere i lavori.

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La DIA della ricorrente, riguardante, come evidenziato dall'Amministrazione Comunale e come emergente dagli atti, un intervento di sopraelevazione, anche se di modesta entità, avrebbe dovuto, in verità, essere soggetta alla verifica antisismica ai sensi dell'art. 2 del Regolamento Regionale n. 2/2012, documento, invece, assente nel progetto presentato.
In mancanza di tale accertamento, la DIA presentata dalla ricorrente non poteva, dunque, neppure dirsi integrata e legittimare le opere realizzate.
La dichiarazione di inizio attività … ( infatti) non dà vita ad una fattispecie provvedimentale di assenso tacito, bensì riflette un atto del privato volto a comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge. Con riferimento sia alle d.i.a. di cui alla normativa di settore (con particolare riferimento all'edilizia) sia al modello generale di cui all'art. 19, l. n. 241 del 1990, presupposti indefettibili perché la d.i.a. possa essere produttiva di effetti sono la completezza e la veridicità delle dichiarazioni contenute nell'autocertificazione. Infatti, il decorso del termine di trenta giorni non può avere alcun effetto di legittimazione dell'intervento, rispetto ad una dichiarazione inesatta o incompleta, con la conseguenza che l'Amministrazione ha la facoltà e il potere di inibire l'attività o di sospendere i lavori" (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. I, 05.04.2013 n. 3506; TAR Campania, Napoli, Sez. II, 25.07.2016 n. 3869).
Da qui la legittimità dell'intervento di Roma Capitale di “reiezione della DIA" e di comunicazione alla ricorrente della mancanza di titolo in relazione ai lavori de quibus e della perseguibilità degli stessi ai sensi di legge, effetti vincolati della violazione del Regolamento Regionale posto a tutela della stabilità e della sicurezza delle costruzioni, con espressa previsione, però, della “facoltà di ripresentare nuova DIA con le modifiche o le integrazioni necessarie per renderla conforme alla normativa vigente".
Per le argomentazioni che precedono, il ricorso deve essere, in conclusione, integralmente rigettato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 05.07.2017 n. 7858 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Al G.O. la giurisdizione sulla azione risarcitoria da parte dalla stazione appaltante nei confronti delle imprese appaltatrici per condotte fraudolente durante la procedura di scelta del contraente.
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Giurisdizione e competenza – Appalti pubblici – Azione di risarcimento danni proposta dalla stazione appaltante contro le imprese aggiudicatarie per condotte scorrette poste in essere nella fase di affidamento dei lavori – Giurisdizione dell’A.G.O.
Rientra nella giurisdizione dell’A.G.O. l’azione di risarcimento danni, a titolo di responsabilità precontrattuale, proposta dalla stazione appaltante nei confronti delle imprese aggiudicatarie per condotte asseritamente fraudolente realizzatesi nella fase di affidamento dei lavori e per il conseguente ritardo nell’esecuzione dei lavori (1)
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(1) I. - La pronuncia è stata resa dalle Sezioni unite della Corte di cassazione in sede di regolamento preventivo di giurisdizione proposto da un’impresa convenuta dinanzi al giudice ordinario, adito da un’azienda regionale per l’edilizia residenziale pubblica che aveva chiesto la condanna al risarcimento del danno -a titolo di responsabilità precontrattuale e contrattuale- per condotte asseritamente fraudolente tenute da alcune ditte appaltatrici di lavori edili, durante la procedura di gara, che avevano comportato un grave ritardo nell'affidamento definitivo e nell'esecuzione dei predetti lavori.
La Corte, rilevata l’assenza di precedenti di legittimità e la sussistenza di un contrasto nella giurisprudenza dei TAR, attribuisce, lapidariamente, al giudice ordinario la cognizione della domanda risarcitoria attraverso un percorso argomentativo che oblitera l’art. 133, comma 1, lett. e) c.p.a. (che riserva alla giurisdizione esclusiva del G.A. tutte le controversie in tema di “procedure di affidamento di lavori pubblici, ivi incluse quelle risarcitorie"), sebbene espressamente invocato dalla impresa ricorrente per giustificare la devoluzione della cognizione della controversia al giudice amministrativo.
Il ragionamento della Corte lascia sullo sfondo le circostanze di fatto relative alla materia del contendere, anche in ordine alla loro collocazione temporale rispetto al provvedimento di aggiudicazione ed alla stipula del contratto, e si incentra sulle seguenti motivazioni:
   a) premette la peculiarità del caso concreto ravvisata nella circostanza che parte attrice è una pubblica amministrazione (si veda tuttavia Corte cost. 15.07.2016, n. 179, in Foro it., 2016, I, 3407, con nota di TRAVI e oggetto della News US in data 20.07.2016, che ha sancito il divieto di “giurisdizione frazionata” e conseguentemente ha ammesso la proponibilità, nei casi di giurisdizione esclusiva, della domanda da parte della P.A. nei confronti del privato, conformandosi per altro ad un consolidato indirizzo della giurisprudenza civile ed amministrativa, tra cui si richiama Cass. civ., sez. un., 09.03.2015, n. 4683 che ha confermato Cons. Stato, Ad. plen., 20.07.2012, n. 28 e Cons. Stato, Sez. IV, 11.12.2007 n. 6358 in Dir. e pratica amm., 2008, fasc. 2, 15 (m), con nota di DI BENEDETTO in materia di concessioni ex art. 5, l. Tar);
   b) rammenta che, in situazioni perfettamente speculari -allorquando cioè è il privato ad invocare la tutela risarcitoria precontrattuale nei confronti della P.A.- non si è mai dubitato della competenza giurisdizionale del G.O., trattandosi di domanda risarcitoria afferente non alla fase pubblicistica della gara, ma a quella prodromica nella quale si lamenta la violazione degli obblighi di buona fede e correttezza, con conseguente rilevanza del criterio di riparto di giurisdizione fondato sulla natura e sulla consistenza della situazione soggettiva dedotta in giudizio (la giurisdizione esclusiva del G.A. in materia di responsabilità precontrattuale è però stata affermata –almeno nei casi di annullamento e revoca dell’aggiudicazione- a partire da Cons. Stato, Ad. Plen., 05.09.2005, n. 6, in Foro it., 2009, III, 124, con nota di A. TRAVI, e successivamente ribadita dal giudice amministrativo –cfr. tra le tante Cons. Stato, sez. IV, 15.09.2014, n. 4674, in Foro it., 2015, III, 106 con nota da di G. GALLI cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza– con l’avallo della medesima Corte regolatrice della giurisdizione, cfr. Cass. civ., sez. un., 30.07.2008, n. 20596);
   c) evidenzia che il giudice ordinario è chiamato a decidere ogni controversia avente ad oggetto un diritto soggettivo la cui lesione sia stata non conseguente, bensì soltanto occasionata –come nel caso di specie-, da un procedimento amministrativo di affidamento di lavori o servizi;
   d) esistono orientamenti contrastanti nella giurisprudenza amministrativa di primo grado; sul punto deve tuttavia evidenziarsi che Cons. Stato, sez. V, 21.12.2014, n. 6455 ha ammesso la domanda riconvenzionale a titolo di responsabilità precontrattuale proposta dalla stazione appaltante nei confronti dell’impresa; inoltre Cons. Stato, sez. III, 31.08.2016, n. 3755, in Guida al dir., 2016, fasc. 40, 84, con nota di MEZZACAPO, ha affermato che <<La controversia instaurata da una stazione appaltante contro un soggetto privato per il risarcimento del danno derivante dalla mancata stipula, in difetto di idonea giustificazione, del contratto da parte del privato aggiudicatario rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo>> (nella specie, si trattava di gara finalizzata alla stipula di contratto di mutuo).
II. - Sulla giurisdizione esclusiva del g.a. in materia di procedure di affidamento di contratti pubblici si segnalano in dottrina e giurisprudenza:
   e) nel senso dell’ampia portata della clausola sulla giurisdizione esclusiva del g.a., R. DE NICTOLIS, in Codice del processo amministrativo commentato, 2017, IV ed., Milano, 1998 ss.; della stessa autrice, Il riparto di giurisdizione, in CARINGELLA - DE NICTOLIS – GAROFOLI - POLI, Milano, II ed., 2008, 531 ss.; per una ricostruzione delle posizioni di dottrina e giurisprudenza in punto di ammissibilità dell’ampliamento dell’ambito della giurisdizione esclusiva del g.a. fino a comprendere le cause introdotte dalla P.A., cfr. V. POLI, ibidem, 371 ss.;
   f) la posizione assunta dalla recente pronuncia della Adunanza plenaria 12.05.2017, n. 2, oggetto della News US in data 16.05.2017, circa l’estensione e i limiti della giurisdizione del G.A. in materia risarcitoria relativamente alle procedure di affidamento di appalti;
   g) sui criteri generali di riparto della giurisdizione in materia di contratti della P.A., Cass. civ, sez. un., ordinanza 10.04.2017, n. 9149, secondo cui appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario «la cognizione delle domande di risoluzione o di nullità di un contratto d'appalto pubblico (Cass., sez. un., 31/01/2017, n. 2482, Cass., sez. un., 14/05/2015, n. 9861), perché "rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario le controversie aventi ad oggetto tutti gli atti della serie negoziale successiva alla stipulazione del contratto, cioè non solo quelle che attengono al suo adempimento e quindi concernenti l'interpretazione dei diritti e degli obblighi delle parti, ma anche quelle volte ad accertare le condizioni di validità, efficacia, nullità o annullabilità del contratto, siano esse inerenti o estranee o sopravvenute alla struttura del contratto, comprese quelle derivanti da irregolarità o illegittimità della procedura amministrativa a monte e le fattispecie di radicale mancanza del procedimento di evidenza pubblica o sussistenza di vizi che ne affliggono singoli atti, accertabili incidentalmente da detto giudice, al quale le parti possono rivolgersi senza necessità del previo annullamento da parte del giudice amministrativo" (Cass., sez. un., 05/04/2012, n. 5446, Cass., sez. un., 31/05/2016, n. 11366).
Anche "la controversia in tema di appalto pubblico, avente ad oggetto la valutazione di una clausola penale, la quale si configura come strumento di commisurazione del danno, comunque riducibile ove ecceda in misura palese dalla concreta entità del pregiudizio, e che presuppone l'esistenza dell'inadempimento, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto inerente ai diritti derivanti dal predetto contratto" (Cass., sez. un., 22/12/2011, n. 28342), come la controversia "relativa all'inadempimento degli obblighi di collaborazione nascenti dal contratto d'appalto" (Cass., sez. un., 03/05/2013, n. 10301)
»;
   h) sulla giurisdizione in materia di esecuzione del contratto, Cass. civ., sez. un., ordinanza 18.11.2016 n. 23468 (oggetto della News US 29.11.2016), secondo cui «Successivamente alla stipula del contratto, conseguente ad un procedimento di evidenza pubblica, tutte le controversie insorte durante la fase di esecuzione del contratto, rientrano, di regola, nella giurisdizione del giudice ordinario, tenuto conto della condizione di parità tra le parti e, dunque, della natura di diritto soggettivo che qualifica la posizione del contraente privato, a meno che l’Amministrazione committente non eserciti poteri autoritativi attraverso provvedimenti espressione di discrezionalità valutativa, a fronte dei quali la posizione soggettiva del privato si atteggia a interesse legittimo. La controversia promossa dalla cessionaria del ramo di azienda per ottenere l’annullamento del provvedimento con cui la stazione appaltante ha respinto la richiesta di sostituzione della mandataria del raggruppamento temporaneo di imprese affidatario dell’appalto, è devoluta alla cognizione del giudice ordinario. Collocandosi nella fase esecutiva del contratto, tale controversia esula dalla giurisdizione esclusiva riconosciuta al giudice amministrativo in materia di procedure di affidamento di appalti pubblici, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lettera e), numero 1), cod. proc. amm., non venendo, inoltre, in rilievo l’esercizio di poteri discrezionali» (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, ordinanza 04.07.2017 n. 16419 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer valutare se un’opera ha effettivamente carattere precario non basta accertare che questa sia costruita con materiali facilmente rimovibili, ma è necessario dimostrare che essa sia funzionalmente deputata al soddisfacimento di esigenze oggettivamente temporanee, destinata quindi ad essere smantellata non appena tali esigenze siano venute meno.
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6. Con il primo motivo, la parte deduce la violazione dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001 in quanto, la struttura oggetto dell’atto impugnato sarebbe da considerare alla stregua di un’opera precaria, realizzabile, in base alla suddetta norme, in assenza di titolo edilizio.
7. Ritiene il Collegio che la censura sia del tutto infondata.
8. Per valutare se un’opera ha effettivamente carattere precario, non basta accertare che questa sia costruita con materiali facilmente rimovibili, ma è necessario dimostrare che essa sia funzionalmente deputata al soddisfacimento di esigenze oggettivamente temporanee, destinata quindi ad essere smantellata non appena tali esigenze siano venute meno.
9. Nel caso concreto, le ricorrenti riferiscono che la struttura di cui è causa avrebbe carattere precario in quanto destinata ad essere smantellata una volta che verrà realizzato l’ampliamento del magazzino ove una delle ricorrenti svolge la sua attività di impresa.
10. Ciò tuttavia, contrariamente da quanto sostenuto dalle interessate, non dimostra la precarietà dell’opera in quanto, da un lato, l’esigenza di disporre di maggiori spazi destinati a magazzino, per stessa ammissione delle ricorrenti, non è affatto temporanea; ed in quanto, da altro lato, neppure è stata allegata la sussistenza di elementi che dimostrino l’effettiva, concreta ed attuale intenzione di procedere all’ampliamento del magazzino esistente. Lo smantellamento della struttura di cui è causa costituisce dunque, per ora, oggetto di una mera intenzione futura per la quale non sono stati neppure ipotizzati i termini di esecuzione.
11. Si deve pertanto escludere che la stessa struttura possa essere qualificata come opera precaria.
12. Per queste ragioni va ribadita l’infondatezza della censura (TAR Lombardia-MIlano, Sez. II, sentenza 04.07.2017 n. 1507 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Stabilisce l’art. 31, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 che il responsabile del competente ufficio comunale, una volta <<…accertata l’esecuzione di interventi in assenza di permesso […] ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la demolizione, indicando nel provvedimento l’area che verrà acquisita di diritto, ai sensi del comma 3>>.
Il successivo comma 3, stabilisce a sua volta che <<Se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al rispristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime […] sono acquisiti di diritto al patrimonio del comune>>.
Queste norme dettano disposizioni estremamente puntuali che non lasciano alcuna discrezionalità all’autorità amministrativa. Pertanto, una volta accertata la realizzazione di un’opera in assenza di titolo edilizio, l’amministrazione deve senz’altro ordinarne la demolizione, indicando l’area che verrà acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza; e una volta accertata, l’inottemperanza, l’area passa di diritto al patrimonio comunale.
Sicché, in applicazione delle norme illustrate, il Comune non poteva far altro che ingiungerne la demolizione, senza obbligo di effettuare alcuna comparazione degli interessi coinvolti, né alcuna valutazione circa la sanzione appropriata da applicare.

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13. Con il secondo motivo, viene dedotta la violazione dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto, a dire delle ricorrenti, l’Amministrazione, prima di applicare la sanzione demolitoria, prevista da tale norma, avrebbe dovuto avrebbe dovuto valutare la gravità dell’illecito ed avrebbe dovuto dar conto delle risultanze di tale valutazione nel corpo motivazionale del provvedimento.
14. Con il terzo motivo, viene dedotta la violazione dell’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 giacché, secondo le interessate, l’Amministrazione avrebbe dovuto illustrare nell’atto impugnato le ragioni di interesse pubblico che l’hanno indotta a prevedere l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione.
15. Infine con il quarto motivo, viene dedotto il vizio di eccesso di potere per violazione dei principi di legalità, imparzialità, trasparenza e ragionevolezza non avendo l’Amministrazione effettuato una corretta comparazione degli interessi coinvolti.
16. Anche queste censure sono infondate per le ragioni di seguito esposte.
17. Stabilisce l’art. 31, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 che il responsabile del competente ufficio comunale, una volta <<…accertata l’esecuzione di interventi in assenza di permesso […] ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la demolizione, indicando nel provvedimento l’area che verrà acquisita di diritto, ai sensi del comma 3>>.
18. Il successivo comma 3, stabilisce a sua volta che <<Se il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al rispristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime […] sono acquisiti di diritto al patrimonio del comune>>.
19. Queste norme dettano disposizioni estremamente puntuali che non lasciano alcuna discrezionalità all’autorità amministrativa. Pertanto, una volta accertata la realizzazione di un’opera in assenza di titolo edilizio, l’amministrazione deve senz’altro ordinarne la demolizione, indicando l’area che verrà acquisita al patrimonio comunale in caso di inottemperanza; e una volta accertata, l’inottemperanza, l’area passa di diritto al patrimonio comunale.
20. Ciò premesso che, nel caso di specie, come visto, è stata realizzata un’opera senza titolo (peraltro di non trascurabili dimensioni); sicché, in applicazione delle norme illustrate, il Comune di Uboldo non poteva far altro che ingiungerne la demolizione, senza obbligo di effettuare alcuna comparazione degli interessi coinvolti, né alcuna valutazione circa la sanzione appropriata da applicare.
21. Ne consegue, che come anticipato, tutte le censure in esame non possono essere condivise.
22. Per queste ragioni il ricorso va respinto (TAR Lombardia-MIlano, Sez. II, sentenza 04.07.2017 n. 1507 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 9, comma 1, L. n. 122 del 1989 -secondo cui i proprietari di immobili possono realizzare, nel sottosuolo o al pian terreno degli stessi immobili, parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti- è norma che non legittima qualsiasi operazione di edificazione di parcheggi anche quando siano scollegata ab origine dalla fruizione di unità immobiliare residenziali.
Ai sensi dell'articolo 9 della legge n. 122/1989 i parcheggi pertinenziali possono essere realizzati “anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti”, fatta eccezione per “i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale”.
Si tratta di un beneficio concesso ai soggetti contemplati dalle due disposizioni normative in esame al fine della realizzazione del superiore interesse pubblico collegato all'esigenza di decongestionare i centri abitati dalle auto in sosta e di rendere più agevole la circolazione stradale (con innegabili vantaggi per la collettività anche in termini di riduzione dell'inquinamento atmosferico).
In sede di esame di un progetto concernente la richiesta di realizzazione di parcheggi pertinenziali, l'amministrazione comunale non può, pertanto, opporre un diniego fondato sul mero contrasto con la normativa urbanistica, se non incorrendo della violazione delle citate disposizioni legislative.

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Nel caso di specie, tuttavia, l’amministrazione comunale ha opposto il contrasto non con la disciplina urbanistica ed edilizia di riferimento della zona, ma, specificamente, la normativa del piano urbanistico relativa proprio alla edificazione di parcheggi pertinenziali interrati.
Non può essere contestato che, nonostante la deroga agli strumenti urbanistici prevista dalla legge, rimanga in capo all’amministrazione comunale il potere di regolamentare le condizioni ed i presupposti per la realizzabilità dell’intervento, tenuto anche conto che la stessa normativa primaria prevede il rispetto, oltre che dei vincoli ambientali e paesaggistici, anche delle prescrizioni adottate dall’amministrazione comunale.
Ed invero i parcheggi possono essere realizzati “ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici”.
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Quanto all’invocata illegittimità del regolamento comunale, occorre evidenziare che le prescrizioni adottate dall’amministrazione comunale -in primis quella che richiede che il parcheggio sia realizzato in area di pertinenza delle residenze servite specificandone le condizioni- non travalicano nel loro complesso il limite della ragionevolezza e della proporzionalità, atteso che esse sono state correttamente poste in attuazione della normativa statale e regionale.
In particolare legittimamente l’amministrazione, con il limite della superficie occupabile, la indicazione di un numero massimo di piani interrati e la proporzione fra parcheggio ed aree servite, ha definito un congruo rapporto di pertinenzialità fra le abitazioni ed il parcheggio, nonché le dimensioni massime entro cui l’opera deve essere contenuta.
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Com'è noto, l'art. 9, c. 1, della L. 122/1989 stabilisce che i proprietari di immobili possono realizzare, nel sottosuolo o al pian terreno degli stessi immobili, parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti.
Tale disposizione, che introduce un regime edilizio di favore per la realizzazione dei parcheggi urbani, si riferisce, oltre che ai parcheggi edificati nel medesimo fabbricato, ai parcheggi in aree “pertinenziali” e va interpretata rigorosamente in considerazione delle finalità della legge nel cui contesto risulta inserita.
In particolare occorre interpretare la nozione di “pertinenzialità” in misura tale da non legittimare qualsiasi operazione di edificazione di parcheggi anche quando siano scollegata ab origine dalla fruizione di unità immobiliare residenziali (cfr. Cass. pen 26327/2009 e Cass. pen. 45068/2011 secondo cui la realizzazione di parcheggi in forza del regime agevolato previsto dalla L. n. 122 del 1989, art. 9 può avvenire ad opera di terzi e in aree anche non limitrofe a quelle ove insistono gli immobili “a condizione che detti immobili siano individuati al momento di presentazione della d.i.a. così da assicurare in concreto l'esistenza di una relazione pertinenziale tra i parcheggi e le singole unità e da escludere che si versi in ipotesi di iniziativa speculativa, ipotesi soggetta all'ordinaria disciplina urbanistica ed edilizia”).
Ebbene, secondo l’orientamento giurisprudenziale, a cui il Collegio ritiene di dover aderire, condizione essenziale per l'applicazione della normativa ex art. 9, c. 1 (cfr. in termini Cons. Stato da ultimo n. 2116/2016) è che si tratti di parcheggi "pertinenziali", nel senso che devono essere al servizio di "singole unità immobiliari".
In tal caso, si deve trattare di parcheggi fruibili solo da chi si trova in un determinato rapporto con tali unità immobiliari. Quest'ultimo presuppone una relazione di “pertinenzialità materiale” tale, cioè, da evocare un rapporto d'immediata contiguità fisica tra il fabbricato principale e l'area asservita (che sia sottostante, interna o esterna) escludendo dunque che l’area a parcheggio possa liberamente individuarsi sul territorio comunale.
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1. Il ricorso è infondato.
1.2. Con il presente gravame il ricorrente impugna, chiedendone l’annullamento, la disposizione dirigenziale n. 372 del 12.05.2016, con cui il Comune di Napoli ha respinto la richiesta di permesso di costruire inoltrata dal ricorrente per la realizzazione di un parcheggio multipiano meccanizzato interrato su suolo sito in Napoli alla via Mariano D’Amelio n. 78, in area classificata come zona A, quale unità di spazio scoperto concluse – giardini, orti e spazi pavimentati pertinenti a unità edilizie di base (regolato dall’art. 114 della variante generale approvata con D.P.R.G.C. n. 323 dell’11.06.2004).
A seguito del preavviso di rigetto, fondato su una pluralità di motivazioni, l’istante ha proceduto ad apportare modifiche ed integrazioni, anche documentali, al progetto originario.
Ciò nonostante, l’amministrazione ha continuato ad opporre, a sostegno del rigetto della istanza, le seguenti ragioni:
   - la mancata documentazione della legittimità dello stato dei luoghi;
   - la non assentibilità dell’intervento ai sensi dell’art. 17 delle n.t.a. non rientrando l’intervento nella tipologia di parcheggio interrato come ivi definito (mancato rispetto del vincolo di proiezione delle opere edilizie del 60% del lotto fino a 500 mq e del rapporto di 1 mq di parcheggio per ogni 3 mq di abitazione cui è asservito);
   - la mancata documentazione dell’identificazione puntuale delle abitazioni di cui il parcheggio costituirebbe pertinenza;
   - il contrasto del progetto (che prevede cinque piani interrati) con il medesimo art. 17, che ne consente fino a quattro.
2. Giova preliminarmente rammentare che, ai sensi dell'articolo 9 della legge n. 122/1989 e dell'articolo 6 della legge della Regione Campania n. 19/2001, i parcheggi pertinenziali possono essere realizzati “anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti”, fatta eccezione per “i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale”.
Si tratta di un beneficio concesso ai soggetti contemplati dalle due disposizioni normative in esame al fine della realizzazione del superiore interesse pubblico collegato all'esigenza di decongestionare i centri abitati dalle auto in sosta e di rendere più agevole la circolazione stradale (con innegabili vantaggi per la collettività anche in termini di riduzione dell'inquinamento atmosferico).
2.1. In sede di esame di un progetto concernente la richiesta di realizzazione di parcheggi pertinenziali, l'amministrazione comunale non può pertanto opporre un diniego fondato sul mero contrasto con la normativa urbanistica, se non incorrendo della violazione delle citate disposizioni legislative.
3. Nel caso di specie, tuttavia, l’amministrazione comunale ha opposto il contrasto non con la disciplina urbanistica ed edilizia di riferimento della zona, ma, specificamente, la normativa del piano urbanistico relativa proprio alla edificazione di parcheggi pertinenziali interrati.
Non può essere contestato che, nonostante la deroga agli strumenti urbanistici prevista dalla legge, rimanga in capo all’amministrazione comunale il potere di regolamentare le condizioni ed i presupposti per la realizzabilità dell’intervento, tenuto anche conto che la stessa normativa primaria prevede il rispetto, oltre che dei vincoli ambientali e paesaggistici, anche delle prescrizioni adottate dall’amministrazione comunale.
Ed invero i parcheggi possono essere realizzati “ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici”.
3.1. Ciò posto, correttamente il Comune ha opposto la non assentibilità dell’intervento ai sensi dell’art. 17 n.t.a.. Ed infatti, dalla semplice visione dei grafici allegati al progetto si può chiaramente arguire come l’intervento non risponde alle caratteristiche richieste dalla normativa tecnica di attuazione laddove il manufatto non presenta un contenimento della superficie occupata entro il 60% del lotto (di superficie inferiore ai 500 mq), né risulta la sussistenza di un valido titolo edilizio in relazione all’impermeabilizzazione dell’area (connotata da unità di spazio scoperto concluse – giardini, orti e spazi pavimentati pertinenti a unità edilizie di base di cui al citato art. 114). Analogamente va esclusa la assentibilità dell’intervento in virtù della previsione di cinque piani interrati, in contrasto con il medesimo art. 17 che ne consente un massimo di quattro.
3.2. Quanto all’invocata illegittimità del regolamento comunale, occorre evidenziare che le prescrizioni adottate dall’amministrazione comunale -in primis quella che richiede che il parcheggio sia realizzato in area di pertinenza delle residenze servite specificandone le condizioni- non travalicano nel loro complesso il limite della ragionevolezza e della proporzionalità, atteso che esse sono state correttamente poste in attuazione della normativa statale e regionale.
In particolare legittimamente l’amministrazione, con il limite della superficie occupabile, la indicazione di un numero massimo di piani interrati e la proporzione fra parcheggio ed aree servite, ha definito un congruo rapporto di pertinenzialità fra le abitazioni ed il parcheggio, nonché le dimensioni massime entro cui l’opera deve essere contenuta.
4. A prescindere peraltro dalla regolamentazione comunale, l’iniziativa non appare conforme alle disposizioni legislative invocate nell’istanza stessa.
Il Comune fonda il rigetto sulla constatazione che l’iniziativa prospettata non rientra nella fattispecie di favore in quanto l’area non può essere qualificata come pertinenziale in quanto non conforme ai criteri normativi per qualificarla come tale.
Com'è noto infatti, l'art. 9, c. 1, della L. 122/1989 stabilisce che i proprietari di immobili possono realizzare, nel sottosuolo o al pian terreno degli stessi immobili, parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti.
4.1. Tale disposizione, che introduce un regime edilizio di favore per la realizzazione dei parcheggi urbani, si riferisce, oltre che ai parcheggi edificati nel medesimo fabbricato, ai parcheggi in aree “pertinenziali” e va interpretata rigorosamente in considerazione delle finalità della legge nel cui contesto risulta inserita.
In particolare occorre interpretare la nozione di “pertinenzialità” in misura tale da non legittimare qualsiasi operazione di edificazione di parcheggi anche quando siano scollegata ab origine dalla fruizione di unità immobiliare residenziali (cfr. Cass. pen 26327/2009 e Cass. pen. 45068/2011 secondo cui la realizzazione di parcheggi in forza del regime agevolato previsto dalla L. n. 122 del 1989, art. 9 può avvenire ad opera di terzi e in aree anche non limitrofe a quelle ove insistono gli immobili “a condizione che detti immobili siano individuati al momento di presentazione della d.i.a. così da assicurare in concreto l'esistenza di una relazione pertinenziale tra i parcheggi e le singole unità e da escludere che si versi in ipotesi di iniziativa speculativa, ipotesi soggetta all'ordinaria disciplina urbanistica ed edilizia”).
4.2. Ebbene, secondo l’orientamento giurisprudenziale, a cui il Collegio ritiene di dover aderire, condizione essenziale per l'applicazione della normativa ex art. 9, c. 1 (cfr. in termini Cons. Stato da ultimo n. 2116/2016) è che si tratti di parcheggi "pertinenziali", nel senso che devono essere al servizio di "singole unità immobiliari".
In tal caso, si deve trattare di parcheggi fruibili solo da chi si trova in un determinato rapporto con tali unità immobiliari. Quest'ultimo presuppone una relazione di “pertinenzialità materiale” tale, cioè, da evocare un rapporto d'immediata contiguità fisica tra il fabbricato principale e l'area asservita (che sia sottostante, interna o esterna) escludendo dunque che l’area a parcheggio possa liberamente individuarsi sul territorio comunale.
4.3. Nel caso di specie, di tale nesso di corrispondenza il ricorrente non fornisce alcuna dimostrazione, né in sede procedimentale né in sede giudiziale, rimanendo dunque assolutamente incerta la riconducibilità del progetto all’art. 9 L. 122/1989, invocato dallo stesso per ottenere l’autorizzazione edilizia. In questa prospettiva appare legittimo il diniego opposto dagli uffici del Comune, diniego peraltro poi motivato anche alla luce della regolamentazione comunale che specifica i requisiti dei parcheggi da realizzarsi.
4.4. Anche a livello di regolamentazione locale appare peraltro incontestato –in quanto oggetto di censure circostanziate- che i criteri fissati dalla citata delibera n. 129/2012 per la realizzazione del progetto in questione -ovvero una più stringente nozione di pertinenzialità che si manifesta nel rapporto di 1 mq di superficie a parcheggio ogni 3 mq di superficie servita- non sono rispettati dal progetto presentato dai ricorrenti.
5. Correttamente dunque gli uffici comunali, in conformità alla normativa primaria e secondaria applicabile alla suddetta fattispecie, come vigente al momento dell’adozione del provvedimento, hanno rigettato la richiesta di permesso edilizio con motivazione ampia ed esaustiva da cui risultano chiaramente le ragioni del diniego e le norme violate (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 27.06.2017 n. 3505 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche - Violazioni della disciplina antisismica - Inefficacia della sanatoria - Ultimazione dei lavori - Criteri - Giurisprudenza - Artt. 36, 65-72, 93-95 del D.P.R. n. 380/2001.
Il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta l'estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, nella cui nozione non rientra la disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche, che ha una oggettività giuridica diversa da quella riguardante il corretto assetto del territorio.
Inoltre, l'ultimazione dei lavori, coincide con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi (Sez. 3, n. 39733 del 18/10/2011, Ventura), di modo che anche il suo utilizzo effettivo, ancorché accompagnato dall'attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente per ritenere sussistente l'ultimazione dell'immobile abusivamente realizzato (Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.06.2017 n. 30654 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti.
Va altresì evidenziato che nemmeno può trovare tutela in sede giurisdizionale una aspettativa non giuridicamente qualificata in relazione ad una migliore collocazione o destinazione della propria area.
Ad abundantiam, va richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, secondo il quale “le osservazioni presentate in occasione dell’adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento di formazione dello strumento medesimo, con conseguente assenza in capo all’Amministrazione a ciò competente di un obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione delle singole aree; pertanto, seppure l’Amministrazione è tenuta ad esaminare le osservazioni pervenute, non può però essere obbligata ad una analitica confutazione di ciascuna di esse, essendo sufficiente per la loro reiezione il mero contrasto con i principi ispiratori del piano”.

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La più recente evoluzione giurisprudenziale ha evidenziato che “all’interno della pianificazione urbanistica possano trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi”.
E ciò in quanto l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’articolo 9 della Costituzione; in tale contesto spetta all’Ente esponenziale effettuare una mediazione tra i predetti valori e gli altri interessi coinvolti, quali quelli della produzione o delle attività antropiche più in generale, che comunque non possono ritenersi equiordinati in via assoluta.
In tale prospettiva, deve pure sottolinearsi che, per costante giurisprudenza, la destinazione di un’area a verde agricolo non implica necessariamente che la stessa soddisfi in modo diretto e immediato interessi agricoli, ben potendo giustificarsi con le esigenze dell’ordinato governo del territorio, quale la necessità di impedire ulteriori edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando la quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell’espansione dell’aggregato urbano, come accade nella fattispecie de qua.
A questo proposito, è poi utile aggiungere che, anche laddove si fosse al cospetto di aree ampiamente urbanizzate, non per questo se ne può escludere la rilevanza dal punto di vista ambientale, poiché tali dati di fatto si prestano anzi a far emergere un interesse alla conservazione del suolo inedificato, per ragioni di compensazione ambientale.
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L’implementazione introdotta nella fase di approvazione –ossia la previsione della rete ecologica regionale– è il risultato della necessità di recepire le indicazioni contenute in provvedimenti di Autorità sovraordinate e che per legge integrano il P.G.T., come le prescrizioni di provenienza regionale.
In tali casi trova applicazione l’art. 13, comma 9, della legge regionale n. 12 del 2005 che esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di “… controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali …”.
Del resto, nessuna disposizione impone di concedere nuovi termini per la presentazione di ulteriori osservazioni, laddove non sia stato dimostrato, come nella controversia de qua, che fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione.
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Del resto, le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti (Consiglio di Stato, IV, 12.05.2016, n. 1907; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2017, n. 451).
Va altresì evidenziato che nemmeno può trovare tutela in sede giurisdizionale una aspettativa non giuridicamente qualificata in relazione ad una migliore collocazione o destinazione della propria area (TAR Lombardia, Milano, II, 30.03.2017, n. 761).
Infine, gli specifici rilievi formulati dalla parte ricorrente, oltre ad impingere nel merito delle scelte dell’Amministrazione, non si fondano su elementi obiettivi in grado di dimostrare l’abnormità o l’evidente irragionevolezza delle determinazioni dell’Amministrazione in relazione ai dati fattuali posti alla base delle stesse, soprattutto avuto riguardo alla decisione di salvaguardare al massimo livello l’area in questione; in assenza, peraltro, di un affidamento tutelato al cambio di destinazione dell’area in capo alla ricorrente, la scelta dell’Amministrazione non può essere ritenuta illegittima (cfr., in tal senso, TAR Lombardia, Milano, II, 25.05.2017, n. 1166; 30.11.2016, n. 2271).
3.2. Ad abundantiam, va richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, secondo il quale “le osservazioni presentate in occasione dell’adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento di formazione dello strumento medesimo, con conseguente assenza in capo all’Amministrazione a ciò competente di un obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione delle singole aree; pertanto, seppure l’Amministrazione è tenuta ad esaminare le osservazioni pervenute, non può però essere obbligata ad una analitica confutazione di ciascuna di esse, essendo sufficiente per la loro reiezione il mero contrasto con i principi ispiratori del piano” (TAR Lombardia, Milano, II, 30.03.2017, n. 761; 30.11.2016, n. 2271; altresì, TAR Toscana, I, 06.09.2016, n. 1317; TAR Lombardia, Milano, II, 26.07.2016, n. 1505).
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La più recente evoluzione giurisprudenziale ha evidenziato che “all’interno della pianificazione urbanistica possano trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi” (così, Consiglio di Stato, IV, 21.12.2012, n. 6656). E ciò in quanto l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’articolo 9 della Costituzione; in tale contesto spetta all’Ente esponenziale effettuare una mediazione tra i predetti valori e gli altri interessi coinvolti, quali quelli della produzione o delle attività antropiche più in generale, che comunque non possono ritenersi equiordinati in via assoluta (cfr. Consiglio di Stato, IV, 10.05.2012, n. 2710; altresì, 22.02.2017, n. 821; 13.10.2015, n. 4716).
In tale prospettiva, deve pure sottolinearsi che, per costante giurisprudenza, la destinazione di un’area a verde agricolo non implica necessariamente che la stessa soddisfi in modo diretto e immediato interessi agricoli, ben potendo giustificarsi con le esigenze dell’ordinato governo del territorio, quale la necessità di impedire ulteriori edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando la quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell’espansione dell’aggregato urbano, come accade nella fattispecie de qua (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, IV, 12.02.2013, n. 830; 16.11.2011, n. 6049; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2017, n. 451).
A questo proposito, è poi utile aggiungere che, anche laddove si fosse al cospetto di aree ampiamente urbanizzate, non per questo se ne può escludere la rilevanza dal punto di vista ambientale, poiché tali dati di fatto si prestano anzi a far emergere un interesse alla conservazione del suolo inedificato, per ragioni di compensazione ambientale (TAR Lombardia, Milano, II, 21.02.2017, n. 434).
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L’implementazione introdotta nella fase di approvazione –ossia la previsione della rete ecologica regionale (cfr. all. 11 al ricorso)– è il risultato della necessità di recepire le indicazioni contenute in provvedimenti di Autorità sovraordinate e che per legge integrano il P.G.T., come le prescrizioni di provenienza regionale. In tali casi trova applicazione l’art. 13, comma 9, della legge regionale n. 12 del 2005 che esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di approvazione di “… controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali …”.
Del resto, nessuna disposizione impone di concedere nuovi termini per la presentazione di ulteriori osservazioni, laddove non sia stato dimostrato, come nella controversia de qua, che fra la fase di adozione e quella di approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione (cfr., in tal senso, TAR Lombardia, Milano, II, 05.04.2017, n. 798)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.06.2017 n. 1371  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di bellezze paesaggistiche - Luogo soggetto a vincolo paesaggistico - Configurabilità del reato di cui all'articolo 734 cod. pen. - Elementi - Alterate o turbate le visioni di bellezza estetica e panoramica - Artt. 181, co. 1-bis, d.lgs. n. 42/2004 e 734 cod. pen..
Le bellezze paesaggistiche sono il risultato di componenti varie (la conformazione del terreno, la vegetazione naturale, la distribuzione, il tipo e l'ubicazione dei fabbricati esistenti, il paesaggio e la cornice complessiva), per cui anche il semplice spianamento del terreno e la distruzione della vegetazione integrano il reato di cui all'articolo 734 cod. pen. (Cass. Sez. 3, n. 1803 del 02/12/1981 - dep. 19/02/1982, Marcon).
Inoltre, per la realizzazione del reato previsto dall'art. 734 cod. pen., non è necessaria l'irreparabile distruzione o alterazione della bellezza naturale di un determinato luogo soggetto a vincolo paesaggistico, essendo sufficiente che, a causa delle nuove opere edilizie, siano in qualsiasi modo alterate o turbate le visioni di bellezza estetica e panoramica offerte dalla natura (Cass. Sez. 6, n. 11929 del 21/03/1977 - dep. 29/09/1977, Oricchio) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.06.2017 n. 30157 - tratto da e link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione urbanistica di "costruzione" - Interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio - Permesso di costruire - Artt. 10, 44, 53, 54, 62, 64, 65, 71, 72 e 75, 93, 94 e 95, d.P.R. n. 380/2001.
Costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire gli interventi di nuova costruzione. In tema di tutela del territorio, costituisce "costruzione" in senso tecnico-giuridico qualsiasi manufatto tridimensionale, comunque realizzato, che comporti una ben definita occupazione del terreno e dello spazio aereo (Sez. 3, n. 5624 del 17/11/2011 - dep. 14/02/2012, Trovato) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.06.2017 n. 30157 - tratto da e link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati urbanistici - Opere abusive - Responsabilità del proprietario non committente - Onere della prova - Elementi indiziari - Compartecipazione morale.
In tema di reati urbanistici, la prova della responsabilità del proprietario non committente delle opere abusive non può essere desunta esclusivamente dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, ma necessita di ulteriori elementi, sintomatici della sua compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto (quali la presentazione della domanda di condono edilizio, i rapporti di parentela o affinità tra esecutore materiale dell'opera e proprietario, la presenza di quest'ultimo "in loco" e lo svolgimento di attività di vigilanza nell'esecuzione dei lavori o il regime patrimoniale dei coniugi), è altrettanto vero, nel caso di specie, vi erano alcuni degli elementi sopra indicati (rapporti di parentela o affinità tra esecutore materiale dell'opera e proprietario; regime patrimoniale dei coniugi) che, aggiunti alla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo ed all'interesse specifico (e comune al coniuge dichiaratosi in via esclusiva committente) ad edificare la nuova costruzione, consentivano di ritenere provata detta compartecipazione morale (Cass. Sez. 3, n. 38492 del 16/09/2016, Avanzato) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.06.2017 n. 30157 - tratto da e link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Tettoia di copertura su un terrazzo di un immobile - Necessità del preventivo rilascio del permesso di costruire - Presupposti - Art. 44, c. 1, lett. b), d.P.R. n. 380/2001.
Integra il reato previsto dall'art. 44, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001 la realizzazione, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, di una tettoia di copertura che, non rientrando nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una propria individualità fisica e strutturale, costituisce parte integrante dell'edificio sul quale viene realizzata (Sez. 3, n. 42330 del 26/06/2013, Salanitro e altro, Rv. 257290).
Tettoia di copertura di un terrazzo - Pertinenza - Requisito della individualità fisica e strutturale - Nozione tecnico-giuridica di pertinenza in urbanistica.
La costruzione di una tettoia di copertura di un terrazzo di un immobile non può infatti qualificarsi come pertinenza, in quanto si tratta di un'opera priva del requisito della individualità fisica e strutturale propria della pertinenza, costituendo parte integrante dell'edificio sul quale viene realizzata, rappresentandone un ampliamento. Essa pertanto, in difetto del preventivo rilascio del permesso di costruire, integra il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 40843 del 11/10/2005, Daniele).
Infatti, deve ritenersi che la tettoia di un edificio non rientra nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza, ma costituisce piuttosto parte dell'edificio cui aderisce: ciò in quanto in urbanistica il concetto di pertinenza ha caratteristiche sue proprie, diverse da quelle definite dal codice civile, riferendosi ad un'opera autonoma dotata di una propria individualità, in rapporto funzionale con l'edificio principale, laddove la parte dell'edificio appartiene senza autonomia alla sua struttura (Sez. 3, n. 17083 del 07/04/2006, Miranda e altro).
Costituisce quindi nuova costruzione ai sensi del d.P.R. n. 380 del 2001 qualsiasi manufatto edilizio fuori terra o interrato. Né può farsi ricorso alla nozione di ampliamento dell'edificio preesistente, trattandosi di nuova costruzione, sia pure accessoria a detto edificio (così, complessivamente, Sez. 3, n. 21351 del 06/05/2010, Savino).
Natura precaria delle opere di chiusura e di copertura di spazi e superfici - Esclusione di concessione e/o autorizzazione - Criterio strutturale e non funzionale - Facile rimovibilità dell'opera - Presupposti e limiti - Art. 20 L.R. Sicilia n. 4/2003 - Giurisprudenza.
La natura precaria delle opere di chiusura e di copertura di spazi e superfici, per le quali l'art. 20 della legge Regione Sicilia n. 4 del 2003 non richiede concessione e/o autorizzazione, va intesa secondo un criterio strutturale, ovvero nel senso della facile rimovibilità dell'opera, e non funzionale, ossia con riferimento alla temporaneità e provvisorietà dell'uso, sicché tale disposizione, di carattere eccezionale, non può essere applicata al di fuori dei casi ivi espressamente previsti (Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, Gulizzi; conf. Sez. 3, n. 16492 del 16/03/2010, Pennisi; Sez. 3, n. 35011 del 26/04/2007, Camarda).
Ed in specie, proprio per le accertate dimensioni non trascurabili del manufatto posto alla sommità dell'edificio, la normativa regionale non deve ritenersi applicabile (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.06.2017 n. 30121 - tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 133, c. 1, lett. b) ed f), c.p.a. ha espressamente salvaguardato la giurisdizione del T.s.a.p., regolata dalla previgente normativa, di cui al R.D. n. 1775/1933, estesa anche ai provvedimenti che, pur se promananti da autorità diverse da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, concorrendo, in concreto, a disciplinare la realizzazione, la localizzazione, la gestione, e l'esercizio delle opere idrauliche.
In particolare, la cognizione del T.S.A.P. si estende anche ai casi in cui il provvedimento amministrativo, pur incidendo su interessi più generali e diversi rispetto a quelli specifici relativi alla demanialità delle acque, ed ai rapporti dei concessionari dei beni del demanio idrico, attiene comunque all'utilizzazione degli stessi, interferendo, immediatamente e direttamente, su opere destinate a tale utilizzazione, comprendendo quindi i ricorsi proposti avverso i provvedimenti che, come quello per cui è causa, hanno un'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, e che concorrono, in concreto, a disciplinare la realizzazione, la localizzazione, la gestione e l'esercizio delle opere idrauliche, restando invece escluse da tale giurisdizione solo le controversie in cui tale incidenza si manifesta in via del tutto marginale o riflessa.

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In via preliminare, il Collegio deve scrutinare l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, in favore di quella del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, sollevata dalla difesa regionale, e su cui la ricorrente non ha replicato alcunché, che risulta fondata.
L'art. 133, c. 1, lett. b) ed f), c.p.a. ha infatti espressamente salvaguardato la giurisdizione del T.s.a.p., regolata dalla previgente normativa, di cui al R.D. n. 1775/1933, estesa anche ai provvedimenti che, pur se promananti da autorità diverse da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, come nella fattispecie per cui è causa, siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, concorrendo, in concreto, a disciplinare la realizzazione, la localizzazione, la gestione, e l'esercizio delle opere idrauliche (TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 27.12.2011, n. 854).
In particolare, la cognizione del T.S.A.P. si estende anche ai casi in cui il provvedimento amministrativo, pur incidendo su interessi più generali e diversi rispetto a quelli specifici relativi alla demanialità delle acque, ed ai rapporti dei concessionari dei beni del demanio idrico, attiene comunque all'utilizzazione degli stessi, interferendo, immediatamente e direttamente, su opere destinate a tale utilizzazione, comprendendo quindi i ricorsi proposti avverso i provvedimenti che, come quello per cui è causa, hanno un'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, e che concorrono, in concreto, a disciplinare la realizzazione, la localizzazione, la gestione e l'esercizio delle opere idrauliche, restando invece escluse da tale giurisdizione solo le controversie in cui tale incidenza si manifesta in via del tutto marginale o riflessa (TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, 09.06.2015, n. 235, Cass. Civ., Sez. Un., 25.10.2013, n. 24154).
In conclusione, il presente ricorso va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, in favore del Tribunale Superiore delle Acque, presso il quale il presente giudizio potrà essere riproposto, entro il termine di cui all’art. 11, c. 2, c.p.a. (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.06.2017 n. 1232 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl danno da perdita di chance (che è da intendersi quale lesione della concreta occasione favorevole di conseguire un determinato bene, che non è mera aspettativa di fatto, ma entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione) può essere in concreto ravvisato e risarcito solo con specifico riguardo al grado di probabilità che in concreto il richiedente avrebbe avuto di conseguire il bene della vita e, cioè, in ragione della maggiore o minore probabilità dell'occasione perduta, con conseguente necessità di distinguere, fra probabilità di riuscita, che va considerata quale “chance risarcibile” e mera possibilità di conseguire l'utilità sperata, da ritenersi “chance irrisarcibile”.
Il risarcimento del danno da perdita di chance richiede infatti l'accertamento di indefettibili presupposti di certezza dello stesso danno, dovendo viceversa escludersi tale risarcimento nel caso in cui l'atto, ancorché illegittimo, abbia determinato solo la perdita di una "eventualità" di conseguimento del bene della vita.
Comunque è da rilevare che, in caso di domanda di risarcimento danni per perdita di chance, incombe sulla parte ricorrente l'onere di provare, anche facendo ricorso a presunzioni ed al calcolo delle probabilità, l'esistenza della richiamata probabilità di conseguimento del risultato sperato.
Non sono dovuti neppure i danni, pure richiesti, connessi ai costi per la partecipazione alla selezione, in quanto, per consolidato indirizzo giurisprudenziale, tali costi costituiscono una voce di spesa che resta comunque a carico del partecipante.
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E. – Deve, comunque, essere esaminata la domanda risarcitoria, sulla quale fa leva parte ricorrente al fine di mantenere integra la sua posizione di interesse.
La predetta ha chiesto il risarcimento dei danni da perdita di chance per l’ipotesi in cui non riesca ad ottenere l’aggiudicazione del servizio (avente durata annuale), a causa del mancato espletamento della procedura; circostanza ormai verificatasi.
La domanda risarcitoria non può trovare accoglimento.
Invero, sebbene deve darsi atto che il Comune, un volta pubblicato l’avviso –e, quindi, ritenuto di avviare una procedura trasparente per l’individuazione dei destinatari dell’incarico- ha poi deviato da tale paradigma, affidando l’incarico al precedente difensore senza dare adeguata contezza delle ragioni, né indicare una minima attività valutativa dei curricula di tutti gli aspiranti, deve tuttavia rilevarsi la carenza di prova di taluni degli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano (danno; nesso di causalità).
E’ stato rilevato che “il danno da perdita di chance (che è da intendersi quale lesione della concreta occasione favorevole di conseguire un determinato bene, che non è mera aspettativa di fatto, ma entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione) può essere in concreto ravvisato e risarcito solo con specifico riguardo al grado di probabilità che in concreto il richiedente avrebbe avuto di conseguire il bene della vita e, cioè, in ragione della maggiore o minore probabilità dell'occasione perduta (Consiglio di Stato, sez. V, 30.06.2015, n. 3249), con conseguente necessità di distinguere, fra probabilità di riuscita, che va considerata quale “chance risarcibile” e mera possibilità di conseguire l'utilità sperata, da ritenersi “chance irrisarcibile” (Consiglio di Stato, sez. IV, 23.06.2015, n. 3147).
Il risarcimento del danno da perdita di chance richiede infatti l'accertamento di indefettibili presupposti di certezza dello stesso danno, dovendo viceversa escludersi tale risarcimento nel caso in cui l'atto, ancorché illegittimo, abbia determinato solo la perdita di una "eventualità" di conseguimento del bene della vita (Consiglio di Stato, sez. IV, 20.01.2015, n. 131).
Comunque è da rilevare che, in caso di domanda di risarcimento danni per perdita di chance, incombe sulla parte ricorrente l'onere di provare, anche facendo ricorso a presunzioni ed al calcolo delle probabilità, l'esistenza della richiamata probabilità di conseguimento del risultato sperato (Consiglio di Stato, sez. IV, 23.06.2015, n. 3147)
” (Consiglio di Stato, Sez. V, 22.09.2015, n. 4431; nello stesso senso: Consiglio di Stato, Sez. IV, 07.01.2013, n. 23).
Nel caso in esame la ricorrente non ha prospettato alcun elemento, né ha allegato alcuna circostanza dalla quale far discendere un giudizio probabilistico e comparativo nei confronti dei partecipanti alla procedura: si presenta, pertanto, debole la prova della stessa probabilità (meno che mai rilevante) di conseguimento del bene della vita, di cui la predetta non fornisce alcun dato, venendo dunque in rilievo una “mera eventualità di conseguimento dello stesso bene della vita” (v. Consiglio di Stato n. 23/2013 cit.; TAR Emilia Romagna, Parma, Sez. I, 06.02. 2017, n. 40).
Deve, inoltre, rilevarsi che la mancata impugnazione degli atti di affidamento dell’incarico in interesse all’avv. An. –su cui ci si è soffermati nel superiore punto D)- ha quantomeno contribuito ad elidere il nesso di causalità tra la condotta tenuta dall’ente locale e il danno asseritamente subito dalla ricorrente.
Non sono dovuti neppure i danni, pure richiesti, connessi ai costi per la partecipazione alla selezione, in quanto, per consolidato indirizzo giurisprudenziale, tali costi costituiscono una voce di spesa che resta comunque a carico del partecipante (v. Consiglio di Stato, Sez. VI, 17.02.2017, n. 731).
La domanda risarcitoria deve, quindi, essere respinta (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 15.05.2017 n. 1316 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAlla luce di un consolidato orientamento giurisprudenziale, nel caso di impugnazione di un’ordinanza di demolizione non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contradditorio, atteso che la qualifica di controinteressato va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato (e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse), ma solo a coloro i quali dal provvedimento stesso ricevano un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica.
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Al fine di individuare i soggetti potenziali destinatari della sanzione demolitoria e, più in generale, dell’ordine di ripristino dello stato dei luoghi, l’art. 31, comma 2, del D.P.R. 380/2001 non opera alcuna distinzione fra proprietario e responsabile dell’abuso: in materia edilizia, la misura dell’ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi, che consegue all’accertamento del carattere illegittimo di un manufatto realizzato senza titolo o in sua difformità, ha carattere reale, in quanto è volta non già a sanzionare il comportamento ma principalmente a ripristinare l’ordine materiale (prima ancora che giuridico), alterato a mezzo della sopravvenienza oggettiva del manufatto privo di un giusto titolo.
In altri termini, siccome non si tratta di punire una condotta ma di adottare una misura di ricomposizione dell’ordine urbanistico –che ha di mira l’eliminazione degli effetti materiali dell’avvenuta sua ingiustificata alterazione– la misura demolitoria è opponibile anche a soggetti estranei al comportamento illecito.
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In linea generale, la repressione degli illeciti urbanistico-edilizi costituisce attività strettamente vincolata e non soggetta nemmeno a termini di decadenza o di prescrizione, potendo la misura demolitoria intervenire in ogni tempo, anche a notevole distanza dall'epoca della commissione dell'abuso: infatti, l'illecito edilizio ha carattere permanente e si protrae, conservandosi nel tempo l'interesse pubblico al ripristino dell'ordine violato, il quale è sempre prevalente sull’aspirazione del privato al mantenimento dell'opera.
I provvedimenti sanzionatori sono dunque sufficientemente motivati con riferimento all’oggettivo riscontro dell’abusività degli interventi ed alla sicura assoggettabilità di questi al regime dei titoli abilitativi, e l’ordine di demolizione di opere edilizie illecitamente eseguite è atto dovuto e rigorosamente vincolato, in ordine al quale non sono neppure richiesti apporti partecipativi del destinatario.
Infine, colui che realizza un abuso edilizio non può dolersi del fatto che l'amministrazione lo abbia inizialmente avvantaggiato, non esercitando il potere sanzionatorio di cui è titolare o esercitandolo in misura meno afflittiva di quanto avrebbe dovuto, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore “contra legem”.
In definitiva, non si rivela necessario specificare ulteriori ragioni giustificatrici, salvo lo specifico caso di un lungo lasso di tempo trascorso dalla conoscenza dell’abuso edilizio da parte dell’Ente locale preposto alla vigilanza e del protrarsi della sua inerzia, tali da evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo affidamento del privato.
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La società ricorrente censura il provvedimento del Responsabile del Servizio in data 17/05/2010, recante l’intimazione a demolire opere edilizie abusive e a ripristinare lo stato dei luoghi.
0. Deve essere rigettata l’eccezione, sollevata dal Comune, di inammissibilità del ricorso per omessa notifica a uno dei controinteressati (proprietario confinante, ovvero qualsivoglia Associazione portatrice di interessi collettivi a salvaguardia del patrimonio paesaggistico).
Alla luce di un consolidato orientamento giurisprudenziale, nel caso di impugnazione di un’ordinanza di demolizione non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contradditorio, atteso che la qualifica di controinteressato va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato (e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse), ma solo a coloro i quali dal provvedimento stesso ricevano un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica (cfr. TAR Lazio Roma, sez. I-quater – 0903/2017 n. 3273; TAR Calabria Catanzaro, sez. II – 30/12/2016 n. 2561; Consiglio di Stato, sez. VI – 19/01/2016 n. 168).
Nel merito il gravame è parzialmente fondato, per le ragioni di seguito precisate.
0.1 Va premesso anzitutto che, al fine di individuare i soggetti potenziali destinatari della sanzione demolitoria e, più in generale, dell’ordine di ripristino dello stato dei luoghi, l’art. 31, comma 2, del D.P.R. 380/2001 non opera alcuna distinzione fra proprietario e responsabile dell’abuso: in materia edilizia, la misura dell’ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi, che consegue all’accertamento del carattere illegittimo di un manufatto realizzato senza titolo o in sua difformità, ha carattere reale, in quanto è volta non già a sanzionare il comportamento ma principalmente a ripristinare l’ordine materiale (prima ancora che giuridico), alterato a mezzo della sopravvenienza oggettiva del manufatto privo di un giusto titolo (Consiglio di Stato, sez. VI – 15/04/2015 n. 1927).
In altri termini, siccome non si tratta di punire una condotta ma di adottare una misura di ricomposizione dell’ordine urbanistico –che ha di mira l’eliminazione degli effetti materiali dell’avvenuta sua ingiustificata alterazione– la misura demolitoria è opponibile anche a soggetti estranei al comportamento illecito (TAR Puglia Lecce, sez. III – 20/06/2016 n. 995 che richiama la pronuncia del Consiglio di Stato appena citata; TAR Calabria Reggio Calabria – 20/01/2017 n. 47).
1. Il primo motivo è privo di pregio giuridico.
1.1 Oltre a quanto appena illustrato, osserva il Collegio che, in linea generale, la repressione degli illeciti urbanistico-edilizi costituisce attività strettamente vincolata e non soggetta nemmeno a termini di decadenza o di prescrizione, potendo la misura demolitoria intervenire in ogni tempo, anche a notevole distanza dall'epoca della commissione dell'abuso (Consiglio di Stato, sez. VI – 05/05/2016 n. 1774): infatti, l'illecito edilizio ha carattere permanente e si protrae, conservandosi nel tempo l'interesse pubblico al ripristino dell'ordine violato, il quale è sempre prevalente sull’aspirazione del privato al mantenimento dell'opera.
1.2 I provvedimenti sanzionatori sono dunque sufficientemente motivati con riferimento all’oggettivo riscontro dell’abusività degli interventi ed alla sicura assoggettabilità di questi al regime dei titoli abilitativi, e l’ordine di demolizione di opere edilizie illecitamente eseguite è atto dovuto e rigorosamente vincolato, in ordine al quale non sono neppure richiesti apporti partecipativi del destinatario (Consiglio di Stato, sez. IV – 12/10/2016 n. 4205).
Infine, colui che realizza un abuso edilizio non può dolersi del fatto che l'amministrazione lo abbia inizialmente avvantaggiato, non esercitando il potere sanzionatorio di cui è titolare o esercitandolo in misura meno afflittiva di quanto avrebbe dovuto, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore “contra legem” (Consiglio di Stato, sez. VI – 13/12/2016 n. 5256; si veda anche sentenza Sez. I di questo TAR 21/11/2014 n. 1282, che risulta appellata ma la domanda cautelare è stata motivatamente respinta dal Consiglio di Stato con ordinanza della sez. VI – 15/07/2015 n. 3163).
1.3 In definitiva, non si rivela necessario specificare ulteriori ragioni giustificatrici, salvo lo specifico caso di un lungo lasso di tempo trascorso dalla conoscenza dell’abuso edilizio da parte dell’Ente locale preposto alla vigilanza e del protrarsi della sua inerzia, tali da evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo affidamento del privato (cfr. TAR Campania Napoli, sez. II – 09/01/2017 n. 201; sentenza sez. I – 27/03/2017 n. 425).
Nella fattispecie, tuttavia, non è configurabile la deroga appena citata, dato che l’abuso risulta accertato dall’autorità comunale, nella sua effettiva consistenza, in occasione del sopralluogo effettuato dall’Ufficio tecnico il 03/11/2009, poco tempo prima dell’emanazione del provvedimento impugnato (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 26.04.2017 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ assolutamente pacifico in giurisprudenza che l’onere di provare la preesistenza rispetto ad una data di riferimento (con “ragionevole certezza”) incombe esclusivamente all’interessato, unico ad averne la disponibilità: è dunque il proprietario (o il responsabile dell'abuso) assoggettato a ingiunzione di demolizione che ha l’onere di dimostrare il carattere risalente del manufatto della cui demolizione si tratta con riferimento a epoca anteriore alla c.d. Legge "ponte" n. 765 del 1967, con la quale l'obbligo di previa licenza edilizia venne esteso alle costruzioni realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano.
E’ stato tuttavia introdotto un temperamento secondo ragionevolezza nel caso in cui, il privato da un lato porti a sostegno della propria tesi sulla realizzazione dell’intervento prima del 1967 elementi non implausibili e, dall’altro, il Comune fornisca elementi incerti in ordine alla presumibile data della realizzazione del manufatto privo di titolo edilizio, o con variazioni essenziali sulla base del combinato disposto di cui agli articoli 32 e 10 del D.P.R. 327 del 2001.
Il Collegio ritiene di valorizzare la dichiarazione dell’attuale proprietario dei manufatti, il quale dal 07/06/2005 ha la disponibilità dei manufatti e ha fornito puntuali chiarimenti innanzi agli agenti di polizia giudiziaria. Contrariamente a quanto sostiene parte ricorrente nella memoria di replica sull’utilizzabilità delle suddette dichiarazioni nel processo, questo TAR (pronunciandosi in materia di legalizzazione del rapporto di lavoro irregolare dei cittadini stranieri) ha ripetutamente affermato che le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio alla polizia giudiziaria fanno fede in ordine agli elementi di fatto rilevanti nel procedimento.
In materia, i giudici d’appello hanno sottolineato che “le dichiarazioni rilasciate dal datore di lavoro agli ufficiali di polizia giudiziaria, ancorché non rese nella forma dell’interrogatorio, sono assistite da una fede privilegiata ed hanno una valenza probatoria particolarmente forte, in quanto esse, per l’immediatezza della forma orale e per l’autorevolezza del destinatario qualificato, assicurano una genuinità ben maggiore di eventuali successive dichiarazioni di parte, scritte a freddo e in funzione eventualmente difensiva, anche in sede procedimentale o in prospettiva di un eventuale contenzioso”.

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2. Il secondo motivo è parzialmente fondato. Esso in particolare investe i 2 box in lamiera, il manufatto adibito a bagno, la struttura con copertura in lamiera, il deposito in muratura e il barbecue in muratura, i quali sarebbero stati realizzati da tempo immemorabile e comunque in data anteriore all’01/09/1967, potendo così essere ricondotti alla cosiddetta attività edilizia libera.
2.1 E’ assolutamente pacifico in giurisprudenza (TAR Veneto, sez. II – 02/02/2017 n. 121 e l’ampia giurisprudenza citata, tra cui Consiglio di Stato, sez. V – 20/08/2013 n. 4182) che l’onere di provare la preesistenza rispetto ad una data di riferimento (con “ragionevole certezza”) incombe esclusivamente all’interessato, unico ad averne la disponibilità: è dunque il proprietario (o il responsabile dell'abuso) assoggettato a ingiunzione di demolizione che ha l’onere di dimostrare il carattere risalente del manufatto della cui demolizione si tratta con riferimento a epoca anteriore alla c.d. Legge "ponte" n. 765 del 1967, con la quale l'obbligo di previa licenza edilizia venne esteso alle costruzioni realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano.
2.2 E’ stato tuttavia introdotto un temperamento secondo ragionevolezza nel caso in cui, il privato da un lato porti a sostegno della propria tesi sulla realizzazione dell’intervento prima del 1967 elementi non implausibili e, dall’altro, il Comune fornisca elementi incerti in ordine alla presumibile data della realizzazione del manufatto privo di titolo edilizio, o con variazioni essenziali sulla base del combinato disposto di cui agli articoli 32 e 10 del D.P.R. 327 del 2001 (Consiglio di Stato, sez. VI – 18/07/2016 n. 3177).
2.3 Il Collegio ritiene di valorizzare la dichiarazione dell’attuale proprietario dei manufatti -OMISSIS- -OMISSIS-, il quale dal 07/06/2005 ha la disponibilità dei manufatti e ha fornito puntuali chiarimenti innanzi agli agenti di polizia giudiziaria. Contrariamente a quanto sostiene parte ricorrente nella memoria di replica sull’utilizzabilità delle suddette dichiarazioni nel processo, questo TAR (pronunciandosi in materia di legalizzazione del rapporto di lavoro irregolare dei cittadini stranieri) ha ripetutamente affermato –richiamandosi all’avviso manifestato dal Consiglio di Giustizia Amministrativa della Sicilia (cfr. 08/10/2013 n. 753)– che le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio alla polizia giudiziaria fanno fede in ordine agli elementi di fatto rilevanti nel procedimento (in quel caso, regolarizzazione ex lege 102/2009: sentenze brevi sez. II – 11/02/2014 n. 142; 14/04/2014 n. 384; 29/05/2014 n. 579; 29/07/2014 n. 858; 29/10/2016 n. 1417).
In materia, i giudici d’appello hanno sottolineato che “le dichiarazioni rilasciate dal datore di lavoro agli ufficiali di polizia giudiziaria, ancorché non rese nella forma dell’interrogatorio, sono assistite da una fede privilegiata ed hanno una valenza probatoria particolarmente forte, in quanto esse, per l’immediatezza della forma orale e per l’autorevolezza del destinatario qualificato, assicurano una genuinità ben maggiore di eventuali successive dichiarazioni di parte, scritte a freddo e in funzione eventualmente difensiva, anche in sede procedimentale o in prospettiva di un eventuale contenzioso” (cfr. Consiglio di Stato, sez. III – 21/08/2015 n. 3976).
Nella fattispecie, la credibilità delle dichiarazioni è rafforzata dalla provenienza dal proprietario attuale e dalla loro acquisizione nell’imminenza della scoperta dei fatti: il Sig. -OMISSIS- ha dal giugno 2005 la disponibilità dei beni ed è in grado di ricostruirne le dinamiche. Peraltro, l’opposta versione proveniente dalla difesa di parte ricorrente è suffragata da una generica dichiarazione a sommarie informazioni del precedente titolare Gi.Fr., il quale fa riferimento a “manufatti esistenti da tempo” senza ulteriori specificazioni, con la sola eccezione del “casotto” che avrebbe ospitato un incontro di Benito Mussolini. Le 3 dichiarazioni di atto notorio affermano che i manufatti elencati risalgono a data anteriore al 1967, e tuttavia (rispetto alle precedenti) non sono assistite da fede privilegiata.
2.4 Peraltro, il Collegio ritiene che l’esaustiva ricostruzione del Sig. -OMISSIS- permetta di addivenire a conclusioni differenziate. In particolare, l’interessato ammette lo spostamento del box in lamiera già esistente nel 2007, la ristrutturazione del bagno in muratura nello stesso anno, la modifica della copertura in lamiera nel 2006 (da plastica in lamiera coibentata) e ristrutturazione del box (in muratura) adibito a cantina nel 2007. La provenienza delle affermazioni dal proprietario e la forma delle stesse (sono state rese innanzi agli agenti di p.g.) le rende sufficientemente attendibili, come già argomentato al precedente paragrafo 2.3.
Dunque, per tali 4 manufatti la natura risalente è smentita dalla testuali asserzioni dell’acquirente, il quale ha eseguito interventi significativi (di traslazione, ristrutturazione, rifacimento dei connotati essenziali) che precludono la loro sottoposizione al regime anteriore al 1967: si tratta, ad avviso del Collegio, di modifiche sensibili che connotano di novità le opere, per cui l’interessato non può avvantaggiarsi della normativa vigente molti anni orsono.
2.5 Un ragionamento differente deve essere condotto per il box in lamiera contenente un tavolo, 4 sedie, una credenza un frigorifero e un lavandino, la struttura in ferro (4 tubolari adibiti a supporto per piante rampicanti) e il barbecue in mattoni, che l’attuale proprietario riferisce essere stati già presenti al momento dell’acquisto. A fronte di tali affermazioni, e delle concordanti dichiarazioni sostitutive di atto notorio depositate dalla parte ricorrente, si può ritenere che tali univoci elementi rendano plausibile (o comunque suscettibile di ulteriori approfondimenti) l’esecuzione delle opere prima del 1967.
Rispetto a tali manufatti, dunque, la pretesa di parte ricorrente merita accoglimento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 26.04.2017 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza è concorde che per individuare la natura precaria di un'opera si debba seguire non il criterio strutturale (che apprezza la stabilità dell’ancoraggio al suolo), ma il criterio funzionale, per cui per cui se un intervento è realizzato per soddisfare esigenze che non sono temporanee non può beneficiare del regime proprio delle opere precarie anche quando queste sono state realizzate con materiali facilmente amovibili: la possibilità di prescindere da un titolo edilizio ricorre unicamente in presenza di manufatti destinati a soddisfare necessità contingenti e che si prestino ad essere prontamente rimossi al loro cessare.
In buona sostanza si è chiarito che “La ‘precarietà’ dell’opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire (ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera e.5, D.P.R. n. 380 del 2001), postula infatti un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo. Non possono, infatti, essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un'utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante ….”.
La stalletta per le capre è un manufatto permanente, a prescindere dall’ancoraggio al suolo e dunque necessita del permesso di costruire (e alle stesse conclusioni si deve pervenire per quanto concerne i muri di contenimento).

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3. Per l’ulteriore profilo, (e posto che è stata già esaminata al paragrafo precedente la struttura a sostegno dei rampicanti), la stalletta per le capre è di recente realizzazione (come da dichiarazione del Sig. -OMISSIS-), così come la recinzione metallica (per la quale tuttavia si rinvia al paragrafo successivo), il muro di contenimento in cemento e il muro di contenimento in traversine di legno. Ad avviso dell’esponente, le opere descritte non sarebbero qualificabili come costruzioni, avendo caratteristiche non particolarmente importanti che le rendono assoggettabili a DIA e non a permesso di costruire.
Detta impostazione non è condivisibile.
3.1 In linea generale, la giurisprudenza è concorde nel senso che per individuare la natura precaria di un'opera si debba seguire non il criterio strutturale (che apprezza la stabilità dell’ancoraggio al suolo), ma il criterio funzionale, per cui per cui se un intervento è realizzato per soddisfare esigenze che non sono temporanee non può beneficiare del regime proprio delle opere precarie anche quando queste sono state realizzate con materiali facilmente amovibili (cfr. ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. VI – 21/02/2017 n. 795): la possibilità di prescindere da un titolo edilizio ricorre unicamente in presenza di manufatti destinati a soddisfare necessità contingenti e che si prestino ad essere prontamente rimossi al loro cessare (TAR Emilia Romagna Parma – 29/12/2016 n. 384).
In buona sostanza si è chiarito che “La ‘precarietà’ dell’opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire (ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera e.5, D.P.R. n. 380 del 2001), postula infatti un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo. Non possono, infatti, essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un'utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante ….” (TAR Lombardia Milano, sez. II – 04/08/2016 n. 1567 e la giurisprudenza ivi citata).
La stalletta per le capre è un manufatto permanente, a prescindere dall’ancoraggio al suolo e dunque necessita del permesso di costruire (e alle stesse conclusioni si deve pervenire per quanto concerne i muri di contenimento) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 26.04.2017 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In via generale, la posa di una recinzione –manufatto essenzialmente destinato a delimitare una determinata proprietà allo scopo di separarla dalle altre, di custodirla e difenderla da intrusioni– è solo diretta a far valere lo ius excludendi alios che costituisce il contenuto tipico del diritto dominicale, e per pacifica giurisprudenza persino la presenza di un vincolo dello strumento pianificatorio non può incidere (di per sé) negativamente sulla potestà del dominus di chiudere in qualunque tempo il proprio fondo ai sensi dell’art. 841 del c.c..
E’ stato osservato che il titolo abilitativo edilizio non è necessario per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno (senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti il manufatto rientra appunto tra le manifestazioni del diritto di proprietà che comprende lo "jus excludendi alios".
Solamente la recinzione che presenti un elevato impatto urbanistico deve essere preceduta da un titolo abilitativo del Comune, mentre tale atto non risulta necessario in presenza di trasformazioni che –per l'utilizzo di materiale di scarso impatto visivo e per le dimensioni dell'intervento– non comportino un'apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale: la distinzione tra esercizio dello jus aedificandi e dello jus excludendi alios va rintracciata quindi nella verifica concreta delle caratteristiche del manufatto..
È quindi al tipo di recinzione in concreto che occorre guardare per stabilire se si tratti dell’uno o dell’altro tipo di manufatto: un esempio del secondo tipo è la modesta recinzione di fondo rustico senza opere murarie, con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno; occorre, invece, la concessione, quando la recinzione è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica.
Nella fattispecie esaminata, il posizionamento di una semplice rete metallica priva di basamento in calcestruzzo la rende (potenzialmente) legittima anche in assenza di titolo abilitativo, per cui si rivela fondato il quarto motivo di ricorso, con le precisazioni che seguono. In proposito, il Comune è tenuto ad avviare un approfondimento istruttorio (coinvolgendo l’autorità preposta alla tutela del vincolo) per apprezzare in concreto le caratteristiche della recinzione.

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4. Sotto altro punto vista invece, in via generale, la posa di una recinzione –manufatto essenzialmente destinato a delimitare una determinata proprietà allo scopo di separarla dalle altre, di custodirla e difenderla da intrusioni– è solo diretta a far valere lo ius excludendi alios che costituisce il contenuto tipico del diritto dominicale, e per pacifica giurisprudenza persino la presenza di un vincolo dello strumento pianificatorio non può incidere (di per sé) negativamente sulla potestà del dominus di chiudere in qualunque tempo il proprio fondo ai sensi dell’art. 841 del c.c. (TAR Campania Napoli, sez. II – 04/02/2005 n. 803; TAR Lombardia Milano, sez. II – 11/02/2005 n. 367).
E’ stato osservato che il titolo abilitativo edilizio non è necessario per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno (senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti il manufatto rientra appunto tra le manifestazioni del diritto di proprietà che comprende lo "jus excludendi alios" (C.G.A. Sicilia, sez. consultive – 18/12/2013 n. 1548; TAR Campania Salerno, sez. II – 11/09/2015 n. 1902; TAR Umbria – 18/08/2016 n. 571 e la citata giurisprudenza).
4.1 Solamente la recinzione che presenti un elevato impatto urbanistico deve essere preceduta da un titolo abilitativo del Comune, mentre tale atto non risulta necessario in presenza di trasformazioni che –per l'utilizzo di materiale di scarso impatto visivo e per le dimensioni dell'intervento– non comportino un'apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale: la distinzione tra esercizio dello jus aedificandi e dello jus excludendi alios va rintracciata quindi nella verifica concreta delle caratteristiche del manufatto (cfr. TAR Campania Napoli, sez. III – 06/02/2015 n. 938, che risulta appellata e che richiama Consiglio di Stato, sez. V – 09/04/2013 n. 922).
È quindi al tipo di recinzione in concreto che occorre guardare per stabilire se si tratti dell’uno o dell’altro tipo di manufatto: un esempio del secondo tipo è la modesta recinzione di fondo rustico senza opere murarie, con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno; occorre, invece, la concessione, quando la recinzione è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica (TAR Toscana, sez. III – 27/02/2015 n. 320, che risulta appellata).
Nella fattispecie esaminata, il posizionamento di una semplice rete metallica priva di basamento in calcestruzzo la rende (potenzialmente) legittima anche in assenza di titolo abilitativo, per cui si rivela fondato il quarto motivo di ricorso, con le precisazioni che seguono. In proposito, il Comune è tenuto ad avviare un approfondimento istruttorio (coinvolgendo l’autorità preposta alla tutela del vincolo) per apprezzare in concreto le caratteristiche della recinzione (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 26.04.2017 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa l’acquisizione dell’area di sedime (prevista dal legislatore nel caso di manufatti abusivi, decorsi 90 giorni dall’ordine di demolizione senza che il provvedimento sia stato eseguito) la giurisprudenza è costante nell’escludere ciò solo nel caso in cui le opere non appartengano al proprietario dell’area, il quale non possa procedere alla loro demolizione.
Viceversa, constatata l’esistenza di un abuso edilizio, l’ordine di demolizione (e, in caso d’inottemperanza, l’acquisizione al patrimonio del Comune) è atto vincolato che non richiede alcuna specifica valutazione di ragioni d’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi, né comparazione con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione d’illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto: la sanzione della demolizione (cfr. artt. 31 ss. D.P.R. n. 380/2001) ha carattere reale, ossia colpisce la res abusiva, a prescindere dall’attuale titolarità del diritto di proprietà in capo a chi non sia autore dell’abuso.
D’altro canto, la giurisprudenza afferma che il proprietario non possessore può “evitare” gli effetti della eventuale inottemperanza all’ordine di demolizione da parte del possessore, dimostrando in sede procedimentale di non avere avuto (o di aver perduto) la concreta disponibilità dell’immobile, e di essere stato, pertanto, impossibilitato ad eseguire l’ingiunzione di demolizione.

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5. La quinta censura non è passibile di positivo scrutinio.
Secondo l’esponente, l’acquisizione dell’area di sedime (prevista dal legislatore nel caso di manufatti abusivi, decorsi 90 giorni dall’ordine di demolizione senza che il provvedimento sia stato eseguito) non sarebbe configurabile dal momento che la Società “Il Bo. sas” è divenuta proprietaria molto tempo dopo la realizzazione delle opere, per cui non può essere ritenuta responsabile dell’abuso e di conseguenza assoggettata alle previsioni di cui ai commi 3, 4 e 5 dell’art. 31.
Detto ordine di idee non merita condivisione.
5.1 La giurisprudenza è costante nell’escludere l’effetto di cui si discorre solo nel caso in cui le opere non appartengano al proprietario dell’area, il quale non possa procedere alla loro demolizione (cfr. sentenza Sezione 26/11/2015 n. 1593 e il precedente ivi citato).
Viceversa (come già osservato) constatata l’esistenza di un abuso edilizio, l’ordine di demolizione (e, in caso d’inottemperanza, l’acquisizione al patrimonio del Comune) è atto vincolato che non richiede alcuna specifica valutazione di ragioni d’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi, né comparazione con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione d’illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto: la sanzione della demolizione (cfr. artt. 31 ss. D.P.R. n. 380/2001) ha carattere reale, ossia colpisce la res abusiva, a prescindere dall’attuale titolarità del diritto di proprietà in capo a chi non sia autore dell’abuso (Consiglio di Stato, sez. VI – 06/03/2017 n. 1060).
5.2 D’altro canto, la giurisprudenza afferma che il proprietario non possessore può “evitare” gli effetti della eventuale inottemperanza all’ordine di demolizione da parte del possessore, dimostrando in sede procedimentale di non avere avuto (o di aver perduto) la concreta disponibilità dell’immobile, e di essere stato, pertanto, impossibilitato ad eseguire l’ingiunzione di demolizione (cfr. TAR Molise – 306/2016, che richiama TAR Sicilia, sez. II, 01/04/2015 n. 808).
Dette circostanze esulano, evidentemente, dalla situazione in esame.
6. La censura sull’erronea applicazione dell’art. 167 del D.Lgs. 42/2004 non interferisce con le conclusioni si qui raggiunte, alla luce del tempo di realizzazione delle opere. Per quelle più recenti, il profilo dell’esistenza del vincolo ambientale introduce un ulteriore dato ostativo al mantenimento del manufatto, mentre per quelle realizzate in epoca risalente (ove la circostanza sia confermata dal supplemento istruttorio demandato all’amministrazione) dovrà trovare applicazione il regime per tempo vigente (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 26.04.2017 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’obbligo della motivazione del provvedimento può ritenersi assolto quando la stessa risulti idonea a disvelare l’iter logico e procedimentale che consenta di inquadrare la fattispecie nell’ipotesi astratta considerata dalla legge.
Circa gli specifici rilievi che sarebbero stati trascurati, va sottolineato come non sia indispensabile sottoporre in via immediata a puntuale confutazione ciascuna obiezione mossa in sede procedimentale, purché dagli atti emerga un’istruttoria esaustiva su tutte le principali questioni tecnico-giuridiche sollevate.
Per giurisprudenza consolidata, “l’obbligo, ex art. 10 della legge n. 241/1990, di esame delle memorie e dei documenti difensivi presentati dagli interessati nel corso dell’iter procedimentale, non impone all’amministrazione una formale ed analitica confutazione di ogni argomento utilizzato dagli stessi, essendo sufficiente, alla luce dell’art. 3 della legge medesima, un’esternazione motivazionale che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione amministrativa alle deduzioni partecipative dei privati”.

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7. Non è meritevole di apprezzamento la doglianza afferente all’inosservanza degli artt. 3 e 10-bis della L. 241/1990.
L’obbligo della motivazione del provvedimento può ritenersi assolto quando, come nella specie, la stessa risulti idonea a disvelare l’iter logico e procedimentale che consenta di inquadrare la fattispecie nell’ipotesi astratta considerata dalla legge (peraltro, si richiamano le argomentazioni sviluppate al precedente paragrafo 1.2).
Circa gli specifici rilievi che sarebbero stati trascurati, va sottolineato come non sia indispensabile sottoporre in via immediata a puntuale confutazione ciascuna obiezione mossa in sede procedimentale, purché dagli atti emerga un’istruttoria esaustiva su tutte le principali questioni tecnico-giuridiche sollevate.
Per giurisprudenza consolidata, “l’obbligo, ex art. 10 della legge n. 241/1990, di esame delle memorie e dei documenti difensivi presentati dagli interessati nel corso dell’iter procedimentale, non impone all’amministrazione una formale ed analitica confutazione di ogni argomento utilizzato dagli stessi, essendo sufficiente, alla luce dell’art. 3 della legge medesima, un’esternazione motivazionale che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione amministrativa alle deduzioni partecipative dei privati” (TAR Campania Salerno, sez. II – 23/03/2017 n. 607).
Così è avvenuto nel caso affrontato, ove sono stati applicati principi pacifici in giurisprudenza (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 26.04.2017 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAOgni sanzione amministrativa, anche in materia edilizia, va comminata nei confronti del responsabile dell’abuso edilizio contestato, che ai sensi dell’art. 29 T.U. Edilizia non è soltanto il costruttore, ma anche il committente, mentre il proprietario non autore dell’abuso e non committente delle opere può ritenersi responsabile soltanto ove emerga un suo coinvolgimento doloso o colposo nella realizzazione dei lavori.
Ne discende, per tale profilo, l’illegittimità dell’ingiunzione di pagamento disposta nei confronti dei ricorrenti, che sono rimasti estranei alla commissione dell’abuso edilizio e non sono riconducibili ad alcuna delle figure tassativamente indicate dalla legge, non essendo titolari della concessione edilizia per la costruzione dell’immobile, né committenti, né costruttori, né direttori dei lavori.
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5. Il ricorso è fondato e va accolto, e viene definito con sentenza in forma semplificata alla luce di recenti decisioni della Sezione che si sono pronunciate su fattispecie analoghe a quella qui in esame in senso conforme alla tesi sostenuta dai ricorrenti con il secondo motivo di ricorso, che assume valore assorbente.
5.1. Si tratta delle sentenze n. 1204/2013 del 15.11.2013 e n. 500/17 del 13.04.2017. Ha osservato la Sezione che “Il secondo comma dell’art. 34 prevede, come è noto, l’applicazione della sanzione pecuniaria pari al doppio del costo di costruzione e non specifica espressamente in capo a quali soggetti la sanzione debba essere applicata.
La questione è tuttavia risolta in termini inequivoci dall’art. 29 del T.U. Edilizia, ai cui sensi possono essere sanzionati il titolare del permesso di costruire, il committente, il costruttore ed il direttore dei lavori, che sono responsabili “ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente capo”. L’ultimo periodo del primo comma dell’art. 29 specifica, poi, che essi soltanto sono “tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e solidalmente alle spese per l’esecuzione in danno, in caso di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell’abuso”.
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che ogni sanzione amministrativa, anche in materia edilizia, va comminata nei confronti del responsabile dell’abuso edilizio contestato, che ai sensi dell’art. 29 T.U. Edilizia non è soltanto il costruttore, ma anche il committente, mentre il proprietario non autore dell’abuso e non committente delle opere può ritenersi responsabile soltanto ove emerga un suo coinvolgimento doloso o colposo nella realizzazione dei lavori (cfr. TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 26.09.2007 n. 2205; TAR Lazio, Sez. I-quater, 10.05.2010 n. 10469).
Ne discende, per tale profilo, l’illegittimità dell’ingiunzione di pagamento disposta nei confronti dei ricorrenti, che sono rimasti estranei alla commissione dell’abuso edilizio e non sono riconducibili ad alcuna delle figure tassativamente indicate dalla legge, non essendo titolari della concessione edilizia per la costruzione dell’immobile, né committenti, né costruttori, né direttori dei lavori
”.
5.2. In senso analogo si è pronunciato anche TAR Liguria, sez. I, 05.07.2011, n. 1051 (in aggiunta ai precedenti già citati).
5.3. Tali principi, da cui il collegio non ha motivi per discostarsi, si attagliano perfettamente al caso qui in esame. Nel caso di specie, infatti, è pacifico che i ricorrenti non sono i soggetti responsabili dell’abuso accertato dall’amministrazione comunale, né rientrano tra i soggetti di cui all’art. 29 del D.P.R. n. 380/2001 (titolare del permesso di costruire, committente, costruttore, direttore dei lavori).
Essi hanno acquistato la proprietà delle rispettive unità immobiliari solo in anni recenti, tra il 1984 e il 2008, mentre l’abuso edilizio è stato posto in essere all’epoca di realizzazione dell’intero fabbricato, tra il 1973 e il 1974, e comunque certamente prima del 1984, come dimostra il primo atto pubblico di vendita posto in essere dai titolari della concessione edilizia, sig.ri Gi. e Ru., (atto a rogito Notaio Piacentino in data 28.06.1984, rep. n. 18858/7979, docc. 3 e 3-bis), che già aveva ad oggetto due unità immobiliari al piano terreno, in luogo dell’unica assentita dall’amministrazione, e due unità immobiliari al primo piano, nella stessa conformazione plano-volumetrica accertata attualmente dal Comune di Sangano e fatta oggetto del provvedimento sanzionatorio.
5.4. Da tali considerazioni discende, pertanto, l’illegittimità del provvedimento impugnato, il quale è stato adottato nei confronti di soggetti privi della qualificazione soggettiva richiesta dall’art. 34, comma 2, DPR 380/2001 ai fini dell’irrogazione della sanzione pecuniaria ivi prevista.
6. In conclusione, in accoglimento del secondo motivo di ricorso, va disposto l’annullamento del provvedimento impugnato (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 21.04.2017 n. 540 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’accatastamento assume rilievo soltanto ai fini fiscali, oltre ad essere rivolto all’Autorità Amministrativa Statale e non può in alcun modo surrogare i titoli abilitativi edilizi di spettanza dei Comuni (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 20.03.2009, n. 1954, per cui <<…l’accatastamento svolge una funzione di certificazione dello stato di fatto, ma non produce alcun effetto di regolarizzazione degli immobili>>).
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Ciò premesso, non sembra che possa seriamente essere messo in discussione il carattere abusivo delle modificazioni in corso d’opera realizzate sul progetto originario assentito nel 1952 a favore dei Fratelli Re., danti causa degli attuali ricorrenti.
Questi ultimi ammettono anche nel gravame di avere realizzato delle modifiche in corso d’opera, che qualificano come “di modesta entità” (cfr. pag. 3 del ricorso), anche se in realtà tali variazioni hanno determinato una modifica della sagoma, della superficie lorda di pavimento (slp), delle aperture in facciata ed un incremento della volumetria oltre gli indici di zona (cfr. ancora la relazione tecnica del 25.07.2012, doc. 2 del resistente).
Si tratta di interventi edilizi necessitanti di apposito titolo e non può essere ritenuta equipollente a quest’ultimo, come sembrano invece sostenere i ricorrenti, la mera presentazione della documentazione catastale.
L’accatastamento, infatti, assume rilievo soltanto ai fini fiscali, oltre ad essere rivolto all’Autorità Amministrativa Statale e non può in alcun modo surrogare i titoli abilitativi edilizi di spettanza dei Comuni (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 20.03.2009, n. 1954, per cui <<…l’accatastamento svolge una funzione di certificazione dello stato di fatto, ma non produce alcun effetto di regolarizzazione degli immobili>>).
La circostanza che le opere abusive fossero conformi alla normativa urbanistica ed edilizia esistente, quand’anche fosse veritiera, non esclude la necessità di un titolo abilitativo a sanatoria, sempre da rilasciarsi da parte del Comune
(TAR Lombardia, Sez. II, sentenza 30.03.2017 n. 857 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In omaggio al consolidato indirizzo giurisprudenziale, l’abuso edilizio costituisce illecito permanente, senza che il decorso del tempo privi il Comune del proprio potere/dovere di repressione dell’abuso, soprattutto nel caso di specie in cui l’autore dell’abuso è dante causa dei ricorrenti e le opere abusive –delle quali gli esponenti hanno ampiamente beneficiato nel corso degli anni- non appaiono certo, come già evidenziato, modeste o minimali, visto l’aumento di slp e di volume dell’edificio.
Parimenti e contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, non vi è stata neppure prescrizione del potere di irrogazione della sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 28 della legge 689/1981 (<<Il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni indicate dalla presente legge si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione>>).
L’applicazione di tale norma agli illeciti amministrativi edilizi deve, infatti, tenere conto del carattere permanente di questi ultimi, sicché la prescrizione quinquennale di cui all’art. 28 decorre soltanto dalla cessazione della permanenza, ad esempio in caso di ripristino dello stato dei luoghi o dal momento di irrogazione della sanzione.

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1.2 Nel secondo motivo di gravame, si sostiene in primo luogo che il decorso del tempo dall’abuso (circa sessanta anni) avrebbe ingenerato nel privato un affidamento meritevole di tutela.
La tesi non può trovare accoglimento, in omaggio al consolidato indirizzo giurisprudenziale per il quale l’abuso edilizio costituisce illecito permanente, senza che il decorso del tempo privi il Comune del proprio potere/dovere di repressione dell’abuso, soprattutto nel caso di specie in cui l’autore dell’abuso è dante causa dei ricorrenti e le opere abusive –delle quali gli esponenti hanno ampiamente beneficiato nel corso degli anni- non appaiono certo, come già evidenziato, modeste o minimali, visto l’aumento di slp e di volume dell’edificio (cfr., fra le tante, Consiglio di Stato, sez. V, 05.01.2015, n. 13; TAR Lazio, sez. I-quater, 27.05.2013, n. 5277 e TAR Lombardia, Milano, sez. II, 18.11.2011, n. 2786).
Parimenti e contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, non vi è stata neppure prescrizione del potere di irrogazione della sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 28 della legge 689/1981 (<<Il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni indicate dalla presente legge si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione>>).
L’applicazione di tale norma agli illeciti amministrativi edilizi deve, infatti, tenere conto del carattere permanente di questi ultimi, sicché la prescrizione quinquennale di cui all’art. 28 decorre soltanto dalla cessazione della permanenza, ad esempio in caso di ripristino dello stato dei luoghi o dal momento di irrogazione della sanzione (cfr. Consiglio di Stato, sez. I, 12.07.2013, n. 3565 e TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 20.06.2013, n. 1593).
In conclusione, deve rigettarsi anche il secondo motivo di ricorso
(TAR Lombardia, Sez. II, sentenza 30.03.2017 n. 857 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e, quindi, di far venir meno l’interesse alla sua impugnazione.
Invero, il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall’istanza di sanatoria, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ex se comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal momento che, in caso di diniego del richiesto accertamento di conformità, l’amministrazione dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi.

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Ed infatti, come più sopra già si è accennato, la presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e, quindi, di far venir meno l’interesse alla sua impugnazione.
Come ritenuto da un consistente filone giurisprudenziale (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 5228 del 2011), già fatto proprio anche da questa Sezione (cfr. sentt. n. 813 del 2012, n. 758 del 2013 e n. 457 del 2014), il riesame dell'abusività dell'opera provocato dall’istanza di sanatoria, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ex se comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal momento che, in caso di diniego del richiesto accertamento di conformità, l’amministrazione dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 16.04.2015 n. 595 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 17.07.2017

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Parco Adda Nord: NO COMMENT!

ENTI LOCALI: Parco Adda Nord, quell’intreccio di assunzioni e consulenze. L’accordo per un neo dirigente e gli incarichi per Purcaro, direttore generale di un ente socio: la Provincia (15.07.2017 - tratto da e link a http://bergamo.corriere.it).
«Ci si chiede: ma l’incompatibilità è data dal pagamento dell’incarico o dal doppio ruolo?». Con queste parole la commissione regionale d’inchiesta sul Parco Adda Nord, voluta dall’assessore regionale Claudia Terzi, pone un interrogativo sulle posizioni e sugli incarichi di consulenza di Antonio Sebastiano Purcaro, professionista stimato su più fronti nel mondo della pubblica amministrazione bergamasca e lombarda, già direttore generale del Comune di Treviglio e da gennaio 2016 nello stesso ruolo per la Provincia di Bergamo. Ma anche, almeno fino al 2016, consulente di quel Parco di cui la Provincia è socia.
Gli architetti
La figura del direttore generale di Via Tasso è citata più volte negli atti, visionati dal Corriere, della commissione d’inchiesta coordinata da Maria Pia Redaelli e in cui ha lavorato come commissario, con un ruolo di primo piano, anche Giovanna Ceribelli, la commercialista di Caprino Bergamasco che è anche componente dell’Autorità regionale anti corruzione.
Ma i protagonisti di questa vicenda, segnalati dalla commissione alla procura della Repubblica di Milano, sono anche altri. Ad esempio
Giuseppe Luigi Minei, architetto e direttore generale del Parco Adda Nord dal febbraio 2013, dopo 10 anni di lavoro all’ufficio tecnico di Truccazzano. Oppure Francesca Moroni, di Cassano d’Adda, che nel 2014 vince con un concorso il posto all’ufficio urbanistica dell’Adda Nord: in passato era una sottoposta dello stesso Minei proprio a Truccazzano. Il direttore generale è nella commissione che dà il via libera all’assunzione di Moroni, eppure, annota la commissione d’inchiesta, secondo la legge chi giudica un profilo professionale e una candidatura non dovrebbe aver avuto rapporti, né nel presente e né in passato, con i partecipanti al concorso.
La graduatoria
A fine 2015 lo stesso
Minei, dopo un bando andato deserto per un ruolo di «istruttore direttivo tecnico», decide di ricorrere a una graduatoria del Comune di Treviglio, dove due anni prima c’era stato un bando per un ruolo della stessa categoria. L’accordo per pescare da quella classifica viene firmato da Minei, da un lato, e da Purcaro dall’altro, per conto del Comune di Treviglio. Il primo classificato era stato assunto dall’ente della Bassa, il secondo era l’architetto Francesca Moroni, che grazie alla graduatoria trevigliese sale così di livello all’interno del Parco Adda Nord.
«Incompatibilità»
Ma è proprio su questi passaggi che si innesta il lavoro d’inchiesta su
Purcaro. A marzo 2015 aveva ricevuto una consulenza dal Parco «per attività di formazione e aggiornamento in ambito formativo». Ma alla fine di quell’anno firma l’accordo, per conto del Comune di Treviglio, sull’utilizzo della graduatoria. Il 14.01.2016, quindi poche settimane dopo, passa da Treviglio alla segreteria generale della Provincia di Bergamo, dove è tuttora: l’ente di Via Tasso è socio del Parco Adda Nord, ma non risultano —alla commissione d’inchiesta— rinunce agli incarichi di consulenza. Anzi, il 29.01.2016, tutto nel giro di pochi giorni e poche settimane, per Purcaro arriva un’altra consulenza dal Parco, per il 2016, con lo stesso oggetto: «formazione e aggiornamento professionale».
C’è incompatibilità, secondo la commissione: non puoi essere direttore generale di un ente che è socio di un altro ente di cui sei consulente. Ma, annotano gli «investigatori» della Regione, solo a luglio
Purcaro rinuncia agli emolumenti del Parco per le consulenze e, appunto, «ci si chiede —scrivono i commissari—: l’incompatibilità è data dal pagamento degli incarichi o dal doppio ruolo?».
Gli incarichi
Un’ultima contestazione riguarda invece proprio la natura degli incarichi all’ex dg di Treviglio, poi in Provincia. Sono «incarichi da 6.000 euro lordi all’anno per formazione e aggiornamento professionale», si legge nelle determine. «Ma pensiamo che da questa documentazione —scrive la commissione— risulti chiaro che il dottor
Purcaro facesse attività di consulenza e non di formazione, tanto che lo stesso presidente del Parco, il bergamasco Agostino Agostinelli, a febbraio 2016, lo definisce proprio “consulente” durante il consiglio di gestione». Attività che non sarebbe consentita per i dipendenti di altri enti, a meno che non si chieda l’autorizzazione al proprio datore di lavoro (in questo caso il Comune di Treviglio).
Alla commissione non risulta che ci sia stata una richiesta e, anzi, «
l’emolumento corrisposto o da corrispondere al dottor Purcaro va versato nelle casse del Comune».
I commenti
Per tutto il pomeriggio di ieri
Antonio Purcaro, che è in un periodo di ferie, non è stato raggiungibile telefonicamente. Ha invece rilasciato le sue dichiarazioni l’ex presidente Agostinelli, bergamasco del Pd, che si era dimesso a ottobre 2016.
«
Contesto il fatto che Purcaro avesse rinunciato agli emolumenti per le consulenze a luglio, secondo me l’aveva fatto molto prima. Comunque, provo una certa irritazione nel sapere certe cose dal Corriere e non ufficialmente dalla Regione Lombardia. Leggo di una serie di rilievi su procedure amministrative che non riguardavano il mio ruolo, ma i funzionari e i dirigenti. E anche dopo aver letto non credo che avessero fatto tanto male da meritarsi un tritacarne mediatico come quello in corso. Minei si era dimesso un anno prima di me e io, che avevo già intenzione di lasciare, ero rimasto lì per non abbandonare l’ente a se stesso. Francesca Moroni, inoltre, è stata ed è una funzionaria capace, competente, che non tralascia nulla ed è in grado di risolvere molte pratiche nel suo settore. Questo è quel che posso dire. Quanto a Purcaro, un professionista davvero preparato, che costava al Parco sei mila euro lordi all’anno. Se questi sono i rilievi, ragazzi...».

ENTI LOCALIIncarichi e promozioni in famiglia: la cricca del Parco Adda Nord (link a http://milano.corriere.it).
Mogli, amiche e parenti. Il caso dei funzionari-consulenti. La commissione istituita dalla Regione ha concluso le indagini e inviato gli atti alla Procura di Milano.
La cricca del Parco Adda Nord lavora lì, nei cinquemila650 ettari di verde lungo il fiume Adda, da Lecco alle porte di Milano, tra gli scorci paesaggistici in cui Alessandro Manzoni ambienta i Promessi Sposi e i simboli dell’archeologia industriale. L’architetto Giuseppe Luigi Minei, nato a Matera ma di casa a Cassano D’Adda, viene nominato direttore del Parco Adda Nord il 15.02.2013, dopo avere lavorato dieci anni per il Comune di Truccazzano, dov’è stato direttore del servizio di gestione del territorio. Il primo dicembre 2014 la giovane collega Francesca Moroni, di cui Minei è stato superiore proprio a Truccazzano, vince un posto all’ufficio urbanistica del Parco: nella commissione d’esame che deve decidere a chi assegnare l’incarico siede lui, anche se per obbligo di legge non ci dev’essere nessun rapporto, passato e presente, con i partecipanti al concorso.
Il 23.12.2015, lo stesso
Minei apre per soli 15 giorni (fino al 07.01.2016, contro i 30 previsti dalle norme in materia) una procedura di mobilità volontaria per un ruolo di istruttore direttivo tecnico: il bando va deserto. La decisione è di ricorrere alle graduatorie del Comune di Treviglio, dove quasi due anni prima è stato indetto un concorso per un posto da funzionario tecnico della stessa categoria (la D). Al primo posto è arrivato un certo Fabiano Rosa, poi assunto al Comune di Treviglio; al secondo la stessa Francesca Moroni, che così, invece di un lavoro a Treviglio, a fare data dal 15.02.2016 s’aggiudica il nuovo incarico al Parco. Una promozione che dopo cinque anni permette di diventare dirigente, con un salto in termini economici.
L’accordo per potere utilizzare la graduatoria di Treviglio viene firmato poche settimane prima della nomina di
Moroni, il 29.01.2016, con il segretario generale del Comune Antonio Sebastiano Purcaro (oggi segretario generale della Provincia di Bergamo). Sempre lui, il 18.03.2015, ha ricevuto una consulenza da seimila euro dal Parco, rinnovata lo stesso giorno della firma della convenzione, il 29 gennaio. Nel luglio 2016, Purcaro rinuncia a sorpresa al compenso. Nel frattempo è diventato segretario generale della Provincia di Bergamo.
Consulente giuridico del Parco è l’avvocato
Paolo Moroni, che ha ricevuto otto incarichi nel 2013, undici nel 2014, tre nel 2015 e quattro nel 2016. Per un totale di 73.568,52 euro. Tutti a firma del direttore Minei, tutti scarsamente motivati. In una segnalazione pervenuta alla commissione d’inchiesta aperta da Regione Lombardia sul Parco Adda Nord (non verificata, perché tutti i documenti ora sono al vaglio della Procura) risulta che Paolo Moroni è cugino di Francesca Moroni.
Al Parco, sotto
Minei, lavora anche come vicedirettore l’ingegnere Alex Giovanni Bani, contemporaneamente responsabile del settore tecnico del Comune di Trezzano Rosa. È sua la firma di una delibera del 22.07.2015 per la progettazione e la direzione lavori della ristrutturazione della scuola intitolata alla giornalista Ilaria Alpi. L’incarico è affidato all’architetto Tiziana Di Zinno di Cassano D’Adda, moglie di Minei. È un’infilata di atti considerati irregolari, quella che emerge dalle verifiche ispettive condotte al Parco Adda Nord dalla commissione d’inchiesta istituita da Regione Lombardia e coordinata da Maria Pia Readelli degli Uffici regionali dei controlli.
Determinante per le indagini il lavoro dei due componenti dell’Agenzia regionale dell’Anticorruzione (Arac), Giovanna Ceribelli e Sergio Arcuri.
Il Corriere ha visionato i documenti, tutti inviati alla Procura di Milano, come annunciato lo scorso 27 giugno dall’assessore regionale all’Ambiente Claudia Terzi (Lega). Le ispezioni si sono svolte tra il 19.10.2016 e il 21.06.2017. A ridosso dell’avvio delle indagini, il 26.09.2016 il bergamasco
Agostino Agostinelli (Pd) si è dimesso dalla carica di presidente del Parco occupata da nove anni. Giovanna Ceribelli e Sergio Arcuri dell’Arac non hanno dubbi: «L’assunzione dell’architetto Francesca Moroni effettuata con lo scorrimento della graduatoria (in un momento oltretutto in cui era in vigore il blocco delle assunzioni pubbliche) è illegittima e deve essere revocata».
Del resto, anche per il ruolo all’ufficio urbanistica assunto nel dicembre 2014, vengono sollevate contestazioni: «Come poteva il direttore del Parco —è la domanda— dichiarare di non avere avuto rapporti con l’architetto
Moroni, quando gli stessi lavoravano nel medesimo ufficio tecnico al Comune di Truccazzano?». Bocciato l’accordo firmato tra il dg Minei e il segretario comunale Antonio Purcaro per poter pescare l’architetto Moroni dalle graduatorie di Treviglio: «Purcaro, in quanto consulente del Parco è incompatibile a sottoscrivere accordi». Contestate anche le consulenze legali affidate all’avvocato Paolo Moroni: «Gli atti di affidamento degli incarichi (...) risultano scarsamente motivati (...) e realizzati per di più in assenza di procedure comparative».
L’incarico di
Minei come dg del Parco finisce nel marzo 2016. Neppure due mesi dopo, con una delibera del 23 maggio, Minei riceve dal Parco l’incarico di direttore lavori per le «Opere di compensazione ambientale Autostrada A4 Trezzo sull’Adda-Capriate San Gervasio». In sintesi: «Minei —sottolineano gli ispettori regionali— ha svolto un ruolo di rilievo nella realizzazione di una gara per lo svolgimento di lavori che oggi egli stesso dirige». E non finisce qui (articolo Corriere della Sera del 14.07.2017).

 
 

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
i sindacati scrivono al Legislatore perché modifichi la norma "capestro"...

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Oggetto: Invio proposta emendativa all’AS-2860 (Conversione in legge del decreto-legge 20.06.2017, n. 91, recante disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno) (CGIL-CISL-UIL-FP, nota 05.07.2017).

Tuttavia, forse non ce ne sarà bisogno poiché -giocando d'anticipo- si è mossa anche una sezione regionale della Corte dei Conti che non è d'accordo con quanto statuito dalla Sez. Autonomie nello scorso aprile:

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHELa Sezione, considerata l’esigenza di un’interpretazione uniforme della normativa disciplinante gli incentivi tecnici di cui al comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, ai fini del rispetto dei limiti di spesa del personale, sospende la decisione sul parere richiesto dal Comune di Ceriale (SV) per sottoporre al Presidente della Corte dei conti la seguente questione di massima:
- “se gli incentivi tecnici di cui al comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, debbano essere ricompresi nel computo della spesa rilevante ai fini del rispetto del tetto di spesa previsto dall’art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006, nonché ai fini del rispetto del tetto di spesa previsto dall’art. 1, comma 236, della legge n. 208 del 2015.
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... il Sindaco del Comune di Ceriale (SV) ha chiesto alla Sezione di controllo un parere in materia di spesa del personale.
In particolare, il Comune vuole sapere se l’ente, soggetto al patto di stabilità (ora pareggio di bilancio), debba inserire nel calcolo della spesa per il personale, ai fini della verifica del rispetto del limite previsto dell'art. 1, comma. 557, della legge n. 296 del 2006, rispetto alla media del triennio 2011-2013, anche gli oneri derivanti dall'erogazione degli incentivi per le funzioni tecniche di cui all'art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016.
La norma richiamata prevede al comma 1 che ''Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2005 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche, necessarie per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio, fanno carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti".
Il successivo comma 2 stabilisce che, “a valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'incarico dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, dei progetti, dei tempi e costi prestabiliti”.
Le disposizioni citate prevedono la possibilità di accantonamento delle risorse finanziarie da destinare al fondo per lo svolgimento di funzioni tecniche da parte di dipendenti pubblici nell'ambito di opere/lavori, servizi e forniture. Condizione essenziale ai fini del riparto tra gli aventi diritto alle risorse accantonate sul fondo è l'adozione di apposito regolamento da parte dell'ente.
Da ciò sembra conseguire che la nuova disciplina degli incentivi escluda i progettisti per indirizzarsi verso le attività tecnico-burocratiche (programmazione, procedure di gara, esecuzione dei contratti, verifica di conformità, ecc.), estendendo anche agli appalti di forniture e di servizi la possibilità di partecipare alla ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche.
Sulla base delle norme e pronunce intervenute, il Comune di Ceriale intende approvare il regolamento degli incentivi per le funzioni tecniche di cui all'art. 113 del d.lgs. 18.04.2016 n. 50, stabilendo che non concorrano ad alimentare il fondo tutti i lavori, servizi o forniture di importo inferiore ad euro 5.000,00.
Il Sindaco chiede di sapere se i compensi per le funzioni tecniche previsti nel nuovo codice degli appalti, apparentemente differenti dagli incentivi alla progettazione (previsti dalla legge 109 del 1994 prima e dal d.lgs. 163 del 2006 poi) sfuggano, come questi ultimi, al limite della spesa di personale previsto dall’art. 1, comma 557, della legge 296 del 2006 (riduzione della spesa del personale rispetto a quella sostenuta nella media del triennio 2011-2013) come stabilito dalla Sezione delle Autonomie con
deliberazione 13.11.2009 n. 16 (che, ai fini del computo delle voci di spesa da ridurre a norma dell’art. 1, commi 557 e 562, della legge 27.12.2006, n. 296, aveva escluso gli incentivi per la progettazione interna di cui al previgente codice degli appalti a motivo della loro riconosciuta natura “di spese di investimento”, attinenti alla gestione in conto capitale, iscritte nel titolo II della spesa, e finanziate nell’ambito dei fondi stanziati per la realizzazione di un’opera pubblica, e non di spese di funzionamento).
Inoltre, qualora la risposta al quesito dovesse essere negativa, l’ente chiede di sapere se i predetti incentivi siano o meno esclusi dal computo dei limiti del trattamento accessorio disciplinato dall'art. 1, comma 236, della legge n. 208 del 2015.
...
Nel merito il quesito riguarda i “nuovi” incentivi tecnici previsti dall'art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016. In particolare, il Comune chiede di sapere se tali incentivi debbano essere inseriti nel calcolo della spesa per il personale, ai fini della verifica del rispetto del limite previsto dell'art. 1, comma. 557, della legge n. 296 del 2006 (limite rappresentato dalla spesa media del triennio 2011-2013).
Per individuare un percorso interpretativo idoneo a dare soluzione al quesito all’esame di questo Collegio, occorre ricordare quanto la normativa previgente disponeva e le soluzioni al riguardo adottate dalle Sezioni di controllo di questa Corte dei conti.
In proposito il d.lgs. 163 del 2006, all’art. 93, disciplinava i cd. incentivi alla progettazione:
   - Comma 7-bis. “A valere sugli stanziamenti di cui al comma 7 (stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti), le amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e l’innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro; la percentuale effettiva è stabilita da un regolamento adottato dall’amministrazione, in rapporto all’entità e alla complessità dell’opera da realizzare”.
   - Comma 7-ter. “L’80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l’innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell’effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì ……”.
Sulla rilevanza di tali incentivi, e del relativo fondo, ai fini del computo della spesa del personale rilevante al fine del rispetto del tetto di spesa complessivo di cui all’art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006, nonché dei limiti stabiliti per le risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale ex art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, previsto dalla normativa vigente, si sono espresse tanto le Sezioni riunite, che la Sezione delle Autonomie.
Quest’ultima, con la
deliberazione 13.11.2009 n. 16, aveva disposto, ai fini del computo delle voci di spesa da ridurre a norma dell’art. 1, commi 557 e 562, della legge 27.12.2006, n. 296, l’esclusione degli incentivi per la progettazione interna a motivo della loro riconosciuta natura “di spese di investimento, attinenti alla gestione in conto capitale, iscritte nel titolo II della spesa, e finanziate nell’ambito dei fondi stanziati per la realizzazione di un’opera pubblica, e non di spese di funzionamento”.
Le Sezioni Riunite, a loro volta, con la
deliberazione 04.10.2011 n. 51, avevano escluso dal rispetto del limite di spesa posto dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, tutti quei compensi per prestazioni professionali specialistiche offerte da soggetti qualificati, tra i quali l’incentivo per la progettazione ex art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006.
La giurisprudenza contabile aveva, pertanto, escluso gli incentivi previsti dal vecchio codice degli appalti dal computo rilevante ai fini del rispetto di entrambi i tetti di spesa sopra menzionati.
Se tale è il punto da cui partire per dare risposta al quesito odierno, occorre ponderare se la nuova formulazione normativa utilizzata in materia di incentivi “tecnici”, nell’ambito del nuovo codice dei contratti, possa giustificare una diversa soluzione rispetto a quanto già statuito dai giudici contabili.
A parere di questa Sezione vi sono plurimi elementi interpretativi che fanno propendere per una conferma dell’orientamento giurisprudenziale formatosi sotto la vigenza del precedente quadro normativo, escludendo gli incentivi tecnici dal rispetto dei limiti di spesa sopra richiamati e disciplinati dall’art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006 (come riformulato), nonché dall’art. 1, comma 236, della legge n. 208/2015, che riproduce, sostanzialmente, il limite disposto dall’art. 9, comma 2-bis, fissando il tetto di spesa nell’ammontare del fondo per il trattamento accessorio determinato nell’esercizio finanziario 2015.
Il Collegio, infatti, ritiene
si sia in presenza non tanto di una nuova norma in materia di incentivi, bensì di una diversa formulazione volta a regolare in modo differente e, a tratti, più ampi, la materia degli incentivi previsti nell’ambito dei contratti pubblici.
Al riguardo
la Sezione prende atto che la Sezione delle Autonomie, con la recente deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha stabilito che gli incentivi per le funzioni tecniche rientrano nel tetto del fondo per la contrattazione decentrata (“Gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, legge n. 208/2015”) e dell’iter argomentativo che ha determinato la Sezione citata ad esprimersi in tal senso, che si procede di seguito a riportare:
   a) “
la incentivazione delle funzioni tecniche di cui all’articolo 113 del d.lgs. n. 50/2016 non è sovrapponibile all’incentivo per la progettazione di cui all’art. 93, comma 7-bis, del d.lgs. n. 163/2006, oggi abrogato, in quanto la prima remunera specifiche e determinate attività di natura tecnica svolte dai dipendenti pubblici, tra cui quelle della programmazione, predisposizione e controllo delle procedure di gara e dell’esecuzione del contratto escludendo l’applicazione degli incentivi alla progettazione”;
   b) “
nei nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata ad investimenti; il fatto che tali emolumenti siano erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture comporta che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale)”;
   c) “
non si ravvisano gli ulteriori presupposti delineati dalle Sezioni Riunite (nella richiamata
deliberazione 04.10.2011 n. 51), per escludere gli incentivi di cui trattasi dal limite del tetto di spesa per i trattamenti accessori del personale dipendente in quanto essi non vanno a remunerare prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati e individuabili acquisibili anche attraverso il ricorso a personale esterno alla P.A.”;
   d) “
evidente l’intento del legislatore di ampliare il novero dei beneficiari degli incentivi in esame, individuati nei profili, tecnici e non, del personale pubblico coinvolto nelle diverse fasi del procedimento di spesa, dalla programmazione (che nel nuovo codice dei contratti pubblici, all’art. 21, è resa obbligatoria anche per l’acquisto di beni e servizi) all’esecuzione del contratto. Al contempo, la citata disposizione richiama gli istituti della contrattazione decentrata, il che può essere inteso come una sottolineatura dell’applicazione dei limiti di spesa alle risorse decentrate”.
Se questo Collegio ritenesse di condividere l’iter argomentativo sopra illustrato la risposta da dare al quesito posto dal Sindaco del Comune di Ceriale non potrebbe che essere opposto alla conclusione attesa e suggerita dall’ente, cosicché il fondo per gli incentivi tecnici di cui al nuovo codice dei contratti, dovrebbe essere, conseguentemente, ricompreso nel computo rilevante ai fini del rispetto dei limiti indicati dall’art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006 (media del triennio 2011/2013).
Ritenere gli incentivi tecnici privi di una loro specificità che li renda estranei alla disciplina generale concernente il tetto alla spesa di personale, condurrebbe ad accettare l’interpretazione sostenuta dalla Sezione delle Autonomie, le cui conclusioni, pur riguardando il fondo per la contrattazione decentrata, finirebbero per attagliarsi perfettamente anche alla fattispecie in esame.
Questo Collegio ritiene, tuttavia, che la soluzione accolta dalla suddetta Sezione centrale non sia sorretta da un convincente iter motivazionale e, soprattutto, che possa dar luogo ad incongruenze tali da determinare, da un lato, l’inapplicabilità della norma in determinate fattispecie e, dall’altro, un possibile aumento della spesa di personale, realizzando, in tal modo, una finalità opposta rispetto a quella perseguita dalla medesima Sezione.
Le motivazioni addotte da quest’ultima per ricomprendere gli incentivi tecnici nel tetto di spesa non appaiono, in vero, convincenti, sotto molteplici profili:
   a1) il mancato riferimento della norma agli incentivi per la progettazione dá conto esclusivamente della diversità della norma attuale rispetto al quadro normativo precedente. Diversità che, di per sé, non può fornire alcuna indicazione circa l’inclusione o meno nel tetto di spesa degli incentivi tecnici, ma che tutt’al più dimostra come i “nuovi” incentivi vadano visti da una diversa angolazione, che si allontana dalle motivazioni richiamate dalle precedenti delibere tanto della Sezione delle Autonomie del 2009, che delle Sezioni Riunite del 2011;
   b1) è’ indubbio, infatti, che se pur con una formulazione normativa infelice (nei primi due commi dell’art. 113 il riferimento è esclusivamente ai “lavori”), l’attuale quadro normativo determina l’applicazione degli incentivi tecnici anche ai contratti riferiti a servizi e forniture, essendo in tal senso esplicito il comma 3 dell’art. 113, il quale statuisce che l'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo deve essere ripartito, oltre che per ciascuna opera o lavoro, anche per ciascun servizio e fornitura. Va, tuttavia, evidenziato che, in realtà, anche nei primi due commi si rinvengono espliciti riferimenti ai contratti diversi dai lavori, atteso che in essi vi è un richiamo espresso alle verifiche di conformità, ossia al “collaudo” delle forniture e dei servizi.
Motivo per cui per gli incentivi previsti per tali contratti non può parlarsi di spese riferite agli investimenti. Ma è dubbio che di investimenti possa parlarsi anche con riferimento ai precedenti incentivi alla progettazione. In tal senso offrono supporto normativo tanto la legge n. 350 del 2003, che la deliberazione 30.06.2010 n. 33 delle Sezioni Riunite.
Ed, infatti, la norma del 2003, all’art. 3, comma 16 e ss.gg., fissa in modo univoco quali debbano essere considerate spese di investimento e, nell’elenco non vi è nulla di riconducibile agli incentivi alla progettazione che, pertanto, sulla base del chiaro disposto normativo, non possono considerarsi spese di investimento (o “attinenti”). La delibera delle Sezioni Riunite, poi, prevede che nella quantificazione dei fondi per l’incentivazione vadano accantonate le somme che gravano sull’ente per oneri fiscali a titolo di Irap. E tali oneri sono certamente incompatibili con le spese di investimento;
   c1) per la Sezione delle Autonomie, inoltre, gli incentivi in esame non possono essere esclusi dal limite del tetto di spesa in quanto essi non vanno a remunerare prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati e individuabili, acquisibili anche attraverso il ricorso a personale esterno alla P.A.
Ma tale conclusione sembra, in vero, provare troppo, alla luce del confronto tra le due norme, quella del d.lgs. 163/2006 e quella attuale: entrambe, ad esempio, riferiscono gli incentivi alla direzione dei lavori ed al collaudo. Inoltre, va evidenziato che la giurisprudenza contabile aveva esteso l’incentivo alla progettazione anche ad altre figure, oggi espressamente richiamate dall’art. 113 citato.
Al riguardo la Sezione delle Autonomie, con deliberazione 13.05.2016 n. 18, aveva riconosciuto esplicitamente l’incentivo alla progettazione al responsabile unico del procedimento (figura professionale oggi espressamente prevista dalla norma in esame). Aveva, altresì, individuato una nozione di collaboratori, riferendola “alle professionalità –di norma tecniche– individuate in sede di costituzione dell’apposito staff, le quali devono porsi in stretta correlazione funzionale e teleologica rispetto alle attività da compiere per la realizzazione dell’opera a regola d’arte e nei termini preventivati”.
Quanto procede rende possibile affermare che
l’individuazione dei soggetti aventi diritto all’incentivo non avviene più mediante il riferimento ad una figura specifica, bensì attraverso le funzioni “tecniche”, garantendo l’incentivo ai dipendenti pubblici che le espletano.
È indubbio che la norma non preveda più la progettazione, ma questo è un diverso aspetto che testimonia la novità della novella legislativa e la necessità di leggere il nuovo quadro normativo ricorrendo ad altre considerazioni che consentano un’interpretazione conforme alla voluntas legis. In disparte, poi, se la novella abbia realmente escluso la possibilità di ricorrere alla progettazione interna o di escludere la stessa da qualsiasi incentivo;
   d1) quanto appena evidenziato, pone in dubbio anche l’ultimo sostegno argomentativo utilizzato dalla Sezione delle Autonomie per le quali è “evidente” l’intento del legislatore di ampliare il novero dei beneficiari degli incentivi in esame, individuati nei profili, tecnici e non, del personale pubblico.
Come già osservato, le figure destinatarie degli incentivi sono individuate mediante il ricorso alle funzioni tecniche. Altre funzioni sono escluse e non sono ricompresi profili “non tecnici”. Qualora detto riferimento riguardasse i collaboratori, la stessa Sezione delle Autonomie ha chiarito, nella deliberazione 13.05.2016 n. 18 sopra richiamata, quale sia la corretta individuazione di siffatta categoria.
Da ultimo, il richiamo agli istituti della contrattazione decentrata non appare utile a sostenere un differente orientamento interpretativo, in quanto anche la normativa precedente richiedeva il ricorso allo strumento collettivo per determinare ed erogare i compensi in esame.
Tanto detto,
se il percorso interpretativo utilizzato dalla Sezione delle Autonomie non appare convincente, è necessario pervenire ad una più corretta sistemazione giuridica all’istituto degli incentivi tecnici di cui all’art. 113 del nuovo codice degli appalti.
L’analisi svolta sinora sembra evidenziare che l’istituto in esame abbia certamente un respiro differente rispetto a quello del vecchio testo dell’art. 93 del d.lgs. 163 del 2006, ma che, tuttavia, ne rispetti le finalità.
La volontà del legislatore è volta ad ottenere il miglior risultato possibile nell’esecuzione dei contratti pubblici. L’importanza di questi nella realizzazione dell’interesse pubblico, nonché la rilevanza della spesa impegnata sui bilanci pubblici, ha spinto il medesimo a coinvolgere le risorse interne degli enti al fine di ottenere la massima soddisfazione dall’esecuzione del contratto (sia di lavori, forniture o servizi), con il miglior coinvolgimento delle risorse interne.
L’incentivo in esame mira a realizzare un siffatto scopo, al di là del fatto che la prestazione sia annoverabile tra le spese correnti o di investimento, o sia fungibile rispetto al ricorso a personale esterno.
È evidente che, così concepita la norma, sia possibile escludere gli incentivi in esame dal computo della spesa rilevante ai fini del tetto di cui al comma 557 citato, assumendo la fattispecie in esame un carattere di specialità anche rispetto alle risorse accessorie che si rinvengono nel fondo per la contrattazione decentrata.
Tale specialità non sarebbe, però, da sola sufficiente ad escludere la rilevanza degli incentivi ai fini del computo dei tetti di spesa, qualora il quadro normativo non contenesse le regole che consentano di determinare e contenere la spesa del personale, evitando che la stessa assuma un carattere incontrollato.
Al riguardo va evidenziato che
la disciplina in esame, in verità, fissa criteri e limiti che autolimitano la spesa per incentivi. Criteri e limiti in numero rilevante che si riportano di seguito:
   1)
il fondo incentivante deve trovare copertura negli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti (comma 2). Pertanto, il quadro economico determinato per il singolo lavoro (o fornitura/servizio) costituisce il primo e più importante limite alla spesa per gli incentivi tecnici, poiché il 2% richiamato dalla norma viene calcolato sulle somme predeterminate per il contratto da stipulare, non incidendo su ulteriori stanziamenti di bilancio. Ed ancora, tali risorse finanziarie non sono prefissate nell’ammontare massimo, ma vanno modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara, potendo essere calcolate in misura inferiore in base alla tipologia di lavoro, servizio e fornitura da espletare;
   2) altro limite individuato dalla norma, forse il più rilevante, è disposto dal comma 3, che prescrive che
gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente (anche da diverse amministrazioni) non possano superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Tale importo assume la valenza di tetto di spesa individuale invalicabile a fronte del quale nessun dipendente pubblico può percepire somme superiori al limite indicato;
   3) inoltre,
modalità e criteri di ripartizione del fondo sono previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti. Ebbene, il regolamento è lo strumento utile al fine di verificare, anche da parte dei giudici contabili, che gli incentivi non vengano distribuiti a pioggia ma realizzando una finalità realmente incentivante che tenga conto delle attività concretamente svolte. Tanto è vero che, sempre ai sensi del terzo comma, la corresponsione dell'incentivo “è disposta dal dirigente o dal responsabile del servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”.
In conclusione,
specialità della norma e puntuali limiti di spesa intrinseci al quadro normativo descritto fanno propendere questo Collegio per la tesi dell’esclusione del fondo del comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 dal computo della spesa rilevante ai fini del rispetto del tetto di spesa di cui al comma 557 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006. E, a fortiori, anche dal limite disposto dall’art. 1, comma 236, della legge n. 208/2015, relativamente al fondo per il trattamento accessorio.
Preme in proposito evidenziare, aggiuntivamente, che, diversamente argomentando, si potrebbero verificare taluni effetti non in linea con la finalità perseguita dalla interpretazione resa dalla Sezione delle Autonomie.
Gli incentivi alla progettazione, in vero, negli esercizi 2011/2013 non erano ricompresi nella base di calcolo per il tetto di spesa di cui al comma 557 citato. Così come non erano ricompresi nella base di calcolo del limite del 2015 riferito alle risorse per il trattamento accessorio.
Includere oggi gli incentivi tecnici nella base di calcolo della spesa rilevante ai fini del computo della spesa complessiva vorrebbe dire superare, con assoluta certezza, il tetto di spesa di cui al comma 557 citato, senza che l’ente abbia la possibilità di ridurre altre voci, in considerazione della rigidità della spesa di personale stretta, nell’ultimo decennio, tra numerosi vincoli.
Allo stesso modo, qualora tali incentivi rilevassero ai fini del tetto di spesa per il trattamento accessorio, si verificherebbe l’impossibilità di erogare gli stessi se non a scapito del trattamento accessorio di altri dipendenti, mediante riduzione di altre risorse, al fine di compensare l’erogazione degli incentivi tecnici in discorso.
Con riferimento, inoltre, al limite di spesa di cui al comma 557, un’interpretazione “restrittiva” determinerebbe la violazione del principio, affermato dalla giurisprudenza contabile, di omogeneità tra i dati (e i tetti di spesa) oggetto di comparazione. Non sarebbe logico, né legittimo, contrapporre due limiti di spesa il cui ammontare sia composto da voci differenti.
Se si ritenesse di adottare tale principio, legittimo e coerente con il sistema dei tetti di spesa, si potrebbero, tuttavia, verificare conseguenze non coerenti con le esigenze di contenimento della spesa di personale, con possibili effetti espansivi della stessa, oltre che un fenomeno di casualità che potrebbe condurre alcuni enti a realizzare una spesa rilevante, ed altri a non poter erogare alcunché.
Per rendere omogeneo il dato si potrebbero osservare due vie: ciascun ente dovrebbe ricomprendere nel tetto di spesa tutti gli incentivi alla progettazione erogati nel triennio 2011/2013 (e nel corso del 2015 relativamente al limite per il fondo del trattamento accessorio). Ma tale interpretazione sarebbe ultra legem in quanto, con espressa volontà legislativa, il nuovo codice dei contratti ha escluso dal fondo di cui al comma 2 dell’art. 113 gli incentivi alla progettazione.
In alternativa, ciascun ente dovrebbe individuare quelle voci di spesa riferite ad incentivi che siano previsti espressamente in entrambi i testi normativi (vecchio e nuovo codice dei contratti) o che siano riconosciuti dalla giurisprudenza contabile. Ma tale operazione risulta priva di criteri univoci e sarebbe rimessa alla libera disponibilità dell’ente.
Senza contare che, nel passato, tali incentivi erano previsti solo per i contratti riferiti a lavori pubblici, laddove il nuovo testo riferisce gli incentivi anche a forniture e servizi, aumentando il fattore di difficoltà e le iniquità che ne potrebbero conseguire.
In ogni caso, quale che sia l’operazione accolta per rendere omogeneo il dato, si potrebbe verificare un effetto paradossale ed ingiusto.
Potrebbero esservi enti locali che nel periodo 2011/2013 (o nell’anno 2015 relativamente al trattamento accessorio) hanno erogato incentivi “tecnici” in un ammontare considerevole, in conseguenza di un piano di opere pubbliche significativo. Gli stessi si troverebbero ad avere un tetto di spesa rilevante, sia ai sensi del comma 557, sia ai sensi del comma 236, lasciando ampio spazio alla spesa di personale.
Di contro gli enti che in quei particolari esercizi non avevano erogato incentivi, si troverebbero di fatto nelle condizioni sopra descritte di inapplicabilità della norma di cui all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016.
Ed ancora, una volta fissato il tetto di spesa, questo potrà essere raggiunto anche con spese diverse dall’erogazione di incentivi tecnici. Una volta fissato il tetto in questione di cui al comma 557 in un determinato importo, tale somma nell’esercizio 2017 (e successivi) potrà essere, difatti, composta non necessariamente dagli incentivi tecnici, bensì anche da altre tipologie di spese che, diversamente, l’ente non avrebbe potuto sostenere (aumentando di fatto l’aggregato relativo al personale).
Lo stesso dicasi per il limite alle risorse per la contrattazione decentrata. Se l’ente calcola tali incentivi nel corso del 2015, il limite di spesa aumenterà dello stesso ammontare. Ma essendo il limite un valore assoluto (non disaggregabile), l’ente, negli esercizi successivi, pur in mancanza di contratti e, quindi, di incentivi tecnici, potrà aumentare le risorse accessorie sino al raggiungimento di tale nuovo limite. In tal senso la Sezione delle Autonomie, con delibera n. 26 del 2014, ha riconosciuto che il vincolo debba riferirsi all’ammontare complessivo del trattamento accessorio e non alle sue singole componenti (orientamento questo confermato anche dalla Sezione di controllo dell’Emilia Romagna con deliberazione n. 100 del 2017, e dalla Sezione di controllo per il Piemonte con deliberazione n. 135 del 2016).
Di contro, come già osservato, gli enti che invece non hanno erogato incentivi nel corso del 2015, si troverebbero in una situazione di inapplicabilità della norma di cui al comma 2 dell’art. 113 del nuovo codice dei contratti.
Le osservazioni sin qui svolte, e l’interpretazione del quadro normativo offerta, rimangono valide anche alla luce dell’art. 23 del d.lgs. 75 del 2017 che ha introdotto un nuovo limite, statuendo che “Nelle more di quanto previsto dal comma 1, al fine di assicurare la semplificazione amministrativa, la valorizzazione del merito, la qualità dei servizi e garantire adeguati livelli di efficienza ed economicità dell'azione amministrativa, assicurando al contempo l'invarianza della spesa, a decorrere dal 01.01.2017, l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016. A decorrere dalla predetta data l'articolo 1, comma 236, della legge 28.12.2015, n. 208 è abrogato. Per gli enti locali che non hanno potuto destinare nell'anno 2016 risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa a causa del mancato rispetto del patto di stabilità interno del 2015, l'ammontare complessivo delle risorse di cui al primo periodo del presente comma non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2015, ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio nell'anno 2016”.
Ciò che, di peculiare, traspare da tale più recente norma è la mancanza del riferimento, per la materiale quantificazione del tetto di spesa complessivo annuale per il trattamento accessorio del personale, della riduzione proporzionale del fondo riferita alle cessazioni del personale in servizio.
Per tutto quanto sin qui esposto,
il Collegio ritiene che gli incentivi tecnici previsti dal nuovo codice degli appalti debbano essere esclusi dal computo della spesa rilevante ai fini del rispetto del tetto di spesa complessivo per il personale (art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006), nonché dei limiti stabiliti per le risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale (art. 1, comma 236, della legge n. 208 del 2015).
P.Q.M.
la Sezione, considerata l’esigenza di un’interpretazione uniforme della normativa disciplinante gli incentivi tecnici di cui al comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, ai fini del rispetto dei limiti di spesa del personale, sospende la decisione sul parere richiesto dal Comune di Ceriale (SV) per sottoporre al Presidente della Corte dei conti, ai sensi dell’art. 17, comma 31, del decreto-legge n. 78 del 2009, convertito dalla legge n. 102 del 2009, e dell’art. 6, comma 4, del decreto-legge n. 174 del 2012, convertito dalla legge n. 213 del 2012, sotto l’illustrata differente prospettazione interpretativa, la seguente questione di massima:se gli incentivi tecnici di cui al comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, debbano essere ricompresi nel computo della spesa rilevante ai fini del rispetto del tetto di spesa previsto dall’art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006, nonché ai fini del rispetto del tetto di spesa previsto dall’art. 1, comma 236, della legge n. 208 del 2015" (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, deliberazione 29.06.2017 n. 58).

 
 

L'avevamo già evidenziato con l'AGGIORNAMENTO AL 22.12.2014 ma lo ribadiamo ancora oggi per i molti, troppi funzionari pubblici "refrattari" all'osservanza della Legge:
per assumere personale (dall'esterno) il bando deve obbligatoriamente essere pubblicato sulla GURI, pena l'invalidazione dell'intera procedura concorsuale.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi: danno erariale per mancanza di pubblicazione del bando sulla GURI.
La mancata pubblicazione del bando di concorso sulla GURI, oltre a determinare l’annullamento della procedura concorsuale, genera responsabilità amministrativa e danno erariale.

Questo quanto evidenziato dalla Corte dei Conti, sez. giur. Lombardia, con la sentenza 04.07.2017 n. 102.
Nel caso di specie l’amministrazione, a cagione della mancata pubblicazione del bando sulla GURI della Repubblica, era stata chiamata in giudizio in ben due procedimenti contenziosi, conclusosi definitivamente con l’annullamento della procedura concorsuale.
Successivamente l’amministrazione aveva deciso di ricorrere in Cassazione al fine di far accertare la validità ed efficacia dei contratti stipulati dai vincitori del concorso indetto con il bando annullato, conferendo l’incarico di rappresentanza legale ad un legale esterno, nonostante il cospicuo numero di avvocati dipendenti dell’ente, molti dei quali abilitati al patrocinio presso le giurisdizioni superiori.
Secondo l’indirizzo affermatosi in giurisprudenza, l’obbligo di pubblicazione dei bandi per i concorsi a pubblico impiego nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, stabilito dall’art. 4 del d.p.r. 487/1994, costituisce una regola generale attuativa dell’art. 51, primo comma, e dell’art. 97, comma terzo, della Costituzione (Consiglio di Stato, sent. n. 2801/2015 e n. 227/2016; Tar Campania, Napoli, sent. n. 4074/2009).
Tale regola ha la finalità di consentire la concreta massima conoscibilità della indizione di un concorso pubblico a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro residenza sul territorio dello Stato e non è stata incisa, neanche per incompatibilità, dall’art. 35, comma 3, lett. a), del d.lgs. n. 165 del 2001, che si limita a prescrivere la “adeguata pubblicità della selezione” senza specificare altro in ordine alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Invero, le disposizioni di dettaglio contenute nella fonte regolamentare servono a completare la norma di rango legislativo, costituendone coerente e conforme specificazione.
Come recentemente ribadito anche dal Tar Campania, con la sentenza 23.06.2017 n. 3433, la pubblicazione di un bando di concorso a pubblico impiego sulla Gazzetta ufficiale rappresenta un obbligo formale che non può essere violato dalla p.a.. La mancata pubblicazione comporta, infatti, l’illegittimità dell’intero concorso (commento tratto da www.self-entilocali.it).
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MASSIMA
FATTO
Con atto di citazione depositato in data 30.09.2016, la Procura regionale presso questa Sezione ha convenuto in giudizio gli odierni convenuti per ivi sentirli condannare al pagamento, in favore della Regione Lombardia, del complessivo danno erariale, arrecato con condotte ritenute gravemente colpose, pari ad euro 36.051,75 oltre rivalutazione, interessi e spese di giudizio.
Dall’atto di citazione emerge quanto segue: in data 10.02.2010 la Procura, attraverso l’esposto a firma dell’Ing. Gi. Di Do. (all. n. 1 del fascicolo della Procura), apprendeva che “… l’allora Direzione Organizzazione, Personale della Giunta regionale, nella persona del suo Direttore centrale pro-tempore dott. En.PA., aveva indetto un bando di concorso pubblico per 20 posti di dirigente presso la Giunta medesima,
pubblicandolo esclusivamente sul BURL … n. 8 del 22.02.2006. Veniva invece omessa ogni forma di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, nemmeno per estratto … L’emanazione del citato decreto direttoriale … era avvenuta, tra l’altro, sulla scorta della precedente delibera giuntale n. VIII/001476 del 22.12.2005 … approvata all’unanimità dai presenti … su proposta del Presidente Roberto FORMIGONI e con la partecipazione alla seduta anche … del Segretario generale Ni.Ma.SA. …” (all. n. 2 del fascicolo della Procura).
Tanto precisato, la Procura evidenzia poi che “… in palese contraddizione con quanto stabilito, tra l’altro, con gli stessi contenuti … della delibera giuntale n. VIII/1476 del 22.12.2005 … il conseguente provvedimento di indizione della selezione del 21.02.2006, n. 1841, a firma del dott. En.PA., al par. 6) del dispositivo, quanto alla pubblicazione del bando stabiliva testualmente: “……..che il presente provvedimento sarà pubblicato sul – Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia – Serie Inserzioni e Concorsi – è sarà disponibile sia sul sito internet www.regione.lombardia che sul portale internet della Giunta regionale della Lombardia”,
omettendo qualsiasi riferimento ad altre forme di pubblicità del medesimo”.
Ancora, precisano i Requirenti che “
il denunciante …, a cagione della mancata pubblicazione sulla GURI, ne rimaneva escluso e, con istanza datata 04.04.2006, chiedeva alla Regione Lombardia la riapertura dei termini di presentazione delle domande con la contestuale ripubblicazione del bando (o dell’estratto) sulla GURI” (all. n. 3 al fascicolo della Procura).
Della vicenda veniva interessato anche il difensore civico regionale (all. n. 4 del fascicolo della Procura) e comunque “… in assenza di riscontri alla propria istanza, in data 23.05.2006 il denunciante proponeva pertanto ricorso avanti al TAR Lombardia …” (all. n. 5 del fascicolo processuale).
In ogni caso, prosegue la Procura, “le prove concorsuali ebbero … inizio il giorno 11.05.2006 e si conclusero il 19.12.2006, … così come si evince dalla determinazione del Direttore ... En.PA. - n. 15231 in data 22.12.2006, … con cui veniva approvata la graduatoria di merito formatasi (32 unità), e la graduatoria finale dei vincitori (20 unità).
Ne veniva disposta la pubblicazione, anche questa volta, sul solo BURL” (all. n. 6 del fascicolo della Procura).
L’immissione in servizio dei candidati veniva autorizzata nel corso dello svolgimento del processo amministrativo di primo grado attraverso il “… decreto n. 6577/2007 del 18.06.2007, a firma del dott. Ni.SA.” (all. n. 7 del fascicolo della Procura).
Successivamente, “
il 17.01.2008 il TAR Lombardia, con sentenza n. 53/2008 … decideva il ricorso presentato dall’Ing. DI DO., accogliendolo in parte e, per l’effetto, annullava il bando di concorso del 21.02.2006 condannando, di conseguenza, la Regione Lombardia, in solido con le parti intimate costituite (idonei al concorso), alla refusione delle spese di giudizio per complessivi € 4.000,00” (all. n. 10 del fascicolo della Procura).
Ancora, prosegue la Procura precisando che “la Regione Lombardia appellava la decisione di 1° grado avanti al Consiglio di Stato, il quale, in sede cautelare, con l’ordinanza 3006/2008 del 03.06.2008 … evidenziava che: “…
ferma restando la statuizione del TAR in merito all’obbligo anche per le Regioni di pubblicare i bandi di concorso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana … l’efficacia della sentenza impugnata deve essere sospesa, stante il pregiudizio grave ed irreparabile discendente dall’esecuzione della medesima, sia per i controinteressati dichiarati vincitori e assunti a seguito della procedura concorsuale, che per l’Amministrazione che ha bandito il concorso in questione, per la mancata copertura dei posti dirigenziali in organico vacanti”. Nel dispositivo l’Ordinanza stabiliva, altresì, “… l’obbligo per l’Amministrazione di congelare un posto di dirigente di ruolo da bandire e mettere a concorso, in modo da soddisfare la pretesa dell’appellato a partecipare alla procedura concorsuale”. In ottemperanza alla predetta Ordinanza la Regione Lombardia, con decreto n. 7899 del 18.07.2008 del Direttore centrale Organizzazione, Personale, Patrimonio e Sistema informativo dott. Si.LA. …, bandiva un “nuovo concorso” … per un posto da dirigente. All’esito del medesimo, il Di Do. si collocava tra gli idonei del concorso al 3° posto e in virtù dello scorrimento di graduatoria, veniva assunto senza tuttavia essere mai ammesso a partecipare alla procedura originaria ...”. Nel frattempo il Consiglio di Stato, Sezione V, si pronunciava sulla questione della legittimità della procedura concorsuale non adeguatamente pubblicizzata, con Decisione depositata in data 01.04.2009, n. 2077 … che respingeva gli appelli (tra cui quello della Regione). Nella suddetta pronuncia il Supremo Consesso ha evidenziato tra l’altro che: “… è comunque certo che la situazione ricreata attraverso la procedura selettiva ad un solo posto dirigenziale non costituisce succedaneo idoneo e satisfattivo di procedura con ben maggiori chances di collocazione in graduatoria …” … In definitiva anche il Supremo giudice amministrativo ha ritenuto “illecita” la condotta della Regione volta a ridurre, attraverso una serie di azioni specifiche ed apparentemente neutre, la platea dei possibili partecipanti alla procedura concorsuale in discorso di indubbia rilevanza “politica” per i vertici regionali (all.ti 11, 12 e 13 del fascicolo della Procura).
Sempre i Requirenti riferiscono poi che “nonostante le due intervenute pronunce di merito sfavorevoli del Giudice amministrativo, affermative di principi generali di rilevanza costituzionale, la Regione ricorreva in Cassazione invocando il difetto di giurisdizione del G.A. sulle vicende concorsuali” (all.ti nn. 14 e 15 del fascicolo della Procura) e che sempre il denunciante aveva poi interposto “… in data 30.11.2009, dinnanzi al TAR Lombardia ricorso per l’ottenimento dei danni economici da lui asseritamente patiti in seguito alla mancata assunzione dall’01.01.2008 (data di assunzione degli altri dirigenti vincitori) all’01.07.2009 (data di assunzione dello stesso, per scorrimento graduatoria, all’ARIFL)”.
Ancora, l’Ufficio Requirente precisa che l’esponente comunicava in seguito “… ulteriori fatti relativi alla vicenda in discorso” (all. n. 19 del fascicolo della Procura), ovvero che “… il ricorso per il preteso difetto di giurisdizione presentato dalla Regione era stato nel frattempo dichiarato inammissibile dalle Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 14495 ... Il giudice della legittimità, pertanto, aveva condannato la Regione alla refusione delle spese di lite, per € 6.440,00, pagate al Di Domenico in data 05.08.2010” (all. n. 20 del fascicolo della Procura) e che “per la relativa assistenza legale, l’ente aveva conferito apposito incarico oltre che a 2 Avvocati della Regione ad un legale del Foro di Roma, l’avvocato Fa.Ci., esperto di diritto amministrativo”.
Sul punto i Requirenti evidenziano anche che “nella richiamata pronuncia …, la Corte regolatrice stabiliva che … “non è dato cogliere nella sentenza impugnata alcuna statuizione che travalichi l’ambito della giurisdizione AGA. Il Consiglio di Stato non si è in alcun modo pronunciato sulla validità ed efficacia dei contratti stipulati dai vincitori del concorso indetto con il bando annullato, né ha fornito l’interpretazione della clausola risolutiva in essi contenuta. Al contrario, i riferimenti fatti alla posizione di costoro sono, nella logica della sentenza, meramente strumentali alla risoluzione della questione preliminare di improcedibilità del ricorso proposto dal D.D. che la Regione aveva sollevato, e cioè la sussistenza dell’obbligo, a suo carico, di impugnare non solo il bando, ma anche ma anche la graduatoria finale ed i provvedimenti di assunzione”, ribadendo il principio di valenza generale per cui l’annullamento del bando travolge tutti gli atti successivi da esso dipendenti”.
Da ultimo, sempre il denunciante, riferiva anche che “… l’avv.to Ci., era stato nominato, dalla Regione Lombardia, con deliberazione giuntale 11123 del 03.02.2010, quale difensore dell’ente nel “ricorso promosso avanti il TAR Lombardia in materia di accesso al lavoro rubricato con R.G. n. 2700/09” (quello con cui il Di Do. aveva richiesto il risarcimento dei danni da lui subiti per perdita di chance). La scelta del legale esterno era stata motivata dall’ente regionale dal fatto che il medesimo legale “già segue, nell’interesse dell’Ente, la vertenza da cui trae origine la domanda risarcitoria”.
Sul complesso della vicenda i Requirenti hanno poi precisato che la stessa è stata non solo oggetto, in data 14.06.2012, di specifica interrogazione presentata al Presidente della Regione Lombardia a firma del Consigliere regionale Za., ma anche di ulteriore denuncia a firma dei Sig.ri De Al., Ca. e Cr., nonché di attenzione mediatica (all.ti nn. 20, 21, 22 e 22-bis del fascicolo della Procura).
In sintesi per la Procura “risulta pertanto dalla documentazione acquisita che, alla data del 20.12.2012,
l’amministrazione regionale lombarda, a cagione della mancata pubblicazione del bando in questione sulla GURI della Repubblica, era stata chiamata in giudizio in ben due procedimenti contenziosi: uno, promosso dal Di Do. a cagione della mancata partecipazione al bando per mancanza di pubblicazione sulla GURI, appunto, conclusosi definitivamente con l’annullamento della procedura concorsuale, con l’appendice del giudizio di Cassazione sulla giurisdizione ed un altro, quello sull’istanza di risarcimento dello stesso Di Do. per il ‘danno ingiusto’ patito per la sua mancata partecipazione al concorso a causa della mancata pubblicazione del bando sulla GURI, definito allora, per la sola ‘perdita di chance’, in primo grado ma impugnato dalla Regione Lombardia”.
Sulla base di tale ricostruzione dei fatti la Procura ha individuato inizialmente tre poste di danno erariale.
In particolare, la prima ipotesi di danno pari ad € 45.286,31 consisterebbe nel costo sostenuto dall’Amministrazione regionale “… per l’indizione del concorso che, su statuizione del Supremo Consesso congelava un posto di dirigente per l’Ing. Di Do. … posto che, qualora si fosse quantomeno atteso l’esito del procedimento giudiziario radicatosi dopo il ricorso del Di Do. o, ancora prima, l’amministrazione avesse posto in essere iniziative di annullamento, anche parziale, ovvero di rettifica o di riapertura dei termini, in autotutela ... ovvero, ci si fosse avvalsi della clausola risolutoria introdotta con il citato decreto 6577/2007, certamente il costo del ridetto secondo concorso, per € 45.286,31 … non sarebbe stato verosimilmente sostenuto”. Tuttavia, proseguono i Requirenti essendo “… il costo della procedura esperita … sostenuto tra il 2008 ed il 2009 … l’azione di questa Procura regionale risulta, ad oggi essere prescritta, non essendo nel frattempo intervenuto, nei termini, alcun atto interruttivo della medesima”.
Per quanto poi riguarda la seconda posta di danno, “costituita dal costo, inutilmente sostenuto dall’amministrazione regionale, per i due procedimenti contenziosi instaurati contro l’Ente a cagione dell’inspiegabile rifiuto di riaprire, in autotutela, i termini per la partecipazione alla procedura del Di Do. …”, gli stessi Requirenti precisano che per una parte di essa “… risulta essere maturata la prescrizione dell’azione erariale in quanto dal 2008 non sono stati interposti atti interruttivi della medesima”.
Diversamente, per la quota parte di danno conseguente alla Deliberazione giuntale n. VIII/09432 del 20.05.2009 il danno erariale risulterebbe ancora attuale.
In particolare, con tale provvedimento “… veniva stabilito di proporre ricorso in Cassazione avverso la pronuncia (anche questa volta sfavorevole alla Regione) del Consiglio di Stato, con contestuale conferimento di rappresentanza legale anche ad un legale esterno, nonostante il cospicuo numero di avvocati – almeno 17 – dipendenti dalla Regione, 7 dei quali abilitati al patrocinio presso le giurisdizioni superiori. A seguito del rigetto del ricorso la Cassazione condannava la Regione Lombardia alla rifusione alla controparte delle spese legali per € 6.440,00 …, pagate in data 05.08.2010, mentre, al legale esterno lo stesso Ente, in data 02.08.2010, pagava gli onorari ammontanti a € 29.611,75 …. L’atto in questione, adottato su proposta del Presidente Ro.FO., e del Direttore Centrale Affari Istituzionali e Legali della Giunta regionale e del Dirigente Avv.to Fr.ZU., con l’assistenza del Segretario generale dott. Ni.SA. è stato approvato all’unanimità dai presenti Assessori: Gi.RO., Da.BO., Gi.BO., Lu.BR., Ma.BU., Ra.CA., Ro.CO., Lu.Da.FE., Ro. LA RU., St.MA., Fr.NI.CR., Ma.PO., Pi.Gi.PR., Ma.SC., Do.ZA., Ma.ZA.. Per tale posta dannosa, ammontante ad € 36.051,75, risulta essere stato posto in essere atto interruttivo della prescrizione, decorrente dal 29.07.2015 [data di spedizione all’ufficiale giudiziario] con invito a fornire deduzioni di questa Procura …”.
Secondo la Procura, “di tale danno devono essere chiamati a rispondere i sopracitati soggetti nella seguente misura, salvo diverso eventuale accertamento delle responsabilità da parte del Collegio:
   A) 80% di € 36.051,75, ovvero € 28.841,40, da addebitarsi, parti uguali, alle condotte del Presidente Ro.FO., dell’Avvocato Fr.ZU., del Segretario generale Ni.SA. e del dott. Lu.DA. (ciascuno per € 7.210,35);
   B) 20% di € 36.051,75, ovvero € 7.210,35, da addebitarsi, in parti uguali, alle condotte degli Assessori Gi.RO., Da.BO., Gi.BO., Lu.BR., Ma.BU., Ra.CA., Ro.CO., Lu.Da.FE., Ro. LA RU., St.MA., Fr.NI.CR., Ma.PO., Pi.Gi.PR., Ma.SC., Do.ZA. e Ma.ZA. (ciascuno per € 450,64)
”.
Infine, in ordine alla terza posta di danno ipotizzata dai Requirenti viene precisato che “… in data 30.11.2009 il Di Do. proponeva ulteriore ricorso per ottenere il risarcimento economico da ‘perdita di chance’ dopo l’annullamento del concorso disposto dal G.A. Anche questa volta la Regione Lombardia decideva la resistenza processuale a tale pretesa …” e che “… la riforma della sentenza del TAR Lombardia favorevole al Di Domenico a seguito della pronuncia del Consiglio di Stato 25.02.2016, n. 762 …, esclude la possibilità di qualificare la condotta dei suddetti soggetti, pur produttiva di ‘deminutio’ patrimoniale, come gravemente colposa”.
Al termine della richiamata attività istruttoria la Procura erariale, ritenendo sussistenti tutti gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa, notificava agli odierni convenuti specifico invito a dedurre (doc. n. 5 all. n. 25 del fascicolo della Procura).
Sempre la Procura riferisce poi che quasi tutti gli odierni convenuti hanno presentato deduzioni difensive (all. n. 30 del fascicolo della Procura), chiedendo altresì di essere anche sentiti personalmente, come da audizioni sinteticamente riportate nell’atto di citazione (all. n. 31 del fascicolo della Procura).
Tanto precisato, non essendo le argomentazioni difensive risultate idonee a superare l’addebito di responsabilità sulla base delle evidenze istruttorie, anche in considerazione del contrasto fra quanto dichiarato dai convenuti e quanto invece affermato sul punto dal Dott. La. nella propria audizione personale del 14.10.2015 (al tempo dei fatti Direttore Centrale del Personale), la Procura ritiene esser stata raggiunta la piena prova della responsabilità amministrativa in capo ai convenuti.
Da ultimo, la Procura precisa che “a cagione della complessità della valutazione delle singole posizioni da esaminare alla luce delle deduzioni scritte ed orali prodotte dai sunnominati soggetti, questa Procura, al fine di meglio approfondirne gli aspetti colà emersi, formulava due istanze di proroga del termine per l’emissione dell’atto di citazione … entrambe autorizzate: la prima, con Ordinanza della Sezione giurisdizionale lombarda numero 4/2016/PRO in data 17.02.2016 – termine concesso sino al 01.06.2016 –, la seconda, con Ordinanza della medesima Sezione n. 9/2016 in data 08.06.2016  termine concesso sino al 30.09.2016–. Entrambe le ordinanze venivano portate a conoscenza dei destinatari dell’invito tramite apposita comunicazione” (all.ti nn. 32 e 33 del fascicolo della Procura).
Tanto premesso, i Requirenti dopo aver evidenziato che “… non c’è dubbio che i Consiglieri regionali –così come i dirigenti regionali avvinti all’Ente territoriale da un rapporto d’impiego– siano sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in virtù del rapporto di servizio con la Regione Lombardia …”, hanno poi precisato con riferimento all’antigiuridicità della condotta degli odierni convenuti che
… in presenza di tali sicuri riferimenti normativi i vertici politici ed amministrativi della Regione avrebbero dovuto prudentemente provvedere anche alla pubblicazione di un avviso nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica. Una siffatta cautela, oltreché evidentemente rispettosa della legge statale, avrebbe evitato le spese per l’imponente contenzioso che la Regione Lombardia si è trovata ad affrontare” e che “in ogni caso il TAR ed il Consiglio di Stato hanno accertato l’illegittimità del concorso con motivazioni diffuse e puntuali .... In particolare il Supremo Consesso ha rilevato l’esegesi strumentale (significativamente definita “confusione logica”) da parte della Regione, delle richiamate norme sui pubblici concorsi volte ad aggirare le forme di pubblicità più ampia “sperimentate e costituzionalmente dovute (art. 97 c. 3 Cost.) di reclutamento del personale degli apparati pubblici”.
In sostanza, per la Procura, “
in presenza di dette cristalline coordinate normative e giurisprudenziali è certamente illecito e connotato da «colpa grave», per non dire da «dolo», il comportamento del Presidente Ro.FO., politico con una lunga esperienza di amministratore che ha sempre tenuto saldamente in mano “la regia dell’intera procedura concorsuale” (significativa in proposito è la “Comunicazione del Presidente alla Giunta nella seduta del 21.11.2007”, all. 35) e di coloro che, coadiuvandolo come esperti nelle materie legali e specialmente nel diritto amministrativo e nell’organizzazione degli uffici regionali presso l’Ufficio di Presidenza della Giunta regionale, hanno partecipato alle fasi procedimentali di formulazione e di approvazione della proposta di delibera volta a consentire la pubblicazione del bando esclusivamente nel Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia e cioè, i dottori Ni.SA. ed En.PA., sottoscrivendo la relativa delibera, nonché i componenti della giunta regionale che l’anno votata.
Non meno grave –per quanto interessa specificamente la quota di danno contestata– è la responsabilità del Presidente FO., di coloro che l’hanno coadiuvato nelle fasi procedimentali di elaborazione e di approvazione della proposta di delibera giuntale volta ad autorizzare la proposizione di un ricorso in Cassazione per regolamento di giurisdizione, per di più attribuendo l’incarico ad un legale esterno –nonostante il ruolo dell’Avvocatura regionale annoverasse ben 7 avvocati abilitati al patrocinio – su circa 17 avvocati in ruolo – in Cassazione ed effettivamente patrocinati (all. 34)– dopo che il giudice amministrativo si era pronunciato 2 volte in termini inequivocabili sull’illegittimità della procedura concorsuale, annullandola, nel pieno esercizio delle sue attribuzioni giurisdizionali, del resto mai contestate dalla stessa Regione, né in primo, né in secondo grado
.
Rileva, in questo senso, oltre alla responsabilità dell’ex Presidente FO. … quella del Direttore Centrale Affari Istituzionali e Legali Lu.DA. e del Dirigente Avv.to Fr.ZU., che lo hanno assistito nella fase di approvazione della delibera di Giunta 9432 del 20.05.2009, oltre a quella del Segretario generale dott. Ni.SA. che ha assistito alla seduta senza rappresentare la possibile «temerarietà» del ricorso, atteso che la giurisdizione amministrativa non era mai stata contestata
”.
Per i Requirenti “
la temerarietà di tale ricorso emergeva già dal pretestuoso riferimento alla volontà di contestare la pronuncia annullamento del bando –“legittima”– per prevenirne gli effetti caducanti o vizianti sui contratti di lavoro a valle. Ed invero la Suprema Corte, nella sentenza 16.06.2010, n. 14495, ha ribadito il principio generale dell’ “effetto caducante dell’annullamento del bando, la cui eliminazione dal mondo giuridico rende privi di giustificazione gli atti successivi ed irradia i suoi effetti sullo status di dipendenti della Regione dei soggetti contro-interessati” ha dichiarato il ricorso “inammissibile”, non riuscendo a “cogliere nella sentenza impugnata alcuna statuizione che travalichi l’ambito della giurisdizione AGA”, condannando conseguentemente la Regione ricorrente alle spese del giudizio …”.
Ancora, con riferimento alla responsabilità del Segretario Generale Sa., la Procura evidenzia che “
… secondo la pacifica giurisprudenza della Corte dei conti, il Segretario Generale è chiamato ad assolvere attivamente il proprio ruolo … Ed invero, in relazione all'applicazione di norme giuridiche la colpa grave è sicuramente riscontrabile in presenza di un'interpretazione o di una sequenza di comportamenti in palese contrasto con la lettera della legge ovvero con prassi interpretative e/o orientamenti giurisprudenziali e dottrinari consolidati”.
Circa poi l’elemento soggettivo relativo alla condotta dei componenti della Giunta viene affermato che “
risulta altresì affetto da colpa grave il comportamento dei componenti della Giunta regionale che hanno votato favorevolmente la deliberazione 20.05.2009, n. 9432 –senza richiedere approfondimenti sul contenuto della stessa di cui assumevano responsabilità politica ed amministrativa–, con cui veniva stabilito di proporre un ricorso anomalo in Cassazione per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a pronunciarsi su una materia –i pubblici concorsi– pacificamente rientrante nella potestà decisoria di quel giudice ai sensi dell’art. 63 del D.lgs. 165/2001, comma 4”.
Pertanto, “
attese le competenze dei membri della Giunta regionale Lombarda il tentativo di limitare la partecipazione al concorso per dirigenti attraverso una pubblicazione solo locale –anziché nazionale– è sintomo di grave negligenza o imprudenza se non di dolo”.
In definitiva, quindi,
per i Requirenti “permane … accertato e contestabile il danno di € 36.051,75, somma pagata dalla Regione Lombardia per il palesemente infondato e dilatorio ricorso per Cassazione avverso la sentenza del Consiglio di Stato 2077/2009, da addebitarsi ai soggetti che parteciparono, a vario titolo, all’adozione della relativa delibera giuntale n. 9432 del 20.05.2009, causativa dell’esborso dannoso”.
... (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia, sentenza 04.07.2017 n. 102).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: E' illegittimo il bando di concorso (e l'intera procedura espletata) non pubblicato sulla GURI.
Come si è chiarito in giurisprudenza in tema di riparto della giurisdizione, ai sensi dell'art. 63, comma 4, d.lgs. 30.03.2001, n. 165 (“Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”), le norme generali discendenti dal principio di cui al comma 3 dell'art. 97 Cost., che governano la gestione dei concorsi pubblici, non hanno ragione di essere derogate per il solo fatto che l'assunzione sia stata effettuata con contratti a tempo determinato, come nella fattispecie all’esame.

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L'obbligo di pubblicazione dei bandi per i concorsi a pubblico impiego nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana –stabilito dall'art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994– costituisce una regola generale attuativa dell'art. 51, primo comma, e dell'art. 97, comma terzo, della Costituzione.
Tale regola ha la finalità di consentire la concreta massima conoscibilità della indizione di un concorso pubblico a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro residenza sul territorio dello Stato e non è stata incisa –neanche per incompatibilità– dall'art. 35, comma 3, lett. a), del d.lgs. n. 165 del 2001, che ha fissato il criterio della "adeguata pubblicità" in aggiunta e non in sostituzione della norma di carattere generale.
Invero, le disposizioni di dettaglio contenute nella fonte regolamentare servono a completare la norma di rango legislativo, costituendone coerente e conforme specificazione.
Va pertanto ribadito che le stesse non possono essere disapplicate, in quanto conformi alla norma di rango superiore ed allo stesso dettato degli articoli 51 e 97 della Costituzione, che garantiscono il diritto di accesso agli impieghi pubblici di tutti i cittadini su di un piano di parità, esercitabile solo attraverso un sistema di pubblicità che favorisca la massima partecipazione.
Né rileva, in contrario, l'art. 32 della legge n. 69 del 2009, poiché il suo comma 7 ha ribadito il perdurante vigore delle disposizioni –anche di rango secondario– che in precedenza hanno disposto la pubblicazione di atti amministrativi sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
In definitiva, la mancata pubblicazione, per estratto, del bando di concorso de quo sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana contrasta insanabilmente con l'art. 4 del D.P.R. n. 487/1994, che, per gli enti locali, prevede la possibilità di sostituire la pubblicazione del bando soltanto con l'avviso di concorso contenente gli estremi del bando e l'indicazione della scadenza del termine per la presentazione della domanda (comma 1-bis).
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... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia:
   - della determina n. 27 del 31.07.2015 del responsabile dell’Area amministrativa del Comune di Ceppaloni e dell'allegato avviso di selezione pubblica per la copertura, tramite contratto a tempo determinato della durata di 24 mesi e a tempo parziale (18 ore settimanali), di un posto di “vice segretario”, categoria D, posizione giuridica ed economica D3;
   - della deliberazione della Giunta del Comune di Ceppaloni n. 66 del 15.05.2015;
   - dell’art. 13 del regolamento comunale sulle modalità di assunzione, sui requisiti di partecipazione e sulle modalità concorsuali (approvato con delibera di Giunta del 28.12.1999 n. 602);
   - della determina n. 2 del 06.04.2016 del Segretario comunale di Ceppaloni, con la quale sono stati approvati gli atti della Commissione esaminatrice e la graduatoria del concorso in questione;
...
Con l’atto introduttivo del giudizio, notificato l’11.04.2016 e depositato il 5 maggio seguente, la ricorrente ha premesso di aver avuto conoscenza solo nel mese di marzo 2016, attraverso un quotidiano, di una selezione pubblica in corso di svolgimento presso il Comune di Ceppaloni –per la copertura, tramite contratto a tempo determinato della durata di 24 mesi e a tempo parziale (18 ore settimanali), di un posto di “vice segretario”, categoria D, posizione giuridica ed economica D3– alla quale, tuttavia, non ha potuto partecipare, pur essendo in possesso dei requisiti richiesti, in quanto a quella data era ormai scaduto il termine di presentazione delle domande.
Ciò posto, lamentando la mancata pubblicazione del bando di concorso in Gazzetta Ufficiale, l’instante ha impugnato tutti gli atti della suddetta procedura, conclusa con l’approvazione della graduatoria in data 06.04.2016, nonché l’art. 13 del regolamento comunale sulle modalità di assunzione, sui requisiti di partecipazione e sulle modalità concorsuali (approvato con delibera di Giunta del 28.12.1999).
A sostegno della domanda di annullamento ha formulato un articolato motivo di diritto così formulato in rubrica: violazione, omessa e/o falsa applicazione dell’art. 4 d.P.R. 487/1994 e degli artt. 51 e 97 Cost.
...
1. Il ricorso è fondato.
2. Non può dubitarsi, anzitutto, della natura concorsuale della procedura in contestazione, indetta dal Comune di Ceppaloni per la copertura, tramite contratto a tempo determinato della durata di 24 mesi e a tempo parziale (18 ore settimanali), di un posto di “vice segretario”, categoria D, posizione giuridica ed economica D3. Ciò non solo per l’espressa qualificazione in termini di concorso conferita alla selezione dal bando e dal richiamo, ivi contenuto, alle previsioni del d.P.R. 09.05.1994 n. 487, ossia al Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni, ma soprattutto per la sussistenza di tutti gli indici rivelatori della natura concorsuale della procedura assunzionale, così come delineati dal consolidato orientamento giurisprudenziale formatosi sul punto (cfr., tra le tante, Cassazione civile, sez. un., n. 8799/2017 e n. 9281/2016; Consiglio di Stato, sez. III, n. 1631/2016; n. 2790/2015; n. 4658/2014).
Invero, nel caso di specie, la stessa è, per l’appunto, iniziata con l'emanazione del bando in discussione, contenente l'indicazione del posto messo a concorso, e si è articolata nella nomina della commissione esaminatrice, nell’attribuzione del punteggio per i titoli posseduti e per la prova scritta ed orale, sulla base della previa fissazione dei criteri di valutazione, nella compilazione di una graduatoria finale di merito, alla stregua dei punteggi complessivi conseguiti dai candidati, e infine nella nomina del primo classificato come vincitore.
Inoltre, come si è chiarito in giurisprudenza in tema di riparto della giurisdizione, ai sensi dell'art. 63, comma 4, d.lgs. 30.03.2001, n. 165 (“Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”), le norme generali discendenti dal principio di cui al comma 3 dell'art. 97 Cost., che governano la gestione dei concorsi pubblici, non hanno ragione di essere derogate per il solo fatto che l'assunzione sia stata effettuata con contratti a tempo determinato, come nella fattispecie all’esame (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 04/11/2014, n. 5431; Consiglio di Stato, sez. III, 21.06.2011, n. 3704; Cassazione, SS.UU., 15.01.2010, n. 529).
3. Premesso quanto sopra, ad avviso del Collegio si palesa fondato il motivo con cui la ricorrente ha lamentato la mancata pubblicazione del bando di concorso in Gazzetta Ufficiale.
3.1. In punto di fatto ciò non è contestato dall’Amministrazione comunale, avendo quest’ultima nelle proprie difese confermato di essersi limitata a pubblicare il bando sull’albo on-line dell’ente e di averne dato comunicazione a quattro comuni viciniori ed alla Provincia di Benevento, in ottemperanza a quanto disposto dal secondo comma dell’art. 13 del già menzionato regolamento locale.
3.2. Ritiene il Collegio, conformemente all’indirizzo affermatosi in giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 08.06.2015, n. 2801 e 25.01.2016, n. 227; TAR Campania, Napoli, sezione V, n. 4074 del 2009), che l'obbligo di pubblicazione dei bandi per i concorsi a pubblico impiego nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana –stabilito dall'art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994– costituisce una regola generale attuativa dell'art. 51, primo comma, e dell'art. 97, comma terzo, della Costituzione.
Tale regola ha la finalità di consentire la concreta massima conoscibilità della indizione di un concorso pubblico a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro residenza sul territorio dello Stato e non è stata incisa –neanche per incompatibilità– dall'art. 35, comma 3, lett. a), del d.lgs. n. 165 del 2001, che ha fissato il criterio della "adeguata pubblicità" in aggiunta e non in sostituzione della norma di carattere generale. Invero, le disposizioni di dettaglio contenute nella fonte regolamentare servono a completare la norma di rango legislativo, costituendone coerente e conforme specificazione.
Va pertanto ribadito che le stesse non possono essere disapplicate, in quanto conformi alla norma di rango superiore ed allo stesso dettato degli articoli 51 e 97 della Costituzione, che garantiscono il diritto di accesso agli impieghi pubblici di tutti i cittadini su di un piano di parità, esercitabile solo attraverso un sistema di pubblicità che favorisca la massima partecipazione.
Né rileva, in contrario, l'art. 32 della legge n. 69 del 2009, poiché il suo comma 7 ha ribadito il perdurante vigore delle disposizioni –anche di rango secondario– che in precedenza hanno disposto la pubblicazione di atti amministrativi sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
3.3. In definitiva, la mancata pubblicazione, per estratto, del bando di concorso de quo sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana contrasta insanabilmente con l'art. 4 del D.P.R. n. 487/1994, che, per gli enti locali, prevede la possibilità di sostituire la pubblicazione del bando soltanto con l'avviso di concorso contenente gli estremi del bando e l'indicazione della scadenza del termine per la presentazione della domanda (comma 1-bis).
3.4. Non giova all’Amministrazione resistente neanche al richiamo al già citato art. 13 del regolamento comunale sulle modalità di assunzione, sui requisiti di partecipazione e sulle modalità concorsuali (approvato con delibera di Giunta del 28.12.1999), il quale al primo comma stabilisce che “Il bando, ovvero l’avviso di concorso, sarà pubblicato nel rispetto delle norme vigenti alla data di approvazione del bando” ed al secondo dispone che “Il bando integrale deve essere pubblicato all’Albo Pretorio comunale e dei comuni confinanti, nonché nei consueti luoghi di affissione del Comune”.
Invero, la norma regolamentare comunale, nel prevedere la pubblicazione del bando o dell'avviso "nel rispetto delle norme vigenti alla data di approvazione del bando", non esclude, ma anzi conferma l'applicazione dell'art. 4 del D.P.R. n. 487. La previsione circa la pubblicazione del bando all'Albo Pretorio comunale va in questo senso considerata come necessaria integrazione, attesa la facoltà del Comune di pubblicare in Gazzetta Ufficiale solo l'estratto con gli estremi del bando e la data di scadenza della domanda (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 08.06.2015, n. 2801).
4. Per la stessa ragione, non può essere accolto il profilo del primo motivo, nella parte in cui si prospetta l’illegittimità del citato art. 13 per violazione dell'art. 4 del d.P.R. n. 487/1994, dovendosi ribadire che il regolamento comunale non ammette forme di pubblicità ridotta rispetto a quella imposta dalla normativa nazionale ma, al contrario, ferma la regola generale, cui fa rinvio il primo comma, prevede ulteriori modalità aggiuntive di pubblicità dirette a rendere ancor più conoscibile alla collettività l’indizione della procedura.
In tale parte, dunque, il gravame deve essere respinto.
5. In conclusione, il ricorso merita accoglimento nei limiti sopra precisati, per cui s’impone l’annullamento degli atti della suddetta procedura concorsuale, conclusa con l’approvazione della graduatoria in data 06.04.2016 (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 23.06.2017 n. 3433 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La mancata pubblicazione del bando di concorso sulla Gazzetta Ufficiale comporta la legittimazione alla sua impugnazione da parte di chi abbia interesse a parteciparvi, senza bisogno ovviamente di proporre la domanda di partecipazione, la cui mancanza è dipesa proprio dalla mancata pubblicazione del bando, in violazione della normativa vigente.
L'obbligo di pubblicazione dei bandi per concorso a pubblico impiego nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana –previsto dall’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994- costituisce una regola generale attuativa dell’art. 51, primo comma, e dell’art. 97, comma terzo, della Costituzione.
Tale regola ha la finalità di consentire la concreta massima conoscibilità della indizione di un concorso pubblico a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro residenza sul territorio dello Stato e non è stata incisa –neanche per incompatibilità- dall’art. 35, comma 3, lett. a), del d.lgs. n. 165-2001, che ha fissato il criterio della «adeguata pubblicità» in aggiunta e non in sostituzione della regola di carattere generale.
Neppure rileva in contrario l’art. 32 della legge n. 69 del 2009, poiché il suo comma 7 ha ribadito il perdurante vigore delle disposizioni –anche di rango secondario- che in precedenza hanno disposto la pubblicazione di atti amministrativi sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

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... per la riforma della sentenza n. 1312/2015 del TAR Piemonte, Sez. II, resa tra le parti, concernente la graduatoria finale del concorso a un posto di istruttore amministrativo contabile.
...
1. Con la sentenza impugnata, il TAR per il Piemonte ha accolto il ricorso di primo grado n. 607 del 2015 ed ha annullato tutti gli atti del procedimento concorsuale, indetto dal Comune di Gavi per la copertura di un posto di istruttore amministrativo contabile.
Il TAR ha ravvisato la fondatezza della censura con cui il ricorrente in primo grado ha lamentato che il bando di concorso non è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
2. Con l’appello in esame, la vincitrice del concorso ha impugnato la sentenza del TAR, chiedendo che in sua riforma il ricorso di primo grado sia respinto.
Ella ha dedotto che –contrariamente a quanto ha ritenuto il TAR– la mancata pubblicazione del bando sulla Gazzetta Ufficiale va considerata legittima, a seguito della entrata in vigore dell’art. 32 della legge n. 69 del 2009, che ha previsto l’obbligo delle Amministrazioni di pubblicare i provvedimenti sui propri siti informatici.
3. Ritiene la Sezione che le censure dell’appellante, così riassunte, vadano respinte.
3.1. Come ha rilevato la Sezione (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 08.06.2015, n. 2801), l'obbligo di pubblicazione dei bandi per concorso a pubblico impiego nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana –previsto dall’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994- costituisce una regola generale attuativa dell’art. 51, primo comma, e dell’art. 97, comma terzo, della Costituzione.
Tale regola ha la finalità di consentire la concreta massima conoscibilità della indizione di un concorso pubblico a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro residenza sul territorio dello Stato e non è stata incisa –neanche per incompatibilità- dall’art. 35, comma 3, lett. a), del d.lgs. n. 165-2001, che ha fissato il criterio della «adeguata pubblicità» in aggiunta e non in sostituzione della regola di carattere generale.
Neppure rileva in contrario l’art. 32 della legge n. 69 del 2009, poiché il suo comma 7 ha ribadito il perdurante vigore delle disposizioni –anche di rango secondario- che in precedenza hanno disposto la pubblicazione di atti amministrativi sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
3.2. La mancata pubblicazione del bando di concorso sulla Gazzetta Ufficiale comporta la legittimazione alla sua impugnazione da parte di chi abbia interesse a parteciparvi, senza bisogno ovviamente di proporre la domanda di partecipazione, la cui mancanza è dipesa proprio dalla mancata pubblicazione del bando, in violazione della normativa vigente.
4. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto, con conferma della sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.01.2016 n. 227 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il ricorrente è legittimato ad impugnare l’esito della procedura selettiva pur non avendovi partecipato, in quanto:
- la regola processuale della obbligatoria presentazione della domanda di ammissione subisce un’eccezione proprio nel caso in cui l’interessato non abbia avuto notizia tempestiva del bando di concorso, per la mancata pubblicazione dello stesso, quantomeno per estratto, sulla Gazzetta Ufficiale, dovendo ritenersi senz’altro sussistente la legittimazione all’impugnativa in capo a colui al quale sia stata preclusa la conoscenza dell’avvio della procedura concorsuale mediante lo strumento di pubblicità normativamente prescritto;
- il ricorrente, laureato in Scienze dell’economia e della gestione aziendale, ha dimostrato di possedere un titolo di studio idoneo ai fini dell’ammissione al concorso per il profilo di istruttore amministrativo contabile, con ciò allegando un interesse concreto e differenziato alla partecipazione alla procedura concorsuale al fine di collocarsi utilmente in graduatoria e di ottenere la nomina;
- al riguardo, secondo il noto e generale principio dell’assorbenza, la laurea in discipline economiche implica il riconoscimento di competenze identiche ed ulteriori rispetto a quelle ragionieristiche, economiche e giuridiche discendenti dal possesso del diploma quinquennale di ragioneria, che era richiesto dal bando adottato dal Comune.

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Il Comune non ha pubblicato il bando di concorso sulla Gazzetta Ufficiale, neppure per estratto.
L’omessa pubblicazione del bando configura l’insanabile violazione dell’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994, che prevede, per gli enti locali, la possibilità di sostituire la pubblicazione integrale del bando con l’avviso di concorso contenente gli estremi del bando e l’indicazione della scadenza del termine per la presentazione della domanda.
La norma regolamentare è tuttora vigente ed integra la previsione generale dell’art. 35, terzo comma, del d.lgs. n. 165 del 2001, recante principi in materia di procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni, che si limita a prescrivere la “adeguata pubblicità della selezione” senza specificare altro in ordine alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
A diversa conclusione non può giungersi sulla base dell’art. 32 della legge n. 69 del 2009, come vorrebbero le parti resistenti.
E’ vero che primo comma dell’art. 32 stabilisce che gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei siti informatici delle amministrazioni e degli enti pubblici; ma, di contro, il settimo comma dell’art. 32 prevede espressamente che “è fatta salva la pubblicità nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana e i relativi effetti giuridici…”, in tal modo confermando l’obbligatorietà della pubblicazione dei bandi di concorso in Gazzetta Ufficiale e gli effetti giuridici che a tale pubblicazione conseguono.
Secondo l’interpretazione testuale e sistematica più corretta del settimo comma dell’art. 32, la “salvezza” dell’obbligatorietà e degli effetti della pubblicità in Gazzetta Ufficiale non può essere oggettivamente circoscritta oggettivamente alle sole gare d’appalto disciplinate dal d.lgs. n. 163 del 2006. Il comma recita: “è fatta salva la pubblicità nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e i relativi effetti giuridici, nonché nel sito informatico del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti di cui al decreto del Ministro dei lavori pubblici 06.04.2001 (…), e nel sito informatico presso l’Osservatorio dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, prevista dal codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163”. L’ultimo inciso, ossia il riferimento all’art. 7 del Codice degli appalti pubblici, non può che essere riferito alla pubblicità mediante l’Osservatorio gestito dall’Autorità di vigilanza (oggi Autorità nazionale anticorruzione).
Così interpretato il settimo comma dell’art. 32 della legge n. 69 del 2009, che conferma nei termini descritti e senza limitazioni l’obbligo di pubblicità nella Gazzetta Ufficiale, non si pone alcuna questione di prevalenza della norma di rango legislativo sulla norma anteriore di rango regolamentare (l’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994), come invece affermato dalla difesa del Comune.
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... per l'annullamento:
   - del bando di “concorso pubblico per esami per l'assunzione a tempo indeterminato di n. 1 istruttore amministrativo contabile - cat. C - posizione economica C1, presso il Comune di Gavi (AL), Servizio Finanziario" del 19.02.2015;
   - della graduatoria finale di concorso del 30.03.2015, in cui risultano classificati al primo posto El.Fi. ed al secondo posto Gr.Po.Ma.;
   - dell’atto di diniego di accesso civico prot. n. 3365 in data 08.05.2015, con cui il Comune di Gavi ha rigettato l’istanza presentata dal ricorrente ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 33 del 2013, avente ad oggetto il regolamento comunale sull’ordinamento degli uffici e dei servizi (ovvero altro regolamento recante le norme sull’accesso all’impiego nel Comune di Gavi), nonché l’estratto della pubblicazione del bando sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana o sugli altri mezzi di informazione o portali telematici;
...
Il ricorrente, laureato in Scienze dell’economia e della gestione aziendale, è attualmente dipendente a tempo indeterminato del Comune di Jesi, con la qualifica di istruttore direttivo amministrativo e contabile.
Impugna gli atti in epigrafe, con i quali il Comune di Gavi ha indetto un concorso per esami per l’assunzione di un istruttore amministrativo contabile e, all’esito delle prove scritte ed orali, ha dichiarato vincitore la dott.ssa El.Fi., stipulando con quest’ultima il contratto individuale di lavoro a tempo pieno ed indeterminato.
Deduce motivi così riassumibili:
   1) violazione degli artt. 51 e 97 Cost., violazione dell’art. 35 del d.lgs. n. 165 del 2001, violazione dell’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994: il Comune di Gavi avrebbe illegittimamente omesso di pubblicare il bando di concorso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana;
   2) incompetenza, violazione dell’art. 107 del d.lgs. n. 267 del 2000: il bando di concorso sarebbe stato approvato dalla Giunta comunale, anziché dal dirigente o dal funzionario responsabile;
   3) violazione dell’art. 5 del d.lgs. n. 33 del 2013: il Comune di Gavi avrebbe illegittimamente impedito l’esercizio del diritto di accesso civico ai regolamenti.
Il ricorrente chiede, inoltre, la condanna del Comune al risarcimento del danno, in relazione alla perdita della chance di partecipazione al concorso.
...
1. Sussistono, ai sensi dell’art. 74 cod. proc. amm., i presupposti per la decisione in forma semplificata.
2. In rito, deve essere respinta l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa delle controinteressate. Non può esser dubbio, infatti, che il ricorrente è legittimato ad impugnare l’esito della procedura selettiva pur non avendovi partecipato, in quanto:
   - la regola processuale della obbligatoria presentazione della domanda di ammissione subisce un’eccezione proprio nel caso in cui l’interessato non abbia avuto notizia tempestiva del bando di concorso, per la mancata pubblicazione dello stesso, quantomeno per estratto, sulla Gazzetta Ufficiale, dovendo ritenersi senz’altro sussistente la legittimazione all’impugnativa in capo a colui al quale sia stata preclusa la conoscenza dell’avvio della procedura concorsuale mediante lo strumento di pubblicità normativamente prescritto (Cons. Stato, sez. V, 01.04.2009 n. 2077);
   - il ricorrente, laureato in Scienze dell’economia e della gestione aziendale, ha dimostrato di possedere un titolo di studio idoneo ai fini dell’ammissione al concorso per il profilo di istruttore amministrativo contabile, con ciò allegando un interesse concreto e differenziato alla partecipazione alla procedura concorsuale al fine di collocarsi utilmente in graduatoria e di ottenere la nomina;
   - al riguardo, secondo il noto e generale principio dell’assorbenza (tra le più recenti: TAR Sardegna, sez. I, 19.09.2014 n. 718; TAR Sicilia, Catania, sez. II, 24.05.2013 n. 1527; TAR Lazio, sez. I-ter, 04.04.2013 n. 3382; TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 17.01.2012 n. 159), la laurea in discipline economiche implica il riconoscimento di competenze identiche ed ulteriori rispetto a quelle ragionieristiche, economiche e giuridiche discendenti dal possesso del diploma quinquennale di ragioneria, che era richiesto dal bando adottato dal Comune di Gavi.
3. Il secondo motivo, con cui il ricorrente censura l’incompetenza della Giunta comunale ad approvare il bando di concorso, deve essere esaminato in via prioritaria (in tema di graduazione dei motivi: Cons. Stato, ad. plen., 27.04.2015 n. 5) ed è manifestamente infondato.
Il bando del 19.02.2015 reca la firma del dirigente responsabile del servizio, dott.ssa Su. (doc. 1 di parte ricorrente). Pertanto, non vi è stata alcuna deviazione dalla ordinaria competenza dirigenziale.
4. Il primo motivo di ricorso è fondato.
Il Comune di Gavi non ha pubblicato il bando di concorso sulla Gazzetta Ufficiale, neppure per estratto.
L’omessa pubblicazione del bando configura l’insanabile violazione dell’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994, che prevede, per gli enti locali, la possibilità di sostituire la pubblicazione integrale del bando con l’avviso di concorso contenente gli estremi del bando e l’indicazione della scadenza del termine per la presentazione della domanda.
La norma regolamentare è tuttora vigente ed integra la previsione generale dell’art. 35, terzo comma, del d.lgs. n. 165 del 2001, recante principi in materia di procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni, che si limita a prescrivere la “adeguata pubblicità della selezione” senza specificare altro in ordine alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (cfr. Cons. Stato, sez. V, 16.02.2010 n. 871).
A diversa conclusione non può giungersi sulla base dell’art. 32 della legge n. 69 del 2009, come vorrebbero le parti resistenti.
E’ vero che primo comma dell’art. 32 stabilisce che gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei siti informatici delle amministrazioni e degli enti pubblici; ma, di contro, il settimo comma dell’art. 32 prevede espressamente che “è fatta salva la pubblicità nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana e i relativi effetti giuridici…”, in tal modo confermando l’obbligatorietà della pubblicazione dei bandi di concorso in Gazzetta Ufficiale e gli effetti giuridici che a tale pubblicazione conseguono (in questo senso: Cons. Giust. Amm. Sicilia, sez. giurisd., 12.12.2013 n. 934; TAR Lazio, sez. III-quater, 01.04.2014 n. 3554; TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 22.02.2013 n. 145; TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 08.06.2012 n. 1474).
Secondo l’interpretazione testuale e sistematica più corretta del settimo comma dell’art. 32, la “salvezza” dell’obbligatorietà e degli effetti della pubblicità in Gazzetta Ufficiale non può essere oggettivamente circoscritta oggettivamente alle sole gare d’appalto disciplinate dal d.lgs. n. 163 del 2006. Il comma recita: “è fatta salva la pubblicità nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e i relativi effetti giuridici, nonché nel sito informatico del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti di cui al decreto del Ministro dei lavori pubblici 06.04.2001 (…), e nel sito informatico presso l’Osservatorio dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, prevista dal codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163”. L’ultimo inciso, ossia il riferimento all’art. 7 del Codice degli appalti pubblici, non può che essere riferito alla pubblicità mediante l’Osservatorio gestito dall’Autorità di vigilanza (oggi Autorità nazionale anticorruzione).
Così interpretato il settimo comma dell’art. 32 della legge n. 69 del 2009, che conferma nei termini descritti e senza limitazioni l’obbligo di pubblicità nella Gazzetta Ufficiale, non si pone alcuna questione di prevalenza della norma di rango legislativo sulla norma anteriore di rango regolamentare (l’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994), come invece affermato dalla difesa del Comune di Gavi.
Il motivo, pertanto, è fondato e comporta l’annullamento del procedimento concorsuale e della graduatoria finale.
5. E’ viceversa improcedibile, per difetto di interesse, l’ultimo motivo di ricorso avente ad oggetto l’accesso civico ai regolamenti comunali.
La domanda di risarcimento del danno è respinta, poiché dall’annullamento dell’esito del concorso discende la piena soddisfazione dell’interesse azionato dal ricorrente (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 31.07.2015 n. 1312 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa controversia riguarda la legittimità di un procedimento concorsuale, a partire da quella del bando con cui esso è stato avviato.
Di talché,
l’appartenenza della causa in esame alla giurisdizione amministrativa riposa saldamente sulla previsione del comma 4 dell’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001, a norma del quale “Restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni” (per tali dovendosi intendere “le controversie che … attengono alla fase del concorso, dall'adozione del bando, con il quale l'amministrazione manifesta all'esterno la decisione di reclutare un certo numero di dipendenti, fino all'approvazione della graduatoria definitiva con cui si concludono le operazioni concorsuali, mentre resta irrilevante, in presenza di una siffatta "res litigiosa", che dall'annullamento dell'atto possa derivare, in positivo, il diritto all'assunzione”).
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Né può accedersi all’idea che una controversia siffatta dovrebbe nondimeno reputarsi di pertinenza dell’A.G.O. per la sola e mera ragione che al momento della proposizione del ricorso introduttivo l’iter concorsuale si fosse in concreto ormai concluso, dando luogo alla nomina del vincitore.
La Sezione a questo proposito non può non condividere l’osservazione del primo Giudice secondo cui “la permanenza in capo al giudice amministrativo della giurisdizione in tema di procedure concorsuali non possa dipendere dalla mancata adozione di un provvedimento di nomina del vincitore: se così fosse, si consentirebbe alla pubblica amministrazione di scegliere il giudice dei propri atti. Sarebbe infatti sufficiente nominare il vincitore del concorso con la massima sollecitudine possibile per impedire che il giudice amministrativo possa essere adito o possa pronunciarsi sulla legittimità di una graduatoria.”
E’ indubbio che, “nel quadro della c.d. privatizzazione dei rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, la devoluzione al giudice ordinario delle controversie relative a tali rapporti comprende, come da espressa previsione di legge, anche le controversie concernenti l'assunzione al lavoro”; così come non è meno vero che “La riserva di giurisdizione amministrativa in materia di concorsi (art. 63 cit., comma 4) non estende la sua rilevanza alla fase successiva all'approvazione della graduatoria e in particolare alle controversie in merito alle pretese all'assunzione basate sull'esito del concorso”.
La circostanza, tuttavia, che nella specie al momento della domanda giudiziale il concorso fosse già concluso non toglie che tale domanda riguardasse proprio la legittimità del concorso stesso, e solo in via meramente riflessa gli atti a valle della relativa procedura, rientrandosi pertanto appieno nel campo di applicazione dell‘art. 63, comma 4, d.lgs. cit.. Vale allora nel caso concreto il principio secondo cui “la giurisdizione sulla legittimità di tutto quanto attiene al processo selettivo va devoluta al giudice amministrativo, al giudice cioè cui è istituzionalmente devoluto ogni controllo sulla legittimità di ogni atto della pubblica amministrazione”.
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Ritiene il Collegio che la mancata pubblicazione, per estratto, del bando di concorso per la copertura di un posto di Comandante del Corpo dei Vigili Urbani, sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, contrasti insanabilmente con l’art. 4 del D.P.R. n. 487/1994, che prescrive la pubblicazione del bando di concorso per l’accesso all’impiego nella Gazzetta Ufficiale ed in particolare, per gli enti locali, prevede la possibilità di sostituire la pubblicazione del bando con l’avviso di concorso contenente gli estremi del bando e l’indicazione della scadenza del termine per la presentazione della domanda (comma 1-bis).
Né tale disposizione può considerarsi in contrasto con l’art. 35, comma 3, lett. a), del D.Lgs. n. 165/2001, recante principi in materia di procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni, che si limita a prescrivere “adeguata pubblicità della selezione”, senza nulla specificare in ordine alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Invero, le disposizioni di dettaglio contenute nella fonte regolamentare servono a completare la norma di rango legislativo, costituendone coerente e conforme specificazione. Esse non possono, pertanto, essere disapplicate, in quanto conformi alla norma di rango superiore ed allo stesso dettato degli articoli 51 e 97 della Costituzione, che garantiscono il diritto di accesso agli impieghi pubblici di tutti i cittadini su di un piano di parità, esercitabile solo attraverso un sistema di pubblicità che favorisca la massima partecipazione.
Non può poi essere accolto il motivo, secondo cui il Regolamento comunale sull’ordinamento generale degli uffici e dei servizi approvato con delibera n. 648 del 24.9.1997 , ammette, all’art. 36, forme di pubblicità ridotta rispetto a quella imposta dalla normativa generale.
Invero, il Regolamento prevede la pubblicazione del bando o dell’avviso “nel rispetto delle procedure vigenti alla data di approvazione del bando”. Dunque esso non esclude, ma anzi conferma l’applicazione dell’art. 4 del D.P.R. n. 487. La previsione circa la pubblicazione del bando all’Albo Pretorio comunale va in questo senso considerata come necessaria integrazione, attesa la facoltà del Comune di pubblicare in Gazzetta Ufficiale solo l’estratto con gli estremi del bando e la data di scadenza della domanda.
Non assume in merito rilievo la questione circa la possibilità riconosciuta ai Comuni di disciplinare, con proprio regolamento, ai sensi dell’art. 89 D.Lgs. n. 267/2000, l’ordinamento degli uffici e dei servizi, poiché il Regolamento comunale , per quanto detto, non autorizza affatto a ritenere superato il precetto regolamentare costituito dall’art. 4 del D.P.R. n. 487” (Sez. V, n. 871/2010 cit.; un’impostazione simile è stata seguita dal C.G.A.R.S. con la sentenza 12.12.2013 n. 934, che ha soggiunto che l’obbligatorietà della pubblicazione dei bandi nella Gazzetta Ufficiale è stata confermata anche dall’art. 32 della legge n. 69/2009).
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... per la riforma della sentenza 17.07.2009 n. 4074 del TAR CAMPANIA–Napoli, Sez. V, resa tra le parti, concernente concorso per 1 posto di funzionario - area economico-finanziaria - categoria D3.
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Con ricorso al TAR per la Campania il sig. Gi.Es., laureato in economia marittima e dei trasporti e iscritto all’Ordine dei dottori commercialisti di Napoli, impugnava gli atti del Comune di Sant'Agata de’ Goti (BN) con i quali era stato indetto il concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di 1 posto a tempo indeterminato (tempo pieno) nel profilo professionale di funzionario – area economico-finanziaria – categoria D3 (determinazione dirigenziale n. 129 del 28.07.2008), il relativo bando, tutte le operazioni della procedura e la relativa graduatoria definitiva, pubblicata il 20.12.2008.
La censura di fondo del ricorso si basava sulla circostanza che il bando di concorso non fosse mai stato pubblicato, neppure per estratto, sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, né tanto meno sul Bollettino Ufficiale della Regione Campania, bensì esclusivamente sul sito web e all’Albo pretorio del Comune, circostanza che aveva impedito al ricorrente di venirne a conoscenza in tempo utile ai fini della partecipazione alla procedura.
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L’appello è infondato.
1 L’appellante con il suo primo motivo ripropone la propria eccezione di difetto di giurisdizione a favore del Giudice ordinario, dolendosi del suo rigetto da parte del primo Giudice.
L’eccezione è infondata.
L’appartenenza della causa in esame alla giurisdizione amministrativa riposa saldamente sulla previsione del comma 4 dell’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001, a norma del quale “Restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni” (per tali dovendosi intendere, secondo Cass. Civ. SS.UU., 27/10/2006, n. 23075, “le controversie che … attengono alla fase del concorso, dall'adozione del bando, con il quale l'amministrazione manifesta all'esterno la decisione di reclutare un certo numero di dipendenti, fino all'approvazione della graduatoria definitiva con cui si concludono le operazioni concorsuali, mentre resta irrilevante, in presenza di una siffatta "res litigiosa", che dall'annullamento dell'atto possa derivare, in positivo, il diritto all'assunzione”).
La controversia riguarda, appunto, la legittimità di un procedimento concorsuale, a partire da quella del bando con cui esso è stato avviato.
L’impugnativa proposta in prime cure aveva lo scopo di ottenere l’annullamento integrale del procedimento espletato, affinché in luogo di esso venisse indetto un nuovo concorso, mediante un bando pubblicato a norma di legge, cui fosse posto in grado di partecipare, quindi, chiunque disponeva dei requisiti occorrenti. La posizione dedotta in giudizio dall’originario ricorrente configurava pertanto, senza possibilità di equivoci, un interesse legittimo, e non certo un diritto soggettivo.
La controversia concerne, inoltre, proprio il concorso in sé stesso: tanto la causa petendi quanto il petitum del relativo ricorso attengono, infatti, alla materia del procedimento concorsuale (cfr. Cassazione civile SS.UU. 16/11/2007, n. 23737).
Né può accedersi all’idea che una controversia siffatta dovrebbe nondimeno reputarsi di pertinenza dell’A.G.O. per la sola e mera ragione che al momento della proposizione del ricorso introduttivo l’iter concorsuale si fosse in concreto ormai concluso, dando luogo alla nomina del vincitore.
La Sezione a questo proposito non può non condividere l’osservazione del primo Giudice secondo cui “la permanenza in capo al giudice amministrativo della giurisdizione in tema di procedure concorsuali non possa dipendere dalla mancata adozione di un provvedimento di nomina del vincitore: se così fosse, si consentirebbe alla pubblica amministrazione di scegliere il giudice dei propri atti. Sarebbe infatti sufficiente nominare il vincitore del concorso con la massima sollecitudine possibile per impedire che il giudice amministrativo possa essere adito o possa pronunciarsi sulla legittimità di una graduatoria.”
E’ indubbio che, “nel quadro della c.d. privatizzazione dei rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, la devoluzione al giudice ordinario delle controversie relative a tali rapporti comprende, come da espressa previsione di legge, anche le controversie concernenti l'assunzione al lavoro” (Cassazione civile SS.UU. 28/05/2012, n. 8410); così come non è meno vero che “La riserva di giurisdizione amministrativa in materia di concorsi (art. 63 cit., comma 4) non estende la sua rilevanza alla fase successiva all'approvazione della graduatoria e in particolare alle controversie in merito alle pretese all'assunzione basate sull'esito del concorso (cfr. Cass., sez. un., 16.07.2008, n. 19510, 26.02.2010, n. 4648)” (SS.UU. n. 8410/2012 cit.).
La circostanza, tuttavia, che nella specie al momento della domanda giudiziale il concorso fosse già concluso non toglie che tale domanda riguardasse proprio la legittimità del concorso stesso, e solo in via meramente riflessa gli atti a valle della relativa procedura, rientrandosi pertanto appieno nel campo di applicazione dell‘art. 63, comma 4, d.lgs. cit.. Vale allora nel caso concreto il principio secondo cui “la giurisdizione sulla legittimità di tutto quanto attiene al processo selettivo va devoluta al giudice amministrativo, al giudice cioè cui è istituzionalmente devoluto ogni controllo sulla legittimità di ogni atto della pubblica amministrazione” (Cassazione civile SS.UU. 16/07/2008, n. 19510).
Ne consegue la reiezione del primo motivo di appello.
2a Con il secondo, articolato mezzo viene invece trattato il merito della controversia, proponendo la tesi di fondo che il bando di concorso oggetto di causa non avrebbe necessitato di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, in quanto il Comune avrebbe diversamente disposto nell’esercizio della propria potestà normativa tanto mediante l’art. 70 del proprio Statuto, quanto con l’art. 36 del proprio Regolamento sull’ordinamento generale degli uffici e dei servizi.
2b La Sezione in proposito deve però richiamarsi alla contraria impostazione seguita, in una simile vicenda riguardante lo stesso Ente locale, in occasione della sentenza 16.02.2010 n. 871, con la quale una prospettazione affine a quella proposta dall’odierno appellante è stata appunto disattesa.
2c Con tale pronuncia (confermativa del precedente cui nel caso concreto si è uniformato il primo Giudice) la Sezione ha sviluppato le seguenti osservazioni.
… ritiene il Collegio che la mancata pubblicazione, per estratto, del bando di concorso per la copertura di un posto di Comandante del Corpo dei Vigili Urbani, sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, contrasti insanabilmente con l’art. 4 del D.P.R. n. 487/1994, che prescrive la pubblicazione del bando di concorso per l’accesso all’impiego nella Gazzetta Ufficiale ed in particolare, per gli enti locali, prevede la possibilità di sostituire la pubblicazione del bando con l’avviso di concorso contenente gli estremi del bando e l’indicazione della scadenza del termine per la presentazione della domanda (comma 1-bis).
Né tale disposizione può considerarsi in contrasto con l’art. 35, comma 3, lett. a), del D.Lgs. n. 165/2001, recante principi in materia di procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni, che si limita a prescrivere “adeguata pubblicità della selezione”, senza nulla specificare in ordine alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Invero, le disposizioni di dettaglio contenute nella fonte regolamentare servono a completare la norma di rango legislativo, costituendone coerente e conforme specificazione. Esse non possono, pertanto, essere disapplicate, in quanto conformi alla norma di rango superiore ed allo stesso dettato degli articoli 51 e 97 della Costituzione, che garantiscono il diritto di accesso agli impieghi pubblici di tutti i cittadini su di un piano di parità, esercitabile solo attraverso un sistema di pubblicità che favorisca la massima partecipazione.
Non può poi essere accolto il motivo, secondo cui il Regolamento comunale sull’ordinamento generale degli uffici e dei servizi approvato con delibera n. 648 del 24.9.1997 , ammette, all’art. 36, forme di pubblicità ridotta rispetto a quella imposta dalla normativa generale.
Invero, il Regolamento prevede la pubblicazione del bando o dell’avviso “nel rispetto delle procedure vigenti alla data di approvazione del bando”. Dunque esso non esclude, ma anzi conferma l’applicazione dell’art. 4 del D.P.R. n. 487. La previsione circa la pubblicazione del bando all’Albo Pretorio comunale va in questo senso considerata come necessaria integrazione, attesa la facoltà del Comune di pubblicare in Gazzetta Ufficiale solo l’estratto con gli estremi del bando e la data di scadenza della domanda.
Non assume in merito rilievo la questione circa la possibilità riconosciuta ai Comuni di disciplinare, con proprio regolamento, ai sensi dell’art. 89 D.Lgs. n. 267/2000, l’ordinamento degli uffici e dei servizi, poiché il Regolamento comunale , per quanto detto, non autorizza affatto a ritenere superato il precetto regolamentare costituito dall’art. 4 del D.P.R. n. 487
” (Sez. V, n. 871/2010 cit.; un’impostazione simile è stata seguita dal C.G.A.R.S. con la sentenza
sentenza 12.12.2013 n. 934, che ha soggiunto che l’obbligatorietà della pubblicazione dei bandi nella Gazzetta Ufficiale è stata confermata anche dall’art. 32 della legge n. 69/2009).
2d La Sezione deve quindi senz’altro ribadire l’infondatezza dell’assunto che l’art. 36 del Regolamento comunale appena menzionato avesse esonerato il Comune di Sant’Agata de’Goti dalla pubblicazione del proprio bando concorsuale a norma di legge.
2e Questa conclusione a più forte ragione s’impone con riferimento alla previsione dell’art. 70 dello Statuto comunale, anch’esso invocato dall’odierno appellante.
Tale articolo -per quanto possa qui rilevare- si limita invero a prevedere, in termini del tutto generici, che “Nella sede comunale, in luogo accessibile, è collocato l’Albo Pretorio per la pubblicazione delle deliberazioni, delle ordinanze, dei manifesti e di tutti gli atti che devono essere portati a conoscenza del pubblico.” Nemmeno la norma statutaria dà pertanto mostra in alcun modo di voler innovare ai precetti, sopra menzionati, dell’art. 4 del d.P.R. n. 487/1994.
3 Per le ragioni esposte l’appello deve essere respinto, meritando la sentenza impugnata piena conferma (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.06.2015 n. 2801 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOQuesta sezione ritiene di non poter aderire agli orientamenti espressi sia dal giudice di primo grado, che dal giudice d’appello. Infatti
   - il TAR si appropria di una giurisdizione che non gli compete: l’annullamento degli atti di nomina di un vincitore di un concorso;
   - il Consiglio di Stato abdica ad una giurisdizione propria del giudice amministrativo: il sindacato sulle procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
La sezione ritiene che la permanenza in capo al giudice amministrativo della giurisdizione in tema di procedure concorsuali non possa dipendere dalla mancata adozione di un provvedimento di nomina del vincitore: se così fosse, si consentirebbe alla pubblica amministrazione di scegliere il giudice dei propri atti. Sarebbe infatti sufficiente nominare il vincitore del concorso con la massima sollecitudine possibile per impedire che il giudice amministrativo possa essere adito o possa pronunciarsi sulla legittimità di una graduatoria.
La sezione ritiene, al contrario, che l’identificazione del giudice competente debba rispondere a criteri oggettivi che si fondino sulla natura delle posizioni giuridiche e sulla natura dei provvedimenti che si intende sottoporre la vaglio giurisdizionale, con la conseguenza che gli atti (nomina del vincitore) adottati unilateralmente dall’amministrazione non possono mutare il giudice competente a decidere sugli atti presupposti (approvazione della graduatoria).

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Il profilo della legittimazione, in relazione al carattere necessariamente differenziato della situazione giuridica soggettiva azionata, non può ritenersi inderogabilmente collegato alla presentazione della domanda di partecipazione, poiché un tale adempimento presuppone che l’interessato abbia comunque avuto conoscenza dell’indizione del concorso entro il termine di scadenza indicato nel bando mentre non è concretamente esigibile allorquando si agisca in giudizio proprio per far accertare la violazione del principio di pubblicità del bando di concorso da cui l’onere in questione scaturisce.
Subordinare a pena di inammissibilità la proponibilità del ricorso alla presentazione della domanda darebbe adito ad una situazione di palese contraddittorietà, in quanto l’interessato, costretto a presentare la domanda di partecipazione anche dopo la scadenza del termine all’uopo previsto, rischierebbe di vedersi formalmente escluso dal concorso per tardività della domanda medesima e, successivamente, di vedersi opporre in sede giurisdizionale la sopravvenuta acquiescenza all’omessa rituale pubblicazione del bando a motivo della presentazione (seppur tardiva) della domanda di partecipazione.
L’art. 4, comma 1, del D.P.R. n. 487/1994, recante disciplina delle modalità di accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni, prevede che le domande di ammissione ai concorsi devono essere presentate <<entro il termine perentorio di trenta giorni dalla data di pubblicazione del bando nella Gazzetta Ufficiale>>; mentre il successivo comma 1-bis precisa che <<per gli enti locali territoriali la pubblicazione del bando nella Gazzetta Ufficiale di cui al comma 1 può essere sostituita dalla pubblicazione di un avviso di concorso contenente gli estremi del bando e l’indicazione della scadenza del termine per la presentazione delle domande>>.
Una lettura piana del combinato disposto dei due commi della citata disposizione emerge con chiarezza la necessità della pubblicazione del bando di concorso sulla Gazzetta Ufficiale, tant’è che la data di pubblicazione viene espressamente assunta quale dies a quo per la decorrenza del termine di presentazione delle domande di partecipazione, anche perché il carattere generale della disposizione si desume a fortiori dal successivo comma 1-bis che, nel prevedere una deroga per i soli enti locali territoriali alla regola della pubblicazione integrale del bando (consentendone la pubblicazione in forma di avviso di concorso), implicitamente conferma la cogenza della norma generale (circa la necessità di una tale pubblicazione in forma integrale) peraltro richiamata dall’art. 70, comma 13, del DLGS n. 165/2001 secondo il quale <<in materia di reclutamento, le pubbliche amministrazioni applicano la disciplina prevista dal decreto del Presidente della Repubblica 09.05.1994, n, 487 e successive modificazioni e integrazioni, per le parti non incompatibili con quanto previsto dagli a. 35 e 36, salvo che la materia venga regolata, in coerenza con i principi ivi previsti, nell’ambito dei rispettivi ordinamenti>>.
Visto, altresì, il disposto dell’art. 35 del DLGS n. 165/2001 secondo cui <<le procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni si conformano ai seguenti principi: a) adeguata pubblicità della selezione e modalità di svolgimento che garantiscano l’imparzialità e assicurino economicità e celerità di espletamento, ricorrendo, ove è opportuno, all’ausilio di sistemi automatizzati, diretti anche a realizzare forme di preselezione …>>.
La Sezione ritiene che l’art. 35, comma 3, lett. a), del DLGS n. 165/2001, debba essere interpretato alla luce dell’art. 4 del D.P.R. 487/1994, dal momento che il richiamo al concetto giuridico indeterminato di <<adeguata pubblicità>> della selezione trova un primo momento di specificazione a livello normativo proprio nell’art. 4 del DPR 487/1994 che indica nella pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale il requisito minimale per ritenere soddisfatta la condizione di adeguatezza, ferma restando la possibilità di ricorrere ad ulteriori forme di pubblicità; in questo senso l’art. 4 non solo precisa la portata irriducibile del principio di pubblicità ma ne presidia il contenuto minimale, ferma restando la possibilità di ricorrere ad ulteriori forme idonee ad incrementare ulteriormente la diffusione della notizia dell’indizione della selezione.
Il principio di pubblicità opera con maggiore intensità proprio nelle procedure di assunzione mediante pubblico concorso, in quanto un regime di pubblicità che non garantisse uno standard uniforme di conoscibilità su tutto il territorio nazionale delle procedure di assunzione nelle pubbliche amministrazioni si porrebbe in contrasto con gli artt. 51 e 97 Cost., ove si assicura a tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso la possibilità di accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza e non v’è dubbio che una regola di pubblicità valevole uniformemente su tutto il territorio della Repubblica agevoli la conoscenza dei bandi indetti dalle varie amministrazioni, favorendo al contempo la massima partecipazione e quindi un’effettiva possibilità di selezionare i migliori in attuazione del concorrente precetto di cui all’a. 97 della costituzione..
Nella fattispecie la condotta dell’amministrazione deve essere censurata in quanto la forma di pubblicità come sopra ritenuta necessaria non appare neppure surrogabile mediante il ricorso alla diffusione sul sito Internet dell’Ente, in quanto l’utilizzo di un tale mezzo informativo non è elevato dalla legge a strumento diretto ad assicurare la conoscenza legale dei bandi, per cui la pubblicazione secondo la predetta modalità ha solo valore di pubblicità notizia.
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Il controinteressato ha dedotto che: “Basta considerare che lo stesso legislatore nazionale, con la legge 06.08.2008, n. 133, all’articolo 27, ha disposto l’abolizione della G.U. in forma cartacea dal 01.01.2009 e ha ufficialmente precisato che la pubblicazione di norme e di avvisi concorsuali interverrà <<solo>> e esclusivamente on-line. (…).
La inefficienza pubblicistica, su carta stampata, aveva determinato già da anni, per aspiranti concorsuali o di altro tipo, il ricorso al solo WEB. E sia pure con ritardo, anche il legislatore ha raccolto questa indicazione e l’ha fatta propria. Conseguentemente la pubblicizzazione WEB disposta dal comune resistente è intervenuta in termini di piena compatibilità con il menzionato decreto legislativo (e viceversa) per cui nessuna censura può muoversi in ordine a tanto”.
La norma invocata dal controinteressato, in realtà, testualmente al comma 2, dispone: “Al fine di ridurre i costi di produzione e distribuzione, a decorrere dal 01.01.2009, la diffusione della Gazzetta Ufficiale a tutti i soggetti in possesso di un abbonamento a carico di amministrazioni o enti pubblici o locali e' sostituita dall'abbonamento telematico. Il costo degli abbonamenti è conseguentemente rideterminato entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”. Quindi il legislatore non ha abolito in generale la pubblicazione cartacea della gazzetta ufficiale.
Il richiamo alla norma non può condurre a conclusioni diverse perché, in ogni caso, il bando (del concorso su cui si controverte) non è stato pubblicato su un presunto supporto telematico della gazzetta ufficiale.
Se dovesse ritenersi sufficiente la pubblicazione sul sito WEB di un’amministrazione comunale del bando di concorso, ogni aspirante ad un impiego dovrebbe consultare centinaia di siti, essendo notorio che i comuni d’Italia sono più di ottomila.
La pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale è quindi prevista per agevolare la consultazione su un solo supporto di tutti i bandi adottati da pubbliche amministrazioni.
La pubblicazione sul solo sito WEB di un comune potrebbe ritenersi sufficiente se la residenza nel comune, posseduta prima dell’emanazione del bando, fosse prevista come requisito di ammissione al concorso. Ma allo stato tutti i cittadini, ovunque residenti, possono partecipare a tutti i concorsi banditi dagli enti locali, cosicché si rende indispensabile, proprio in applicazione dell’articolo 97 della Costituzione, uno strumento (la gazzetta ufficiale, anche in formato digitale) unico di facile accesso per tutti gli aspiranti.
---------------

... per l'annullamento:
   1) della determinazione dirigenziale n. 129 del 28.07.2008, con la quale si è avviata la procedura per l'assunzione mediante concorso pubblico per titoli ed esami di n. 1 posto a tempo indeterminato e a tempo pieno nel profilo professionale di funzionario – area economico-finanziaria – categoria D3 ed approvato il relativo bando di concorso;
   2) del bando di concorso approvato con la determinazione di cui sopra e mai pubblicato, neppure per estratto, sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana;
   3) della graduatoria provvisoria compilata all’esito della prova del 19.12.2008;
   4) della graduatoria definitiva pubblicata il 20.12.2008;
   5) del relativo concorso, di tutte le operazioni concorsuali, compresa la nomina della commissione, gli atti di ammissione e di esclusione dei concorrenti, gli atti di impulso della attività concorsuali, l’approvazione degli atti e l’assunzione in servizio degli eventuali aventi diritto, di estremi e data sconosciuti e per i quali ci si riserva sin d’ora di proporre motivi aggiunti;
   6) di ogni altro atto presupposto, preparatorio, conseguente e comunque connesso, lesivo degli interessi del ricorrente.
...
Il ricorrente è laureato in economia marittima e dei trasporti ed è iscritto al Consiglio dell’Ordine dei Dottori Commercialisti di Napoli.
Il bando di concorso, meglio specificato in epigrafe, non è mai stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, né tanto meno sul B.U.R.C. (Bollettino Ufficiale della Regione Campania), bensì solo ed esclusivamente sul sito WEB e all’Albo Pretorio del Comune di S. Agata dei Goti.
Il ricorrente ha chiesto l’annullamento degli atti indicati in epigrafe.
...
La sezione ritiene il ricorso manifestamente fondato, con la conseguenza che esso può essere deciso con sentenza in forma semplificata (come rappresentato, ai sensi del comma X dell’articolo 21 della legge 06.12.1971, n. 1034 nel testo introdotto dall’art. 3 della legge 21.07.2000, n. 205, ai difensori delle parti costituite), in luogo dell’ordinanza sull’istanza cautelare, così come previsto dall’articolo 26, commi IV e V, della L. 1034 del 1971, nel testo introdotto dal c. 1 dell’articolo 9 della L. 205 del 2000.
Il controinteressato ha eccepito preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo alla luce della decisione del Consiglio di Stato, V, 14.03.2007, n. 1133.
Con tale decisione il Consiglio di Stato annullava la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Abruzzo, Sezione Staccata di Pescara, n. 571 del 17.10.2005 e dichiarava il ricorso di primo grado inammissibile, per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
Con il ricorso di primo grado venivano impugnate:
   a) la determinazione del direttore generale dell’azienda intimata n. 80 del 22.03.2005, avente ad oggetto l’attuazione della deliberazione n. 81 del 07.03.2005 del consiglio di amministrazione;
   b) la suddetta deliberazione del consiglio di amministrazione n. 81 del 07.03.2005, con la quale si è deliberato di procedere all’assunzione del dottor xy;
   c) la deliberazione del consiglio di amministrazione n. 23 del 30.06.2003 di approvazione della graduatoria del concorso pubblico per un posto di dirigente.
Il TAR osservava che, nella specie, sì era in presenza di una impugnativa che riguardava un provvedimento di immissione in servizio che è specificatamente rimesso alla competenza del giudice ordinario.
<<Non vi è dubbio alcuno che tali provvedimenti sono sottratti, di regola, alla giurisdizione del giudice amministrativo, ma nel caso in esame, la censura che investe l’atto di nomina del controinteressato riguardava in particolare la sua posizione in graduatoria, rectius la possibilità di essere validamente inserito in questa, mancandogli un titolo specifico per poter partecipare al concorso.
Tanto è vero che la ricorrente necessariamente impugna anche la graduatoria del concorso rispetto alla quale non si può revocare in dubbio che la giurisdizione appartenga al giudice degli interessi.
Quindi, la censura rivolta all’atto di nomina contiene certamente la denuncia dì un vizio di illegittimità derivata il quale, se fondato, provocherebbe la caducazione automatica del provvedimento di nomina che non sarebbe, perciò, necessario impugnare secondo il più accreditato indirizzo giurisprudenziale.
D’altro canto, il vizio dedotto contro la nomina dell’interessato è identico a quello rivolto alla graduatoria che si ritiene illegittima in virtù della non valida ammissione al concorso del controinteressato.
Ne consegue che la giurisdizione nel presente ricorso è certamente del giudice amministrativo
>>.
Il Consiglio di Stato in contrario osservava che: “A norma dell'articolo 68 del D.Lgs. n. 29/1993 e successive modifiche, sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, incluse le controversie concernenti l'assunzione al lavoro e il conferimento o la revoca di incarichi dirigenziali, ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti, mentre continuano a rientrare nella giurisdizione del giudice amministrativo soltanto le controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
Il giudice di primo grado, pur riconoscendo che i provvedimenti di assunzione all'impiego sono sottratti alla giurisdizione del giudice amministrativo, ha ritenuto di potere, nella specie, ribaltare l'ordine delle attribuzioni giurisdizionali, sulla considerazione che il ricorso non ha proposto censure dirette contro l'atto di assunzione in sé, bensì contro la graduatoria concorsuale, viziata, in origine, dall'ammissione alla procedura del controinteressato, collocatosi al primo posto; da ciò conseguirebbe il vizio della decisione dell'azienda di assumere il vincitore, inficiata, dunque, dagli effetti riflessi dell'atto illegittimo (graduatoria concorsuale) appartenente alla cognizione del giudice amministrativo.
Siffatta impostazione non può essere condivisa.
La Corte regolatrice della giurisdizione é stata ben chiara nel precisare che, nel sistema di riparto della giurisdizione fra giudice amministrativo e giudice ordinario, delineato dall'art. 68 D.Lgs. 03.02.1993 n. 29, nel testo sostituito dall'art. 29 del D.Lgs. 31.03.1998 n. 80 e ulteriormente modificato dall'art. 18 del D.Lgs. 31.03.1998 n. 387, rientrano nell'ambito della giurisdizione del giudice ordinario, per espressa disposizione del citato primo comma dell'art. 68, le controversie relative all'assunzione del lavoratore, ancorché coinvolgano atti amministrativi presupposti, dal momento che il secondo comma dello stesso art. 68 riserva al giudice ordinario le statuizioni sul diritto all'assunzione, con effetti costitutivi del rapporto di lavoro, senza che rilevi, ai fini della giurisdizione, la circostanza che la decisione della controversia coinvolga la verifica dei requisiti per la partecipazione al concorso (Cass. Sez. Un., 13.07.2001, n. 9540).
Nello stesso senso é l'orientamento consolidato del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. VI, 11.03.2004, n. 1250; Sez. V, 13.10.2004 , n. 6650), da cui la Sezione non ha ragione di discostarsi.
L'appello, pertanto, deve essere accolto sulla base di tale prevalente ragione impugnatoria, restando preclusa ogni ulteriore indagine di rito e di merito in ordine alla graduatoria impugnata
”.
Questa sezione ritiene di non poter aderire agli orientamenti espressi sia dal giudice di primo grado, che dal giudice d’appello. Infatti il TAR si appropria di una giurisdizione che non gli compete: l’annullamento degli atti di nomina di un vincitore di un concorso; il Consiglio di Stato abdica ad una giurisdizione propria del giudice amministrativo: il sindacato sulle procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
La sezione ritiene che la permanenza in capo al giudice amministrativo della giurisdizione in tema di procedure concorsuali non possa dipendere dalla mancata adozione di un provvedimento di nomina del vincitore: se così fosse, si consentirebbe alla pubblica amministrazione di scegliere il giudice dei propri atti. Sarebbe infatti sufficiente nominare il vincitore del concorso con la massima sollecitudine possibile per impedire che il giudice amministrativo possa essere adito o possa pronunciarsi sulla legittimità di una graduatoria. La sezione ritiene, al contrario, che l’identificazione del giudice competente debba rispondere a criteri oggettivi che si fondino sulla natura delle posizioni giuridiche e sulla natura dei provvedimenti che si intende sottoporre la vaglio giurisdizionale, con la conseguenza che gli atti (nomina del vincitore) adottati unilateralmente dall’amministrazione non possono mutare il giudice competente a decidere sugli atti presupposti (approvazione della graduatoria).
Ritenuta la propria giurisdizione la sezione non può che confermare quanto già deciso con la sentenza del 04.05.2009, n. 2269, emessa nei confronti della medesima amministrazione in vicenda di contenuto analogo.
Il profilo della legittimazione, in relazione al carattere necessariamente differenziato della situazione giuridica soggettiva azionata, non può ritenersi inderogabilmente collegato alla presentazione della domanda di partecipazione, poiché un tale adempimento presuppone che l’interessato abbia comunque avuto conoscenza dell’indizione del concorso entro il termine di scadenza indicato nel bando mentre non è concretamente esigibile allorquando si agisca in giudizio proprio per far accertare la violazione del principio di pubblicità del bando di concorso da cui l’onere in questione scaturisce.
Subordinare a pena di inammissibilità la proponibilità del ricorso alla presentazione della domanda darebbe adito ad una situazione di palese contraddittorietà, in quanto l’interessato, costretto a presentare la domanda di partecipazione anche dopo la scadenza del termine all’uopo previsto, rischierebbe di vedersi formalmente escluso dal concorso per tardività della domanda medesima e, successivamente, di vedersi opporre in sede giurisdizionale la sopravvenuta acquiescenza all’omessa rituale pubblicazione del bando a motivo della presentazione (seppur tardiva) della domanda di partecipazione.
L’art. 4, comma 1, del D.P.R. n. 487/1994, recante disciplina delle modalità di accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni, prevede che le domande di ammissione ai concorsi devono essere presentate <<entro il termine perentorio di trenta giorni dalla data di pubblicazione del bando nella Gazzetta Ufficiale>>; mentre il successivo comma 1-bis precisa che <<per gli enti locali territoriali la pubblicazione del bando nella Gazzetta Ufficiale di cui al comma 1 può essere sostituita dalla pubblicazione di un avviso di concorso contenente gli estremi del bando e l’indicazione della scadenza del termine per la presentazione delle domande>>.
Una lettura piana del combinato disposto dei due commi della citata disposizione emerge con chiarezza la necessità della pubblicazione del bando di concorso sulla Gazzetta Ufficiale, tant’è che la data di pubblicazione viene espressamente assunta quale dies a quo per la decorrenza del termine di presentazione delle domande di partecipazione (TAR Lombardia, Milano, III, 17.01.2008, n. 53), anche perché il carattere generale della disposizione si desume a fortiori dal successivo comma 1-bis che, nel prevedere una deroga per i soli enti locali territoriali alla regola della pubblicazione integrale del bando (consentendone la pubblicazione in forma di avviso di concorso), implicitamente conferma la cogenza della norma generale (circa la necessità di una tale pubblicazione in forma integrale) peraltro richiamata dall’art. 70, comma 13, del DLGS n. 165/2001 secondo il quale <<in materia di reclutamento, le pubbliche amministrazioni applicano la disciplina prevista dal decreto del Presidente della Repubblica 09.05.1994, n, 487 e successive modificazioni e integrazioni, per le parti non incompatibili con quanto previsto dagli a. 35 e 36, salvo che la materia venga regolata, in coerenza con i principi ivi previsti, nell’ambito dei rispettivi ordinamenti>>.
Visto, altresì, il disposto dell’art. 35 del DLGS n. 165/2001 secondo cui <<le procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni si conformano ai seguenti principi: a) adeguata pubblicità della selezione e modalità di svolgimento che garantiscano l’imparzialità e assicurino economicità e celerità di espletamento, ricorrendo, ove è opportuno, all’ausilio di sistemi automatizzati, diretti anche a realizzare forme di preselezione …>>.
La Sezione ritiene che l’art. 35, comma 3, lett. a), del DLGS n. 165/2001, debba essere interpretato alla luce dell’art. 4 del D.P.R. 487/1994, dal momento che il richiamo al concetto giuridico indeterminato di <<adeguata pubblicità>> della selezione trova un primo momento di specificazione a livello normativo proprio nell’art. 4 del DPR 487/1994 che indica nella pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale il requisito minimale per ritenere soddisfatta la condizione di adeguatezza, ferma restando la possibilità di ricorrere ad ulteriori forme di pubblicità; in questo senso l’art. 4 non solo precisa la portata irriducibile del principio di pubblicità ma ne presidia il contenuto minimale, ferma restando la possibilità di ricorrere ad ulteriori forme idonee ad incrementare ulteriormente la diffusione della notizia dell’indizione della selezione.
Il principio di pubblicità opera con maggiore intensità proprio nelle procedure di assunzione mediante pubblico concorso, in quanto un regime di pubblicità che non garantisse uno standard uniforme di conoscibilità su tutto il territorio nazionale delle procedure di assunzione nelle pubbliche amministrazioni si porrebbe in contrasto con gli artt. 51 e 97 Cost., ove si assicura a tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso la possibilità di accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza e non v’è dubbio che una regola di pubblicità valevole uniformemente su tutto il territorio della Repubblica agevoli la conoscenza dei bandi indetti dalle varie amministrazioni, favorendo al contempo la massima partecipazione e quindi un’effettiva possibilità di selezionare i migliori in attuazione del concorrente precetto di cui all’a. 97 della costituzione..
Nella fattispecie la condotta dell’amministrazione deve essere censurata in quanto la forma di pubblicità come sopra ritenuta necessaria non appare neppure surrogabile mediante il ricorso alla diffusione sul sito Internet dell’Ente, in quanto l’utilizzo di un tale mezzo informativo non è elevato dalla legge a strumento diretto ad assicurare la conoscenza legale dei bandi, per cui la pubblicazione secondo la predetta modalità ha solo valore di pubblicità notizia (TAR Toscana, I, 27.06.2005, n. 3103)
”.
Il controinteressato, alla fine della propria memoria difensiva, ha dedotto che: “Basta considerare che lo stesso legislatore nazionale, con la legge 06.08.2008, n. 133, all’articolo 27, ha disposto l’abolizione della G.U. in forma cartacea dal 01.01.2009 e ha ufficialmente precisato che la pubblicazione di norme e di avvisi concorsuali interverrà <<solo>> e esclusivamente on-line. (…).
La inefficienza pubblicistica, su carta stampata, aveva determinato già da anni, per aspiranti concorsuali o di altro tipo, il ricorso al solo WEB. E sia pure con ritardo, anche il legislatore ha raccolto questa indicazione e l’ha fatta propria. Conseguentemente la pubblicizzazione WEB disposta dal comune resistente è intervenuta in termini di piena compatibilità con il menzionato decreto legislativo (e viceversa) per cui nessuna censura può muoversi in ordine a tanto
”.
La norma invocata dal controinteressato, in realtà, testualmente al comma 2, dispone: “Al fine di ridurre i costi di produzione e distribuzione, a decorrere dal 01.01.2009, la diffusione della Gazzetta Ufficiale a tutti i soggetti in possesso di un abbonamento a carico di amministrazioni o enti pubblici o locali e' sostituita dall'abbonamento telematico. Il costo degli abbonamenti è conseguentemente rideterminato entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”. Quindi il legislatore non ha abolito in generale la pubblicazione cartacea della gazzetta ufficiale.
Il richiamo alla norma non può condurre a conclusioni diverse perché, in ogni caso, il bando (del concorso su cui si controverte) non è stato pubblicato su un presunto supporto telematico della gazzetta ufficiale.
Se dovesse ritenersi sufficiente la pubblicazione sul sito WEB di un’amministrazione comunale del bando di concorso, ogni aspirante ad un impiego dovrebbe consultare centinaia di siti, essendo notorio che i comuni d’Italia sono più di ottomila.
La pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale è quindi prevista per agevolare la consultazione su un solo supporto di tutti i bandi adottati da pubbliche amministrazioni.
La pubblicazione sul solo sito WEB di un comune potrebbe ritenersi sufficiente se la residenza nel comune, posseduta prima dell’emanazione del bando, fosse prevista come requisito di ammissione al concorso. Ma allo stato tutti i cittadini, ovunque residenti, possono partecipare a tutti i concorsi banditi dagli enti locali, cosicché si rende indispensabile, proprio in applicazione dell’articolo 97 della Costituzione, uno strumento (la gazzetta ufficiale, anche in formato digitale) unico di facile accesso per tutti gli aspiranti.
Il ricorso va pertanto accolto con conseguente annullamento degli atti impugnati.
Il controinteressato ha dichiarato, ma non dimostrato, di aver assunto servizio da lungo tempo.
Se tale circostanza dovesse dimostrarsi inesistente, l’amministrazione, in seguito all’annullamento dell’intera procedura, non potrà procedere all’assunzione del medesimo.
Ove al contrario il controinteressato sia stato effettivamente assunto, la sua nomina, sempre per effetto dell’annullamento degli atti della procedura concorsuale, diventa illecita sin dall’inizio perché equiparabile ad una scelta effettuata “ad personam” ossia senza lo svolgimento del procedimento (il concorso) previsto dall’ordinamento.
Il giudice adito però, alla luce del riparto di giurisdizione esistente in materia così come delineato in precedenza, non può annullare il contratto eventualmente stipulato dall’amministrazione con il controinteressato.
Nel caso di specie, pertanto, la pronuncia del giudice amministrativo, che è sentenza autoesecutiva e quindi insuscettibile di essere portata ad esecuzione con un giudizio di ottemperanza, non può incidere sul contratto che lega il controinteressato all’amministrazione.
Spetterà quindi solo al giudice ordinario, con pronuncia dichiarativa o costitutiva, a seconda della rilevanza che si voglia attribuire all’annullamento degli atti presupposti sul contratto, accertare il venire meno del rapporto lavorativo del controinteressato con l’amministrazione (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 17.07.2009 n. 4074 - link a www.giustizia-amministrativa.it).).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Lavoro occasionale. Articolo 54-bis del decreto legge 24.04.2017, n. 50, introdotto dalla Legge di conversione 21.06.2017, n. 96. Libretto Famiglia e Contratto di Prestazione Occasionale (INPS, circolare 05.07.2017 n. 107 - link a www.inps.it).
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SOMMARIO: 1. Quadro normativo - 2. Le prestazioni di lavoro occasionali - 3. Le assicurazioni sociali obbligatorie - 4. Preventiva registrazione sul sito Inps di utilizzatori e prestatori - 5. Libretto Famiglia - 5.1 Regime generale - 5.2 Comunicazioni dell’utilizzatore del Libretto Famiglia - 6. Contratto di Prestazione Occasionale - 6.1 Regime generale - 6.2 Limiti all’utilizzo - 6.3 Comunicazioni dell’utilizzatore del Contratto di Prestazione occasionale - 6.4 Il regime per le Pubbliche Amministrazioni - 6.5 Il regime per l’agricoltura - 7. La gestione dei pagamenti da parte degli utilizzatori - 8. La gestione dell’erogazione dei compensi ai prestatori - 9. Profili sanzionatori e regolarizzazioni - 10. Il bonus baby sitting e gestione dell’utilizzo buoni di lavoro accessorio.

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

CONSIGLIERI COMUNALI: Modificazione ed integrazione della Delibera 08.03.2017 n. 241 “Linee guida recanti indicazioni sull’attuazione dell’art. 14 del d.lgs. 33/2013 «Obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi dirigenziali» come modificato dall’art. 13 del d.lgs. 97/2016” relativamente all’”Assemblea dei Sindaci” e al “Consiglio provinciale” (delibera 14.06.2017 n. 641 - link a www.anticorruzione.it).
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Trasparenza
Obblighi degli organi delle Province – modifiche e integrazioni alla determinazione ANAC n. 241/2017.

Con la delibera n. 641 del 14.06.2017, il Consiglio dell’Autorità ha modificato la determinazione n. 241 dell’08.03.2017, relativamente agli obblighi di pubblicazione ex art. 14, co. 1, lett. f), per i sindaci che fanno parte dell’Assemblea delle province (art. 1, co. 56 della l. 56/2014).
In considerazione della partecipazione di diritto all’Assemblea di tutti i sindaci dell’ambito provinciale, anche di quelli dei comuni al di sotto di 15.000 abitanti cui si applica per l’art. 14, co. 1, lett. f), una trasparenza semplificata, resta ferma per questi ultimi la disciplina specifica per essi prevista.
Diverso è il caso della partecipazione al Consiglio provinciale che avviene per elezione e che presuppone una candidatura da parte degli interessati (art. 1, commi 69 e 70 della legge 56/2014). Per i sindaci eletti, anche quelli dei comuni con popolazione al di sotto dei 15.000 abitanti, si applica in questi casi anche la trasparenza dell’art. 14, co. 1, lett. f).

APPALTI: Determinazione 07.07.2011 n. 4 recante: Linee guida sulla tracciabilità dei flussi finanziari ai sensi dell’articolo 3 della legge 13.08.2010, n. 136 - Aggiornata al decreto legislativo 19.04.2017, n. 56 recante “Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50” (determinazione 31.05.2017 n. 556 - link a www.anticorruzione.it).
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Tracciabilità dei flussi finanziari - Aggiornate le Linee guida
L'Autorità, con la Delibera n. 556 del 31.05.2017 ha provveduto all'aggiornamento della determinazione n. 4 del 2011 recante "Linee guida sulla tracciabilità dei flussi finanziari ai sensi dell'art. 3 della legge 13.08.2013, n. 136" alla luce delle novità introdotte con il decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 e con il decreto legislativo 19.04.2017, n. 56 recante “Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50”.

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 15.07.2017 n. 164 "Proroga dell’ordinanza 13.06.2016, recante: «Norme sul divieto di utilizzo e di detenzione di esche o di bocconi avvelenati»" (Ministero della Salute, ordinanza 21.06.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: G.U. 14.07.2017 n. 163 "Linee guida sulla consultazione pubblica in Italia" (Dipartimento Funzione Pubblica, direttiva 31.05.2017 n. 2/2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 14.07.2017 "Riconoscimento dell’autonomia gestionale dei parchi locali di interesse sovracomunale ai sensi dell’art. 5 della legge regionale 17.11.2016, n. 28 «Riorganizzazione del sistema lombardo delle aree regionali protette e delle altre forme di tutela presenti sul territorio»" (deliberazione G.R. 19.06.2017 n. 6735).

ATTI AMMINISTRATIVI: G.U. 13.07.2017 n. 162 "Attuazione delle nome sull’accesso civico generalizzato (c.d. FOIA)" (Dipartimento Funzione Pubblica, circolare 30.05.2017 n. 2/2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 10.07.2017, "Modalità per L’espletamento delle verifiche quindicennali sugli impianti di distribuzione carburante ad uso pubblico e privato ex d.g.r. 09.06.2017, n. 6698" (decreto D.U.O. 06.07.2017 n. 8143).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 dell'08.07.2017, "Testo coordinato del r.r. 05.08.2016, n. 7 «Definizione dei servizi, degli standard qualitativi e delle dotazioni minime obbligatorie degli ostelli per la gioventù, delle case e appartamenti per vacanze, delle foresterie lombarde, delle locande e dei bed and breakfast e requisiti strutturali ed igienico-sanitari dei rifugi alpinistici ed escursionistici in attuazione dell’art. 37 della legge regionale 01.10.2015, n. 27 (Politiche regionali in materia di turismo e attrattività del territorio lombardo)»”.

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 07.07.2017, "Aggiornamenti degli allegati tecnici in attuazione dell’articolo 11, comma 6, del regolamento regionale n. 7 del 05.08.2016 «Definizione dei servizi, degli standard qualitativi e delle dotazioni minime obbligatorie degli ostelli per la gioventù, delle case e appartamenti per vacanze, delle foresterie lombarde, delle locande e dei bed and breakfast e requisiti strutturali ed igienico-sanitari dei rifugi alpinistici ed escursionistici in attuazione dell’art. 37 della legge regionale 01.10.2015, n. 27" (deliberazione G.R. 30.06.2017 n. 6812).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 07.07.2017, "Supporto agli Enti locali della Lombardia per l’adesione al Sistema pubblico per l’identità digitale (SPID)" (deliberazione G.R. 30.06.2017 n. 6788).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: G.U. 06.07.2017 n. 156 "Attuazione della direttiva 2014/52/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16.04.2014, che modifica la direttiva 2011/92/UE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, ai sensi degli articoli 1 e 14 della legge 09.07.2015, n. 114" (D.Lgs. 16.06.2017 n. 104).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 03.07.2017 n. 153 "Designazione di 8 zone speciali di conservazione (ZSC) della regione biogeografica alpina insistenti nel territorio della Regione Lombardia" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 14.06.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 03.07.2017 n. 153 "Modifiche al decreto n. 141 del 26.05.2016 recante criteri da tenere in conto nel determinare l’importo delle garanzie finanziarie, di cui all’articolo 29-sexies, comma 9-septies, del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 28.04.2017).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: F. Donegani, Recupero dei vani e locali seminterrati esistenti (Legge regione Lombardia 10.03.2017, n. 7) (14.07.2017 - link a www.studiospallino.it).

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Consumo di suolo: piani attuativi e questioni interpretative a seguito delle modifiche alla l.r. n. 31/2014 (06.07.2017 - link a www.studiospallino.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: F. Anastasi, LA GESTIONE DEI SITI INQUINATI: La responsabilità dell’inquinamento nella sentenza del Tar Lombardia n. 1326/2017 (05.07.2017 - tratto da www.ambientediritto.it).
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Sommario: 1. Premessa 2. La bonifica dei siti inquinati 3. La giurisprudenza sui criteri di imputazione degli obblighi di bonifica 4. Il problema del soggetto responsabile: la sentenza della Corte di Giustizia 5. La pronuncia del TAR Lombardia-Milano n. 1326/2017.

APPALTI: M. Lipari, La soppressione delle raccomandazioni vincolanti e la legittimazione processuale speciale dell'Anac (05.07.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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SOMMARIO:
   1. Il potere speciale dell'ANAC di adottare pareri motivati e di impugnare i provvedimenti affetti da gravi violazioni del codice. 1.1. L’art. 52-ter del decreto legge n. 50/2017: dalle ceneri delle raccomandazioni vincolanti sorge il potere di azione dell'ANAC. Il modello della legittimazione processuale speciale dell’AGCM e la fun-zione di “advocacy”. – 1.2. Il confronto con l’art. 21-bis del-la legge n. 287/1990. Le differenze dallo schema proposto dal Consiglio di Stato. – 1.3. Il fondamento della legittima-zione processuale dell’ANAC. Il carattere speciale o straordinario del potere di azione e la giurisdizione di dirit-to oggettivo. – 1.4. I dubbi di legittimità costituzionale del potere di azione speciale dell'AGCM e dell'ANAC.
   2. L'ambito di applicazione della nuova disciplina. 2.1. Lo spazio oggettivo e soggettivo di operatività del nuovo istituto: l'intento limitativo del legislatore. – 2.2. I contratti di rilevante impatto. – 2.3. L’assenza di un potere di azione relativo alla fase di esecuzione dei contratti. L’elenco degli atti impugnabili. – 2.4. Gli appalti e gli altri tipi contrattuali, le concessioni, i contratti esclusi. – 2.5. Il parametro di legittimità delle censure deducibili dall’ANAC: la disciplina dei contratti pubblici e le violazioni “del presente codice”. La nozione di “grave” violazione del codice. L’ANAC ha il potere di denunciare i vizi di incompetenza e di eccesso di potere?
   3. La fase preliminare alla proposizione del ricorso e l'emanazione del parere motivato. – 3.1. Il procedimento preliminare all’esercizio dell’azione. – 3.2. La fase preliminare è sempre condizione di ammissibilità del ricor-so? – 3.3. Il procedimento ha natura giuridica "privata" o amministrativa? Il potere dell'ANAC è libero, discrezionale, doveroso, o eventualmente autovincolato? - 3.4 Le conseguenze della violazione del dovere di procedere dell’ANAC. – 3.5. L’iniziativa di “denuncia” dei soggetti privati. Il Considerando n. 122 e la tutela dei “cittadini-contribuenti” imposta dal diritto UE. – 3.6. Le segnalazioni provenienti da soggetti pubblici qualificati: un dovere di procedere dell’ANAC? Le possibili sovrapposizioni con il potere di azione dell’AGCM – 3.7. Gli atti di preiniziativa adottati da soggetti privati o pubblici possono costituire un obbligo di procedere in capo all’Autorità? – 3.8. Il termine per l'emissione del parere motivato e la sua decorrenza. – 3.9. L’art. 21-nonies della legge n. 241/1990: il parere motivato è soggetto al limite temporale di diciotto mesi e al principio del termine ragionevole? – 3.10. La partecipazione della stazione appaltante e dei terzi al procedimento. – 3.11. La conclusione della prima fase del procedimento preliminare: la natura giuridica del parere motivato e dei suoi effetti – 3.12. Gli effetti sostanziali del parere motiva-to: un dovere della stazione appaltante di attivare l'autotu-tela? – 3.13. Il parere motivato è autonomamente e imme-diatamente impugnabile? - 3.14 I provvedimenti adottati dall’amministrazione in seguito alla pronuncia del parere. – 3.15. Il termine assegnato all’amministrazione per l’adeguamento al parere motivato.
   4. La fase processuale. 4.1. Dal parere motivato alla proposizione del ricorso. L'oggetto del giudizio nel caso di conferma espressa dell’originario provvedimento. – 4.2. L’ANAC deve dimostrare la sussistenza di un concreto di-retto e attuale interesse al ricorso? – 4.3. La competenza territoriale: l’applicazione delle regole generali e la inope-ratività della competenza funzionale del TAR Lazio. Il rito applicabile e il rinvio all’art. 120 del CPA. – 4.4. Le regole processuali: la compatibilità con il rito superspeciale su ammissioni ed esclusioni. – 4.5. Il giudizio cautelare. – 4.6. I motivi aggiunti e l’impugnazione di provvedimenti connessi: è necessaria l’emanazione di un nuovo parere motivato? – 4.7. Il patrocino dell’Avvocatura dello Stato secondo le regole generali. – 4.8. Le domande proponibili al giudice amministrativo. L’azione di annullamento esau-risce la legittimazione speciale dell’ANAC? La corrispon-denza tra i vizi dedotti in giudizio e quelli enunciati nel parere motivato. La proponibilità di questioni incidentali di legittimità costituzionale o comunitaria – 4.9. L’appello e le altre impugnazioni. – 4.10. La fase transitoria e il regolamento attuativo di cui al comma 1-quater.

APPALTI: R. De Nictolis, I poteri dell’ANAC dopo il correttivo (01.07.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: 1. Quadro di sintesi. - 2. Le previsioni della legge delega sull’ANAC. - 3. Confronto con la disciplina previgente: i compiti nuovi. - 4. L’ANAC e il decreto correttivo. - 5. I compiti di regolazione e di partecipazione ai processi normativi. - 5.1. Compiti “normativi” in senso lato. - 5.2. La natura giuridica delle linee guida dell’ANAC. - 5.3. Il procedimento di formazione e pubblicità delle LG. - 5.4. La giustiziabilità. - 5.5. I comunicati del Presidente dell’ANAC. - 5.6. Le novità del correttivo in ordine alle LG ANAC. - 6. I poteri di organizzazione, di vigilanza e sanzionatori dell’ANAC. - 7. Dalle raccomandazioni vincolanti alla legittimazione straordinaria dell’ANAC. - 7.1. Introduzione. - 7.2. Le previgenti raccomandazioni vincolanti e le criticità. - 8. La nuova disciplina della vigilanza collaborativa. - 8.1. Fonti e profili generali. - 8.2. La legittimazione ad agire in giudizio dell’ANAC. - 8.2.a) Ambito oggettivo e soggettivo. - 8.2.b) Rapporto tra legittimazione attiva e impugnazione per gravi violazioni. - 9. Il parere motivato e il ricorso dell’ANAC per gravi violazioni. - 9.1. L’ambito. - 9.2. Il parere motivato. - 9.2.a) Profili generali. - 9.2.b) Il dies a quo per l’emissione del parere. - 9.2.c) La motivazione del parere: i vizi di legittimità, il merito amministrativo, la valutazione dell’interesse pubblico concreto e attuale. - 9.2.d) L’interlocuzione precedente l’emissione del parere. - 9.2.e) I destinatari del parere. - 9.3. Le attività della stazione appaltante destinataria del parere. - 9.4. Il ricorso dell’ANAC. - 9.4.a) Profili generali. - 9.4.b) Giurisdizione e competenza. - 9.4.c) Il termine per l’azione. - 9.4.d) Il rito. Le questioni. - 9.4.e) L’impugnazione principale o incidentale del parere dell’ANAC. - 9.4.f) L’intervento in giudizio. - 9.4.g) La riunione dei giudizi. - 9.4.h) Il ricorso dell’ANAC e il rito immediato contro ammissioni ed esclusioni. - 9.4.i) La tutela cautelare. - 9.4.l) Il contributo unificato, le spese di lite e la tutela risarcitoria. - 9.4.m) L’ambito della controversia davanti al g.a. - 9.5. Rapporto tra legittimazione straordinaria e parere precontenzioso. - 10. Conclusioni.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L. Spallino, Consumo di suolo: le modifiche alla l.r. 31/2014 (17.06.2017 - link a www.studiospallino.it).

EDILIZIA PRIVATA: F. Donegani, Recupero dei vani e locali seminterrati esistenti - Legge Regionale Lombardia 10.03.2017 n. 7 (20.05.2017 - tratto da www.studiospallino.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. Galbiati, Autorizzazione paesaggistica semplificata (20.05.2017 - tratto da www.studiospallino.it).

QUESITI & PARERI

APPALTI FORNITURE: Acquisto autovettura in sostituzione di altra vetusta.
L'art. 1, c. 143, L. n. 228/2012, ha stabilito il divieto di acquisto di autovetture, da ultimo fino alla data del 31.12.2016; detto divieto non è stato prorogato dal D.L. n. 244/2016 (decreto milleproroghe 2016).
Rimangono ferme, peraltro, le misure di contenimento della spesa già previste dalle disposizioni vigenti richiamate dal suddetto comma 143: e dunque, i tetti di spesa per l'acquisto delle autovetture previsti dal D.L. n. 78/2010 e dal D.L. n. 95/2012.
In proposito, la Corte dei conti, sulla scia della Corte costituzionale, si è espressa nel senso che gli enti locali possono considerare le norme finalizzate alla riduzione delle spese per consumi intermedi in un'ottica complessiva, con possibilità di compensazione tra le singole voci, nel rispetto di un tetto massimo di spesa stanziabile a bilancio.

Il Comune chiede se può sostituire una vetusta auto utilizzata da un gruppo di volontari per effettuare un servizio di trasporto di anziani e di persone limitate nella mobilità presso i vicini ospedali e case di cura, avuto riguardo alle vigenti norme di contenimento della spesa pubblica. Il Comune specifica che il servizio di trasporto di cui si tratta non rientra tra quelli demandabili all'ambito distrettuale di appartenenza.
In via preliminare si precisa che l'interpretazione delle norme statali spetta esclusivamente ai competenti Uffici dello Stato. Per cui, sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione centrale, si esprime quanto segue, in via meramente collaborativa.
L'art. 1, c. 143, L. n. 228/2012, ha stabilito per le pubbliche amministrazioni, ferme restando le misure di contenimento della spesa già previste dalle disposizioni vigenti, il divieto di acquistare autovetture e di stipulare contratti di locazione finanziaria aventi ad oggetto autovetture, da ultimo, fino alla data del 31.12.2016
[1].
Peraltro, il richiamo contenuto nel comma 143 alle misure di contenimento della spesa già previste dalle disposizioni vigenti lascia tuttora in vigore i precedenti tetti di spesa per l'acquisto delle autovetture previsti dal D.L. n. 78/2010 e dal D.L. n. 95/2012
[2].
L'art. 6, c. 14, D.L. n. 78/2010, prevede che le pp.aa. non possono effettuare spese di ammontare superiore all'80% della spesa sostenuta nell'anno 2009 per l'acquisto, la manutenzione, il noleggio e l'esercizio di autovetture, nonché per l'acquisto di buoni taxi.
L'art. 5, c. 2, D.L. n. 95/2012, come novellato dall'art. 15, c. 1, D.L. n. 66/2014, prevede che le pp.aa., a decorrere dal 01.05.2014, non possono effettuare spese di ammontare superiore al 30% della spesa sostenuta nell'anno 2011 per l'acquisto, la manutenzione, il noleggio e l'esercizio di autovetture, nonché per l'acquisto di buoni taxi.
Da tale limite di spesa, l'art. 5, c. 2, DL n. 95/2012, esclude, tra l'altro, le spese per le autovetture utilizzate per i servizi istituzionali di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica e per i servizi sociali e sanitari svolti per garantire i livelli essenziali di assistenza
[3].
Le Sezioni Riunite della Corte dei conti per la Regione siciliana, chiamate a pronunciarsi sul contenuto dell'art. 6, c. 14, D.L. n. 78/2010, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 5, c. 2, D.L. n. 95/2012, hanno affermato che il limite di spesa posto per le autovetture dall'art. 5, c. 2, D.L. n. 95/2012, deve essere interpretato alla stregua di quanto chiarito dalla Corte costituzionale nella pronuncia 04.06.2012, n. 139, con possibilità di compensazioni nell'ambito delle singole voci di spesa (in quel caso, la richiesta di parere faceva riferimento alle tipologie di spesa di cui all'art. 6, D.L. n. 78/2010), entro il limite complessivo che è quello previsto dall'art. 6, c. 14, D.L. n. 78/2010 (80% della spesa sostenuta nell'anno 2009), che coesiste col limite previsto dal sopravvenuto art. 5, D.L. n. 95/2012
[4].
Dette riflessioni sono state rese dalle Sezioni riunite per la Regione siciliana sulla scia delle affermazioni della Corte costituzionale con riferimento alle disposizioni di contenimento della spesa di funzionamento amministrativo contenute nell'art. 6, DL n. 78/2010. Per la Corte costituzionale, il legislatore statale può legittimamente imporre agli enti autonomi, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio. Questi vincoli possono considerarsi rispettosi dell'autonomia delle Regioni e degli enti locali quando stabiliscono un limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra le varie voci di spesa incise dal legislatore
[5].
Diversamente, la Corte dei conti Lombardia ha affermato che non risulta possibile compensare il limite di spesa per autovetture, posto dall'art. 5, c. 2, D.L. n. 95/2012, con quelli previsti da pregresse disposizioni di legge (e, in particolare, dall'art. 6, D.L. n. 78/2010).
Sul contrasto di posizioni è intervenuta la Sezione delle Autonomie
[6] che, con specifico riferimento all'art. 1, c. 141, L. n. 228/2012 [7], in tema di limitazioni di acquisto di mobili e arredi, ha osservato come il suo inciso iniziale 'Ferme restando le misure di contenimento della spesa già previste dalle vigenti disposizioni...', tende a considerare le norme finalizzate alla riduzione delle spese per consumi intermedi in un'ottica complessiva, con possibilità di compensazione tra le singole voci, nel rispetto di un tetto massimo di spesa stanziabile a bilancio.
Conseguentemente e venendo al quesito dell'Ente, nel ribadire la competenza degli Uffici statali a pronunciarsi sull'applicazione ed interpretazione delle norme statali di cui si discute (art. 6, c. 14, D.L. n. 78/2010 e art. 5, c. 2, D.L. n. 95/2012), sembra potersi ritenere che i limiti di spesa ivi previsti possano essere considerati dall'Ente alla luce dei principi espressi dalla Corte dei conti, sulla scia della Corte costituzionale: e dunque con riferimento ad un limite complessivo derivante dalle diverse norme di contenimento della spesa, nell'ambito del quale gli enti locali restano liberi di allocare le risorse tra i diversi ambiti o obiettivi di spesa
[8].
---------------
[1] Il divieto, originariamente previsto dalla data di entrata in vigore della L. n. 228/2012 (01.01.2013) fino al 31.12.2014, è stato dapprima prorogato fino al 31.12.2015 dall'art. 1, c. 1, primo periodo, D.L. n. 101/2013, e poi fino al 31.12.2016 dall'art. 1, c. 636, L. 28.12.2015, n. 208. Il decreto legge 30.12.2016, n. 244 'Proroga e definizione di termini' (c.d. Decreto milleproroghe 2016), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, c. 1, L. 27.02.2017, n. 19, non ha prorogato il termine di cui all'art. 1, c. 1, D.L. n. 101/2013.
[2] La Corte dei conti ha osservato che la L. n. 228/2012 ha introdotto un divieto generale di acquisto di autovetture, sebbene temporaneo, confermando la vigenza degli artt. 6, c. 14, D.L. n. 78/2010, e 5, c. 2, D.L. n. 95/2012, in materia di contenimento del tetto complessivo della spesa concernente le autovetture (Cfr. Corte dei conti, sez. reg. contr. Veneto, 12.02.2016, n. 86. Conformi: Corte dei conti, sez. reg. contr. Piemonte, 18.06.2015, n. 106; Corte dei conti, sez. reg. contr. Umbria, 19.12.2014, n. 194).
[3] Nel caso di specie, l'acquisto del mezzo per il servizio di trasporto di anziani e persone disabili si ritiene non possa ricondursi alla deroga prevista specificamente per i servizi comunali finalizzati a garantire i livelli essenziali di assistenza.
[4] Corte dei conti Sez. riunite per la Regione siciliana, parere n. 94 del 30.11.2012.
[5] Corte costituzionale, n. 139/2012, cit..
[6] Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, delibera 30.12.2013, n. 26.
[7] Norma non più in vigore, non essendone stato prorogato il termine temporale di applicazione dal D.L. n. 244/2016 cit..
[8] Corte costituzionale, n. 139/2012, cit.
(28.06.2017 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità/inconferibilità tra incarichi di posizione organizzativa e cariche politiche.
1) È incompatibile un consigliere comunale di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, che sia, altresì, dipendente, titolare di posizione organizzativa, presso un altro comune avente popolazione inferiore a 15.000 abitanti se nell'atto sindacale di affidamento dell'incarico di posizione organizzativa siano a costui attribuite le funzioni dirigenziali di cui all'articolo 107 del D.Lgs. 267/2000.
2) Si ritiene non venga in rilevo alcuna causa di incompatibilità/inconferibilità per un sindaco di un comune con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, che sia dipendente, titolare di posizione organizzativa, presso un altro comune avente popolazione superiore a 15.000 abitanti.

Il Comune chiede un parere circa la sussistenza di una qualche causa di incompatibilità/inconferibilità per degli amministratori locali. Più in particolare, prospetta due casi:
   1) quello di un consigliere comunale, di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, che è dipendente, titolare di posizione organizzativa, presso un altro comune avente popolazione inferiore a 15.000 abitanti;
   2) quello di un sindaco di un comune con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, che è dipendente, titolare di posizione organizzativa, presso un altro comune avente popolazione superiore a 15.000 abitanti.
Precisa l'Ente che in entrambi i casi sopra riportati risulta esistente una convenzione tra i comuni coinvolti (rispettivamente, quello presso cui l'amministratore esercita il proprio mandato e quello in cui svolge la propria attività lavorativa) relativa a servizi differenti rispetto a quelli in ordine ai quali il dipendente ha la titolarità di una posizione organizzativa.
Sentito il Servizio Consiglio autonomie locali ed elettorale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Con riferimento alla prima fattispecie descritta si ritiene debba essere preso in considerazione l'articolo 12 del decreto legislativo 08.04.2013, n. 39 il quale, al comma 4, recita: 'Gli incarichi dirigenziali, interni e esterni, nelle pubbliche amministrazioni, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo pubblico di livello provinciale o comunale sono incompatibili:
   a) omissis;
   b) con la carica di componente della giunta o del consiglio di una provincia, di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione, ricompresi nella stessa regione dell'amministrazione locale che ha conferito l'incarico;
   c) omissis
.'.
In via preliminare, si ricorda che, ai sensi dell'articolo 1, comma 2, lett. j), del D.Lgs. 39/2013 per 'incarichi dirigenziali interni' si intendono 'gli incarichi di funzione dirigenziale, comunque denominati, che comportano l'esercizio in via esclusiva delle competenze di amministrazione e gestione [.....] conferiti a dirigenti o ad altri dipendenti [...] appartenenti ai ruoli dell'amministrazione che conferisce l'incarico ovvero al ruolo di altra pubblica amministrazione'.
L'articolo 2, comma 2, del decreto in oggetto, prevede, poi, espressamente che, 'ai fini del presente decreto al conferimento negli enti locali di incarichi dirigenziali è assimilato quello di funzioni dirigenziali a personale non dirigenziale [...]'.
L'Autorità nazionale anticorruzione (ANAC)
[1] ha rilevato che 'il regime delle incompatibilità di cui al D.Lgs. 39/2013 fa esclusivo riferimento agli incarichi dirigenziali e agli incarichi di funzioni dirigenziali, onde l'annoverabilità tra i medesimi degli incarichi di posizione organizzativa va valutata caso per caso in ragione delle funzioni effettivamente svolte'. [2]
Segue che il presupposto rilevante al fine della sussistenza dell'incompatibilità è che al responsabile delegato di posizione organizzativa siano attribuite le funzioni dirigenziali di cui all'articolo 107, commi 2 e 3, del D.Lgs. 267/2000.
Ai sensi dell'articolo 107, commi 1-3, del D.Lgs. 267/2000, infatti, spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti. In particolare, spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale. A titolo esemplificativo, spettano ai dirigenti la stipulazione dei contratti, gli atti di gestione finanziaria, gli atti di amministrazione e gestione del personale, le attestazioni, certificazioni, diffide, verbali e ogni altro atto costituente manifestazione di giudizio e di conoscenza, nonché i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi.
Nel caso concreto, occorrerà pertanto accertare se nell'atto sindacale di affidamento dell'incarico di posizione organizzativa siano attribuite o meno al soggetto le funzioni dirigenziali di cui all'articolo 107 del D.Lgs. 267/2000. In caso di risposta positiva, si deve concludere per la sussistenza della causa di incompatibilità disciplinata dall'articolo 12, comma 4, lettera b), del D.Lgs. 39/2013.
Con riferimento alla seconda questione posta si ritiene non venga in rilievo alcuna causa di incompatibilità/inconferibilità prevista dalla legge. In particolare, si ritiene non sussistano i presupposti per l'applicabilità della causa di inconferibilità di cui all'articolo 7, comma 2, del D.Lgs. 39/2013 il quale recita: 'A coloro che nei due anni precedenti siano stati componenti della giunta o del consiglio della provincia, del comune o della forma associativa tra comuni che conferisce l'incarico, ovvero a coloro che nell'anno precedente abbiano fatto parte della giunta o del consiglio di una provincia, di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione, nella stessa regione dell'amministrazione locale che conferisce l'incarico, [...] non possono essere conferiti:
   a) gli incarichi amministrativi di vertice nelle amministrazioni di una provincia, di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione;
   b) gli incarichi dirigenziali nelle medesime amministrazioni di cui alla lettera a);
   c) omissis;
   d) omissis
.'.
Benché la norma citata si applichi anche con riferimento agli amministratori che attualmente ricoprono la carica politica, e non solo a quelli che l'hanno ricoperta in passato (due anni prima o nell'anno precedente)
[3], nel caso in esame difetta il requisito della soglia abitativa richiesta per il realizzarsi del presupposto soggettivo e consistente nel fatto che si tratti di 'componente della giunta o del consiglio di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti'.
Né la disposizione citata rileva nella parte in cui fa riferimento a colui che è componente della giunta o del consiglio della 'forma associativa tra comuni', atteso che, come rilevato dall'ANAC, 'il regime delle inconferibilità e delle incompatibilità di cui al d.lgs. n. 39/2013 non opera con riferimento alle forme associative tra comuni con popolazione complessiva superiore ai 15.000 abitanti che si sostanziano nella stipula di una convenzione, ai sensi dell'art. 30 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, per lo svolgimento in modo coordinato di funzioni e servizi determinati'.
[4]
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[1] Cfr. FAC 7.19 Il d.lgs. n. 39 del 2013 si applica ai titolari di posizioni organizzative?
[2] La stessa ANAC, nell'orientamento n. 4 del 15.05.2014 ha affermato che l'incarico di posizione organizzativa in un ente locale, conferito ai sensi dell'art. 109, comma 2, del d.lgs. 267/2000 è qualificabile come incarico di funzioni dirigenziali a personale non dirigenziale, fatta salva l'ipotesi che il conferimento dello stesso sia avvenuto prima dell'entrata in vigore del citato decreto 39/2013, secondo quanto stabilito dall'art. 29-ter del d.l. 69/2013.
[3] Si veda, al riguardo, l'orientamento n. 11/2015 espresso dall'ANAC secondo cui: 'Le situazioni di inconferibilità previste nell'art. 7 del d.lgs. 39/2013, nei confronti di coloro che nell'anno o nei due anni precedenti hanno ricoperto le cariche politiche e gli incarichi ivi indicati, vanno equiparate, ai fini del d.lgs. 39/2013, a coloro che attualmente ricoprono tali ruoli.'
[4] ANAC, orientamento n. 5 del 15.05.2014
(21.06.2017 -
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EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito alla possibilità di consentire il trasferimento di diritti edificatori – Comune di Colonna (Regione Lazio, nota 15.06.2017 n. 305497 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito all'interpretazione della nozione di originaria destinazione d'uso di cui all'art. 3, comma 1, lett. b), del d.P.R. 380/2001 – Comune di Tuscania (Regione Lazio, nota 15.06.2017 n. 305403 di prot.).

PATRIMONIO: Attribuzioni patrimoniali immobiliari in favore di soggetti privati.
La gestione del patrimonio pubblico è improntata al principio di redditività, la cui deroga è subordinata dalla giurisprudenza contabile più recente all'assenza dello scopo di lucro in capo al soggetto beneficiario, fermo restando l'obbligo di un'esaustiva motivazione della scelta dell'ente, in considerazione dell'interesse pubblico perseguito, che risulti equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che viene soddisfatto mediante lo sfruttamento economico dei beni, secondo i principi giurisprudenziali già consolidati.
Inoltre, la Corte dei conti, chiamata a pronunciarsi in tema di attribuzioni patrimoniali (attinenti al patrimonio immobiliare) a terzi privati senza scopo di lucro, al fine di svolgere attività di interesse per la comunità insediata sul territorio locale, secondo i principi della sussidiarietà orizzontale di cui all'art. 118, Cost., ha affermato che l'ente locale che voglia procedere ad un tanto deve farlo nel rispetto dell'art. 12, L. n. 241/1990, avendo cura di predeterminare i casi, le condizioni e le modalità per la concessione di simili utilità ed il confronto concorrenziale tra gli aspiranti.

Il Comune pone un quesito in ordine alla riconducibilità di attività di interesse generale svolta da soggetto imprenditoriale alla finalità istituzionale della promozione dello sviluppo economico del territorio e dunque alla sussidiarietà orizzontale, ai sensi dell'art. 118 Cost..
In particolare, il Comune pone l'ipotesi dell'attribuzione gratuita ad un operatore commerciale, selezionato nel rispetto della normativa di settore, della disponibilità del sito ove svolgere un concerto, al fine di agevolare e mantenere detta manifestazione sul proprio territorio.
Si precisa che l'attività di questo Servizio consta nel fornire un supporto giuridico generale di ausilio agli enti per la soluzione dei casi concreti che si presentano. Si esprimeranno dunque in questa sede considerazioni sulla tematica delle gestione del patrimonio immobiliare comunale, cui si riconduce il quesito posto, sulla scorta delle quali, in via collaborativa, si formuleranno alcune osservazioni relative al caso di specie, che l'Ente potrà valutare nella sua autonomia.
L'atto di disposizione di un bene pubblico
[1] è improntato al principio della gestione economica dei beni pubblici, in modo da aumentarne la produttività in termini di entrate finanziarie.
L'obbligo della gestione economica del bene pubblico rappresenta attuazione del principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.) del quale l'economicità della gestione amministrativa costituisce il più significativo corollario (art. 1, L. n. 241/1990)
[2].
In ordine alla possibilità di derogare al principio della redditività del patrimonio pubblico, la Corte dei conti si è evoluta negli anni all'insegna del maggior rigore. E così, la più recente giurisprudenza contabile -nel ribadire i principi già consolidati, secondo cui le modalità di gestione del patrimonio competono alla scelta autonoma discrezionale dell'ente, che deve dare esaustiva motivazione in ordine alle finalità di interesse pubblico perseguito
[3], che risulti equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che viene perseguito mediante lo sfruttamento economico dei beni [4]- ha ritenuto necessaria l'assenza di fine di lucro in capo ai soggetti possibili affidatari dei beni del patrimonio locale, come condizione necessaria tanto per mitigare quanto per escludere la redditività del patrimonio pubblico [5].
Un tanto esposto in generale e venendo al caso di specie, si osserva, in via collaborativa, che non si rinvengono in proposito motivi per discostarsi dal principio della redditività del patrimonio pubblico, ed in particolare dalla posizione più recente della giurisprudenza che subordina la deroga a detto principio all'assenza dello scopo di lucro in capo ai soggetti possibili beneficiari.
Ed invero, in relazione all'ipotesi prospettata dall'Ente di ricondurre l'attività di interesse generale del soggetto imprenditore, cui valuterebbe di attribuire gratuitamente il sito ove tenere un grande concerto, alle proprie finalità istituzionali, nella specie dello sviluppo economico, secondo i principi di sussidiarietà orizzontale di cui all'art. 118 Cost., si ritengono utili le seguenti ulteriori considerazioni sempre alla luce degli apporti giurisprudenziali.
La Corte dei conti -chiamata a pronunciarsi sulla possibilità di attribuire un diritto reale, a titolo gratuito o dietro corrispettivo simbolico, ad un'associazione senza fini di lucro operante sul territorio- ha affrontato in termini generali la facoltà di un ente di procedere ad attribuzioni patrimoniali attinenti al patrimonio immobiliare a terzi soggetti, presenti sul territorio comunale, al fine di consentire lo svolgimento di attività che presentino interesse per l'amministrazione locale o per la comunità insediata sul territorio locale. Ebbene, il magistrato contabile ha affermato che nel momento in cui l'ente locale ricorra a soggetti privati per raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di natura patrimoniale, lo stesso deve rispettare l'art. 12, L. n. 241/1990, avendo cura di predeterminare i casi, le condizioni e le modalità per la concessione di simili utilità ed il confronto concorrenziale tra gli aspiranti
[6].
Muovendo da quest'ultimo aspetto e tornando al caso di specie, risulta sussistere un regolamento dell'Ente in tema di concessione di contributi ed altre erogazioni economiche, ai sensi dell'art. 12, L. n. 241/1990. Fermo restando che l'interpretazione e l'applicazione di detto regolamento competono esclusivamente all'Ente, si osserva in via collaborativa, avuto riguardo alla natura imprenditoriale del soggetto terzo riferita dall'Ente, che il regolamento in parola prevede che la concessione di contributi ed altre erogazioni economiche è rivolta a favore di persone fisiche che non svolgono attività imprenditoriale e persone giuridiche pubbliche o private che non hanno scopo di lucro.
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[1] Provvedimento amministrativo se si tratta di bene demaniale o appartenente al patrimonio indisponibile; negozio di diritto privato se si tratta di bene patrimoniale disponibile (cfr. Corte dei conti, sez. reg. contr. Veneto, 05.10.2012, n. 716).
[2] La giurisprudenza trae il principio di fruttuosità dei beni pubblici dalla lettura combinata degli artt. 9, c. 3, L n. 537/1993, e 32, c. 8, L. n. 724/1994, che impongono la determinazione e l'aggiornamento dei canoni dei beni dati in concessione a privati, sulla base dei prezzi praticati in regime di libero mercato, e da cui deriva il principio della gestione del patrimonio pubblico in modo da incrementare le entrate patrimoniali dell'amministrazione (cfr. Corte dei conti, sez. II, giurisdizionale d'appello, 22.04.2010, n. 149; Corte dei conti, sez. reg. contr. Puglia, 14.11.2013, n. 170).
[3] V. Corte di conti, sez. reg. contr. Lombardia, 09.06.2011, n. 349 e 17.06.2010, n. 672.
[4] Corte dei conti Puglia, n. 170/2013 cit.; Corte dei conti Veneto n. 716/2012 cit..
[5] Corte dei conti Veneto n. 716/2012 cit., richiamata dalle Corti dei conti Puglia, 12.12.2014, n. 216; Lombardia, 06.05.2014, n. 216; Molise, 15.01.2015, n. 1.
In particolare, la Corte dei conti Veneto argomenta l'assenza dello scopo di lucro dalla lettura degli artt. 32, c. 8, L. n. 724/1994 -che prevede una deroga alla determinazione dei canoni dai comuni secondo logiche di mercato, in considerazione degli 'scopi sociali'- e 32, L. n. 383/2000 -che consente agli enti locali di utilizzare il comodato in favore di organizzazioni di volontariato ed associazioni di promozione sociale-: norme da cui emerge, osserva la Corte dei conti, il riferimento delle eccezioni ivi previste a categorie ben individuate di beneficiari, connotati dall'assenza dello scopo di lucro.
Sulla scorta di queste riflessioni, le deliberazioni richiamate rimettono alla valutazione discrezionale dell'ente interessato -in considerazione delle proprie finalità istituzionali, attraverso un'attenta valutazione comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, secondo i principi già espressi negli anni precedenti dalla magistratura contabile- la possibilità di prevedere tariffe agevolate o la gratuità per l'utilizzo di beni pubblici in favore di soggetti che sono pp.aa. o privati connotati dall'assenza di scopo di lucro.
Per una disamina dell'evoluzione giurisprudenziale in tema di gestione del patrimonio pubblico, v. note di questo Servizio n. 11715/2016 e n. 7491/2015, all'indirizzo web della Regione Friuli Venezia Giulia: http://autonomielocali.regione.fvg.it
[6] Corte dei conti, sez. reg. contr. Piemonte, 19.02.2014, n. 36.
L'obbligo degli enti locali di predeterminare le condizioni e le modalità per la concessione di vantaggi economici è altresì posto, sul piano dell'ordinamento regionale, dal combinato disposto degli artt. 2, c. 2-bis, e 30, L.R. n. 7/2000
(14.06.2017 -
link a www.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI: Convenzione per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità da parte di imputati in procedimenti penali. Organo comunale competente all'approvazione della convenzione.
Si ritiene che la stipulazione della convenzione tra il Comune e il Tribunale territorialmente competente per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità da parte di soggetti imputati in procedimenti penali necessiti della previa delibera di giunta comunale.
Il Comune chiede un parere in materia di individuazione dell'organo comunale competente ad approvare la convenzione per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità, da parte di soggetti imputati in procedimenti penali.
L'articolo 168-bis del codice penale, introdotto dall'articolo 3 della legge 28.04.2014, n. 67, prevede che, in determinati procedimenti penali, l'imputato possa chiedere la sospensione del processo con messa alla prova, la concessione della quale è subordinata alla prestazione di attività di lavoro di pubblica utilità. Il terzo comma dell'articolo 168-bis c.p. recita, in particolare, al riguardo: 'La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità. Il lavoro di pubblica utilità consiste in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell'imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. La prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell'imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore.'.
[1]
L'articolo 8 della legge 67/2014, prevede, poi, che: 'Ai sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23.08.1988, n. 400, il Ministro della giustizia, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, adotta un regolamento allo scopo di disciplinare le convenzioni che il Ministero della giustizia o, su delega di quest'ultimo, il presidente del tribunale, può stipulare con gli enti o le organizzazioni di cui al terzo comma dell'articolo 168-bis del codice penale, introdotto dall'articolo 3, comma 1, della presente legge. I testi delle convenzioni sono pubblicati nel sito internet del Ministero della giustizia e raggruppati per distretto di corte di appello.'.
In attuazione di tale previsione è stato emanato dal Ministero della giustizia il decreto ministeriale 08.06.2015, n. 88 che detta i contenuti e la disciplina delle indicate convenzioni.
Sulla base della normativa in essere è stato altresì predisposto dal Tribunale con cui il Comune che ha posto il quesito intende stipulare la convenzione in oggetto, uno schema di convenzione da utilizzare da parte degli enti interessati a collaborare con gli organi della Giustizia, al fine di contribuire al pieno dispiegamento dei diritti degli imputati per il tramite dello strumento giuridico loro offerto dall'articolo 168-bis c.p..
Come rilevato dal Ministero della Giustizia,
[2] 'il lavoro di pubblica è una sanzione penale consistente nella prestazione di un'attività non retribuita a favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti e organizzazioni di assistenza sociale o volontariato.'.
Con la convenzione in riferimento l'ente locale manifesta la propria disponibilità ad acconsentire allo svolgimento di determinate attività non retribuite in favore della collettività da parte di imputati in un procedimento penale per i quali è stata concessa la messa alla prova, la quale è subordinata, ai sensi di legge, alla prestazione di lavoro di pubblica utilità.
Ciò premesso, ed al fine di fornire risposta al quesito posto, in ordine al riparto di competenze tra consiglio e giunta comunale, si osserva quanto segue.
Il consiglio comunale è organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo dell'Ente (articolo 42, comma 1, D.Lgs. 267/2000). Ad esso compete l'adozione degli atti fondamentali elencati nell'articolo 42, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 e di quelli ulteriori che possono essergli attribuiti da leggi speciali.
Con riferimento, invece, alla competenza della giunta, si rammenta che trattasi di organo con funzioni residuali nel senso che essa 'compie tutti gli atti rientranti ai sensi dell'articolo 107, commi 1 e 2, nelle funzioni degli organi di governo, che non siano riservati dalla legge al consiglio e che non ricadano nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del sindaco o del presidente della provincia'.
Come affermato dalla giurisprudenza 'il consiglio comunale è chiamato ad esprimere gli indirizzi politici ed amministrativi di rilievo generale che si traducono in atti fondamentali di natura programmatoria o aventi elevato contenuto di indirizzo politico, che risultano essere tassativamente elencati dalla normativa di settore, mentre la giunta ha una competenza residuale in quanto compie tutti gli atti non riservati dalla legge al consiglio o non ricadenti nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del Sindaco o di altri organi.'
[3].
Con riferimento alla fattispecie in esame, la stipulazione della convenzione di cui trattasi pare non concretizzare alcun atto rientrante nell'elenco di cui all'articolo 42 sopra citato. In particolare, si è dell'avviso che il caso in argomento non rientri nella previsione di cui all'articolo 42, comma 2, lett. e) concernente 'organizzazione dei pubblici servizi, costituzione di istituzioni e aziende speciali, concessione dei pubblici servizi, partecipazione dell'ente locale a società di capitali, affidamento di attività o servizi mediante convenzione'.
Nel caso in esame, infatti, la convenzione non pare che abbia ad oggetto l'affidamento da parte del Comune di un determinato servizio o attività, trattandosi di un atto in cui l'Ente esprime la propria disponibilità a collaborare con gli organi della giustizia consentendo a determinati imputati di fornire attività di lavoro di pubblica utilità come strumento preordinato alla sospensione del processo in corso.
Segue che la stipulazione della convenzione di che trattasi rientra nelle competenze della giunta comunale quale organo politico, con competenza residuale, competente, in questo caso, a esprimersi circa la volontà dell'ente locale di far prestare, presso le strutture comunali, una certa attività agli imputati in un processo penale, in attuazione del disposto di cui all'articolo 168-bis c.p., alle condizioni e con le modalità indicate dalla relativa normativa.
Come rilevato dalla dottrina 'il ruolo del consiglio comunale va ragionevolmente riferito alle sole determinazioni che comportano un'effettiva incidenza sulle scelte fondamentali dell'ente, mentre la giunta resta investita del compito di attuare gli indirizzi formulati dall'organo elettivo, eventualmente anche svolgendo attività sempre con finalità esecutive, ma che implichi una valutazione di natura in qualche misura politico-amministrativa e, come tale, non spettante alla competenza della dirigenza'.
[4]
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[1] Per completezza espositiva si riportano, in questa sede, i restanti commi dell'articolo 168-bis c.p.: 'Nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell'articolo 550 del codice di procedura penale, l'imputato può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova.
La messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato. Comporta altresì l'affidamento dell'imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l'altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l'osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali.
[...]
La sospensione del procedimento con messa alla prova dell'imputato non può essere concessa più di una volta.
La sospensione del procedimento con messa alla prova non si applica nei casi previsti dagli articoli 102, 103, 104, 105 e 108.'.
[2] Ministero della Giustizia. 'Lavoro di pubblica utilità', aggiornamento del 26.02.2016, reperibile sul seguente sito internet: www.giustizia.it
[3] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza dell'11.12.2007, n. 6358. Nello stesso senso si veda Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 06.10.2000, n. 5322
[4] G. Massimo, 'Il riparto di competenza tra consiglio e giunta per l'affidamento dei servizi pubblici locali mediante convenzione', 04.02.2010, in www.diritto.it
(09.06.2017 -
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CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Amministratori locali e dipendenti rimborso spese legali in caso di estinzione del reato per remissione di querela.
La normativa regionale in tema di rimborso spese legali degli amministratori e dipendenti locali non disciplina espressamente il caso della conclusione del processo con sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato a seguito di remissione della querela.
In generale, la giurisprudenza ha affermato che il rimborso delle spese legali di dipendenti e amministratori postula l'assenza del conflitto di interesse con l'amministrazione; presupposto da valutarsi alla stregua della statuizione definitiva che conclude il procedimento, sotto ogni profilo di responsabilità, non solo penale, ma anche di tipo disciplinare o amministrativo, per mancanze attinenti al compimento dei doveri di ufficio.
Questi principi sono stati richiamati dalla Corte dei conti Friuli Venezia Giulia in una vicenda attinente alla rimborsabilità delle spese legali sostenute da dipendenti a seguito di un procedimento penale conclusosi con formula di rito (nella specie, sentenza declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione).
Stesse considerazioni sull'accertamento dell'assenza di ogni responsabilità per il rimborso delle spese giudiziali si ritengono valevoli per gli amministratori locali del Friuli Venezia Giulia, muovendo da una lettura combinata del comma 1 e del comma 2-quinquies dell'art. 151 della L.R. n. 53/1981.

Il Comune riferisce che alcuni amministratori locali e un dipendente sono stati citati in un giudizio penale e che nei loro confronti è stato dichiarato di non doversi procedere per essersi il reato ascritto estinto per remissione di querela. Il Comune chiede dunque se spetti agli amministratori e al dipendente il rimborso delle spese legali sostenute.
Sentito, con riferimento alla situazione del dipendente, il Servizio organizzazione, valutazione e relazioni sindacali personale regionale della Direzione generale della Regione, si esprime quanto segue.
Per quanto concerne gli amministratori locali, l'art. 151, c. 1, L.R. n. 53/1981, n. 53, dispone che 'in caso di instaurazione di giudizio civile, penale o amministrativo di qualsiasi tipo a carico di componenti della Giunta regionale, del Consiglio regionale, di organi collegiali di enti regionali o di soggetti esterni incaricati di funzioni regionali o inseriti in organismi regionali per attività svolte nell'esercizio delle rispettive funzioni istituzionali, a causa ovvero in occasione di queste, la Regione provvede a rimborsare le spese sostenute per la difesa in giudizio, previo parere di congruità da parte dell'Ordine degli avvocati territorialmente competente, con l'esclusione dei casi in cui il giudizio o una sua fase si concluda con sentenza o decreto di condanna o pronuncia equiparata; il rimborso non è tuttavia ammesso nei casi in cui il giudizio si concluda con una sentenza dichiarativa di estinzione del reato per prescrizione o per amnistia, a meno che queste non siano dichiarate nel corso delle indagini preliminari ovvero dopo una sentenza di assoluzione e altresì non spetta nei casi riguardanti la definizione dei procedimenti con il patteggiamento della pena'. Il comma 2-ter dell'art. 151 in commento estende le previsioni del comma 1 richiamato anche agli amministratori degli enti locali.
Per quanto concerne i dipendenti degli enti locali, l'art. 60, CCRL 01.08.2002, prevede che l'ente, anche a tutela dei propri diritti ed interessi, ove si verifichi l'apertura di un procedimento di responsabilità civile o penale nei confronti di un suo dipendente per fatti o atti direttamente connessi all'espletamento del servizio e all'adempimento dei compiti d'ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione che non sussista conflitto di interessi, ogni onere di difesa sin dall'apertura del procedimento, facendo assistere il dipendente da un legale di comune gradimento. In caso di sentenza di condanna esecutiva per fatti commessi con dolo o colpa grave, l'ente ripeterà dal dipendente tutti gli oneri sostenuti per la sua difesa in ogni stato e grado del giudizio.
Le disposizioni richiamate non contemplano espressamente, ma nemmeno escludono, la sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato a seguito di remissione della querela quale modalità di conclusione del processo idonea a consentire il rimborso delle spese legali. Appaiono dunque utili per la disamina della questione le considerazioni espresse dalla giurisprudenza, in generale, in materia di assunzione da parte della p.a. dell'onere della difesa processuale sia dei dipendenti che degli amministratori.
Per quanto concerne i dipendenti, la Suprema Corte, muovendo da un principio di rimborsabilità delle spese legali sopportate dal dipendente -assolto da qualsiasi giudizio di responsabilità occorsogli per causa di servizio- che la giustizia amministrativa riconosce in via generale nell'ordinamento, ne ha derivato che l'ente datore di lavoro è chiamato a contribuire alla difesa del suo dipendente, sul presupposto dell'effettiva mancanza di un qualsiasi conflitto di interessi fra lo stesso e l'amministrazione; presupposto da valutarsi alla stregua della statuizione definitiva che conclude il procedimento, che esclude ogni profilo di responsabilità, non solo penale ma anche disciplinare, del soggetto interessato in ordine ai fatti addebitatigli
[1].
In questo senso, il Giudice amministrativo ha affermato che l'assunzione dell'onere del patrocinio legale del dipendente è subordinata all'insussistenza di conflitto di interesse fra il dipendente medesimo e l'ente di appartenenza, da valutarsi alla stregua della statuizione definitiva che conclude il procedimento, sotto ogni profilo di responsabilità, non solo penale, ma anche di tipo disciplinare o amministrativo, per mancanze attinenti al compimento dei doveri di ufficio
[2].
Allo stesso modo, la Corte dei conti ha affermato che il requisito dell'assenza del conflitto di interesse, consistente nell'avvenuta prova dell'assenza di responsabilità del dipendente, deve essere positivamente verificato, con valutazione da effettuarsi ex post nel caso di rimborso, sulla base del provvedimento giudiziario conclusivo del procedimento che ha coinvolto il dipendente
[3].
Stesse considerazioni sull'accertamento dell'assenza di ogni responsabilità per il rimborso delle spese giudiziali si ritengono valevoli per gli amministratori locali del Friuli Venezia Giulia: depongono in tal senso i contenuti della normativa regionale in materia. Ed invero, una lettura combinata del comma 1 dell'art. 151 e del comma 2-quinquies del medesimo -che espressamente prevede il diritto dell'Ente a ripetere le spese legali già rimborsate in caso di successiva decisione giurisdizionale, passata in giudicato, di condanna o equiparata modificativa del giudizio di carenza di responsabilità- porterebbe ad affermare che per procedere al rimborso delle spese legali sia necessaria una pronuncia che accerti l'assenza di responsabilità in capo all'amministratore, sulla cui base l'ente possa escludere il conflitto di interesse
[4].
Posta la sostanziale assimilazione tra dipendenti ed amministratori sotto il profilo della responsabilità, ai fini di valutare per entrambi, nella realtà regionale, il diritto al rimborso delle spese legali nel caso (qui ricorrente) di sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato per remissione della querela, si ritiene utile riportare le considerazioni della Corte dei conti Friuli Venezia Giulia
[5] in tema di rimborso delle spese legali sostenute da dipendenti a seguito di un procedimento penale conclusosi con sentenza declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, avuto riguardo ai contenuti dell'art. 60, CCRL 01.08.2002, citato. Si tratta di un caso non sovrapponibile a quello in esame ma a questo accomunato dall'essere ugualmente posta la domanda di rimborso delle spese legali nel contesto di sentenze di proscioglimento con formule cc.dd. di rito.
In particolare, avuto riguardo all'accertamento dell'insussistenza dell'elemento soggettivo del dolo e della colpa grave, la Corte dei conti friulana richiama i principi già espressi in seno alla giurisprudenza amministrativa e contabile, per cui è condizione necessaria, per ottenere il rimborso delle spese legali, che il procedimento giudiziario si concluda con una sentenza di assoluzione, con cui sia stabilita l'insussistenza dell'elemento psicologico del dolo o della colpa grave e che consenta di ritenere esclusa ogni ipotesi di responsabilità del dipendente, non solo penale, ma anche amministrativa e/o contabile
[6].
L'esame della sentenza penale assolutoria è finalizzato appunto a verificare se sussistano o meno tutte le condizioni richieste dalla normativa per giustificare il rimborso delle spese legali del dipendente assolto. E ciò coerentemente con la ratio della normativa vigente che vuole valorizzare la valutazione autonoma degli enti in ordine alla sussistenza dei presupposti per poter assumere l'onere delle spese legali, al di là di ogni automatismo
[7]. Così argomentando, la Sezione friulana esprime l'avviso per cui, in generale, non è da ritenersi ammessa la rimborsabilità ai dipendenti delle spese di lite di procedimenti penali conclusisi con formule diverse dall'assoluzione con formula liberatoria, o comunque non idonee ad escludere la ricorrenza di ipotesi di responsabilità per assenza di dolo o colpa grave.
---------------
[1] Cass. civ., sez. lav., 19.11.2007, n. 23904. La sentenza in commento richiama Cons. Stato, Comm. Spec. 06.05.1996, n. 4, e Sez. VI, 02.08.2004, n. 5367.
[2] TAR Emilia Romagna, 29.07.1998, n. 423.
[3] Cfr. Corte dei conti, sez. reg. contr., Emilia Romagna, 09.03.2009, n. 73, che condanna per danno erariale il funzionario AUSL che aveva disposto il rimborso delle spese legali in favore di medici prosciolti per remissione di querela, ritenendo che non fosse stata raggiunta la positiva prova dell'assenza del conflitto di interessi.
[4] Dello stesso tenore appaiono le riflessioni maturate in passato dal Consiglio di Stato, in assenza di una disposizione specifica regolante i rapporti patrimoniali tra comune ed amministratori, con particolare riferimento al rimborso delle spese legali. Ebbene, il Supremo Giudice amministrativo ha affermato che il rimborso delle spese legali postula l'accertamento dell'assenza di responsabilità e ha escluso detto beneficio in favore di amministratori coinvolti in un procedimento penale conclusosi con il loro proscioglimento per essersi i reati ascritti estinti per intervenuta oblazione. E ciò, sulla base del rilievo che il proscioglimento con formula meramente processuale non consente di appurare l'effettiva mancanza di colpa, né erano emersi altri elementi, estranei al giudizio penale, a dimostrare la mancanza di responsabilità (Consiglio di Stato, sez. V, 14.04.2000, n. 2242).
E così anche la Corte dei conti, in un giudizio promosso dal Procuratore generale, sulla base dell'orientamento giurisprudenziale maturato a fronte della suddetta lacuna normativa, ha ritenuto dannosa la condotta degli organi comunali che avevano disposto il rimborso delle spese legali sostenute dagli amministratori locali prosciolti per intervenuta prescrizione del reato, nonostante il Giudice penale dell'appello -invocato per ottenere pronuncia di assoluzione-, avesse confermato la dichiarazione dell'intervenuta prescrizione del Giudice di primo grado, precisando di non poter dichiarare la mancanza di responsabilità penale degli imputati (Corte dei conti, sez. II appello, 16.02.2004, n. 49).
[5] Corte dei conti, sez. contr. reg. Friuli Venezia Giulia, 16.01.2014, n. 1.
[6] Corte dei conti Friuli Venezia Giulia n. 1/2014 cit., che richiama Corte dei conti, sez. giurisd. Abruzzo, 29.11.1999, n. 1122; conforme: Corte dei conti Lombardia 19.07.2010, n. 804.
[7] Corte dei conti Friuli Venezia Giulia n. 1/2014 cit.; Corte dei conti Lombardia n. 804/2010 cit.
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PATRIMONIO: Cessione gratuita di immobile comunale.
La gestione del patrimonio pubblico è improntata al principio di redditività, la cui deroga è subordinata dalla giurisprudenza contabile più recente all'assenza dello scopo di lucro in capo al soggetto beneficiario, fermo l'obbligo di un'esaustiva motivazione in considerazione dell'interesse pubblico perseguito, che risulti equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che viene soddisfatto mediante lo sfruttamento economico dei beni, secondo i principi giurisprudenziali già consolidati.
La posizione della Corte dei conti assume toni ancor più rigorosi con riferimento alla cessione gratuita di un immobile, che si palesa in contrasto con l'interesse primario alla conservazione e alla corretta gestione del patrimonio pubblico. Nel contesto di questa posizione restrittiva, solo in caso di mancato trasferimento di denaro tra enti dello stesso ordinamento, la Corte dei conti ha escluso la sussistenza di un illecito erariale.
In proposito, con riferimento al caso di specie, va detto che il Comune è ente locale ricompreso tra le pp.aa. di cui all'art. 1, c. 2, D.Lgs. n. 165/2001, mentre l'ATER è ente pubblico economico assoggettato alla disciplina generale delle persone giuridiche del libro V, titolo V, capo V, del codice civile per quanto compatibile (art. 37, L.R. n. 1/2016).

Il Comune pone un quesito in merito alla possibilità di cedere a titolo gratuito all'ATER un immobile comunale, inserito nel piano delle valorizzazioni
[1] come immobile 'privo di valore' [2], al fine della sua ristrutturazione e successiva costruzione di alloggi popolari da concedere in locazione a canone concordato.
Si premette che l'attività di consulenza di questo Servizio consta nel fornire agli enti locali un supporto giuridico generale sulle questioni poste, che possa essere utile come cornice di legittimità della concreta attività amministrativa, volta alla realizzazione dell'interesse pubblico perseguito. Per cui, in questa sede, la questione posta dall'Ente verrà trattata sotto il profilo generale della legittima gestione del patrimonio pubblico, avuto riguardo alle riflessioni elaborate dalla giurisprudenza sul punto. Mentre, si precisa sin d'ora, per quanto concerne l'aspetto dei rapporti tra Comune e ATER per la gestione dell'immobile di cui si tratta, al fine della costruzione di alloggi popolari da locare a canone concordato, e le modalità attraverso cui un tanto possa avvenire, ulteriori specifiche considerazioni potranno essere espresse, per quanto di competenza, dalla Direzione centrale infrastrutture e territorio, Area interventi a favore del territorio, Servizio edilizia, in indirizzo.
L'atto di disposizione di un bene pubblico è improntato al principio della gestione economica dei beni pubblici, in modo da aumentarne la produttività in termini di entrate finanziarie. L'obbligo della gestione economica del bene pubblico rappresenta attuazione del principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.) del quale l'economicità della gestione amministrativa costituisce il più significativo corollario (art. 1, L. n. 241/1990)
[3].
In ordine alla possibilità di derogare al principio della redditività del patrimonio pubblico, la Corte dei conti si è evoluta negli anni all'insegna del maggior rigore. E così, la più recente giurisprudenza contabile -nel ribadire i principi già consolidati, secondo cui le modalità di gestione del patrimonio competono alla scelta autonoma discrezionale dell'ente, che deve dare esaustiva motivazione in ordine alle finalità di interesse pubblico perseguito
[4], che risulti equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che viene perseguito mediante lo sfruttamento economico dei beni [5]- ha ritenuto necessaria l'assenza di fine di lucro in capo ai soggetti possibili affidatari (in comodato) dei beni del patrimonio locale, tanto per mitigare quanto per escludere la redditività del patrimonio pubblico [6].
Queste considerazioni della Corte dei conti sulla deroga alla redditività assumono un tono ancora più rigoroso con specifico riferimento alla cessione gratuita dell'immobile. Per la Corte dei conti, se lo scopo del patrimonio pubblico è quello di produrre reddito, risulta evidente che una cessione gratuita di un immobile non può considerarsi una modalità tipica di valorizzazione del patrimonio in quanto non solo non reca alcuna entrata all'ente, e dunque costituisce un utilizzo non coerente con le finalità del bene, ma addirittura può risultare fonte di depauperamento -e dunque di danno- patrimoniale per l'ente, che è invece tenuto ad improntare la gestione del proprio patrimonio a criteri di economicità e di efficienza
[7].
In particolare, per la Sezione Veneta 'non può negarsi che un'eventuale scelta di dismissione a titolo gratuito dovrebbe avvenire a seguito di un'attenta ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, rimessa esclusivamente alla sfera discrezionale dell'ente, in cui, però, deve tenersi nella massima considerazione l'interesse alla conservazione ed alla corretta gestione del patrimonio pubblico, in ragione della tutela costituzionale di cui questo gode (art. 119, comma 6 novellato), e della sempre crescente attenzione postavi dal legislatore (tra cui, appunto, l'art. 58 del D.L. n. 112/2008). L'interesse alla conservazione e alla corretta gestione del patrimonio pubblico è da considerarsi primario anche perché espressione dei principi di buon andamento e di sana gestione, ed impone all'ente di ricercare tutte le alternative possibili che consentano un equo contemperamento degli interessi in gioco, adottando la soluzione più idonea ed equilibrata, che comporti il minor sacrificio possibile per gli interessi compresenti'
[8].
Ed ancora, per la Corte dei conti la perdita di un cespite deve essere adeguatamente compensata da una partita di carattere finanziario o con un''utilitas' di carattere patrimoniale (in termini di uso, proprietà, servizi). Tale utilitas, infatti, solo eccezionalmente può trovare giustificazione in interessi di carattere non patrimoniale, in base a precipue disposizioni di legge che tipizzano l'interesse tra gli scopi perseguibili dall'ente o che espressamente autorizzano l'alienazione gratuita
[9].
Nel contesto di questa posizione restrittiva, solo con riferimento ad enti dello stesso ordinamento, specificamente nel caso di mancato trasferimento di denaro nell'ambito di enti facenti parte dello stesso settore, la Corte dei conti ha escluso la sussistenza di un illecito erariale, giacché prescindendo dall'indubbia differente personalità giuridica, trattasi di una partita di giro nell'ambito di una finanza sostanzialmente unitaria
[10].
Ma in proposito e con riferimento al caso di specie va detto che il Comune è ente locale ricompreso tra le amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, c. 2, D.Lgs. n. 165/2001, mentre l'ATER è ente pubblico economico assoggettato alla disciplina generale delle persone giuridiche del libro V, titolo V, capo V, del codice civile per quanto compatibile (art. 37, L.R. n. 1/2016).
Per completezza di esposizione, si osserva che la giurisprudenza contabile, muovendo dal fatto che non è rinvenibile alcuna disposizione che impedisca al comune di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, se necessarie per raggiungere i fini che in base all'ordinamento deve perseguire, ha affermato che l'attribuzione di beni, se intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune, anche se apparentemente a 'fondo perso', non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell'utilità che l'ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo
[11]. Si tratta, tuttavia, di pronunce che non concernono espressamente gli atti di gestione del patrimonio pubblico, per i quali la Corte dei conti ha affermato gli specifici principi sopra richiamati.
Un tanto esposto in generale, per la definizione più opportuna dei rapporti tra Comune e ATER per la gestione dell'immobile di cui si tratta, per le finalità indicate della sua ristrutturazione e successiva costruzione di alloggi popolari da concedere in locazione a canone concordato, ci si rimette alle considerazioni che riterrà di esprimere la Direzione centrale infrastrutture e territorio, Area interventi a favore del territorio, Servizio edilizia, ai sensi della L.R. n. 1/2016, per quanto di competenza in materia.
---------------
[1] In tema di interventi di valorizzazione del territorio, l'art. 58 del D.L. n. 112/2008, convertito in L. n. 133/2008, ha imposto agli enti territoriali di redigere annualmente un piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari, da allegare al bilancio di previsione, in cui inserire i singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non ritenuti strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione. L'inserimento degli immobili nel piano ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile, fatto salvo il rispetto delle tutele di natura storico-artistica, archeologica, architettonica e paesaggistico-ambientale.
[2] In tal modo si esprime l'Ente.
[3] Corte dei conti, sez. reg. contr. Veneto, deliberazione 02.10.2012, n. 716; Corte dei Conti, sez. reg. contr. Puglia, deliberazione 14.11.2013, n. 170.
[4] V. Corte dei conti, sez. reg. contr., Lombardia, deliberazioni 09.06.2011, n. 349 e 17.06.2010, n. 672.
[5] Corte dei conti Puglia, n. 170/2013, cit.; Corte dei conti Veneto, n. 716/2012, cit..
[6] Corte dei conti Veneto, n. 716/2012, cit., richiamata dalle Corti dei conti Puglia, deliberazione 12.12.2014, n. 216; Lombardia, deliberazione 06.05.2014, n. 216; Molise, deliberazione 15.01.2015, n. 1.
[7] Corte dei Veneto, deliberazione 24.04.2009, n. 33 e n. 716/2012 cit.; conforme: Corte dei conti Puglia, n. 170/2013, cit..
[8] Corte dei conti Veneto n. 33/2009 cit. Le valutazioni della Sezione veneta sono richiamate e condivise dalla Corte dei conti Friuli Venezia Giulia, che, seppur in un caso non sovrapponibile a quello in esame, per la differenza di valore dell'immobile, ha ritenuto che 'la cessione definitiva a titolo gratuito (donazione) non sia compatibile con l'obbligo di valorizzazione contemplato dall'art. 58 del D.L. 25.06.2008 n. 112' (Corte dei conti, sez. reg. contr. Friuli Venezia Giulia, deliberazione 30.04.2014, n. 94).
[9] Corte dei conti, sez. reg. contr. Campania, deliberazione 06.10.2014, n. 205.
[10] Corte dei conti, sez. giurisd., Sicilia, 02.07.2010, n. 1477; Corte dei conti, sez. giurisd. Trentino A. Adige, 16.03.2009, n. 18.
[11] Corte dei conti, sez. reg. contr., Lombardia, 29.05.2012, n. 262, con riferimento alla possibilità per un comune di effettuare lavori di restauro di un bene immobile non appartenente al patrimonio dell'ente locale, nello specifico il campanile di una Chiesa, con entrate comunali; Corte dei conti, sez. reg. contr., Piemonte, 12.02.2014, n. 36, con riferimento al diritto di superficie, su area comunale, in favore di una locale associazione dedita alla pubblica assistenza, senza fini di lucro
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CONSIGLIERI COMUNALI: Diniego di aspettativa per l'espletamento della carica di sindaco. Aspettativa non retribuita al sindaco. Articolo 81 TUEL.
Il lavoratore dipendente che sia stato eletto sindaco ha diritto ad ottenere un'aspettativa non retribuita, alla sola condizione che ne faccia domanda, sicché non rientra nella discrezionalità del datore di lavoro stabilire se il lavoratore possa o meno continuare a rendere la prestazione durante l'adempimento dell'incarico elettivo.
Quanto all'aspetto della durata dell'aspettativa si osserva che l'indicazione relativa alla concessione della stessa 'per tutta la durata del mandato', contenuta all'articolo 81 TUEL, costituisce il limite massimo di cui l'amministratore locale può usufruire ma non assume anche il significato di unità temporale minima.
Di qui la possibilità da parte dello stesso di richiedere di fruire dell'aspettativa per uno o più periodi inferiori alla durata del mandato, entro il termine di conclusione dello stesso.

Il Comune chiede un parere in materia di aspettativa spettante al sindaco. In particolare, riferisce che il primo cittadino, lavoratore dipendente presso un'azienda privata, ha fatto richiesta di usufruire di un'aspettativa non retribuita di un mese. A fronte dell'avvenuto diniego della stessa da parte del datore di lavoro, chiede se un tale comportamento sia legittimo e, in subordine, se possa avanzare richiesta di aspettativa relativamente a tutto il mandato residuo che lo stesso deve ancora svolgere.
Premesso che non compete a questo Ufficio esprimersi sulla legittimità degli atti emessi dagli enti locali e, a maggior ragione, di quelli espressi da altri soggetti giuridici, di seguito si forniscono una serie di considerazioni giuridiche generali sull'istituto dell'aspettativa spettante a determinate categorie di amministratori locali.
L'articolo 81 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 recita: 'I sindaci, i presidenti delle province, i presidenti dei consigli comunali e provinciali, i presidenti dei consigli circoscrizionali dei comuni di cui all' articolo 22, comma 1, i presidenti delle comunità montane e delle unioni di comuni, nonché i membri delle giunte di comuni e province che siano lavoratori dipendenti possono essere collocati a richiesta in aspettativa non retribuita per tutto il periodo di espletamento del mandato. Il periodo di aspettativa è considerato come servizio effettivamente prestato, nonché come legittimo impedimento per il compimento del periodo di prova. I consiglieri di cui all' articolo 77, comma 2, se a domanda collocati in aspettativa non retribuita per il periodo di espletamento del mandato, assumono a proprio carico l'intero pagamento degli oneri previdenziali, assistenziali e di ogni altra natura previsti dall'articolo 86.'.
Tale articolo deve essere letto in combinazione con l'articolo 31 della legge 20.05.1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento) il quale, al primo comma, recita: 'I lavoratori che siano eletti membri del Parlamento nazionale o del Parlamento europeo o di assemblee regionali ovvero siano chiamati ad altre funzioni pubbliche elettive possono, a richiesta, essere collocati in aspettativa non retribuita, per tutta la durata del loro mandato'.
[1]
Le due norme citate costituiscono attuazione dell'articolo 51, terzo comma, della Costituzione il quale prevede che 'chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro'.
Circa la natura giuridica di tale istituto la dottrina ha chiarito che: 'La disposizione non prevede un obbligo per il lavoratore di sospendere la prestazione lavorativa quando versi in una delle situazioni suddette, né pone un divieto per il datore di lavoro di adibire il proprio dipendente allo svolgimento dell'attività, piuttosto riconosce in capo al prestatore un diritto potestativo a sospendere l'obbligazione lavorativa per il tempo del mandato e a veder conservato il proprio posto di lavoro [...], perciò creando una «situazione di inesigibilità della prestazione» lavorativa [...], fondata sul riconoscimento della prevalenza del diritto a svolgere il mandato elettorale sull'interesse del datore a ricevere la prestazione'.
[2]
Anche la giurisprudenza, intervenuta sull'argomento ha affermato che: 'Il lavoratore dipendente che sia stato eletto ad una carica elettiva ha diritto ad ottenere un'aspettativa non retribuita, alla sola condizione che ne faccia domanda, sicché non rientra nella discrezionalità del datore di lavoro stabilire se il lavoratore possa o meno continuare a rendere la prestazione durante l'adempimento dell'incarico elettivo'.
[3]
Interessante anche la pronuncia della Cassazione civile del 05.10.2006, n. 21396 la quale recita: 'Il combinato disposto degli artt. 1 e 2 della Legge 27.12.1985, n. 816 ("Aspettative, permessi e indennità degli amministratori locali")
[4] conferisce al lavoratore dipendente che sia stato eletto alla carica, fra l'altro, di sindaco, un diritto ad ottenere un'aspettativa non retribuita, alla sola condizione che ne faccia domanda, secondo un principio già affermato dall'articolo 31 della Legge 300/1970, al fine di rendere compatibile, per i lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive, l'espletamento di tali funzioni con la condizione di prestatore di lavoro subordinato. Esso costituisce una coerente applicazione del principio di cui all'articolo 51, comma 3, Costituzione secondo cui chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha il diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro'.
Quanto all'aspetto della durata dell'aspettativa si osserva che l'indicazione relativa alla concessione della stessa 'per tutta la durata del mandato', contenuta all'articolo 81 TUEL, costituisce il limite massimo di cui l'amministratore locale può usufruire ma non assume anche il significato di unità temporale minima. Di qui la possibilità da parte dello stesso di richiedere di fruire dell'aspettativa per uno o più periodi inferiori alla durata del mandato, entro il termine di conclusione dello stesso.
Si veda, al riguardo, la sentenza della Cassazione civile
[5] la quale recita: 'Il collocamento in aspettativa, previsto dall'art. 31, l. 20.05.1970, n. 300, in favore dei lavoratori chiamati a ricoprire funzioni pubbliche o cariche sindacali provinciali e nazionali, non consiste necessariamente in un unico periodo, senza soluzione di continuità, coincidente con la durata del mandato (o compreso in essa), ma può essere frazionato in distinti periodi, di maggiore o minore durata, nel corso dell'espletamento del mandato stesso, atteso che l'art. 31 cit. non pone alcuna limitazione di carattere temporale'.
Atteso quanto sopra, si ritiene che il lavoratore dipendente, che sia altresì sindaco, abbia titolo per inoltrare al proprio datore di lavoro una richiesta di aspettativa per tutto il periodo che residua di svolgimento del proprio mandato elettivo.
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[1] Il secondo comma dispone, poi, che: 'La medesima disposizione si applica ai lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali'.
[2] M.L. Vallauri, 'Aspettativa del lavoratore', in Diritto on-line, 2015.
[3] Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza del 29.10.2014, n. 23013. Nello stesso senso si vedano, anche, le pronunce del Tribunale di Milano del 28.04.2006 e della Cassazione civile, del 07.02.1985, n. 953 le quali riconoscono all'aspettativa spettante al lavoratore chiamato a svolgere mansioni sindacali, 'natura di diritto potestativo cui corrisponde una situazione di soggezione del datore di lavoro.' Si rileva che la situazione del lavoratore chiamato a ricoprire cariche sindacali è equiparabile, ai fini che qui rilevano, a quella del lavoratore che svolge funzioni pubbliche elettive, stante la previsione di cui all'articolo 31, primo e secondo comma, dello Statuto dei lavoratori.
[4] Tali articoli sono stati abrogati dall'articolo 274 del D.Lgs. 267/2000. Si vedano, ora, i corrispondenti articoli da 77 a 96 del T.U.E.L..
[5] Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza dell'01.12.1986, n. 7097. Nello stesso senso si veda Corte dei Conti, sez. controllo, sentenza del 15.12.1988, n. 2045
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CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI: Trasporto scolastico gratis solo in via eccezionale e nell’interesse pubblico.
L'erogazione gratuita di un servizio pubblico da parte dell'ente locale è possibile in via eccezionale, ma deve essere giustificata da una situazione concreta debitamente motivata e sostenuta da adeguata copertura finanziaria.
La Sezione ritiene che il servizio di trasporto scolastico sia pleno iure un servizio pubblico di trasporto escluso dalla disciplina normativa dei servizi pubblici a domanda individuale.
Cionondimeno, gli enti dovranno motivare, a pena di illegittimità, l’eventuale gratuità del servizio che costituisce una eccezione alla naturale commutatività dei contratti con la pubblica amministrazione, tanto più se il servizio assume carattere generalizzato; gli enti saranno tenuti, in sede di copertura, alla stretta osservanza delle disposizioni dell’art. 117 TUEL, in particolare il principio dell’equilibrio ex ante tra costi e risorse a copertura, principio che riguarda indistintamente tutti i servizi pubblici erogati dall’ente locale, a prescindere dalla forma contrattuale di affidamento del servizio.

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Il Sindaco del Comune di Sessa Aurunca (CE)  ha posto alla Sezione un parere in materia di finanziamento dei servizi pubblici a domanda individuale. Segnatamente chiede se il servizio di trasporto scolastico possa essere erogato in modo gratuito a tutti gli utenti che ne facciano richiesta.
...
1. La definizione di servizio pubblico a domanda individuale, oltre ad essere un concetto di economia della finanza pubblica, è codificato in via normativa dal decreto interministeriale 31.12.1983, emanato ai sensi dell’art. 6, comma 3, del D.L. n. 55/1983, conv. L. n. 131/1983.
La disposizione primaria citata autorizzava il Ministro dell'interno, di concerto con i Ministri del tesoro e delle finanze, ad emanare entro il 31.12.1983 un decreto che individuasse “esattamente” la categoria dei servizi pubblici a domanda individuale.
Cosicché, il decreto, oltre a individuare espressamente un elenco di tali servizi, contiene una definizione stipulativa generale, considerando come tali «tutte quelle attività gestite direttamente dall'ente, che siano poste in essere non per obbligo istituzionale, che vengono utilizzate a richiesta dell'utente e che non siano state dichiarate gratuite per legge nazionale o regionale».
L’elenco, peraltro, non ricomprende espressamente il servizio di trasporto scolastico, mentre, in materia di istruzione, prevede i servizi di asilo nido e corsi extrascolastici che non siano previsti come obbligatori dalla legge (nn. 3 e 6).
2. Tanto premesso sul piano definitorio, in termini di programmazione della spesa, la copertura dei servizi a domanda individuale costituisce una delle fasi fondamentali della predisposizione del bilancio e del rispetto degli equilibri ai sensi degli artt. 81 Cost. e 9 L. n. 243/2012.
In primo luogo, in generale e per tutti servizi pubblici, anche non definibili “a domanda individuale”, l’art. 117 TUEL stabilisce che «1. Gli enti interessati approvano le tariffe dei servizi pubblici in misura tale da assicurare l'equilibrio economico-finanziario dell'investimento e della connessa gestione. I criteri per il calcolo della tariffa relativa ai servizi stessi sono i seguenti:
   a) la corrispondenza tra costi e ricavi in modo da assicurare la integrale copertura dei costi, ivi compresi gli oneri di ammortamento tecnico-finanziario;
   b) l'equilibrato rapporto tra i finanziamenti raccolti ed il capitale investito;
   c) l'entità dei costi di gestione delle opere, tenendo conto anche degli investimenti e della qualità del servizio;
d) l'adeguatezza della remunerazione del capitale investito, coerente con le prevalenti condizioni di mercato.
2. La tariffa costituisce il corrispettivo dei servizi pubblici; essa è determinata e adeguata ogni anno dai soggetti proprietari, attraverso contratti di programma di durata poliennale, nel rispetto del disciplinare e dello statuto conseguenti ai modelli organizzativi prescelti.
3. Qualora i servizi siano gestiti da soggetti diversi dall'ente pubblico per effetto di particolari convenzioni e concessioni dell'ente o per effetto del modello organizzativo di società mista, la tariffa è riscossa dal soggetto che gestisce i servizi pubblici
».
In secondo luogo, per quanto riguarda invece lo specifico caso dei servizi pubblici “a domanda individuale”, l’ancora vigente D.L. n. 55/1983, conv. dalla legge 26.04.1983 n. 131, all'art. 6 stabilisce che: «1. Le province, i comuni, i loro consorzi e le comunità montane sono tenuti a definire, non oltre la data della deliberazione del bilancio, la misura percentuale dei costi complessivi di tutti i servizi pubblici a domanda individuale […] che viene finanziata da tariffe o contribuzioni ed entrate specificamente destinate. 2. Con lo stesso atto vengono determinate le tariffe e le contribuzioni».
Pertanto, fermo restando che l’erogazione del servizio pubblico deve avvenire in equilibrio ai sensi dell’art. 117 TUEL (e che ciò presuppone una efficace rappresentazione dei costi e una copertura nel rispetto dei criteri generali di cui alla norma del Testo unico degli enti locali), l’erogazione dello stesso non può essere gratuita per gli utenti e la sua copertura deve avvenire, in parte, mediante i corrispettivi versati dai richiedenti il servizio (cfr. SRC Sicilia n. 115/2015/PAR, SRC Molise n. 80/2011, SRC Campania n. 7/2010/PAR).
3. Ciò è stabilito espressamente da norme puntuali ancora più risalenti.
Segnatamente, il legislatore evidenzia espressamente che «Per i servizi pubblici a domanda individuale, le province, i comuni, i loro consorzi e le comunità montane sono tenuti a richiedere la contribuzione degli utenti, anche a carattere non generalizzato» (art 3 D.L. n. 786/1981, conv. L. n. 51/1982).
Lo stesso articolo da ultimo citato si cura anche di precisare la misura minima di tale contributo diretto da parte degli utenti, segnatamente «Per i servizi già erogati a titolo gratuito e per quelli di nuova istituzione, i proventi relativi, da prevedere nel bilancio, nel loro rispettivo complesso, debbono essere non inferiori al venti per cento delle entrate della categoria prima del titolo terzo - entrate extra tributarie - del bilancio, escluse quelle derivanti dai servizi di carattere produttivo» (enfasi aggiunta).
Per i servizi individuali già esistenti alla data del decreto e per cui era prevista già una contribuzione, la legge prevedeva l’incremento del contributo diretto “di una aliquota non inferiore al venti per cento”.
La quota di finanziamento derivante da contributo diretto minimo così complessivamente determinato, in caso di enti in stato di conclamata “crisi”, si innalza a 36% del costo complessivo del servizio (50% nel caso di servizi di asilo nido, cfr. art. 243, comma 2, lett. a; art. 243-bis, comma 8, lett. b; art. 251, comma 5 TUEL).
4. La ratio di tale disciplina è di tutta evidenza ed è in linea con principi fondamentali della contabilità pubblica. Si tratta di servizi che non costituiscono un “obbligo istituzionale”, pertanto, nel rispetto dell’art. 3 R.D. 2440/1923, il contratto con l’utenza deve caratterizzarsi per la bilateralità del sacrifico economico: a fronte di una prestazione resa o ricevuta, il contratto, secondo una nota bipartizione, può essere finanziariamente “attivo” o “passivo” e deve quindi inserirsi in una logica commutativa.
Non sembrano in linea generale trovare posto, in tale summa divisio, contratti liberali o a titolo gratuito sganciati da qualsiasi logica commutativa e che non rispondano, patrimonialmente, ad un interesse pubblico, se non nei casi previsti dalla legge (cfr. SRC Campania n. 205/2014/PAR).
L’erogazione gratuita di un servizio costituisce dunque una extrema ratio che deve essere giustificata da una situazione concreta che supera la stessa qualificazione astratta del servizio quale “servizio pubblico a domanda individuale”, in quanto tale erogazione è resa di fatto “obbligatoria” in relazione ai compiti istituzionali dell’ente (art. 112 TUEL).
5. Ed infatti costituisce eccezione “legislativa” (art. 6, comma 7, del D.L. n. 55/1983) al concetto normativamente determinato di “servizio pubblico a domanda individuale” (D.M. 31.12.1983) il novero dei servizi elencati all'art. 3 del D.L. n. 786/1981, vale a dire, oltre ai già citati servizi gratuiti per legge statale o regionale, quelli finalizzati all'inserimento sociale dei portatori di handicaps nonché quelli per i quali le vigenti norme prevedono la corresponsione di tasse, diritti o di prezzi amministrati, nonché –fattispecie rilevante per il caso oggetto della presente pronuncia consultiva– i servizi di trasporto pubblico.
Ai sensi dell’articolo 1, comma 2, del D.lgs. n. 422/1997 «Sono servizi pubblici di trasporto regionale e locale i servizi di trasporto di persone e merci, che non rientrano tra quelli di interesse nazionale tassativamente individuati dall'articolo 3; essi comprendono l'insieme dei sistemi di mobilità terrestri, marittimi, lagunari, lacuali, fluviali e aerei che operano in modo continuativo o periodico con itinerari, orari, frequenze e tariffe prestabilite, ad accesso generalizzato, nell'ambito di un territorio di dimensione normalmente regionale o infraregionale».
Per quanto concerne la Regione Campania, l’art. 3 della Legge Regionale 28.03.2002, n. 3, a complemento del quadro normativo statale, precisa che «il sistema dei servizi di trasporto pubblico regionale e locale attiene all'insieme delle reti e dei servizi di trasporto pubblico non riservati alla competenza statale», il quale si articola in servizi di linea (cioè secondo orari ed itinerari prestabiliti) e non di linea.
I servizi “non di linea” provvedono al trasporto collettivo o individuale di persone svolgendo una funzione complementare e integrativa dei trasporti pubblici di linea, ai sensi della legge 15.01.1992, n. 21 (art. 3, comma 3, lett. b, L.R. n. 3/2002).
In merito al servizio di trasporto scolastico, la giurisprudenza, pur rilevando che la prestazione dello stesso si caratterizza per essere riservato a categorie specifiche di utenti, ne ha confermato il carattere di servizio pubblico locale e “non di linea (Consiglio di Stato, Sez. VI, 22.11.2004 n. 7636) e ha sottolineato che lo stesso non è tra l’altro incompatibile con lo svolgimento di servizi di linea (TAR Campania-Napoli – Sez. I, 26.02.2010 n. 1191).
In proposito, «Ai sensi del decreto legislativo 22.09.1998, n. 345, e della legge 15.01.1992, n. 21, i Comuni esercitano tutte le funzioni amministrative relative ai servizi di trasporto pubblico non di linea di persone» (art. 4 L.R. n. 3/2002).
Si deve pertanto ritenere che il servizio di trasporto scolastico sia pleno iure un servizio pubblico di trasporto, pertanto escluso dalla disciplina normativa dei servizi pubblici a domanda individuale.
Cionondimeno,
nell’erogazione del servizio, gli enti:
   - dovranno motivare, a pena di illegittimità, l’eventuale gratuità del servizio in funzione di un interesse pubblico, tanto più se il servizio assume carattere generalizzato;
   - saranno tenuti, in sede di copertura, alla stretta osservanza delle disposizioni dell’art. 117 TUEL, in particolare il principio dell’equilibrio ex ante tra costi e risorse a copertura, principio che riguarda indistintamente tutti i servizi pubblici erogati dall’ente locale, a prescindere dalla forma contrattuale di affidamento del servizio
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.05.2012 n. 2537) (Corte dei Conti, Sez. controllo Campania, parere 21.06.2017 n. 222).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: L’adozione di un Regolamento è fondamentale al fine di determinare la percentuale effettiva (inferiore o uguale al 2% dell’importo posto a base di gara) da destinare al fondo.
Considerato che la determinazione dell’aliquota effettiva da destinare al fondo, secondo la complessità e l’entità dell’opera, esprime la potestà normativa propria ed esclusiva dell’ente, è da escludersi che il regolamento possa avere efficacia retroattiva.
Diversamente, i criteri di assegnazione e di riparto del fondo devono essere determinati in sede decentrata con contrattazione integrativa per essere, poi, recepiti dal Regolamento.
In definitiva, la disciplina che quantifica l’incentivo da pagare ha, e conserva, natura sostanzialmente contrattuale.
Di conseguenza, l’accordo integrativo decentrato, regolante i diritti patrimoniali dei lavoratori e recepito nel regolamento, può disciplinare anche la ripartizione delle risorse già accantonate tra gli aventi diritto, per le attività da loro espletate prima della sua approvazione (ciò non lede il principio della irretroattività del Regolamento, inteso come fonte normativa).
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1. Se sia possibile individuare le modalità e i criteri di riparto mediante adeguamento e modifica del regolamento a suo tempo adottato ai sensi della legge n. 109/1994, la risposta non può essere univoca.
Se il Regolamento, a suo tempo adottato ai sensi della legge n. 109/1994, non aveva recepito alcun accordo integrativo decentrato, oggi non appare strumento utilizzabile alla luce di quanto sopra argomentato. L'atto normativa finalizzato a disciplinare il trattamento economico del personale alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, infatti, violerebbe la prescrizione di cui all'art. 2, comma 3, del TUIP. Peraltro, non ricorrerebbe neppure la condizione di supplenza, per l'accordo non sottoscritto, eccezionalmente e provvisoriamente ammesso dall'art. 40, comma 3-ter, del TUIP.
Se, poi, si intende modificare detto regolamento uniformandolo alle nuove prescrizioni, è chiaro che si tratterebbe di un nuovo regolamento.
   2. Al quesito se il regolamento possa considerarsi quale condizione sospensiva del diritto a percepire l'incentivo maturato in capo agli aventi diritto, deve darsi risposta negativa.
L'approvazione del regolamento non potrebbe, infatti, essere valida condizione sospensiva perché meramente potestativa e, come tale, nulla ai sensi dell'art. 1355 c.c., dovendo invece considerarsi elemento che concorre al formarsi della fattispecie complessa che dà luogo alla determinazione e  liquidazione dell'incentivo stesso.
Pertanto dalla sua approvazione non può
discendere quell’effetto retroattivo che l’art. 1360 c.c. riconduce all’avveramento della condizione.
In altre parole, la mera approvazione del Regolamento che recepisca i criteri di riparto dell’incentivo, di per sé, non fornisce argomenti per sostenerne l’applicazione retroattiva, in quanto è al contenuto dell’accordo integrativo decentrato che occorre porre riguardo, nei termini appresso riportati.

   3. Quanto al quesito se sia possibile ripartire tra gli aventi diritto le risorse rivenienti dal fondo costituito, prima, ai sensi del citato art. 93, D.Lgs. n. 163/2006 e, poi, dall'art. 113, D.Lgs. n. 50/2016, la risposta è che non è precluso all'accordo integrativo decentrato, regolante diritti patrimoniali dei lavoratori e recepito nel Regolamento, di disciplinare anche la ripartizione delle risorse già accantonate tra gli aventi diritto, per le attività da loro espletate prima dell'accordo, purché in conformità agli altri presupposti di legge.

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Il Sindaco del Comune di Matera espone che nel periodo di vigenza del D.Lgs. n. 163/2006 (abrogato dal D.Lgs. n. 50/2016, in vigore dal 18.04.2016), non era stato adottato il Regolamento previsto dall'art. 93, comma 7-bis, che era previsto come condizione per ripartire il fondo per la progettazione e l'innovazione tra gli aventi diritto, mentre era stato approvato, con delibera di Giunta n. 19/2002, il regolamento ex art. 18, L. n. 109/1994.
Non di meno, nei quadri economici delle opere nel frattempo approvate, erano state previste le risorse (2%) da destinare all'alimentazione del predetto fondo, somme poi confluite nel Fondo Pluriennale Vincolato (F.P.V.).
Atteso che ad oggi l'Ente non ha ancora adottato neppure il Regolamento prescritto dall'art. 113, comma 3, D.Lgs. n. 50/2016, l'istante chiede un chiarimento interpretativo sui seguenti punti:
   1) se sia possibile ripartire, tra gli aventi diritto, le risorse accantonate nel F.P.V., e non impegnate, rivenienti dal fondo per la progettazione
e l’innovazione, costituito ai sensi del citato art. 93, D.Lgs. n. 163/2006, nel rispetto dei limiti percentuali previsti da detta disposizione;
   2) se sia possibile individuare le modalità e i criteri di riparto mediante adeguamento e modifica del regolamento a suo tempo adottato ai sensi
della legge n. 109/1994 considerando il regolamento quale condizione sospensiva del diritto a percepire l'incentivo maturato in capo agli aventi diritto, il cui avveramento (l'adozione del Regolamento) avrebbe efficacia retroattiva ex art. 1360 c.c.;
  
3) se, analogamente, si possa procedere per ripartire anche gli incentivi per funzioni tecniche, previste dall'art. 113, D.Lgs. n. 50/2016, adottando un ulteriore adeguamento del previgente regolamento.
3.1. Prima di passare all'esame del quesito, è prioritario anteporre un breve richiamo alle norme che compongono il quadro normativa di riferimento.

3.2. La materia degli incentivi alla progettazione interna delle opere pubbliche è attualmente disciplinata dall'art. 113 del "Codice degli appalti pubblici" (D.Lgs. n. 50/2016), che ha solo in parte innovato a quanto era stato previsto dall'art. 93, D.Lgs. n. 163/2006, destinando il fondo alla remunerazione, ora, di "funzioni tecniche", ma con modalità giuscontabili sostanzialmente analoghe a quelle vigenti in costanza del citato art. 93.
In un precedente parere (
parere 12.02.2015 n. 3), questa Sezione aveva già ricostruito l'evoluzione del quadro normativa nel tempo, e ad esso si rimanda per completezza e brevità. Qui è sufficiente osservare che le disposizioni che interessano (nell'ultima versione modificata dal D.L. n. 90/2014), prevedevano:
   i) che, a valere sugli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori, le amministrazioni pubbliche destinassero ad un fondo per la progettazione e l'innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al 2% degli importi posti a base di gara e che la percentuale effettiva fosse stabilita da un regolamento adottato dall'amministrazione, in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare (comma 7-bis);
   ii) che solo l'80 per cento delle risorse finanziarie affluite nel fondo per la progettazione e l'innovazione fosse ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale;
   iii) che detti criteri venissero adottati con il regolamento di cui  prima, essere oggetto di contrattazione decentrata integrativa, per poi recepite nel "Regolamento" con cui il comune avrebbe dovuto anche stabilire la percentuale effettiva (inferiore o uguale al 2% dell'importo posto a base di gara) da destinare al fondo.
In sostanza, la norma prevedeva -e analogamente prevede l'art. 113, comma 3, del Codice degli appalti pubblici- di demandare alla fonte contrattuale (contratto decentrato integrativo), da recepire in un Regolamento, la definizione dei criteri di riparto dell'80% del fondo. Lo stesso regolamento avrebbe dovuto indicare anche l'aliquota "effettiva" (2% dello stanziamento posto a base di gara) da imputare al fondo.
4. In diritto
4.1. L'interesse che muove il comune istante a richiedere un parere a questa Sezione di controllo è quello di sapere se sia possibile o meno ripartire le risorse accantonate negli anni passati nel fondo per la progettazione e l'innovazione (ex art. 93, D.Lgs. n. 163/2006) nonostante non sia ancora stato adottato il Regolamento disciplinante i criteri di riparto del fondo, ai sensi del citato art. 93 e dell'art. 113, D.Lgs. n. 50/2016 (in appresso "Codice degli appalti pubblici").
4.2. Come già affermato da questa Sezione nel citato
parere 12.02.2015 n. 3, le disposizioni innanzi riportate sono da considerare parte di un corpo normativo più ampio, che comprende anche norme in materia di disciplina dei rapporti di lavoro, oltre alle norme sulla programmazione e sulla esecuzione delle opere e dei lavori pubblici, sul reperimento delle relative risorse finanziarie, sulla predisposizione degli strumenti di bilancio e sui principi contabili che presiedono alla sua gestione.
Anche in questa sede, quindi, l'approccio al quesito posto dall'Ente non potrebbe prescindere dal raccordare la disciplina finanziaria e contabile con quella programmatoria e gestionale del personale.

4.3. Ciò posto, la questione di fondo, di cui qui si discute, coinvolge anche, se non prima di tutto, diritti patrimoniali dei lavoratori. A questo proposito mette conto ricordare che l'art. 2, comma 3, del D.Lgs. n. 165/2001 (TUIP), ha stabilito che "( ... ) L'attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi e salvo i casi previsti dai commi 3-ter e 3-quater dell'articolo 40 ( ... )". L'art. 45 del citato decreto legislativo, al comma 1, ribadisce che "Il trattamento economico fondamentale ed accessorio fatto salvo quanto previsto all'articolo 40, commi 3-ter e 3-quater, ( ... ) è definito dai contratti collettivi".
In altre parole, al di fuori della contrattazione non vi è spazio per altre fonti di disciplina del trattamento economico, anche del personale degli EE.LL. (ex comma 3-quinquies dell'art. 40 del citato TUIP), fatta eccezione nella circostanza prevista dal comma 3-ter: "Al fine di assicurare la continuità e il migliore svolgimento della funzione pubblica, qualora non si raggiunga l'accordo per la stipulazione di un contratto collettivo integrativo, l'amministrazione interessata può provvedere, in via provvisoria, sulle materie oggetto del mancato accordo, fino alla successiva sottoscrizione. Agli atti adottati unilateralmente si applicano le procedure di controllo di compatibilità economico-finanziaria previste dall'articolo 40-bis".
Sul piano formale, il citato art. 2, comma 3, del TUIP, ha prescritto che "Le disposizioni di legge, regolamenti o atti amministrativi che attribuiscono incrementi retributivi non previsti da contratti cessano di avere efficacia a far data dall'entrata in vigore dal relativo rinnovo contrattuale", mentre il comma 4 dell'art. 40, citato, conclude nel senso che "Le pubbliche amministrazioni adempiono agli obblighi assunti con i contratti collettivi nazionali o integrativi dalla data della sottoscrizione definitiva e ne assicurano l'osservanza nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti".
Con specifico riguardo alla materia degli incentivi per la progettazione, è appena il caso ricordare che l'affidamento al personale interno di uno degli incarichi previsti dalla norma, non determina per costoro, in aggiunta alla normale retribuzione, il diritto al corrispettivo per l'attività professionale prestata, come spetterebbe al libero professionista (esterno) per il medesimo incarico, ma soltanto il diritto a percepire, a titolo di incentivo, una somma da determinarsi in sede di riparto del fondo (in questo senso si era già espressa, vigendo la legge n. 109/1994, l'Autorità di Vigilanza LL.PP. con l'
Atto di Regolazione 04.11.1999 n. 6, in G.U. 10.05.2000: "La circostanza che le prestazioni relative alla progettazione attengono ad un'attività umana prettamente intellettiva e di contenuto corrispondente a quello proprio di una professione liberale, individualmente esercitata, non (è) idonea a far ritenere che, nel nostro ordinamento, i tecnici appartenenti ad ufficio pubblico svolgano un’attività di libera professione in quanto autori delle medesime elaborazioni intellettive proprie delle professioni liberali. Quel che, invece, è vero, è che l'attività di progettazione svolta da funzionari pubblici è attività professionalmente qualificata, ma non di libera professione. ( ... ) Deriva da tali premesse la conseguenza che, nel caso della progettazione interna, come in precedenza individuata, la relativa prestazione dei dipendenti, addetti ai competenti uffici, per essere riferita direttamente alla amministrazione di appartenenza, è da considerare svolta "ratione offici" e non "intuitu personae" e si risolve "in una modalità di svolgimento del rapporto di pubblico impiego" (Cass. Civ. Sez. Un. 02.04.1998, n. 3386), nell'ambito della cui disciplina normativa e sulla base della contrattazione collettiva ed individuale vanno pertanto individuati i termini della relativa retribuzione").
4.4. È chiaro, a questo punto, che la questione di quando sorge il diritto al compenso e di quali sono i presupposti perché tale diritto sorga, ha un suo peso nell'iter logico nello svolgimento del quesito posto, sebbene non sia la questione centrale su cui si incentra la richiesta del Comune. È già stato detto nel precedente
parere 12.02.2015 n. 3 -e non si ravvedono motivi per discostarsene- che il compimento dell'attività è requisito necessario ma non sufficiente affinché maturi il diritto all'incentivo.
Occorre, anche, che il progetto sia stato formalmente approvato e posto a base di gara. Se così non fosse l'Ente si troverebbe a dover impegnare risorse ordinarie del proprio bilancio per fronteggiare oneri che, invece, la norma intende porre soltanto a carico degli stanziamenti complessivi previsti per la realizzazione dell'opera o del lavoro (cfr. in tal senso, il c. 5 dell'art. 92, il comma 7-bis dell'art. 93 del D.Lgs. n. 163/2006 e, ora, l'art. 113 del "Codice degli appalti pubblici").
Occorre, anche, che sia stato costituito il fondo, destinando ad esso il 2% dell'importo di gara, ovvero la minore aliquota stabilita con Regolamento, in relazione all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. Affinché il fondo possa essere ripartito tra gli aventi diritto, occorre, infine, che sia stato approvato il Regolamento nel quale far confluire l'accordo decentrato integrativo in ordine ai criteri di riparto del fondo medesimo.
Ora, di tutte le possibili soluzioni (il cui scrutinio esula dal thema
decidendum), maggiori profili di perplessità presenterebbe quella che rinvenisse nel (previo) Regolamento la condizione al cui verificarsi subordinare l’esigibilità della pretesa economica maturata, se per regolamento si intende l’espressione di un potere normativo autonomo dell’ente locale. Si potrebbe, in altre parole, pensare che in assenza di Regolamento il diritto al compenso incentivante non potrebbe essere pagato e, forse, neppure potrebbe sorgere tra gli aventi diritto.
Come già rilevato nel precedente
parere 12.02.2015 n. 3, la giurisprudenza della Cassazione, con riferimento a una vicenda sorta nel periodo in cui la norma da applicarsi prevedeva l'emanazione di un previo Regolamento che non era di recepimento di accordi contrattuali (art. 18, L. n. 109/1994, come modificato dall'art. 6, comma 13, L. n. 127/1997), aveva escluso che l'emanazione del Regolamento potesse configurarsi "come condizione di esistenza del diritto, poiché una siffatta condizione null'altro sarebbe che una condizione meramente potestativa, da ritenersi invalida a norma dell'art. 1355 c.c." (Cass. Sez. Lavoro sentenza 19.07.2004 n. 13384). Ciò in quanto, se l'adozione o meno del Regolamento fosse rimessa alla piena potestà normativa dell'Ente, ciò significherebbe rimettere alla esclusiva volontà di una delle parti l'avveramento della condizione.
Posto, invece, che il regolamento di cui oggi si discute è atto di recepimento di accordi contrattuali integrativi decentrati, la natura meramente potestativa della condizione sarebbe esclusa.
4.5. Tuttavia occorre chiedersi se sia corretto parlare del Regolamento (nella parte in cui "determina" i criteri di riparto del fondo) in termini di <condizione>. Ora, poiché la condizione è un fatto, futuro e incerto, al cui verificarsi le parti, o la legge, possono subordinare l'efficacia o la risoluzione del contratto (già perfezionatosi) o di un singolo patto (art. 1353 c.c.), non pare possibile attribuire al Regolamento di cui si discute la natura di fatto <esterno> alla fattispecie, dal quale poter far dipendere l'efficacia di una qualche pattuizione e, ancor meno, subordinare l'adempimento (pagamento) di un credito già sorto.
Non vi è alcun elemento accidentale che possa condizionare, dall'esterno, il diritto al compenso incentivante, se è maturato e se ricorrono i presupposti per il suo pagamento, in particolare il "previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti" (art. 93, comma 7-ter).
Piuttosto
il diritto al compenso incentivante è il risultato di una fattispecie complessa che vede, tra i suoi elementi costitutivi, una fase amministrativa -in parte autoritativa in parte programmatoria- una fase negoziale, una fase esecutiva e di controllo. Ciascuno di questi momenti è un elemento che concorre al formarsi della fattispecie e il Regolamento, considerato nel suo insieme, è uno di questi elementi. In questo senso il  Regolamento è uno dei presupposti presi in considerazione dalla legge affinché possa dirsi completata una fattispecie produttiva di diritti patrimoniali.

Pertanto, quando si afferma che il Regolamento è <condizione> per poter ripartire il fondo, si vuole dire che senza il Regolamento non si è completata la fattispecie che dà luogo alla erogazione dell'incentivo o, in termini speculari, può dirsi che, assente il Regolamento, il diritto al corrispettivo, a valere sul fondo, non può essere determinato e, conseguentemente, non può essere pagato (non rientra nel tema oggetto di esame l'eventuale ricorso alla determinazione del corrispettivo ex art. 1657 c.c.).
4.6. Altra questione è il momento in cui, nel formarsi della fattispecie, assume rilievo il Regolamento.
Ora, posto che la determinazione dell'aliquota effettiva da destinare al fondo, secondo la complessità e l'entità dell'opera, esprime la potestà normativa propria ed esclusiva dell'Ente, non è dubitabile che l'Ente possa con il Regolamento determinare l'effettiva aliquota solo per le opere poste a base d'asta successivamente alla sua adozione. Ed infatti, la natura normativa di questa parte di Regolamento (cfr. Sezione regionale di controllo per il Veneto,
parere 07.09.2016 n. 353), porta a escludere che esso possa avere efficacia retroattiva, così da modificare a posteriori l'aliquota effettiva di risorse già destinate al fondo.
Diversamente opinando, in disparte la contraddizione con il principio di irretroattività anche delle norme regolamentari, si dovrebbe necessariamente ammettere che il quadro economico, con cui sono state quantificate e reperite le risorse da porre a base d'asta di lavori o opere pubbliche, possa contenere voci di spesa successivamente riducibili con atto unilaterale, a discrezione dell'Ente e a beneficio del suo risultato di amministrazione che ne risulterebbe, per pari importo, incrementato.
Altra cosa, invece, è che la stessa norma primaria
(D.Lgs. n. 163/2006) abbia previsto che le quote parti dell’incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, ovvero prive dell’accertamento positivo del loro svolgimento, costituiscono economie. In questo caso, infatti, la minore spesa non dipende da un atto discrezionale, volto a liberare una parte di risorse già accantonate, ma è la conseguenza dell'inadempimento della prestazione.
4.7. Quanto sin qui detto non comporta che senza il Regolamento l'Ente non possa determinare ugualmente, con atto amministrativo, la costituzione e l'alimentazione del fondo con riferimento alla singola opera. Del resto se, in ipotesi, si escludesse tale opportunità, verrebbe meno la stessa possibilità di alimentare il fondo e, dunque, non si porrebbe neppure il problema del suo riparto.
Si deve, perciò, ammettere che anche senza il Regolamento sia possibile costituire il fondo, alimentandolo per ogni opera e lavoro con l'aliquota stabilita per legge (2%), mentre solo con il Regolamento sarà possibile determinare griglie di aliquote diverse e solo per le opere approvate successivamente, in relazione alla loro complessità ed entità.
4.8. A questo punto occorre affrontare il tema del rapporto tra il Regolamento -nella parte che recepisce l'accordo decentrato integrativo sulle modalità di riparto del fondo- e la determinazione del quantum spetta a ogni avente diritto all'incentivo, per ciascuna opera o lavoro (comma 7-ter, primo periodo, art. 92. D.Lgs. n. 163/2006 e comma 3, primo periodo, art. 113 "Codice degli appalti pubblici").
4.8.1. Procedendo per approssimazioni progressive, può senz'altro qui richiamarsi quanto detto circa il fatto che, nel caso della progettazione interna, la prestazione dei dipendenti interessati si risolve "in una modalità di svolgimento del rapporto di pubblico impiego" (Cass., SS.UU. n. 3386/1998), per cui la retribuzione relativa va individuata sulla base della contrattazione (§ 4.3).
Ne consegue che, in assenza di accordo decentrato integrativo, la possibilità che l'amministrazione possa determinarsi esercitando la propria potestà regolamentare, unilaterale e autoritativa, è ammessa solo nel caso di mancato accordo per la stipulazione del contratto collettivo integrativo: "Al fine di assicurare la continuità e il migliore svolgimento della funzione pubblica, (...) l'amministrazione interessata può provvedere, in via provvisoria, sulle materie oggetto del mancato accordo, fino alla successiva sottoscrizione" (art. 40, c. 3-ter, TUIP). Ciò perché la disciplina dei trattamenti economici da attribuire al personale dipendente dell'Ente è, di
regola, rimessa unicamente agli accordi contrattuali (art. 2, c. 3, del TUIP), per cui non sarebbe consentito sostituire la fonte pattizia con una fonte normativa.
4.8.2. Può, quindi, affermarsi che, in assenza degli accordi decentrati integrativi recepiti nel Regolamento, ciò che viene a mancare è il criterio di assegnazione e riparto del fondo o, per meglio dire, non si è completata la fattispecie che consente di determinare e liquidare l'importo dell'incentivo spettante a ciascun avente diritto (§ 4.5).
Pertanto,
il diritto all'incentivo maturato dagli aventi diritto per le attività da loro effettivamente espletate per specifiche opere e lavori, positivamente accertate dal responsabile del servizio, potrà essere quantificato ed erogato solo dopo che sia stato approvato il Regolamento di recepimento degli accordi integrativi decentrati, ovvero, in caso di mancato accordo, con esercizio della potestà regolamentare, in via sostitutiva e provvisoria, fino al rinnovo o all'approvazione del contratto.

4.8.3. La conclusione che precede, tuttavia, non significa, in ragione della ritenuta irretroattività degli atti normativi (§ 4.6), che il Regolamento non possa disciplinare anche il riparto delle risorse del fondo per prestazioni rese precedentemente alla sua approvazione. Ed invero, posto che i criteri di assegnazione e di riparto del fondo devono, di regola, essere determinati in sede decentrata con contrattazione integrativa per essere, poi, recepiti dal Regolamento, ne consegue che quest'ultimo è solo un contenitore con cui dare forma all'accordo, mentre sul piano sostanziale resta immutata la natura pattizia della disposizione che regola l'incentivo.
Ed invero, ferma restando la potestà del legislatore di segnare i limiti esterni che circoscrivono il perimetro entro il quale si esprime la capacità negoziale, la materia <criteri di riparto del fondo> resta nella piena disponibilità delle parti anche se trasfusa nel regolamento, tanto che, a rigore, ben potrebbe essere oggetto di una nuova e diversa negoziazione in sede di rinnovo dell'accordo integrativo decentrato.
In questo senso, anche l'eventuale potere sostitutivo, previsto in caso di mancato accordo dall'art. 40, comma 3-ter, del TUIP, non porta a soluzioni diverse, essendo suo destino quello di cedere al contratto, una volta stipulato.
In definitiva la disciplina che quantifica l'incentivo da pagare ha, e conserva, natura sostanzialmente contrattuale, e pertanto l'ammettere che la stessa possa regolare anche il riparto del fondo per prestazioni rese prima della sua approvazione non lede il principio della irretroattività del Regolamento, inteso
come fonte normativa.
D’altra parte, se l’assenza del regolamento non impedisce la costituzione del fondo (
§ 4.7), impedirne, poi, il riparto tra gli aventi diritto significherebbe privarlo della funzione per la quale è stato costituito. D’altra parte, meno che mai le risorse accantonate nel fondo potrebbero essere utilizzate dopo l'approvazione del Regolamento per remunerare non già gli aventi diritto (cioè coloro che avevano svolto le attività riferite ai lavori o alle opere dalle quali erano state tratte le risorse), ma per aumentare la quota di riparto dei beneficiari per lavori e opere svolte successivamente.
5. - I quesiti  
Possono ora essere esaminati i quesiti posti dal Comune istante.
5.1. In primo luogo occorre scrutinare il quesito se sia possibile individuare le modalità e i criteri di riparto mediante adeguamento e modifica del regolamento a suo tempo adottato ai sensi della legge n. 109/1994.
La risposta non può essere univoca.
Se il Regolamento, a suo tempo adottato ai sensi della legge n. 109/1994, non aveva recepito alcun accordo integrativo decentrato, oggi non appare strumento utilizzabile alla luce di quanto sopra argomentato. L'atto normativa finalizzato a disciplinare il trattamento economico del personale alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, infatti, violerebbe la prescrizione di cui all'art. 2, comma 3, del TUIP. Peraltro, non ricorrerebbe neppure la condizione di supplenza, per l'accordo non sottoscritto, eccezionalmente e provvisoriamente ammesso dall'art. 40, comma 3-ter, del TUIP.
Se, poi, si intende modificare detto regolamento uniformandolo alle nuove prescrizioni, è chiaro che si tratterebbe di un nuovo regolamento.
5.2. Al quesito se il regolamento possa considerarsi quale condizione sospensiva del diritto a percepire l'incentivo maturato in capo agli aventi diritto, deve darsi risposta negativa per le ragioni sopra esposte.
L'approvazione del regolamento non potrebbe, infatti, essere valida condizione sospensiva perché meramente potestativa e, come tale, nulla ai sensi dell'art. 1355 c.c., dovendo invece considerarsi elemento che concorre al formarsi della fattispecie complessa che dà luogo alla determinazione e  liquidazione dell'incentivo stesso.
Pertanto dalla sua approvazione non può
discendere quell’effetto retroattivo che l’art. 1360 c.c. riconduce all’avveramento della condizione.
In altre parole, la mera approvazione del Regolamento che recepisca i criteri di riparto dell’incentivo, di per sé, non fornisce argomenti per sostenerne l’applicazione retroattiva, in quanto è al contenuto dell’accordo integrativo decentrato che occorre porre riguardo, nei termini appresso riportati.

5.3. Quanto al quesito se sia possibile ripartire tra gli aventi diritto le risorse rivenienti dal fondo costituito, prima, ai sensi del citato art. 93, D.Lgs. n. 163/2006 e, poi, dall'art. 113, D.Lgs. n. 50/2016, la risposta è nel senso, sopra illustrato, e cioè che non è precluso all'accordo integrativo decentrato, regolante diritti patrimoniali dei lavoratori e recepito nel Regolamento, di disciplinare anche la ripartizione delle risorse già accantonate tra gli aventi diritto, per le attività da loro espletate prima dell'accordo, purché in conformità agli altri presupposti di legge (Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata,
parere 08.03.2017 n. 7).

INCARICHI PROFESSIONALI: In merito alla legittimità di liquidare parcelle emesse da un avvocato, relative a cause per le quali era stato incaricato dall’ente tramite delibera di Giunta, senza avere preventivamente acquisito il preventivo di spesa.
L'obbligo di preventivo per incarichi legali salva l'ente da debiti fuori bilancio. L'ente locale ha l'obbligo di richiedere un preventivo all'avvocato cui conferisce un incarico di patrocinio, al fine di evitare la formazione di debiti fuori bilancio.
La Corte dei conti, sezione regionale di controllo del Veneto, con il parere 29.11.2016 n. 375 ha evidenziato come la richiesta di esplicitazione dei valori economici da parte dei professionisti incaricati di difendere l'ente sia adempimento ineludibile.
La necessità di un preventivo di massima che indichi la misura del compenso, oltre a essere oggetto di specifica previsione da parte della normativa che ha abrogato le tariffe professionali (l'articolo 9 del Dl 1/2012 convertito dalla legge 27/2012) e che attualmente disciplina i compensi, tra l'altro, degli avvocati, viene espressamente contemplata dal principio contabile applicato concernente la contabilità finanziaria (allegato n. 4/2 al Dlgs 118/2011).
Le regole contabili
La regola stabilita dal principio contabile, al paragrafo 5.2, lettera g), prevede due misure particolari, finalizzate proprio a evitare la formazione di debiti fuori bilancio.
Anzitutto essa stabilisce, in deroga al principio della competenza potenziata, l'imputabilità dell'impegno assunto con il conferimento dell'incarico all'esercizio in cui il contratto è firmato, garantendo, in tal modo, la copertura della spesa.
Il principio impone all'ente anche di chiedere ogni anno al legale di confermare o meno il preventivo di spesa sulla scorta del quale è stato assunto l'impegno originario.
Secondo la Corte dei conti, la richiesta confermativa anno per anno deve essere effettuata dovendo tener conto della probabile reimputazione ad altro esercizio, ossia quello nel quale l'obbligazione viene effettivamente a scadenza, del residuo passivo formatosi proprio per effetto del meccanismo di imputazione previsto dal principio suddetto.
Questi elementi e l'obbligo specifico di comunicazione per ogni anno delle eventuali variazioni del preventivo devono essere tradotti nel disciplinare d'incarico.
La delibera
Il parere dei magistrati contabili fa rilevare peraltro come la carenza iniziale nella stima del costo della prestazione da un lato espone l'ente al rischio (o anche certezza) della formazione di oneri a carico del bilancio privi della necessaria copertura, ma da un altro non può influire sulla esistenza ed entità dell'obbligazione sorta per effetto dell'espletamento dell'incarico, che deve trovare, ovviamente nei limiti della effettiva spettanza e nel rispetto delle norme e dei principi che regolano il riconoscimento dei debiti fuori bilancio, la dovuta rappresentazione contabile nelle scritture dell'ente, allo scopo di consentirne il regolare adempimento.
Pertanto, qualora la stima non sia stata adeguata ed effettivamente i compensi maturati dal legale eccedano l'impegno assunto, l'alternativa è il riconoscimento del debito, secondo la procedura disciplinata dall'articolo 194 del Tuel ovvero, nell'ipotesi di non riconoscibilità del rapporto obbligatorio per la accertata assenza dei presupposti ivi previsti, l'imputazione diretta del rapporto medesimo all'amministratore, funzionario o dipendente che abbiano consentito l'acquisizione della prestazione in assenza dell'impegno e della necessaria copertura (articolo 191, comma 4, del Tuel) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.12.2016).
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MASSIMA
Nella richiesta di parere, il Sindaco del Comune di Bussolengo (VR) chiede se sia legittimo “liquidare parcelle di un avvocato relative a cause per le quali lo stesso era stato incaricato con delibera di Giunta, senza aver preventivamente acquisito preventivo di spesa” ed, in caso di risposta affermativa, in che misura, tenuto conto di quanto affermato, da un canto, dalla Suprema Corte in merito alla sussistenza, in capo all’ente, dell’obbligazione, esclusivamente per la somma impegnata in bilancio e, dall’altro, dalla Corte dei conti (tra l’altro, nel parere 01.04.2015 n. 110 della Sezione regionale di controllo per la Campania) in merito al ricorso alla procedura del riconoscimento del debito fuori bilancio, ex art. 194, comma 1, lett. e), del TUEL.
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Nel merito, esso ha ad oggetto la possibilità di liquidare, in favore di professionista formalmente incaricato dall’ente (nella specie, avvocato) e per la prestazione resa, un importo maggiore di quello impegnato, ove questo, determinato in assenza di apposito preventivo di spesa, risulti “significativamente inferiore rispetto all’attività svolta e documentata da parcella professionale per la quale sono stati applicati i tariffari previsti dai decreti ministeriali in materia di onorari e diritti professionali”.
In sostanza, l’ente chiede a questa Sezione se l’assunzione dell’impegno di spesa costituisca un limite rispetto all’obbligazione civilistica sorta per effetto del conferimento dell’incarico al professionista ed, in caso di risposta negativa, quale sia la procedura corretta da seguire sotto il profilo contabile ai fini della liquidazione dell’importo eccedente la previsione.
Il problema ovviamente si pone nei casi in cui la “stima” del valore della prestazione richiesta al professionista sia inadeguata e determini, quindi, l’insufficienza dell’impegno assunto al momento del conferimento.
Deve precisarsi, in merito, che
la necessità di un preventivo di massima che indichi la misura del compenso, oltre ad essere oggetto di specifica previsione da parte della normativa che ha abrogato le tariffe professionali (art. 9, D.L. n. 1/2012, convertito dalla L. n. 27/2012) e che attualmente disciplina i compensi, tra l’altro, degli avvocati, viene espressamente contemplata dal Principio contabile applicato concernente la contabilità finanziaria (All. n. 4/2 al D.lgs. n. 118/2011), il quale, al paragrafo 5.2, lett. g), proprio “al fine di evitare la formazione di debiti fuori bilancio”, non solo prevede, in deroga al principio della competenza potenziata, l’imputabilità dell’impegno assunto con il conferimento dell’incarico all’esercizio in cui il contratto è firmato, garantendo, in tal modo, la copertura della spesa, ma impone, altresì, all’ente di chiedere ogni anno al legale di confermare o meno il preventivo di spesa sulla scorta del quale è stato assunto l’impegno originario (ciò in considerazione della probabile reimputazione ad altro esercizio, ossia quello nel quale l’obbligazione viene effettivamente a scadenza, del residuo passivo formatosi proprio per effetto del meccanismo di imputazione previsto dal principio suddetto).
Analogamente, prima della entrata in vigore della normativa sull’armonizzazione dei sistemi contabili appena richiamata, era previsto che i compensi per prestazioni professionali dovessero trovare copertura in bilancio già dal momento del conferimento, in base ad una stima del relativo costo, in modo da evitare il più possibile la formazione di debiti fuori bilancio (Principio contabile n. 2 per gli enti locali formulato dall’Osservatorio per la finanza e la contabilità degli Enti Locali).
Posto ciò,
la carenza iniziale nella stima del costo della prestazione, che espone l’ente al rischio (o anche certezza) della formazione di oneri a carico del bilancio privi della necessaria copertura, in contrasto con i canoni della sana gestione finanziaria, non può influire sulla esistenza ed entità dell’obbligazione sorta per effetto dell’espletamento dell’incarico, che deve trovare, ovviamente nei limiti della effettiva spettanza e nel rispetto delle norme e dei principi che regolano il riconoscimento dei debiti fuori bilancio, la dovuta rappresentazione contabile nelle scritture dell’ente, allo scopo di consentirne il regolare adempimento.
Come correttamente rilevato dalla Sezione regionale di controllo per la Campania nel parere 01.04.2015 n. 110, richiamato nella richiesta di parere, infatti,
ove la stima non sia stata adeguata ed effettivamente i compensi maturati dal legale eccedano l’impegno assunto, l’alternativa è il riconoscimento del debito, secondo la procedura disciplinata dall’art. 194 TUEL ovvero, nell’ipotesi di non riconoscibilità del rapporto obbligatorio per la accertata assenza dei presupposti ivi previsti, l’imputazione diretta del rapporto medesimo all’amministratore, funzionario o dipendente che abbiano consentito l’acquisizione della prestazione in assenza dell’impegno e della necessaria copertura (art. 191, 4° comma, TUEL).
In quest’ottica, deve essere risolto il dubbio manifestato dall’ente circa la possibilità di limitare il vincolo derivante dal detto rapporto obbligatorio all’importo dell’impegno di spesa originario.
In primo luogo, deve rilevarsi che la pronuncia della Suprema Corte da ultimo richiamata nella richiesta di parere (SS.UU., sentenza n. 10798/2015) non consente affatto di ipotizzare, sic et simpliciter, “che sia sorta un’obbligazione per l’ente solo ed esclusivamente per la somma impegnata in bilancio”.
Oltre a ribadire il carattere di sussidiarietà dell’azione di indebito arricchimento (art. 2042 c.c.), la sentenza si limita ad affermare il principio secondo cui
il riconoscimento, da parte della p.a., dell’utilità della prestazione o dell’opera non costituisce un requisito dell’azione di indebito arricchimento e rileva soltanto “in funzione probatoria e, precisamente, ai soli fini del riscontro dell’imputabilità dell’arricchimento all’ente pubblico”, ma non esime la pubblica amministrazione dall’attivazione della procedura di riconoscimento del debito, “nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento”, atteso che la responsabilità diretta del o dei dipendenti che hanno consentito la fornitura sorge soltanto per la (e se vi sia una) ”parte non riconoscibile ai sensi dell’articolo 194, 1° comma, lett. e)” del TUEL (art. 191, 4° comma, cit.).
La sussidiarietà dell’azione di indebito arricchimento, che comporta la non esperibilità dell’azione medesima nell’ipotesi in cui il danneggiato disponga di un altro rimedio per farsi indennizzare il pregiudizio subito (art. 2042 c.c.), infatti, oltre ad attenere ad un ambito processuale e di tutela giurisdizionale –del tutto diverso da quello, di natura contabile, al quale è riconducibile la problematica della gestione della spesa pubblica, oggetto di esame– comunque non esclude l’imputabilità dell’obbligazione direttamente all’ente, qualora si sia verificato un arricchimento, percepibile come tale e suscettibile di riconoscimento.
Diversamente, si consentirebbe di riversare indebitamente sui dipendenti che agiscono in nome e per conto dell’ente anche il costo di prestazioni dalle quali quest’ultimo abbia tratto un obiettivo (e consapevole) beneficio e di arricchirsi, quindi, ingiustamente, a scapito di terzi (professionista ovvero dipendenti), in violazione del generale principio secondo cui nemo lucupletari potest cum aliena iactura (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 29.11.2016 n. 375).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Se occorre, o meno, il parere preventivo del Revisore dei Conti sull'atto di transazione.
L'art. 239 del d.Lgs. 267/2000 individua sette materie nelle quali è obbligatoria la resa del parere dell’Organo di revisione. Si tratta di materie che, in base all’art. 42 ed all’art. 194 del TUEL, appartengono alla competenza funzionale del Consiglio. Fra esse, al n. 6, risulta obbligatorio il parere in relazione alle “proposte di riconoscimento di debiti fuori bilancio e transazioni”.
Con specifico riferimento al parere in merito alle proposte di transazione,
l’elemento da considerare al fine di individuare i casi nei quali l’Organo di revisione deve esprimere il proprio avviso è la competenza consiliare a deliberare in merito alla conclusione della transazione, e non la natura di quest’ultima.
In altri termini,
non è rilevante se l’Ente intenda procedere alla definizione di un contenzioso giudiziale o stragiudiziale, quanto se, in ordine all’atto conclusivo del procedimento, debba pronunciarsi o meno il Consiglio, considerato che, come si è visto sopra, il parere deve essere reso all’Organo consiliare, il quale è tenuto “ad adottare i provvedimenti conseguenti o a motivare adeguatamente la mancata adozione delle misure proposte dall’organo di revisione”.
La natura del parere, funzionale allo svolgimento delle competenze consiliari, evidenzia che l’obbligo riguarda principalmente le proposte di transazione riferite a:
   - passività in relazione alle quali non è stato assunto uno specifico impegno di spesa, vale a dire quelle che possono generare un debito fuori bilancio nei casi previsti dalle lettere a, d ed e dell’art. 194, comma 1, del TUEL;
   - accordi che comportano variazioni di bilancio;
   - accordi che comportano l’assunzione di impegni per gli esercizi successivi (art. 42, comma 2, lett. i, del TUEL); accordi che incidono su acquisti, alienazioni immobiliari e relative permute (art. 42, comma 2, lett. l, del TUEL).

Da ultimo occorre osservare che
il TUEL all’art. 239, comma 6, prevede la possibilità che lo Statuto dell’Ente possa prevedere “ampliamenti delle funzioni affidate ai Revisori”. Ferma restando la specifica funzione di ausilio al Consiglio che si estrinseca con la resa dei pareri nelle materie indicate sopra, l’Ente può ampliare le competenze dell’Organo di revisione, anche prevedendo attività ulteriori, ivi compresa la resa di pareri in altre materie.
In conclusione,
i pareri dell’Organo di revisione sono funzionali allo svolgimento dei compiti del Consiglio e devono essere resi a quest’ultimo nelle materie indicate nell’art. 239, comma 1, lett. b, del TUEL, fra le quali è compresa quella riferita alle “proposte di riconoscimento di debiti fuori bilancio e transazioni” (n. 6).
Al fine di individuare, in concreto, se l’atto debba essere preceduto dal parere dell’Organo di revisione, non è rilevante la natura della transazione (giudiziale o stragiudiziale) ma se si tratti di atto di procedimento che deve concludersi con delibera del Consiglio, rientrando fra le sue attribuzioni funzionali.

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Il Sindaco del Comune di Rutigliano (BA) chiede a questa Sezione “se il parere di competenza del Collegio dei Revisori, ai sensi dell’art. 239, comma 1, lett. b, punto 6, del D.lgs. n. 267/2000 debba essere richiesto in ogni ipotesi di transazione <letteralmente intesa> o piuttosto lo stesso debba essere limitatamente reso in riferimento alle transazioni per la definizione di un contenzioso giudiziario già formalmente instaurato”.
Espone, infatti, il Sindaco che l’Amministrazione sottopone periodicamente al Collegio dei Revisori le proposte di transazione che intende perfezionare ai sensi dell’art. 239, comma 1, lett. b, del TUEL. In alcuni casi si tratta di proposte di definizione di contenzioso giudiziario ed in altri casi di transazioni di questioni non ancora sfociate in un giudizio, riferite, principalmente, a piccoli danni richiesti da terzi.
Il Sindaco evidenzia poi che, da un confronto con l’Organo di revisione è emerso che, nei casi di transazione extragiudiziale, il parere non dovrebbe essere reso, non essendosi instaurato formalmente un contenzioso e non costituendo l’accordo transattivo un debito fuori bilancio.
...
Prima di ogni considerazione, anche di carattere preliminare, preme al Collegio rilevare che il parere inviato dal Sindaco ricalca letteralmente ed in ogni singola parte quello già proposto dal Sindaco del Comune di Chieri alla Sezione regionale di controllo per il Piemonte, questione sulla quale detta Sezione si è di recente pronunciata con parere 26.09.2013 n. 345.
L’interrogativo riguardava “
se il parere di competenza del Collegio dei Revisori, ai sensi dell’art. 239, comma 1, lett. b), punto 6, del DLgs. 267/2000 debba essere richiesto in ogni ipotesi di transazione <<letteralmente intesa>> o piuttosto lo stesso debba essere limitatamente reso in riferimento alle transazioni per la definizione di un contenzioso giudiziario già formalmente instaurato”.
In tale ipotesi, come evidenziato dai giudici torinesi, “al fine di meglio illustrare il quesito, il richiedente ha evidenziato che l’Amministrazione sottopone periodicamente al Collegio dei revisori le proposte di transazione che intende perfezionare ai fini dell’acquisizione del parere richiesto dall’art. 239, co. 1, lett. b, del TUEL. Ha specificato che in alcuni casi si tratta di proposte di definizione di un contenzioso giudiziario ed in altri di transazione di questioni non ancora sfociate in un giudizio, riferite, principalmente, a piccoli danni richiesti da terzi. Richiamata la prassi illustrata sopra, il Sindaco del Comune di Chieri ha precisato che è sorta una divergenza con il Collegio dei revisori che in relazione ai casi di transazione extragiudiziale non dovrebbe essere espresso alcun parere da parte dell’Organo di revisione poiché “non essendosi instaurato formalmente un contenzioso, il parere non debba essere reso a garanzia dell’autonoma valutazione dirigenziale di cui all’art. 107 del Dlgs 267/2000 ritenendo che la ratio della riforma della norma abbia come obiettivo di sottoporre al controllo gli accordi transattivi intervenuti in corso di causa che per loro natura non soggiacciono alla comunicazione successiva alla Corte dei conti non costituendo debito fuori bilancio”.
...
Passando dunque ad analizzare il merito della richiesta, come evidenziato nella citata delibera della Sezione controllo Piemonte, il parere riguarda l’interpretazione dell’art. 239, co. 1, lett. b), punto 6 del TUEL, e verte sul quesito concernente l’individuazione dei casi in cui l’Organo di revisione debba rendere il parere previsto dalla disposizione sulle proposte di transazione che l’Ente intende concludere.
La disciplina relativa alla composizione ed alle competenze dell’Organo di revisione è contenuta nel Titolo VII, parte seconda del TUEL (artt. 234-241). Nell’individuare le funzioni dell’Organo di revisione, l’art. 239 del TUEL rileva che è suo compito specifico la collaborazione con il Consiglio dell’Ente nei limiti precisati dallo Statuto e dal Regolamento dell’Ente stesso (comma 1, lett. a). In concreto, l’attività di collaborazione si esplica attraverso pareri, rilievi, osservazioni e proposte finalizzate a conseguire una migliore efficienza, produttività ed economicità della gestione. La lett. b del comma 1 dell’art. 239 specifica che, fra le funzioni obbligatorie dell’Organo di revisione, è compresa quella della resa di pareri nelle materie analiticamente indicate nella stessa disposizione, da svolgersi secondo le modalità indicate nel Regolamento.
L’esame di casi nei quali è richiesto il parere del Collegio conferma che si tratta di un’attività di collaborazione che riguarda le attribuzioni consiliari nelle materie economico–finanziarie, propedeutica all’assunzione delle delibere di competenza del Consiglio e strumentale alla funzione di vigilanza sull’andamento economico–finanziario, propria dell’Organo di revisione. Il successivo comma 1-bis dell’art. 239 precisa che i pareri sono espressi su proposte di deliberazioni che dovranno essere sottoposte all’esame del Con-siglio dell’Ente, il quale è tenuto “ad adottare i provvedimenti conseguenti o a motivare adeguatamente la mancata adozione delle misure proposte dall’organo di revisione”.
La formulazione originaria dell’art. 239, comma 1, lett. b, è stata integrata nel 2012 ad opera del D.L. 10.10.2012, n. 174, conv. dalla legge 07.12.2012, n. 213. Il comma 1-bis è stato introdotto nel TUEL dall’art. 3, co. 1, lett. o, del medesimo D.L., ed ora la disposizione individua sette materie nelle quali è obbligatoria la resa del parere dell’Organo di revisione. Si tratta di materie che, in base all’art. 42 ed all’art. 194 del TUEL, appartengono alla competenza funzionale del Consiglio. Fra esse, al n. 6,
risulta obbligatorio il parere in relazione alle “proposte di riconoscimento di debiti fuori bilancio e transazioni”.
Con specifico riferimento al parere in merito alle proposte di transazione,
l’elemento da considerare al fine di individuare i casi nei quali l’Organo di revisione deve esprimere il proprio avviso è la competenza consiliare a deliberare in merito alla conclusione della transazione, e non la natura di quest’ultima.
In altri termini,
non è rilevante se l’Ente intenda procedere alla definizione di un contenzioso giudiziale o stragiudiziale, quanto se, in ordine all’atto conclusivo del procedimento, debba pronunciarsi o meno il Consiglio, considerato che, come si è visto sopra, il parere deve essere reso all’Organo consiliare, il quale è tenuto “ad adottare i provvedimenti conseguenti o a motivare adeguatamente la mancata adozione delle misure proposte dall’organo di revisione”.
La natura del parere, funzionale allo svolgimento delle competenze consiliari, evidenzia che l’obbligo riguarda principalmente le proposte di transazione riferite a:
   - passività in relazione alle quali non è stato assunto uno specifico impegno di spesa, vale a dire quelle che possono generare un debito fuori bilancio nei casi previsti dalle lettere a, d ed e dell’art. 194, comma 1, del TUEL;
   - accordi che comportano variazioni di bilancio;
   - accordi che comportano l’assunzione di impegni per gli esercizi successivi (art. 42, comma 2, lett. i, del TUEL); accordi che incidono su acquisti, alienazioni immobiliari e relative permute (art. 42, comma 2, lett. l, del TUEL).

Da ultimo occorre osservare che
il TUEL all’art. 239, comma 6, prevede la possibilità che lo Statuto dell’Ente possa prevedere “ampliamenti delle funzioni affidate ai Revisori”. Ferma restando la specifica funzione di ausilio al Consiglio che si estrinseca con la resa dei pareri nelle materie indicate sopra, l’Ente può ampliare le competenze dell’Organo di revisione, anche prevedendo attività ulteriori, ivi compresa la resa di pareri in altre materie.
In conclusione,
i pareri dell’Organo di revisione sono funzionali allo svolgimento dei compiti del Consiglio e devono essere resi a quest’ultimo nelle materie indicate nell’art. 239, comma 1, lett. b, del TUEL, fra le quali è compresa quella riferita alle “proposte di riconoscimento di debiti fuori bilancio e transazioni” (n. 6). Al fine di individuare, in concreto, se l’atto debba essere preceduto dal parere dell’Organo di revisione, non è rilevante la natura della transazione (giudiziale o stragiudiziale) ma se si tratti di atto di procedimento che deve concludersi con delibera del Consiglio, rientrando fra le sue attribuzioni funzionali.
Con le esposte conclusioni, già espresse dalla Sezione controllo Piemonte nel citato parere 26.09.2013 n. 345, il Collegio ritiene di concordare (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 28.11.2013 n. 181).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Sull'installazione del motore di un impianto di condizionamento sul lastrico solare dell'edificio di proprietà.
Integra il reato di cui all'art. 44, lett. a), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 l'esecuzione di interventi edilizi subordinati a denuncia di inizio attività (ora S.C.I.A.) in difformità dalle previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi, atteso che nel caso di interventi eseguiti in assenza o difformità della DIA (ora S.C.I.A.), ma in conformità alla citata disciplina, è applicabile solamente la sanzione amministrativa prevista dall'art. 37 dello stesso d.P.R. n. 380 del 2001

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RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d'appello di Lecce ha parzialmente riformato la sentenza del 09.04.2014 del Tribunale di Brindisi, con cui Fr.Pr. era stato condannato alla pena di giorni venti di arresto ed euro 20.000,00 di ammenda, in relazione al reato di cui all'art. 44, lett. b), d.P.R. 380/2001, in relazione all'art. 181 d.lgs. 42/2004 (per avere installato in un immobile di sua proprietà, senza presentare la necessaria S.C.I.A. e senza l'autorizzazione paesaggistica, un condizionatore d'aria), qualificando il fatto ai sensi dell'art. 44, lett. a), d.P.R. 380/2001 e rideterminando la pena in giorni dodici di arresto ed euro 19.500,00 di ammenda.
Avverso tale sentenza l'imputato ha proposto ricorso per cassazione, affidato a otto motivi, enunciati come segue nei limiti strettamente necessari ai fini della motivazione.
Con un primo motivo ha denunciato violazione dell'art. 521 cod. proc. pen., per la mancanza di correlazione tra accusa e sentenza, e violazione dell'art. 6 C.E.D.U., in quanto la contestazione era relativa alla esecuzione di opere in assenza di permesso di costruire, mentre la sua responsabilità era stata affermata da entrambi i giudici di merito per avere realizzato la condotta incriminata in assenza della preventiva segnalazione certificata di inizio attività (S.C.I.A.); inoltre la diversa qualificazione giuridica attribuita alla condotta dalla Corte d'appello aveva impedito alla difesa di interloquire a proposito della formazione del silenzio assenso nel procedimento amministrativo e riguardo alle modifiche normative intervenute, tra cui quella di cui alla l. 164/2014.
Con un secondo motivo ha prospettato contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui, pur ritenendo che l'installazione del condizionatore sul lastrico solare dell'edificio di proprietà dell'imputato fosse assoggettata solamente a segnalazione certificata di inizio attività, e che quindi fosse onere del Comune, e in particolare dell'Ufficio tecnico, acquisire il nulla osta paesaggistico, non aveva ritenuto avente efficacia sanante la S.C.I.A. successiva ai lavori.
Con un terzo motivo ha lamentato carenza di motivazione in ordine alla sussistenza dei presupposti di cui all'art. 37 d.P.R. 380/2001, e della conseguente sanabilità dell'opera.
Con un quarto motivo ha prospettato violazione dell'art. 45 d.P.R. 380/2001, non avendo la Corte territoriale chiarito se il procedimento amministrativo volto a ottenere l'accertamento di conformità si fosse concluso o fosse ancora pendente, giacché in tale ultima evenienza avrebbe dovuto disporre la sospensione del procedimento.
Mediante un quinto e un sesto motivo ha denunciato ulteriore vizio di motivazione a proposito della disciplina regolamentare applicabile e riguardo alla violazione della stessa, essendosi verificato nel corso del giudizio un mutamento delle norme tecniche di attuazione e non avendo la Corte territoriale indicato quale disciplina fosse da considerare in relazione all'intervento eseguito.
Con un settimo motivo ha lamentato violazione degli artt. 104 e 131-bis cod. pen., per l'indebita ed erronea esclusione della applicabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto.
Con l'ottavo motivo ha prospettato violazione degli artt. 132 e 133 cod. pen. per ingiustificata determinazione della pena, in misura superiore al minimo edittale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il secondo, il terzo, il quinto e il sesto motivo di ricorso non sono manifestamente infondati e, consentendo la costituzione di un valido rapporto di impugnazione, impongono il rilievo della prescrizione del reato addebitato al ricorrente, verificatasi il 09.11.2016.
Va premesso che
integra il reato di cui all'art. 44, lett. a), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 l'esecuzione di interventi edilizi subordinati a denuncia di inizio attività (ora S.C.I.A.) in difformità dalle previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi, atteso che nel caso di interventi eseguiti in assenza o difformità della DIA (ora S.C.I.A.), ma in conformità alla citata disciplina, è applicabile solamente la sanzione amministrativa prevista dall'art. 37 dello stesso d.P.R. n. 380 del 2001 (così Sez. 3, n. 952 del 07/10/2014, Parisi, Rv. 261783, relativa a fattispecie di installazione, all'esterno di un fabbricato, di un condizionatore d'aria in assenza di segnalazione di inizio attività ed in violazione del regolamento edilizio comunale; conf. Sez. 3, n. 41619 del 22/11/2006, Cariello, Rv. 235413; Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 243099).
Ora, nella fattispecie in esame, la Corte territoriale, pur dando atto della sola necessità della presentazione di segnalazione certificata di inizio attività (S.C.I.A.) per poter realizzare le opere oggetto della contestazione (e cioè l'installazione del motore di un impianto di condizionamento sul lastrico solare dell'edificio di proprietà dell'imputato), della presentazione da parte del ricorrente di tale segnalazione, dei ritardi amministrativi nella definizione del relativo procedimento amministrativo, e di quanto prospettato dalla difesa dell'imputato circa la conformità di tale opera agli strumenti urbanistici esistenti (e, in particolare, all'art. 9 del regolamento edilizio del Comune di Ostuni), sia al momento della realizzazione dell'opera sia al momento della richiesta di sanatoria amministrativa (mediante la presentazione della suddetta S.C.I.A. in sanatoria), non ha adeguatamente accertato la compatibilità o meno dell'intervento con gli strumenti urbanistici, prospettata dall'imputato sulla base di una relazione tecnica, che la Corte d'appello non ha adeguatamente considerato.
Ciò determina la sussistenza di un vizio della motivazione della sentenza impugnata, giacché avrebbero dovuto essere verificati l'esito del procedimento amministrativo iniziato dall'imputato mediante la presentazione della S.C.I.A. e la compatibilità dell'opera con gli strumenti urbanistici; tale accertamento è ora, però, precluso dal compimento del termine massimo di prescrizione. Essendo il reato stato accertato il 09.11.2011 e trattandosi di ipotesi contravvenzionale, soggetta al termine massimo di prescrizione di cinque anni, lo stesso risulta decorso il 09.11.2016.
La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata senza rinvio per essere il reato estinto per prescrizione, con la conseguente revoca dell'ordine di riduzione in pristino (Corte di cassazione, Sez. VII penale, sentenza 12.07.2017 n. 34078).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Diniego di trasferimento per assistenza familiare e necessità di preavviso di rigetto.
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Pubblico impiego privatizzato – Trasferimento – Per assistenza familiare – Art. 33, l. n. 104 del 1992 – Diniego – Preavviso di rigetto – Necessità – mancanza – Illegittimità.
E’ illegittimo il diniego di trasferimento chiesto per assistenza a familiare ai sensi dell’art. 33, l. 05.02.1992, n. 104, che non sia stato preceduto dal preavviso di rigetto ex art. 10-bis, l. 07.08.1990, n. 241 (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che il dovere di attivare il subprocedimento partecipativo di cui all’art. 10-bis, l. 07.08.1990, n. 241 appare tanto più pressante per le ipotesi in cui vengono a confronto interessi di pari ma contrapposta valenza, come quello alla solidarietà familiare attraverso l’attività assistenziale domestica e al buon andamento degli apparati ed uffici, la cui composizione deve passare attraverso un ponderato bilanciamento delle esigenze assistenziali ai parenti invalidi e di quelle tese ad evitare che con l’abuso degli istituti di garanzia individuale e familiare si pervenga allo svuotamento ed inoperatività degli apparati pubblici: bilanciamento che necessita delle acquisizioni conoscitive e ponderazioni valutative che anche la partecipazione del privato fa conseguire (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 11.07.2017 n. 926 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
5- Ai fini del decidere occorre precisare che il ricorrente ha dedotto diversi profili di violazione dell’art. 33 della L. n. 104 ed eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione, sviamento di potere, travisamento ed erronea valutazione dei fatti; nonché dell’art. 10-bis della L. n. 241/1990.
In particolare, l’amministrazione, nel respingere la richiesta di trasferimento, avrebbe valutato le esigenze organiche della sede di servizio del ricorrente senza considerare che il dipendente era distaccato da Agosto 2015 presso la Casa Circondariale di -OMISSIS- e che il distacco era stato prorogato anche dopo il disposto diniego. Di qui, il lamentato travisamento e l’asserita contraddittorietà delle ragioni organizzative addotte a sostegno del provvedimento negativo.
Infatti, se le carenze organiche della sede di provenienza fossero state tali da impedire il trasferimento temporaneo presso altra sede ex art. 33 L. 104/1992, avrebbero dovuto altresì impedire la proroga di detto distacco. La motivazione sarebbe altresì difettosa avendo omesso di valutare il contemperamento dei rispettivi diritti ed interessi.
5.1- L’interessato ha anche eccepito il mancato preavviso di rigetto della propria domanda, osservando che il diniego impugnato è tutt’altro che provvedimento a contenuto vincolato (cui applicare il criterio sostanzialistico di cui all’art. 21-nonies L. 241, dovendo esso tener conto di una serie di elementi complessi e variabili, tra cui le gravi condizioni di salute del genitore, le varie possibili soluzioni prospettabili sia nell’interesse del disabile da assistere, con possibilità di eventuale destinazione anche presso una qualsiasi sede diversa da quella prescelta dal dipendente, ecc..
6– La censura formale testé riportata è fondata.
L’art. 33, comma 5, L. n. 104/1992 prevede che il lavoratore il quale debba assistere un familiare in condizioni di grave invalidità ha “diritto” di scegliere “ove possibile”, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede.
La norma, come ampiamente chiarito in giurisprudenza, denomina “diritto” ciò che in realtà non lo è, in quanto riconosciuto e tutelato soltanto “ove possibile”: il che implica una serie di valutazioni di tipo organizzativo funzionale da trasfondere in provvedimenti adeguatamente motivati a carattere e contenuto discrezionale e non vincolato.

In relazione alle caratteristiche del provvedimento che dia riscontro all’istanza di trasferimento ex art. 33 citato, si rivela, pertanto, fondata ed assorbente la censura di violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990.
7- Questa Sezione, al riguardo, ha avuto modo più volte di affermare –e proprio con riferimento alla fattispecie del menzionato art. 33- che
la comunicazione disciplinata dall'art. 10-bis della L. n. 241 del 1990 ha la funzione di sollecitare il leale contraddittorio fra l'amministrazione e il privato istante nella fase predecisionale del procedimento, e rappresenta un arricchimento delle garanzie partecipative degli interessati in chiave collaborativa e, per quanto possibile, deflattiva del contenzioso giurisdizionale e giustiziale.
A corollario di tale principio si è giunti altresì a precisare che
affinché il preavviso di rigetto dell’istanza possa adeguatamente svolgere il ruolo che il legislatore le ha assegnato, non può ammettersi che la motivazione del provvedimento finale negativo si fondi su ragioni estranee a quelle già comunicate con il preavviso di diniego; e la possibilità per l'amministrazione di riaprire la fase istruttoria a seguito delle osservazioni ricevute, ovvero di prendere in esame fatti nuovi sopravvenuti, deve pur sempre reputarsi condizionata alla preventiva corretta instaurazione del contraddittorio procedimentale con l'interessato, comportante, se del caso, il rinnovo del preavviso (per tutte: TAR Toscana Sez. I, 22.11.2016, n. 1669).
8-
Il dovere di attivare il subprocedimento partecipativo di cui all’art. 10-bis L. n. 241 appare tanto più pressante per le ipotesi in cui vengono a confronto interessi di pari ma contrapposta valenza, come quello alla solidarietà familiare attraverso l’attività assistenziale domestica e al buon andamento degli apparati ed uffici, la cui composizione deve passare attraverso un ponderato bilanciamento delle esigenze assistenziali ai parenti invalidi e di quelle tese ad evitare che con l’abuso degli istituti di garanzia individuale e familiare (con la riscoperta, talvolta, di improbabili legami affettivi e parentali) si pervenga allo svuotamento ed inoperatività degli apparati pubblici: bilanciamento che necessita delle acquisizioni conoscitive e ponderazioni valutative che anche la partecipazione del privato fa conseguire.
Partecipazione e adeguata e convincente motivazione sono le armi più efficaci a disposizione delle amministrazioni per contrastare adeguatamente le ricordate forme abusive dell’esercizio di diritti pur fondamentali, piuttosto che arroccamenti su indimostrate ed assertive “esigenze organizzative” ostative all’accoglimento delle istanze di trasferimento per motivi parentali. Il rispetto di tali canoni comportamentali fondamentali eppur elementari eviterebbe una gran quantità di contenzioso nella materia in esame.
Nel caso di specie, poi, il rispetto dei principi di partecipazione e di adeguata e convincente motivazione appariva tanto più pressante a fronte del comportamento invero perplesso e contradditorio dell’amministrazione, come espressamente riportato nel relativo motivo di ricorso sopra sintetizzato.

LAVORI PUBBLICI: Giurisdizione sulla gara di lavori affidati da una società per azioni e incompatibilità dei progettisti.
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Giurisdizione - Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto lavori – gara bandita da s.p.a. e disciplinata dal nuovo Codice dei contratti – Giurisdizione giudice amministrativo.
Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto lavori – Responsabile team progettazione coincidente con professionista che ha redatto il progetto per la stazione appaltante – Art. 24, comma 7, d.lgs. n. 50 del 2016 - Illegittimità.
Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la controversia avente ad oggetto di “lavori”, affidati da una società per azioni con procedura ad evidenza pubblica, disciplinata dal d.lgs. 18.04.2016, n. 50, tramite risorse regionali, essendo l’attività ad evidenza pubblica di tale società inquadrabile come affidamento “svolto da soggetto <comunque tenuto> nella scelta del contraente all’applicazione della normativa comunitaria o al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica”, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. e), punto 1, c.p.a. (1).
E’ illegittima, per violazione dell’art. 24, comma 7, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, l’ammissione alla gara, per l'affidamento di interventi di realizzazione di un’opera finanziata dalla Regione, del concorrente il cui responsabile del team di progettazione è il professionista che ha redatto il progetto, su incarico della stazione appaltante (2).
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   (1) Ha chiarito il Tar che per definire la sussistenza dell’obbligo ex lege (e non per mera autodisciplina facoltativa e volontaria) occorre considerare le norme del (nuovo) Codice appalti 18.04.2016, n. 50, che definiscono una pluralità di categorie tenute ad applicare la disciplina ad evidenza pubblica.
In particolare l’art. 1 (nel vecchio Codice la disciplina era contenuta nell’art. 32, in versione diversa), ove il legislatore ha individuato, fra le diverse tipologie di “lavori”, all’interno del comma 2: a) alla lett. a) una definizione articolata riferita a lavori (determinati nell’oggetto) conferiti da committenti non soggettivamente individuati, ma i cui lavori risultano caratterizzati da due elementi quantitativi economici (due soglie monetarie); alla lett. d) lavori pubblici (indeterminati nell’oggetto) affidati da soggetti soggettivamente individuati, “concessionari di servizi”, ma solo qualora essi siano “strettamente strumentali” alla gestione del servizio (e le opere pubbliche diventino di proprietà dell’Amministrazione aggiudicatrice).
Trattasi di due ipotesi “autonome” che vanno interpretate in modo indipendente l’una dall’altra. Dunque la prima ipotesi (lett. a) non deve subire condizionamenti in riferimento al vincolo di strumentalità posto alla successiva lett. d).
Il Tar ha ritenuto applicabile, al caso di specie, la lett. a) punto 2 dell’art. 1 del Codice, che impone l’applicazione delle norme pubblicistiche in caso di sussistenza di una duplice condizione (che deve essere riscontrata in forma “abbinata”), sussistente nel caso sottoposto al suo esame: appalti di lavori che superino 1 milione di euro e che siano “sovvenzionati direttamente in misura superiore al 50% da amministrazioni aggiudicatrici”; ma solo qualora tali appalti si riferiscano a lavori determinati in peculiari “settori” (indicati sub nn. 1 e 2); il punto 1 contempla, rendendoli rilevanti, i “lavori di Genio civile di cui all’Allegato I” (il punto 2 si riferisce, invece, agli “edifici destinati a funzioni pubbliche”) .
   (2) Ha ricordato il Tar che l’art. 24, comma 7, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 impone che gli affidatari di incarichi di progettazione per progetti posti a base di gara non possono essere affidatari degli appalti per i quali abbiano svolto la suddetta attività di progettazione (norma che estende il principio, di terzietà, anche al soggetto controllato, controllante o collegato all'affidatario di incarichi di progettazione nonché ai dipendenti dell'affidatario dell'incarico di progettazione, ai suoi collaboratori nello svolgimento dell'incarico e ai loro dipendenti, nonché agli affidatari di attività di supporto alla progettazione e ai loro dipendenti).
Il conflitto di interesse può essere anche solo potenziale, volendo la norma evitare in via preventiva situazioni di contrasto eventuale, ma anche in considerazione della posizione rilevante che il progettista avrebbe dovuto assumere in sede di controllo della congruità e corrispondenza dell’opera.
Unica possibilità di deroga è nel caso in cui si riesca a dimostrare che l'esperienza acquisita nell'espletamento degli incarichi di progettazione “non è tale da determinare un vantaggio che possa falsare la concorrenza con gli altri operatori” (TAR Valle d’Aosta, ordinanza 11.07.2017 n. 21 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ricostruzione di edificio in zona con vincolo paesaggistico.
Non c'è dubbio che rientrino nella nozione di ristrutturazione edilizia anche gli interventi di demolizione e ricostruzione dell'organismo edilizio preesistente purché con le medesime "caratteristiche" (l'art. 3, comma 1, lett. d, d.P.R. 380 del 2001, nella formulazione precedente, faceva riferimento alla "stessa volumetria e sagoma di quello preesistente").
Ne consegue che, ove il risultato finale dell'attività demolitoria-ricostruttiva non coincida con il manufatto preesistente, l'intervento deve essere qualificato come "
nuova costruzione" e necessita del permesso di costruire, non essendo sufficiente la semplice denuncia di inizio attività.
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L'art. 30 del di. 21/06/2013 n. 69, conv. dalla legge n. 98 del 09/08/2013 ha parzialmente modificato la normativa precedente, essendo stata espunta dalla definizione datane dall'art. 3, comma 1, lett. d), la parola "sagoma" (vanno quindi ricompresi negli interventi di ristrutturazione edilizia quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione dell'edificio preesistente anche se non con la stessa sagoma).

Inoltre,
quanto ai ruderi, la norma fa riferimento anche agli interventi consistenti nel ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, sempre che sia possibile accertarne la precedente consistenza. In ogni caso, per gli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del D.L.vo n. 42/2004, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto se sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che, alla luce dell'art. 30 cit., è possibile qualificare come "ristrutturazione edilizia" l'intervento di ripristino o di ricostruzione di un edificio o di parte di esso, eventualmente crollato o demolito, anche in caso di modifica della sagoma dello stesso ove insistente su zona non vincolata, a condizione, però, che sia possibile accertarne, in base a riscontri documentali o altri elementi certi e verificabili e non, quindi, ad apprezzamenti meramente soggettivi, la preesistente "consistenza", intesa come il complesso di tutte le caratteristiche essenziali dell'edificio (volumetria, altezza, struttura complessiva), con la conseguenza che la mancanza anche uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, impedisce di ritenere sussistente il requisito che la citata disposizione richiede per escludere, in ragione della anzidetta qualificazione, la necessità di preventivo permesso di costruire.
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Per quanto riguarda gli interventi eseguiti in zona vincolata, perché possa applicarsi il regime semplificato della s.c.i.a, oltre ad accertare l'esistenza dei connotati essenziali dell'edificio preesistente (pareti, solai tetti) o, in alternativa, la preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, è necessario, in ogni caso, verificare il rispetto anche della sagoma della precedente struttura; sicché gli interventi di demolizione e ricostruzione o di ripristino di edifici o parti di essi crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire ove non sia possibile accertare la preesistente volumetria delle opere che, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma.
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1. La Corte di Appello di Trento, con sentenza del 11/05/2016, confermava la sentenza del G.u.p. del Tribunale di Trento, emessa in data 05/03/2015, con la quale Pa.Vi., applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, era stato condannato alla pena di mesi quattro di arresto ed euro 28.000,00 di ammenda per i reati di cui agli artt. 44, lett. c), e 72 DPR 380/2001, per avere, in assenza di concessione edilizia, in area soggetta a tutela paesaggistico ambientale, proceduto alla demolizione completa dell'edificio preesistente, ricostruendolo con nuove fondazioni e sottostante intercapedine aerata, con realizzazione di opere in cemento armato in difetto di denuncia presso il competente ufficio; pena sospesa e non menzione.
Rilevava la Corte territoriale che il solo intervento consentito nella zona in cui ricadeva l'edificio (E2) era quello di risanamento conservativo (come risultante dalla d.i.a. iscritta al protocollo del Comune di Lardaro come "risanamento particella CC Lardaro", ma non rinvenuta), mentre si era proceduto, come emergeva dagli atti processuali alla realizzazione di un diverso edificio, tra l'altro su diverso sedime.
Tale intervento era, altresì, completamente diverso dalle fattispecie prese in considerazione dall'art. 99, lett. e), L.P. n. 1/2008 che, comunque, prevede la conservazione dei muri perimetrali, o dall'art. 32, comma 1, lett. d), del DPR 380/2001, che disciplina le variazioni essenziali, essendo stato realizzato un immobile completamente diverso.
...
1. Il ricorso è manifestamente infondato e va, pertanto, dichiarato inammissibile.
2.
Non c'è dubbio che rientrino nella nozione di ristrutturazione edilizia anche gli interventi di demolizione e ricostruzione dell'organismo edilizio preesistente purché con le medesime "caratteristiche" [l'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 380 del 2001, nella formulazione precedente, faceva riferimento alla "stessa volumetria e sagoma di quello preesistente"]. Ne consegue che, ove il risultato finale dell'attività demolitoria-ricostruttiva non coincida con il manufatto preesistente, l'intervento deve essere qualificato come "nuova costruzione" e necessita del permesso di costruire, non essendo sufficiente la semplice denuncia di inizio attività.
L'art. 30 del di. 21/06/2013 n. 69, conv. dalla legge n. 98 del 09/08/2013 ha parzialmente modificato la normativa precedente, essendo stata espunta dalla definizione datane dall'art. 3, comma 1, lett. d), la parola "sagoma" (vanno quindi ricompresi negli interventi di ristrutturazione edilizia quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione dell'edificio preesistente anche se non con la stessa sagoma).

Inoltre,
quanto ai ruderi, la norma fa riferimento anche agli interventi consistenti nel ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, sempre che sia possibile accertarne la precedente consistenza. In ogni caso, per gli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del D.L.vo n. 42/2004, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto se sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che, alla luce dell'art. 30 cit., è possibile qualificare come "ristrutturazione edilizia" l'intervento di ripristino o di ricostruzione di un edificio o di parte di esso, eventualmente crollato o demolito, anche in caso di modifica della sagoma dello stesso ove insistente su zona non vincolata, a condizione, però, che sia possibile accertarne, in base a riscontri documentali o altri elementi certi e verificabili e non, quindi, ad apprezzamenti meramente soggettivi, la preesistente "consistenza", intesa come il complesso di tutte le caratteristiche essenziali dell'edificio (volumetria, altezza, struttura complessiva), con la conseguenza che la mancanza anche uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, impedisce di ritenere sussistente il requisito che la citata disposizione richiede per escludere, in ragione della anzidetta qualificazione, la necessità di preventivo permesso di costruire (Cass. pen. sez. 3 n. 45147 del 08/10/2015, Rv. 265444).
Per quanto riguarda gli interventi eseguiti in zona vincolata, perché possa applicarsi il regime semplificato della s.c.i.a, oltre ad accertare l'esistenza dei connotati essenziali dell'edificio preesistente (pareti, solai tetti) o, in alternativa, la preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, è necessario, in ogni caso, verificare il rispetto anche della sagoma della precedente struttura; sicché gli interventi di demolizione e ricostruzione o di ripristino di edifici o parti di essi crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire ove non sia possibile accertare la preesistente volumetria delle opere che, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma (Sez. 3 n. 40342 del 03/06/2014, Rv. 260552).
3. La Corte territoriale, con accertamento in fatto adeguatamente e logicamente argomentato, come tale non sindacabile in questa sede di legittimità, ha ritenuto, innanzitutto, sulla base di tutti gli atti di indagine, e, in particolare, del verbale di accertamenti urgenti della Polizia locale, che vi sia stata totale demolizione dell'edificio preesistente con ricostruzione di un nuovo edificio.
Risultando che l'intervento è stato eseguito in zona sottoposta a tutela paesaggistico ambientale, era consentita, come si è visto in precedenza, la demolizione e ricostruzione a condizione che venisse rispettata anche la sagoma del preesistente edificio.
Ma, nel caso di specie, non solo non è stato possibile accertare la "consistenza" e "caratteristiche" dell'edificio preesistente, ma è risultato anche il diverso sedime occupato (pag. 8 sent.).
Il ricorrente, invero, non ha fornito alcuna prova in ordine alla preesistente consistenza dell'immobile ed al rispetto della sagoma della precedente struttura, assumendo assertivamente che l'intervento era consistito nel rinnovo delle relative strutture murarie perimetrali con la metodica del c.d."cuci e scuci" (pag. 13 ricorso), venendo smentito, peraltro, dallo stesso verbale di accertamento urgente sui luoghi, allegato al ricorso, in cui si dà atto che "si è riscontrata la totale demolizione dell'edificio preesistente con realizzazione di un nuovo edificio con realizzazione di nuove fondazioni continue e sottostante intercapedine areata". E dall'ingiunzione di rimessa in pristino, ugualmente allegata al ricorso, emerge l'assenza di riscontri "relativi al profilo originario del terreno naturale e della localizzazione spaziale del sedime dell'edificio preesistente".
Per di più, come ha evidenziato la medesima Corte territoriale, il solo intervento compatibile con la zona in cui ricadeva l'edificio (E2) comportava la conservazione delle strutture murarie esterne (prevedendo anche l'art. 99, lett. e), della L.P. n.1/2008 la conservazione di muri perimetrali).
Correttamente, pertanto, la Corte territoriale ha ritenuto che, per eseguire l'intervento di cui alla contestazione, occorresse permesso di costruire. Conseguentemente è del tutto fuor di luogo il richiamo del disposto di cui all'art. 44, comma 2-bis, d.P.R. 380/2001 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.07.2017 n. 32899).

PATRIMONIO - SICUREZZA LAVORO: Sicurezza scuole: responsabile il sindaco o il dirigente?
Secondo la giurisprudenza di questa Corte,
in tema di tutela della sicurezza e salute dei luoghi di lavoro negli enti locali, per datore di lavoro deve intendersi il dirigente al quale spettano poteri di gestione, ivi compresa la titolarità di autonomi poteri decisori in materia di spesa. E la condizione necessaria per riconoscere in capo al dirigente la qualità di datore di lavoro è che questo sia dotato di effettivi poteri gestionali, decisionali e di spesa.
Più in particolare, si è affermato che
il dirigente del settore manutenzione del patrimonio edilizio comunale, pur potendo assumere la qualità di datore di lavoro ex art. 2, lettera b), del d.Lgs. n. 81 del 2008, non è responsabile delle violazioni che sanzionano la mancata esecuzione degli interventi di messa in sicurezza e ristrutturazione degli edifici scolastici, qualora risulti in concreto privo di autonomi poteri gestionali, decisionali e di spesa.
Ne consegue che,
qualora l'organo politico dell'ente locale sia imputato di una violazione in materia di sicurezza sul lavoro, incombe sullo stesso l'onere della prova dell'esistenza di un soggetto dirigente dotato di competenza nel settore, nonché dei mezzi per esercitare in concreto detta competenza.
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RITENUTO IN FATTO
1. - Con sentenza del 17.02.2015, il Tribunale di Vibo Valentia ha condannato l'imputato alla pena dell'ammenda, per il reato di cui agli artt. 46, comma 2, 55, comma 5, lettera c), 64, comma 1, lettera c), 68, comma 1, lettera b), del decreto legislativo n. 81 del 2008, per avere, nella sua qualità di Sindaco di un Comune, quale datore di lavoro, omesso di attuare le misure necessarie al fine di verificare che i luoghi di lavoro (scuola materna comunale) venissero sottoposti alla regolare manutenzione tecnica ed eliminare quanto più rapidamente possibile i difetti rilevati, tali da pregiudicare la sicurezza e la salute dei lavoratori.
2. - Avverso la sentenza l'imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, deducendo, con unico motivo di doglianza, la mancanza di motivazione in relazione all'avvenuta individuazione, da parte del Comune, del responsabile del servizio scuole, nella persona del dirigente comunale Pi.Ra..
Tale soggetto sarebbe -ad avviso della difesa- l'unico responsabile delle omissioni oggetto di contestazione, in ossequio al principio generale della distinzione dei ruoli e delle competenze degli organi politici e gli organi amministrativi e di gestione, ai sensi dell'art. 107 del d.lgs. n. 267 del 2000.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. - Il ricorso è infondato.
Il ricorrente non contesta il fatto nella sua materialità, limitandosi ad affermare che la responsabilità penale avrebbe dovuto essere ritenuta sussistente in capo al solo soggetto dirigente del Servizio scuole comunale, Pi.Ra., per il principio della distinzione tra ruolo politico e ruolo amministrativo nell'ambito dell'ente locale.
3.1. - Non vi è dubbio che tale principio sia espressamente affermato dall'art. 107 del d.lgs. n. 267 del 2000, perché tale disposizione attribuisce «ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti» e stabilisce che questi «si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo» (comma 1).
Ai sensi del successivo comma 2, spettano «ai dirigenti tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale, di cui rispettivamente agli articoli 97 e 108».
E a ciò deve aggiungersi, con specifico riferimento al settore della sicurezza sul lavoro, che l'art. 2, comma 1, lettera b), secondo periodo, del d.lgs. n. 81 del 2008, prevede che «nelle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione del rapporto di lavoro» dovendosi considerare quali "poteri di gestione" quelli conferiti con deliberazione dell'amministrazione di appartenenza.
Da tale complesso normativo, deriva, secondo la giurisprudenza di questa Corte, che,
in tema di tutela della sicurezza e salute dei luoghi di lavoro negli enti locali, per datore di lavoro deve intendersi il dirigente al quale spettano poteri di gestione, ivi compresa la titolarità di autonomi poteri decisori in materia di spesa (Sez. 3, n. 47249 del 30/11/2005, Rv. 233017). E la condizione necessaria per riconoscere in capo al dirigente la qualità di datore di lavoro è che questo sia dotato di effettivi poteri gestionali, decisionali e di spesa (Sez. 3, n. 2862 del 17/10/2013, dep. 22/01/2014, Rv. 258374; Sez. 4, n. 34804 del 02/07/2010, Rv. 248349).
Più in particolare, si è affermato che
il dirigente del settore manutenzione del patrimonio edilizio comunale, pur potendo assumere la qualità di datore di lavoro ex art. 2, lettera b), del d.Lgs. n. 81 del 2008, non è responsabile delle violazioni che sanzionano la mancata esecuzione degli interventi di messa in sicurezza e ristrutturazione degli edifici scolastici, qualora risulti in concreto privo di autonomi poteri gestionali, decisionali e di spesa (Sez. 3, n. 6370 del 07/11/2013, dep. 11/02/2014, Rv. 258898).
Ne consegue che,
qualora l'organo politico dell'ente locale sia imputato di una violazione in materia di sicurezza sul lavoro, incombe sullo stesso l'onere della prova dell'esistenza di un soggetto dirigente dotato di competenza nel settore, nonché dei mezzi per esercitare in concreto detta competenza.
3.2. - Non vi è dubbio che tali principi si attaglino, in astratto, anche alla fattispecie qui in esame.
Nondimeno, deve rilevarsi che la difesa non ha fornito in concreto alcuna prova né dell'effettivo conferimento della qualifica dirigenziale del servizio scuole comunale a Pi.Ra., né di quali siano l'oggetto e i limiti di tale eventuale conferimento, né della disponibilità da parte del dirigente di autonomi poteri ai fini della realizzazione della regolare manutenzione tecnica e della tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori scolastici.
Ci si limita infatti ad asserire che il Tribunale non avrebbe preso in considerazione tali circostanze, senza richiamare gli atti dai quali le stesse sarebbero emerse. Anzi, dalla lettura della sentenza impugnata, risulta che la difesa ha espressamente rinunciato proprio all'audizione di Pi.Ra., soggetto dalla stessa indicato quale dirigente responsabile della sicurezza sul lavoro nel settore scolastico e, di conseguenza, della contestata omissione.
La lamentata mancanza di motivazione della sentenza impugnata risulta, dunque, insussistente (Corte di Cassazione, Sez. II penale, sentenza 05.07.2017 n. 32358).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittima la proroga del termine di inizio e/o fine lavori motivata per "sopravvenute difficoltà economiche familiari non prevedibili al momento del rilascio del titolo autorizzativo".
In base all'art. 15 del D.P.R. n. 380/2001, i termini entro i quali i lavori si devono iniziare o concludere possono esser prorogati con provvedimento motivato solo per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso di costruire o in considerazione della mole dell'opera da realizzare o di particolari sue caratteristiche tecnico-costruttive o di difficoltà tecnico-esecutive emerse successivamente all'inizio dei lavori.
Nel caso di specie la proroga del permesso di costruire è stata richiesta e concessa in relazione a "sopravvenute difficoltà economiche familiari non prevedibili al momento del rilascio del titolo autorizzativo".
Si tratta all'evidenza di fattispecie non prevista dal citato articolo 15 del d.p.r. n. 380 del 2001, con conseguente illegittimità del provvedimento impugnato.
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... per l'annullamento, del permesso di costruire n. P12/14, prot. n. 1331 del 26.03.2015, rilasciato dal Comune di San Giorgio delle Pertiche alla signora Or.Pa., con il quale è stato autorizzato un intervento di "ricostruzione edificio parzialmente demolito in zona A sull'immobile distinto al N.C.T. Foglio 17, mappale 1161"; del provvedimento prot. n. 3239 del 15.03.2016, con il quale il Comune di San Giorgio delle Pertiche ha accordato alla signora Pa. una proroga di due anni (fino al 26.03.2018) per l'inizio dei lavori;
...
In base all'art. 15 del D.P.R. n. 380/2001, i termini entro i quali i lavori si devono iniziare o concludere possono esser prorogati con provvedimento motivato solo per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso di costruire o in considerazione della mole dell'opera da realizzare o di particolari sue caratteristiche tecnico-costruttive o di difficoltà tecnico-esecutive emerse successivamente all'inizio dei lavori.
Nel caso di specie la proroga del permesso di costruire è stata richiesta e concessa in relazione a "sopravvenute difficoltà economiche familiari non prevedibili al momento del rilascio del titolo autorizzativo".
Si tratta all'evidenza di fattispecie non prevista dal citato articolo 15 del d.p.r. n. 380 del 2001, con conseguente illegittimità del provvedimento impugnato (per l'illegittimità di provvedimenti di proroga motivati in relazione a situazioni di crisi economica vedasi Consiglio di Stato IV n. 1520 del 2016).
L'annullamento, in accoglimento del ricorso, del provvedimento con cui è stato prorogato il termine di inizio dei lavori, determina l'improcedibilità del ricorso nella parte in cui è stato impugnato il permesso di costruire, rilasciato in data 26.03.2015, il cui termine di inizio lavori è stato prorogato.
Infatti i lavori, non essendo stati iniziati entro l'anno dal rilascio del permesso di costruire originario ossia entro l'anno a decorrere dal 26.03.2015, non possono più essere eseguiti (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.07.2017 n. 652 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Persistenza dell’interesse ad impugnare l’ammissione di un concorrente se sopraggiunge l’aggiudicazione della gara – Specificazione delle parti del servizio in termini percentuali di esecuzione ascritte a ciascuna impresa raggruppanda.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione concorrente in gara – Impugnazione ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a. – Aggiudicazione disposta in corso di causa – Improcedibilità del ricorso avverso l’ammissione.
Contratti della Pubblica amministrazione - Raggruppamento temporaneo di imprese – Indicazione parti che ciascun operatore eseguirà – Art. 48, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016 – Obbligo – Modalità – Individuazione.
L’avvenuta aggiudicazione in favore di un concorrente viene ad incidere sulla persistenza dell’interesse a ricorrere avverso le ammissioni altrui; pertanto, è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse il ricorso proposto ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a. avverso gli atti di ammissione dei concorrenti alla gara da parte di un operatore che, all’esito dell’espletamento della gara stessa, risulta nel frattempo collocato in seconda posizione (1).
L’operatore economico che partecipa alla gara in R.T.I. deve indicare la parte dei servizi che eseguirà ai sensi dell’art. 48, comma 4, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, obbligo da ritenersi assolto sia in caso di indicazione, in termini schiettamente descrittivi, delle singole parti del servizio da cui sia evincibile il riparto di esecuzione tra le imprese associate, sia, in caso di indicazione quantitativa, in termini percentuali (2).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che anche a ritenere ininfluente, sotto il profilo della permanenza del particolare interesse al ricorso ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a., la circostanza dell’intervenuta aggiudicazione, essendo tale relativo rito specialissimo finalizzato a definire in modo definitivo la platea dei soggetti ammessi alla gara, cristallizzandone la situazione al fine della rapida costituzione di certezze giuridiche poi incontestabili sui protagonisti della gara (Cons. St., sez. V, ord., 14.03.2017, n. 1059), pur tuttavia detto particolare interesse al ricorso non può, anche durante il processo, essere valutato in modo avulso dalla realtà storica costituita dalla graduatoria formulata, e dunque nell’indifferenza della posizione ivi conseguita dalle singole imprese partecipanti alla gara.
Ciò in quanto la distinzione e la separatezza del giudizio ex art. 120, commi 2-bis e 6-bis, rispetto a quello ordinario del medesimo art. 120 non contempla per il giudice del primo un divieto di prendere in considerazione i fatti storici medio tempore verificatisi e risultanti dai suoi atti processuali, come, appunto, l’avvenuta aggiudicazione della gara e gli effetti di eventuali impugnazioni di quest’ultima. Ne consegue che detti atti, pur non formanti oggetto del medesimo rito specialissimo, si riflettono parzialmente sulla persistenza dell’interesse a ricorrere in quest’ultimo.
   (2) Cons. St., A.P., 05.07.2012, n. 26 (
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 04.07.2017 n. 3257 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Illegittimità del diniego di accesso agli esposti.
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Accesso ai documenti – Diritto – Esposto – Diniego – Illegittimità.
E’ illegittimo il diniego di accesso ad un esposto a seguito del quale è stato attivato un procedimento di verifica o ispettivo, e ciò in quanto colui il quale subisce tale procedimento ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti amministrativi utilizzati nell'esercizio del potere di vigilanza, a cominciare dagli atti di iniziativa e di preiniziativa, quali, appunto, denunce, segnalazioni o esposti (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che il privato, che subisce un procedimento di controllo, vanta un interesse qualificato a conoscere tutti i documenti utilizzati per l'esercizio del potere -inclusi, di regola, gli esposti e le denunce che hanno attivato l'azione dell'autorità- suscettibili per il loro particolare contenuto probatorio di concorrere all'accertamento di fatti pregiudizievoli per il denunciato.
Infatti, l'esposto, una volta pervenuto nella sfera di conoscenza dell'amministrazione, costituisce un documento che assume rilievo procedimentale come presupposto di un'attività ispettiva o di un intervento in autotutela, e di conseguenza il denunciante perde consapevolmente e scientemente il “controllo” e la disponibilità sulla propria segnalazione: quest’ultima, infatti, uscita dalla sfera volitiva del suo autore diventa un elemento del procedimento amministrativo, come tale nella disponibilità dell'amministrazione.
La sua divulgazione, pertanto, non è preclusa da esigenze di tutela della riservatezza, giacché il predetto diritto non assume un'estensione tale da includere il diritto all'anonimato di colui che rende una dichiarazione che comunque va ad incidere nella sfera giuridica di terzi (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 03.07.2017 n. 898 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Espone la ricorrente di essere venuta a conoscenza di almeno due esposti inviati al Comune di Sorano da soggetti privati e aventi ad oggetto fatti e contestazioni riguardanti la propria attività.
Venivano perciò presentate al Comune due distinte richieste di accesso agli atti, l’una in data 11/11/2016 e l’altra in data 15/11/2016, al fine di prendere visione ed ottenere copia di detti documenti onde, eventualmente, esercitare il proprio diritto alla interlocuzione.
Con nota del 31.01.2017 l’amministrazione riscontrava negativamente le suddette istanze di accesso in quanto i sottoscrittori degli esposti, previamente informati, avrebbero espresso la propria opposizione e tale diniego veniva condiviso nella motivazione del provvedimento giacché “il diritto di accesso si limita agli eventuali verbali di accertamento conseguenti alle attività ispettive la cui titolarità già appartiene alla P.A. e non agli esposti–denunce, anche per l’evidente esigenza di tutela della riservatezza dei soggetti interessati ”.
Avverso tali atti insorgeva la società in intestazione chiedendone l’annullamento, oltre all’accertamento del proprio diritto di prendere visione ed estrarre copia integrale della documentazione richiesta con la consequenziale condanna del Comune di Sorano all'ostensione dei documenti.
L’accoglimento del ricorso veniva affidato ai motivi che seguono:
- Violazione dei principi di imparzialità e di trasparenza dell'attività amministrativa (articolo 97 della Costituzione). Violazione degli articoli 22 e 24 della L. n. 241/1990.
Il Comune di Sorano non si costituiva in giudizio.
Nella camera di consiglio del 12.06.2017 il ricorso veniva trattenuto per la decisione.
Il ricorso è fondato.
Va premesso che
il diritto di accesso agli atti della P.A. non costituisce una pretesa meramente strumentale alla difesa in giudizio, essendo in realtà diretto al conseguimento di un autonomo bene della vita, così che la domanda giudiziale tesa ad ottenere l'accesso ai documenti è indipendente non solo dalla sorte del processo principale nel quale venga fatta valere l'anzidetta situazione, ma anche dall'eventuale infondatezza o inammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente, una volta conosciuti gli atti, potrebbe proporre (Cfr. Cons. St., sez. V, 23.02.2010 n. 1067, id., sez. VI, 12.04.2005 n. 1680 ; id., sez. VI, 21.09.2006 n. 5569).
Invero,
le disposizioni in materia di diritto di accesso mirano a coniugare l'esigenza della trasparenza e dell'imparzialità dell'Amministrazione -nei termini di cui all'art. 22, l. n. 241 del 1990- con il bilanciamento da effettuare rispetto ad interessi contrapposti e fra questi -specificamente- quelli dei soggetti "individuati o facilmente individuabili"- che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza.
Il successivo art. 24 della medesima legge, che disciplina i casi di esclusione dal diritto in questione, prevede al comma 6 i casi di possibile sottrazione all'accesso in via regolamentare e fra questi -al punto d)- quelli relativi a documenti che riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, di persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale di cui siano in concreto titolari.
Ne segue che
la mera e non meglio motivata espressione del diniego da parte dei controinteressati non può costituire ostacolo all’esplicazione del diritto in parola.
Per altro verso si è avuto modo di affermare che
in ragione dell'ampia nozione di “documento amministrativo” di cui all'art. 22 l. n. 241 del 1990, ben può l'accesso investire atti formati e provenienti da soggetti privati, purché gli stessi siano detenuti stabilmente dalla p.a. per l'espletamento delle proprie attività istituzionali.
In particolare, il privato che subisce un procedimento di controllo vanta un interesse qualificato a conoscere tutti i documenti utilizzati per l'esercizio del potere —inclusi, di regola, gli esposti e le denunce che hanno attivato l'azione dell'autorità— suscettibili per il loro particolare contenuto probatorio di concorrere all'accertamento di fatti pregiudizievoli per il denunciato.
Infatti, l'esposto, una volta pervenuto nella sfera di conoscenza dell'amministrazione, costituisce un documento che assume rilievo procedimentale come presupposto di un'attività ispettiva o di un intervento in autotutela, e di conseguenza il denunciante perde consapevolmente e scientemente il “controllo” e la disponibilità sulla propria segnalazione: quest’ultima, infatti, uscita dalla sfera volitiva del suo autore diventa un elemento del procedimento amministrativo, come tale nella disponibilità dell'amministrazione. La sua divulgazione, pertanto, non è preclusa da esigenze di tutela della riservatezza, giacché il predetto diritto non assume un'estensione tale da includere il diritto all'anonimato di colui che rende una dichiarazione che comunque va ad incidere nella sfera giuridica di terzi
(Cons. St., sez. V, 19.05.2009 n. 3081; TAR Sicilia, Catania, sez. III, 11.02.2016 n. 396).
Né il nostro ordinamento, ispirato a principi democratici di trasparenza, imparzialità e responsabilità ammette la possibilità di denunce segrete: sicché colui il quale subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti amministrativi utilizzati nell'esercizio del potere di vigilanza, a cominciare dagli atti di iniziativa e di preiniziativa, quali, appunto, denunce, segnalazioni o esposti (TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 12.07.2016 n. 980, TAR Campania, sez. VI, 04.02.2016 n. 639).
Ne segue, per le ragioni esposte, che il ricorso va accolto annullando gli atti impugnati e, per l’effetto, condannando il Comune di Sorano a consentire alla società ricorrente, nel termine massimo di trenta giorni dalla notificazione della sentenza, l’accesso e l’estrazione di copia dei documenti richiesti.

LAVORI PUBBLICI: L’Adunanza plenaria si pronuncia sulla conservazione dell’attestazione sull’attestazione Soa in caso di cessione di ramo di azienda.
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Processo amministrativo – Intervento – Ad adiuvandum - Interventore parte in un giudizio in cui venga in rilievo una quaestio iuris analoga – Inammissibilità.
Contratti della Pubblica amministrazione – Qualificazione – Cessione di ramo di azienda – Perdita automatica della qualificazione – Art. 76, comma 11, d.P.R. n. 207 del 2010 – Esclusione.
Contratti della Pubblica amministrazione – Qualificazione – Cessione di ramo di azienda – Mantenimento requisiti qualificazione della cedente – Accertamento positivo della SOA – Conseguenza - Conservazione dell’attestazione senza soluzione di continuità
Non è sufficiente a consentire l’intervento ad adiuvandum la sola circostanza per cui il proponente tale istanza sia parte in un giudizio in cui venga in rilievo una quaestio iuris analoga a quella divisata nell’ambito del giudizio principale; laddove si ammettesse la possibilità di spiegare l’intervento volontario a fronte della sola analogia fra le quaestiones iuris controverse nei due giudizi, si finirebbe per introdurre nel processo amministrativo una nozione di ‘interesse’ del tutto peculiare e svincolata dalla tipica valenza endoprocessuale connessa a tale nozione e potenzialmente foriera di iniziative anche emulative, in toto scisse dall’oggetto specifico del giudizio cui l’intervento si riferisce (1).
L’art. 76, comma 11, d.P.R. 05.10.2010, n. 207 deve essere interpretato nel senso che la cessione del ramo d’azienda non comporta automaticamente la perdita della qualificazione, occorrendo procedere a una valutazione in concreto dell’atto di cessione, da condursi sulla base degli scopi perseguiti dalle parti e dell’oggetto del trasferimento (2).
In ipotesi di cessione di un ramo d’azienda, l’accertamento positivo effettuato dalla SOA, su richiesta o in sede di verifica periodica, in ordine al mantenimento dei requisiti di qualificazione da parte dell’impresa cedente, comporta la conservazione dell’attestazione da parte della stessa senza soluzione di continuità (3).
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   (1) Cons. St., A.P., 04.11.2016, n. 23.
Ha aggiunto l’Alto Consesso che il vincolo nascente dalle pronunce della Plenaria non è assoluto (art. 99, comma 3, c.p.a.) e che, comunque, l’assenza di un meccanismo procedurale che preveda la costituzione nei giudizi dinanzi alla Plenaria per coloro i quali, coinvolti in controversie analoghe, possano essere pregiudicati dalla decisione di diritto, è il frutto di una scelta discrezionale del legislatore, che tiene conto anche di esigenze di efficienza processuale.
   (2) Le questioni -rimesse all’Adunanza plenaria dalla sez. III con ord. 13.03.2017, n. 1152– erano:
a) se, ai sensi dell’art. 76, comma 11, d.P.R. 05.10.2010, n. 207 debba affermarsi il principio per il quale, in mancanza di nuova richiesta di attestazione SOA, la cessione del ramo d’azienda comporti sempre, in virtù dell’effetto traslativo, il venir meno della qualificazione, o piuttosto, se debba prevalere la tesi che, alla luce di una valutazione in concreto, limita le fattispecie di cessione, contemplate dalla disposizione, solo a quelle che, in quanto suscettibili di da dar vita ad un nuovo soggetto e di sostanziarne la sua qualificazione, presuppongono che il cedente se ne sia definitivamente spogliato, ed invece esclude le diverse fattispecie di cessione di parti del compendio aziendale, le quali, ancorché qualificate dalle parti come trasferimento di “rami aziendali”, si riferiscano, in concreto, a porzioni prive di autonomia funzionale e risultano pertanto inidonee a consentire al soggetto cessionario di ottenere la qualificazione;
b) se l’accertamento effettuato dalla SOA, su richiesta o in sede di verifica periodica, valga sempre e solo per il futuro, oppure se, nei casi in cui l’organismo SOA accerti ex post il mantenimento dei requisiti speciali in capo al cedente, nonostante l’avvenuta cessione di una parte del compendio aziendale, l’attestazione possa anche valere ai fini della conservazione della qualificazione senza soluzione di continuità.
Con riferimento alla prima questione l’Adunanza plenaria ha ricordato i due diversi orientamenti della giurisprudenza del giudice amministrativo.
Secondo un primo orientamento (c.d. tesi “formalistica”, perché rigidamente ancorata al principio del consenso traslativo ed alla concezione astratta della causa contrattuale: Cons. St., sez. IV, 29.02.2016, n. 811, n. 812 e n. 813; id., sez. III, 07.05.2015, n. 2296; id. 12.11.2014, n. 5573), nel caso di cessione di ramo d’azienda il cedente perde automaticamente le qualificazioni, ancorché resti “per avventura” in dotazione di requisiti sufficienti per una determinata qualificazione, poiché ciò non lo esonera dal chiedere a una Società Organismo di Attestazione l’attestazione di qualificazione che, a norma dell’art. 60, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010, costituisce condizione necessaria e sufficiente per la dimostrazione dell’esistenza dei requisiti di capacità tecnica e finanziaria ai fini dell’affidamento di lavori pubblici.
Secondo questo orientamento non potrebbe darsi rilievo alla conferma ex post dei requisiti operati dalla SOA in sede di verifica triennale, poiché essa giammai potrebbe avere un effetto sanante, stante l’effetto traslativo della cessione. Al contempo l’importanza e l’entità del compendio ceduto non potrebbe essere accertata mediante verifica ex post, bensì dovrebbe essere necessariamente sottoposta a specifica valutazione ex ante da parte della SOA a mezzo del procedimento ex art. 76, comma 11, d.P.R. n. 207 del 2010.
Un secondo orientamento (c.d. tesi “sostanzialistico” –alla quale aderisce l’ordinanza di rimessione all’Adunanza plenaria– perché si fonda su un approccio concreto al contenuto negoziale e sulla vincolatività della conferma dell’attestazione SOA: Cons. St., sez. III, 09.01.2017, n. 30; id., sez. V, 18.10.2016, n. 4347 e n. 4348; id. 17.12.2015, n. 5706) ha invece affermato che occorre escludere in linea di principio a danno del cedente qualsiasi automatismo decadenziale conseguente alla cessione d’azienda, occorrendo aver riguardo alla causa in concreto del negozio di cessione e al sottostante regolamento di interessi voluto dalle parti, in tutta la sua ampiezza, complessità e particolarità, per determinare se la cessione dei beni aziendali comporti, o meno, la perdita dei requisiti di cui alle attestazioni SOA in capo alla cedente.
L’Adunanza Plenaria ha condiviso la tesi sostanzialistica, ancorché per argomenti in parte diversi da quelli richiamati.
Ha, in particolare, affermato che la facoltà, prevista dall’art. 76, comma 11, secondo periodo, d.P.R. n. 207 del 2010, per l’impresa cedente di chiedere una nuova attestazione SOA per i requisiti oggetto di trasferimento non può essere trasformata nella previsione della automatica decadenza all’atto della cessione, tanto più che essa non sarebbe sufficiente ad evitare il venir meno della qualificazione durante la gara, atteso che la richiesta di nuova attestazione può avvenire “esclusivamente sulla base dei requisiti acquisiti successivamente alla cessione del complesso aziendale o del suo ramo”.
Ne discende che in caso di trasferimento del ramo d’azienda non sono automaticamente trasferiti anche i requisiti di cui all’art. 79, comma 1, d.P.R. n. 207 del 2010. In particolare, è ben possibile che la cessione di parti dell’azienda, ancorché qualificate come ramo aziendale, si riferisca a porzioni prive di autonomia funzionale nel contesto dell’impresa e comunque non significative, quindi non sia tale da generare la perdita in capo al cedente (e il correlato acquisto in capo al cessionario) dei requisiti di qualificazione. Se non sono trasferiti i requisiti di qualificazione, non possono esserlo le qualificazioni che ad essi si riferiscono.
   (3) Con riferimento alla seconda questione l’Adunanza plenaria ha preliminarmente affermato che la soluzione del primo quesito rende necessaria la riperimetrazione del secondo: se, infatti, nessun automatismo decadenziale è previsto nel caso di cessione del ramo d’azienda, il problema di stabilire l’efficacia (ex nunc o ex tunc) della positiva verifica posteriore operata dalla SOA assume diverso significato.
Ha tra l’altro chiarito l’Alto Consesso che la verifica operata dall’organismo attestatore ha un’efficacia probatoria e non già sostanziale e che gli atti di accertamento hanno intrinseca valenza retroattiva, perché dichiarano una realtà giuridica preesistente. Ne discende che postulare l’efficacia ex nunc della verifica positiva da parte dell’organismo SOA sarebbe in contrasto con la sua natura.
Essa, inoltre, darebbe luogo al paradosso di ritenere che l’attestazione, pur valida, non sia utile a conservare senza soluzione di continuità la qualificazione, ammettendosi dunque una sorta di effetto intermittente, del tutto anomalo (
Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 03.07.2017 n. 3 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Anche gli interventi di ristrutturazione costituiscono “nuova costruzione”.
Rientrano nella nozione di nuova costruzione, di cui all'art. 41-sexies della legge 17.08.1942 n. 1150, anche ai fini dell'applicabilità dell'articolo 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 per il computo delle distanze legali dagli altri edifici, non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume ed alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente.
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2. - Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione degli artt. 112 e segg. c.p.c.. in relazione all'art. 360, comma 1, nn. 4 e 5.
Secondo parte ricorrente, la Corte d'appello ha erroneamente indicato che le parti, in primo grado, non avrebbero allegato che l'opera dei convenuti integrasse gli estremi di una "nuova costruzione" ma si sarebbero limitate a qualificare il fatto di causa come "ampliamento e ristrutturazione", allegando la circostanza della nuova costruzione per la prima volta soltanto nel giudizio d'appello, risultando così preclusa in quanto elemento nuovo.
Al contrario, si deduce che la fattispecie della radicale trasformazione era stata già indicata nell'atto di citazione, avendo il fabbricato della controparte subito una modificazione nella volumetria, con l'aumento della sagoma di ingombro, in modo da incidere sulle distanze tra gli edifici esistenti.
3. - Con il terzo motivo di ricorso si prospetta la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 873 c.c., dell'art. 9 D.M. n. 1444/1968 e dell'art. 22 delle N.T.A. del Piano Regolatore del Comune di Ghedi, in materia di distanze tra edifici e tra pareti finestrate (art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c.).
In particolare, si deduce che le lamentate modificazioni strutturali non potevano in alcun modo essere considerate come una semplice ristrutturazione, bensì avrebbero dovuto essere ritenute come nuova costruzione, con il conseguente dovere di rispettare le distanze previste dal D.M. n. 1444/1968 per l'apertura delle vedute.
4. - Il secondo ed il terzo motivo, da esaminare insieme e con priorità, sono fondati.
Infatti,
rientrano nella nozione di nuova costruzione, di cui all'art. 41-sexies della legge 17.08.1942 n. 1150, anche ai fini dell'applicabilità dell'articolo 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 per il computo delle distanze legali dagli altri edifici, non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche apportate al volume ed alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente (così, Cass. n. 5741/2008, che nella fattispecie al suo esame ha ritenuto legittima l'applicazione delle distanze dettata dalla suddetta disposizione ministeriale per i nuovi edifici, perché il confinante fabbricato era stato oggetto oltre che di concessione di ristrutturazione, anche di ampliamento, e ricostruito in posizione diversa da quella preesistente; in senso conforme v. Cass. nn. 9637/2006 e 14128/2000).
La Corte distrettuale non si è attenuta né a tale principio di diritto, né alla corretta interpretazione del divieto del novum in appello, lì dove non ha considerato che rispetto alla radicale ristrutturazione dell'immobile di proprietà Ar.-Pe., sin dall'inizio lamentata dall'attore (v. pag. 3 della sentenza d'appello), l'affermazione che il relativo manufatto edilizio costituisse una nuova costruzione non introduce in causa un fatto storico nuovo e diverso, ma qualifica giuridicamente quello originario ed immutato ai tini dell'applicazione ad esso della disciplina in materia di distanze.
E poiché la qualificazione giuridica dei fatti tempestivamente allegati non soggiace a preclusioni di sorta, perché esprime una difesa tecnica e non una deduzione assertiva, la ritenuta tardività di tale difesa costituisce falsa applicazione del divieto dei uova in appello.
5. - L'accoglimento del secondo e del terzo motivo assorbe l'esame del primo motivo, inerente al regolamento delle spese (Corte di
 Cassazione, Sez. II civile, sentenza 30.06.2017 n. 16268).

APPALTI: Incompatibilità del Presidente della commissione di gara che ha sottoscritto l’Avviso pubblico di indizione della procedura.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Commissione di gara – Incompatibilità – Presidente che ha approvato Avviso pubblico di indizione della gara – E’ incompatibile.
E’ illegittima la composizione della commissione di gara il cui presidente ha approvato e sottoscritto l’Avviso pubblico di indizione della procedura, ponendosi tale nomina in violazione dell’art. 77, comma 4, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, secondo cui i commissari componenti la Commissione giudicatrice non devono aver svolto né possono svolgere altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che la preventiva redazione dell’atto inditivo della gara è tale da determinare la situazione di incompatibilità che la norma sopra richiamata ha inteso scongiurare. E’ infatti evidente la finalità, perseguita dall’art. 77, comma 4, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, di evitare che uno dei componenti della Commissione, proprio per il fatto di avere svolto in precedenza attività strettamente correlata al contratto del cui affidamento si tratta, non sia in grado di esercitare la delicatissima funzione di giudice della gara in condizione di effettiva imparzialità e di terzietà rispetto agli operatori economici in competizione tra di loro (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 29.06.2017 n. 1074 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Il ricorso è meritevole di accoglimento con riferimento alla censura di illegittima composizione della Commissione di aggiudicazione della procedura ad evidenza pubblica in esame.
Ed invero, malgrado sia stata prospettata una pluralità di censure, rileva il Collegio che la mancata graduazione dei motivi di ricorso determina la possibilità, per il Giudicante, di accoglimento del gravame limitatamente ad un profilo di criticità ritenuto assorbente per ragioni di economia processuale (v. Ad. Plen. Cons. St. n. 5/2015)
Con la sopra citata pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si è, infatti, sancito il principio di diritto in forza del quale <<nel giudizio impugnatorio di legittimità in primo grado, non vale a graduare i motivi di ricorso o le domande di annullamento il mero ordine di prospettazione degli stessi>>; e, ancora, che <<nel giudizio impugnatorio di legittimità in primo grado, in mancanza di rituale graduazione dei motivi e delle domande di annullamento, il giudice amministrativo, in base al principio dispositivo e di corrispondenza fra chiesto e pronunciato, è obbligato ad esaminarli tutti, salvo che non ricorrano i presupposti per disporne l’assorbimento nei casi ascrivibili alle tre tipologie precisate in motivazione (assorbimento per legge, per pregiudizialità necessaria e per ragioni di economia>>.
Passando dunque alla disamina in concreto della censura concernente l’illegittima composizione della Commissione giudicatrice, si osserva che
nella fattispecie portata al vaglio del G.A. si è effettivamente consumata la violazione dell’art. 77, comma 4, del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50.
La disposizione richiamata stabilisce che “i commissari non devono aver svolto né possono svolgere alcun’altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”.
E’ invece emerso, come correttamente dedotto dalla difesa dell’associazione, che il Presidente della Commissione, dottor Ma., nominato in tale veste con determina dirigenziale n. 642 del 15.09.2016 ha redatto, approvato e sottoscritto l’Avviso Pubblico di indizione della gara, di cui alla determina n. 423/2016 del 22.06.2016, e tanto nella distinta veste di Dirigente al Patrimonio.
La preventiva redazione dell’atto inditivo della gara controversa è tale da determinare la situazione di incompatibilità che la norma sopra richiamata ha inteso scongiurare.
E’ infatti evidente la finalità, perseguita dall’art. 77, comma 4 citato, di evitare che uno dei componenti della Commissione, proprio per il fatto di avere svolto in precedenza attività strettamente correlata al contratto del cui affidamento si tratta, non sia in grado di esercitare la delicatissima funzione di giudice della gara in condizione di effettiva imparzialità e di terzietà rispetto agli operatori economici in competizione tra di loro.
Ritiene il Collegio di dover precisare, sul punto, che
il principio di imparzialità dei componenti del seggio di gara va declinato nel senso di garantire loro la cd virgin mind, ossia la totale mancanza di un pregiudizio nei riguardi dei partecipanti alla gara stessa.
Tale pregiudizio può essere agevolmente rintracciato in un caso come quello qui in esame, posto che la predisposizione, da parte del Presidente della Commissione di gara, addirittura delle c.d. regole del gioco può influenzare la successiva attività di arbitro della gara.
Dall’accertamento del suddetto vizio di composizione della gara deriva l’illegittimità dell’aggiudicazione definitiva, atteso il nesso di consequenzialità che avvince gli atti impugnati, per come sottoposti allo scrutinio del G.a..
Il ricorso è dunque accolto alla stregua delle suesposte argomentazioni, con assorbimento delle ulteriori censure e con conseguente obbligo di rinnovazione della gara a partire dalla presentazione delle offerte (sul punto, Tar Lecce, II Sezione, 1040/2016).
Va anche annullato il contratto nelle more eventualmente stipulato tra l’Amministrazione e l’Ati aggiudicataria.

ATTI AMMINISTRATIVIAl fine di ravvisare il silenzio-inadempimento dell'amministrazione, deve essere riscontrato il duplice presupposto dell’omessa conclusione del procedimento amministrativo entro il termine astrattamente previsto per il procedimento del tipo evocato con l'istanza, e dell’inottemperanza a un preciso obbligo di provvedere sull’istanza del privato.
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Rilevato, sotto il profilo giuridico:
- che, al fine di ravvisare il silenzio-inadempimento dell'amministrazione, deve essere riscontrato il duplice presupposto dell’omessa conclusione del procedimento amministrativo entro il termine astrattamente previsto per il procedimento del tipo evocato con l'istanza, e dell’inottemperanza a un preciso obbligo di provvedere sull’istanza del privato (cfr. sentenza di questo TAR, sez. II – 23/03/2016 n. 442)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 23.06.2017 n. 843 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTIAMMINISTRATIVI - URBANISTICAPer consolidata opinione, il silenzio-rifiuto può formarsi esclusivamente in ordine all’inerzia dell'amministrazione su una domanda intesa ad ottenere l'adozione di un provvedimento ad emanazione vincolata ma di contenuto discrezionale e, quindi, necessariamente incidente su posizioni di interesse legittimo, e non già nell'ipotesi in cui viene chiesto il soddisfacimento di posizioni aventi natura sostanziale di diritti.
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La pretesa sostanziale avanzata nel presente giudizio ha per oggetto posizioni sostanziali originate dalla convenzione, il cui esercizio non può però essere utilmente imposto da un terzo.
Sul punto, è meritevole di condivisione quanto affermato da TAR Sardegna per cui “… l’ente pubblico è tenuto a tanto in forza della convenzione di lottizzazione stipulata a suo tempo con la lottizzante, nonché sulla base del “modello urbanistico” prefigurato dall’art. 28 della legge della legge 17.08.1942, n. 1150, per cui la pretesa in esame è a tutti gli effetti ascrivibile ad un “rapporto di diritto pubblico” e rientra così nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo prevista dall’art. 11 della legge 07.08.1990, n. 241.
In altri termini, la posizione del Comune nei confronti dei terzi si traduce nel dovere di provvedere all’esercizio dei diritti e poteri derivanti dalla convenzione urbanistica finalizzati all’adempimento degli obblighi contrattuali, anche in via coattiva, ovvero all’esercizio delle garanzie fideiussorie previste e delle pretese risarcitorie per gli inadempimenti accertati; posizione, in cui il dato centrale è rappresentato dalla qualificazione in senso pubblicistico, il che consente anche di identificare la situazione giuridica dei ricorrenti in una correlativa posizione di interesse legittimo.

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E' vero che <<la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha avuto modo di affermare che “l'obbligazione di provvedere alla realizzazione delle opere di urbanizzazione assunta da colui che stipula una convenzione edilizia è propter rem, nel senso che essa va adempiuta non solo da colui che tale convenzione ha stipulato, ma anche da colui, se soggetto diverso, che richiede la concessione edilizia; ovvero nel senso che colui che realizza opere di trasformazione edilizia ed urbanistica, valendosi della concessione edilizia rilasciata al suo dante causa, ha nei confronti del Comune gli stessi obblighi che gravano sull'originario concessionario, ed è con quest'ultimo solidalmente obbligato per il pagamento degli oneri di urbanizzazione”.
Per questa via, la Suprema Corte è pervenuta alla conclusione che “La natura reale dell'obbligazione in esame riguarda, dunque, i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la concessione, e quelli che realizzano l'edificazione avvalendosi della concessione rilasciata al loro dante causa” >>.
Sicché, tale impostazione non interferisce con la qualificazione dei ricorrenti come “soggetti terzi”, in posizione defilata rispetto alla convenzione di lottizzazione e al deposito della garanzia fideiussoria.
Invero, il meccanismo dell’ambulatorietà passiva dell’obbligazione non trasforma ex se gli aventi causa dei lottizzanti in “parti” a pieno titolo del rapporto convenzionale, ma li rende semplicemente corresponsabili nell’esecuzione degli impegni presi.
In proposito, è stato anche puntualizzato che l’adempimento dell'obbligazione di realizzare le opere di urbanizzazione (primaria e secondaria), assunta dal privato nei confronti del Comune con la convenzione di lottizzazione (ai sensi della L. 765 del 1967), può essere preteso in via giurisdizionale e coattiva dal Comune, non invece dagli aventi causa dal lottizzatore resisi acquirenti di singoli lotti di terreno edificati, stante la loro estraneità alla convenzione.
In ogni caso e in presenza di indirizzi giurisprudenziali non uniformi, l’art. 2 della convenzione urbanistica sottoscritta il 07/09/2007 prevede espressamente che in caso di trasferimento, parziale o totale, delle aree o degli immobili oggetto della convenzione, “… le garanzie prestate dagli attuatori privati non vengono meno e non possono essere estinte o ridotte, se non dopo che il successivo avente causa a qualsiasi titolo abbia prestato a sua volta idonee garanzie in sostituzione od integrazione di quelle precedenti”.
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R
itenuto:
   - che detto ordine di idee non merita condivisione;
   - che il rito del silenzio, di cui all’art. 117 c.p.a., mira ad apprestare una tutela rispetto al mancato esercizio di potestà pubbliche e, quindi, al fine di tutelare situazioni di interesse legittimo;
   - che, per consolidata opinione, il silenzio-rifiuto può formarsi esclusivamente in ordine all’inerzia dell'amministrazione su una domanda intesa ad ottenere l'adozione di un provvedimento ad emanazione vincolata ma di contenuto discrezionale e, quindi, necessariamente incidente su posizioni di interesse legittimo, e non già nell'ipotesi in cui viene chiesto il soddisfacimento di posizioni aventi natura sostanziale di diritti (TAR Puglia Bari, sez. II – 20/02/2017 n. 174, che richiama Consiglio di Stato, sez. V – 27/03/2013 n. 1754);
   - che la pretesa sostanziale avanzata nel presente giudizio ha per oggetto posizioni sostanziali originate dalla convenzione, il cui esercizio non può però essere utilmente imposto da un terzo;
   - che i ricorrenti –seppure facendo riferimento alle previsioni di una convenzione urbanistica sottoscritta nel 2007– non sono parti contraenti dell’accordo, ma rivestono la qualità di soggetti terzi che mirano a stimolare l’esercizio di poteri (anche autoritativi) di attuazione della convenzione urbanistica;
   - che, rispetto ad essi, la situazione giuridica sottostante è qualificabile come interesse legittimo;
   - che, sul punto, è meritevole di condivisione quanto affermato da TAR Sardegna, sez. II – 10/01/2017 n. 13, per cui “… l’ente pubblico è tenuto a tanto in forza della convenzione di lottizzazione stipulata a suo tempo con la lottizzante, nonché sulla base del “modello urbanistico” prefigurato dall’art. 28 della legge della legge 17.08.1942, n. 1150, per cui la pretesa in esame è a tutti gli effetti ascrivibile ad un “rapporto di diritto pubblico” e rientra così nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo prevista dall’art. 11 della legge 07.08.1990, n. 241» (TAR Sardegna, sez. II, 10.09.2013, n. 602).
In altri termini, la posizione del Comune nei confronti dei terzi si traduce nel dovere di provvedere all’esercizio dei diritti e poteri derivanti dalla convenzione urbanistica finalizzati all’adempimento degli obblighi contrattuali, anche in via coattiva, ovvero all’esercizio delle garanzie fideiussorie previste e delle pretese risarcitorie per gli inadempimenti accertati; posizione, in cui il dato centrale è rappresentato dalla qualificazione in senso pubblicistico, il che consente anche di identificare la situazione giuridica dei ricorrenti in una correlativa posizione di interesse legittimo
”;
Evidenziato:
- che è vero che, come osservato di recente da TAR Lombardia Milano, sez. II – 21/04/2017 n. 941 <<la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha avuto modo di affermare che “l'obbligazione di provvedere alla realizzazione delle opere di urbanizzazione assunta da colui che stipula una convenzione edilizia è propter rem, nel senso che essa va adempiuta non solo da colui che tale convenzione ha stipulato, ma anche da colui, se soggetto diverso, che richiede la concessione edilizia; ovvero nel senso che colui che realizza opere di trasformazione edilizia ed urbanistica, valendosi della concessione edilizia rilasciata al suo dante causa, ha nei confronti del Comune gli stessi obblighi che gravano sull'originario concessionario, ed è con quest'ultimo solidalmente obbligato per il pagamento degli oneri di urbanizzazione” (così Cass. civ., Sez. III, 20.08.2015, n. 16999; nello stesso senso Cass. civ., Sez. II, 27.08.2002, n. 12571).
Per questa via, la Suprema Corte è pervenuta alla conclusione che “La natura reale dell'obbligazione in esame riguarda, dunque, i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la concessione, e quelli che realizzano l'edificazione avvalendosi della concessione rilasciata al loro dante causa” (v. ancora le pronunce ora richiamate)
>>;
   - che a identiche conclusioni è pervenuto questo TAR con la pronuncia della sez. I – 11/01/2010 n. 3, evocata dal legale del Comune all’odierna Camera di consiglio;
   - che tale impostazione non interferisce con la qualificazione dei ricorrenti come “soggetti terzi”, in posizione defilata rispetto alla convenzione di lottizzazione e al deposito della garanzia fideiussoria;
   - che il meccanismo dell’ambulatorietà passiva dell’obbligazione non trasforma ex se gli aventi causa dei lottizzanti in “parti” a pieno titolo del rapporto convenzionale, ma li rende semplicemente corresponsabili nell’esecuzione degli impegni presi;
   - che, in proposito, è stato anche puntualizzato che l’adempimento dell'obbligazione di realizzare le opere di urbanizzazione (primaria e secondaria), assunta dal privato nei confronti del Comune con la convenzione di lottizzazione (ai sensi della L. 765 del 1967), può essere preteso in via giurisdizionale e coattiva dal Comune, non invece dagli aventi causa dal lottizzatore resisi acquirenti di singoli lotti di terreno edificati, stante la loro estraneità alla convenzione (cfr. TAR Toscana, sez. III – 16/05/2016 n. 852);
   - che, in ogni caso e in presenza di indirizzi giurisprudenziali non uniformi, l’art. 2 della convenzione urbanistica sottoscritta il 07/09/2007 prevede espressamente che in caso di trasferimento, parziale o totale, delle aree o degli immobili oggetto della convenzione, “… le garanzie prestate dagli attuatori privati non vengono meno e non possono essere estinte o ridotte, se non dopo che il successivo avente causa a qualsiasi titolo abbia prestato a sua volta idonee garanzie in sostituzione od integrazione di quelle precedenti
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 23.06.2017 n. 843 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla abusività, o meno, della realizzata tensostruttura (senza titolo abilitativo) collocata sul terrazzo di proprietà del ricorrente, costituita da una pergola in metallo corredata da tenda in PVC con movimento elettrico per una superficie coperta pari a 32,76 metri quadri.
La struttura in esame non configura né un aumento del volume e della superficie coperta, né la creazione o modificazione di un organismo edilizio, né l’alterazione del prospetto o della sagoma dell’edificio cui è connessa, in ragione della sua inidoneità a modificare la destinazione d’uso degli spazi esterni interessati, della sua facile e completa rimuovibilità, dell’assenza di tamponature verticale e della facile rimuovibilità della copertura orizzontale (addirittura retraibile a mezzo di motore elettrico).
La stessa deve, invece, qualificarsi alla stregua di arredo esterno, di riparo e protezione, funzionale alla migliore fruizione temporanea dello spazio esterno all’appartamento cui accede, in quanto tale riconducibile agli interventi manutentivi non subordinati ad alcun titolo abilitativo ai sensi dell’art. 6, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001.

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... per la riforma della sentenza in forma semplificata del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione I-quater n. 3097/2015, resa tra le parti, concernente la demolizione di una tensostruttura.
...
1. Il sig. Ug.Ar. ha chiesto l’annullamento del provvedimento del Comune di S. Marinella del 17.09.2014, n. 32, prot. 16214 che ha disposto la demolizione di una tensostruttura collocata sul terrazzo di proprietà del ricorrente, costituita da una pergola in metallo corredata da tenda in PVC con movimento elettrico per una superficie coperta pari a 32,76 metri quadri.
Con il ricorso di primo grado ha dedotto la violazione dell’articolo 3, comma 1, lettera e) e dell’articolo 10 del d.P.R. 380 del 2000, tenuto conto che l’opera non sarebbe assoggettabile a rilascio di permesso di costruire in ragione della sua effettiva consistenza ed amovibilità.
Ha dedotto, altresì, l’incompetenza del Comune ad adottare il provvedimento ripristinatorio tenuto conto della circostanza che l’area sarebbe assoggettata a vincolo.
Il Comune di Santa Marinella che ha chiesto il rigetto del ricorso specificando che trattavasi di struttura fissata al pavimento con funzioni di chiusura su tutti i lati.
2. La sentenza qui impugnata ha respinto il ricorso, atteso che l’installazione di una tenda parasole medianti pali infissi stabilmente al suolo del terrazzo costituisce intervento edilizio in cui assume decisiva prevalenza il momento trasformativo innovativo, ed in quanto tale assoggettabile, secondo un costante insegnamento giurisprudenziale, al preventivo rilascio del prescritto titolo abilitativo.
3. Propone ricorso in appello l’interessato riproducendo i motivi del ricorso di primo grado, così epigrafati:
1) violazione di legge o comunque errata interpretazione del combinato disposto dell’art. 3, comma 1, lett. e) e dell’art. 10 d.P.R. 380 del 2001 (d’ora in avanti TUE) e smi. Omesso riferimento all’art. 6 del TUE o, comunque, agli artt. 22 e 37 del TUE e all’art. 19 L.R. Lazio 15 del 2008. Conseguente errata applicazione degli artt. 27, 31 del TUE e degli artt. 9 e 15 L.R. Lazio 15 del 2008. Eccesso di potere per travisamento: errata descrizione dell’opera.
2) Violazione degli artt. 19 della L.R. Lazio n. 15 del 2008 e 167 d.lgs. 42 del 2004. Eccesso di potere per incompetenza.
4. Il ricorso in appello va accolto alla luce del precedente della Sezione 11.04.2014, n. 1777.
La struttura in esame non configura né un aumento del volume e della superficie coperta, né la creazione o modificazione di un organismo edilizio, né l’alterazione del prospetto o della sagoma dell’edificio cui è connessa, in ragione della sua inidoneità a modificare la destinazione d’uso degli spazi esterni interessati, della sua facile e completa rimuovibilità, dell’assenza di tamponature verticale e della facile rimuovibilità della copertura orizzontale (addirittura retraibile a mezzo di motore elettrico).
La stessa deve, invece, qualificarsi alla stregua di arredo esterno, di riparo e protezione, funzionale alla migliore fruizione temporanea dello spazio esterno all’appartamento cui accede, in quanto tale riconducibile agli interventi manutentivi non subordinati ad alcun titolo abilitativo ai sensi dell’art. 6, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001.
In accoglimento dell’appello e in riforma dell’appellata sentenza, s’impone l’accoglimento del ricorso di primo grado, con sequela di annullamento dei gravati provvedimenti ed assorbimento di ogni altra questione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.06.2017 n. 3172 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Residenza nel Comune dove si svolgerà l’attività oggetto del concorso come requisito di partecipazione.
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Concorso – Requisiti di partecipazione – Residenza nel Comune dove si svolgerà l’attività – Illegittimità.
E’ illegittimo il bando per la selezione per la formazione di una graduatoria relativa allo svolgimento di lavoro occasionale presso la biblioteca comunale, che richiede quale requisito di partecipazione la residenza nel Comune (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che la Corte costituzionale ha più volte affermato che l'accesso in condizioni di parità ai pubblici uffici può subire deroghe, con specifico riferimento al luogo di residenza dei concorrenti, quando il requisito medesimo sia ricollegabile, come mezzo al fine, all'assolvimento di servizi altrimenti non attuabili o almeno non attuabili con identico risultato (sent. n. 158 del 1969, n. 86 del 1963, n. 13 del 1961, n. 15 del 1960, secondo la ricostruzione effettuata dall'ordinanza n. 33 del 1988).
Lo stesso giudice delle leggi ha avuto modo di statuire, peraltro, anche che "non é razionale né corrisponde propriamente al fine di una migliore organizzazione del servizio, che sia data prevalenza assoluta, in materia di assunzioni impiegatizie, a situazioni estrinseche di residenza su situazioni intrinseche di merito", e che è da considerarsi illegittima una norma che "escludendo la possibilità di valutazione del merito comparativo, concede un aprioristico titolo preferenziale ai soli residenti in sede regionale" (sentenza n. 158 del 1969).
Sono, pertanto, ammesse ragionevoli discriminazioni fra concorrenti basate sulla residenza purché queste siano corrispondenti a situazioni connesse con l'esistenza di particolari e razionali motivi di più idonea organizzazione di servizi; inoltre, si riconduce una valutazione di illegittimità alle norme che annettono all'elemento residenza un "valore condizionante", tale da conferire ad esso la priorità su ogni altra valutazione comparativa di merito (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 27.06.2017 n. 891 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
L'articolo 51, comma primo, della Costituzione prevede che tutti i cittadini possano accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge; inoltre, l'articolo 117, comma 1, della Costituzione, vuole che l'esercizio della potestà legislativa sia rispettoso degli obblighi e dei principi fondamentali derivanti dal diritto comunitario, tra i quali ultimi vi è quello di libera circolazione dei lavoratori, con i relativi corollari applicabili anche agli impieghi nel settore pubblico (art. 39 Trattato).
Da sempre, secondo la giurisprudenza costituzionale, "
l'accesso in condizioni di parità ai pubblici uffici può subire deroghe, con specifico riferimento al luogo di residenza dei concorrenti, quando il requisito medesimo sia ricollegabile, come mezzo al fine, all'assolvimento di servizi altrimenti non attuabili o almeno non attuabili con identico risultato" (sent. n. 158 del 1969, n. 86 del 1963, n. 13 del 1961, n. 15 del 1960, secondo la ricostruzione effettuata dall'ordinanza n. 33 del 1988).
La Corte costituzionale ha avuto modo di statuire, peraltro, anche che "
non é razionale né corrisponde propriamente al fine di una migliore organizzazione del servizio, che sia data prevalenza assoluta, in materia di assunzioni impiegatizie, a situazioni estrinseche di residenza su situazioni intrinseche di merito", e che è da considerarsi illegittima una norma che "escludendo la possibilità di valutazione del merito comparativo, concede un aprioristico titolo preferenziale ai soli residenti in sede regionale" (vedi sentenza n. 158 del 1969).
Secondo la giurisprudenza costituzionale sono, pertanto, ammesse ragionevoli discriminazioni fra concorrenti basate sulla residenza purché queste siano corrispondenti a situazioni connesse con l'esistenza di particolari e razionali motivi di più idonea organizzazione di servizi; inoltre, si riconduce una valutazione di illegittimità alle norme che annettono all'elemento residenza un "valore condizionante", tale da conferire ad esso la priorità su ogni altra valutazione comparativa di merito.
D’altro canto
l’articolo 39 del Trattato dell’Unione assicura la libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità europea, intesa come abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro, nonché come diritto di spostarsi liberamente a scopi lavorativi nel territorio degli Stati membri e di prendere dimora in uno di questi al fine di svolgervi un’attività di lavoro.
In tale rigoroso contesto
l’art. 35, comma 5-ter, del d.lgs. n. 165/2001 statuisce che “il principio della parità di condizioni per l'accesso ai pubblici uffici è garantito, mediante specifiche disposizioni del bando, con riferimento al luogo di residenza dei concorrenti, quando tale requisito sia strumentale all'assolvimento di servizi altrimenti non attuabili o almeno non attuabili con identico risultato”.
Orbene, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata di tale norma,
non è ammissibile qualificare il requisito della residenza presso il Comune che ha indetto la selezione come aprioristica condizione di partecipazione alla procedura concorsuale (TAR Sicilia, Palermo, III, 31.05.2011, n. 1010) anziché, ad esempio, quale obbligo da assolvere in caso di assunzione in servizio ad esito della procedura stessa. Peraltro, gli atti impugnati non danno contezza del fatto che il suddetto requisito sia effettivamente strumentale all’assolvimento del servizio cui è preordinata la selezione, talché non appare nemmeno astrattamente ipotizzabile l’applicazione al caso di specie del citato art. 35, comma 5-ter.
In conclusione il ricorso deve essere accolto.

ATTI AMMINISTRATIVIIn via generale, ai fini della sussistenza del presupposto legittimamente per l’esercizio del diritto di accesso, deve esistere un interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso, non necessariamente consistente in un interesse legittimo o in un diritto soggettivo, e un rapporto di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l’ostensione.
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... per l'annullamento del provvedimento implicito di rigetto con cui il Comune di Agropoli ha rifiutato l'ostensione degli atti richiesti con istanza di accesso del 06.07.2016, relativa a copia conforme di verbali di contestazione di norme del codice della strada e relative relate di notifica, e per l’accertamento del diritto di accesso agli atti richiesti.
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- Considerato che, a termini dell’art. 116 del Codice del processo amministrativo, in materia di accesso, il giudice decide con sentenza in forma semplificata;
- Considerato che il ricorrente, con il ricorso all’esame, proposto in riassunzione di analogo gravame già proposto innanzi al TAR Campania, sede di Napoli, che con Ordinanza presidenziale n. 1546/2017 ha declinato la propria competenza, assegnando il ricorso alla sezione staccata di Salerno, ha chiesto:
   a) dichiararsi illegittimo l’implicito diniego opposto dal Comune di Agropoli all’istanza di accesso formulata in data 06.07.2016 (prot. n. 18382), avente ad oggetto copia conforme all’originale dei verbali di contestazione di violazione alle norme del codice della strada, come analiticamente riportati nell’istanza, e relate di notifica dei suddetti verbale, al dichiarato fine di “verificare la propria posizione debitoria nei confronti del Comune, ai fini di una eventuale ricorribilità dinanzi all’A.G. competente”; e
   b) conseguentemente accertarsi il suo diritto all’accesso richiesto, con condanna dell’Amministrazione all’esibizione degli atti de quibus;
- Considerato che, più puntualmente, il ricorrente spiegava di essere venuto a conoscenza, in via informale, dell’esistenza di verbali di contestazione di violazione delle norme del codice della strada emessi dal Comune di Agropoli a suo carico, mai a lui notificati, e da qui l’esigenza di accertare l’effettiva esistenza dei suddetti verbali e di verificare la propria posizione debitoria; aggiungeva che il ricorso poggiava, quindi, sul suo diritto all’accesso in funzione di tutela giurisdizionale;
- Considerato che il resistente Comune di Agropoli si costituiva in giudizio (innanzi al TAR Campania, Napoli, non riproponendo la sua costituzione nella presente sede), assumendo, giusta quanto documentato dalla difesa ricorrente che ha prodotto gli atti relativi, l’inammissibilità e l’infondatezza del ricorso sul rilievo che gli atti richiesti in ostensione (che, ad ogni buon conto venivano, in copia, esibiti in giudizio) sarebbero stati già in possesso del ricorrente, come dimostrato dalle relate di notifica, con conseguente inammissibilità del ricorso per difetto di interesse;
- Considerato che a ciò la difesa ricorrente opponeva: a) che la relate esibite nessun riferimento facevano agli atti notificati; b) che comunque non erano stati esibiti i verbali richiesti; c) che le stesse relate erano state esibite in copia semplice e non conforme;
- Ritenuto, in via generale, che, ai fini della sussistenza del presupposto legittimamente per l’esercizio del diritto di accesso, deve esistere un interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso, non necessariamente consistente in un interesse legittimo o in un diritto soggettivo, e un rapporto di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l’ostensione;
- Ritenuto che tale interesse, in astratto, deve riconoscersi certamente in capo al ricorrente, destinatario degli atti richiesti;
- Ritenuto che la circostanza che detti atti (tutti o in parte) siano stati notificati al ricorrente (del che invero non vi è neppure prova, atteso che le relate, prodotte in copia, non presentano apparentemente alcun collegamento con i verbali di accertamento cui si riferiscono), non esclude, né elide, il diritto di accesso, posto che, pacifico essendo che gli atti de quibus sono tuttora nella disponibilità dell’Amministrazione, il destinatario degli atti potrebbe tuttora dover verificare le circostanze fattuali del rapporto controverso (ad esempio, per l’esigenza di preliminare verifica circa la possibilità stessa di opporsi alla pretesa esecutiva, per accertare l’identità del soggetto consegnatario della notifica a fini diversi o, più banalmente, per aver smarrito gli atti, peraltro risalenti nel tempo; cfr., in fattispecie analoga, Cons. di Stato, n. 4209/2014);
- Ritenuto sotto diverso profilo, che in ogni caso l’esibizione in copia, in giudizio, degli atti (o parte di essi che sia), non è comunque satisfattiva del richiesto accesso, che deve avvenire, salvo diversa determinazione dell’interessato, in copia integrale e conforme all’originale, allo scopo di consentire la piena conoscenza del loro contenuto (cfr., per fattispecie analoga, TAR Campania, Salerno, n. 1750/2013, ex pluris);
- Ritenuto, per quanto precede, il ricorso fondato, con conseguente affermazione del diritto del ricorrente di accedere a –e di ottenere copia conforme di– tutti i verbali di contestazione, ai quali lo stesso ha fatto riferimento nella sua richiesta, e delle relative relate di notifica; tanto nel termine di trenta giorni a decorrere dalla comunicazione e/o notifica della presente Sentenza (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 26.06.2017 n. 1102 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' pacifico che la contravvenzione di cui all'art. 95 del DPR n. 380 del 2001 configura un reato formale che si consuma con la realizzazione in zona sismica di un intervento edilizio senza la preventiva comunicazione ed autorizzazione dell'ufficio tecnico regionale, e che pertanto, anche accedendo alla prima interpretazione (reato permanente), a determinare la cessazione della consumazione occorre la presentazione da parte del responsabile della relativa denuncia con l'allegato progetto.
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In ogni caso l'unico documento che risulta essere stato prodotto in dibattimento ricollegabile all'ufficio del Genio Civile è il certificato di eseguito collaudo statico dell'opera, consistita nella costruzione di una scala in acciaio e sostituzione della tettoia del locale adibito a "Sala Bingo", depositato in data 12.02.2013 dal collaudatore presso il suddetto ufficio.
Quantunque in esso si faccia menzione dei documenti relativi alla pratica non meglio specificata se non con l'indicazione della data di deposito presso lo stesso ufficio risalente al 02.09.2011, in ogni caso l'eseguito collaudo, costituito da un'asseverazione redatta da un tecnico per conto del committente circa la conformità dei lavori eseguiti alla vigente normativa antisismica, nulla ha a che vedere con l'omissione contestata all'imputato che si colloca in una fase del tutto antecedente allo stesso inizio dei lavori di realizzazione dell'opera collaudata.
Malgrado le oscillazioni che si registrano in seno alla giurisprudenza di questa Corte in relazione alla natura del reato in contestazione, alternativamente qualificato come permanente (Sez. 3, n. 2209 del 03/06/2015 - dep. 20/01/2016, Russo, Rv. 266224; Sez. 3, n. 29737 del 04/06/2013 - dep. 11/07/2013, Vella, Rv. 255823), ovvero istantaneo con effetti permanenti (Sez. 3, n. 41858 del 08/10/2008 - dep. 07/11/2008, P.M. in proc. Gifuni e altro, Rv. 241424; Sez. 3, n. 23656 del 26/05/2011 - dep. 13/06/2011, Armatori, Rv. 250487),
è comunque pacifico che la contravvenzione di cui all'art. 95 del DPR n. 380 del 2001 configura un reato formale che si consuma con la realizzazione in zona sismica di un intervento edilizio senza la preventiva comunicazione ed autorizzazione dell'ufficio tecnico regionale, e che pertanto, anche accedendo alla prima interpretazione, a determinare la cessazione della consumazione occorre la presentazione da parte del responsabile della relativa denuncia con l'allegato progetto (Sez. 3, n. 12235 del 11/02/2014 - dep. 14/03/2014, Petrolo, Rv. 258738).
La finalità perseguita dal legislatore con la normativa in esame è quindi quella di salvaguardia dell'incolumità pubblica nelle zone definite sismiche, essendo volta a tutelare, al di là dell'osservanza degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi, demandata all'autorità comunale, la sicurezza in termini di impatto sul territorio non solo dell'opera realizzanda, ma altresì delle costruzioni limitrofe attraverso la prescritta autorizzazione preventiva regionale.
E' dunque evidente che si tratti di reato di mero pericolo in cui è sanzionata la condotta omissiva volta ad impedire l'anticipata valutazione da parte della P.A. della sicurezza statica dell'opera sin dalla fase di progettazione, valutazione che si sostanzia nella preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della Regione a seguito dell'adempimento all'obbligo di denuncia e di denuncia e di presentazione dei progetti allo sportello unico (Sez. 3, n. 30224 del 21/06/2011 - dep. 29/07/2011, Floridia, Rv. 251284) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.06.2017 n. 31365).

APPALTI: Art. 80, c. 5 d.lgs. n. 50/2016 - Gravi illeciti professionali - Affidabilità dell’operatore economico.
L’art. 80, comma 5, lett. c), del D.Lgs. n. 50/2016 consente alle stazioni appaltanti di escludere i concorrenti da una procedura di affidamento di contratti pubblici in presenza di «gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità»: innovando rispetto al previgente assetto normativo, la norma prevede che l’esclusione del concorrente è condizionata al fatto che la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità.
La ratio risiede dunque nell’esigenza di verificare l’affidabilità complessivamente considerata dell’operatore economico che andrà a contrarre con la p.a. per evitare, a tutela del buon andamento dell’azione amministrativa, che quest’ultima entri in contatto con soggetti privi di affidabilità morale e professionale.
Art. 80 d.lgs. n. 50/2016 - Discrezionalità della stazione appaltante - Oggetto.
Il conferimento alle stazioni appaltanti, con l’art. 80 del d.lgs. n. 50/2016, di un diaframma di discrezionalità in sede applicativa –il quale attiene non alla individuazione delle fattispecie espulsive, che senz’altro compete al legislatore, in materia di requisiti generali, secondo una elencazione da considerare tassativa, bensì alla riconduzione della fattispecie concreta a quella astratta, siccome descritta genericamente mediante l’uso di concetti giuridici indeterminati- affiora, pur in mancanza di una formulazione della norma di segno univoco come quella contenuta nel previgente Codice Appalti (laddove si discorreva di “motivata valutazione”), da quanto statuito a proposito della consacrata necessità di dare “dimostrazione con mezzi adeguati” della sussistenza della fattispecie espulsiva, nonché dall’uso di locuzione generiche (“dubbia”, “gravi”) e dalla omessa precisa elencazione di ipotesi escludenti, che il legislatore infatti si limita ad individuare a fini meramente esemplificativi.
Art. 36 d.lgs. n. 50/2016 - Procedure di affidamento di servizi cd. semplificate - Motivazione - Acquisizione di una pluralità di preventivi - Non è richiesta - Modifiche apportate dal d.lgs. n. 56/2017.
L’obbligo di rispettare i principi definiti dall’art.30, comma 1, del codice dei contratti (economicità, efficacia, tempestività, correttezza, libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, pubblicità), se da un lato esclude di riconnettere automaticamente la possibilità per le pubbliche amministrazioni di contrarre con uno specifico operatore economico senza procedure specifiche al solo dato oggettivo dell’importo economico, dall’altro implica che la motivazione può e deve essere costruita anche senza ricorrere all'acquisizione di una pluralità di preventivi atteso che la congruità di una proposta contrattuale può ricostruirsi anche aliunde (ad esempio, confrontandola con listini pubblici, quali i prezzi del MePa, o, ancora, con affidamenti di prestazioni analoghe di altre amministrazioni, dopo semplici ricerche in rete).
Del resto, significative in tal senso appaiono le novità apportate al riguardo dal D.lgs. 56/2017 recanti integrazioni e correzioni al D.Lgs. 50/2016: in particolare il nuovo testo della norma interviene esattamente sui problemi operativi posti dalla combinazione della precedente formulazione e dell’interpretazione rigorosa fornita dall’ANAC e compie due operazioni: una chirurgica, eliminando il riferimento all’adeguata motivazione; una additiva, specificando che l’affidamento non deve necessariamente avvenire a valle di una consultazione tra due o più operatori economici.
Trova conferma quindi il dato ermeneutico per cui l’ineliminabile obbligo motivazionale (ribadito, proprio per gli affidamenti in esame ed alla correlata cd. “determina a contrarre unificata e semplificata”, dal nuovo alinea aggiunto dal D.lgs. 56/2017 all’art. 32, comma 2, del codice dei contratti pubblici, a mente del quale nella procedura di cui all'articolo 36, comma 2, lettera a), la stazione appaltante può procedere ad affidamento diretto tramite determina a contrarre, o atto equivalente, che contenga, in modo semplificato, l'oggetto dell'affidamento, l'importo, il fornitore, le ragioni della scelta del fornitore, il possesso da parte sua dei requisiti di carattere generale, nonché il possesso dei requisiti tecnico-professionali, ove richiesti) non si esaurisce più nel necessario confronto tra più preventivi (TAR Valle d'Aosta, sentenza 23.06.2017 n. 36 - (link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Esecuzione di un'opera - Doveri e responsabilità del committente e dell'esecutore - Artt. 29, 31 e 44 d.P.R. 380/2001.
Ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. 380/2001, vi è un dovere, per chi si appresta ad eseguire un'opera, di osservare, non solo quanto prescritto dal titolo abilitativo, ma anche quanto stabilito dalla normativa urbanistica e di piano e che detta norma ha posto delle specifiche posizioni di garanzia, di cui ha precisato anche il contenuto.
Da ciò consegue, che il titolare del permesso di costruire, il committente e l'esecutore non possono considerarsi esenti da responsabilità per il semplice fatto di avere conseguito il titolo abilitativo se questo è stato rilasciato in contrasto con la legge o gli strumenti urbanistici, con l'ulteriore precisazione che non ogni vizio dell'atto amministrativo o civile potrà essere rilevato dal giudice penale, ma soltanto quello la cui presenza contribuisca a conferire al comportamento incriminato significato "lesivo" del bene giuridico tutelato, ovviamente evitando di costruire beni giuridici ad hoc al fine proprio di scardinare il principio di tassatività (Sez. 3, n. 27261 del 08/06/2010, P.M. in proc. Caleprico e altri. Conf. Sez. 3, n. 10106 del 21/01/2016, Terzini).
Concorso nel reato del progettista - Presupposti - Mera redazione del progetto - Nesso di causalità tra la redazione del progetto e l'attività di attuazione dello stesso - Esclusione.
La sola veste di progettista non consente, di per se, di ravvisare il concorso nel reato, in quanto la fase di redazione di un progetto, anche se difforme dalla normativa vigente, va tenuta distinta da quella di direzione dei lavori, e non può configurarsi un nesso di causalità tra la redazione del progetto e l'attività di attuazione dello stesso, soltanto per la quale sussiste rilevanza penale, ed alla quale il progettista deve avere fornito un apporto concreto ed ulteriore rispetto alla mera redazione del progetto (Sez. 3, n. 8420 del 12/12/2002, Ridolfi, Rv. 224166. Conf. Sez. 3, n. 47271 del 22/09/2016, Ayma, non massimata) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.06.2017 n. 31282 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Bellezze naturali e zone di "elevata naturalità" - Divieto di distruzione o di alterazione mediante costruzioni, demolizioni, o in qualsiasi altro modo - Riferimento alla “speciale protezione dell’autorità” - Piano Territoriale Paesistico Regionale - Natura dell’art. 734 c.p. - Artt. 157 e 181, c. 1-bis, lett. A) e B), D.Lgs. n. 42/2004.
L’art. 734 c.p. non è norma penale in bianco. Il riferimento alla “speciale protezione dell’autorità” va interpretata nel senso che la stessa può essere attribuita attraverso un qualsiasi provvedimento che individui compiutamente il bene del quale si vuole assicurare la conservazione perché meritevole di tutela particolare e specifica.
Tra detti provvedimenti può, dunque, rientrare anche il Piano Territoriale Paesistico Regionale, che comprende sia disposizioni di carattere generale ed astratte sia provvedimentali. Nel caso di specie, è stata ritenuta l'area sottoposta a particolare protezione in ragione dell'inclusione tra le zone di "elevata naturalità" di cui all'art. 17 delle Norme di Attuazione del PTPR (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.06.2017 n. 31282 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ordine giudiziale di demolizione - Natura di sanzione amministrativa di tipo ablatorio - Autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso.
L'ordine giudiziale di demolizione ha natura di sanzione amministrativa di tipo ablatorio, che costituisce esplicitazione di un potere sanzionatorio autonomo e non residuale o sostitutivo rispetto a quello dell'autorità amministrativa, assolvendo ad una autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso (Cass. Sez. 3, n. 37120 del 11/05/2005, Morelli).
TUTELA DELL'AMBIENTE - La materia urbanistica rientra nella tutela dell'ambiente - Ordinato sviluppo del territorio sotto il profilo urbanistico ed edilizio - Responsabilità per il reato urbanistico e per la contravvenzione di cui all'art. 734 cod. pen. - LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE - Interessi delle associazioni di tutela ambientale in relazione a violazione edilizia e abuso di ufficio - Sussiste.
L’ordinato sviluppo del territorio sotto il profilo urbanistico ed edilizio assume rilievo ai fini della tutela dell’ambiente e rientra pertanto tra gli interessi delle associazioni di tutela ambientale concretamente lesi da attività illecita.
Sicché, il costante consumo di suolo, conseguenza di una non corretta gestione del territorio (anche da parte di chi è tenuto, per legge, a provvedervi), influisce negativamente sulle diverse componenti ambientali, sottraendo risorse ed agendo negativamente sulla fruibilità del bene nel suo complesso, peggiorando la qualità della vita ed aumentando rischi per la salute delle persone, poiché l'illecito edilizio non comporta, quale conseguenza, la sola presenza di nuovi volumi abusivamente realizzati, già di per se rilevante, ma anche una incidenza sul carico urbanistico produttiva di ulteriori effetti negativi.
A conclusioni analoghe deve pervenirsi per ciò che concerne il reato di abuso d'ufficio, in quanto la legittimazione alla costituzione di parte civile delle associazioni ambientaliste deve riconoscersi anche con riferimento ai reati commessi in occasione o con la finalità di violare normative dirette alla tutela dell'ambiente e del territorio (Sez. 5, n. 7015 del 17/11/2010 (dep. 2011), Associazione Legambiente Onlus e altri) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.06.2017 n. 31282 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Non conformità dell'atto amministrativo alla normativa o conseguenza di attività criminosa - Rilevabilità - Giurisprudenza.
La non conformità dell'atto amministrativo alla normativa che ne regola l'emanazione, alle disposizioni legislative statali e regionali in materia urbanistico edilizia ed alle previsioni degli strumenti urbanistici può essere rilevata non soltanto se l'atto sia illecito e, cioè, frutto di attività criminosa, ma anche nell'ipotesi in cui l'emanazione dell'atto medesimo sia espressamente vietata in mancanza delle condizioni previste dalla legge o nel caso di mancato rispetto delle norme che regolano l'esercizio del potere (Sez. 3, n. 37847 del 14/05/2013, Sorini; Sez. 3, n. 40425 del 28/09/2006, Consiglio).
Inoltre, è evidente che, nel caso in cui il provvedimento amministrativo sia palesemente illegittimo, non può che ritenersi sostanzialmente mancante, in quanto l'atto, in tali casi, è emanato in totale assenza dei presupposti di legge per la sua emissione. A maggior ragione, tale situazione si verifica quando detto titolo abilitativo sia conseguenza di attività criminosa da parte del soggetto pubblico che lo ha adottato o di quello privato che lo ha conseguito.
Automatismo tra mera illegittimità del titolo abilitativo e sussistenza del reato urbanistico - Esclusione.
In materia urbanistica, deve essere escluso ogni automatismo tra mera illegittimità del titolo abilitativo e sussistenza del reato urbanistico, eliminando così il rischio, paventato nella prospettata questione di legittimità costituzionale, di una irragionevole equiparazione interpretativa "in malam partem" tra mancanza "ab origine" dell'atto concessorio e illegittimità dello stesso accertata "ex post", sia la violazione del principio della responsabilità penale per fatto proprio colpevole (Cass. sentenza 7423/2015).
Valutazione del giudice penale sulla legittimità dell’atto amministrativo - Giudicato amministrativo - Effetti - Limiti.
Non può ritenersi ostativo alla valutazione del giudice penale sulla legittimità dell’atto amministrativo presupposto del reato il giudicato amministrativo formatosi all’esito di una controversia instaurata sulla base di documentazione incompleta o che, comunque, si è fondata su elementi di fatto rappresentati in modo parziale o, addirittura, non rispondenti al vero.
Inoltre, non può spiegare alcun effetto nel procedimento penale una valutazione effettuata dal giudice amministrativo con riferimento a situazioni che, sebbene analoghe, abbiano comunque riguardato soggetti e circostanze diverse (Sez. 3, n. 30171 del 04/06/2015, P.M. in proc. Serafini) ovvero che abbia riguardato la sospensione cautelare del provvedimento presupposto del reato (Sez. 3, n. 3538 del 18/11/2015 (dep. 2016), Morra) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.06.2017 n. 31282 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Confermata la giurisdizione del G.O. per le domande risarcitorie dei privati che hanno fatto affidamento su di un provvedimento ampliativo successivamente dichiarato illegittimo.
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Giurisdizione e competenza – Responsabilità civile della P.A. – Annullamento giurisdizionale di una procedura di gara – Lesione dell’affidamento del contraente - Tutela risarcitoria - Giurisdizione civile.
E’ devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario l’azione di risarcimento del danno proposta dal privato che abbia fatto incolpevole affidamento su di un provvedimento ampliativo successivamente dichiarato illegittimo (1)

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   (1) I.- La pronuncia è stata resa dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione in sede di regolamento preventivo di giurisdizione nell’ambito di una controversia risarcitoria proposta da una società per i danni asseritamente patiti in conseguenza della mancata esecuzione di un contratto di appalto in seguito all’annullamento in sede giurisdizionale del procedimento di selezione del contraente.
La Corte conferma che in simili fattispecie la giurisdizione sulla domanda risarcitoria spetta al giudice ordinario. A tale conclusione la Corte giunge richiamando, con motivazione essenziale, due specifici precedenti e segnatamente:
   a) Cass. civ., sez. I, 21.11.2011, n. 24438 secondo cui «l’erronea scelta del contraente di un contratto di appalto, divenuto inefficace e “tamquam non esset” per effetto dell’annullamento dell’aggiudicazione da parte del giudice amministrativo, espone la P.A. al risarcimento dei danni per le perdite e i mancati guadagni subiti dal privato aggiudicatario; tale responsabilità non è qualificabile né come aquilana, né come contrattuale in senso proprio, sebbene a questa si avvicini poiché consegue al “contatto” tra le parti nella fase procedimentale anteriore alla stipula del contratto, ed ha origine nella violazione del dovere di buona fede e correttezza, avendo l’Amministrazione indetto la gara e dato esecuzione ad un’aggiudicazione apparentemente legittima che ha provocato la lesione dell’interesse del privato, non qualificabile come interesse legittimo, ma assimilabile a un diritto soggettivo, avente ad oggetto l’affidamento incolpevole nella regolarità e legittimità dell’aggiudicazione»;
   b) Cass. civ., sez. un., 04.09.2015, n. 17586 secondo cui «la controversia avente ad oggetto la domanda autonoma di risarcimento danni proposta da colui che, avendo ottenuto l’aggiudicazione in una gara per l’affidamento di un pubblico servizio, successivamente annullata dal Tar perché illegittima su ricorso di un altro concorrente, deduca la lesione dell’affidamento ingenerato dal provvedimento di aggiudicazione apparentemente legittimo, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, non essendo chiesto in giudizio l’accertamento della illegittimità dell’aggiudicazione (che, semmai, la parte aveva interesse a contrastare nel giudizio amministrativo promosso dal concorrente) e, quindi, non rimproverandosi alla P.A. l’esercizio illegittimo di un potere consumato nei suoi confronti, ma la colpa consistita nell’averlo indotto a sostenere spese nel ragionevole convincimento della prosecuzione del rapporto fino alla scadenza del termine previsto dal contratto stipulato a seguito della gara» (Cass., sez. un., 23/03/2011, n. 6596).
Come del resto si ritiene più in generale rientri nella giurisdizione ordinaria «la domanda risarcitoria proposta nei confronti della P.A. per i danni subiti dal privato che abbia fatto incolpevole affidamento su un provvedimento ampliativo illegittimo …, non trattandosi di una lesione dell’interesse legittimi pretensivo del danneggiato (interesse soddisfatto, seppur in modo illegittimo), ma di una lesione della sua integrità patrimoniale ex art. 2043 c.c., rispetto alla quale l’esercizio del potere amministrativo non rileva in sé, ma per l’efficacia causale del danno–evento da affidamento incolpevole».
Tra le più recenti sentenze in tema si segnalano:
   c) Cons. Stato, Ad. plen., 12.05.2017 n. 2 (oggetto della News US in data 16.05.2017) circa la giurisdizione del G.O. a conoscere della domanda proposta nei confronti di impresa illegittima beneficiaria di un appalto pubblico.
   d) Cons. Stato, sez. IV, 25.01.2017, n. 293 che aderisce all’indirizzo espresso dalle Sezioni unite in ordine alla giurisdizione del giudice ordinario in relazione a controversie in cui venga proposta domanda di risarcimento del danno da provvedimento favorevole poi annullato;
   e) Cass. civ., sez. un., ord., 04.09.2015, n. 17586 (citata in motivazione), in Riv. giur. edilizia, 2015, I, 1044, con nota di SINISI e Dir. proc. amm., 2016, 547, con nota di GALLO.
   f) Cass. civ., sez. un., ord., 23.03.2011, n. 6596 (citata in motivazione) in Foro it., 2011, I, 2387, con nota di TRAVI; Corriere giur., 2011, 933, con nota di DI MAJO; Urbanistica e appalti, 2011, 915, con nota di MASERA; Giust. civ., 2011, I, 1209, con nota di LAMORGESE; Resp. civ., 2011, 1749 (m), con nota di SCOGNAMIGLIO; Giust. civ., 2011, I, 2315 (m), con nota di D’ANGELO; Giur. it., 2012, 193, con nota di COMPORTI, cui si rinvia per ogni ulteriore approfondimento;
   g) sulla nozione di comportamento materiale v. Cass. civ., sez. un., 16.12.2016, n. 25978 oggetto della News US in data 09.01.2017 (cui si rinvia per una ampia casistica in tema di comportamenti materiali), nonché oggetto della nota di LUIGI VIOLA Una giurisdizione “a macchia di leopardo” sui comportamenti materiali della P.A.?, in Lexitalia n. 6/2017 (Corte di Cassazione, S.U. civili, ordinanza 22.06.2017 n. 15640 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla inammissibilità della c.d. "sanatoria giurisprudenziale".
Il permesso in sanatoria ex art. 36 del DPR 380/2001 è ottenibile solo alla condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda.
Diversamente opinando, verrebbe in questione, con la c.d. “sanatoria giurisprudenziale”, un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem e che si colloca fuori d’ogni previsione normativa e che, pertanto, NON è ammessa nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dalla P.A., alla stregua del principio di nominatività, poteri, tutti questi, che non sono surrogabili da questo Giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla P.A. stessa.
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– in tal caso non è invocabile la c.d. “sanatoria giurisprudenziale”, giacché il permesso in sanatoria ex art. 36 del DPR 380/2001 è ottenibile solo alla condizione che l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, venendo viceversa in questione, con la “sanatoria giurisprudenziale”, un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem e che si colloca fuori d’ogni previsione normativa e che, pertanto, NON è ammessa nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dalla P.A., alla stregua del principio di nominatività, poteri, tutti questi, che non sono surrogabili da questo Giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla P.A. stessa (cfr., da ultimo, Cons. St., V, 27.05.2014 n. 2755; id., VI, 05.06.2015 n. 2784; id., 30.09.2015 n. 4552; id., 18.07.2016 n. 3194) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.06.2017 n. 3018 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il rilascio del titolo abilitativo (anche in sanatoria) fa comunque salvi i diritti dei terzi e non interferisce, pertanto, nell’assetto dei rapporti fra privati, ferma restando la possibilità per l’Amministrazione di verificare la sussistenza di limiti di matrice civilistica, per la realizzazione dell’intervento edilizio da assentire.
La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato Consiglio di Stato è saldamente orientata nel riconoscere, in relazione a lavori edilizi da eseguirsi su parti comuni di un fabbricato e non concernenti opere connesse all'uso normale della cosa comune, il dovere dell'Amministrazione comunale —ai fini del rilascio della relativa concessione— nel richiedere il consenso di tutti i proprietari, salvo il caso che la realizzazione dell’opera non sia concettualmente riconducibile a quell'utilizzo della cosa comune che l'art. 1102 c.c. consente comunque al partecipante alla comunione, indipendentemente dall'ottenimento del consenso degli altri condomini, in quanto non consente a questi ultimi il pari uso del bene e ne altera la destinazione.
Ed ancora:
   - “ai fini del rilascio d'una concessione edilizia, la disponibilità dell'area oggetto d'intervento non è circoscritta alla dimostrazione della proprietà di quest'ultima, ma indica più propriamente l'esistenza d'una situazione giuridica che abilita il titolare a sfruttare pienamente la potenzialità edificatoria dell'immobile in questione”;
   - l'impulso ad effettuare la trasformazione edilizia deve provenire da un soggetto che si trovi in posizione di detenzione qualificata del bene e, in relazione alla necessità del consenso del proprietario del bene oggetto di trasformazione, “il rilascio del titolo abilitativo (anche in sanatoria) fa comunque salvi i diritti dei terzi e non interferisce, pertanto, nell'assetto dei rapporti fra privati, ferma restando la possibilità per l'Amministrazione di verificare la sussistenza di limiti di matrice civilistica, per la realizzazione dell'intervento edilizio da assentire”
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La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato Consiglio di Stato, infatti, è saldamente orientata nel riconoscere, in relazione a lavori edilizi da eseguirsi su parti comuni di un fabbricato e non concernenti opere connesse all'uso normale della cosa comune, il dovere dell'Amministrazione comunale —ai fini del rilascio della relativa concessione— nel richiedere il consenso di tutti i proprietari, salvo il caso che la realizzazione dell’opera non sia concettualmente riconducibile a quell'utilizzo della cosa comune che l'art. 1102 c.c. consente comunque al partecipante alla comunione, indipendentemente dall'ottenimento del consenso degli altri condomini, in quanto non consente a questi ultimi il pari uso del bene e ne altera la destinazione (Consiglio di Stato sez. IV, sentenza 11.04.2007, n. 1654).
Ed ancora: “Ai fini del rilascio d'una concessione edilizia, la disponibilità dell'area oggetto d'intervento non è circoscritta alla dimostrazione della proprietà di quest'ultima, ma indica più propriamente l'esistenza d'una situazione giuridica che abilita il titolare a sfruttare pienamente la potenzialità edificatoria dell'immobile in questione” (Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 22.06.2000, n. 3525).
In tal senso anche Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 26.01.2015, n. 316, secondo cui l'impulso ad effettuare la trasformazione edilizia deve provenire da un soggetto che si trovi in posizione di detenzione qualificata del bene e, in relazione alla necessità del consenso del proprietario del bene oggetto di trasformazione, “il rilascio del titolo abilitativo (anche in sanatoria) fa comunque salvi i diritti dei terzi e non interferisce, pertanto, nell'assetto dei rapporti fra privati, ferma restando la possibilità per l'Amministrazione di verificare la sussistenza di limiti di matrice civilistica, per la realizzazione dell'intervento edilizio da assentire” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.06.2017 n. 2951 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEIn caso d’occupazione sine titulo originario o sopravvenuto, la realizzazione dell’opera pubblica non fa venire meno l’obbligo della P.A. di restituire al privato il bene illegittimamente appreso. La realizzazione dell’opera sul fondo illecitamente occupato è in sé, quindi, un mero fatto, inidoneo a formare il titolo dell’acquisto e, perciò, l’apprensione della altrui proprietà.
L’Amministrazione, in effetti, può legittimamente apprendere il bene facendo uso unicamente dei due strumenti tipici, ossia il contratto, tramite l’acquisizione del consenso della controparte, o il provvedimento, e quindi anche in assenza di consenso ma tramite la riedizione del procedimento espropriativo con le sue garanzie; a queste due opzioni va aggiunto il possibile ricorso allo strumento di cui all’art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001.
Infatti, “è obbligo di ogni P.A., nell’attuale quadro normativo in tema di espropriazione per p.u. e nella vigenza del citato art. 42-bis del DPR 327/2001, di far venir meno l’occupazione sine titulo di proprietà altrui e, quindi, di adeguare comunque la situazione di fatto a quella di diritto. Si badi: l’obbligo de quo si sostanzia nel perseguire una tra le varie e possibili alternative che l’ordinamento indica per elidere in via definitiva l’occupazione illecita. Queste ultime vanno dalla restituzione totale o parziale del bene al suo titolare, previa riduzione in pristino, all’acquisto, fino all’acquisizione sanante ex art. 42-bis”.
In definitiva, nel caso in esame, accertata l’assenza di un valido titolo di esproprio e la modifica irreversibile del bene immobile, va affermato l’obbligo dell’Amministrazione di far venire meno l’occupazione senza titolo.

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Il ricorso è fondato e merita di essere accolto nei termini di seguito indicati.
Tra le parti non è contestato che, a seguito dei provvedimenti in precedenza indicati, i terreni di proprietà della società ricorrente sopra indicati siano stati occupati al dichiarato fine di realizzare il raccordo autostradale tra il casello di Ospitaletto (A4) e il nuovo casello di Poncarale (A21) con l’aeroporto di Montichiari, con irreversibile trasformazione del suolo, ma che la relativa procedura di esproprio non sia stata portata a conclusione con l’emissione del relativo decreto.
Tale circostanza esclude in radice la possibilità che si sia verificato il passaggio di proprietà in favore dell’ente pubblico, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza oramai consolidata.
A tale proposito, è sufficiente ricordare che, anche di recente, il Consiglio di Stato ha ribadito “l’ormai noto principio (cfr., da ultimo, Cons. St., IV, 13.04.2016 n. 1466) per cui, in caso d’occupazione sine titulo originario o sopravvenuto, la realizzazione dell’opera pubblica non fa venire meno l’obbligo della P.A. di restituire al privato il bene illegittimamente appreso. La realizzazione dell’opera sul fondo illecitamente occupato è in sé, quindi, un mero fatto, inidoneo a formare il titolo dell’acquisto e, perciò, l’apprensione della altrui proprietà” (Consiglio di Stato, sez. IV, 20.07.2016, n. 3255).
L’Amministrazione, in effetti, può legittimamente apprendere il bene facendo uso unicamente dei due strumenti tipici, ossia il contratto, tramite l’acquisizione del consenso della controparte, o il provvedimento, e quindi anche in assenza di consenso ma tramite la riedizione del procedimento espropriativo con le sue garanzie; a queste due opzioni va aggiunto il possibile ricorso allo strumento di cui all’art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001; infatti, “è obbligo di ogni P.A., nell’attuale quadro normativo in tema di espropriazione per p.u. e nella vigenza del citato art. 42-bis del DPR 327/2001, di far venir meno l’occupazione sine titulo di proprietà altrui e, quindi, di adeguare comunque la situazione di fatto a quella di diritto (cfr. Cons. St., IV, 09.02.2016 n. 537). Si badi: l’obbligo de quo si sostanzia nel perseguire una tra le varie e possibili alternative che l’ordinamento indica per elidere in via definitiva l’occupazione illecita. Queste ultime vanno dalla restituzione totale o parziale del bene al suo titolare, previa riduzione in pristino, all’acquisto, fino all’acquisizione sanante ex art. 42-bis (cfr., per tutti, Cons. St., IV, 01.09.2015 n. 4096)” (in tal senso, ancora Consiglio di Stato n. 3255/2016 cit.).
In definitiva, nel caso in esame, accertata l’assenza di un valido titolo di esproprio e la modifica irreversibile del bene immobile (circostanze non contestate dalle Amministrazioni resistenti), va affermato l’obbligo dell’Amministrazione di far venire meno l’occupazione senza titolo (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 01.06.2017 n. 714 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAPer lo smaltimento di rifiuti contenenti amianto il legislatore ha dettato un regime speciale (d.P.R. 08.08.1994), derogativo delle norme ordinarie in materia di gestione dei rifiuti, con la conseguenza che tale regime è rimasto in vigore nelle sue componenti essenziali anche dopo la riforma di cui al d.lgs. 05.02.1997 n. 22 e costituisce una regolamentazione specifica della materia rispetto alla quale non determinano modifiche o integrazioni le disposizioni di carattere generale concernenti la competenza degli enti territoriali in materia anche ambientale.
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Ancora assai di recente la Corte Costituzionale ha avuto modo di precisare che “la disciplina dei rifiuti è riconducibile alla materia «tutela dell'ambiente e dell'ecosistema», di competenza esclusiva statale ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., anche se interferisce con altri interessi e competenze, di modo che deve intendersi riservato allo Stato il potere di fissare livelli di tutela uniforme sull'intero territorio nazionale, ferma restando la competenza delle Regioni alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali.
Pertanto, la disciplina statale «costituisce, anche in attuazione degli obblighi comunitari, un livello di tutela uniforme e si impone sull'intero territorio nazionale, come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza, per evitare che esse deroghino al livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato, ovvero lo peggiorino".
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4.1. Le riproposte censure sono condivisibili solo in parte.
4.1.1. Il Collegio non intende decampare dall’insegnamento della giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. V, 11/05/2004, n. 2943) che, nell’esplorare i rapporti tra la legge n. 257/1992, e l’antevigente legislazione in materia ambientale con precipuo riferimento alla materia dello smaltimento dei rifiuti (d.Lgs. 05.02.1997 n. 22) è pervenuta al convincimento per cui “per lo smaltimento di rifiuti contenenti amianto il legislatore ha dettato un regime speciale (d.P.R. 08.08.1994), derogativo delle norme ordinarie in materia di gestione dei rifiuti, con la conseguenza che tale regime è rimasto in vigore nelle sue componenti essenziali anche dopo la riforma di cui al d.lgs. 05.02.1997 n. 22 e costituisce una regolamentazione specifica della materia rispetto alla quale non determinano modifiche o integrazioni le disposizioni di carattere generale concernenti la competenza degli enti territoriali in materia anche ambientale. ”.
Detto insegnamento appare attuale anche alla luce della vigente legislazione (d.Lgs. n. 152/2006) e dal combinato disposto dell’art. 1 della citata Legge 27.03.1992, n. 257 (“1. La presente legge concerne l'estrazione, l'importazione, la lavorazione, l'utilizzazione, la commercializzazione, il trattamento e lo smaltimento, nel territorio nazionale, nonché l'esportazione dell'amianto e dei prodotti che lo contengono e detta norme per la dismissione dalla produzione e dal commercio, per la cessazione dell'estrazione, dell'importazione, dell'esportazione e dell'utilizzazione dell'amianto e dei prodotti che lo contengono, per la realizzazione di misure di decontaminazione e di bonifica delle aree interessate dall'inquinamento da amianto, per la ricerca finalizzata alla individuazione di materiali sostitutivi e alla riconversione produttiva e per il controllo sull'inquinamento da amianto.
2. Sono vietate l'estrazione, l'importazione, l'esportazione, la commercializzazione e la produzione di amianto, di prodotti di amianto o di prodotti contenenti amianto. Previa autorizzazione espressa d'intesa fra i Ministri dell'ambiente, dell'industria, del commercio e dell'artigianato e della sanità, è ammessa la deroga ai divieti di cui al presente articolo per una quantità massima di 800 chilogrammi e non oltre il 31.10.2000, per amianto sotto forma di treccia o di materiale per guarnizioni non sostituibile con prodotti equivalenti disponibili. Le imprese interessate presentano istanza al Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato che dispone, con proprio provvedimento, la ripartizione pro-quota delle quantità sopra indicate, nonché determina le modalità operative conformandosi alle indicazioni della commissione di cui all'articolo 4
”) e 10 comma 1 e 2 lett. d) della legge medesima (“1. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano adottano, entro centottanta giorni dalla data di emanazione del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di cui all'articolo 6, comma 5, piani di protezione dell'ambiente, di decontaminazione, di smaltimento e di bonifica ai fini della difesa dai pericoli derivanti dall'amianto.
2. I piani di cui al comma 1 prevedono tra l'altro:
   a) il censimento dei siti interessati da attività di estrazione dell'amianto;
   b) il censimento delle imprese che utilizzano o abbiano utilizzato amianto nelle rispettive attività produttive, nonché delle imprese che operano nelle attività di smaltimento o di bonifica;
   c) la predisposizione di programmi per dismettere l'attività estrattiva dell'amianto e realizzare la relativa bonifica dei siti;
   d) l'individuazione dei siti che devono essere utilizzati per l'attività di smaltimento dei rifiuti di amianto;
   e) il controllo delle condizioni di salubrità ambientale e di sicurezza del lavoro attraverso i presidi e i servizi di prevenzione delle unità sanitarie locali competenti per territorio;
   f) la rilevazione sistematica delle situazioni di pericolo derivanti dalla presenza di amianto;
   g) il controllo delle attività di smaltimento e di bonifica relative all'amianto;
   h) la predisposizione di specifici corsi di formazione professionale e il rilascio di titoli di abilitazione per gli addetti alle attività di rimozione e di smaltimento dell'amianto e di bonifica delle aree interessate, che è condizionato alla frequenza di tali corsi;
   i) l'assegnazione delle risorse finanziarie alle unità sanitarie locali per la dotazione della strumentazione necessaria per lo svolgimento delle attività di controllo previste dalla presente legge;
   l) il censimento degli edifici nei quali siano presenti materiali o prodotti contenenti amianto libero o in matrice friabile, con priorità per gli edifici pubblici, per i locali aperti al pubblico o di utilizzazione collettiva e per i blocchi di appartamenti.
3. I piani di cui al comma 1 devono armonizzarsi con i piani di organizzazione dei servizi di smaltimento dei rifiuti di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10.09.1982, n. 915, e successive modificazioni e integrazioni.
4. Qualora le regioni o le province autonome di Trento e di Bolzano non adottino il piano ai sensi del comma 1, il medesimo è adottato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri su proposta del Ministro della sanità, di concerto con il Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato e con il Ministro dell'ambiente, entro novanta giorni dalla scadenza del termine di cui al medesimo comma 1.
”) dai quali si evince che la competenza in materia di individuazione dei siti che devono essere utilizzati per l'attività di smaltimento dei rifiuti di amianto pertiene alle Regioni.
4.1.2. Alla stregua di tale punto fermo, la contestata disposizione di cui all’art. 15 delle NTA del Piano Regionale stabilisce che non sarebbero ammissibili nuove volumetrie di discarica, ad eccezione dell’ipotesi in cui siano presenti discariche per un raggio di 10 Km, interpretata nel senso di ritenere che l’esistenza di qualsiasi discarica per rifiuti non pericolosi impedisca la realizzazione dell’impianto proposto da parte appellata non può essere censurata di illegittimità in quanto:
   a) la regione ha esercitato una potestà “propria”;
   b) come ancora di recente stabilito da questa Sezione del Consiglio di Stato (sentenza n. 5340 del 16.12.2016) “ancora assai di recente (sentenza del 23/07/2015, n. 180) la Corte Costituzionale ha avuto modo di precisare che “la disciplina dei rifiuti è riconducibile alla materia «tutela dell'ambiente e dell'ecosistema», di competenza esclusiva statale ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., anche se interferisce con altri interessi e competenze, di modo che deve intendersi riservato allo Stato il potere di fissare livelli di tutela uniforme sull'intero territorio nazionale, ferma restando la competenza delle Regioni alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali (tra le molte, sentenze n. 67 del 2014, n. 285 del 2013, n. 54 del 2012, n. 244 del 2011, n. 225 e n. 164 del 2009 e n. 437 del 2008).
Pertanto, la disciplina statale «costituisce, anche in attuazione degli obblighi comunitari, un livello di tutela uniforme e si impone sull'intero territorio nazionale, come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza, per evitare che esse deroghino al livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato, ovvero lo peggiorino -sentenze n. 314 del 2009, n. 62 del 2008 e n. 378 del 2007-» (sentenza n. 58 del 2015)” (si veda, in passato, anche la ricostruzione contenuta della condivisibile recente decisione del Consiglio di Stato sez. V, 26/01/2015 n. 313 da intendersi integralmente qui richiamata)
”;
   c) la norma impugnata non introduce certo una “soglia inferiore di tutela” ma, semmai, persegue “livelli di tutela più elevati” e detta prescrizione si lega ad una materia a competenza concorrente (quella della tutela della salute ai sensi dell’articolo 117, comma 3, della Costituzione- si veda in proposito, tra le altre Corte Costituzionale decisione n. 248 del 24.07.2009 considerando n. 2.1.), e la significativa affermazione secondo cui l’eventuale esigenza di contemperare la liberalizzazione del commercio con quelle di una maggiore tutela della salute, del lavoro, dell’ambiente e dei beni culturali deve essere intesa in senso sistematico, complessivo e non frazionato, è stata a più riprese ribadita dal Giudice delle leggi (si vedano le sentenze della Corte Costituzionale nn. 85/2013 e 264/2012) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.05.2017 n. 2305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il termine per la redazione della sentenza non è soggetto al sospensione dei termini per ferie.
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1.1. Il ricorrente denuncia la violazione di legge penale ed il vizio di motivazione evidenziando come, a seguito delle modifiche alla legge 07.10.1969, n. 742 (apportate con d.l. 12.09.2014, n. 132, convertito con modificazioni nella legge 10.11.2014, n. 162), durante il periodo di trenta giorni di ferie delle magistrature (dal 10 al 31 agosto), debba ritenersi sospeso il decorso dei termini per il compimento da parte del magistrato degli atti relativi all'esercizio delle funzioni giudiziarie, con conseguente posticipazione del termine per il deposito della sentenza, eventualmente ricadente in periodo feriale, al periodo successivo.
2. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
3.
Costituisce principio di diritto acquisito, sancito da questa Corte anche a Sezioni Unite, che il termine per la redazione della motivazione della sentenza non è soggetto alla disciplina della sospensione feriale dei termini, diversamente da quello assegnato per l'impugnazione della sentenza depositata nel corso di tale periodo, che inizia a decorrere una volta che questo si sia concluso (Sez. U, n. 7478 del 19/06/1996, Giacomini, Rv. 205335).
Principio di diritto che non può ritenersi superato dalla mera riduzione del periodo ferie delle magistrature da quarantacinque a trenta giorni disposto dal legislatore con il sopra ricordato intervento riformatore del 2014 (Sez. 4, n. 15753 del 05/03/2015, Basile, Rv. 263144).
4. Della sopra delineata regula iuris ha fatto ineccepibile applicazione il Collegio di merito, atteso che, avendo riguardo alla scadenza del termine di deposito della sentenza (09.08.2015), il termine per presentare l'appello scadeva -a norma dell'art. 585 cod. proc. pen.-, il 15.10.2015 ed era, pertanto, ampiamente scaduto alla data di presentazione dell'appello in data 22.10.2015 (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 11.05.2017 n. 23054).

VARI: Commette il reato di minaccia chi invita un giornalista “a stare attento professionalmente”.
Secondo il consolidato orientamento esegetico di questa Corte —ai fini dell'integrazione del reato di minaccia- non è necessario che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito, essendo semplicemente sufficiente che la condotta posta in essere dall'agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale del soggetto passivo.
In realtà,
il delitto di minaccia è reato di pericolo che non presuppone la concreta intimidazione della persona offesa, ma solo la comprovata idoneità della condotta ad intimidirla. Detto altrimenti, la norma che incrimina la minaccia delinea un reato di pericolo, per la cui integrazione non è richiesto che il bene tutelato sia realmente leso mediante l'incussione di timore nella vittima. È sufficiente, invece, che il male prospettato sia idoneo a incutere timore nel soggetto passivo, menomandone, per ciò solo, la sfera della libertà morale.
Dunque, ritiene la Corte che
il reato di minaccia richiede il riferimento esplicito, chiaro ed inequivocabile ad un male ingiusto, idoneo, in considerazione delle concrete circostanze di tempo e di luogo, ad ingenerare timore in chi risulti esserne il destinatario).
Per la integrazione del reato di cui qui in discussione, è sufficiente che il male prospettato sia idoneo a incutere timore nel soggetto passivo, menomandone, per ciò solo, la sfera della libertà morale
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Del resto, deve essere ribadito ancora una volta il principio secondo cui, verbatim, "
Il reato di minaccia è un reato formale di pericolo, per la cui integrazione non è richiesto che il bene tutelato sia realmente leso, bastando che il male prospettato possa incutere timore nel soggetto passivo, menomandone la sfera della libertà morale; la valutazione dell'idoneità della minaccia a realizzare tale finalità va fatta avendo di mira un criterio di medialità che rispecchi le reazioni dell'uomo comune".
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2. Il ricorso è infondato.
2.1 La prima questione devoluta all'attenzione di questa Corte involge il problema della qualificazione giuridica delle condotte ascritte all'imputato, giacché, secondo gli assunti difensivi, le frasi pronunciate dall'imputato alla persona offesa, e cioè "devi stare attento professionalmente, anzi incontriamoci personalmente, da soli", non integrerebbero il presupposto oggettivo del reato di cui all'art. 612, cod. pen., non essendo, peraltro, idonee ad intimorire, anche in ragione delle circostanze di luogo, di tempo e di modalità di propalazione, la persona offesa dal reato.
2.2 Il Collegio è invece di contrario avviso, ritenendo che le condotte contestate nell'editto accusatorio integrino il reato di minaccia.
2.2.1 Ed invero,
secondo il consolidato orientamento esegetico di questa Corte —ai fini dell'integrazione del reato di minaccia- non è necessario che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito, essendo semplicemente sufficiente che la condotta posta in essere dall'agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale del soggetto passivo (Sez. 1, n. 44128 del 03/05/2016 - dep. 18/10/2016, Nino, Rv. 26828901; cfr., anche ex plurimis, Sez. 5, n. 46528 del 02/12/2008 - dep. 17/12/2008, Parlato e altri, Rv. 24260401: fattispecie in cui in applicazione di questo principio la S.C. ha censurato la decisione del giudice di merito -che aveva escluso il contenuto intimidatorio delle seguenti espressioni rivolte ad alcuni giocatori di una squadra di calcio e contenute in una lettera anonima, pubblicata su un quotidiano sportivo: "ci hanno sempre dipinto come un gruppo violento che negli ultimi anni è maturato. Per l'amore della maglia ... siamo disposti a tornare indietro. Non metteteci alla prova. Fiduciosi nella vostra intelligenza, per l'ultima volta vi salutiamo"- ritenendo che fossero volte non tanto ad intimidire i calciatori, quanto ad esternare il malcontento della tifoseria nei confronti di alcuni di essi, adoperando il linguaggio colorito che sarebbe "prassi costante" nel mondo calcistico).
In realtà,
il delitto di minaccia è reato di pericolo che non presuppone la concreta intimidazione della persona offesa, ma solo la comprovata idoneità della condotta ad intimidirla (Sez. 1, n. 47739 del 06/11/2008 - dep. 23/12/2008, Giuliani, Rv. 24248401). Detto altrimenti, la norma che incrimina la minaccia delinea un reato di pericolo, per la cui integrazione non è richiesto che il bene tutelato sia realmente leso mediante l'incussione di timore nella vittima. È sufficiente, invece, che il male prospettato sia idoneo a incutere timore nel soggetto passivo, menomandone, per ciò solo, la sfera della libertà morale (Sez. 6, n. 14628 del 18/10/1999 - dep. 23/12/1999, Cafagna G, Rv. 21632101).
Dunque, ritiene la Corte che
il reato di minaccia richiede il riferimento esplicito, chiaro ed inequivocabile ad un male ingiusto, idoneo, in considerazione delle concrete circostanze di tempo e di luogo, ad ingenerare timore in chi risulti esserne il destinatario (così, peraltro, anche Sez. 5, n. 51246 del 30/09/2014 - dep. 10/12/2014, Marotta, Rv. 26135701).
2.2.2 Ciò premesso, osserva la Corte come, nel caso di specie, le due frasi pronunziate dall'imputato, peraltro del tutto scollegate, per quanto emerge dalla lettura degli atti da una possibile rivendicazione —questa sì legittima— di tutela dei propri diritti in relazione alla pubblicazione del predetto articolo sulla Gazzetta del Mezzogiorno attraverso il ricorso all'autorità giudiziaria (si legga, in tal senso, la possibile presentazione di una querela per diffamazione a mezzo stampa al giornalista ritenuto "incauto" della propalazione della notizia) — rivestano effettiva valenza minacciosa proprio per il modo in cui sono state pronunciate ed anche per l'ulteriore avvertimento di risolvere la "questione" in separata sede da soli, e dunque senza la presenza di testimoni.
Peraltro, anche la frase dall'inequivoco contenuto intimidatorio di "stare attento professionalmente", per come pronunciata (unitamente all'altra da ultimo ricordata), non può essere letta, come vorrebbe la parte ricorrente, come un semplice monito al giornalista di tenere un comportamento più corretto nell'espletamento della professione svolta da quest'ultimo, quanto piuttosto come la minaccia di possibili ritorsioni nel campo lavoristico in danno della persona offesa.
Ciò, secondo la giurisprudenza sopra richiamata (cui anche questo Collegio intende fornire continuità applicativa) e tenendo a mente il principio secondo cui,
per la integrazione del reato di cui qui in discussione, è sufficiente che il male prospettato sia idoneo a incutere timore nel soggetto passivo, menomandone, per ciò solo, la sfera della libertà morale, non può che far concludere questa Corte nel ritenere che sia stata corretta la qualificazione giuridica fornita dai giudici di merito e che si sia, pertanto, integrato il delitto di minacce.
Del resto, deve essere, anche in questo contesto decisorio, ribadito ancora una volta il principio secondo cui, verbatim, "
Il reato di minaccia è un reato formale di pericolo, per la cui integrazione non è richiesto che il bene tutelato sia realmente leso, bastando che il male prospettato possa incutere timore nel soggetto passivo, menomandone la sfera della libertà morale; la valutazione dell'idoneità della minaccia a realizzare tale finalità va fatta avendo di mira un criterio di medialità che rispecchi le reazioni dell'uomo comune" (Sez. 5, n. 8264 del 29/05/1992 - dep. 23/07/1992, Mascia, Rv. 19143301) (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 10.05.2017 n. 22710).

URBANISTICAL’art. 9, primo comma, della l. 17.08.1942 n. 1150 (legge urbanistica) prevede che “il progetto di piano regolatore generale del Comune deve essere depositato nella Segreteria comunale per la durata di 30 giorni consecutivi, durante i quali chiunque ha facoltà di prendere visione. L'effettuato deposito è reso noto al pubblico nei modi che saranno stabiliti nel regolamento di esecuzione della presente legge”.
L’obbligo di pubblicazione del piano regolatore risulta strumentale alla migliore partecipazione e collaborazione dei cittadini e di chiunque vi abbia interesse alla attività di pianificazione del territorio comunale, anche attraverso, in particolare, la presentazione delle previste osservazioni. Tale pubblicazione, tuttavia, non deve essere ripetuta laddove il Piano regolatore riceva modifiche in dipendenza proprio dell’accoglimento di osservazioni presentate, o anche per effetto di modifiche introdotte a seguito di espressa richiesta rappresentata dalla Regione in sede di approvazione.
Se ciò non fosse, si perverrebbe al paradossale risultato di un appesantimento incongruo, se non ad un effetto paralizzante, del procedimento amministrativo, rendendo la partecipazione non più strumento di collaborazione e funzionale alla migliore valutazione degli interessi coinvolti, quanto elemento di defatigante gestione procedimentale. Tale conclusione, del tutto ragionevole e condivisibile, cui è già pervenuta la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, incontra l'unica eccezione dell'ipotesi in cui l'accoglimento delle osservazioni (o comunque la modifica introdotta) abbia comportato una profonda deviazione dai criteri posti a base del piano stesso, nel qual caso occorre una nuova pubblicazione e la conseguente raccolta delle nuove osservazioni.

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Un obbligo di ripubblicazione è prospettabile solo quando le modifiche introdotte superino il limite di rispetto dei canoni guida del Piano adottato, in altre parole solo nell’ipotesi in cui vi sia stata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione rispettivamente hanno presieduto e presiedono.
Viceversa detto obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree.
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4.1 La generale questione della necessità di ripubblicare o meno lo strumento pianificatorio generale (riflessione che può essere estesa alla fattispecie, pur trattandosi di pianificazione di livello sovracomunale) è stata risolta dalla giurisprudenza dei giudici d’appello (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI – 19/04/2017 n. 1829, che ha richiamato il precedente della sez. IV – 08/06/2011 n. 3497) nel senso di seguito esposto: <<L’art. 9, primo comma, della l. 17.08.1942 n. 1150 (legge urbanistica) prevede che “il progetto di piano regolatore generale del Comune deve essere depositato nella Segreteria comunale per la durata di 30 giorni consecutivi, durante i quali chiunque ha facoltà di prendere visione. L'effettuato deposito è reso noto al pubblico nei modi che saranno stabiliti nel regolamento di esecuzione della presente legge”.
L’obbligo di pubblicazione del piano regolatore risulta strumentale alla migliore partecipazione e collaborazione dei cittadini e di chiunque vi abbia interesse alla attività di pianificazione del territorio comunale, anche attraverso, in particolare, la presentazione delle previste osservazioni. Tale pubblicazione, tuttavia, non deve essere ripetuta laddove il Piano regolatore riceva modifiche in dipendenza proprio dell’accoglimento di osservazioni presentate, o anche per effetto di modifiche introdotte a seguito di espressa richiesta rappresentata dalla Regione in sede di approvazione.
Se ciò non fosse, si perverrebbe al paradossale risultato di un appesantimento incongruo, se non ad un effetto paralizzante, del procedimento amministrativo, rendendo la partecipazione non più strumento di collaborazione e funzionale alla migliore valutazione degli interessi coinvolti, quanto elemento di defatigante gestione procedimentale. Tale conclusione, del tutto ragionevole e condivisibile, cui è già pervenuta la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (sez. IV, 11.10.2007 n. 5357), incontra l'unica eccezione dell'ipotesi in cui l'accoglimento delle osservazioni (o comunque la modifica introdotta) abbia comportato una profonda deviazione dai criteri posti a base del piano stesso, nel qual caso occorre una nuova pubblicazione e la conseguente raccolta delle nuove osservazioni
>>.
Recentemente, anche questa Sezione si è pronunciata sulla questione (cfr. sez. I – 09/01/2017 n. 29 che ha richiamato TAR Campania Napoli, sez. I – 11/03/2015 n. 1510; sez. VIII – 07/03/2013 n. 1287 e Consiglio di Stato, sez. IV – 04/12/2013 n. 5769), osservando che un obbligo di ripubblicazione è prospettabile solo quando le modifiche introdotte superino il limite di rispetto dei canoni guida del Piano adottato, in altre parole solo nell’ipotesi in cui vi sia stata una rielaborazione complessivamente innovativa del piano stesso e cioè un mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua impostazione rispettivamente hanno presieduto e presiedono; viceversa detto obbligo non sussiste nel caso in cui le modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario, quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di singole aree o gruppi di aree (si veda anche, nello stesso senso, TAR Lombardia Milano, sez. II – 13/04/2017 n. 856, che ha richiamato numerosi precedenti del Consiglio di Stato)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 08.05.2017 n. 614 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le osservazioni dei privati agli strumenti urbanistici adottati consistono in meri apporti collaborativi: di conseguenza, il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, ma è sufficiente che i rilievi siano stati affrontati e ritenuti in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano.
Alla luce di ciò, è certamente ammissibile il raggruppamento dei suggerimenti provenienti dai soggetti privati secondo parametri funzionali e il loro esame collettivo (anche per macro-settori di interesse), e così pure l’individuazione di un’unica proposta di controdeduzioni, alla luce delle molteplici posizioni coinvolte e della necessità di non paralizzare o prolungare eccessivamente l’iter di approvazione del Piano.

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5. Parimenti infondata (a prescindere dall’eccezione in rito formulata) è l’ulteriore censura (cfr. paragrafo D.XI), non essendo ravvisabile alcuna violazione dei principi fondamentali in materia di funzionamento degli organi collegiali.
Le osservazioni, infatti, sono state raggruppate per gruppi di tematiche (17, come rammenta la difesa provinciale), e in proposito si sottolinea il consolidato e indiscusso approdo per cui le osservazioni dei privati agli strumenti urbanistici adottati consistono in meri apporti collaborativi: di conseguenza, il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, ma è sufficiente che i rilievi siano stati affrontati e ritenuti in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano (cfr. per tutte TAR Lombardia Milano, sez. II – 29/11/2016 n. 2250).
Alla luce di ciò, è certamente ammissibile il raggruppamento dei suggerimenti provenienti dai soggetti privati secondo parametri funzionali e il loro esame collettivo (anche per macro-settori di interesse), e così pure l’individuazione di un’unica proposta di controdeduzioni, alla luce delle molteplici posizioni coinvolte e della necessità di non paralizzare o prolungare eccessivamente l’iter di approvazione del Piano
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 08.05.2017 n. 614 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In materia di pianificazione, può ritenersi sussistente un affidamento qualificato solo in presenza di piani di lottizzazione già approvati, ovvero altri tipi di accordi tra l’amministrazione ed il privato aventi ad oggetto l’immobile che subisce la modifica di destinazione, mentre non genera alcun affidamento qualificato il semplice fatto che nella precedente pianificazione un immobile avesse una diversa destinazione.
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6.1 E’ pur vero che, in materia di pianificazione, può ritenersi sussistente un affidamento qualificato solo in presenza di piani di lottizzazione già approvati, ovvero altri tipi di accordi tra l’amministrazione ed il privato aventi ad oggetto l’immobile che subisce la modifica di destinazione, mentre non genera alcun affidamento qualificato il semplice fatto che nella precedente pianificazione un immobile avesse una diversa destinazione (cfr. TAR Sicilia Palermo, sez. III – 01/03/2016 n. 612).
Tuttavia, come correttamente evidenziato dai ricorrenti, nel precedente progetto di PTCP adottato nel 2009 le aree erano incluse entro la categoria di “suolo urbanizzato o urbanizzabile” e in data 02/12/2008 la Provincia aveva espresso parere di compatibilità nel procedimento SUAP attivato dal Comune di Ospitaletto.
In proposito, le criticità evidenziate riguardavano la viabilità, senza cenno alcuno alle caratteristiche paesaggistiche ovvero “strategiche” delle aree aventi destinazione agricola
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 08.05.2017 n. 614 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA• nella formazione dello strumento urbanistico e nelle scelte che presiedono all’approvazione di varianti generali, l’amministrazione vanta di regola un’ampia potestà discrezionale per cui, salva l’esistenza di un piano attuativo approvato e convenzionato, nessun affidamento deriva dalla diversa destinazione pregressa della medesima area: l’autorità pianificatoria può anche apportare modificazioni «peggiorative» rispetto agli interessi del proprietario, in capo al quale è configurabile nulla più che una generica aspettativa al mantenimento della destinazione urbanistica gradita, ovvero a una reformatio in melius, analoga a quella di ogni altro proprietario di aree che aspiri ad una utilizzazione comunque proficua dell'immobile;
• le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale attengono al merito dell’azione amministrativa e non sono sindacabili, a meno che risultino inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare.
E' vero tuttavia, che “la verifica e la scelta della destinazione edificatoria, pure riservate al potere discrezionale, devono raccordarsi con la più generale disciplina urbanistica e rivelarsi altresì satisfattive dell’interesse pubblico al corretto ed armonico utilizzo del territorio, nel contemperamento delle varie esigenze della popolazione che su tale ambito insiste ed opera …”;
• costituisce approdo consolidato e indiscusso quello secondo cui le osservazioni dei privati ai progetti di strumenti urbanistici sono un mero apporto collaborativo e non danno luogo ad affidamento, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo sufficiente che esse siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste alla base della formazione del Piano.
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1. E’ utile anzitutto richiamare, sinteticamente, alcuni consolidati principi giurisprudenziali della materia oggetto del contendere:
   • nella formazione dello strumento urbanistico e nelle scelte che presiedono all’approvazione di varianti generali, l’amministrazione vanta di regola un’ampia potestà discrezionale per cui, salva l’esistenza di un piano attuativo approvato e convenzionato, nessun affidamento deriva dalla diversa destinazione pregressa della medesima area: l’autorità pianificatoria può anche apportare modificazioni «peggiorative» rispetto agli interessi del proprietario, in capo al quale è configurabile nulla più che una generica aspettativa al mantenimento della destinazione urbanistica gradita, ovvero a una reformatio in melius, analoga a quella di ogni altro proprietario di aree che aspiri ad una utilizzazione comunque proficua dell'immobile (TAR Toscana, sez. I – 16/01/2017 n. 38 e la propria giurisprudenza menzionata; la sentenza evocata ha aggiunto che “La mera adozione della variante non poteva perciò produrre alcun effetto di affidamento dovendo tale atto essere sottoposto all’esame del Consiglio comunale dopo la presentazione delle osservazioni”);
   • le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale attengono al merito dell’azione amministrativa e non sono sindacabili, a meno che risultino inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare; è vero tuttavia, che “la verifica e la scelta della destinazione edificatoria, pure riservate al potere discrezionale, devono raccordarsi con la più generale disciplina urbanistica e rivelarsi altresì satisfattive dell’interesse pubblico al corretto ed armonico utilizzo del territorio, nel contemperamento delle varie esigenze della popolazione che su tale ambito insiste ed opera …” (TAR Lombardia Milano, sez. II – 16/01/2017 n. 102 e giurisprudenza richiamata);
   • costituisce approdo consolidato e indiscusso quello secondo cui le osservazioni dei privati ai progetti di strumenti urbanistici sono un mero apporto collaborativo e non danno luogo ad affidamento, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo sufficiente che esse siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste alla base della formazione del Piano (Consiglio di Stato, sez. I – 05/10/2016 n. 2050)  (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 20.02.2017 n. 249 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI climatizzatori o i condizionatori, per consolidata giurisprudenza amministrativa, costituiscono impianti tecnologici e pertanto se collocati, come nella specie, all'esterno dei fabbricati, rientrano nel novero degli interventi edilizi definiti dall'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001 sicché sono assoggettati alla relativa normativa di settore, con la conseguenza che la loro realizzazione o installazione, seppure non necessitante del permesso di costruire, è tuttavia soggetta a segnalazione certificata di inizio di attività (S.C.I.A.) ai sensi dell'art. 22 d.P.R. n. 380 del 2001.
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L'esecuzione in assenza o in difformità degli interventi subordinati a denuncia di inizio attività (DIA) ex art. 22, commi 1 e 2, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (ora S.C.I.A.), allorché non conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia in vigore, comporta l'applicazione della sanzione penale prevista dall'art. 44 lett. a), del citato d.P.R. n. 380, atteso che soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o difformità dalla DIA (ora S.C.I.A.), ma conformi alla citata disciplina, è applicabile la sanzione amministrativa prevista dall'art. 37 dello stesso decreto n. 380 del 2001
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Nel caso di specie, l'installazione del condizionatore d'aria è stata eseguita in violazione dell'art. 17 del regolamento edilizio comunale e senza la segnalazione di inizio di attività, sicché correttamente è stata ritenuta la violazione dell'art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001.
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L'opera installata dalla ricorrente non rientrava, dunque, tra le attività edilizie libere ossia tra gli interventi eseguibili senza alcun titolo abilitativo.
Va quindi ricordato che, anche con riferimento a tali ultimi interventi, sono sempre fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e comunque l'attività edilizia cd. libera deve essere attuata nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all'efficienza energetica nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al dlgs 22.01.2004, n. 42 (art. 6, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001).

Ne consegue che,
essendo stato l'intervento eseguito in zona nella quale era imposto il vincolo paesaggistico, l'esecuzione dell'opera era condizionata al rilascio del nulla osta da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, derivando dal mancato rilascio dell'autorizzazione paesaggistica l'integrazione della fattispecie di reato prevista dall'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004.
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1. E' impugnata la sentenza con la quale la Corte di appello di Lecce ha confermato la decisione resa dal Tribunale di Brindisi, sezione distaccata di Ostuni, che aveva condannato Ca.An.Pa. alla pena alla pena di gg. 15 di arresto e 23.000,000 euro di ammenda, sostituita la pena detentiva nella corrispondente pena pecuniaria di 570,00 euro di ammenda, rideterminando la pena complessivamente inflitta in 23.570,00 euro di ammenda per il reato (capo a) previsto dagli artt. 81 cod. pen. e 44, lett. a), d.P.R. 06.06.2001, n. 380 per avere, in qualità di committente, installato, in area sottoposta a vincolo paesaggistico, un condizionatore d'aria a servizio del proprio esercizio commerciale in assenza di alcun titolo autorizzativo e del reato (capo b) previsto dall'art. 181 d.lgs. 22.01.2004, n. 42 per aver eseguito i lavori di cui al precedente capo a) in zona sottoposta al vincolo paesaggistico in Ostuni il 14.10.2008.
2. Per l'annullamento dell'impugnata sentenza, ricorre per cassazione, a mezzo del difensore, Ca.An.Pa. affidando il gravame a quattro motivi.
2.1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia l'erronea ed illegittima applicazione dell'art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001 (art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen.) sul rilievo che la micro e temporanea apparecchiatura tecnologica allocata dalla ricorrente all'esterno della sua micro attività non rientrava, in alcun modo, nella previsione di cui all'art. 44, lett. a), del DPR 380 del 2001 non avendo la ricorrente ha posto in essere alcuna attività urbanistica edilizia. Alla ricorrente si contesta, infatti, la presunta violazione dell'art. 17 del regolamento edilizio comunale che non ha natura normativa e/o precettiva, ma meramente descrittiva di come vanno allocati micro impianti tecnologici, come nel caso in esame.
Ne consegue che la predetta regolamentazione tecnica non rientra e non può rientrare nella previsione dell'art. 44, lett. a), del DPR 380 del 2001 atteso che la temporanea installazione di un piccolo supporto tecnologico non può configurare e/o costituire attività urbanistica-edilizia, non incidendo minimamente sull'uso del territorio.
2.2. Con il secondo motivo, deduce la violazione della legge penale in relazione all'art. 54 cod. pen. (art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen.) per aver la Corte territoriale ignorato il prospettato e documentato stato di necessità in cui versava la ricorrente, dovendo il suo operato essere inquadrato in una condizione di necessità non altrimenti risolvibile.
2.3. Con il terzo motivo lamenta la violazione dell'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004 (art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen.) in quanto la contestazione mossa alla ricorrente di presunta violazione della disciplina del vincolo paesaggistico sarebbe del tutto illegittima posto che l'ambiente in cui insisteva il manufatto tecnologico di natura stagionale, precaria e rimovibile non aveva alcuna incidenza sotto il profilo paesaggistico.
2.4. Con il quarto motivo si duole del vizio di falsa applicazione della legge penale e del difetto di motivazione (art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen.) in ordine al diniego della concessione dei doppi benefici di legge (sospensione condizionale della pena e non menzione della condanna) per la violazione del principio di proporzionalità atteso che la ritenuta e lieve entità dell'intervento per cui è processo avrebbe dovuto indurre il Giudice del merito a concedere gli invocati doppi benefici.
...
1. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi e per la proposizione di essi nei casi non consentiti.
2. Quanto al primo motivo, è sufficiente osservare come
i climatizzatori o i condizionatori, per consolidata giurisprudenza amministrativa (ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI n. 4744 del 01/10/2008), costituiscono impianti tecnologici e pertanto se collocati, come nella specie, all'esterno dei fabbricati, rientrano nel novero degli interventi edilizi definiti dall'art. 3 d.P.R. n. 380 del 2001 sicché sono assoggettati alla relativa normativa di settore, con la conseguenza che la loro realizzazione o installazione, seppure non necessitante del permesso di costruire, è tuttavia soggetta a segnalazione certificata di inizio di attività (S.C.I.A.) ai sensi dell'art. 22 d.P.R. n. 380 del 2001.
L'articolo 3, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001 (come modificato dall'art. 17, comma 1, decreto legge 12.09.2014, n. 133 convertito, nelle more tra la decisione e la redazione della presente sentenza, nella legge 11.11.2014, n. 164) tuttora include tra gli interventi di manutenzione straordinaria "le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e non comportino modifiche delle destinazioni di uso", e l'articolo 22, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001 richiede, per tali interventi, una S.C.I.A., trattandosi dell'istallazione di impianti che si pongano in rapporto di strumentalità necessaria rispetto a edifici preesistenti.
Il cosiddetto decreto "Sblocca Italia" (decreto legge 12.09.2014, n. 133 convertito in legge 11.11.2014, n. 164) ha introdotto modifiche alla nozione di "manutenzione straordinaria", irrilevanti ai fini dello scrutinio della questione sottoposta alla Corte, in quanto il riferimento a "volumi e superfici delle singole unità immobiliari" è stato modificato, come si è in precedenza segnalato, nel concetto di "volumetria complessiva degli edifici" ed inoltre rientrano, per quanto qui interessa, nella categoria della manutenzione straordinaria anche gli interventi di frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere, anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico, a condizione che non sia modificata la volumetria complessiva degli edifici e si mantenga l'originaria destinazione.
Ciò posto, questa Corte ha affermato che
l'esecuzione in assenza o in difformità degli interventi subordinati a denuncia di inizio attività (DIA) ex art. 22, commi 1 e 2, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (ora S.C.I.A.), allorché non conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia in vigore, comporta l'applicazione della sanzione penale prevista dall'art. 44 lett. a), del citato d.P.R. n. 380, atteso che soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o difformità dalla DIA (ora S.C.I.A.), ma conformi alla citata disciplina, è applicabile la sanzione amministrativa prevista dall'art. 37 dello stesso decreto n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 41619 del 22/11/2006, Cariello, Rv. 235413; Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 243099).
Nel caso di specie, l'installazione del condizionatore d'aria è stata eseguita in violazione dell'art. 17 del regolamento edilizio comunale e senza la segnalazione di inizio di attività, sicché correttamente è stata ritenuta la violazione dell'art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001.
3. Il terzo ed il quarto motivo di gravame attengono a questioni che sono state già proposte al giudice d'appello e sono state motivatamente respinte.
L'opera installata dalla ricorrente non rientrava, dunque, tra le attività edilizie libere ossia tra gli interventi eseguibili senza alcun titolo abilitativo. Va quindi ricordato che, anche con riferimento a tali ultimi interventi, sono sempre fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali e comunque l'attività edilizia cd. libera deve essere attuata nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all'efficienza energetica nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (art. 6, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001).
Ne consegue che,
essendo stato l'intervento eseguito in zona nella quale era imposto il vincolo paesaggistico, l'esecuzione dell'opera era condizionata al rilascio del nulla osta da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, derivando dal mancato rilascio dell'autorizzazione paesaggistica l'integrazione della fattispecie di reato prevista dall'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004 (manifesta infondatezza del terzo motivo).
Quanto al diniego dei benefici di legge, la Corte territoriale ha osservato, con congrua motivazione, che due precedenti condanne riportate dalla ricorrente rendevano infausta la prognosi relativa all'astensione dalla futura commissione di ulteriori reati (manifesta infondatezza del quarto motivo di gravame).
Va solo precisato come questa Corte abbia affermato il principio secondo il quale è inammissibile il ricorso per cassazione fondato, come nella specie, sugli stessi motivi proposti con l'appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l'insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato (Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, Cariolo ed altri, Rv. 260608) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.01.2015 n. 952).

 
 

Continuano imperterriti gli interrogativi in ordine all'«elemosina di Stato», ergo l'«incentivo funzioni tecniche»:

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: 1. Il legislatore del 2016 ha risolto le questioni di diritto transitorio scegliendo l’opzione dell’ultrattività, consentendo, così, che il regime previgente continui ad operare in relazione “alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi siano stati pubblicati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016”.
Ne deriva che l’istituto previsto dall’art. 113 non è applicabile alle procedure bandite prima della data di entrata in vigore del nuovo “Codice”; non può inoltre aversi ripartizione del fondo agli aventi diritto se non dopo l’adozione del regolamento di cui al comma 3 dell’art. 113.
   2. La Sezione non può che rinviare a quanto disposto dal comma 3 dell’articolo in esame in ordine al fatto che le modalità e i criteri di ripartizione sono stabiliti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti.
   3. La disposizione in esame non sembra delimitare in senso escludente l’incentivabilità di dette funzioni in ragione dell’oggetto del contratto; tale interpretazione è ormai avvalorata dalla giurisprudenza della Corte in sede consultiva che, da un lato, ammette che gli incentivi siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e forniture e, dall’altro, che tra i beneficiari degli stessi non possano comprendersi coloro che svolgono attività relative alla progettazione e al coordinamento della sicurezza.
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Il Sindaco del Comune di Besana in Brianza (MB) ha formulato una richiesta di parere in merito al regolamento per la ripartizione del fondo di cui all’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
In particolare, il rappresentante dell’Ente, dovendo procedere alla redazione del regolamento di cui all'art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, chiede un parere in merito ai seguenti aspetti.
   - “In primo luogo, sorge il dubbio in merito alla possibilità di riconoscere al personale dipendente gli incentivi per le opere effettivamente portate a termine nei periodi da1 19.08.2014 al 18.04.2016 (periodo di vigenza del citato art. 93, comma 7-bis, Divo 163/2006) e dal 19.04.2016 alla data di approvazione del predisponendo regolamento;
   - In secondo luogo, qualora si configuri la possibilità di procedere alla liquidazione; si devono stabilire le modalità con le quali effettuare la ripartizione delle somme destinate-agli incentivi;
   - In terzo luogo, in merito alla tipologia delle attività alle quali applicare il regolamento in parola si chiede se le attività di manutenzione possano o meno essere ricomprese.
Per quanto riguarda il primo ed il secondo punto, ci risulta di difficile comprensione il
parere 07.09.2016 n. 353 reso dalla Corte dei Conti sezione regionale di Controllo per il Veneto. Sinteticamente, la Corte rispondeva affermando che non è possibile adottare un regolamento avente efficacia retroattiva in quanto ciò è illegittimo a meno di espressa disposizione di legge, ma che è invece possibile accantonare delle somme per la successiva liquidazione, concludendo che ove poi il regolamento successivamente adottato dall'ente dovesse individuare una percentuale inferiore a quella già stabilita dall'ente, la parte dell'accantonamento non utilizzata concorrerà alla determinazione del risultato di amministrazione.
A prima vista, la seconda risposta pare in contraddizione con la prima, a meno di voler sviluppare la risposta nel modo seguente:
   • non è più possibile adottare un regolamento che disciplini la fattispecie sulla base delle previsioni dì cui all'art. 93, comma 7-bis, D.Lvo 163/2006, a seguito della sua abrogazione da parte del successivo D.Lvo 50/2016;
   • è invece possibile e anzi doveroso adottare un nuovo regolamento in ossequio al D.Lvo 50/2016;
   • le somme accantonate per opere effettivamente portate a termine nel periodo dal 19.08.2014 alla data di adozione del nuovo regolamento andranno ripartite e liquidate secondo i criteri ivi previsti, informati al D.Lvo 50/2016.
Alternativamente, si chiede se è possibile ripartire e liquidare le somme accantonate e calcolate tenendo conto dei limiti massimi imposti dalla normativa vigente nel tempo utilizzando i criteri di riparto previsti nel previgente regolamento, e questo per le opere effettivamente realizzate nel periodo dal 19.08.2014 alla data di adozione del nuovo regolamento.
Per quanto riguarda il terzo punto, il 3° comma dell'art. 113 del D.Lvo 50/2016 testualmente recita: l'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità previste in sede di contrattazione decentrata....
Precedentemente, il comma 7-ter dell'art. 93 D.Lvo 163/2006, ora abrogato, prevedeva che il fondo per la ripartizione degli incentivi di che trattasi doveva essere costituito escludendo le attività manutentive. Tale precisazione non compare nel disposto dell'art. 113 D.Lvo 50/2016.
Pertanto si chiede se, nel silenzio della nuova normativa, si deve ritenere abrogata l'esclusione delle attività di manutenzione o se, come ritiene la Corte dei Conti sezione regionale di controllo per la Sardegna con
parere 18.10.2016 n. 122, deve ritenersi tutt'ora esclusa dalla ripartizione delle risorse del fondo l'attività di manutenzione sia ordinaria sia straordinaria”.
...
3. I quesiti posti dal Comune istante sono tre, tutti riguardanti l’interpretazione dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016.
L’articolo 113 del nuovo Codice dei contratti pubblici approvato con decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 introduce nuove forme di “Incentivi per funzioni tecniche”.
La nuova normativa del Codice dei contratti pubblici, sostitutiva della precedente, ha abolito gli incentivi alla progettazione previsti dal previgente articolo 93, comma 7-ter, del decreto legislativo n. 163 del 2006 e ha introdotto nuove forme di incentivazione per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico-amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
Detto articolo recita testualmente: “1. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1 le amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
3. L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori. Gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. L'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore stabilisce i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi non conformi alle norme del presente decreto. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, incrementano la quota del fondo di cui al comma 2. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.
4. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del fondo di cui al comma 2 ad esclusione di risorse derivanti da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a destinazione vincolata è destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione anche per il progressivo uso di metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione elettronica informativa per l'edilizia e le infrastrutture, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa e di efficientamento informatico, con particolare riferimento alle metodologie e strumentazioni elettroniche per i controlli. Una parte delle risorse può essere utilizzata per l'attivazione presso le amministrazioni aggiudicatrici di tirocini formativi e di orientamento di cui all'articolo 18 della legge 24.06.1997, n. 196 o per lo svolgimento di dottorati di ricerca di alta qualificazione nel settore dei contratti pubblici previa sottoscrizione di apposite convenzioni con le Università e gli istituti scolastici superiori.
5. Per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di altri enti, può essere riconosciuta, su richiesta della centrale unica di committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto, dell'incentivo previsto dal comma 2
.”
Al riguardo si rileva che, l’articolo 1, comma 1, lettera rr), della legge delega 28.01. 2016, n. 11, ha previsto i seguenti criteri: “al fine di incentivare l'efficienza e l'efficacia nel perseguimento della realizzazione e dell'esecuzione a regola d'arte, nei tempi previsti dal progetto e senza alcun ricorso a varianti in corso d'opera, è destinata una somma non superiore al 2 per cento dell'importo posto a base di gara per le attività tecniche svolte dai dipendenti pubblici relativamente alla programmazione della spesa per investimenti, alla predisposizione e controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di direzione dei lavori e ai collaudi, con particolare riferimento al profilo dei tempi e dei costi, escludendo l'applicazione degli incentivi alla progettazione”.
Sulla materia si è espressa la Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 06.04.2017 n. 7, affermando che “gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)”.
3.1 Il primo quesito verte sulla possibilità di riconoscere al personale dipendente gli incentivi per le opere effettivamente portate a termine nel periodi dal 19.08.2014 al 18.04.2016 e nel periodo dal 19.04.2016 alla data di approvazione del regolamento di cui all’art. 113 d.lgs. n. 50 del 2016.
3.1.1 La risposta al quesito necessita, innanzitutto, di chiarire un primo elemento temporale, relativo all’entrata in vigore dell’istituto incentivante di cui all’art. 113 citato nell’ambito della complessiva disciplina introdotta con il d.lgs. n. 50 del 2016.
In via generale l’introduzione di un nuovo assetto normativo, quale quello contenuto nel d.lgs. n. 50 del 2016, determina conseguenze in ordine all’avvicendamento temporale del medesimo rispetto alla disciplina precedente.
Tali conseguenze possono trovare, almeno in astratto,
tre possibili e differenti regolazioni: a) la normativa anteriore continua ad applicarsi ai rapporti sorti prima dell’entrata in vigore del nuovo atto normativo (principio di ultrattività); b) la nuova normativa si applica anche ai rapporti pendenti (principio di retroattività); c) previsione di una regolazione autonoma provvisoria.
In mancanza di un’esplicita regolazione del regime transitorio, soccorrono il principio del divieto di retroattività (art. 11 delle preleggi: “la legge non dispone che per l’avvenire”), che impedisce di ascrivere entro l’ambito operativo di una disposizione legislativa nuova una situazione sostanziale sorta prima, e, per quanto riguarda le fattispecie sostanziali che constano di una sequenza di atti, il principio del tempus regit actum, che impone di giudicare ogni atto della procedura soggetto al regime normativo vigente al momento della sua adozione.

Il legislatore del 2016 si è fatto carico delle questioni di diritto transitorio e le ha risolte scegliendo l’opzione dell’ultrattività, consentendo, così, che il regime previgente continui ad operare in relazione “alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi siano stati pubblicati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016”. Ai sensi dell’art. 216, comma 1, infatti, le disposizioni introdotte dal d.lgs. n.50 del 2016 si applicano solo alle procedure bandite dopo la data dell’entrata in vigore del nuovo “Codice”, fatto salve le disposizioni speciali e testuali di diverso tenore.
Non ricorrendo tale ultima eventualità in relazione all’istituto dell’incentivo di cui all’art. 113, la disciplina intertemporale del medesimo non può che rinvenirsi nella regola posta in termini generali dall’art. 216, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016. Là dove, infatti, quest’ultima previsione si riferisce “al presente Codice”, si deve intendere che essa comprenda entro il proprio ambito applicativo tutte le disposizioni del decreto legislativo n. 50 del 2016.
Se il legislatore avesse voluto escludere dall’ambito applicativo del regime transitorio la norma di cui all’art. 113, lo avrebbe dovuto esplicitare, come ha fatto per le previsioni riportate nei commi dell’art. 216 successivi al primo e come espressamente stabilito, quale criterio esegetico generale della disciplina transitoria, nella clausola di apertura del primo comma.
A fronte di una espressa regola intertemporale contenuta nell’art. 216 e in difetto di univoci indici che rivelino una chiara volontà di escludere dall’operatività del principio di ultrattività le norme contenute nell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, ogni opzione ermeneutica che giunga alla conclusione di applicare a queste ultime il principio della retroattività o, comunque, la regola del tempus regit actum si rivela priva di fondamento positivo, e, pertanto, foriera di incertezze interpretative e di confusione applicativa.
Ne deriva che
l’istituto previsto dall’art. 113 non è applicabile alle procedure bandite prima della data di entrata in vigore del nuovo “Codice”.
3.1.2 L’ulteriore corollario del primo quesito è relativo all’applicabilità dell’incentivo disciplinato dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel periodo successivo all’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici ma antecedente all’introduzione del regolamento ivi richiamato.
Sul punto si è in parte pronunciata la Sezione Veneto con parere 07.09.2016 n. 353, affermando che
l’adozione del regolamento è “una condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo. Ciò, evidentemente, perché esso è destinato ad individuare le modalità ed i criteri della ripartizione, oltre alla percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo fissato dalla legge”.
Ne deriva che non può aversi ripartizione del fondo agli aventi diritto se non dopo l’adozione del regolamento di cui al comma 3 dell’art. 113. Fermo restando che la ripartizione è effettuata, come già sopra osservato, in relazione ad attività riferite a procedure bandite a partire dalla data di entrata in vigore del nuovo “Codice” e utilizzando le somme accantonate nel quadro economico riguardante la singola opera.
3.2 Il secondo quesito verte sulle modalità con le quali effettuare la ripartizione delle somme destinate agli incentivi.
Al riguardo la Sezione non può che rinviare a quanto disposto dal comma 3 dell’articolo in esame in ordine al fatto che
le modalità e i criteri di ripartizione sono stabiliti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti.
3.3 Il terzo quesito verte sulla “tipologia delle attività alle quali applicare il regolamento in parola”, chiedendo, in particolare, “se le attività di manutenzione possano o meno essere ricomprese”.
In primo luogo
la Sezione rileva la tassatività –che deriva, a tacer d’altro, dall’uso dell’avverbio “esclusivamente”- dell’elenco delle varie funzioni svolte all’interno delle fasi procedimentali che connotano gli affidamenti di contratti pubblici (programmazione, progettazione, procedura selettiva, stipulazione ed esecuzione). Con la conseguenza che possono beneficiare dell’incentivo esclusivamente i funzionari che hanno svolto i compiti espressamente indicati al comma 2 dell’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016 e che l’incentivo è causalmente collegato allo svolgimento delle attività ivi indicate.
Segnatamente gli incentivi per funzioni tecniche previsti dall’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016 possono essere corrisposti solo in presenza di una delle attività espressamente considerate dalla disposizione richiamata (così Sezione delle Autonomie, deliberazione 13.05.2016 n. 18; Sezione regionale di controllo per la Puglia, parere 13.12.2016 n. 204; Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 02.03.2017 n. 134; Sezione regionale di controllo per la Regione siciliana, parere 30.03.2017 n. 71).
La disposizione in esame non sembra, invece, delimitare in senso escludente l’incentivabilità di dette funzioni in ragione dell’oggetto del contratto a cui è finalizzato il procedimento nell’ambito del quale si svolgono le medesime. L’art. 113, infatti, utilizza a più riprese espressioni riferibili alle procedure di affidamento di contratti aventi ad oggetto servizi e forniture quali i richiami alle “verifiche di conformità”.
La stessa Sezione delle autonomie, con
deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha accolto l’assunto secondo cui il compenso incentivante di cui all’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 riguarda non soltanto i lavori, ma anche i servizi e le forniture rientranti nell’ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici ed ha al contempo dato atto del fatto che tale interpretazione è ormai avvalorata dalla giurisprudenza della Corte in sede consultiva (cfr. Sezione di controllo Lombardia, parere 16.11.2016 n. 333), che, da un lato ammette che gli incentivi siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e forniture e, dall’altro, che tra i beneficiari degli stessi non possano comprendersi coloro che svolgono attività relative alla progettazione e al coordinamento della sicurezza (cfr. anche la deliberazione 13.05.2016 n. 18 della medesima Sezione).
Né può farsi discendere dalla formulazione dell’art. 3 del d.lgs. n. 50 del 2016, in collegato disposto all’allegato I (al quale fa rinvio l’articolo 3, comma 2, lett. ll, n. 1 per definire la nozione di “lavori”), l’estromissione dei contratti di manutenzione ordinaria e straordinaria dall’ambito di applicabilità del Codice dei contratti pubblici.
Da un lato, l’articolo 3, comma 2, lett. nn) ricomprende espressamente fra i “lavori” di cui all’allegato I l’attività di manutenzione di opere in quanto tale. Lo stesso Allegato I è organizzato per specifiche attività che, a seconda del complessivo lavoro affidato, possono assurgere a tipiche attività manutentive o meno. Si pensi all’attività di tinteggiatura di cui al punto 45.44 dell’Allegato I.
Si aggiunge che il Codice dei contratti pubblici definisce espressamente le attività di manutenzione ordinaria e straordinaria nelle lettere oo-quater e oo-quinquies dell’articolo 3, comma 2, lettere che seguono la definizione di “appalti pubblici di lavori” e precedono la delimitazione della nozione di “appalti pubblici di servizi”.
Dall’altro lato, il contenuto residuale che il legislatore imprime alla nozione di “servizi”, considerata la tecnica utilizzata per la definizione della medesima nell’articolo 3, comma 2, lett. ss e lett. vv, comporta che l’eventuale esclusione dei contratti manutentivi dalla nozione di appalti di lavori abbia quale unica conseguenza la ricomprensione dei medesimi fra gli appalti dei servizi, senza che ciò possa incidere sulla riconduzione dei contratti di manutenzione nell’ambito di applicabilità del d.lgs. n. 50 del 2016 e sull’incentivabilità delle funzioni indicate nell’art. 113.
Al riguardo
si è già rilevato che la Sezione delle autonomie ritiene incentivabili non soltanto i lavori, ma anche i servizi e le forniture.
Da ultimo non può non richiamarsi il correttivo al Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 19.04.2017, n. 56, pubblicato nella G.U. in data 05.05.2017 e in vigore a partire dal 20.05.2017), ai sensi del quale gli appalti di servizi e forniture sono stati espressamente citati nel comma 1 dell’art. 113. Si aggiunge che il comma 2 del medesimo articolo è stato sostituito, prevedendo in modo espresso che il medesimo comma si applichi agli appalti relativi a servizi o forniture, limitando, tuttavia, tale eventualità al caso di nomina del direttore dell'esecuzione (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 12.06.2017 n. 191).

INCENTIVO FUNZIONI PUBBLICHE: 1. L’elenco delle attività incentivabili di cui all’art. 113, comma 2, come fatto palese dalla lettera della legge con l’utilizzo dell’avverbio “esclusivamente”, deve ritenersi tassativo e non suscettibile di interpretazione analogica.
Ne viene che
gli incentivi in parola possono essere corrisposti solo ed esclusivamente ai funzionari che hanno svolto le funzioni espressamente indicate dalla disposizione di legge sopra richiamata all’interno delle fasi procedimentali che connotano gli affidamenti di contratti pubblici (programmazione, progettazione, procedura selettiva, stipulazione ed esecuzione).
La disposizione in esame non sembra, invece, delimitare in senso escludente l’incentivabilità di dette funzioni in ragione dell’oggetto del contratto a cui è finalizzato il procedimento nell’ambito del quale si svolgono le medesime. L’art. 113, infatti, utilizza a più riprese espressioni riferibili alle procedure di affidamento di contratti aventi ad oggetto servizi e forniture quali i richiami alle “verifiche di conformità”.
La stessa Sezione delle autonomie ha accolto l’assunto secondo cui
il compenso incentivante di cui all’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 riguarda non soltanto i lavori, ma anche i servizi e le forniture rientranti nell’ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici ed ha al contempo dato atto del fatto che tale interpretazione è ormai avvalorata dalla giurisprudenza della Corte in sede consultiva, che, da un lato ammette che gli incentivi siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e forniture e, dall’altro, che tra i beneficiari degli stessi non possano comprendersi coloro che svolgono attività relative alla progettazione e al coordinamento della sicurezza.
Né può farsi discendere dalla formulazione dell’art. 3 del decreto legislativo n. 50 del 2016, in collegato disposto all’allegato I (al quale fa rinvio l’articolo 3, comma 2, lett. ll, n. 1 per definire la nozione di “lavori”), l’estromissione dei contratti di manutenzione ordinaria e straordinaria dall’ambito di applicabilità del Codice dei contratti pubblici.
Da un lato, l’articolo 3, comma 2, lett. nn) ricomprende espressamente fra i “lavori” di cui all’allegato I l’attività di manutenzione di opere in quanto tale. Lo stesso Allegato I è organizzato per specifiche attività che, a seconda del complessivo lavoro affidato, possono assurgere a tipiche attività manutentive o meno. Si pensi all’attività di tinteggiatura di cui al punto 45.44 dell’Allegato I.
Si aggiunge che il Codice dei contratti pubblici definisce espressamente le attività di manutenzione ordinaria e straordinaria nelle lettere oo-quater e oo-quinquies dell’articolo 3, comma 2, lettere che seguono la definizione di “appalti pubblici di lavori” e precedono la delimitazione della nozione di “appalti pubblici di servizi”.
Dall’altro lato, il contenuto residuale che il legislatore imprime alla nozione di “servizi”, considerata la tecnica utilizzata per la definizione della medesima nell’articolo 3, comma 2, lett. ss e lett. vv, comporta che l’eventuale esclusione dei contratti manutentivi dalla nozione di appalti di lavori abbia quale unica conseguenza la ricomprensione dei medesimi fra gli appalti dei servizi, senza che ciò possa incidere sulla riconduzione dei contratti di manutenzione nell’ambito di applicabilità del decreto legislativo n. 50 del 2016 e sull’incentivabilità delle funzioni indicate nell’art. 113.
Al riguardo
si è già rilevato che la Sezione delle autonomie ritiene incentivabili non soltanto i lavori, ma anche i servizi e le forniture.
Da ultimo
non può non richiamarsi il correttivo al Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 19.04.2017, n. 56, pubblicato nella G.U. in data 05.05.2017 e in vigore a partire dal 20.05.2017), ai sensi del quale gli appalti di servizi e forniture sono stati espressamente citati nel comma 1 dell’art. 113.
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   2. Si chiede se gli incentivi per le attività di cui all’art. 113, comma 2, possono essere riconosciuti anche rispetto a contratti per l’affidamento dei quali non si sia proceduto allo svolgimento di una gara (come nel caso di affidamento diretto ai sensi dell’art. 36, comma 2, lettera a), del decreto-legislativo n. 50/2016), oppure debbano essere esclusi rispetto ai contratti al di sotto di una soglia minima di importo o a bassa complessità.
La lettera della legge che, nel dettare i criteri per la determinazione del fondo destinato a finanziare gli incentivi, fa espresso riferimento all’“importo dei lavori (servizi e forniture) posti a base di gara”, induce a ritenere incentivabili le sole funzioni tecniche svolte rispetto a contratti affidati mediante lo svolgimento di una gara.
Si deve pertanto concludere che
gli incentivi in questione possano essere riconosciuti esclusivamente per le attività riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che, secondo la legge (comprese le direttive ANAC dalla stessa richiamate) o il regolamento dell’ente, siano stati affidati previo espletamento di una procedura comparativa.

Si segnala peraltro che il decreto legislativo 19.04.2017, n. 56, in vigore dal 20.05.2017, nel riformulare l’art. 113, comma 2, del codice dei contratti, ha stabilito che “la disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell’esecuzione”.
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   3. Si chiede, infine, quale sia la disciplina normativa in materia di incentivi applicabile per le attività avviate in vigenza del decreto legislativo n. 163/2006 e ancora in corso di svolgimento alla data di entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici con il decreto legislativo n. 50/2016.
Non essendo rintracciabili espresse disposizioni che escludano la disciplina degli “incentivi tecnici” di cui all’art. 113 del nuovo codice dal regime intertemporale sopra riferito
si deve pertanto ritenere che quest’ultima possa essere applicata esclusivamente alle attività riferibili a contratti banditi successivamente al 19.04.2015.
Rimangono di conseguenza incentivabili secondo la disciplina previgente le attività riferite a contratti banditi antecedentemente a tale data, quantunque ancora in corso di svolgimento

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Con la nota sopra citata il Presidente della Provincia di Mantova formula una richiesta di parere riguardante la corretta interpretazione della disciplina degli incentivi per funzioni tecniche introdotta dall’art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (c.d. nuovo codice degli appalti), formulando i seguenti quesiti:
   1. Se sia possibile riconoscere gli incentivi per funzioni tecniche per le prestazioni indicate dall’art. 113, comma 2, riferite ad appalti aventi ad oggetto lavori di manutenzione ordinaria/straordinaria oppure servizi manutentivi, considerato che la nuova disposizione non esclude espressamente le attività manutentive e che alla luce degli orientamenti ermeneutici espressi in materia dalle Sezioni regionali di controllo, la stessa riconosce gli incentivi anche agli appalti di servizi e forniture.
   2. Se l'incentivazione sia applicabile anche agli appalti per il cui affidamento non si proceda mediante svolgimento di una gara (com'è il caso dell'affidamento diretto ex art. 36, comma 2, lettera a), del decreto legislativo n. 50/2016), oppure se la regolamentazione interna da adottare ai sensi dell’art. 113, comma 3, debba escludere dall'ambito di applicazione dell'incentivo i contratti al di sotto di una soglia minima di importo o di complessità.
   3. Quale normativa in tema di incentivi debba applicarsi alle prestazioni in corso di svolgimento nel periodo transitorio di passaggio dall’abrogato decreto legislativo n. 163/2006 al decreto legislativo n. 50/2016.
...
I quesiti formulati con la presente richiesta di parere richiedono di stabilire la corretta interpretazione dell’art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 in materia di incentivi per funzioni tecniche che si riporta di seguito: “1. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1 le amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
3. L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori. Gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. L'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore stabilisce i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi non conformi alle norme del presente decreto. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, incrementano la quota del fondo di cui al comma 2. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.
4. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del fondo di cui al comma 2 ad esclusione di risorse derivanti da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a destinazione vincolata è destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione anche per il progressivo uso di metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione elettronica informativa per l'edilizia e le infrastrutture, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa e di efficientamento informatico, con particolare riferimento alle metodologie e strumentazioni elettroniche per i controlli. Una parte delle risorse può essere utilizzato per l'attivazione presso le amministrazioni aggiudicatrici di tirocini formativi e di orientamento di cui all'articolo 18 della legge 24.06.1997, n. 196 o per lo svolgimento di dottorati di ricerca di alta qualificazione nel settore dei contratti pubblici previa sottoscrizione di apposite convenzioni con le Università e gli istituti scolastici superiori.
5. Per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di altri enti, può essere riconosciuta, su richiesta della centrale unica di committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto, dell'incentivo previsto dal comma 2
.”
2. Con il primo quesito si chiede se possano essere riconosciuti incentivi per le funzioni tecniche previste dalla disposizione sopra richiamata riferite ad appalti aventi ad oggetto lavori di manutenzione ordinaria/straordinaria oppure servizi manutentivi.
Si deve rilevare, in primo luogo, che
l’elenco delle attività incentivabili di cui all’art. 113, comma 2, come fatto palese dalla lettera della legge con l’utilizzo dell’avverbio “esclusivamente”, deve ritenersi tassativo e non suscettibile di interpretazione analogica.
Ne viene che
gli incentivi in parola possono essere corrisposti solo ed esclusivamente ai funzionari che hanno svolto le funzioni espressamente indicate dalla disposizione di legge sopra richiamata all’interno delle fasi procedimentali che connotano gli affidamenti di contratti pubblici (programmazione, progettazione, procedura selettiva, stipulazione ed esecuzione).
L’interpretazione riferita trova del resto conferma nella giurisprudenza contabile, concorde nell’escludere incentivabilità di funzioni o attività diverse da quelle considerate dall’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50/2016 (Sezione delle Autonomie, deliberazione 13.05.2016 n. 18; Sezione regionale di controllo per la Puglia, parere 13.12.2016 n. 204; Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 02.03.2017 n. 134; Sezione regionale di controllo per la Regione siciliana, parere 30.03.2017 n. 71).
La disposizione in esame non sembra, invece, delimitare in senso escludente l’incentivabilità di dette funzioni in ragione dell’oggetto del contratto a cui è finalizzato il procedimento nell’ambito del quale si svolgono le medesime. L’art. 113, infatti, utilizza a più riprese espressioni riferibili alle procedure di affidamento di contratti aventi ad oggetto servizi e forniture quali i richiami alle “verifiche di conformità”.
La stessa Sezione delle autonomie, con deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha accolto l’assunto secondo cui
il compenso incentivante di cui all’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 riguarda non soltanto i lavori, ma anche i servizi e le forniture rientranti nell’ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici ed ha al contempo dato atto del fatto che tale interpretazione è ormai avvalorata dalla giurisprudenza della Corte in sede consultiva (cfr. Sezione di controllo Lombardia, parere 16.11.2016 n. 333), che, da un lato ammette che gli incentivi siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e forniture e, dall’altro, che tra i beneficiari degli stessi non possano comprendersi coloro che svolgono attività relative alla progettazione e al coordinamento della sicurezza (cfr. anche la deliberazione 13.05.2016 n. 18 della medesima Sezione).
Né può farsi discendere dalla formulazione dell’art. 3 del decreto legislativo n. 50 del 2016, in collegato disposto all’allegato I (al quale fa rinvio l’articolo 3, comma 2, lett. ll, n. 1 per definire la nozione di “lavori”), l’estromissione dei contratti di manutenzione ordinaria e straordinaria dall’ambito di applicabilità del Codice dei contratti pubblici.
Da un lato, l’articolo 3, comma 2, lett. nn) ricomprende espressamente fra i “lavori” di cui all’allegato I l’attività di manutenzione di opere in quanto tale. Lo stesso Allegato I è organizzato per specifiche attività che, a seconda del complessivo lavoro affidato, possono assurgere a tipiche attività manutentive o meno. Si pensi all’attività di tinteggiatura di cui al punto 45.44 dell’Allegato I.
Si aggiunge che il Codice dei contratti pubblici definisce espressamente le attività di manutenzione ordinaria e straordinaria nelle lettere oo-quater e oo-quinquies dell’articolo 3, comma 2, lettere che seguono la definizione di “appalti pubblici di lavori” e precedono la delimitazione della nozione di “appalti pubblici di servizi”.
Dall’altro lato, il contenuto residuale che il legislatore imprime alla nozione di “servizi”, considerata la tecnica utilizzata per la definizione della medesima nell’articolo 3, comma 2, lett. ss e lett. vv, comporta che l’eventuale esclusione dei contratti manutentivi dalla nozione di appalti di lavori abbia quale unica conseguenza la ricomprensione dei medesimi fra gli appalti dei servizi, senza che ciò possa incidere sulla riconduzione dei contratti di manutenzione nell’ambito di applicabilità del decreto legislativo n. 50 del 2016 e sull’incentivabilità delle funzioni indicate nell’art. 113.
Al riguardo
si è già rilevato che la Sezione delle autonomie ritiene incentivabili non soltanto i lavori, ma anche i servizi e le forniture.
Da ultimo
non può non richiamarsi il correttivo al Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 19.04.2017, n. 56, pubblicato nella G.U. in data 05.05.2017 e in vigore a partire dal 20.05.2017), ai sensi del quale gli appalti di servizi e forniture sono stati espressamente citati nel comma 1 dell’art. 113.
3. Con il secondo quesito formulato con la presente richiesta di parere si chiede se gli incentivi per le attività di cui all’art. 113, comma 2, possono essere riconosciuti anche rispetto a contratti per l’affidamento dei quali non si sia proceduto allo svolgimento di una gara (come nel caso di affidamento diretto ai sensi dell’art. 36, comma 2, lettera a), del decreto-legislativo n. 50/2016), oppure debbano essere esclusi rispetto ai contratti al di sotto di una soglia minima di importo o a bassa complessità.
La lettera della legge che, nel dettare i criteri per la determinazione del fondo destinato a finanziare gli incentivi, fa espresso riferimento all’“importo dei lavori (servizi e forniture) posti a base di gara”, induce a ritenere incentivabili le sole funzioni tecniche svolte rispetto a contratti affidati mediante lo svolgimento di una gara.
Si deve pertanto concludere che
gli incentivi in questione possano essere riconosciuti esclusivamente per le attività riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che, secondo la legge (comprese le direttive ANAC dalla stessa richiamate) o il regolamento dell’ente, siano stati affidati previo espletamento di una procedura comparativa.
Si segnala peraltro che il decreto legislativo 19.04.2017, n. 56, pubblicato nella G.U. in data 05.05.2017 e in vigore dal 20.05.2017, nel riformulare l’art. 113, comma 2, del codice dei contratti, ha stabilito che “la disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell’esecuzione”.
4. Si chiede, infine, quale sia la disciplina normativa in materia di incentivi applicabile per le attività avviate in vigenza del decreto legislativo n. 163/2006 e ancora in corso di svolgimento alla data di entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici con il decreto legislativo n. 50/2016.
La risposta all’ultimo quesito formulato dall’ente istante può essere fornita sulla base dell’art. 216, comma 1, dello stesso decreto legislativo n. 50/2016 che, nell’affrontare la questione del diritto transitorio conseguente all’introduzione dello stesso, stabilisce che “fatto salvo quanto previsto nel presente articolo ovvero nelle singole disposizioni di cui al presente codice, lo stesso si applica alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o di avvisi, alle procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del presente codice, non siano ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte”.
Non essendo rintracciabili espresse disposizioni che escludano la disciplina degli “incentivi tecnici” di cui all’art. 113 del nuovo codice dal regime intertemporale sopra riferito
si deve pertanto ritenere che quest’ultima possa essere applicata esclusivamente alle attività riferibili a contratti banditi successivamente al 19.04.2015.
Rimangono di conseguenza incentivabili secondo la disciplina previgente le attività riferite a contratti banditi antecedentemente a tale data, quantunque ancora in corso di svolgimento (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 09.06.2017 n. 190).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE1.- Gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)”; ciò sulla base di un’ermeneusi del dato normativo che ha evidenziato la peculiarità di tali incentivi.
Per converso, come rilevato in detta sede, va invece ribadito che,
nella riscrittura della materia ad opera del nuovo codice degli appalti, risultano assolutamente salvaguardati i beneficiari dei pregressi incentivi alla progettazione i quali sono oggi remunerati con un meccanismo diverso dalla ripartizione del fondo.
Infatti
, come rilevato dalla Sezione delle autonomie, per le spese di progettazione, di direzione dei lavori o dell’esecuzione, di vigilanza, per i collaudi tecnici e amministrativi, le verifiche di conformità, i collaudi statici, gli studi e le ricerche connessi, la progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e il coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione ove previsti dalla legge, si provvede con gli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori, a norma dell’art. 113, comma 1, del decreto legislativo n. 50 del 2016.
Con riferimento a tali emolumenti, resta dunque fermo il principio di diritto già affermato dalle Sezioni riunite della Corte dei conti le quali, avevano individuato e tipicizzato, come criterio generale di esclusione dal limite di spesa
posto allora dall’art. 9, comma 2-bis, del decreto legge n. 78 del 2010 (disposizione “sostanzialmente sovrapponibile”, secondo la Sezione delle autonomie, a quella vigente), tutti quei compensi per prestazioni professionali specialistiche offerte da soggetti qualificati, tra cui l’incentivo per la progettazione stabilito, nel quadro normativo ratione temporis vigente, dall’art. 93, comma 7-ter, del decreto legislativo n. 163 del 2006.
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   2.-
Il quesito attiene alla disciplina specifica del fondo, in punto di alimentazione e di gestione, e non alla dazione delle somme ai beneficiari finali, aspetto questo che resta estraneo al quesito così formulato e che viene analizzato in altre pronunce di questa Corte. In tale ottica, deve essere in primis evidenziata l’irretroattività della fonte regolamentare ivi disciplinata, sulla scorta di quanto già deciso da questa Corte.
In particolare,
tale profilo della questione si inquadra nell’ambito della problematica, di per sé più ampia, della irretroattività dei provvedimenti amministrativi.

Il principio della irretroattività degli atti –in linea generale immanente all’ordinamento giuridico, ma costituzionalizzato solo con riferimento all’irretroattività della legge penale (art. 25, primo comma, Cost.)– costituisce di per sé corollario dei più generali principi della necessaria simultaneità tra fatto (atto) ed effetti dallo stesso prodotti, nonché del principio della certezza delle situazioni giuridiche e della tutela dell’affidamento legittimo, con la sola eccezione dei casi in cui la retroattività dell’atto sia prevista dalla legge (atteso che la copertura costituzionale della irretroattività è appunto prevista solo per la legge penale) o sia una caratteristica “naturale” dell’atto stesso (es. annullamento che, de iure, produce effetto ex tunc).
D’altro canto,
per gli atti a contenuto normativo –come appunto i regolamenti– la regola della naturale irretroattività è affermata dal combinato disposto degli artt. 3, comma 2, 4, comma 1, e 11, comma 1, delle Disposizioni preliminari al Codice civile (cc.dd. Preleggi), disposizioni aventi rango primario, secondo le quali il regolamento, anche emanato da autorità diverse dal governo, non può contenere norme contrarie alle disposizioni di legge e, nella specie, al divieto di retroattività, stabilito dal successivo art. 11 per il complesso degli atti normativi; quest’ultima disposizione è dunque derogabile solo per il tramite di una norma di legge equiordinata che abiliti l’atto a produrre un tale effetto retroattivo (ad esclusione dell’ambito oggetto di disciplina ad opera della legge penale, per la quale la Costituzione, come s’è detto, pone un divieto assoluto); nella specie, nella rilevata mancanza di una norma che autorizzi l’amministrazione comunale ad attribuire al regolamento in questione effetto retroattivo, il regolamento medesimo, in ossequio all’art. 11 delle cc.dd. preleggi, non potrà che disporre per l’avvenire.
Ciò posto, si deve al contempo ricordare, in punto di modalità di alimentazione del fondo medesimo, che il predetto parere 07.09.2016 n. 353 della Sezione regionale di controllo per il Veneto  ha ritenuto che,
nelle more della determinazione, nell’apposito regolamento, della percentuale entro la quale destinare le risorse e dei criteri di assegnazione, è corretto accantonare le risorse medesime in misura del 2% dell’importo a base di gara, senza tuttavia provvedere alla ripartizione tra i beneficiari prima di aver approvato il regolamento suddetto: ciò sulla base della previsione, contenuta nell’art. 113, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo n. 50 del 2016, della destinazione ad un fondo apposito, in misura non superiore al 2%, delle risorse finanziarie stanziate per la realizzazione dei singoli lavori, di cui l’80% da ripartire tra il responsabile unico del procedimento ed i soggetti che abbiamo svolto le ivi previste “funzioni tecniche” ed i loro collaboratori, ed il restante 20% da impiegare per l’acquisito di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali al miglioramento e l’innovazione tecnologica.
In particolare, mentre l’“accantonamento ad apposito fondo” di “risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento, modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara”, è direttamente stabilito dal secondo comma dell’art. 113, la ripartizione tra i dipendenti dell’ente viene regolata nel comma successivo, il quale stabilisce che essa deve avvenire “con le modalità ed i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti”.
L’adozione del regolamento, dunque, continua ad essere una condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo (pro futuro), perché il regolamento –e solo il regolamento, nella sistematica della legge– è destinato ad individuare le modalità ed i criteri della ripartizione, oltre alla percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo fissato dalla legge.
In quella pronuncia, sulla base della struttura dell’enunciato normativo, s’è ritenuto altresì che
il semplice accantonamento delle risorse, in attesa della disciplina regolamentare, può tuttavia essere disposto dall’ente, su un capitolo o capitoli sui quali non è possibile assumere impegni ed effettuare pagamenti, purché, ovviamente, entro i limiti percentuali fissati dall’art. 113, secondo comma, del predetto decreto.
In tal caso, ove poi il regolamento successivamente adottato dall’ente dovesse individuare una percentuale inferiore a quella già applicata dall’ente medesimo, la parte dell’accantonamento non utilizzata verrebbe a concorrere alla determinazione del risultato di amministrazione. Nel caso inverso, ovvero nel caso di accantonamento di una somma inferiore a quella poi prevista nel regolamento, il mancato accantonamento costituirebbe invece nella sostanza “economia” dell’anno, concorrente alla determinazione del risultato di amministrazione, e come tale dovrebbe essere considerata; in altre parole, il fondo verrà comunque costituito con la sola dotazione iniziale frutto del prudenziale accantonamento dell’ente, fino all’entrata in vigore del regolamento, fermo restando la ripartizione delle somme solo successivamente a tale momento, conformemente alla disciplina regolamentare medio termine approvata e comunque nel rispetto della normativa vigente.
Va sottolineato che
tale accantonamento, tuttavia, viene disposto non sulla base del regolamento approvato successivamente, che non è retroattivo, ma sulla base di una scelta prudenziale dell’ente effettuata, nei limiti di legge, ex ante.
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   3.- Sulla base del tenore letterale del menzionato art. 113 dlgs 50/2016 –il quale riconosce l’incentivo “esclusivamente” per le “attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico”-
l’avverbio “esclusivamente” esprime con chiarezza l’intenzione del legislatore di riconoscere il compenso incentivante limitatamente alle attività espressamente previste, ove effettivamente svolte dal dipendente pubblico, sicché l’elencazione contenuta nella norma deve considerarsi tassativa.
Dunque
sotto questo specifico profilo, ossia sotto il profilo della individuazione dei limiti entro i quali le attività svolte dai pubblici dipendenti possono ricevere una specifica remunerazione, la disciplina degli incentivi, derogatoria rispetto al principio di onnicomprensività della retribuzione, è da considerarsi di stretta interpretazione e non suscettibile di estensione analogica.
Il punto
, così correttamente ricostruita la ratio della disposizione, diviene dunque non tanto quello dell’individuazione di un meccanismo di approvigionamento, effettivamente adottato dall’ente, quale presupposto per l’erogazione dell’incentivo –nella specie, come da richiesta del comune, il ricorso a Consip o Mepa, autonomamente di per sé considerato–, ma quello dell’effettiva occorrenza, secondo la specifica disciplina della procedura di e-procurement concretamente applicata, di una delle attività incentivate, nel caso di specie concretamente accertata come svolta (vale a dire attività di programmazione della spesa per investimenti, di verifica preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero di direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico). Spetta all’ente tale valutazione, in concreto, nelle diverse possibili evenienze.
Peraltro, al riguardo non sfugga nemmeno come
la disposizione presupponga esplicitamente –laddove richiede l’accantonamento in un apposito fondo di “risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara”– che vi sia una “gara”, sia pure semplificata; in mancanza di tale requisito, l’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 non prevede l’accantonamento delle risorse nel fondo e, conseguentemente, la relativa distribuzione.
Al riguardo,
l’ente, nel valutare concretamente le attività incentivate e le modalità di rimodulazione dell’incentivo nelle diverse evenienze, deve altresì considerare correttamente il quadro normativo, sistematicamente considerato, che prevede che per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza, nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di altri enti, possa essere riconosciuta, su richiesta della centrale unica di committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto, dell'incentivo (art. 113, comma 5).
Ciò posto,
spetta all’ente la valutazione nelle specifiche evenienze dell’occorrenza, in concreto, di attività effettivamente incentivate in forza della ricordata disposizione normativa.
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   4.- In primo luogo
questa Sezione ritiene tassativo l’elenco delle attività incentivabili dalla normativa in esame e, quindi, non può che confermare che gli incentivi per funzioni tecniche riguardano, in via esclusiva, le attività indicate al comma 2 dell’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016; e ciò perché il suddetto emolumento, in virtù del principio di onnicomprensività del trattamento economico, può essere corrisposto solo in presenza di una espressa previsione legislativa.
Sicché,
va confermato che gli incentivi per funzioni tecniche previsti dall’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016 possono essere corrisposti, di per sé, solo in presenza di una delle attività espressamente considerate dalla disposizione richiamata.
Inoltre decisivo al riguardo risulta il fatto che la Sezione delle autonomie ha accolto l’assunto secondo cui
il compenso incentivante di cui all’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 riguarda non soltanto lavori, ma anche servizi e forniture ed ha al contempo dato atto del fatto che tale interpretazione è ormai avvalorata dalla giurisprudenza della Corte in sede consultiva che, da un lato ammette che gli incentivi siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e forniture e, dall’altro, che tra i beneficiari degli stessi non possano comprendersi coloro che svolgono attività relative alla progettazione e al coordinamento della sicurezza.
Tale è dunque il quadro delle attività incentivabili, la cui individuazione, indipendentemente dallo specifico oggetto del contratto pubblico messo a gara, in concreto spetta, come s’è detto, all’Amministrazione, nel rispetto delle indicazioni desumibili dalla pregressa giurisprudenza di questa Corte.
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   5.- Va rilevato che
il quadro normativo prevede una sfera di discrezionalità normativa degli enti locali, che devono comunque muoversi nell’ambito dei principi e delle regole stabilite dalle vigenti prescrizioni legislative. Al riguardo giova rilevare che il decreto legislativo n. 50 del 2006, in linea generale, prevede la misura massima delle risorse destinabili al fondo e la necessaria modulazione delle stesse in relazione all'importo dei lavori o delle procedure di acquisizione di beni e servizi concretamente espletate.
In tale contesto, spetta all’ente locale esercitare correttamente la propria discrezionalità, che potrà anche essere orientata dalle soglie indicate dall’art. 21 del medesimo decreto legislativo per la programmazione biennale per forniture e servizi e triennale per lavori, purché nell’ambito di una disciplina coerente e conforme alle specifiche previsioni stabilite dai commi 2, 3 e 4 del decreto legislativo n. 50 del 2016.
Spetta al Comune richiedente, sulla base dei principi così espressi, valutare attentamente le singole fattispecie al fine di addivenire ad una corretta autodeterminazione nell’esercizio del proprio potere, anche regolamentare, in materia, nel rispetto del quadro legislativo vigente.
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  1.- Il Sindaco del Comune di Bollate (MI) –dando atto delle difficoltà riscontrate dagli enti locali nell’interpretazione dell’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016 e nella predisposizione dei regolamenti ivi previsti– pone alla Sezione i seguenti cinque quesiti:
   a) se le somme previste dall’art. 113 siano da considerare afferenti al Fondo delle risorse decentrate (e soggiacenti alla relativa disciplina) oppure no;
   b) se il regolamento attuativo previsto dal terzo comma di detta disposizione (il quale prevede che “l'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori”) possa disciplinare anche la ripartizione e la liquidazione delle somme accantonate, secondo i criteri stabiliti dalla Sezione regionale di controllo per il Veneto di questa Corte nella deliberazione n. 353/2016/PAR, con riferimento agli appalti di lavori, servizi e forniture espletati fra l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 50 del 2016 e la data di approvazione del regolamento, ad esempio con la previsione dell’accantonamento, retroattivamente stabilito, di una percentuale inferiore al due per cento, in linea con quella prevista nell’approvato regolamento, anche in relazione a detti appalti;
   c) se sia legittimo comprendere fra gli acquisti oggetto degli incentivi anche le adesioni alle convenzioni Consip e gli acquisti tramite Mepa, “anche solo per alcune delle attività previste dall’art. 113, secondo comma”, del predetto decreto legislativo;
   d) se sia legittimo –sulla base dell’art. 3, comma 1, lett. nn), di detto decreto legislativo, che considera anche la “manutenzione di opere”– riconoscere l’incentivo “anche per le manutenzioni ordinarie e straordinarie (ciò a fronte di pareri nel senso della soluzione negativa delle Sezioni regionali di controllo per l’Emilia Romagna e per la Puglia, rispettivamente parere 07.12.2016 n. 118 e parere 24.01.2017 n. 5, conosciuti e richiamati dall’ente istante);
   e) se “le soglie per l’applicazione dell’incentivo possono essere liberamente disciplinate all’interno del regolamento” o se invece “devono prendere come riferimento le soglie indicate dall’art. 21 [del medesimo decreto legislativo] per la programmazione biennale per forniture e servizi e triennale per lavori.
...
4.- In via preliminare, la Sezione precisa che le decisioni relative alla scelta del contenuto dell’approvando regolamento, in quanto connesse all’attività di normazione interna dell’ente, spettano agli enti coinvolti, che ne assumono la relativa responsabilità.
In particolare, in materia occorre ribadire quanto già affermato dalla deliberazione 13.05.2016 n. 18 della Sezione delle Autonomie, secondo cui
la soluzione delle questioni poste alla Corte dei conti, in ragione della propria attività consultiva, «non può che rimanere definita in un ambito di stretto principio, non potendo la Corte in questa sede addentrarsi in aspetti di dettaglio della disciplina, che attengono (…) alla potestà regolamentare riconosciuta in capo agli enti locali»; ciò «anche in considerazione di quanto precisato nella delibera n. 3/2014/QMIG, in merito al fatto che “ausilio consultivo per quanto possibile deve essere reso senza che esso costituisca un’interferenza con le funzioni requirenti e giurisdizionali e ponendo attenzione ad evitare che di fatto si traduca in un’intrusione nei processi decisionali degli enti territoriali”».
Chiarito, dunque, che
la Corte non può interferire con la potestà regolamentare spettante all’ente locale, nei termini prima esposti, si può procedere all’esame, nel merito, dei singoli quesiti posti.
5.- Ciò presupposto, con il primo quesito l’ente chiede se le somme previste dall’art. 113 siano da considerare afferenti al Fondo delle risorse decentrate (e soggiacenti alla relativa disciplina), oppure no.
Al riguardo basti rilevare che la Sezione delle autonomie di questa Corte, con la deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha affermato, nell’esercizio della propria funzione nomofilattica, il principio di diritto secondo cui “
(g)li incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)”; ciò sulla base di un’ermeneusi del dato normativo che ha evidenziato la peculiarità di tali incentivi. Alla motivazione di tale decisione si fa, in questa sede, espresso rinvio.
Per converso, come rilevato in detta sede, va invece ribadito che,
nella riscrittura della materia ad opera del nuovo codice degli appalti, risultano assolutamente salvaguardati i beneficiari dei pregressi incentivi alla progettazione i quali sono oggi remunerati con un meccanismo diverso dalla ripartizione del fondo.
Infatti
, come rilevato dalla Sezione delle autonomie, per le spese di progettazione, di direzione dei lavori o dell’esecuzione, di vigilanza, per i collaudi tecnici e amministrativi, le verifiche di conformità, i collaudi statici, gli studi e le ricerche connessi, la progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e il coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione ove previsti dalla legge, si provvede con gli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori, a norma dell’art. 113, comma 1, del decreto legislativo n. 50 del 2016.
Con riferimento a tali emolumenti, resta dunque fermo il principio di diritto già affermato dalle Sezioni riunite della Corte dei conti le quali, con la
deliberazione 04.10.2011 n. 51, avevano individuato e tipicizzato, come criterio generale di esclusione dal limite di spesa posto allora dall’art. 9, comma 2-bis, del decreto legge n. 78 del 2010 (disposizione “sostanzialmente sovrapponibile”, secondo la Sezione delle autonomie, a quella vigente), tutti quei compensi per prestazioni professionali specialistiche offerte da soggetti qualificati, tra cui l’incentivo per la progettazione stabilito, nel quadro normativo ratione temporis vigente, dall’art. 93, comma 7-ter, del decreto legislativo n. 163 del 2006.
6.- Con il secondo quesito, l’ente chiede se il regolamento attuativo previsto dal terzo comma di detta disposizione –il quale prevede che “l'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori”– possa disciplinare anche la ripartizione e la liquidazione delle somme accantonate, secondo i criteri stabiliti dalla Sezione regionale di controllo per il Veneto di questa Corte nella Veneto parere 07.09.2016 n. 353, con riferimento agli appalti di lavori, servizi e forniture espletati fra l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 50 del 2016 e la data di approvazione del regolamento, ad esempio con la previsione dell’accantonamento, retroattivamente stabilito, di una percentuale inferiore al due per cento, in linea con quella prevista nell’approvato regolamento, anche in relazione a detti appalti.
Al riguardo, deve essere preliminarmente evidenziato che
il quesito attiene alla disciplina specifica del fondo, in punto di alimentazione e di gestione, e non alla dazione delle somme ai beneficiari finali, aspetto questo che resta estraneo al quesito così formulato e che viene analizzato in altre pronunce di questa Corte. In tale ottica, deve essere in primis evidenziata l’irretroattività della fonte regolamentare ivi disciplinata, sulla scorta di quanto già deciso da questa Corte (v. Sezione regionale di controllo per la Regione Veneto, parere 07.09.2016 n. 353).
In particolare,
tale profilo della questione si inquadra nell’ambito della problematica, di per sé più ampia, della irretroattività dei provvedimenti amministrativi.
Il principio della irretroattività degli atti –in linea generale immanente all’ordinamento giuridico, ma costituzionalizzato solo con riferimento all’irretroattività della legge penale (art. 25, primo comma, Cost.)– costituisce di per sé corollario dei più generali principi della necessaria simultaneità tra fatto (atto) ed effetti dallo stesso prodotti, nonché del principio della certezza delle situazioni giuridiche e della tutela dell’affidamento legittimo, con la sola eccezione dei casi in cui la retroattività dell’atto sia prevista dalla legge (atteso che la copertura costituzionale della irretroattività è appunto prevista solo per la legge penale) o sia una caratteristica “naturale” dell’atto stesso (es. annullamento che, de iure, produce effetto ex tunc).
D’altro canto,
per gli atti a contenuto normativo –come appunto i regolamenti– la regola della naturale irretroattività è affermata dal combinato disposto degli artt. 3, comma 2, 4, comma 1, e 11, comma 1, delle Disposizioni preliminari al Codice civile (cc.dd. Preleggi), disposizioni aventi rango primario, secondo le quali il regolamento, anche emanato da autorità diverse dal governo, non può contenere norme contrarie alle disposizioni di legge e, nella specie, al divieto di retroattività, stabilito dal successivo art. 11 per il complesso degli atti normativi; quest’ultima disposizione è dunque derogabile solo per il tramite di una norma di legge equiordinata che abiliti l’atto a produrre un tale effetto retroattivo (ad esclusione dell’ambito oggetto di disciplina ad opera della legge penale, per la quale la Costituzione, come s’è detto, pone un divieto assoluto); nella specie, nella rilevata mancanza di una norma che autorizzi l’amministrazione comunale ad attribuire al regolamento in questione effetto retroattivo, il regolamento medesimo, in ossequio all’art. 11 delle cc.dd. preleggi, non potrà che disporre per l’avvenire.
Ciò posto, si deve al contempo ricordare, in punto di modalità di alimentazione del fondo medesimo, che il predetto parere 07.09.2016 n. 353 della Sezione regionale di controllo per il Veneto  ha ritenuto che,
nelle more della determinazione, nell’apposito regolamento, della percentuale entro la quale destinare le risorse e dei criteri di assegnazione, è corretto accantonare le risorse medesime in misura del 2% dell’importo a base di gara, senza tuttavia provvedere alla ripartizione tra i beneficiari prima di aver approvato il regolamento suddetto: ciò sulla base della previsione, contenuta nell’art. 113, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo n. 50 del 2016, della destinazione ad un fondo apposito, in misura non superiore al 2%, delle risorse finanziarie stanziate per la realizzazione dei singoli lavori, di cui l’80% da ripartire tra il responsabile unico del procedimento ed i soggetti che abbiamo svolto le ivi previste “funzioni tecniche” ed i loro collaboratori, ed il restante 20% da impiegare per l’acquisito di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali al miglioramento e l’innovazione tecnologica.
In particolare, mentre l’“accantonamento ad apposito fondo” di “risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento, modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara”, è direttamente stabilito dal secondo comma dell’art. 113, la ripartizione tra i dipendenti dell’ente viene regolata nel comma successivo, il quale stabilisce che essa deve avvenire “con le modalità ed i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti”.
L’adozione del regolamento, dunque, continua ad essere una condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo (pro futuro), perché il regolamento –e solo il regolamento, nella sistematica della legge– è destinato ad individuare le modalità ed i criteri della ripartizione, oltre alla percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo fissato dalla legge.
In quella pronuncia, sulla base della struttura dell’enunciato normativo, s’è ritenuto altresì che
il semplice accantonamento delle risorse, in attesa della disciplina regolamentare, può tuttavia essere disposto dall’ente, su un capitolo o capitoli sui quali non è possibile assumere impegni ed effettuare pagamenti, purché, ovviamente, entro i limiti percentuali fissati dall’art. 113, secondo comma, del predetto decreto.
In tal caso, ove poi il regolamento successivamente adottato dall’ente dovesse individuare una percentuale inferiore a quella già applicata dall’ente medesimo, la parte dell’accantonamento non utilizzata verrebbe a concorrere alla determinazione del risultato di amministrazione. Nel caso inverso, ovvero nel caso di accantonamento di una somma inferiore a quella poi prevista nel regolamento, il mancato accantonamento costituirebbe invece nella sostanza “economia” dell’anno, concorrente alla determinazione del risultato di amministrazione, e come tale dovrebbe essere considerata; in altre parole, il fondo verrà comunque costituito con la sola dotazione iniziale frutto del prudenziale accantonamento dell’ente, fino all’entrata in vigore del regolamento, fermo restando la ripartizione delle somme solo successivamente a tale momento, conformemente alla disciplina regolamentare medio termine approvata e comunque nel rispetto della normativa vigente.
Va sottolineato che
tale accantonamento, tuttavia, viene disposto non sulla base del regolamento approvato successivamente, che non è retroattivo, ma sulla base di una scelta prudenziale dell’ente effettuata, nei limiti di legge, ex ante.
7.- Con il terzo quesito, il Comune chiede se sia legittimo comprendere fra gli acquisti oggetto degli incentivi anche le adesioni alle convenzioni Consip e gli acquisti tramite Mepa, “anche solo per alcune delle attività previste dall’art. 113, secondo comma”, del predetto decreto legislativo.
Il quesito, per come formulato, risulta invero mal posto. Come la giurisprudenza di questa Corte ha già chiarito sulla base del tenore letterale del menzionato art. 113 –il quale riconosce l’incentivo “esclusivamente” per le “attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico”-
l’avverbio “esclusivamente” esprime con chiarezza l’intenzione del legislatore di riconoscere il compenso incentivante limitatamente alle attività espressamente previste, ove effettivamente svolte dal dipendente pubblico, sicché l’elencazione contenuta nella norma deve considerarsi tassativa (così Sezione delle Autonomie, deliberazione 13.05.2016 n. 18, laddove, in via incidentale, sottolinea che la nuova disposizione ha abolito “gli incentivi alla progettazione previsti dal previgente art. 93, comma 7-ter, introducendo nuove forme di incentivazione per funzioni tecniche (…) svolte dai dipendenti esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti e per la verifica preventiva dei progetti e, più in generale, per le attività tecnico-burocratiche, prima non incentivate”; Sezione regionale di controllo per la Puglia, parere 13.12.2016 n. 204; Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 02.03.2017 n. 134; Sezione regionale di controllo per la Regione siciliana, parere 30.03.2017 n. 71).
Dunque
sotto questo specifico profilo, ossia sotto il profilo della individuazione dei limiti entro i quali le attività svolte dai pubblici dipendenti possono ricevere una specifica remunerazione, la disciplina degli incentivi, derogatoria rispetto al principio di onnicomprensività della retribuzione, è da considerarsi di stretta interpretazione e non suscettibile di estensione analogica.
Il punto, così correttamente ricostruita la ratio della disposizione, diviene dunque non tanto quello dell’individuazione di un meccanismo di approvigionamento, effettivamente adottato dall’ente, quale presupposto per l’erogazione dell’incentivo –nella specie, come da richiesta del comune, il ricorso a Consip o Mepa, autonomamente di per sé considerato–, ma quello dell’effettiva occorrenza, secondo la specifica disciplina della procedura di e-procurement concretamente applicata, di una delle attività incentivate, nel caso di specie concretamente accertata come svolta (vale a dire attività di programmazione della spesa per investimenti, di verifica preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero di direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico). Spetta all’ente tale valutazione, in concreto, nelle diverse possibili evenienze.
Peraltro, al riguardo non sfugga nemmeno come
la disposizione presupponga esplicitamente –laddove richiede l’accantonamento in un apposito fondo di “risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara”– che vi sia una “gara”, sia pure semplificata; in mancanza di tale requisito, l’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 non prevede l’accantonamento delle risorse nel fondo e, conseguentemente, la relativa distribuzione.
Al riguardo,
l’ente, nel valutare concretamente le attività incentivate e le modalità di rimodulazione dell’incentivo nelle diverse evenienze, deve altresì considerare correttamente il quadro normativo, sistematicamente considerato, che prevede che per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza, nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di altri enti, possa essere riconosciuta, su richiesta della centrale unica di committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto, dell'incentivo (art. 113, comma 5).
Ciò posto,
spetta all’ente la valutazione nelle specifiche evenienze dell’occorrenza, in concreto, di attività effettivamente incentivate in forza della ricordata disposizione normativa.
8.- Con il quarto quesito, l’ente chiede se sia legittimo –sulla base dell’art. 3, comma 1, lett. nn), di detto decreto legislativo, che considera anche la “manutenzione di opere”– riconoscere l’incentivo “anche per le manutenzioni ordinarie e straordinarie” (ciò a fronte di pareri nel senso della soluzione negativa delle Sezioni regionali di controllo per l’Emilia Romagna e per la Puglia, rispettivamente parere 07.12.2016 n. 118 e parere 24.01.2017 n. 5, conosciuti e richiamati dall’ente istante).
Al riguardo, questa Sezione deve rilevare che il quesito, anche in tal caso, risulta posto in termini che non tengono conto della sostanza delle questioni evocate.
In primo luogo
questa Sezione, come già rilevato in precedenza, ritiene tassativo l’elenco delle attività incentivabili dalla normativa in esame e, quindi, non può che confermare che gli incentivi per funzioni tecniche riguardano, in via esclusiva, le attività indicate al comma 2 dell’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016; e ciò perché il suddetto emolumento, in virtù del principio di onnicomprensività del trattamento economico, può essere corrisposto solo in presenza di una espressa previsione legislativa.
In definitiva, alla luce di quanto riportato,
va confermato che gli incentivi per funzioni tecniche previsti dall’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016 possono essere corrisposti, di per sé, solo in presenza di una delle attività espressamente considerate dalla disposizione richiamata (così Sezione delle Autonomie, deliberazione 13.05.2016 n. 18; Sezione regionale di controllo per la Puglia, parere 13.12.2016 n. 204; Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 02.03.2017 n. 134; Sezione regionale di controllo per la Regione siciliana, parere 30.03.2017 n. 71).
Inoltre decisivo al riguardo risulta il fatto che la Sezione delle autonomie, nella già richiamata deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha accolto l’assunto secondo cui
il compenso incentivante di cui all’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 riguarda non soltanto lavori, ma anche servizi e forniture ed ha al contempo dato atto del fatto che tale interpretazione è ormai avvalorata dalla giurisprudenza della Corte in sede consultiva (cfr. Sezione di controllo Lombardia, parere 16.11.2016 n. 333) che, da un lato ammette che gli incentivi siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e forniture e, dall’altro, che tra i beneficiari degli stessi non possano comprendersi coloro che svolgono attività relative alla progettazione e al coordinamento della sicurezza (cfr. anche la deliberazione 13.05.2016 n. 18 della medesima Sezione).
Tale è dunque il quadro delle attività incentivabili, la cui individuazione, indipendentemente dallo specifico oggetto del contratto pubblico messo a gara, in concreto spetta, come s’è detto, all’Amministrazione, nel rispetto delle indicazioni desumibili dalla pregressa giurisprudenza di questa Corte.
9.- Con il quinto quesito, l’ente chiede infine se “le soglie per l’applicazione dell’incentivo possono essere liberamente disciplinate all’interno del regolamento” o se invece “devono prendere come riferimento le soglie indicate dall’art. 21 [del medesimo decreto legislativo] per la programmazione biennale per forniture e servizi e triennale per lavori”.
In realtà, al riguardo va rilevato che
il quadro normativo prevede una sfera di discrezionalità normativa degli enti locali, che devono comunque muoversi nell’ambito dei principi e delle regole stabilite dalle vigenti prescrizioni legislative. Al riguardo giova rilevare che il decreto legislativo n. 50 del 2006, in linea generale, prevede la misura massima delle risorse destinabili al fondo e la necessaria modulazione delle stesse in relazione all'importo dei lavori o delle procedure di acquisizione di beni e servizi concretamente espletate.
In tale contesto, spetta all’ente locale esercitare correttamente la propria discrezionalità, che potrà anche essere orientata dalle soglie indicate dall’art. 21 del medesimo decreto legislativo per la programmazione biennale per forniture e servizi e triennale per lavori, purché nell’ambito di una disciplina coerente e conforme alle specifiche previsioni stabilite dai commi 2, 3 e 4 del decreto legislativo n. 50 del 2016.
10.-
Spetta al Comune richiedente, sulla base dei principi così espressi, valutare attentamente le singole fattispecie al fine di addivenire ad una corretta autodeterminazione nell’esercizio del proprio potere, anche regolamentare, in materia, nel rispetto del quadro legislativo vigente (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 09.06.2017 n. 185).

EDILIZIA PRIVATA: Gli incentivi per le funzioni tecniche di cui all’art. 113, comma 2 del d.lgs. 50/2016 sono da includersi nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016) in quanto il compenso incentivante previsto dalla nuova disciplina non è sovrapponibile all’incentivo per la progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, oggi abrogato.
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Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di Moncalieri (TO), dopo aver richiamato il principio di diritto enunciato dalla Sezione delle Autonomie con la deliberazione 06.04.2017 n. 7, secondo cui “gli incentivi per le funzioni tecniche di cui all’art. 113, comma 2, del d.lgs. 50/2016 sono da includersi nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)” e dopo aver evidenziato che la precedente deliberazione della Sezione delle Autonomie n. 16 del 2009 aveva, invece, escluso dal calcolo della spese di personale, ai fini del limite di cui all’art. 557 legge 296/2006, gli incentivi di progettazione previsti dal previgente codice dei contratti pubblici (art. 93 d.lgs. 163/2006), chiede a questa Sezione di chiarire la portata applicativa della deliberazione della Sezione delle Autonomie con particolare riferimento alla possibilità di individuare, fra i vari tipi di incentivi alle funzioni tecniche, delle voci che si sottrarrebbero al principio di diritto enunciato da ultimo e, dunque, al limite del salario accessorio di cui all’art. 1, co. 236, della legge n. 208/2015.
Il Comune di Moncalieri formula, infatti, il seguente quesito:
- “se tutte le somme destinate ad incentivare le funzioni tecniche ai sensi dell’art. 113 dlgs 50/2016 siano da considerare comprese nel limite del salario accessorio ai fini dell’applicazione dell’art. 1, comma 236, della legge n. 208/2015 (legge di stabilità 2016) e siano da considerare incluse nella spesa di personale ai fini dell’applicazione del comma 557 della legge 296/2006 oppure se debba essere operata una distinzione, nell’ambito degli incentivi per le funzioni tecniche disciplinati dall’art. 113 dlgs 50/2016, tra gli incentivi relativi a prestazioni professionali tipiche, acquisibili all’esterno della P.A. e qualificabili come spesa di investimento (appalti di lavori e incentivi per es. per la direzione lavori) e incentivi di altro tipo (controllo delle procedure di bando e di esecuzione e in particolare incentivi per gli appalti di forniture e servizi), che risultino privi degli elementi indicati dalla
deliberazione 13.11.2009 n. 16 Sezioni Autonomie”.
...
Il quesito posto dall’ente locale attiene all’applicabilità, ai compensi destinati a remunerare le funzioni tecniche di cui all’art. 113, co. 2, d.lgs. 50/2016, del nuovo tetto al salario accessorio introdotto dall’art. 1, comma 236, della legge n. 208/2015. Su tale questione, in considerazione della sua portata generale e dell’esistenza di un preesistente intervento delle Sezioni Riunite (
deliberazione 04.10.2011 n. 51), si è recentemente pronunciata la Sezione delle Autonomie con la deliberazione 06.04.2017 n. 7, che lo stesso Comune istante cita ampiamente nella formulazione del proprio quesito.
La Sezione delle Autonomie, nella richiamata deliberazione, ha, infatti, evidenziato che “la questione di massima oggetto di esame è incentrata sull’esclusione o meno dal tetto di spesa per il salario accessorio dei dipendenti pubblici –già previsto dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010 e reiterato dall’art. 1, comma 236, della legge n. 208/2015– dei compensi destinati a remunerare le funzioni tecniche svolte ai sensi dell’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016. La questione, come sopra accennato, era stata risolta in senso positivo dalla deliberazione delle Sezioni riunite in sede di controllo n. 51/2011, con riferimento, però, all’incentivo per la progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006”.
La Sezione delle Autonomie ha, in proposito, preliminarmente rilevato “la sostanziale sovrapponibilità del provvedimento di limitazione alla crescita delle risorse destinate al trattamento accessorio del personale adottato con l’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, rispetto alla previsione della legge di stabilità 2016”, evidenziando come “gli aspetti innovativi della nuova formulazione –essenzialmente riferiti al richiamo alle perduranti esigenze di finanza pubblica, alla prevista attuazione dei decreti legislativi attuativi della riforma della pubblica amministrazione, alla considerazione anche del personale assumibile e all’assenza di una previsione intesa a consolidare nel tempo le decurtazioni al trattamento accessorio– non incidono sulla struttura del vincolo di spesa, come già evidenziato da questa Sezione" (deliberazione 07.12.2016 n. 34).
La norma si sostanzia in un vincolo alla crescita dei fondi integrativi rispetto ad una annualità di riferimento e nell’automatica riduzione del fondo in misura proporzionale alla contrazione del personale in servizio. Le Sezioni riunite, chiamate a pronunciarsi sulla soggezione di taluni compensi ai tetti di spesa per i trattamenti accessori posti dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, hanno ritenuto la norma di stretta interpretazione, tenuto conto dell’effetto di proliferazione della spesa per il personale determinato dalla contrattazione integrativa, i cui meccanismi hanno finito per vanificare l’efficacia delle altre misure di contenimento della spesa (tra cui i vincoli assunzionali).
In tale contesto, l’Organo nomofilattico ha individuato quale criterio discretivo la circostanza che determinati compensi siano remunerativi di “prestazioni tipiche di soggetti individuati e individuabili” le quali “potrebbero essere acquisite anche attraverso il ricorso a personale estraneo all’amministrazione pubblica con possibili costi aggiuntivi”. Sussistendo queste condizioni, gli incentivi per la progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, sono stati esclusi dall’ambito applicativo dell’art. 9, comma 2-bis, andando a compensare prestazioni professionali afferenti ad “attività sostanzialmente finalizzata ad investimenti”.
Peraltro, tale orientamento si riporta alle affermazioni di questa Sezione (
deliberazione 13.11.2009 n. 16) che, ai fini del computo delle voci di spesa da ridurre a norma dell’art. 1, commi 557 e 562, l. 27.12.2006, n. 296, aveva escluso gli incentivi per la progettazione interna di cui al previgente codice degli appalti a motivo della loro riconosciuta natura “di spese di investimento, attinenti alla gestione in conto capitale, iscritte nel titolo II della spesa, e finanziate nell’ambito dei fondi stanziati per la realizzazione di un’opera pubblica, e non di spese di funzionamento”.
Quanto allo specifico quesito se, ai fini del computo del tetto di spesa, debbano o meno computarsi gli incentivi per le funzioni tecniche svolte ai sensi dell’art. 113, comma 2, del nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016), la Sezione delle Autonomie ha espressamente escluso che il compenso incentivante previsto dalla nuova disciplina sia “sovrapponibile all’incentivo per la progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, oggi abrogato”.
Secondo la
deliberazione 06.04.2017 n. 7, infatti, “nei nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata ad investimenti; il fatto che tali emolumenti siano erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture comporta che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale). Nel caso di specie, non si ravvisano poi, gli ulteriori presupposti delineati dalle Sezioni riunite (nella richiamata
deliberazione 04.10.2011 n. 51), per escludere gli incentivi di cui trattasi dal limite del tetto di spesa per i trattamenti accessori del personale dipendente in quanto essi non vanno a remunerare “prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati e individuabili” acquisibili anche attraverso il ricorso a personale esterno alla P.A., come risulta anche dal chiaro disposto dell’art. 113, comma 3, d.lgs. n. 50/2016.
La citata norma, infatti –nel disporre che la ripartizione della parte più consistente delle risorse (l’80%) debba avvenire “per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori” e che “gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione”– appare indicativa della diversa connotazione degli incentivi in parola.
È infatti evidente l’intento del legislatore di ampliare il novero dei beneficiari degli incentivi in esame, individuati nei profili, tecnici e non, del personale pubblico coinvolto nelle diverse fasi del procedimento di spesa, dalla programmazione (che nel nuovo codice dei contratti pubblici, all’art. 21, è resa obbligatoria anche per l’acquisto di beni e servizi) all’esecuzione del contratto. Al contempo, la citata disposizione richiama gli istituti della contrattazione decentrata, il che può essere inteso come una sottolineatura dell’applicazione dei limiti di spesa alle risorse decentrate
”.
La Sezione, pertanto, non può che conformare il proprio parere a quanto già stabilito dalla Sezione delle Autonomie, la quale, nella deliberazione richiamata, ha inoltre ribadito che “
nella riscrittura della materia ad opera del nuovo codice degli appalti, risultano assolutamente salvaguardati i beneficiari dei pregressi incentivi alla progettazione i quali sono oggi remunerati con un meccanismo diverso dalla ripartizione del fondo. Infatti, per le spese di progettazione, di direzione dei lavori o dell’esecuzione, di vigilanza, per i collaudi tecnici e amministrativi, le verifiche di conformità, i collaudi statici, gli studi e le ricerche connessi, la progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e il coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione ove previsti dalla legge, si provvede con gli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori, a norma dell’art. 113, comma 1, d.lgs. n. 50/2016. In tal senso, deve essere apprezzato l’intento chiarificatore del legislatore delegato” (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 09.06.2017 n. 113).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Agli incentivi per funzioni tecniche serve un tetto su misura nel fondo accessorio.
L’inclusione dei compensi per le funzioni tecniche nel tetto del fondo per la contrattazione decentrata solleva numerosi problemi operativi: alcuni possono essere risolti in via interpretativa, per altri è necessario un intervento legislativo.
La posizione della Corte dei conti
Per tutte le amministrazioni, in premessa, è necessario che queste somme siano inserite nel fondo delle risorse decentrate e che siano calcolate in modo preciso. La deliberazione 06.04.2017 n. 7 della sezione autonomie della Corte dei Conti (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 13.04.2017), con argomentazioni che devono essere giudicate come ineccepibili soprattutto rispetto ai principi affermati dalla
deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle sezioni riunite di controllo della magistratura contabile, ha stabilito che non ci sono più le condizioni per cui la incentivazione delle funzioni tecniche debba essere esclusa dal tetto del fondo per la contrattazione decentrata.
Il primo problema è che in questo modo si inseriscono nel tetto del fondo delle somme relative ad attività che ne erano escluse. Sembra abbastanza agevole sostenere, in virtù del principio di carattere generale della omogeneità dei dati messi a confronto, che si possa convenzionalmente intervenire sul fondo del 2015 e su quello del 2016, che rispettivamente sono attualmente e sulla base dell'emanando schema di decreto legislativo attuativo della riforma del testo unico del pubblico impiego, il tetto massimo del fondo di questo e dei prossimi anni.
Le nuove regole
Ma ciò non è comunque sufficiente: le nuove regole sulla incentivazione delle funzioni tecniche comprendono anche gli appalti di servizi e forniture, mentre in precedenza era prevista solamente la incentivazione dei lavori pubblici.
Essendo invariato il tetto delle risorse che possono essere destinate a queste incentivazioni, cioè il 2% dell'importo posto a base di gara, è assai probabile che si supereranno le somme previste a questo titolo nel 2015. Il che si realizzerà sicuramente nella gran parte delle realtà, nonostante il “decreto correttivo” limita la erogazione di questi compensi nel caso di forniture e servizi alla presenza del direttore della esecuzione, il che determina che in molti casi non si erogherà questo compenso.
Ed ancora, nonostante le amministrazioni si stanno dimostrando molto restie a prevedere somme rilevanti per questa incentivazione nel caso di appalti di forniture e servizi, perché la erogazione di questi compensi determina seccamente un aumento dei costi a carico dei bilanci degli enti o, in numerosi casi, a carico degli utenti. Anche con riferimento a questo elemento si ritiene che, sulla scorta dei principi dettati dalle deliberazioni della magistratura contabile, sia possibile determinare in questo l'anno zero di tali costi a cui fare riferimento come tetto invalicabile per il futuro, visto che esso è il primo in cui la norma è a regime.
Un tetto per il fondo
Di difficile soluzione senza un intervento legislativo è il possibile impatto con effetti stravolgenti di queste somme sul fondo.
Siamo in presenza comunque di somme di grande rilievo: cosa accade in un comune in un anno in cui si fanno molti e/o molto rilevanti appalti di forniture e servizi e, quindi, queste somme aumentano? Si deve tagliare la erogazione degli altri istituti del fondo? E se il fondo ha un elevato grado di rigidità, cosa avviene, visto che certo non si possono tagliare compensi che hanno un carattere fisso (progressioni economiche, comparto, eccetera) o sono legati allo svolgimento di attività essenziali (turno, reperibilità)?
La soluzione, ma occorre un’indicazione legislativa, è che si crei uno specifico tetto all'interno del fondo, per cui queste somme non incidano sul complesso, ma vadano confrontate con il dato omogeneo ovvero che il legislatore stabilisca che queste somme vanno al di fuori del tetto del fondo per la contrattazione decentrata, come si riteneva comunemente fino a qualche settimana fa, cioè fino alla deliberazione 06.04.2017 n. 7 della sezione autonomie della Corte dei conti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.05.2017).

Ma anche un recente nuovo (interessante) arresto circa il defunto "incentivo alla progettazione":
nisba se manca il regolamento interno!!

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Niente incentivi alla progettazione se manca il regolamento.
Innovativa la posizione assunta dalla Corte di cassazione che, con la sentenza n. 13937/2017, non solo fornisce una diversa interpretazione alla propria precedente pronuncia (Cassazione, Sezione Lavoro, 19.07.2004 n. 13384), ma precisa i seguenti presupposti per la legittima erogazione degli incentivi tecnici:
   a) l'attribuzione dell'incentivo deve essere prevista e regolata dalla contrattazione collettiva decentrata;
   b) il potere regolamentare della amministrazione, è limitato alla specificazione dei criteri di ripartizione i cui criteri di ripartizione devono coincidere con i criteri previsti dalla contrattazione collettiva decentrata;
   c) l'attività di progettazione può essere “premiata” dalla contrattazione collettiva decentrata con l'attribuzione degli incentivi se, e solo se, si risolva in una «effettiva utilità per l'amministrazione come attività propedeutica alla realizzazione dell'opera pubblica», quale può essere l'approvazione di un progetto esecutivo dell'opera pubblica;
   d) a fronte della riserva alla contrattazione collettiva (articolo 45 del Dlgs n. 165 del 2001), in mancanza dell'accordo decentrato è inibito al giudice ordinario procedere a liquidare l'incentivo in via equitativa.
Le precedenti indicazioni
In merito all'interpretazione sul diritto soggettivo del dipendente pubblico che effettui attività di progettazione, si era spesa la Corte dei conti, Sezione delle Autonomie (deliberazione n. 7/2009) la quale aveva avuto modo di precisare quanto segue: «la Suprema Corte ha ritenuto che il diritto all'incentivo di cui si sta trattando, costituisce un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva (Cass. Sez. Lav., sent. n. 13384 del 19.07.2004) che inerisce al rapporto di lavoro in corso, nel cui ambito va individuato l'obbligo per l'Amministrazione di adempiere, a prescindere dalle condizioni e dai presupposti per rendere concreta l'erogazione del compenso», precisando successivamente come «dal compimento dell'attività nasce il diritto al compenso». Tali indicazioni della nomofilachia contabile hanno da quel momento assunto un risultato intangibile per le Corti territoriali.
Nel caso sottoposto all'attenzione della Suprema Corte anche il ricorrente, cui la Corte di appello aveva negato l'incentivo per mancata contrattazione dei criteri e in assenza del relativo regolamento da parte dell'amministrazione, precisa come si sia in presenza di un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva spettante ai dipendenti, a nulla rilevando che detti diritti risultino indeterminati quantitativamente fino alla specificazione con regolamento delle modalità di ripartizione del fondo.
L'interpretazione autentica
Gli Ermellini non condividono tale interpretazione, nonostante le indicazioni della giurisprudenza contabile, precisando, diversamente da quanto opina il ricorrente, come i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 13384 del 2004 non offrono alcun supporto alle sue prospettazioni difensive atteso che la necessità del regolamento per il diritto agli incentivi è stata affermata anche nella citata sentenza del 2004, la quale aveva modo di precisare come in assenza di regolamento, essa non abbia affatto riconosciuto il diritto all'incentivo, ma solo il risarcimento del danno per inottemperanza all'obbligo di adozione del Regolamento da parte della amministrazione.
Nel caso di specie, inoltre, il ricorrente non fornisce alcuna prova circa l'esistenza di clausole della contrattazione collettiva integrativa disciplinanti la materia dell'incentivo, cui l'amministrazione avrebbe dovuto adeguarsi in sede regolamentare. Infine, in merito a una possibile liquidazione in via equitativa dell'incentivo da parte del giudice adito reclamato dal ricorrente, secondo i giudici di Palazzo Cavour, va escluso che, in difetto di disposizioni di fonte pattizia collettiva, il giudice avrebbe potuto liquidare in via equitativa il compenso retributivo accessorio domandato, ostandovi il principio di riserva alla contrattazione collettiva espresso nel comma 1 dell'articolo 49 del Dlgs n. 165 del 2001, riaffermato nel comma 1 dell'articolo 45 del Dlgs n. 165 del 2001 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.06.2017).
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MASSIMA
1. Con la sentenza depositata il 01.02.2011, la Corte d'Appello di L'Aquila, per quanto oggi rileva, in accoglimento dell'appello incidentale proposto dal Consorzio di Bonifica Sud - Bacino Moro Sangro Sinello e Trigno -, nei confronti della sentenza del Tribunale di Vasto, ha respinto la domanda proposta da Gi.Ce. volta alla condanna del Consorzio al pagamento della somma di € 60.506,84 a titolo di incentivo per la progettazione ex art. 18 della L. n. 109 del 1994, in relazione alle attività espletate dal 1985 al 2001.
2. La statuizione è fondata sulle argomentazioni motivazionali che seguono: l'art. 18 della legge n. 109 del 1990 rinvia la "ripartizione tra il responsabile unico del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo nonché tra i loro collaboratori", della quota percentuale (1,55) dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, alle modalità ed ai criteri previsti dalla contrattazione collettiva decentrata ed assunti in un regolamento adottato dall'Amministrazione.
Ha rilevato che tanto la contrattazione collettiva decentrata quanto il Regolamento del Consorzio erano intervenuti in epoca successiva all'arco temporale cui era riferita la rivendicazione economica. Ha ritenuto inammissibile, perché proposta solo in grado di appello, la domanda risarcitoria fondata sull'inadempimento del Consorzio e sull'indebito arricchimento da questi conseguito.
...
Esame dei motivi
12. Il primo motivo è infondato, pur dovendo correggersi la motivazione della sentenza impugnata ai sensi dell'art. 384 c.p.c., nei termini di seguito esposti, essendo il dispositivo conforme a diritto.
13. Reputa il Collegio indispensabile la ricostruzione, che difetta nella sentenza impugnata, della disposizione contenuta nell'art. 18 della legge 11.02.1994 n. 109 in quanto, nell'arco temporale al quale è riferita la domanda di pagamento dell'incentivo, tale disposizione è stata oggetto di numerosi interventi del legislatore che ne hanno riformulato il testo, riformandone l'ambito di operatività oggettiva e soggettiva, i presupposti condizionanti l'insorgenza del diritto, le modalità ed i criteri per la sua liquidazione e le regole di contabilità.
14. L'iniziale formulazione dell'art. 18 della L. 11.02.1994, n. 109 così disponeva: "(Incentivi per la progettazione).
1. In sede di contrattazione collettiva decentrata, ai sensi del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e in un quadro di trattamento complessivamente omogeneo delle diverse categorie interessate, può essere individuata una quota non superiore all'1 per cento del costo preventivato di un'opera o di un lavoro, da destinare alla costituzione di un fondo interno e da ripartire tra il personale dell'ufficio tecnico dell'amministrazione aggiudicatrice, qualora esso abbia redatto direttamente il progetto esecutivo della medesima opera o lavoro.
2. Le somme occorrenti ai fini di cui al comma 1 sono prelevate sulle quote degli stanziamenti annuali riservate a spese di progettazione ai sensi dell'articolo 16, comma 8, ed assegnate ad apposito capitolo dello stato di previsione della spesa o ad apposita voce del bilancio delle amministrazioni aggiudicatrici
".
15. Successivamente il D.L. 03.04.1995 n. 101, convertito con modificazioni dalla L. 02.06.1995 n. 216 ha modificato il richiamato art. 18 della L. n. 109 del 1994 nei termini che seguono: "1. In sede di contrattazione collettiva decentrata, ai sensi del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, è ripartita la quota dell'1 per cento del costo preventivato di un'opera o di un lavoro, da destinare alla costituzione di un fondo interno e da ripartire tra il personale dell'ufficio tecnico dell'amministrazione aggiudicatrice, qualora esso abbia redatto direttamente il progetto per l'appalto della medesima opera o lavoro, e il coordinatore unico di cui all'articolo 7 il responsabile del procedimento e i loro collaboratori."
Il decreto legge innanzi richiamato ha anche fatto espresso riferimento a progetti di cui era riscontrato il "perdurare dell'interesse pubblico alla realizzazione dell'opera".
16. A seguito dell'entrata in vigore della legge 15.05.1997 n. 127 (l'art. 16, c. 3), l'art. 18 è stato così riformulato "1. L'1 per cento del costo preventivato di un'opera o di un lavoro ovvero il 50 per cento della tariffa professionale relativa a un atto di pianificazione generale, particolareggiata o esecutiva sono destinati alla costituzione di un fondo interno da ripartire tra il personale degli uffici tecnici dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di pianificazione, qualora essi abbiano redatto direttamente i progetti o i piani, il coordinatore unico di cui all'articolo 7, il responsabile del procedimento e i loro collaboratori.
1-bis. Il fondo di cui al comma 1 è ripartito per ogni singola opera o atto di pianificazione, sulla base di un regolamento dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di pianificazione
".
17. La legge 16.06.1998 n. 191 (art. 2, c. 18) ha apportato ulteriori innovazioni all'art. 18 che per effetto delle modifiche recita: "L'1 per cento del costo preventivato di un'opera o di un lavoro ovvero il 50 per cento della tariffa professionale relativa a un atto di pianificazione generale, particolareggiata o esecutiva sono destinati alla costituzione di un fondo interno da ripartire tra il personale degli uffici tecnici dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di pianificazione, qualora essi abbiano redatto direttamente i progetti o i piani, il coordinatore unico di cui all'articolo 7, il responsabile del procedimento e i loro collaboratori.
1-bis. Il fondo di cui al comma 1 è ripartito per ogni singola opera o atto di pianificazione, sulla base di un regolamento dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di pianificazione, nel quale vengono indicati i criteri di ripartizione che tengano conto delle responsabilità professionali assunte dagli autori dei progetti e dei piani, nonché dagli incaricati della direzione dei lavori e del collaudo in corso d'opera
".
18. Infine, per quanto rileva temporalmente nella vicenda in esame, la legge 17.05.1999 n. 140 ha disposto con l'art. 13, c. 4, la modifica dell'art. 18, commi 1 e 1-bis che, per effetto delle modifiche così recita: "Una somma non superiore all' 1,5 per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 16, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità ed i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata ed assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile unico del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo dell'1,5 per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere Le quote parti della predetta somma corrispondenti a prestazioni che non sono svolte dai predetti dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, costituiscono economie. I commi quarto e quinto dell'articolo 62 del regolamento approvato con regio decreto 23.10.1925, n. 2537, sono abrogati. I soggetti di cui all'articolo 2, comma 2, lettera b), possono adottare con proprio provvedimento analoghi criteri.
2. Il 30 per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità ed i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 1, tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto
".
19. In continuità con i principi già affermati da questa Corte nella sentenza n. 8344 del 2011, deve ritenersi che l'art. 18, nella formulazione originaria ed in quella derivata dalle modifiche apportate dal D.L. n. 101 del 1995, convertito con modificazioni dalla L. n. 216 del 1995 ha attribuito alla contrattazione collettiva, decentrata, la possibilità, di individuare la quota della percentuale del costo preventivato di un'opera o di un lavoro da destinare alla costituzione del Fondo interno da ripartire tra i soggetti individuati dalla norma. Tanto in sintonia con l'art. 49 del D.Lgs. n. 29 del 1993, che aveva demandato alla contrattazione collettiva la regolamentazione del trattamento retributivo, fondamentale ed accessorio, dei pubblici dipendenti con rapporto di lavoro privatizzato. La norma, infatti si era limitata a porre i limiti legali all' intervento della contrattazione collettiva decentrata.
20. A seguito delle modifiche apportate dall'art. 16, c. 3, della L. n. 127 del 1997, la individuazione dei criteri di ripartizione del Fondo, destinato al pagamento dell'incentivo, è stata attribuita alla potestà regolamentare della Amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di pianificazione, nel rispetto della normativa primaria, regola, questa, confermata dalle modifiche introdotte dall' art. 2, c. 18, della L. n. 191 del 1998, che ha dettato più precisi criteri per l'esercizio della potestà regolamentare (responsabilità professionali degli autori dei progetti e dei piani e degli incaricati della direzione dei lavoro e dei collaudi in corso d'opera), mentre la riformulazione dell'art. 18 della legge n. 109 del 1994 ad opera dell'art. 13, c. 4, della L. n. 144 del 1999, ha previsto che la potestà regolamentare dell'amministrazione aggiudicatrice debba in sostanza compendiarsi nel recepimento dei criteri di ripartizione stabiliti dalla contrattazione collettiva decentrata.
21. L'evoluzione del quadro normativo consente, in conclusione di affermare, che l'attribuzione dell'incentivo deve essere prevista e regolata dalla contrattazione collettiva decentrata, che il potere regolamentare della Amministrazione, introdotto dalla L. n. 127 del 1997 è limitato alla specificazione dei criteri di ripartizione, che tale specificazione, a far tempo dall'entrata in vigore dell'art. 13, c. 4, della L. n. 140 del 1999, deve coincidere con i criteri previsti dalla contrattazione collettiva decentrata.
22. L'esame del dato testuale contenuto nelle formulazioni dell'art. 18 della L. n. 109 del 1994 via via succedetesi nel tempo, consente inoltre di affermare, in conformità ai principi affermati da questa Corte territoriale nelle sentenze n. 11022/2016, n. 16736 del 2013 e n. 8344 del 2011 che l'attività di progettazione può essere "premiata" dalla contrattazione collettiva decentrata con l'attribuzione degli incentivi dell'art. 18 se e solo se si risolva in un'"effettiva utilità per l'amministrazione come attività propedeutica alla realizzazione dell'opera pubblica", quale può essere l'approvazione di un progetto esecutivo dell'opera pubblica.
23. Le prospettazioni difensive formulate dal ricorrente nel motivo in esame, e che invocando la sentenza di questa Corte n. 13384 del 2004, muovono dall'assunto secondo cui la norma di cui all'art. 18 citato, affermerebbe un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva spettante ai dipendenti, a nulla rilevando che detti diritti risultino indeterminati quantitativamente fino alla specificazione con regolamento delle modalità di ripartizione del fondo, svalutano i dati normativi richiamati nei punti da 13 a 18 di questa sentenza.
24. Come già rilevato nei punti da 19 a 22 di questa sentenza,
il dato letterale e sistematico delle diverse formulazioni dell'art. 18 che si sono succedute nel tempo, attesta che l'incentivo può essere attribuito se previsto dalla contrattazione collettiva decentrata e se sia stato adottato l'atto regolamentare della Amministrazione aggiudicatrice volto alla precisazione dei criteri di dettaglio per la ripartizione delle risorse finanziarie confluite nel Fondo e solo a condizione che l'attività di progettazione sia arrivata in una fase avanzata, perché sono intervenuti un progetto esecutivo approvato ed un'opera da realizzare.
25. Siffatti presupposti non ricorrono nella fattispecie dedotta in giudizio atteso che non è stata oggetto di alcuna censura l'affermazione della Corte territoriale secondo cui il regolamento è stato adottato solo in data 27.06.2007 e considerato che mai il Giuliani ha allegato l'esistenza di clausole della contrattazione collettiva integrativa disciplinanti la materia dell'incentivo previsto dall'art. 18 della L. n. 109 del 1994, come successivamente modificata.
26. Deve, infine, affermarsi che diversamente da quanto opina il ricorrente,
i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 13384 del 2004 non offrono alcun supporto alle sue prospettazioni difensive atteso che, come già osservato da questa Corte nella Ordinanza n. 3779 del 2012, la necessità del regolamento per il diritto agli incentivi è stata affermata anche nella sentenza del 2004, la quale in assenza di regolamento, non ha affatto riconosciuto il diritto all'incentivo, ma solo il risarcimento del danno per inottemperanza all'obbligo di adozione del Regolamento da parte della Amministrazione aggiudicatrice.
27. Deve, poi, escludersi che in difetto di disposizioni di fonte pattizia collettiva, il giudice avrebbe potuto liquidare in via equitativa il compenso retributivo accessorio domandato, ostandovi il principio di riserva alla contrattazione collettiva espresso nel richiamato c. 1 dell'art. 49 del D.Lgs. n. 165 del 2001, riaffermato nel c. 1 dell'art. 45 del D.Lgs. n. 165 del 2001.
28. Va, infine, rilevato, che il vizio in esame è inammissibile nella parte in cui è denunciata la violazione dell'art. 2126 c.c. in quanto, in difformità da quanto prescritto dall'art. 366, primo comma, n. 3 c.p.c., il ricorrente non ha svolto alcuna argomentazione volta a dimostrare in qual modo la sentenza abbia violato la disposizione codicistica ovvero l'interpretazione datane dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 24298/2016, 87/2016, 3010/2012, 5353/2007; Ord. 187/2014, 16308/2013) (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 05.06.2017 n. 13937).

INCENTIVO PROGETTAZIONEPer il diritto all'incentivo è indispensabile la predisposizione di un regolamento per determinarne le modalità di erogazione, perché così la legge prescrive.
Invero
la necessità del regolamento per il diritto agli incentivi è stata affermata anche da questa Corte perché, nella fattispecie trattata, in assenza di regolamento non è stato affatto riconosciuto il diritto all'incentivo, ma solo il risarcimento del danno per inottemperanza all'obbligo imposto dalla legge.
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Sono invece manifestamente fondati i primi tre motivi in cui si contesta il diritto all'incentivo di cui all'art. 19 della legge 109/1994.
Ed infatti,
per il diritto all'incentivo, era indispensabile la predisposizione di un regolamento per determinarne le modalità di erogazione, perché così la legge prescrive, e nella specie il regolamento di cui alla delibera n. 1401 del 2003 era stato annullato. Né era passibile di sostituzione con accordi di sorta.
Invero
la necessità del regolamento per il diritto agli incentivi è stata affermata anche da questa Corte con la sentenza indicata dai Giudici di merito a supporto della decisione, perché, in quel caso, in assenza di regolamento, non è stato affatto riconosciuto il diritto all'incentivo, ma solo il risarcimento del danno per inottemperanza all'obbligo imposto dalla legge.
E' stato infatti affermato (Cass. n. 13384 del 19/07/2004) che "
Il disposto dei commi primo e primo-bis dell'art. 18 della legge n. 109 D.L. 1994 (nel testo vigente a seguito delle modifiche di cui alla legge n. 127 del 1997 e prima delle modificazioni successivamente introdotte dalla legge n. 144 del 1999) nel prevedere l'obbligo delle amministrazioni aggiudicatarie o titolari di atti di pianificazione di costituire un fondo interno e di ripartirlo tra il personale dei loro uffici tecnici, nonché di emanare un regolamento per le relative modalità di erogazione, correlava tali obblighi ai rapporti di lavoro in corso attribuendo a detti dipendenti un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva, alla cui configurabilità non era d'ostacolo la necessità di una successiva determinazione nel quantum, dovendosi, del resto, da un lato escludere che l'emanazione del regolamento (peraltro non subordinata dal suddetto disposto alla determinazione di criteri e modalità nella contrattazione decentrata) potesse configurarsi come condizione di esistenza di detto diritto, atteso che altrimenti si sarebbe dovuta qualificare come condizione meramente potestativa e perciò invalida, e, dall'altro, ritenere irrilevante l'assenza di un termine per detta emanazione, in quanto l'inerenza dell'obbligo ad un rapporto contrattuale comportava per le amministrazioni il rispetto dei principi di correttezza e buona fede e, quindi, il dovere di procedere all'emanazione in tempi ragionevoli".
Sulla base di tali principi la S.C., dando atto che non costituiva oggetto di impugnazione la statuizione del giudice di merito sull'applicabilità alla vicenda giudicata del sopra citato disposto normativo, ha riconosciuto fondata la pretesa di un lavoratore dell'ANAS al "risarcimento dei danni" a titolo di responsabilità ex art. 1218 cod. civ., per la mancata corresponsione del premio incentivante a seguito dell'omessa costituzione del fondo (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 09.03.2012 n. 3779).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: In assenza di regolamento, non si ha diritto al riconoscimento dell'incentivo ma solo il risarcimento del danno per inottemperanza all'obbligo di adozione del Regolamento da parte della Amministrazione aggiudicatrice.
Il disposto dei commi 1 e 1-bis dell'art. 18 della legge n. 109 del 1994 (nel testo vigente a seguito delle modifiche di cui alla legge n. 127 del 1997 e prima delle modificazioni successivamente introdotte dalla legge n. 144 del 1999) nel prevedere l'obbligo delle amministrazioni aggiudicatarie o titolari di atti di pianificazione di costituire un fondo interno e di ripartirlo tra il personale dei loro uffici tecnici, nonché di emanare un regolamento per le relative modalità di erogazione, correlava tali obblighi ai rapporti di lavoro in corso attribuendo a detti dipendenti un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva, alla cui configurabilità non era d'ostacolo la necessità di una successiva determinazione nel "quantum", dovendosi, del resto, da un lato escludere che l'emanazione del regolamento (peraltro non subordinata dal suddetto disposto alla determinazione di criteri e modalità nella contrattazione decentrata) potesse configurarsi come condizione di esistenza di detto diritto, atteso che altrimenti si sarebbe dovuta qualificare come condizione meramente potestativa e perciò invalida, e, dall'altro, ritenere irrilevante l'assenza di un termine per detta emanazione, in quanto l'inerenza dell'obbligo ad un rapporto contrattuale comportava per le amministrazioni il rispetto dei principi di correttezza e buona fede e, quindi, il dovere di procedere all'emanazione in tempi ragionevoli (sulla base di tali principi la S.C., dando atto che non costituiva oggetto di impugnazione la statuizione del giudice di merito sull'applicabilità alla vicenda giudicata del sopra citato disposto normativo, ha riconosciuto fondata la pretesa di un lavoratore dell'A.N.A.S. al risarcimento dei danni a titolo di responsabilità "ex" art. 1218 c.c., per la mancata corresponsione del premio incentivante a seguito dell'omessa costituzione del fondo, escludendo che -in ragione della loro applicabilità per un preciso ambito temporale- potesse integrare causa di non imputabilità dell'inadempimento dell'obbligo di costituzione la successione di varie modifiche al testo dell'art. 18 legge n. 109 del 1994).
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La norma di cui al comma 1-bis dell'art. 18 della legge n. 109 del 1994, aggiunto dall'art. 6, comma tredicesimo, della legge n. 127 del 1997 (e, quindi, vigente anteriormente alla modifica dello stesso art. 18 disposta dall'art. 13, comma quarto, della legge n. 144 del 1999) imponeva alle Amministrazioni che ne erano destinatarie l'obbligo di emanare un regolamento per la determinazione delle modalità di erogazione del fondo interno previsto dal comma primo, senza che l'emanazione fosse subordinata alla preventiva determinazione di criteri e modalità fissati dalla contrattazione decentrata (essendo stato il riferimento a tale contrattazione reintrodotto soltanto con la legge n. 144 del 1999).

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Il primo motivo di ricorso è infondato per le seguenti considerazioni.
La ricorrente non censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che alla fattispecie in esame non possa applicarsi il disposto dell'art. 13, comma 4, della legge 17.05.1999 n. 144 (recante la formulazione attualmente vigente dell'art. 18 della legge 109/1994), perché norma priva di efficacia retroattiva e quindi non applicabile al periodo di tempo (27.01.1994/16.07.1998) in cui si sarebbe verificata la lesione per la quale il Ra. ha chiesto il risarcimento del danno. Neppure è oggetto di specifica censura il parametro legislativo di riferimento, individuato dalla Corte torinese "ratione temporis" nella versione del menzionato art. 18 legge 109/1994 introdotta dall'art. 6, comma 13, della legge 15.05.1997 n. 127.
Quest'ultima norma così dispone. Comma 1: "L'1 per cento del costo preventivato di un'opera o di un lavoro ovvero il 50 per cento della tariffa professionale relativa a un atto di pianificazione generale, particolareggiata o esecutiva, sono destinati alla costituzione di un fondo interno da ripartire tra il personale degli uffici tecnici dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di pianificazione, qualora essi abbiano redatto direttamente i progetti o i piani, il coordinatore unico di cui all'art. 7, il responsabile del procedimento e i loro collaboratori". Comma 1-bis: "Il fondo di cui al comma 1 è ripartito per ogni singola opera o atto di pianificazione sulla base di un regolamento dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di pianificazione".
Dalla norma sopra trascritta si ricava:
   a) l'obbligo dell'amministrazione di costituire un fondo interno destinandovi l'1 per cento del costo preventivato dell'opera da realizzare o il 50 per cento della tariffa professionale relativa ad un atto di pianificazione;
   b) l'obbligo di ripartire detto fondo tra il personale degli uffici tecnici dell'amministrazione;
   c) l'obbligo di emanare un regolamento per determinare le modalità di erogazione del fondo.
Nella versione in esame della norma, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, l'emanazione del regolamento non è subordinata alla preventiva determinazione di criteri e modalità fissati dalla contrattazione decentrata. Tale riferimento alla contrattazione decentrata verrà reintrodotto solo con la legge 17.05.1999 n. 144, non applicabile alla fattispecie in esame.
Dalla norma di legge sopra trascritta si ricava altresì che tutti i predetti obblighi dell'amministrazione sono previsti in relazione a rapporti di lavoro in corso con i propri dipendenti; essi pertanto trovano la loro correlazione in un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva spettante ai dipendenti specificamente indicati nella norma. A nulla rileva che i predetti diritti siano quantitativamente indeterminati fino alla specificazione con regolamento delle modalità di ripartizione del fondo: infatti non osta all'esistenza del diritto retributivo del lavoratore la necessità di una successiva determinazione del quantum.
D'altro canto l'emanazione del regolamento non può essere configurata come condizione di esistenza del diritto, poiché una siffatta condizione null'altro sarebbe che una condizione meramente potestativa, da ritenersi invalida a norma dell'art. 1355 c.c.. Neppure può essere rilevante in senso contrario che la legge non ponga un termine all'amministrazione per l'emanazione del regolamento: l'inerenza dell'obbligo in questione ad un rapporto contrattuale comporta infatti per l'amministrazione il rispetto dei principi di correttezza (art. 1175 c.c.) e buona fede (art. 1375 c.c.), per cui l'ANAS era comunque tenuta ad emanare il regolamento entro termini ragionevoli.
Non avendo a ciò provveduto, l'ente si è reso certamente inadempiente nei confronti dei dipendenti aventi diritto alla liquidazione del fondo ed è tenuto a risarcire loro i danni subiti, ai sensi dell'art. 1218 c.c. , non avendo il debitore né allegato né provato l'impossibilità di tale adempimento per cause a lui non imputabili. Non costituiscono motivo di oggettiva impossibilità, infatti, le varie modifiche legislative al testo dell'art. 18 cit., atteso che, non avendo le innovazioni effetti retroattivi, ogni versione della norma aveva un suo preciso ambito di applicazione temporale.
In definitiva la responsabilità dell'ANAS nei confronti del Ra. non può essere messa in dubbio, avuto anche riguardo alla natura di ente pubblico economico assunta dall'azienda a partire dal 19.08.1995 ed alla conseguente contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti.
La sentenza impugnata, pertanto, nella parte in cui afferma la responsabilità dell'ANAS, deve trovare piena conferma, sia pure con le doverose precisazioni in diritto sopra specificate (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 19.07.2004 n. 13384).

 
 

"Campo minato" quello dell'incarico al legale:

APPALTI - INCARICHI PROFESSIONALISussiste l'onere d’immediata impugnazione del bando di gara pubblica per contestare clausole di loro impeditive dell'ammissione dell'interessato alla gara, o anche solo impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, ovvero che rendano ingiustificatamente più difficoltosa per i concorrenti la partecipazione alla gara.
In siffatti casi già la pubblicazione del bando genera una lesione della situazione giuridica per chi intenderebbe partecipare alla competizione ma non può farlo a causa della barriera all’ingresso a quello specifico mercato provocata da clausole del bando per lui insuperabili perché immediatamente escludenti o che assume irragionevoli o sproporzionate per eccesso; il che comporta per lui un arresto procedimentale perché gli si rendono inconfigurabili successivi atti applicativi utili.

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Il motivo, ritiene qui il Collegio, è infondato.
Vanno condivise le giuste considerazioni della sentenza di prime cure sull’onere di immediata impugnazione del bando di gara, che opera allorché –come nel caso presente- le clausole della lex specialis prevedano requisiti di partecipazione ex se ostativi all'ammissione dell'interessato, vale a dire autonomamente ed immediatamente escludenti.
La giurisprudenza da tempo assume che sussiste l'onere d’immediata impugnazione del bando di gara pubblica per contestare clausole di loro impeditive dell'ammissione dell'interessato alla gara, o anche solo impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, ovvero che rendano ingiustificatamente più difficoltosa per i concorrenti la partecipazione alla gara. In siffatti casi già la pubblicazione del bando genera una lesione della situazione giuridica per chi intenderebbe partecipare alla competizione ma non può farlo a causa della barriera all’ingresso a quello specifico mercato provocata da clausole del bando per lui insuperabili perché immediatamente escludenti o che assume irragionevoli o sproporzionate per eccesso; il che comporta per lui un arresto procedimentale perché gli si rendono inconfigurabili successivi atti applicativi utili (da ultimo Cons. Stato, V, 16.01.2015, n. 92; V, 20.11.2015, n. 5296; V, 06.06.2016 n. 2359).
Nella specie, una tale preclusione all’accesso alla contesa è costituita, per un avvocato –vale a dire, per un esercente la professione cui è per legge riservato il tipo giuridico della prestazione in gara di consulenza legale e che dunque è per ciò solo legittimato ad ambire all’aggiudicazione- dalla richiesta del requisito di un fatturato globale di ingenti entità, corrispondenti a non meno di € 20.000.000, iva esclusa, per consulenze strategico-organizzative e un fatturato per servizi legali nel diritto amministrativo non inferiore a €. 2.000.000,00, iva esclusa, di cui almeno €. 1.000.000,00 conseguiti per prestazioni di assistenza e di consulenza stragiudiziale legale in materia di contratti pubblici all’interno di tre esercizi finanziari ed un oggetto di gara.
Sulla base di siffatti livelli economici –di dimensioni tali da superare una proporzione che sia indice di qualità professionale- la sommatoria delle pregresse prestazioni richieste restringe effettivamente la platea dei concorrenti a un numero limitatissimo: sicché l’effetto di sbarramento del mercato con conseguente onere di immediata impugnazione diviene palese; la presentazione della domanda di partecipazione avrebbe avuto solo un carattere formale e dunque non necessario a radicare il bisogno di giustizia (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.06.2017 n. 3110 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Sulla illegittimità di un appalto di servizi legali indetto da un Comune secondo il criterio del prezzo più basso e sulle modalità con cui l’amministrazione comunale ha determinato l’importo dell’appalto.
Il D.Lgs. n. 50/2016 e, prima ancora, la direttiva 2014/24/UE, ha segnato una netta preferenza per l’applicazione di criteri di aggiudicazione che si fondino su un complessivo apprezzamento del miglior rapporto qualità/prezzo, relegando il tradizionale criterio del prezzo più basso ad ipotesi tassativamente individuate.
Conseguentemente, il criterio di aggiudicazione fondato sul rapporto qualità/prezzo costituisce un principio immanente al sistema che consente l’applicazione del prezzo più basso solo nei casi espressamente previsti.

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In tale prospettiva,
il criterio qualità/prezzo è certamente più agevolmente coniugabile (rispetto al criterio del massimo ribasso) con il disposto dell’art. 2233, 2° comma, cod. civ., che –nel disciplinare il contratto d’opera intellettuale, cui è pur sempre riconducibile l’attività legale– dispone che “in ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione”.
Le considerazioni innanzi svolte dimostrano le ragioni dell’illegittimità della scelta dell’amministrazione comunale di procedere con il criterio del prezzo più basso, atteso che esso non è compatibile con le disposizioni dell’art. 95 del codice –come si è detto, per più motivi applicabile all’appalto per cui è causa– poiché il legislatore ne ha reso possibile l’applicazione solo in presenza di prestazioni ripetitive ovvero standardizzate, connotati questi che certo non possono ritenersi propri della attività legale che si caratterizza, invece, proprio per la peculiarità e specificità di ciascuna questione, sia essa contenziosa o stragiudiziale.

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I servizi esclusi dall’ambito oggettivo di applicazione del Codice, quale quello in esame, sono comunque soggetti ai “principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell’ambiente ed efficienza energetica” ex art. 4 Codice.
L’applicazione dei principi di trasparenza e di pubblicità richiedono che ogni potenziale offerente sia messo in condizione di essere a conoscenza di tutte le informazioni necessarie all’appalto in modo tale da consentire un’offerta completa ed adeguata.

Nel caso in esame, l’amministrazione comunale ha omesso del tutto l’applicazione di questi principi. Infatti,
nessuna motivazione è stata data in ordine alla congruità del compenso posto a base di gara, e non è stata effettuata alcuna istruttoria per determinare i parametri, quali la tipologia o quantità del contenzioso anche prendendo in considerazione gli anni precedenti, idonei per determinare il prezzo posto a base di gara e per permettere un’offerta consapevole.
Infatti, l’impossibilità di predeterminare il numero e gli importi dei procedimenti contenziosi, nonché la qualità e quantità dell’attività stragiudiziale, preclude qualsiasi serio apprezzamento della congruità dell’importo a base d’asta che, almeno teoricamente, l’amministrazione avrebbe potuto confortare ove avesse fornito dati statistici desunti dall’attività svolta negli anni precedenti.
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FATTO
I ricorrenti hanno impugnato gli atti con cui il comune di Racale ha indetto una gara, per l’affidamento della gestione del contenzioso e del supporto giuridico-legale ai vari uffici, e la successiva aggiudicazione provvisoria.
I ricorrenti hanno dedotto i seguenti motivi:
   1. Violazione art. 7, comma 6, d.lgs. 165/2001; eccesso di potere per falsa applicazione del d.lgs. 50/2016; eccesso di potere per carenza di istruttoria.
   2. Violazione e/o falsa applicazione del d.lgs. 50/2016; eccesso di potere per irragionevolezza e illogicità manifeste.
   3. Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 95 e 83 del d.lgs. 50/2016; eccesso di potere per illogicità e irragionevolezza manifeste; carenza di istruttoria.
   4. Violazione di legge; violazione d.lgs. 50/2016 e, in particolare, degli artt. 3 e 95, comma 2; violazione del d.m. 55/2014; violazione dell’art. 2233, comma 2, c.c.; violazione dei principi i tema di appalto a corpo e di indeterminatezza dell’oggetto.
   5. Falsa ed erronea interpretazione ed applicazione degli artt. 17, 4, 60 e 95, del d.lgs. 50/2016; violazione dei principi generali in materia di organizzazione e struttura dei servizi comunali, anche di cui al d.lgs. 267/2000; violazione degli artt. 18, 19 e 23 della l. 247/2012; violazione dei principi generali in tema di obbligo di svolgimento del concorso pubblico; falsa ed erronea interpretazione ed applicazione degli artt. 7, comma 6, 6-bis, 6-ter e 6-quater del d.lgs. 165/2001, dell’art. 110, comma 6, del d.lgs. 267/2000, dell’art. 2222 e ss. c.c. e dell’art., comma 56, della l. 244/2007, in considerazione anche del d.l. 112/2008; assoluta carenza motivazionale; violazione di legge; sviamento di potere.
Sostengono i ricorrenti:
   - che la prestazione professionale prevista dal bando non rientra nell’ambito di applicazione del d.lgs. 50/2016, ma deve ritenersi regolata dagli artt. 7 e 8 del d.lgs. 165/2001;
   - che la prestazione di rappresentanza legale non rientra nell’ambito dell’appalto;
che comunque, anche a voler ammettere l’appalto di servizi legali, non è possibile affidare questi servizi con il criterio del massimo ribasso e senza idonei criteri di selezione;
   - che, in ragione dell’importo a base d’asta, l’affidamento del servizio, essendo sottosoglia, risulta disciplinato dall’art. 95 del Codice che ammette il criterio del minor prezzo solo per i servizi con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato; che non sono stati indicati idonei criteri di selezione;
   - che sussiste una carenza di istruttoria in ordine alla determinazione dell’importo del prezzo base su cui operare il ribasso;
   - che si tratta di un contratto a misura e non a corpo;
   - che il prezzo previsto è violativo dell’art. 2233, comma 2, c.c.;
   - che, in ragione delle modalità di svolgimento del servizio richiesto, si è, in sostanza, acquisita senza concorso la disponibilità di prestazioni professionali assimilabili a quelle del lavoro dipendente;
   - che ciò integra una ulteriore illegittimità sotto il profilo dell’incompatibilità con il regime proprio dell’attività dell’avvocato esercente la libera professione.
I ricorrenti hanno poi chiesto il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia sulla questione se la direttiva 2014/24/UE osti a una disciplina nazionale che preveda la possibilità di indire una procedura a evidenza pubblica per l’affidamento di un appalto di servizi legali.
Il Comune, con memoria del 16.01.2017, ha eccepito l’inammissibilità del ricorso collettivo per la disomogeneità delle posizioni sostanziali vantate dai ricorrenti, nonché per difetto di legittimazione a ricorrere in capo alle varie categorie di ricorrenti, e l’irricevibilità del ricorso.
Nel merito ha rilevato:
   - che con l’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti non si può più applicare l’art. 7, comma 6, d.lgs. 165/2001;
   - che il nuovo codice chiarisce che lo svolgimento di attività giuridico-legale in favore delle amministrazioni configura un appalto di servizi;
   - che le amministrazioni possono scegliere di avviare una vera e propria procedura di gara;
   - che nessuna norma preclude l’utilizzo del criterio del massimo ribasso;
   - che l’art. 95 del codice non può applicarsi al caso in esame posto che è uno dei servizi per i quali trovano applicazione solo gli artt. 140, 142, 143 e 144;
   - che nessuna disposizione impone alla stazione appaltante di prevedere speciali criteri di qualificazione;
   - che alla procedura hanno partecipato 17 professionisti con la conseguenza che il prezzo determinato non può ritenersi incongruo;
   - che le tariffe professionali sono state abrogate; che il Comune non ha assunto alcun nuovo dipendente.
Con ordinanza 19.01.2017 n. 21 è stata accolta la richiesta misura cautelare.
Le parti hanno depositato ulteriori memorie.
Alla pubblica udienza del 29.03.2017 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
...
2. Nel merito.
2.1. Infondato è il motivo di ricorso con cui si contesta l’applicazione alla tipologia di servizi in questione della disciplina del d.lgs. 50/2016.
Il nuovo codice dei contratti, che, per quanto qui interessa, ha fedelmente recepito le direttive comunitarie, ha mantenuto i servizi legali tra gli appalti elencati nell’allegato IX, cui si applica il regime “alleggerito” ex artt. 140 e ss., mentre all’art. 17 sono elencati tra gli appalti esclusi dall’applicazione del codice quelli di servizi concernenti cinque tipologie di servizi legali tra cui, per quanto qui interessa, quelli di “rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato ai sensi dell'articolo 1 della legge 09.02.1982, n. 31, e successive modificazioni”.
Nel caso di specie, è pacifico che il bando aveva ad oggetto sia l’affidamento relativo all’attività contenziosa, rientrante nel citato art. 17, sia l’affidamento di attività stragiudiziale rientrante negli appalti di servizi di cui al citato allegato IX.
Quest’ultima, soprattutto quando ha carattere generale, deve essere affidata nel rispetto delle previsioni del codice dei contratti.
Nel caso in esame non è possibile apprezzare se risulti prevalente
l’attività contenziosa (il cui affidamento è sottratto al codice dei contratti) o quella stragiudiziale (da affidare nel rispetto del codice dei contratti e delle altre norme dell’ordinamento applicabili) e, a ben vedere, non è neanche necessario tale accertamento poiché l’amministrazione ha inteso operare un unico affidamento sia per il contenzioso sia per l’attività stragiudiziale, di talché una siffatta scelta non poteva che comportare la necessità della procedura ad evidenza pubblica, quale che fosse l’estensione e il “peso” delle attività stragiudiziali, pena, altrimenti, la violazione delle norme che ne regolano l’affidamento. Peraltro, la ordinaria sottrazione dell’affidamento del contenzioso alle procedure del codice dei contratti non preclude certo all’amministrazione di far ricorso ad esse per propria scelta, non risultando rinvenibile un divieto in tal senso.
Va da sé che
la decisione di operare un unico affidamento –sia del contenzioso sia dell’attività stragiudiziale– impone, come innanzi già esposto, il rispetto delle norme del codice dei contratti pubblici e delle altre disposizioni dell’ordinamento.
Di qui l’insussistenza dei presupposti per una rimessione della questione alla Corte di Giustizia.
2.2. Ciò premesso,
al fine di individuare, per quanto in questa sede necessario, le disposizioni applicabili all’affidamento dei servizi legali, occorre rammentare che, oltre agli artt. 140, 142, 143 e 144, trova applicazione all’appalto de quo anche l’art. 95 d.lgs. 50/2016 –concernente i criteri di aggiudicazione- come rilevato da una condivisibile giurisprudenza, “in virtù dell'esplicito rinvio operato, per tutti gli appalti dei settori speciali, dall'art. 133, I comma, dello stesso Codice (applicabile anche ai servizi specifici di cui all'Allegato IX, per effetto della previsione dell'art. 114, I comma, il quale estende in via generale l'applicabilità della disciplina del Titolo VI - Capo I del Codice, ivi compreso l'art. 133 e le norme da quest'ultimo richiamate, anche ai servizi elencati nell'Allegato IX e menzionati nell'art. 140, I comma) (Tar Calabria, Reggio Calabria, sez. I, 30.11.2016, n. 1186).
L’art. 95 codice dei contratti pubblici, prevede che “
salve le disposizioni legislative, regolamentari o amministrative relative al prezzo di determinate forniture o alla remunerazione di servizi specifici, le stazioni appaltanti, nel rispetto dei principi di trasparenza, di non discriminazione e di parità di trattamento, procedono all'aggiudicazione degli appalti e all'affidamento dei concorsi di progettazione e dei concorsi di idee, sulla base del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo o sulla base dell'elemento prezzo o del costo, seguendo un criterio di comparazione costo/efficacia quale il costo del ciclo di vita, conformemente all'articolo 96” (comma 2).
Per il comma 4 “
Può essere utilizzato il criterio del minor prezzo:
   a) per i lavori di importo pari o inferiore a 1.000.000 di euro, tenuto conto che la rispondenza ai requisiti di qualità è garantita dall'obbligo che la procedura di gara avvenga sulla base del progetto esecutivo;
   b) per i servizi e le forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato;
   c) per i servizi e le forniture di importo inferiore alla soglia di cui all'articolo 35, caratterizzati da elevata ripetitività, fatta eccezione per quelli di notevole contenuto tecnologico o che hanno un carattere innovativo
”.
Il D.Lgs. n. 50/2016 e, prima ancora, la direttiva 2014/24/UE, ha segnato una netta preferenza per l’applicazione di criteri di aggiudicazione che si fondino su un complessivo apprezzamento del miglior rapporto qualità/prezzo, relegando il tradizionale criterio del prezzo più basso ad ipotesi tassativamente individuate. Conseguentemente, il criterio di aggiudicazione fondato sul rapporto qualità/prezzo costituisce un principio immanente al sistema che consente l’applicazione del prezzo più basso solo nei casi espressamente previsti.
In tale prospettiva,
il criterio qualità/prezzo è certamente più agevolmente coniugabile (rispetto al criterio del massimo ribasso) con il disposto dell’art. 2233, 2° comma, cod. civ., che –nel disciplinare il contratto d’opera intellettuale, cui è pur sempre riconducibile l’attività legale– dispone che “in ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione”.
Le considerazioni innanzi svolte dimostrano –conformemente alle deduzioni ricorsuali- le ragioni dell’illegittimità della scelta dell’amministrazione comunale di procedere con il criterio del prezzo più basso, atteso che esso non è compatibile con le disposizioni dell’art. 95 del codice –come si è detto, per più motivi applicabile all’appalto per cui è causa– poiché il legislatore ne ha reso possibile l’applicazione solo in presenza di prestazioni ripetitive ovvero standardizzate, connotati questi che certo non possono ritenersi propri della attività legale che si caratterizza, invece, proprio per la peculiarità e specificità di ciascuna questione, sia essa contenziosa o stragiudiziale.
2.3. È inoltre fondato il motivo con cui si contestano le modalità con cui l’amministrazione comunale ha determinato l’importo dell’appalto.
I servizi esclusi dall’ambito oggettivo di applicazione del Codice, quale quello in esame, sono comunque soggetti ai “principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell’ambiente ed efficienza energetica” ex art. 4 Codice.
L’applicazione dei principi di trasparenza e di pubblicità richiedono che ogni potenziale offerente sia messo in condizione di essere a conoscenza di tutte le informazioni necessarie all’appalto in modo tale da consentire un’offerta completa ed adeguata.

Nel caso in esame, l’amministrazione comunale ha omesso del tutto l’applicazione di questi principi.
Infatti,
nessuna motivazione è stata data in ordine alla congruità del compenso posto a base di gara, e non è stata effettuata alcuna istruttoria per determinare i parametri, quali la tipologia o quantità del contenzioso anche prendendo in considerazione gli anni precedenti, idonei per determinare il prezzo posto a base di gara e per permettere un’offerta consapevole.
Infatti, l’impossibilità di predeterminare il numero e gli importi dei procedimenti contenziosi, nonché la qualità e quantità dell’attività stragiudiziale, preclude qualsiasi serio apprezzamento della congruità dell’importo a base d’asta che, almeno teoricamente, l’amministrazione avrebbe potuto confortare ove avesse fornito dati statistici desunti dall’attività svolta negli anni precedenti.

3 In conclusione, il ricorso, previa dichiarazione di inammissibilità dello stesso per difetto di legittimazione attiva nei confronti dell’Ordine degli Avvocati, va accolto, nei termini innanzi indicati, con assorbimento delle censure non esaminate (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 31.05.2017 n. 875 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Illegittima la scelta fiduciaria del legale esterno.
Con la deliberazione 26.04.2017 n. 75 (Relazione sui servizi legali attribuiti nel 2015 - Comune di Faenza (Ra). A seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016, anche il singolo incarico di patrocinio legale dev'essere inquadrato come appalto di servizi, affidato nel rispetto dei principi di cui all'art. 4 del citato d.lgs. E' legittima la redazione di elenchi di operatori qualificati articolati in settori di competenza. Criticità: mancato inserimento degli incarichi di patrocinio in un atto di programmazione; mancata adozione di un regolamento a disciplinare l'affidamento dei patrocini e omesso accertamento dell'impossibilità di svolgere l'incarico all'interno dell'ente; conferimento di un elevato numero di patrocini in relazione al numero di legali in forza all'Ufficio legale interno; ricorso all'affidamento diretto; ricorso alla transazione senza previa acquisizione del parere da parte dell'Organo di revisione contabile) la Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, vaglia l'operato di un Comune sotto il profilo dell'organizzazione e del funzionamento dell'ufficio legale, ponendo in rilievo una serie di criticità sia nella gestione dei servizi legali e di patrocinio, sia nella scelta dei professionisti esterni incaricati (si veda anche il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 03.05.2017).
Le censure della Corte
Dopo un'accurata analisi delle procedure dell'ente locale, i giudici contabili formulano le seguenti censure:
   a) mancato inserimento degli incarichi di patrocinio nel documento unico di programmazione o in altro atto di programmazione;
   b) mancata adozione di norme regolamentari finalizzate a disciplinare l'affidamento dei patrocini legali e omesso accertamento dell'impossibilità di svolgerli all'interno dell'ente;
   c) conferimento di un elevato numero di patrocini e di incarichi esterni, anche in relazione al numero dei legali in forza all'ufficio interno;
   d) ricorso ingiustificato all'affidamento diretto degli incarichi, in contrasto con la giurisprudenza consolidata della magistratura contabile.
Tali conclusioni presuppongono una chiave di lettura estremamente rigorosa, che si può rintracciare nel percorso logico seguito dal collegio nell'affrontare la questione.
La disciplina sugli incarichi
La Sezione osserva che la disciplina da applicarsi agli incarichi di patrocinio legale deve essere rivista alla luce del Dlgs 18.04.2016 n. 50 (codice dei contratti), per il fatto che quest'ultimo, in aderenza ai principi del diritto comunitario, accoglie una nozione molto ampia dell'appalto di servizi, entro cui non può che rientrare ogni incarico di patrocinio legale.
Di conseguenza, l'affidamento di tali incarichi deve perciò avvenire nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità e pubblicità.
Questo assunto non era stato finora espresso in termini così chiari dato che la giurisprudenza contabile, a partire dalla deliberazione 03.04.2009 n. 19 della Sezione Basilicata, ha per anni considerato l'incarico di patrocinio legale come un contratto d'opera intellettuale regolato dall'articolo 2230 del codice civile, e nel contempo non disciplinato al pari di un incarico esterno ex articolo 7, comma 6 e seguenti, del Dlgs 165/2001, in quanto conferito per adempimenti obbligatori ex lege.
Il cambio di rotta
Questo orientamento ha talora favorito la prassi di scegliere legali esterni secondo ragioni di carattere fiduciario, prassi che oggi non può trovare giustificazione, se non in casi isolati.
La Sezione Emilia Romagna rileva sul punto che ove ricorrano «ragioni di urgenza, dettagliatamente motivate e non derivanti da un'inerzia dell'ente conferente, tali da non consentire l'espletamento di una procedura comparativa, le amministrazioni possono prevedere che si proceda all'affidamento diretto degli incarichi, sulla base di un criterio di rotazione».
In vista di tale evenienza, la Pa deve comunque istituire elenchi di operatori qualificati, in modo che l'affidatario venga individuato tra gli avvocati iscritti in detti elenchi.
Si tratta, in ogni caso, della classica eccezione che conferma la regola, da identificarsi nella necessità di avviare una procedura comparativa per la scelta del legale esterno.
A conferma di ciò, il collegio evoca la recente sentenza 06.02.2017 n. 334 con cui il Tar Sicilia-Palermo, Sezione III, nel trattare l'affidamento di un appalto di servizi legali alla luce del nuovo codice dei contratti, ha rimarcato come per tale appalto «debba essere assicurata la massima partecipazione mediante una procedura di tipo comparativo idonea a permettere a tutti gli aventi diritto di partecipare, in condizioni di parità e uguaglianza, alla selezione per la scelta del contraente».
Il collegio accoglie queste indicazioni, ritenendo che esse rappresentino un passaggio obbligato per assicurare il corretto utilizzo delle risorse pubbliche, con l'effetto che deve ritenersi precluso agli enti locali qualsiasi margine di discrezionalità in materia (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 08.05.2017).

INCARICHI PROFESSIONALI: Anche il patrocinio legale «singolo» è un appalto di servizi.
Anche il singolo incarico di patrocinio legale deve essere inquadrato come appalto di servizi, soggetto ai principi di imparzialità, pubblicità e concorrenza, ed è vietato procedere all'affidamento diretto sulla base del carattere fiduciario della scelta.

Con la deliberazione 26.04.2017 n. 73 (Relazione sui servizi legali attribuiti nel 2015 - Comune di Ravenna (FC). A seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016, anche il singolo incarico di patrocinio legale dev'essere inquadrato come appalto di servizi, affidato nel rispetto dei principi di cui all'art. 4 del citato d.lgs. E' legittima la redazione di elenchi di operatori qualificati articolati in settori di competenza. Criticità: ricorso a domiciliazioni legali; violazione dei principi sul rimborso delle spese legali), deliberazione 26.04.2017 n. 74 (Relazione sui servizi legali attribuiti nel 2015 - Comune di Cesena (FC). A seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016, anche il singolo incarico di patrocinio legale dev'essere inquadrato come appalto di servizi, affidato nel rispetto dei principi di cui all'art. 4 del citato d.lgs. E' legittima la redazione di elenchi di operatori qualificati articolati in settori di competenza.Criticità: mancato inserimento degli incarichi di patrocinio in un atto di programmazione; mancata adozione di un regolamento a disciplinare l'affidamento dei patrocini e omesso accertamento dell'impossibilità di svolgere l'incarico all'interno dell'ente; ricorso all'affidamento diretto; mancata previa valutazione di congruità del preventivo; avventato ricorso a domiciliazioni legali) e deliberazione 26.04.2017 n. 75 (Relazione sui servizi legali attribuiti nel 2015 - Comune di Faenza (Ra). A seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016, anche il singolo incarico di patrocinio legale dev'essere inquadrato come appalto di servizi, affidato nel rispetto dei principi di cui all'art. 4 del citato d.lgs. E' legittima la redazione di elenchi di operatori qualificati articolati in settori di competenza. Criticità: mancato inserimento degli incarichi di patrocinio in un atto di programmazione; mancata adozione di un regolamento a disciplinare l'affidamento dei patrocini e omesso accertamento dell'impossibilità di svolgere l'incarico all'interno dell'ente; conferimento di un elevato numero di patrocini in relazione al numero di legali in forza all'Ufficio legale interno; ricorso all'affidamento diretto; ricorso alla transazione senza previa acquisizione del parere da parte dell'Organo di revisione contabile) -relative alle relazioni sui servizi legali di alcuni capoluogo di provincia- la Sezione regionale di controllo della Corte dei Conti per l'Emilia Romagna chiarisce le corrette modalità per l'affidamento degli incarichi legali.
Tali indicazioni si aggiungono così a quelle proposte dall'Anac con lo schema di atto di regolamento sull'affidamento dei servizi legali, sottoposto a consultazione nei giorni scorsi. L'analisi dei magistrati parte dalla considerazione che con l'entrata in vigore del Dlgs 50/2016, anche il singolo incarico di patrocinio legale appare dover essere inquadrato come appalto di servizi, soggetto all'applicazione del codice di contratti pubblici.
Ciò, sulla base del disposto di cui all'articolo 17, che considera come contratto escluso la rappresentanza legale di un cliente, da parte di un avvocato, in un procedimento giudiziario dinanzi a organi giurisdizionali, nonché la consulenza legale fornita in preparazione di detto procedimento. L'applicazione, anche al singolo patrocinio, della disciplina del codice dei contratti pubblici conferma dunque l'impossibilità di considerare la scelta dell'avvocato esterno all'ente come connotata da carattere fiduciario.
L’elenco di operatori qualificati
Per la scelta del professionista, l'ente potrebbe avvalersi di un elenco di operatori qualificati, da individuare con procedura trasparente e aperta, oggetto di adeguata pubblicità, dalla quale selezionare, su una base non discriminatoria, gli operatori che saranno invitati a presentare offerta. Quanto sopra deve avvenire sulla base di un principio di rotazione, applicato tenendo conto dell'importanza della causa e del compenso prevedibile.
È altresì utile precisare che detti elenchi di operatori qualificati possono essere articolati in diversi settori di competenza e che non sarebbe comunque legittimo prevedere un numero massimo di iscritti. In quest'ultimo punto i giudici contabili si discostano dall' Anac che sembra invece ammettere la previsione di un numero massimo di iscritti.
Quando l’affidamento diretto
Qualora vi siano motivate ragioni di urgenza, dettagliatamente giustificate e non derivanti da un'inerzia dell'ente conferente, tali da non consentire l'espletamento di una procedura comparativa, le amministrazioni possono prevedere che si proceda all'affidamento diretto degli incarichi, sulla base di un criterio di rotazione (ove siano stati istituiti elenchi di operatori qualificati, l'affidatario dev'essere individuato tra gli avvocati iscritti in detti elenchi).
Inserimento nel Dup
L'adozione di criteri di buon andamento e corretta gestione delle risorse pubbliche impone poi l'inserimento nel Dup, o in altro atto di programmazione, degli incarichi di patrocinio, la cui regolamentazione deve essere in ogni caso prevista dall'ente. Secondo i magistrati l'affidamento degli incarichi di patrocinio dovrebbe avvenire, in via preferenziale, in favore degli avvocati interni all'ente. Per questo, occorrerebbe procedimentalizzare l'accertamento, preliminare rispetto all'affidamento di ciascun incarico, dell'effettiva impossibilità per i legali dipendenti dall'ente di assumere l'incarico.
In mancanza di una disciplina specifica, è comunque onere dell'ente accertare, volta per volta, prima di affidare gli incarichi di patrocinio all'esterno, l'impossibilità da parte dei componenti dell'ufficio legale a svolgere tale incarico, allo scopo di evitare una spesa inutile e, quindi, un possibile danno all'erario. Un accertamento di tale tipo è da considerarsi presupposto necessario per l'affidamento legittimo all'esterno di un patrocinio ed è indispensabile anche alla luce della nuova configurazione di tali incarichi come appalti di servizi.
La mera indicazione, nella deliberazione di giunta «preso atto della impossibilità da parte dell'avvocatura comunale di assumere la difesa per effetto del pensionamento del Capo Servizio contenzioso» non è infatti sufficiente ad integrare detto accertamento. La presenza di un ufficio legale interno all'ente cui sia istituzionalmente demandata la competenza in materia di difesa in giudizio ed assistenza giuridica, implica che l'affidamento delle summenzionate attività a un soggetto esterno debba rappresentare un'eccezione rispetto ad un ordinario assetto delle attribuzioni.
Fra le criticità evidenziate, in tema di domiciliazione legale, i giudici contabili asseriscono che in questo caso l'intuitus personae non è di particolare rilevanza, pertanto la scelta dell'affidatario non può ragionevolmente fondarsi sull'aspetto prettamente fiduciario, ma deve orientarsi sul costo più basso ottenibile tramite una procedura comparativa. Risulta infatti meno rilevante, grazie all'utilizzo della pec, la funzione di interlocuzione diretta con le cancellerie da parte dei legali della circoscrizione.
Il parere dell'organo di revisione sulle delibere di giunta
Infine, la Corte affronta il tema del parere dell'organo di revisione sulle delibere di giunta aventi ad oggetto transazioni. Pur riconoscendo che la giurisprudenza prevalente esclude il parere dell'organo di revisione contabile sulle transazioni di competenza dell'organo esecutivo, i magistrati ritengono comunque utile segnalare l'opportunità, da parte dell'ente pubblico, di chiedere un parere all'organo di revisione anche in riferimento a transazioni non di competenza del consiglio, ove le stesse siano di particolare rilievo, o relative a controversie di notevole entità (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.05.2017).

ATTI AMMINISTRATIVI - INCARICHI PROFESSIONALI: Criticità rilevate nell'affidamento, all'esterno dell'ente, di incarichi legali.
L’affidamento diretto di incarichi di patrocinio legale, operati dall’ente, si pone in contrasto con la giurisprudenza consolidata di questa Corte, che esclude la possibilità di effettuare l’affidamento in via fiduciaria di tali incarichi.
La mancanza di una procedura comparativa, infatti, viola i principi di imparzialità, pubblicità e concorrenza.
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L’ente non ha inserito nel DUP o in altro atto di programmazione gli incarichi di patrocinio che prevedibilmente sarebbero stati conferiti nell’anno di riferimento, specificandone tipologie e costi.

L’inclusione delle summenzionate previsioni in un atto di programmazione, pur non rientrando nel contenuto necessario del DUP, come puntualizzato dal d.lgs. n. 118/2011, allegato n. 4/1, risponderebbe ad un criterio di buon andamento e di corretta gestione delle risorse pubbliche.
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Pur costituendo la transazione uno strumento che si presta ad abusi, la giurisprudenza della Corte dei conti è ormai consolidata nel ritenere pienamente ammissibile il ricorso a tale strumento, ove risulti conveniente per l’Amministrazione, anche in riferimento a fattispecie rispetto alle quali non sia legislativamente previsto il tentativo obbligatorio di mediazione.
Occorre tuttavia la massima prudenza da parte dell’ente, nonché una dettagliata motivazione che dia conto del percorso logico seguito per giungere alla definizione transattiva della controversia, anche sulla base di un giudizio prognostico circa l’esito del contenzioso.

La deliberazione di Giunta di autorizzazione alla conclusione della transazione, nella fattispecie, non ha conseguito (richiesto) il parere dell’Organo di revisione.
La Sezione è a conoscenza dei precedenti giurisprudenziali che hanno ritenuto obbligatoria l’acquisizione di detto parere solo nel caso in cui costituisca atto di un procedimento che deve concludersi con una delibera del Consiglio.
Si ritiene comunque utile segnalare l’opportunità, da parte dell’ente pubblico, di chiedere un parere all’Organo di revisione anche in riferimento a transazioni non di competenza del Consiglio, ove le stesse siano di particolare rilievo, o relative a controversie di notevole entità.
Ovviamente
in detti casi, qualora non siano state previamente ampliate in via regolamentare le funzioni dei revisori, ai sensi dell’art. 239, comma 6, del tuel (ampliamento che è rimesso alla discrezionale potestà dell’ente locale, ma che sarebbe utile) non vi è l’obbligo da parte dell’Organo di controllo interno di rendere il parere.
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testo deliberazione
A partire dalla deliberazione 03.04.2009 n. 19, della Sezione regionale di controllo per la Basilicata,
la giurisprudenza di questa Corte si era progressivamente consolidata nel considerare il singolo incarico di patrocinio legale come non integrante un appalto di servizi, bensì un contratto d’opera intellettuale, regolato dall’art. 2230 del codice civile.
In ogni caso,
la magistratura contabile già riteneva che detta tipologia d’incarico, pur non riconducibile direttamente agli incarichi professionali esterni disciplinati dall’art. 7, comma 6 e seguenti del d.lgs. n. 165/2001, poiché conferito per adempimenti obbligatori per legge (mancando, pertanto, in tali ipotesi, qualsiasi facoltà discrezionale dell’amministrazione), non potesse comunque essere oggetto di affidamento diretto, dovendo essere attribuito a seguito di procedura comparativa, aperta a tutti i possibili interessati. Ciò, allo scopo di consentire il rispetto dei principi di imparzialità, e trasparenza (in tal senso, da ultimo, questa Sezione, in sede di giudizio di parificazione del rendiconto generale della Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2015, approvato con deliberazione n. 66/2016/PARI, del 15.07.2016).
La ricostruzione della disciplina applicabile agli incarichi aventi a oggetto un singolo patrocinio legale dev’essere, tuttavia, rivista, alla luce dell’entrata in vigore, il 19.04.2016, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
A decorrere da tale data anche il singolo incarico di patrocinio legale appare dover essere inquadrato come appalto di servizi; ciò, sulla base del disposto di cui all’art. 17 (recante “Esclusioni specifiche per contratti di appalto e concessione di servizi”), che considera come contratto escluso la rappresentanza legale di un cliente, da parte di un avvocato, in un procedimento giudiziario dinanzi a organi giurisdizionali, nonché la consulenza legale fornita in preparazione di detto procedimento.
Tale interpretazione pare preferibile anche tenuto conto di come l’art. 17 richiamato recepisca direttive dell’Unione europea che, com’è noto, accoglie una nozione di appalto molto più ampia di quella rinvenibile dal nostro codice civile. In ogni caso, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 4 del citato decreto legislativo, l’affidamento dello stesso deve avvenire nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità e pubblicità.
L’applicazione anche al singolo patrocinio della disciplina del codice dei contratti pubblici conferma l’orientamento consolidato di questa Corte in merito all’impossibilità di considerare la scelta dell’avvocato esterno all’ente come connotata da carattere fiduciario.
Anche dopo l’emanazione del nuovo codice dei contratti pubblici, l’ente deve preliminarmente operare una ricognizione interna finalizzata ad accertare l’impossibilità, da parte del personale, a svolgere l’incarico
(così, da ultima, questa Sezione con la citata deliberazione n. 66/2016).
Con la recente sentenza 06.02.2017 n. 334, il TAR Sicilia–Palermo, Sez. III,
nel giudicare l'affidamento di un appalto di servizi legali alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici, ha rimarcato come per esso debba essere assicurata la massima partecipazione mediante una procedura di tipo comparativo idonea a permettere a tutti gli aventi diritto di partecipare, in condizioni di parità e uguaglianza, alla selezione per la scelta del contraente. Tali indicazioni sono pienamente condivisibili, consentendo, inoltre, di assicurare il migliore utilizzo delle risorse pubbliche.
Sulle richiamate novità normative l'Anac, con il Parere sulla Normativa 09.11.2016 n. 1158 - rif. AG 45/2016/AP, ha evidenziato, operando una specificazione condivisa da questa Sezione, che
nell'affidamento di un patrocinio legale le amministrazioni possono attuare i principi di cui all’art. 4 del codice dei contratti pubblici applicando sistemi di qualificazione, ovvero la redazione di un elenco di operatori qualificati, mediante una procedura trasparente e aperta, oggetto di adeguata pubblicità, dalla quale selezionare, su una base non discriminatoria, gli operatori che saranno invitati a presentare offerta.
Quanto sopra deve avvenire sulla base di un principio di rotazione, applicato tenendo conto, nella individuazione della “rosa” dei soggetti selezionati, dell'importanza della causa e del compenso prevedibile. È altresì utile precisare che detti elenchi di operatori qualificati possono essere articolati in diversi settori di competenza e che non sarebbe comunque legittimo prevedere un numero massimo di iscritti.
Qualora vi siano motivate ragioni di urgenza, dettagliatamente motivate e non derivanti da un'inerzia dell'Ente conferente, tali da non consentire l’espletamento di una procedura comparativa, le amministrazioni possono prevedere che si proceda all'affidamento diretto degli incarichi, sulla base di un criterio di rotazione (ove siano stati istituiti elenchi di operatori qualificati, l’affidatario dev’essere individuato tra gli avvocati iscritti in detti elenchi).
Si precisa, altresì, che
già prima che entrasse in vigore il nuovo codice dei contratti pubblici si riteneva, nell’ambito dei rapporti di collaborazione che possono intercorrere tra enti pubblici e legali ad essi esterni, che oltre all’affidamento di un singolo incarico di patrocinio legale, fosse possibile l’affidamento di un appalto di servizi, che tuttavia richiedeva “un quid pluris per prestazione o modalità organizzativa rispetto al semplice patrocinio legale (C. conti, Sez. controllo Basilicata, deliberazione 03.04.2009 n. 19).
In tal senso anche la prevalente giurisprudenza amministrativa, per la quale era configurabile un appalto di servizi legali quando “l’affidamento non si esaurisca nel patrocinio legale o episodico dell’amministrazione, ma si configuri come modalità organizzativa di un servizio, affidato a professionisti esterni, più complesso e articolato, che può anche comprendere la difesa giudiziale ma in essa non si esaurisca (ex multis, TAR Campania–Salerno, Sez. II, sentenza 16.05.2016 n. 1197).
Come già evidenziato,
la distinzione tra affidamento di un singolo patrocinio legale e di un appalto di servizi sembra essere stata superata dal disposto di cui all’art. 17, del nuovo codice dei contratti pubblici.
Da ultimo, per completare il quadro delle forme di collaborazione che possono intercorrere tra una pubblica amministrazione e un legale a essa esterno, occorre tenere presente che è tuttora possibile affidare a un legale un incarico professionale esterno di cui all’art. 7, co. 6 del t.u. sul pubblico impiego, quindi avente ad oggetto uno studio, una ricerca o, più frequentemente, un parere legale.
Ad esso si applicano tutti i presupposti di legittimità degli incarichi professionali esterni individuati da questa giurisprudenza (per un approfondimento dei vincoli posti al conferimento degli incarichi professionali esterni, si rimanda al capitolo 2.3 del “Monitoraggio degli atti di spesa relativi a collaborazioni, consulenze, studi e ricerche, relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e rappresentanza, posti in essere negli esercizi finanziari 2011 e 2012 dagli enti pubblici aventi sede nell’Emilia-Romagna”, di questa Sezione, approvato con deliberazione 15.10.2015 n. 135).
Tanto premesso,
si segnalano i seguenti specifici profili di criticità che sono emersi dall’esame delle risposte fornite al questionario sui servizi legali e dai dati relativi agli incarichi affidati da codesto ente all’esterno.
Mancato inserimento degli incarichi di patrocinio nel documento unico di programmazione o in altro atto di programmazione
L’ente non ha inserito nel DUP o in altro atto di programmazione gli incarichi di patrocinio che prevedibilmente sarebbero stati conferiti nell’anno di riferimento, specificandone tipologie e costi.
L’inclusione delle summenzionate previsioni in un atto di programmazione, pur non rientrando nel contenuto necessario del DUP, come puntualizzato dal d.lgs. n. 118/2011, allegato n. 4/1, risponderebbe ad un criterio di buon andamento e di corretta gestione delle risorse pubbliche.
Mancata adozione di norme regolamentari finalizzate a disciplinare l’affidamento dei patrocini legali e omesso accertamento dell’impossibilità di svolgerli all’interno dell’ente
L’ente in analisi ha considerato gli incarichi di patrocinio legale come esclusi dalla disciplina che ha dettato per l’affidamento degli incarichi professionali esterni. Tuttavia, non ha regolamentato in alcun modo l’affidamento di patrocini legali all’esterno: una normativa finalizzata a disciplinare la materia sarebbe in realtà opportuna e dovrebbe tra l’altro prevedere che l’affidamento degli incarichi di patrocinio avvenga, in via preferenziale, in favore degli avvocati interni all’ente.
Essa dovrebbe, inoltre, procedimentalizzare l’accertamento, preliminare rispetto all’affidamento di ciascun incarico, dell’effettiva impossibilità per i legali dipendenti dall’ente di assumere l’incarico. In mancanza di una disciplina specifica, è comunque onere dell’ente accertare, volta per volta, prima di affidare gli incarichi di patrocinio all’esterno, l’impossibilità da parte dei componenti dell’ufficio legale a svolgere gli stessi, allo scopo di evitare una spesa inutile e, quindi, un possibile danno all’erario.
Un accertamento di tale tipo è da considerarsi presupposto necessario per l’affidamento legittimo all’esterno di un incarico di patrocinio ed è indispensabile anche alla luce della nuova configurazione di tali incarichi come appalti di servizi. La mera indicazione, nella deliberazione di Giunta “preso atto della impossibilità da parte dell’avvocatura comunale di assumere la difesa per effetto del pensionamento del Capo Servizio contenzioso” non è sufficiente a integrare detto accertamento, soprattutto se si considera che solo 5 patrocini sono stati affidati nel corso dell’anno all’Ufficio legale.
Conferimento di un elevato numero di patrocini e di incarichi esterni, anche in relazione al numero dei legali in forza all’Ufficio interno
La presenza di un ufficio legale interno all’ente cui sia istituzionalmente demandata la competenza in materia di difesa in giudizio ed assistenza giuridica, implica che l’affidamento delle summenzionate attività a un soggetto esterno debba rappresentare un’eccezione rispetto ad un ordinario assetto delle attribuzioni e, anche in ragione del principio di buon andamento ed economicità dell’agere pubblico, debba rispondere ad un criterio di stretta necessità congruamente motivata.
Si ritiene che il Comune debba valutare l’opportunità di effettuare uno studio, allo scopo di verificare la possibilità di economicizzare la propria azione, utilizzando meglio i propri legali.
Ricorso all’affidamento diretto
L’affidamento diretto di incarichi di patrocinio legale, operati dall’ente in analisi, si pone in contrasto con la giurisprudenza consolidata di questa Corte, che esclude la possibilità di effettuare l’affidamento in via fiduciaria di tali incarichi.
La mancanza di una procedura comparativa, infatti, viola i principi di imparzialità, pubblicità e concorrenza.

Ricorso alla transazione
Pur costituendo la transazione uno strumento che si presta ad abusi, la giurisprudenza della Corte dei conti è ormai consolidata nel ritenere pienamente ammissibile il ricorso a tale strumento, ove risulti conveniente per l’Amministrazione, anche in riferimento a fattispecie rispetto alle quali non sia legislativamente previsto il tentativo obbligatorio di mediazione.
Occorre tuttavia la massima prudenza da parte dell’ente, nonché una dettagliata motivazione che dia conto del percorso logico seguito per giungere alla definizione transattiva della controversia, anche sulla base di un giudizio prognostico circa l’esito del contenzioso.

La deliberazione di Giunta di autorizzazione alla conclusione della transazione descritta nella parte in fatto della presente deliberazione, reca il parere dell’avvocatura interna, che è integrato nel parere di regolarità tecnica. Tuttavia, non è stato richiesto il parere dell’Organo di revisione.
La Sezione è a conoscenza dei precedenti giurisprudenziali che hanno ritenuto obbligatoria l’acquisizione di detto parere solo nel caso in cui costituisca atto di un procedimento che deve concludersi con una delibera del Consiglio (Sez. regionale di controllo per il Piemonte, parere 26.09.2013 n. 345 e Sez. regionale di controllo per la Puglia, parere 28.11.2013 n. 181), pertanto tale mancata richiesta non sembra viziare l’atto.
Si ritiene comunque utile segnalare l’opportunità, da parte dell’ente pubblico, di chiedere un parere all’Organo di revisione anche in riferimento a transazioni non di competenza del Consiglio, ove le stesse siano di particolare rilievo, o relative a controversie di notevole entità.
Ovviamente
in detti casi, qualora non siano state previamente ampliate in via regolamentare le funzioni dei revisori, ai sensi dell’art. 239, comma 6, del tuel (ampliamento che è rimesso alla discrezionale potestà dell’ente locale, ma che sarebbe utile) non vi è l’obbligo da parte dell’Organo di controllo interno di rendere il parere (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, deliberazione 26.04.2017 n. 75).

INCARICHI PROFESSIONALI: Criticità rilevate nell'affidamento, all'esterno dell'ente, di incarichi legali.
L’affidamento diretto di un incarico di patrocinio legale, operato dall’ente, si pone in contrasto con la giurisprudenza consolidata di questa Corte, che esclude la possibilità di effettuare l’affidamento in via fiduciaria di tali incarichi.
La mancanza di una procedura comparativa, infatti, viola i principi di imparzialità, pubblicità e concorrenza.
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L’ente non ha inserito nel DUP o in altro atto di programmazione gli incarichi di patrocinio che prevedibilmente sarebbero stati conferiti nell’anno di riferimento, specificandone tipologie e costi.
L’inclusione delle summenzionate previsioni in un atto di programmazione, pur non rientrando nel contenuto necessario del DUP
, come puntualizzato dal d.lgs. n. 118/2011, allegato n. 4/1, risponderebbe ad un criterio di buon andamento e di corretta gestione delle risorse pubbliche.
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L’ente, prima di procedere all’affidamento dell’incarico non ha accertato la congruità del preventivo, il quale, a tal fine, dovrebbe essere adeguatamente dettagliato anche sulla base degli eventuali scostamenti dai valori medi tabellari di cui al D.M. n. 55/2014.
A tal fine in ragione del principio di buon andamento ed economicità dell’azione pubblica, sarebbe altresì opportuno che i preventivi accolti presentassero decurtazioni rispetto al richiamato valore medio.
Detta valutazione è necessaria per garantire un’attenta e prudente gestione della spesa pubblica e deve avere ad oggetto anche il rapporto tra il preventivo e l’importanza, nonché la delicatezza della causa. Il responsabile del procedimento, successivamente, ogni anno deve chiedere al legale di confermare o meno il preventivo di spesa sulla scorta del quale è stato assunto l’impegno originario, in modo da assicurare la copertura della spesa.
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testo deliberazione
A partire dalla deliberazione 03.04.2009 n. 19, della Sezione regionale di controllo per la Basilicata,
la giurisprudenza di questa Corte si era progressivamente consolidata nel considerare il singolo incarico di patrocinio legale come non integrante un appalto di servizi, bensì un contratto d’opera intellettuale, regolato dall’art. 2230 del codice civile.
In ogni caso,
la magistratura contabile già riteneva che detta tipologia d’incarico, pur non riconducibile direttamente agli incarichi professionali esterni disciplinati dall’art. 7, comma 6 e seguenti del d.lgs. n. 165/2001, poiché conferito per adempimenti obbligatori per legge (mancando, pertanto, in tali ipotesi, qualsiasi facoltà discrezionale dell’amministrazione), non potesse comunque essere oggetto di affidamento diretto, dovendo essere attribuito a seguito di procedura comparativa, aperta a tutti i possibili interessati. Ciò, allo scopo di consentire il rispetto dei principi di imparzialità e trasparenza (in tal senso, da ultimo, questa Sezione, in sede di giudizio di parificazione del rendiconto generale della Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2015, approvato con deliberazione n. 66/2016/PARI, del 15.07.2016).
La ricostruzione della disciplina applicabile agli incarichi aventi a oggetto un singolo patrocinio legale dev’essere, tuttavia, rivista, alla luce dell’entrata in vigore, il 19.04.2016, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
A decorrere da tale data anche il singolo incarico di patrocinio legale sembra dover essere inquadrato come appalto di servizi; ciò, sulla base del disposto di cui all’art. 17 (recante “Esclusioni specifiche per contratti di appalto e concessione di servizi”), che considera come contratto escluso la rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato in un procedimento giudiziario dinanzi a organi giurisdizionali, nonché la consulenza legale fornita in preparazione di detto procedimento.
Tale interpretazione pare preferibile anche tenuto conto di come l’art. 17 richiamato recepisca direttive dell’Unione europea che, com’è noto, accoglie una nozione di appalto molto più ampia di quella rinvenibile dal nostro codice civile. In ogni caso, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 4 del citato decreto legislativo, l’affidamento dello stesso deve avvenire nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità e pubblicità .
L’applicazione anche al singolo patrocinio della disciplina del codice dei contratti pubblici conferma l’orientamento consolidato di questa Corte in merito all’impossibilità di considerare la scelta dell’avvocato esterno all’ente come connotata da carattere fiduciario.
Anche dopo l’emanazione del nuovo codice dei contratti pubblici, l’ente deve preliminarmente operare una ricognizione interna finalizzata ad accertare l’impossibilità, da parte del personale, a svolgere l’incarico
(così, da ultima, questa Sezione con la citata deliberazione n. 66/2016).
Con la recente sentenza 06.02.2017 n. 334, il TAR Sicilia–Palermo, Sez. III,
nel giudicare l'affidamento di un appalto di servizi legali alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici, ha rimarcato come per esso debba essere assicurata la massima partecipazione mediante una procedura di tipo comparativo idonea a permettere a tutti gli aventi diritto di partecipare, in condizioni di parità e uguaglianza, alla selezione per la scelta del contraente. Tali indicazioni sono pienamente condivisibili, consentendo, inoltre, di assicurare il migliore utilizzo delle risorse pubbliche.
Sulle richiamate novità normative l'Anac, con Parere sulla Normativa 09.11.2016 n. 1158 - rif. AG 45/2016/AP, ha evidenziato, operando una specificazione condivisa da questa Sezione,
che nell'affidamento di un patrocinio legale le amministrazioni possono attuare i principi di cui all’art. 4 del codice dei contratti pubblici applicando sistemi di qualificazione, ovvero la redazione di un elenco di operatori qualificati, mediante una procedura trasparente e aperta, oggetto di adeguata pubblicità, dalla quale selezionare, su una base non discriminatoria, gli operatori che saranno invitati a presentare offerta.
Quanto sopra deve avvenire sulla base di un principio di rotazione, applicato tenendo conto, nella individuazione della “rosa” dei soggetti selezionati, dell'importanza della causa e del compenso prevedibile. È altresì utile precisare che detti elenchi di operatori qualificati possono essere articolati in diversi settori di competenza, e che non sarebbe comunque legittimo prevedere un numero massimo di iscritti.
Qualora vi siano motivate ragioni di urgenza, dettagliatamente motivate e non derivanti da un'inerzia dell'Ente conferente, tali da non consentire l’espletamento di una procedura comparativa, le amministrazioni possono prevedere che si proceda all'affidamento diretto degli incarichi, sulla base di un criterio di rotazione (ove siano stati istituiti elenchi di operatori qualificati, l’affidatario dev’essere individuato tra gli avvocati iscritti in detti elenchi).
Si precisa, altresì, che già prima che entrasse in vigore il nuovo codice dei contratti pubblici si riteneva, nell’ambito dei rapporti di collaborazione che possono intercorrere tra enti pubblici e legali ad essi esterni, che oltre all’affidamento di un singolo incarico di patrocinio legale, fosse possibile l’affidamento di un appalto di servizi, che tuttavia richiedeva “un quid pluris per prestazione o modalità organizzativa rispetto al semplice patrocinio legale
(C. conti, Sez. controllo Basilicata, deliberazione 03.04.2009 n. 19).
In tal senso anche la prevalente giurisprudenza amministrativa, per la quale era configurabile un appalto di servizi legali quando “l’affidamento non si esaurisca nel patrocinio legale o episodico dell’amministrazione, ma si configuri come modalità organizzativa di un servizio, affidato a professionisti esterni, più complesso e articolato, che può anche comprendere la difesa giudiziale ma in essa non si esaurisca (ex multis, TAR Campania–Salerno, Sez. II, sentenza 16.05.2016 n. 1197).
Come già evidenziato,
la distinzione tra affidamento di un singolo patrocinio legale e di un appalto di servizi sembra essere stata superata dal disposto di cui all’art. 17, del nuovo codice dei contratti pubblici.
Da ultimo, per completare il quadro delle forme di collaborazione che possono intercorrere tra una pubblica amministrazione e un legale a essa esterno, occorre tenere presente che è tuttora possibile affidare a un legale un incarico professionale esterno di cui all’art. 7, co. 6 del t.u. sul pubblico impiego, quindi avente ad oggetto uno studio, una ricerca o, più frequentemente, un parere legale. A esso si applicano tutti i presupposti di legittimità degli incarichi professionali esterni individuati da questa giurisprudenza (per un approfondimento dei vincoli posti al conferimento degli incarichi professionali esterni, si rimanda al capitolo 2.3 del “Monitoraggio degli atti di spesa relativi a collaborazioni, consulenze, studi e ricerche, relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e rappresentanza, posti in essere negli esercizi finanziari 2011 e 2012 dagli enti pubblici aventi sede nell’Emilia-Romagna”, di questa Sezione, approvato con deliberazione 15.10.2015 n. 135).
Tanto premesso,
si segnalano i seguenti specifici profili di criticità che sono emersi dall’esame delle risposte fornite al questionario sui servizi legali e dai dati relativi agli incarichi affidati da codesto ente all’esterno.
Mancato inserimento degli incarichi di patrocinio nel documento unico di programmazione o in altro atto di programmazione
L’ente non ha inserito nel DUP o in altro atto di programmazione gli incarichi di patrocinio che prevedibilmente sarebbero stati conferiti nell’anno di riferimento, specificandone tipologie e costi.
L’inclusione delle summenzionate previsioni in un atto di programmazione, pur non rientrando nel contenuto necessario del DUP
, come puntualizzato dal d.lgs. n. 118/2011, allegato n. 4/1, risponderebbe ad un criterio di buon andamento e di corretta gestione delle risorse pubbliche.
Mancata adozione di norme regolamentari finalizzate a disciplinare l’affidamento dei patrocini legali ed omesso accertamento dell’impossibilità di svolgere l’incarico all’interno dell’ente
Il Comune di Cesena ha considerato gli incarichi di patrocinio legale come esclusi dalla disciplina che ha dettato per l’affidamento degli incarichi professionali esterni. Tuttavia, non ha regolamentato l’affidamento di patrocini legali all’esterno: una normativa finalizzata a disciplinare la materia sarebbe in realtà opportuna e dovrebbe tra l’altro prevedere che l’affidamento degli incarichi di patrocinio avvenga, in via preferenziale, in favore degli avvocati interni all’ente. Essa dovrebbe, inoltre, procedimentalizzare l’accertamento, preliminare rispetto all’affidamento di ciascun incarico, dell’effettiva impossibilità per i legali dipendenti dall’ente di assumere l’incarico .
In mancanza di una disciplina specifica, sarebbe stato comunque onere dell’ente accertare, volta per volta, prima di affidare gli incarichi di patrocinio all’esterno, l’impossibilità da parte dei componenti dell’ufficio legale a svolgere gli stessi, allo scopo di evitare una spesa inutile e, quindi, un possibile danno all’erario. Un accertamento di tale tipo sarebbe da considerarsi presupposto necessario per l’affidamento legittimo all’esterno di un incarico di patrocinio, anche qualora si considerasse la scelta del libero professionista esterna come a carattere fiduciario, ed è indispensabile anche alla luce della nuova configurazione di tali incarichi come appalti di servizi.
Ricorso all’affidamento diretto
L’affidamento diretto di un incarico di patrocinio legale, operato dall’ente in analisi, si pone in contrasto con la giurisprudenza consolidata di questa Corte, che esclude la possibilità di effettuare l’affidamento in via fiduciaria di tali incarichi.
La mancanza di una procedura comparativa, infatti, viola i principi di imparzialità, pubblicità e concorrenza.

Mancanza di una previa valutazione di congruità del preventivo
L’ente, prima di procedere all’affidamento dell’incarico non ha accertato la congruità del preventivo, il quale, a tal fine, dovrebbe essere adeguatamente dettagliato anche sulla base degli eventuali scostamenti dai valori medi tabellari di cui al D.M. n. 55/2014. A tal fine in ragione del principio di buon andamento ed economicità dell’azione pubblica, sarebbe altresì opportuno che i preventivi accolti presentassero decurtazioni rispetto al richiamato valore medio.
Detta valutazione è necessaria per garantire un’attenta e prudente gestione della spesa pubblica e deve avere ad oggetto anche il rapporto tra il preventivo e l’importanza, nonché la delicatezza della causa. Il responsabile del procedimento, successivamente, ogni anno deve chiedere al legale di confermare o meno il preventivo di spesa sulla scorta del quale è stato assunto l’impegno originario, in modo da assicurare la copertura della spesa.
Peraltro, il generale principio di economicità dell’azione amministrativa è ora esplicitamente richiamato dall’art. 4 del d.lgs. n. 50/2016.
Ricorso a domiciliazioni legali
Pur avendo l’ente fatto ricorso ad una sola domiciliazione legale, peraltro per un importo ragionevole, è utile evidenziare che, poiché la domiciliazione è un incarico in cui il requisito dell’intuitus personae non è di particolare rilevanza, la scelta dell’affidatario non può ragionevolmente fondarsi sull’aspetto prettamente fiduciario, ma deve orientarsi su un altro criterio di selezione, in particolare il costo più basso ottenibile tramite una procedura comparativa.
Non è poi da sottovalutare che, in ragione del fatto che le comunicazioni da parte delle cancellerie dei tribunali a mezzo di posta elettronica certificata possono intervenire presso i difensori legali su tutto il territorio nazionale, la funzione di interlocuzione diretta con le cancellerie da parte dei legali della circoscrizione risulta meno rilevante. Pertanto, l’ente è invitato, per il futuro, a valutare con la massima attenzione la convenienza di ricorrere a domiciliazioni legali.
A seguito di istruttoria è pertanto emerso come il Comune di Cesena abbia proceduto all’affidamento diretto all’esterno degli incarichi di patrocinio legale, peraltro senza di volta in volta avere previamente accertato l’impossibilità, da parte dell’ufficio interno, a svolgere detti incarichi.
Non ci si può esimere dal rilevare, inoltre, come nell’anno 2015 un unico avvocato sia risultato affidatario diretto di due incarichi di patrocinio su cinque, dell’unico incarico di domiciliazione e sia stato selezionato a seguito di comparazione di curricula per uno dei due appalti di servizi legali; ciò, per un importo totale pari ad euro 45.948,14. Lo stesso avvocato, inoltre, nei due anni precedenti, quindi tra il 2013 e il 2014, è stato affidatario di ulteriori 5 incarichi di patrocinio legale e di 3 appalti di servizi legali, per un importo totale di euro 86.467,65 (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, deliberazione 26.04.2017 n. 74).

CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Criticità rilevate nell'affidamento, all'esterno dell'ente, di incarichi legali e sul rimborso delle spese legali ad amministratori e dipendenti.
Il rimborso delle spese legali in favore dei dipendenti e degli amministratori pubblici, assolti per non avere commesso il fatto nell’ambito di un procedimento connesso con l’espletamento del servizio, deriva dal principio per il quale non solo nei rapporti privati, ma anche in quelli pubblici, chi agisce per un interesse altrui non deve sopportare nella sua sfera personale gli effetti svantaggiosi di questa attività, bensì deve essere tenuto indenne sia dalle spese sostenute, sia dai danni subiti per la fedele esecuzione del suo compito.
Il rimborso in favore dei dipendenti degli enti locali è attualmente disciplinato dall’art. 12 del CCNL del 12.12.2002 per l’area della dirigenza, e dall’art. 28 del CCNL del 14.09.2000, per il restante personale; dette norme lo subordinano alle circostanze che i fatti o gli atti siano direttamente connessi all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti d’ufficio, all’insussistenza del conflitto d’interessi e all’assenza di dolo o di colpa grave.
Solo recentemente il legislatore statale ha riconosciuto, con l’art. 7-bis del d.l. 19.06.2015, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 06.08.2015, n. 125,
detto diritto anche in favore degli amministratori locali; ciò, “nel caso di conclusione del procedimento con sentenza di assoluzione o di emanazione di un provvedimento di archiviazione, in presenza dei seguenti requisiti: a) assenza di conflitto di interessi con l'ente amministrato; b) presenza di nesso causale tra funzioni esercitate e fatti giuridicamente rilevanti; c) assenza di dolo o colpa grave”.
L’assenza di conflitto d’interessi con l’ente, condicio sine qua non della risarcibilità delle spese in argomento, richiede in generale l’accertamento che i beneficiari del rimborso non abbiano tenuto comportamenti contrari ai doveri d’ufficio.
Solo le pronunce di assoluzione motivate per insussistenza del fatto o perché l’imputato non lo ha commesso, consentono di escludere in radice il conflitto d’interessi. Qualora, invece, siano motivate ai sensi del comma 2, dell’art. 530, del c.p.p., che ricorre qualora “manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”, occorrerà altresì verificare l’assenza del conflitto d’interessi con l’ente pubblico; sarà pertanto onere dell’ente, prima di rimborsare le spese legali, effettuare un accertamento interno che, qualora venga aperto un fascicolo disciplinare, sarà coincidente con le risultanze di quest’ultimo.
Nello specifico, invece, il Comune ha deliberato il rimborso delle spese legali sulla mera base di un provvedimento di archiviazione che si è limitato ad escludere la sussistenza degli elementi costitutivi del delitto, nonché di un ulteriore provvedimento di archiviazione relativo a un procedimento penale connesso al primo, il quale ha dichiarato l’estinzione del reato per intervenuta remissione di querela nei confronti di un dipendente e l’infondatezza della notizia di reato rispetto ad altro dipendente.
Tali circostanze, in assenza di un accertamento interno, non escludono che i comportamenti in argomento possano essere stati contrari a doveri d’ufficio.
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testo deliberazione
A partire dalla deliberazione 03.04.2009 n. 19, della Sezione regionale di controllo per la Basilicata,
la giurisprudenza di questa Corte si era progressivamente consolidata nel considerare il singolo incarico di patrocinio legale come non integrante un appalto di servizi, bensì un contratto d’opera intellettuale, regolato dall’art. 2230 del codice civile.
In ogni caso,
la magistratura contabile già riteneva che detta tipologia d’incarico, pur non riconducibile direttamente agli incarichi professionali esterni disciplinati dall’art. 7, comma 6 e seguenti del d.lgs. n. 165/2001, poiché conferito per adempimenti obbligatori per legge (mancando, pertanto, in tali ipotesi, qualsiasi facoltà discrezionale dell’amministrazione), non potesse comunque essere oggetto di affidamento diretto, dovendo essere attribuito a seguito di procedura comparativa, aperta a tutti i possibili interessati. Ciò, allo scopo di consentire il rispetto dei principi di imparzialità e trasparenza (in tal senso, da ultimo, questa Sezione, in sede di giudizio di parificazione del rendiconto generale della Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2015, approvato con deliberazione n. 66/2016/PARI, del 15.07.2016).
La ricostruzione della disciplina applicabile agli incarichi aventi a oggetto un singolo patrocinio legale dev’essere, tuttavia, rivista, alla luce dell’entrata in vigore, il 19.04.2016, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
A decorrere da tale data anche il singolo incarico di patrocinio legale appare dover essere inquadrato come appalto di servizi; ciò, sulla base del disposto di cui all’art. 17
(recante “Esclusioni specifiche per contratti di appalto e concessione di servizi”), che considera come contratto escluso la rappresentanza legale di un cliente, da parte di un avvocato, in un procedimento giudiziario dinanzi a organi giurisdizionali, nonché la consulenza legale fornita in preparazione di detto procedimento.
Tale interpretazione pare preferibile anche tenuto conto di come l’art. 17 richiamato recepisca direttive dell’Unione europea che, com’è noto, accoglie una nozione di appalto molto più ampia di quella rinvenibile dal nostro codice civile. In ogni caso, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 4 del citato decreto legislativo, l’affidamento dello stesso deve avvenire nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità e pubblicità.
L’applicazione anche al singolo patrocinio della disciplina del codice dei contratti pubblici conferma l’orientamento consolidato di questa Corte in merito all’impossibilità di considerare la scelta dell’avvocato esterno all’ente come connotata da carattere fiduciario.
Anche dopo l’emanazione del nuovo codice dei contratti pubblici, l’ente deve preliminarmente operare una ricognizione interna finalizzata ad accertare l’impossibilità, da parte del personale, a svolgere l’incarico
(così, da ultima, questa Sezione con la citata deliberazione n. 66/2016).
Con la recente sentenza 06.02.2017 n. 334, il TAR Sicilia–Palermo, Sez. III,
nel giudicare l'affidamento di un appalto di servizi legali alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici, ha rimarcato come per esso debba essere assicurata la massima partecipazione mediante una procedura di tipo comparativo idonea a permettere a tutti gli aventi diritto di partecipare, in condizioni di parità e uguaglianza, alla selezione per la scelta del contraente. Tali indicazioni sono pienamente condivisibili, consentendo, inoltre, di assicurare il migliore utilizzo delle risorse pubbliche.
Sulle richiamate novità normative l'Anac, con Parere sulla Normativa 09.11.2016 n. 1158 - rif. AG 45/2016/AP, ha evidenziato, operando una specificazione condivisa da questa Sezione,
che nell'affidamento di un patrocinio legale le amministrazioni possono attuare i principi di cui all’art. 4 del codice dei contratti pubblici applicando sistemi di qualificazione, ovvero la redazione di un elenco di operatori qualificati, mediante una procedura trasparente e aperta, oggetto di adeguata pubblicità, dalla quale selezionare, su una base non discriminatoria, gli operatori che saranno invitati a presentare offerta.
Quanto sopra deve avvenire sulla base di un principio di rotazione, applicato tenendo conto, nell’individuazione della rosa dei soggetti selezionati, dell'importanza della causa e del compenso prevedibile. È altresì utile precisare che detti elenchi di operatori qualificati possono essere articolati in diversi settori di competenza, e che non sarebbe comunque legittimo prevedere un numero massimo di iscritti.
Qualora vi siano motivate ragioni di urgenza, dettagliatamente motivate e non derivanti da un'inerzia dell'Ente conferente, tali da non consentire l’espletamento di una procedura comparativa, le amministrazioni possono prevedere che si proceda all'affidamento diretto degli incarichi, sulla base di un criterio di rotazione (ove siano stati istituiti elenchi di operatori qualificati, l’affidatario dev’essere individuato tra gli avvocati iscritti in detti elenchi).

Si precisa, altresì, che
già prima che entrasse in vigore il nuovo codice dei contratti pubblici si riteneva, nell’ambito dei rapporti di collaborazione che possono intercorrere tra enti pubblici e legali ad essi esterni, che oltre all’affidamento di un singolo incarico di patrocinio legale, fosse possibile l’affidamento di un appalto di servizi, che tuttavia richiedeva “un quid pluris per prestazione o modalità organizzativa rispetto al semplice patrocinio legale (C. conti, Sez. controllo Basilicata, deliberazione 03.04.2009 n. 19).
In tal senso anche la prevalente giurisprudenza amministrativa, per la quale era configurabile un appalto di servizi legali quando “l’affidamento non si esaurisca nel patrocinio legale o episodico dell’amministrazione, ma si configuri come modalità organizzativa di un servizio, affidato a professionisti esterni, più complesso e articolato, che può anche comprendere la difesa giudiziale ma in essa non si esaurisca (ex multis, TAR Campania–Salerno, Sez. II, sentenza 16.05.2016 n. 1197).
Come già evidenziato,
la distinzione tra affidamento di un singolo patrocinio legale e di un appalto di servizi sembra essere stata superata dal disposto di cui all’art. 17, del nuovo codice dei contratti pubblici.
Da ultimo, per completare il quadro delle forme di collaborazione che possono intercorrere tra una pubblica amministrazione e un legale a essa esterno, occorre tenere presente che è tuttora possibile affidare a un legale un incarico professionale esterno di cui all’art. 7, co. 6 del t.u. sul pubblico impiego, quindi avente ad oggetto uno studio, una ricerca o, più frequentemente, un parere legale. Ad esso si applicano tutti i presupposti di legittimità degli incarichi professionali esterni individuati da questa giurisprudenza (per un approfondimento dei vincoli posti al conferimento degli incarichi professionali esterni, si rimanda al capitolo 2.3 del “Monitoraggio degli atti di spesa relativi a collaborazioni, consulenze, studi e ricerche, relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e rappresentanza, posti in essere negli esercizi finanziari 2011 e 2012 dagli enti pubblici aventi sede nell’Emilia-Romagna”, di questa Sezione, approvato con deliberazione 15.10.2015 n. 135).
Tanto premesso,
si segnalano i seguenti specifici profili di criticità che sono emersi dall’esame delle risposte fornite al questionario sui servizi legali e dai dati relativi agli incarichi affidati da codesto ente all’esterno.
Ricorso a domiciliazioni legali
Pur apparendo l’importo complessivamente corrisposto dal Comune di Ravenna per incarichi di domiciliazione legale giustificato, poiché sono stati affidati 23 incarichi di detta tipologia a fronte di una spesa complessiva lorda di 11.712,22 euro, è comunque utile ricordare che, in ragione della circostanza che le comunicazioni da parte delle cancellerie dei tribunali, a mezzo di posta elettronica certificata, possono intervenire presso i difensori legali su tutto il territorio nazionale, la funzione di interlocuzione diretta con le cancellerie da parte dei legali della circoscrizione risulta meno rilevante.
Pertanto, l’ente in analisi è invitato, per il futuro, a valutare con attenzione la convenienza di ricorrere a domiciliazioni legali.
Violazione dei principi sul rimborso delle spese legali
Il rimborso delle spese legali in favore dei dipendenti e degli amministratori pubblici, assolti per non avere commesso il fatto nell’ambito di un procedimento connesso con l’espletamento del servizio, deriva dal principio per il quale non solo nei rapporti privati, ma anche in quelli pubblici, chi agisce per un interesse altrui non deve sopportare nella sua sfera personale gli effetti svantaggiosi di questa attività, bensì deve essere tenuto indenne sia dalle spese sostenute, sia dai danni subiti per la fedele esecuzione del suo compito (C. conti, S.r. n. 707/1991).
Il rimborso in favore dei dipendenti degli enti locali è attualmente disciplinato dall’art. 12 del CCNL del 12.12.2002 per l’area della dirigenza, e dall’art. 28 del CCNL del 14.09.2000, per il restante personale; dette norme lo subordinano alle circostanze che i fatti o gli atti siano direttamente connessi all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti d’ufficio, all’insussistenza del conflitto d’interessi e all’assenza di dolo o di colpa grave.
Solo recentemente il legislatore statale ha riconosciuto, con l’art. 7-bis del d.l. 19.06.2015, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 06.08.2015, n. 125, detto diritto anche in favore degli amministratori locali; ciò, “nel caso di conclusione del procedimento con sentenza di assoluzione o di emanazione di un provvedimento di archiviazione, in presenza dei seguenti requisiti: a) assenza di conflitto di interessi con l'ente amministrato; b) presenza di nesso causale tra funzioni esercitate e fatti giuridicamente rilevanti; c) assenza di dolo o colpa grave”.
L’assenza di conflitto d’interessi con l’ente, condicio sine qua non della risarcibilità delle spese in argomento, richiede in generale l’accertamento che i beneficiari del rimborso non abbiano tenuto comportamenti contrari ai doveri d’ufficio.
Solo le pronunce di assoluzione motivate per insussistenza del fatto o perché l’imputato non lo ha commesso, consentono di escludere in radice il conflitto d’interessi. Qualora, invece, siano motivate ai sensi del comma 2, dell’art. 530, del c.p.p., che ricorre qualora “manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”, occorrerà altresì verificare l’assenza del conflitto d’interessi con l’ente pubblico; sarà pertanto onere dell’ente, prima di rimborsare le spese legali, effettuare un accertamento interno che, qualora venga aperto un fascicolo disciplinare, sarà coincidente con le risultanze di quest’ultimo.
Nello specifico, invece, il Comune di Ravenna ha deliberato il rimborso delle spese legali sulla mera base di un provvedimento di archiviazione che si è limitato ad escludere la sussistenza degli elementi costitutivi del delitto, nonché di un ulteriore provvedimento di archiviazione relativo a un procedimento penale connesso al primo, il quale ha dichiarato l’estinzione del reato per intervenuta remissione di querela nei confronti di un dipendente e l’infondatezza della notizia di reato rispetto ad altro dipendente.
Tali circostanze, in assenza di un accertamento interno, non escludono che i comportamenti in argomento possano essere stati contrari a doveri d’ufficio (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, deliberazione 26.04.2017 n. 73).

INCARICHI PROFESSIONALIAvvocati, ribassi banditi. Il legale non può chiedere compensi irrisori. Tar Lombardia sulle gare per affidare la difesa in giudizio dei comuni.
Nelle gare per affidare la difesa in giudizio di un comune, l'avvocato non può proporre un compenso irrisorio. Ad esempio chiedere solo le spese vive in caso di soccombenza, contando di vedersi riconoscere un compenso a carico di controparte in caso di vittoria, equivale proporre di lavorare gratis. E questa offerta è inammissibile per contrasto con il dm sui parametri dei compensi forensi, che impongono compensi proporzionati all'attività svolta.

È quanto ha deciso il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, con la sentenza 19.04.2017 n. 902, che interviene in materia di affidamento con gara degli incarichi giudiziali agli avvocati. Tra l'altro, la questione in sé tutt'altro che pacifica, anche avendo riguardo al Codice dei contratti pubblici, in cui gli incarichi ai legali sono inseriti tra i contratti esclusi, e ritenendosi da alcuni che questo implichi l'applicazione delle regole generali, relativi a procedure selettive, con esclusione degli incarichi diretti su base fiduciaria.
Tornando al caso lombardo, un comune ha iniziato una procedura negoziata per l'affidamento del servizio di rappresentanza legale dell'ente in un procedimento giurisdizionale di recupero di un credito dell'ente nei confronti della società telefonica. La procedura di gara si è svolta per via telematica avvalendosi di una piattaforma regionale e il criterio di aggiudicazione è stato quello del prezzo più basso.
Al termine del procedura, il servizio è stato affidato a uno studio legale. Un altro avvocato, partecipante alla gara, ha presentato ricorso al Tar e ha avuto torto.
I fatti rilevanti sono stati i seguenti. Il criterio di aggiudicazione era quello del prezzo più basso. E l'avvocato arrivato secondo ha offerto il prezzo di euro 550,00, molto inferiore a quello degli altri partecipanti.
Il funzionario del comune responsabile del procedimento (Rup) ha chiesto chiarimenti, invitando a dettagliare l'offerta sulla base dei compensi da richiedersi a fronte di un ricorso per decreto ingiuntivo finalizzato al recupero del credito dell'amministrazione.
Alla richiesta di chiarimenti, l'avvocato arrivato secondo ha risposto con una nota, nella quale, quanto al compenso indicato nell'offerta (euro 550), l'avvocato specificava che la stessa corrispondeva soltanto alle spese «vive» dell'attività giurisdizionale, in quanto il vero e proprio compenso professionale sarebbe stato costituito dal compenso liquidato dal giudice a proprio favore e posto a carico della parte perdente, vista la «certezza della vittoria processuale pronosticata».
Per l'ipotesi di sconfitta l'avvocato non avrebbe chiesto nulla, se non di trattenere le 550 euro di spese vive.
Il Tar ha dato torto all'avvocato, per una serie di ragioni.
Innanzi tutto è contrario alla comune esperienza affermare che sicuramente si vincerà la causa, essendo noto ad ogni operatore del diritto (giudice o avvocato), che ogni azione giurisdizionale porta in sé inevitabilmente un margine più o meno ampio di incertezza.
Inoltre, anche se si vince, non sempre il giudice liquida le spese a favore dell'avvocato che difende la parte vittoriosa.
L'offerta è stata, quindi, ritenuta indeterminata e condizionata, notando che nel caso di eventuale soccombenza, l'offerta del ricorrente finirebbe per essere un'offerta pari a zero.
E un'offerta pari a zero appare non legittima in quanto, oltre che non essere seria e affidabile, non sono emersi ragioni particolari per le quali la prestazione del professionista intellettuale debba essere di fatto gratuita. D'altra parte il decreto ministeriale sui parametri del compenso dell'avvocato prescrive che il compenso sia «proporzionato all'importanza dell'opera» e, rileva il Tar, un'offerta a compenso zero appare in evidente contrasto con tale previsione normativa.
Il giudice ha quindi confermato l'incarico conferito allo studio legale che ha chiesto un compenso e ha condannato l'avvocato arrivato secondo a pagare le spese del giudizio al Tar.
Dunque questo legale proponeva di fare attività a compenso zero e si trova ora a dover pagare oltre 3 mila euro di spese di soccombenza, da dividere in parti uguali a favore del Comune e del collega che si è aggiudicato l'incarico (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.05.2017).

Sono da qualificarsi come "interventi di nuova costruzione" [ex art. 3, comma 1, lett. e), DPR n. 380/2001] i lavori di riporto/livellamento di terreno di vasta entità.

EDILIZIA PRIVATA: Opere di scavo, sbancamento e livellamento: quando occorre il titolo abilitativo edilizio?
Cassazione: “Solo una migliore sistemazione di un terreno per uso agricolo al fine di una più adeguata coltivazione esula dalla norma urbanistica (14.05.2015 - link a www.casaeclima.com).
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“Come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza di questa Corte Suprema, le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidenti sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio”.
Lo ha ricordato la Cassazione penale, Sezione III , con la sentenza n. 17114/2015 depositata il 24 aprile. (...continua).
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MASSIMA
3. Di più agevole soluzione la questione posta dal ricorrente in merito alla asserita inosservanza della legge penale (art. 44, lett. c), D.P.R. 380/2001 e 181 D.Lgs. 42/2004) oggetto del secondo motivo. Anzitutto va osservato che, una volta sgombrato il campo dalla possibilità di escludere dalla categoria di rifiuto il materiale non litoide contenuto nella parte dell'area adibita a piazzale, è logico concludere che si è trattato di materiale di vario genere adoperato (unitamente a quello consentito) per la realizzazione di un'opera nuova diversa, però, dalla situazione originaria del terreno e non limitata -come preteso dalla difesa del ricorrente- all'elisione di alcuni avvallamenti del terreno.
3.1 Come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza di questa Corte Suprema,
le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidenti sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio (Sez. 3^ 13.01.2011 n. 4916, Agostini, Rv. 262475; idem 22.02.2012 n. 29466, Batteta, Rv. 253154; idem 11.07.1991 n. 9978, Laviano e altro, Rv. 188229).
Ciò che connota l'attività di spianamento libera da quella vincolata ad una preventiva autorizzazione è, dunque, la finalità dell'opera, nel senso che solo una migliore sistemazione di un terreno per uso agricolo al fine di una più adeguata coltivazione esula dalla norma urbanistica (in termini Sez. 3^ 09.03.1994 n. 4722, Gianni, Rv. 198730) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.04.2015 n. 17114).

EDILIZIA PRIVATA: Opere di scavo ad uso diverso dall'agricolo, necessario il titolo abilitativo edilizio.
Cassazione: incidono sul tessuto urbanistico del territorio le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli (24.02.2015 - link a http://www.casaeclima.com).
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Con la sentenza n. 4916/2015 depositata il 3 febbraio, la terza sezione penale della Cassazione ha ribadito che “le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidono sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio” (cfr., Sez.3, n. 8064 del 02/12/2008, P.G. in proc. Dominelli ed altro, Rv.242741). (...continua).
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MASSIMA
7. Il secondo ed il quarto motivo, tra loro sostanzialmente collegati perché basati sul medesimo presupposto, sono infondati.
Va ribadito che,
come già più volte affermato da questa Corte, le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidono sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio (cfr., Sez. 3, n. 8064 del 02/12/2008, P.G. in proc. Dominelli ed altro, Rv. 242741).
Nella specie, la sentenza ha correttamente argomentato, traendone logica conferma dall'avvenuta presentazione, con esito negativo, di richiesta di permesso a costruire un manufatto, come si versi in presenza di lavori di scavo e di sbancamento finalizzati ad edificazione di annesso agricolo e dunque, appunto, di manufatto, e non, invece, ad attività di coltivazione (la cui natura non è stata neppure specificata dal ricorrente), stante anche la conformazione del terreno.
Correttamente, inoltre, la sentenza impugnata ha richiamato, con riguardo alla pretesa mancata considerazione dell'ordinanza comunale secondo cui, come affermato in ricorso, sarebbe stata necessaria una mera richiesta di inizio attività, il principio di autonomia delle valutazioni adottate in sede giurisdizionale rispetto a quelle dell'autorità amministrativa con le sole previsioni derogatorie tassativamente previste dalla legge (cfr., Sez. 3, n. 22823 del 26/02/2003, Barbieri, Rv. 225293).
Va aggiunto che, proprio in ragione della finalizzazione dello scavo ad usi diversi da quelli agricoli, deve ritenersi che la Corte abbia poi correttamente escluso, con riguardo a quanto lamentato con il quarto motivo di ricorso, l'applicabilità del disposto dell'art. 149, comma 1, lett. b), del d.Lgs. n. 42 del 2004 che proprio l'essenziale presupposto di attività agro-silvo-pastorale implica.
Va considerato, per di più, che
anche gli interventi inerenti l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale, laddove comportano un'alterazione permanente dell'assetto territoriale, richiedono la preventiva autorizzazione di legge, atteso che gli stessi assumono, in forza di ciò, la natura di opera civile (cfr., Sez. 3, n. 2950 del 12/11/2003, Pizzolato ed altro, Rv. 227395) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.02.2015 n. 4916 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di trasformazione dei suoli la giurisprudenza della S.C. è stata sempre costante nel ritenere che, versandosi nella materia urbanistica, le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidenti sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio.
Siffatto orientamento muove dalla rilevava profonda differenza tra la materia urbanista considerata nel suo significato globale e la materia urbanistica circoscritta ad interventi edilizi, dalla quale deriva la reale finalità della materia urbanistica mirante ad una generale disciplina dell'uso del territorio con specifico riguardo a tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali di salvaguardia e di trasformazione del suolo, nonché alla protezione dell'ambiente.
E proprio per tali ragioni qualsiasi trasformazione rilevante del terreno comporta la necessità di una preventiva concessione urbanistica e non di una semplice autorizzazione.

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BA.Pa., imputato del reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b) "per avere realizzato senza concessione opere di trasformazione edilizia de territorio, consistenti in spianamento e riporto di terreno con stoccaggio di attrezzature per l'attività edilizia", veniva dichiarato colpevole del detto reato dal Tribunale di Cagliari che con sentenza del 13.07.2010, lo condannava alla pena di giorni venti di arresto ed Euro 10.400,00 di ammenda.
La Corte di Appello di Cagliari, a seguito di impugnazione proposta dell'imputato, confermava la sentenza suddetta in data 16.11.2011.
...
Il ricorso è infondato.
La Corte di appello dopo aver passato in rassegna tutti gli elementi di prova raccolti nel corso del giudizio di primo grado (prove dichiarative e documentali; rilievi fotografici) ha correttamente concluso per la sussistenza del reato in esame in relazione all'intervenuto spianamento del terreno nonostante l'assenza di qualsivoglia autorizzazione ritenendo che in ipotesi quale quella sottoposta al suo esame fosse necessario il permesso di costruire e non la semplice autorizzazione, peraltro mai richiesta.
Nell'affermare ciò la Corte territoriale ha anche sottolineato che, rispetto al rifacimento di una recinzione con paletti e rete metallica lungo il confine del terreno (recinzione a sua volta difforme rispetto all'autorizzazione concessa e poi adeguata a seguito di controlli successivi), lo spianamento del terreno adiacente non riguardava solo una porzione di superficie ristretta e funzionale all'esecuzione dei lavori di rifacimento della recinzione ma copriva la quasi totalità del terreno ("giungendo ad interessare gran parte del fondo ed anche le aree non confinanti con la recinzione" - così, testualmente pag. 4 della sentenza impugnata).
Proprio per tale ragione la Corte aveva ritenuta corretta la decisione del primo giudice individuando nella esistenza di lavori di scavo e spianamento ed ancora nella collocazione di un container di grandi dimensioni oltre a materiale edile una serie di opere incompatibili sia con la costruzione della recinzione in quanto di gran lunga sottodimensionata, sia con la destinazione agricola del terreno (nonostante l'attivazione di una porzione a piccolo orto).
In tema di trasformazione dei suoli la giurisprudenza di questa Corte è stata sempre costante nel ritenere che, versandosi nella materia urbanistica, le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidenti sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio (Cass. Sez. 3^ 02.12.2008 n. 8064, P.G. in proc. Dominelli ed altri, Rv. 242741; nello stesso senso, Cass. Sez. 3^ 22.12.1999 n, 3107, Alliate ed altro, Rv. 216521).
Siffatto orientamento muove dalla rilevava profonda differenza tra la materia urbanista considerata nel suo significato globale e la materia urbanistica circoscritta ad interventi edilizi, dalla quale deriva la reale finalità della materia urbanistica mirante ad una generale disciplina dell'uso del territorio con specifico riguardo a tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali di salvaguardia e di trasformazione del suolo, nonché alla protezione dell'ambiente. E proprio per tali ragioni qualsiasi trasformazione rilevante del terreno comporta la necessità di una preventiva concessione urbanistica e non di una semplice autorizzazione.
L'infondatezza del motivo refluisce sulla inaccoglibilità anche del secondo motivo legato stavolta ad una errata applicazione della legge urbanistica rispetto alla legge regionale a statuto speciale che secondo quanto sostenuto dal ricorrente escluderebbe che l'attività posta in essere dall'imputato fosse assoggettata.
Si tratta di una censura già prospettata in grado di appello e ritenuta infondata dalla Corte territoriale posto che in materia di legislazione edilizia nelle regioni a statuto speciale, pur spettando alla Regione una competenza legislativa esclusiva in materia, la relativa legislazione deve non solo rispettare i principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale, ma deve anche essere interpretata in modo da non collidere con i medesimi (Cass. Sez. 3^ 25.10.2007 n. 2017, Giangrasso, Rv. 238555).
Ne deriva che l'interpretazione della norma regionale deve essere conforme alla normativa statale per evitare il rischio di sconfinamenti nella riserva in materia penale della legge statale valida per l'intero territorio nazionale..
Il richiamo alla norma regionale citata in ricorso (art. 11, comma 1, riguardante i mutamenti di destinazione d'uso soggetti a semplice autorizzazione) è inconferente in quanto nel caso di specie non si trattava di mutamento di destinazione d'uso del terreno da agricolo ad edilizio, ma di trasformazione consistente dell'assetto territoriale di. un fondo tale da comportare una trasformazione urbanistica permanente, così come rettamente intesa dalla Corte (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.07.2012 n. 29466).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla qualificazione (ex art. 3 DPR n. 380/2001) dei lavori consistenti in deposito di terreno ove insiste una depressione naturale di vaste dimensioni.
Nel caso di specie si è in presenza di lavori (abusivi) consistenti “in deposito di terreno ove insiste una depressione naturale che si sviluppa su un’area di 11.000 mq. c.ca determinando una variazione dello stato dei luoghi da ml. 1,00 nell’area Sud-Ovest a ml. 5,00 c.ca per il versante Ovest”.
Orbene,
appare incontestabile che l’intervento de quo –caratterizzato da dimensioni che non possono certo qualificarsi di “modesta entità”, investendo un’area di 11.000 mq. circa– ha attuato una trasformazione urbanistica del territorio e, perciò, rappresenta un “intervento di nuova costruzione”, assoggettato al previo rilascio del permesso di costruire, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3, comma 1, lett. e), e 10 del D.P.R. n. 380/2001.
Di conseguenza, è da ritenere che il Comune –applicando la sanzione ripristinatoria della demolizione, ai sensi dell’art. 31 del medesimo decreto– abbia correttamente operato.
In altri termini,
va rilevato che il provvedimento adottato si profila coerente con il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui:
   -
la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comprende non le sole attività di edificazione, ma anche quelle consistenti nella modificazione rilevante e duratura dello stato del territorio e nell’alterazione della conformazione del suolo;
   -
non abbisognano del previo rilascio di un titolo edilizio le sole costruzioni aventi intrinseche caratteristiche di precarietà strutturale e funzionale, cioè destinate dall’origine a soddisfare esigenze contingibili e circoscritte nel tempo, mentre un titolo è sempre richiesto ogni volta che si sia in presenza di un intervento che attui una trasformazione del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi.
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In ragione di quanto rilevato, e cioè della accertata riconducibilità dei lavori di cui trattasi nell’elenco di cui all’art. 10 del D.P.R. n. 380/2001, è chiaro che gli stessi lavori non possono essere ritenuti soggetti a mera denuncia di attività.
Come già detto,
detti lavori –considerate l’entità e la consistenza da cui sono caratterizzati– determinano una trasformazione urbanistica del territorio e, dunque, concretizzano un intervento di nuova costruzione.
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... per l’annullamento, previa sospensione, dell’ordinanza del Dirigente V Settore Urbanistica n. 617 del 13.10.2003, notificata a mezzo del servizio postale il 18.10.2003, portante ingiunzione di ripristino dello stato dei luoghi entro novanta giorni dalla notifica dell’atto medesimo con comminatoria, in difetto, dell’acquisizione al patrimonio del Comune delle opere pretesamene abusive e dell’area di sedime, nonché di ogni altro atto coordinato o comunque connesso, ancorché sconosciuto;
...
Attraverso il ricorso in epigrafe, notificato in data 17.12.2003 e depositato il successivo 15.01.2004, la ricorrente impugna l’ordinanza n. 617 del 13.10.2003, con la quale il Comune di Marino –accertata la realizzazione di lavori in assenza di titolo abilitativo, “consistenti in deposito di terreno ove insiste una depressione naturale che si sviluppa su un’area di 11.000 mq. c.ca. determinando una variazione dello stato dei luoghi da ml. 1,00 nell’area Sud-Ovest a ml. 5,00 c.ca per il versante Ovest”- le ha ingiunto il ripristino del precedente stato dei luoghi.
In particolare, espone:
   - che, con comunicazione del 22.03.2001, dichiarava al Comune di Marino che avrebbe provveduto ad opere di rimodellamento e riporto di terra su parte di un terreno di sua proprietà (ca. 11.000 mq.), ai fini del miglioramento delle coltivazioni e per esigenze di sicurezza;
   - di aver provveduto all’esecuzione delle opere, quotidianamente visionata dai tecnici comunali;
   - che, trascorsi due anni, l’area veniva sottoposta a sequestro penale da parte della Polizia Municipale (cfr. verbale del 22.07.2003);
   - che il sequestro non veniva convalidato dall’autorità giudiziaria “sul rilievo del non assoggettamento dell’intervento in questione al regime della concessione edilizia, trattandosi di semplici opere di reinterro” e, dunque, l’area veniva dissequestrata;
   - che, nonostante la vicenda sembrasse chiusa, il Comune di Marino adottava l’ordinanza impugnata.
...
1. Il ricorso è infondato e, pertanto, va respinto.
1.1. Come esposto nella narrativa che precede, la ricorrente incardina le proprie censure essenzialmente sulla impossibilità di ricondurre le opere realizzate nell’ambito di quelle soggette al previo rilascio del permesso di costruire e, dunque, di quelle sanzionabili –in caso di inosservanza delle disposizioni che regolamentano la materia– mediante l’adozione di misure ripristinatorie.
In particolare, sostiene che l’intervento edilizio contestato rientra tra quelli “che possono essere eseguiti liberamente” o, al più, tra quelli assoggettati a denuncia di inizio attività, perseguibili –in caso di mancato rispetto della disciplina prescritta- mediante l’applicazione della sola sanzione pecuniaria, ai sensi dell’art. 37 del D.P.R. n. 380/2001.
1.2. Il Collegio –valutata meglio la questione- ritiene che la ricostruzione giuridica della fattispecie prospettata dalla ricorrente non sia condivisibile.
Nel caso di specie, si è, infatti, in presenza di lavori –la cui realizzazione non è affatto contestata– consistenti “in deposito di terreno ove insiste una depressione naturale che si sviluppa su un’area di 11.000 mq. c.ca determinando una variazione dello stato dei luoghi da ml. 1,00 nell’area Sud-Ovest a ml. 5,00 c.ca per il versante Ovest”.
Orbene,
appare incontestabile che l’intervento de quo –caratterizzato da dimensioni che non possono certo qualificarsi di “modesta entità”, investendo un’area di 11.000 mq. circa– ha attuato una trasformazione urbanistica del territorio e, perciò, rappresenta un “intervento di nuova costruzione”, assoggettato al previo rilascio del permesso di costruire, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3, comma 1, lett. e), e 10 del D.P.R. n. 380/2001.
Di conseguenza, è da ritenere che il Comune –applicando la sanzione ripristinatoria della demolizione, ai sensi dell’art. 31 del medesimo decreto– abbia correttamente operato.
In altri termini,
va rilevato che il provvedimento adottato si profila coerente con il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui:
   -
la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comprende non le sole attività di edificazione, ma anche quelle consistenti nella modificazione rilevante e duratura dello stato del territorio e nell’alterazione della conformazione del suolo (cfr., tra le altre, TAR Lombardia, Milano, n. 5452/2007; TAR Veneto, n. 449/2006; TAR Sezione Autonoma per la Provincia di Bolzano, n. 278/2000);
   -
non abbisognano del previo rilascio di un titolo edilizio le sole costruzioni aventi intrinseche caratteristiche di precarietà strutturale e funzionale, cioè destinate dall’origine a soddisfare esigenze contingibili e circoscritte nel tempo, mentre un titolo è sempre richiesto ogni volta che si sia in presenza di un intervento che attui una trasformazione del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi (cfr., tra le altre, TAR Lombardia, Milano, n. 438/2008).
1.3. Al fine di supportare la natura “libera” –ossia non soggetta ad alcun titolo abilitativo edilizio- dell’intervento realizzato, la ricorrente invoca l’art. 6, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001.
In verità, il Collegio ritiene che la richiamata disposizione sia confermativa della prospettazione giuridica di cui è stata data evidenza.
Tale disposizione prevede, infatti, che possono essere eseguite senza titolo opere caratterizzate –appunto- dalla “temporaneità”, dirette all’“attività di ricerca nel sottosuolo”. Appare, pertanto, evidente che si tratta di una previsione che non sconfessa ma, anzi, è pienamente in linea con l’orientamento giurisprudenziale sopra ricordato.
Sotto il profilo sostanziale, non è, poi, possibile esimersi dal precisare che –a differenza di quanto asserito dalla ricorrente– le opere indicate al citato art. 6, proprio in quanto “temporanee”, hanno un impatto sicuramente minore sul territorio di quello dei lavori contestati nel provvedimento impugnato, la cui connotazione permanente appare “in re ipsa” e, comunque, non è in alcun modo negata.
In definitiva, i lavori descritti nel provvedimento impugnato sono ben diversi da quelli contemplati all’art. 6 in argomento né possono essere ricondotti nell’ambito di quest’ultimi in ragione di una minore rilevanza urbanistica ed edilizia, la quale è del tutto insussistente.
1.4.
In ragione di quanto rilevato, e cioè della già accertata riconducibilità dei lavori di cui trattasi nell’elenco di cui all’art. 10 del D.P.R. n. 380/2001, è, altresì, chiaro che gli stessi lavori non possono essere ritenuti soggetti a mera denuncia di attività.
Come già detto,
detti lavori –considerate l’entità e la consistenza da cui sono caratterizzati– determinano una trasformazione urbanistica del territorio e, dunque, concretizzano un intervento di nuova costruzione.
Ciò trova conferma anche nell’impossibilità di identificare gli stessi lavori –oltre che con gli interventi di cui all’art. 3, comma 1, lett. a e d, del D.P.R. n. 380/2001- con la tipologia di opere contemplate all’art. 3, comma 1, lett. b e c, del medesimo D.P.R., sicuramente soggette –in base al criterio della residualità, sancito all’art. 22, comma 1, del medesimo D.P.R.- a mera denuncia di inizio attività.
In termini più generali, va, poi, rilevato che
nessuna previsione normativa prevede deroghe e/o esoneri rispetto al regime dei titoli abilitativi edilizi sulla base di meri fini di utilizzazione agricola dei terreni (i quali, tra l’altro, non appaiono –nel caso di specie- adeguatamente comprovati).
1.5. Stante quanto in precedenza rappresentato, è da rilevare che non emergono ragioni cui sia riconducibile un diverso contenuto del provvedimento impugnato.
A ciò consegue l’inidoneità dei vizi di procedura –quale è la denunciata violazione degli artt. 7 e ss. della legge n. 241/1990– o di forma a determinare l’annullamento del provvedimento stesso, a norma dell’art. 21-octies della già richiamata legge n. 241/1990, nel testo innovato dalla legge n. 15/2005, da ricondurre nell’ambito delle norme di carattere processuale o procedurale, le quali sono di immediata applicazione (cfr., tra le altre, TAR Sardegna, n. 483 del 2005; TAR Campania, Napoli, n. 3780 del 2005).
2. Per le ragioni sopra illustrate, il ricorso deve essere respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 20.01.2009 n. 394 - tratta da www.studiovandelli.it).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di un terrapieno - Di rilevanti dimensioni - Reato di esecuzione di lavori in assenza di permesso di costruire - Configurabilità - Fondamento.
Integra il reato di costruzione edilizia abusiva la realizzazione di un terrapieno di rilevanti dimensioni sia in ampiezza che in altezza, non potendosi inquadrare tale intervento tra quelli per i quali non è richiesto il permesso di costruire. (fattispecie nella quale l'intervento eseguito presentava un'estensione pari a 3000 mq. per 2 metri di altezza).
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Con sentenza del 13.12.2005, il Tribunale di Catania aveva condannato F.C., riconosciute le attenuanti generiche, alla pena di mesi cinque di arresto ed Euro 6.000,00 di ammenda, pena sospesa e la confisca dell'immobile in sequestro, avendola ritenuta colpevole del reato di cui all'art. 81 cpv. c.p., della L. 28.02.1985, n. 47, art. 20, comma 1, lett. b), del D.Lgs. 05.02.1997, n. 22, art. 51, comma 3, della L. 05.11.1971, n. 1986, art. 2, commi 1 e 2, art. 13, art. 4, comma 1 e art. 14, della L. 02.02.1974, n. 64, artt. 17, 18 e 20 [come accertato in (OMISSIS) il (OMISSIS)].
Si era trattato della realizzazione di un terrapieno di circa 3000 mq di area e dell'altezza di mt. 2,00 e della costruzione di una recinzione in muratura con pilastri e travi in cemento armato, senza concessione edilizia e in violazione delle disposizioni in materia di costruzioni in cemento armato e in zona sismica.
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Il ricorso è manifestamente infondato.
Per quanto concerne il reato edilizio e quelli connessi, se corrisponde a verità che la L.R. Sicilia 10.08.1985, n. 37, art. 6 esclude dalla necessità di concessione edilizia la "recinzione di fondi rustici", nel caso di specie trattavasi, secondo i Giudici di merito, di un'opera ben più complessa, comportante la realizzazione di un terrapieno di rilevanti dimensioni sia in ampiezza che in altezza, quindi recintato e all'interno del quale era depositato il materiale che ha dato luogo alla contestazione di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 51, comma 3.
Poiché siffatta opera non rientra tra quelle non subordinate a concessione edilizia secondo la legislazione statale (cfr., per un caso analogo, Cass. 29.09.1999 n. 11126) e secondo l'analoga normativa regionale, le censure svolte al riguardo appaiono manifestamente infondate (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.09.2007 n. 35629).

EDILIZIA PRIVATA: Sui lavori di sbancamento e riporto di terreno.
La trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio non comprende le sole attività di edificazione, ma tutte quelle consistenti nella modificazione dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso.
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Con verbale di constatazione n. 55/87 dd. 06.04.1987 il Servizio controllo Costruzioni del Comune di Bolzano accertava l’esecuzione sulla p.f. 988 c.c. Gries, di proprietà del sig. Ha., lavori di sbancamento e riporto di terreno senza il necessario permesso edilizio, oltre ad un cambio di coltura da bosco ad area di equitazione.
Con ordinanza n. 6/87 dd. 04.05.1987 l’Assessore all’urbanistica ingiungeva il ripristino dello stato dei luoghi in conformità alla destinazione prevista dal Piano Urbanistico comunale.
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Il ricorso è infondato.
Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 4 nn. 3 e 4 della legge provinciale 21.01.1987 n. 4 per insussistenza del presupposto della inottemperanza al cambio di coltura ed eccesso di potere per travisamento, contraddittorietà in relazione alla preesistenza dello spianamento e della destinazione dell’area a campo di pattinaggio.
Lo spianamento con modesti sbancamenti sarebbe stato effettuato nel 1965 dall’affittuario del suo predecessore, che realizzò un campo di pattinaggio, successivamente abbandonato, e nel 1987 riassettato e destinato a piccolo campo di maneggio. Comunque l’odierno ricorrente avrebbe proceduto a dar ottemperanza all’ordinanza nei limiti di quanto da lui stesso operato, non ritenendo di essere obbligato all’impianto di alberi di alto fusto abbattuti ancora nel 1965 con autorizzazione forestale.
Orbene, come rileva la difesa del Comune di Bolzano, dal verbale del servizio Controllo Costruzioni n. 176/1993 risulta il mancato ripristino d’uso dei terreni che in effetti hanno continuato ad essere utilizzati come area di equitazione. La trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio non comprende le sole attività di edificazione, ma tutte quelle consistenti nella modificazione dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso, così come ribadito dalla richiamata sentenza del Consiglio di Stato sez. V n. 319 dd. 22.02.1991 (TRGA Trentino Alto Adige, sentenza 30.09.2000 n. 278 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

La ricostruzione (ancorché fedele, quindi quale ristrutturazione edilizia) di un edificio, distrutto per incendio fortuito, soggiace al versamento del contributo di costruzione.

EDILIZIA PRIVATA: E' oneroso l'intervento edilizio di ricostruzione di una porzione di un edificio condominiale andata distrutta a seguito di incendio.
L’intervento di ricostruzione, di una porzione di edificio andata distrutta a seguito di incendio, è stato qualificato, sia dai ricorrenti che dal comune, come intervento di ristrutturazione edilizia.
Ciò premesso, si deve osservare che, ai sensi dell’art. 43, primo comma, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), gli interventi di ristrutturazione edilizia sono espressamente assoggettati al pagamento del contributo di costruzione, sia con riferimento agli oneri di urbanizzazione che con riferimento al costo di costruzione.
A fronte del chiaro dettato normativo, all’interprete sembra sottratta la possibilità di effettuare specifiche valutazioni atte a rilevare se il singolo intervento di ristrutturazione abbia o meno comportato un aumento del carico urbanistico o possa essere considerato alla stregua di un indice di capacità contributiva.
Né a diverse conclusioni può portare la circostanza che, nel caso specifico, l’intervento di ricostruzione è stato reso necessario a causa dell’incendio che in precedenza aveva distrutto il bene, atteso che l’art. 17, terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 -nel disciplinare le ipotesi di esenzione dall’obbligo di versamento del contributo di costruzione- prende in considerazione, alla lett. d), anche le cause di forma maggiore, circoscrivendo tuttavia l’esenzione ai soli casi di interventi realizzati in attuazione di norme o provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità.
In tale quadro, si deve anche escludere che il Comune di Milano fosse tenuto a fornire una specifica motivazione, posto che, come visto, nella fattispecie, l’obbligo di versamento del contributo di costruzione discende dalla piana applicazione della vigente normativa.

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1. Con il ricorso in esame, viene impugnato il permesso di costruire n. 2/2016 del 15.01.2016, rilasciato dal Comune di Milano ai sigg.ri Ga.Al., Lu.Fr.Ce. e An.Pa., nella parte in cui assoggetta l’intervento assentito al pagamento del contributo di costruzione, per un ammontare complessivo pari ad euro 58.514,02.
2. L’intervento oggetto dell’atto impugnato consiste nella ricostruzione di una porzione di un edificio condominiale sito in Milano, Via ... n. 6, andata a distrutta a seguito di un incendio.
3. Si è costituito in giudizio, per resistere al ricorso, il Comune di Milano.
4. La Sezione, con ordinanza 18.03.2016 n. 328, ha accolto l’istanza cautelare.
5. Tenutasi la pubblica udienza in data 30.03.2017, la causa è stata trattenuta in decisione.
6. Con il primo motivo, i ricorrenti sostengono che, nel caso di specie, non vi sarebbero i presupposti necessari per esercitare la pretesa di pagamento del contributo di costruzione, e ciò in quanto l’intervento oggetto del permesso di costruire del 15.01.2016 non comporterebbe alcun aumento del carico urbanistico (presupposto necessario per la pretesa degli oneri di urbanizzazione) né sarebbe indice di incremento patrimoniale (requisito necessario per la pretesa del costo di costruzione).
7. Con il secondo motivo, viene dedotta la violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, in quanto, a dire dei ricorrenti, proprio in considerazione della specificità del caso in esame, il Comune avrebbe dovuto indicare, nel provvedimento impugnato, le ragioni per le quali si è ritenuto che l’intervento che ne costituisce oggetto abbia determinato un aumento del carico urbanistico.
8. I due motivi sono infondati per le ragioni di seguito esposto.
9. Come anticipato, l’intervento oggetto del permesso di costruire impugnato consiste nella ricostruzione di una porzione di un edificio condominiale andata distrutta a seguito di incendio.
10. L’intervento è stato qualificato, sia dai ricorrenti che dal Comune di Milano, come intervento di ristrutturazione edilizia.
11. Ciò premesso, si deve osservare che, ai sensi dell’art. 43, primo comma, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), gli interventi di ristrutturazione edilizia sono espressamente assoggettati al pagamento del contributo di costruzione, sia con riferimento agli oneri di urbanizzazione che con riferimento al costo di costruzione.
12. A fronte del chiaro dettato normativo, all’interprete sembra sottratta la possibilità di effettuare specifiche valutazioni atte a rilevare se il singolo intervento di ristrutturazione abbia o meno comportato un aumento del carico urbanistico o possa essere considerato alla stregua di un indice di capacità contributiva.
13. Né a diverse conclusioni può portare la circostanza che, nel caso specifico, l’intervento di ricostruzione è stato reso necessario a causa dell’incendio che in precedenza aveva distrutto il bene, atteso che l’art. 17, terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 -nel disciplinare le ipotesi di esenzione dall’obbligo di versamento del contributo di costruzione- prende in considerazione, alla lett. d), anche le cause di forma maggiore, circoscrivendo tuttavia l’esenzione ai soli casi di interventi realizzati in attuazione di norme o provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità (cfr., TAR Lombardia Milano, sez. II, 25.05.2016, n. 1079).
14. In tale quadro, si deve anche escludere che il Comune di Milano fosse tenuto a fornire una specifica motivazione, posto che, come visto, nella fattispecie, l’obbligo di versamento del contributo di costruzione discende dalla piana applicazione della vigente normativa.
15. Per tutte queste ragioni, il ricorso deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.06.2017 n. 1319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La ricostruzione di una porzione edificio crollata a seguito di incendio (quale ristrutturazione edilizia) sconta il versamento del contributo di costruzione.
L'intervento in discorso è volto unicamente alla ricostruzione del fabbricato totalmente crollato a causa dell'incendio accidentale e non comporta alcuna alterazione di sagoma e di superficie, né la modifica della destinazione d'uso di cui all'originaria concessione edilizia (e successive varianti).
Tuttavia, non coglie nel segno il primo motivo, con cui la ricorrente ha dedotto che l’incendio verificatosi sarebbe da annoverare tra le “pubbliche calamità” individuate dalla lett. d) dell’art. 17, comma 3, del DPR 380/2001 come motivo di esenzione dal pagamento del contributo di costruzione, e ciò in relazione all’ordinanza emessa dal dirigente del settore edilizia.
Tale provvedimento, all’opposto, è stato adottato alla luce del fatto che i fabbricati risultavano “ammalorati ed interessati da dissesto strutturale”: il che ha prospettato “condizioni che non consentono l’utilizzo in sicurezza delle unità immobiliari costituenti le porzioni di capannone in lato nord/ovest ed il lato nord/est, poste in aderenza alla porzione di capannone all’interno del quale si è sviluppato l’incendio”.
Si è, pertanto, disposto il “ripristino delle condizioni minime di sicurezza delle unità immobiliari interessate dall’incendio mediante eliminazione delle macerie e delle parti pericolanti, con delimitazione della zona mediante opportune opere provvisionali atte ad interdire l’accesso alle zone pericolose”, nonché la “verifica degli impianti elettrici e di adduzione gas, e di tutte le eventuali diramazioni interessanti le unità immobiliari”.
Si è, quindi, trattato di un episodio grave e dannoso per l’impresa, ma non certo catastrofico, le cui conseguenze nocive sono risultate arginabili mediante l’attuazione di normali operazioni di messa in sicurezza; né, tantomeno, risultano essere stati adottati piani di emergenza o evacuazione dei residenti, a conferma del fatto che non è stata messa a immediato repentaglio –se non in via del tutto potenziale– la pubblica incolumità.

Peraltro, l’infondatezza del primo motivo è, indirettamente, avvalorata dal tenore della seconda censura proposta, anch’essa infondata, con cui la ricorrente ha dedotto che l’assentito intervento integrerebbe (solo) una manutenzione straordinaria.
La Sezione ha più volte ribadito che nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella “demolizione e ricostruzione parziale o totale nel rispetto della volumetria preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”, e ciò ai sensi dell’art. 27, comma 1, della legge regionale 12/2005, ai quali, inoltre, è direttamente correlata, ai fini del calcolo del costo di costruzione, la disciplina di cui al successivo art. 44, con eventuali riduzioni in funzione delle modalità esecutive della ristrutturazione.

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... per l'annullamento del provvedimento emesso in data 11.04.2015 dal responsabile del settore governo del territorio del Comune di Monza -sportello unico dell’edilizia– con cui è stato comunicato il rilascio del permesso di costruire (a seguito di domanda presentata dalla ricorrente in data 26.11.2014), e ciò nella parte in cui è stato richiesto il versamento del contributo di costruzione di importo pari a € 257.377,54; della comunicazione di conclusione del procedimento del 13.01.2015 e della deliberazione di Giunta comunale n. 43 del 03.11.2008, con cui è stato approvato l’aggiornamento degli oneri di urbanizzazione e del costo base di costruzione.
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Con ricorso ritualmente proposto la società Nu.Gu. e Ra. s.r.l. ha impugnato, chiedendone l’annullamento, il provvedimento emesso in data 11.04.2015 dal responsabile del settore governo del territorio del Comune di Monza –sportello unico dell’edilizia– con cui è stato comunicato il rilascio del permesso di costruire (a seguito di domanda presentata dalla ricorrente in data 26.11.2014), e ciò nella parte in cui è stato richiesto il versamento del contributo di costruzione di importo pari a € 257.377,54, nonché la comunicazione di conclusione del procedimento del 13.01.2015 e la deliberazione di Giunta comunale n. 43 del 03.11.2008, con cui è stato approvato l’aggiornamento degli oneri di urbanizzazione e del costo base di costruzione.
La società ricorrente ha esposto di essere “proprietaria di una parte dell’edificio sito nel Comune di Monza, in Via ... n. 1-5”, avente “destinazione produttiva –inserito dall'attuale PGT in Area D1 “Area per insediamenti produttivi esistenti, di contenimento della capacità edificatoria”– realizzato in virtù di concessione edilizia n. 102 del 16/07/1985 rilasciata dall'Amministrazione comunale sia alla società Nu.Gu. e Ra. s.r.l. sia al signor Ed.Fo., a cui hanno avuto seguito due concessioni edilizie in variante” (cfr. pag. 2).
Ha soggiunto che “in data 20/09/2012, proprio presso i locali dell'edificio produttivo in discorso, è divampato accidentalmente un incendio che ha comportato il crollo della porzione di fabbricato”, il che ha reso necessaria, da parte dell’Amministrazione, l’adozione, in data 24.09.2012, di un’ordinanza di ripristino delle condizioni minime di sicurezza delle unità interessate dall’incendio “per scongiurare pericoli per la pubblica incolumità, in considerazione della gravità dell'evento che ha comportato l'assoluta inagibilità dei locali” (cfr. pag. 3).
Al termine dei lavori di bonifica e rimozione dei rifiuti, la ricorrente, “conformemente alle disposizioni dirigenziali, ha presentato in data 26.11.2014, presso lo Sportello Unico Edilizia del Comune di Monza, istanza di permesso di costruire per la (ricostruzione di porzione di fabbricato produttivo esistente della superficie coperta di mq. 3468,96 oltre una tettoia della superficie di mq 363.68” (cfr., ancora, pag. 3), cui è seguito il rilascio del permesso di costruire oggetto di impugnazione nella parte relativa alla prescritta corresponsione del costo di costruzione.
La legittimità di tale prescrizione è stata contestata sull’assunto che “l’intervento in discorso è volto unicamente alla ricostruzione del fabbricato totalmente crollato a causa dell'incendio del 20.09.2012 e non comporta alcuna alterazione di sagoma e di superficie, né la modifica della destinazione d'uso di cui all'originaria concessione edilizia (e successive varianti). A ciò si aggiunga che le realizzazioni in argomento prevedono il mantenimento della rete fognaria esistente, con il semplice adeguamento della stessa alla normativa attuale” (cfr. pag. 4).
A fondamento dell’impugnazione sono stati dedotti i seguenti motivi:
   - 1°) violazione degli artt. 16, comma 1 e 17, comma 3 del DPR 380/2001; eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, ingiustizia manifesta.
Ad avviso della ricorrente “posto che, secondo la disciplina generale, il contributo di costruzione è eventuale e commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, come meglio si vedrà in seguito, l’art. 17, comma 3, lett. d), del D.P.R. 380/2001 lo esclude, in ogni caso, per gli interventi da realizzare in attuazione di norme o provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità. Come precisato dalla disposizione normativa appena richiamata, in conseguenza di eventi calamitosi (ovverosia di eventi con effetti disastrosi) che coinvolgono la collettività –quale è, per l'appunto, l’incendio accidentale verificatosi presso i locali del fabbricato produttivo, che ha condotto l'Amministrazione ad adottare immediati provvedimenti a tutela della sicurezza e della pubblica incolumità– i successivi interventi effettuati e da effettuare sono, per legge, esonerati dal carico contributivo” (cfr. pag. 5).
   - 2°) violazione degli artt. 44 e 45 della legge regionale 12/2005, degli artt. 16, 17, comma 3 e 22, comma 7 del DPR 380/2001; eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, difetto d’istruttoria e illogicità manifesta.
La ricorrente ha censurato il fatto che l’Amministrazione avrebbe chiesto il pagamento di oneri per un intervento di ripristino di parte dell’edificio crollato, “in relazione al quale la società proprietaria in passato ha già provveduto alla relativa corresponsione per la sua realizzazione” (cfr. pagg. 6–7), ignorando che il “criterio discretivo (…) per stabilire l’assoggettabilità o meno di una realizzazione edilizia al pagamento degli oneri di urbanizzazione è la tipologia di intervento e i riflessi che lo stesso ha sull’area coinvolta, in termini di trasformazione o aggravio del carico urbanistico della stessa” (cfr. pag. 7).
In altri termini, l’ordinamento positivo non prevedrebbe alcun automatismo nell’applicazione degli oneri concessori, tale principio trovando conferma negli “incisi “se dovuti” contenuti nella disposizione di cui all’art. 44 della L.R. Lombardia n. 12/2005” oltre che nell’art. 22 del testo unico dell’edilizia, che al comma 7 ammette l’esenzione dall’obbligo di pagamento per gli interventi qualificabili come “manutenzione straordinaria” ai sensi dell’art. 3 del citato testo unico, come modificato dal D.L. 133/2014, convertito nella legge 164/2014: fattispecie che si attaglierebbe al caso di specie (cfr. pag. 8).
   - 3°) violazione dell’art. 3 della legge 241/1990, degli artt. 41 e 43 della Costituzione e dei principi di buona Amministrazione.
La ricorrente ha, infine, dedotto che l’impugnato provvedimento “non contiene nemmeno l’espressa indicazione delle operazioni di calcolo che hanno condotto all'individuazione di quel determinato ammontare ed in presenza delle quali la giurisprudenza ritiene adempiuto l'onere motivazionale” (cfr. pag. 11).
Si è costituito in giudizio il Comune di Monza (01.07.2015), eccependo, nella memoria del 20.7.2015, l’inammissibilità del ricorso in riferimento agli ulteriori provvedimenti impugnati in via presupposta, i quali non sarebbero lesivi della sfera giuridica della società ricorrente; nel merito ha opposto che “l’evento definito dal ricorrente come "calamitoso" non è né tale né, tantomeno, "pubblico" in quanto, come si evidenzia dagli atti di controparte, non ha assunto proporzioni tali da coinvolgere una pluralità indefinita di soggetti, ma è rimasto circoscritto al capannone della ricorrente ed a quello confinante, ed è stato fronteggiato con gli ordinari mezzi di intervento dei VV.FT., Polizia, ecc., senza che fosse necessario far intervenire, ad esempio, la Protezione Civile la quale, invece, è sempre chiamata a svolgere la propria funzione laddove vi siano eventi effettivamente riconducibili alla pubblica calamità”, e che, comunque, la messa in sicurezza oggetto dell’ordinanza comunale rientrerebbe nell’ordinaria amministrazione (cfr. pag. 6); ha, inoltre, contestato “il tentativo di controparte di qualificare come manutenzione straordinaria l'intervento per il quale è stata presentata dalla stessa ricorrente, domanda di permesso di costruire” (cfr. pag. 10), che, invece, integrerebbe una ristrutturazione edilizia; che, infine, la ricorrente sarebbe stata “perfettamente a conoscenza delle previsioni normative che impongono il versamento del contributo di costruzione nei casi di rilascio di permesso di costruire. nonché della deliberazione di Consiglio Comunale n. 43 del 03/11/2008 di aggiornamento degli oneri di urbanizzazione e aggiornamento del costo base di costruzione” (cfr. pag. 14).
Con ordinanza 27.07.2015 n. 977 la Sezione ha ritenuto di riservarsi nel merito sulle questioni oggetto del giudizio, concedendo “la misura cautelare subordinatamente alla prestazione, da parte della ricorrente, di una garanzia bancaria o assicurativa con clausola “a prima richiesta” in favore del Comune di Monza, per un importo pari a quello indicato nel provvedimento impugnato”.
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Nel merito, il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto.
Non coglie nel segno il primo motivo, con cui la ricorrente ha dedotto che l’incendio verificatosi in data 20.09.2012 sarebbe da annoverare tra le “pubbliche calamità” individuate dalla lett. d) dell’art. 17, comma 3, del DPR 380/2001 come motivo di esenzione dal pagamento del contributo di costruzione, e ciò in relazione all’ordinanza emessa in data 24.09.2012 dal dirigente del settore edilizia.
Tale provvedimento, all’opposto, è stato adottato alla luce del fatto che i fabbricati risultavano “ammalorati ed interessati da dissesto strutturale”: il che ha prospettato “condizioni che non consentono l’utilizzo in sicurezza delle unità immobiliari costituenti le porzioni di capannone in lato nord/ovest ed il lato nord/est, poste in aderenza alla porzione di capannone all’interno del quale si è sviluppato l’incendio”.
Si è, pertanto, disposto il “ripristino delle condizioni minime di sicurezza delle unità immobiliari interessate dall’incendio mediante eliminazione delle macerie e delle parti pericolanti, con delimitazione della zona mediante opportune opere provvisionali atte ad interdire l’accesso alle zone pericolose”, nonché la “verifica degli impianti elettrici e di adduzione gas, e di tutte le eventuali diramazioni interessanti le unità immobiliari”.
Si è, quindi, trattato di un episodio grave e dannoso per l’impresa, ma non certo catastrofico, le cui conseguenze nocive sono risultate arginabili mediante l’attuazione di normali operazioni di messa in sicurezza; né, tantomeno, risultano essere stati adottati piani di emergenza o evacuazione dei residenti, a conferma del fatto che non è stata messa a immediato repentaglio –se non in via del tutto potenziale– la pubblica incolumità.
Peraltro, l’infondatezza del primo motivo è, indirettamente, avvalorata dal tenore della seconda censura proposta, anch’essa infondata, con cui la ricorrente ha dedotto che l’assentito intervento integrerebbe (solo) una manutenzione straordinaria.
La Sezione ha più volte ribadito (cfr., tra le tante, la sentenza 18.05.2010, n. 1566) che nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella “demolizione e ricostruzione parziale o totale nel rispetto della volumetria preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”, e ciò ai sensi dell’art. 27, comma 1, della legge regionale 12/2005, ai quali, inoltre, è direttamente correlata, ai fini del calcolo del costo di costruzione, la disciplina di cui al successivo art. 44, con eventuali riduzioni in funzione delle modalità esecutive della ristrutturazione.
Nella specie, poi, il Comune di Monza si è dato una puntuale regolamentazione mediante l’aggiornamento degli oneri di urbanizzazione e del costo base di costruzione, approvato con la deliberazione di G.C. n. 43 del 03.11.2008 (impugnata dalla società ricorrente, ma senza articolare alcuna specifica censura), la quale ha previsto che per gli interventi di ristrutturazione comportanti demolizione e ricostruzione si applichino gli oneri di urbanizzazione relativi alle nuove costruzioni (dettagliati nell’allegato B).
Conseguentemente, l’espressione contenuta nella nota del 13.01.2015 (in cui il responsabile dello sportello unico dell’edilizia ha fatto cenno al “calcolo dell’eventuale contributo di costruzione”) non può essere enfatizzata alla luce della piana applicazione della normativa primaria e secondaria, richiamata dall’Amministrazione nella motivazione del permesso di costruire (il che determina l’infondatezza del terzo motivo di ricorso).
In conclusione, il ricorso va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.05.2016 n. 1079 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAAl fine di ravvisare il silenzio-inadempimento dell'amministrazione, deve essere riscontrato il duplice presupposto dell’omessa conclusione del procedimento amministrativo entro il termine astrattamente previsto per il procedimento del tipo evocato con l'istanza, e dell’inottemperanza a un preciso obbligo di provvedere sull’istanza del privato.
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Il
nostro ordinamento vede con particolare disfavore l’ottenimento di benefici originato da dichiarazioni false.
L'’art. 75 del D.P.R. 445/2000, in tema di controllo di veridicità delle dichiarazioni sostitutive, prevede che “Fermo restando quanto previsto dall'articolo 76, qualora dal controllo di cui all'articolo 71 emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”.
In base all'art. 75 predetto “la non veridicità della dichiarazione sostitutiva presentata comporta la decadenza dai benefici eventualmente conseguiti, senza che tale disposizione (per la cui applicazione si prescinde dalla condizione soggettiva del dichiarante, rispetto alla quale sono irrilevanti il complesso delle giustificazioni addotte) lasci alcun margine di discrezionalità alle Amministrazioni; pertanto la norma in parola non richiede alcuna valutazione circa il dolo o la grave colpa del dichiarante, facendo invece leva sul principio di auto responsabilità”.
In materia di gare d’appalto, le dichiarazioni mendaci non possono essere regolarizzate e, una volta che l’amministrazione abbia conseguito la certezza della non veridicità di quanto dichiarato, ha il dovere di trarne le necessarie conseguenze, senza alcuna possibilità di fare applicazione dell’art. 21-nonies della L. 241/1990, le cui disposizioni riguardano esclusivamente i procedimenti di autotutela aventi natura tipicamente discrezionale.
Anche in materia di benefici ottenuti grazie alla qualificazione di IAFR (impianti alimentati da fonti rinnovabili), la previsione ex lege delle conseguenze della dichiarazione non veritiera in termini di decadenza automatica rende la determinazione del GSE vincolata nei suoi contenuti, con connotazione della stessa in termini di automaticità, per cui risulta evidente la non operatività dell’art. 21-nonies, comma 1, della L. 241/1990 .
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In materia di segnalazione di inizio attività, l’art. 19 della L. 241/1990 statuisce che, decorso il termine di legge per adottare provvedimenti inibitori ovvero di conformazione (60 giorni dal ricevimento della dichiarazione), l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall'articolo 21-nonies (riguardante i presupposti per l’annullamento d’ufficio).
Tale essendo la disciplina posta dell’art. 19 citato, in tema di liberalizzazione (in senso lato) della attività economiche, dalla disamina congiunta della disciplina racchiusa nei commi 3 e 4, <<si evince agevolmente che l’Amministrazione procedente può vietare (o, comunque, interdire, conformare ovvero chiedere integrazioni documentali), ai sensi del comma 3, in relazione all’attività commerciale comunicata con segnalazione certificata di attività entro il termine di sessanta giorni dalla presentazione della stessa, mentre, successivamente al decorso di tale termine, ai sensi del successivo comma 4, residua in capo alla predetta Amministrazione, un analogo potere che non può configurarsi quale autotutela in quanto la dichiarazione del privato resta tale anche dopo il termine di sessanta giorni e non si trasforma in provvedimento amministrativo nei confronti del quale sarebbe ipotizzabile un’attività di autotutela; sul punto il potere di intervento successivo della P.A. si sostanzia nell’uso di poteri inibitori soggetti a limiti imposti per legge, per i quali, non a caso, la legge n. 124/1915 ha correttamente eliminato la definizione di “autotutela”, operando un richiamo all’art. 21-nonies, co. 1, L. n. 241/1990>>;
In effetti, la vicenda di cui si discorre non è stata originata da una SCIA, e tuttavia potrebbe rientrare nella casistica delle dichiarazioni mendaci, per la quale il legislatore prevede tassativamente la decadenza dei benefici ritratti dal loro autore;
IL comma 2-bis all’art. 21-nonies, introdotto dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 2, della L. 124/2015, statuisce che l’amministrazione conserva il potere di intervenire dopo la scadenza del richiamato termine per l’annullamento d’ufficio (18 mesi) proprio nel caso in cui i provvedimenti amministrativi siano stati “conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato”, seppur previo accertamento con sentenza passata in giudicato.
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L
addove una concessione edilizia sia stata ottenuta in base ad una falsa rappresentazione dello stato effettivo dei luoghi negli elaborati progettuali, al Comune è consentito di esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l'atto concessorio senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse (cfr. TAR Campania Napoli, sez. III – 07/11/2016 n. 5141 –che risulta appellata– e la giurisprudenza citata, tra cui la pronuncia di questo TAR 20/11/2002 e TAR Campania Napoli, sez. VI – 12/05/2016 n. 2416, ad avviso del quale in materia di annullamento d'ufficio dei titoli edilizi, quando l'operato dell'amministrazione sia stato fuorviato dall'erronea o falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica ed espressa motivazione sull'interesse pubblico, che va individuato nell’aspirazione della collettività al rispetto della disciplina urbanistica, e in questi casi, si è quindi al cospetto di un atto vincolato).
In argomento, si è pronunciato il Consiglio di Stato rilevando che qualificata giurisprudenza di primo grado ha affermato il principio secondo il quale “in materia di annullamento d’ufficio di titoli edilizi (nella specie, un’attestazione di conformità in sanatoria), nei casi in cui l’operato dell’Amministrazione sia stato fuorviato dalla erronea o falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica ed espressa motivazione sull’interesse pubblico, che va individuato nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica”.
Sicché, la falsità dichiarativa impedisce anche la maturazione in capo all’autore di un affidamento meritevole di protezione, e siffatta carenza non può non incidere (in senso favorevole all’amministrazione) anche sulla valutazione della ragionevolezza del termine entro il quale dovesse intervenire il provvedimento di autotutela (riferimento temporale cui parametrare normativamente la tempestività dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio).

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S
econdo l’art. 6, comma 1, lett. a), della L. 241/1990, spetta al responsabile del procedimento valutare “ai fini istruttori, le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per l'emanazione di provvedimento”.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato è attestata nel senso che, prima di accordare un permesso di costruire (o una sanatoria edilizia) l’amministrazione debba verificare la situazione di diritto e di fatto, anche se solo nei limiti richiesti dalla ragionevolezza e dalla comune esperienza.
Ai sensi dell’art. 11 del D.P.R. 380/2001 il Comune, nel verificare l’esistenza in capo al richiedente un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti private in ordine all’assetto proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l’amministrazione è tenuta a svolgere un livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio.

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Evidenziato:
- che il ricorrente riferisce di essere proprietario di un appartamento ubicato nel Comune di Castiglione delle Stiviere in Via ... n. 9, catastalmente identificato al foglio 16, mappale n. 220, sub. 7, 11 e 17, e confinante con l’immobile di proprietà dei Sigg.ri Bo., a sua volta identificato in catasto al foglio 16, mappale n. 220, sub. 5, 8 e 13;
- che, a seguito dell’istanza depositata da uno dei controinteressati per realizzare un sopralzo della copertura in legno dell’appartamento (in modo da creare una soffitta non abitabile), il Comune rilasciava nel 2011 il permesso di costruire n. 603, e nel 2015 il titolo abilitativo in sanatoria n. 940, ritualmente impugnato dal ricorrente con gravame r.g. 1233/2016, ad oggi pendente innanzi a questo TAR;
- che il controinteressato, in sede di richiesta del titolo edilizio, ha affermato di essere proprietario dell’edificio identificato –al NCEU del Comune di Castiglione– al foglio 16, mappali 220 e 206 (cfr. dichiarazione sostitutiva del 04/04/2011 - doc. 1), quando, nell’anno 2010, il medesimo aveva alienato all’odierno ricorrente l’appartamento identificato al mappale 220, sub 7, 17 e 11 (cfr. doc. 2);
- che risulterebbe evidente la non rispondenza al vero della dichiarazione rilasciata dal controinteressato al Comune di Castiglione delle Stiviere;
- che la circostanza avrebbe tratto in errore l’amministrazione intimata, la quale ha emesso un titolo abilitativo in relazione ad un edificio di cui il richiedente non aveva la piena disponibilità;
- che, in base all’attestazione non veritiera del Sig. Gi.Bo., il Comune avrebbe indebitamente emanato un permesso di costruire, atteso che gli artt. 10 e 17 delle NTA del Piano delle regole del PGT vigente prevedono, per gli immobili ricadenti in zona B3 (“Ambito residenziale consolidato di salvaguardia ambientale”) il rispetto, per qualsiasi edificazione o ampliamento di fabbricati esistenti, della distanza di 5 metri dai confini e il divieto di recupero a fini abitativi dei sottotetti;
- che la dichiarazione infedele, nell’ambito della disciplina dettata dal D.P.R. 445/2000, precluderebbe al dichiarante il raggiungimento dello scopo cui era indirizzata, e provocherebbe la decadenza dall’utilitas conseguita per effetto del mendacio;
- che, alla luce della situazione sottostante, sussisterebbe in capo al Comune intimato l’obbligo di provvedere sull’istanza presentata dal ricorrente in data 02/11/2016, con la conseguente illegittimità del silenzio serbato;
- che, in aggiunta, trattandosi di attività vincolata, sussisterebbe anche il dovere per l’amministrazione di adottare il provvedimento di decadenza e/o annullamento in autotutela del permesso di costruire, rilasciato al controinteressato sulla base di una dichiarazione falsa;
- che, pertanto, essendo l’amministrazione comunale rimasta inerte, con l’introdotto ricorso l’esponente chiede che sia dichiarato l’obbligo di provvedere ai sensi dell’art. 31, comma 1, del Cpa, nonché l’accertamento della fondatezza della pretesa avanzata ai sensi dell’art. 31 comma 3 e 34, comma 1, lett. c) Cpa, con la conseguente condanna ad adottare il provvedimento richiesto;
- che, in subordine, il Sig. Pi. insiste affinché sia acclarato comunque il dovere del Comune di assumere un atto formale a riscontro dell’istanza del privato;
- che, in ogni caso, chiede di nominare, in caso di perdurante inerzia dell’amministrazione, un Commissario ad acta che provveda in via sostitutiva;
Considerato:
- che, ad avviso del controinteressato costituito, il ricorrente non contesta la proprietà dell’immobile inciso dall’intervento di sopralzo, ma solo il fatto che quest’ultimo sia stato realizzato in violazione delle disposizioni comunali in tema di distanze/distacchi;
- che detta questione sarebbe del tutto estranea al contenuto della dichiarazione del 2011 invocata dall’esponente, mentre risulterebbe del tutto veritiera per poter compiere l’intervento, dando conto della legittimazione richiesta;
- che il controinteressato sarebbe ancor oggi proprietario dell’edificio rispetto al quale è stato realizzato il sopralzo, essendosi privato di una sola porzione dell’immobile, ossia dei mappali sub 6 (appartamento) e 10 (autorimessa), oggetto della compravendita;
- che il ricorrente, al fine di ottenere il titolo edilizio, avrebbe affermato al Comune la sua posizione di proprietario dell’immobile ove è stato edificato il sopralzo, a prescindere dalla circostanza che l’intervento potesse violare i diritti dei terzi (problematica da affrontare negli ulteriori giudizi già instaurati);
- che, siccome il controinteressato non ha invaso la proprietà altrui (riguardando le opere esclusivamente il proprio perimetro di proprietà) il Sig. Pi. avrebbe palesemente travisato la dichiarazione resa nel 2011 ai fini del rilascio del permesso di costruire;
- che, in diritto, in presenza di un silenzio-rifiuto sull’istanza di esercizio dei poteri in autotutela, non sarebbe configurabile alcun obbligo giuridico di provvedere espressamente, trattandosi di richiesta avente natura meramente sollecitatoria;
Rilevato, sotto il profilo giuridico:
- che, al fine di ravvisare il silenzio-inadempimento dell'amministrazione, deve essere riscontrato il duplice presupposto dell’omessa conclusione del procedimento amministrativo entro il termine astrattamente previsto per il procedimento del tipo evocato con l'istanza, e dell’inottemperanza a un preciso obbligo di provvedere sull’istanza del privato (cfr. sentenza di questo TAR, sez. II – 23/03/2016 n. 442);
- che, ad avviso della parte ricorrente, nella fattispecie non si controverte circa la sussistenza o meno in capo al Sig. Bo. della legittimazione a presentare la domanda di permesso di costruire, ma sul fatto che costui, dichiarando falsamente di essere proprietario dell’intero edificio, ha ottenuto un’utilità che, diversamente, non avrebbe conseguito;
- che controparte, infatti, avrebbe attestato e rappresentato di essere proprietaria unica dell’immobile, senza indicare l’avvenuta cessione parziale al ricorrente, né (conseguentemente) i limiti di proprietà dai quali calcolare la distanza dai confini;
- che detto ordine di idee merita condivisione;
- che il nostro ordinamento vede con particolare disfavore l’ottenimento di benefici originato da dichiarazioni false;
- che l’art. 75 del D.P.R. 445/2000, in tema di controllo di veridicità delle dichiarazioni sostitutive, prevede che “Fermo restando quanto previsto dall'articolo 76, qualora dal controllo di cui all'articolo 71 emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”;
- che, secondo l’indirizzo del Consiglio di Stato, sez. V – 15/03/2017 n. 1172 (che richiama sez. V – 03/02/2016 n. 404), in base all'art. 75 predetto “la non veridicità della dichiarazione sostitutiva presentata comporta la decadenza dai benefici eventualmente conseguiti, senza che tale disposizione (per la cui applicazione si prescinde dalla condizione soggettiva del dichiarante, rispetto alla quale sono irrilevanti il complesso delle giustificazioni addotte) lasci alcun margine di discrezionalità alle Amministrazioni; pertanto la norma in parola non richiede alcuna valutazione circa il dolo o la grave colpa del dichiarante, facendo invece leva sul principio di auto responsabilità”;
- che, in materia di gare d’appalto, le dichiarazioni mendaci non possono essere regolarizzate e, una volta che l’amministrazione abbia conseguito la certezza della non veridicità di quanto dichiarato, ha il dovere di trarne le necessarie conseguenze, senza alcuna possibilità di fare applicazione dell’art. 21-nonies della L. 241/1990, le cui disposizioni riguardano esclusivamente i procedimenti di autotutela aventi natura tipicamente discrezionale (cfr. TAR Lazio Roma, sez. II – 14/11/2016 n. 11286 e la giurisprudenza ivi citata);
- che, anche in materia di benefici ottenuti grazie alla qualificazione di IAFR (impianti alimentati da fonti rinnovabili), la previsione ex lege delle conseguenze della dichiarazione non veritiera in termini di decadenza automatica rende la determinazione del GSE vincolata nei suoi contenuti, con connotazione della stessa in termini di automaticità, per cui risulta evidente la non operatività dell’art. 21-nonies, comma 1, della L. 241/1990 (Consiglio di Stato, sez. IV – 21/12/2015 n. 5799);
- che, in materia di segnalazione di inizio attività, l’art. 19 della L. 241/1990 statuisce che, decorso il termine di legge per adottare provvedimenti inibitori ovvero di conformazione (60 giorni dal ricevimento della dichiarazione), l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall'articolo 21-nonies (riguardante i presupposti per l’annullamento d’ufficio);
- che, secondo TAR Campania Napoli, sez. III – 26/04/2017 n. 2235, tale essendo la disciplina posta dell’art. 19 citato, in tema di liberalizzazione (in senso lato) della attività economiche, dalla disamina congiunta della disciplina racchiusa nei commi 3 e 4, <<si evince agevolmente che l’Amministrazione procedente può vietare (o, comunque, interdire, conformare ovvero chiedere integrazioni documentali), ai sensi del comma 3, in relazione all’attività commerciale comunicata con segnalazione certificata di attività entro il termine di sessanta giorni dalla presentazione della stessa, mentre, successivamente al decorso di tale termine, ai sensi del successivo comma 4, residua in capo alla predetta Amministrazione, un analogo potere che non può configurarsi quale autotutela in quanto la dichiarazione del privato resta tale anche dopo il termine di sessanta giorni e non si trasforma in provvedimento amministrativo nei confronti del quale sarebbe ipotizzabile un’attività di autotutela; sul punto il potere di intervento successivo della P.A. si sostanzia nell’uso di poteri inibitori soggetti a limiti imposti per legge, per i quali, non a caso, la legge n. 124/1915 ha correttamente eliminato la definizione di “autotutela”, operando un richiamo all’art. 21-nonies, co. 1, L. n. 241/1990>>;
- che, in effetti, la vicenda di cui si discorre non è stata originata da una SCIA, e tuttavia potrebbe rientrare nella casistica delle dichiarazioni mendaci, per la quale il legislatore prevede tassativamente la decadenza dei benefici ritratti dal loro autore;
- che il comma 2-bis all’art. 21-nonies, introdotto dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 2, della L. 124/2015, statuisce che l’amministrazione conserva il potere di intervenire dopo la scadenza del richiamato termine per l’annullamento d’ufficio (18 mesi) proprio nel caso in cui i provvedimenti amministrativi siano stati “conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato”, seppur previo accertamento con sentenza passata in giudicato;
Rilevato:
- che, laddove una concessione edilizia sia stata ottenuta in base ad una falsa rappresentazione dello stato effettivo dei luoghi negli elaborati progettuali, al Comune è consentito di esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l'atto concessorio senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse (cfr. TAR Campania Napoli, sez. III – 07/11/2016 n. 5141 –che risulta appellata– e la giurisprudenza citata, tra cui la pronuncia di questo TAR 20/11/2002 e TAR Campania Napoli, sez. VI – 12/05/2016 n. 2416, ad avviso del quale in materia di annullamento d'ufficio dei titoli edilizi, quando l'operato dell'amministrazione sia stato fuorviato dall'erronea o falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica ed espressa motivazione sull'interesse pubblico, che va individuato nell’aspirazione della collettività al rispetto della disciplina urbanistica, e in questi casi, si è quindi al cospetto di un atto vincolato);
- che, in argomento, si è pronunciato il Consiglio di Stato (cfr. sez. IV – 31/08/2016 n. 3735), rilevando che qualificata giurisprudenza di primo grado (TAR Toscana, sez. III – 27/05/2015 n. 825), ha affermato il principio secondo il quale “in materia di annullamento d’ufficio di titoli edilizi (nella specie, un’attestazione di conformità in sanatoria), nei casi in cui l’operato dell’Amministrazione sia stato fuorviato dalla erronea o falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica ed espressa motivazione sull’interesse pubblico, che va individuato nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica”;
- che la falsità dichiarativa impedisce anche la maturazione in capo all’autore di un affidamento meritevole di protezione, e siffatta carenza non può non incidere (in senso favorevole all’amministrazione) anche sulla valutazione della ragionevolezza del termine entro il quale dovesse intervenire il provvedimento di autotutela (riferimento temporale cui parametrare normativamente la tempestività dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio – TAR Campania Salerno, sez. I – 02/03/2017 n. 411);
Tenuto conto:
- che, secondo l’art. 6, comma 1, lett. a), della L. 241/1990, spetta al responsabile del procedimento valutare “ai fini istruttori, le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per l'emanazione di provvedimento”;
- che la giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. sez. IV – 05/06/2017 n. 2648 e i precedenti citati) è attestata nel senso che, prima di accordare un permesso di costruire (o una sanatoria edilizia) l’amministrazione debba verificare la situazione di diritto e di fatto, anche se solo nei limiti richiesti dalla ragionevolezza e dalla comune esperienza;
- che, ai sensi dell’art. 11 del D.P.R. 380/2001 il Comune, nel verificare l’esistenza in capo al richiedente un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti private in ordine all’assetto proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso;
- che, in tal senso, l’amministrazione è tenuta a svolgere un livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio (TAR Lombardia Milano, sez. II – 31/01/2017 n. 235);
- che, nel caso di specie, si denuncia che il Comune ha trascurato di valutare (per la dichiarazione mendace o comunque fuorviante dell’istante) la reale situazione di fatto, ossia che la proprietà del fabbricato non era estesa all’intero mappale 220 ma solo a una frazione di esso, con conseguente omessa verifica delle condizioni correlate (in particolare, il rispetto delle distanze);
- che detta omissione formale ha provocato un grave deficit istruttorio, che ha indotto l’amministrazione a non indagare la sussistenza di determinati presupposti, indispensabili per il rilascio del titolo;
Ritenuto:
- che, alla luce delle considerazioni diffusamente espresse, sussiste l’obbligo del Comune intimato di pronunciarsi tempestivamente sulla domanda del privato ricorrente;
- che, diversamente da quanto richiesto in via principale, non si ritiene di poter adottare il provvedimento in luogo dell’amministrazione competente, in quanto la vicenda merita ulteriori approfondimenti spettanti all’autorità amministrativa e riguardanti:
   a) l’effettività e la rilevanza della “falsità” o comunque il carattere fuorviante della dichiarazione, tenuto conto dell’avvenuta suddivisione del mappale di cui si è dato conto;
   b) l’individuazione delle norme di legge e delle regole della pianificazione urbanistica comunale pertinenti;
   c) le valutazioni sulla sussistenza di una potestà di autotutela e sulla ricorrenza delle condizioni per esercitarla;
- che, alla luce di ciò, sussiste unicamente il presupposto per l’accoglimento della domanda formulata in via subordinata;
- che, in definitiva, deve essere dichiarato l’obbligo del Comune di Castiglione delle Stiviere di provvedere sull’istanza, secondo le seguenti scansioni temporali:
   • entro il 20.06.2017, il Comune dovrà attivare il procedimento di verifica sollecitato dal ricorrente, dando la comunicazione di avvio al medesimo e al soggetto controinteressato;
   • entro il 15.07.2017, il Comune dovrà aver completato l’attività istruttoria;
   • entro il 31.07.2017 dovrà essere emesso l’atto finale (con trasmissione di copia di esso a questo all’interessato e a questo TAR);
- che, in accoglimento dell’istanza di parte ricorrente, si nomina sin da ora quale Commissario ad acta il dirigente del Settore Sportello dell’Edilizia (Area Pianificazione Urbana e Mobilità) del Comune di Brescia, con facoltà di delega;
- che quest’ultimo (ove il Comune non provveda entro la scadenza indicata del 31.07.2017) dovrà insediarsi tempestivamente, e compiere la propria attività entro e non oltre 60 (sessanta) giorni, per poi relazionare a questo TAR;
- che, in caso di ulteriori ritardi anche del Commissario, questo Tribunale, previa istanza di parte, provvederà ad assumere i provvedimenti necessari e a segnalare l’inerzia alle competenti autorità, anche giurisdizionali, per la valutazione degli eventuali e concorrenti profili di responsabilità;
- che, in conclusione, il ricorso è fondato e merita accoglimento nei limiti sopra esposti (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 09.06.2017 n. 765 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Mentre le linee guida dell'ANAC si distinguono in vincolanti e non vincolanti, va invece senz’altro affermata la natura di meri pareri dei comunicati del Presidente dell’ANAC, privi di qualsivoglia efficacia vincolante per le stazioni appaltanti, trattandosi di meri opinamenti inerenti l’interpretazione della normativa in tema di appalti pubblici.
Invero, non può ammettersi nel vigente quadro costituzionale, in tal delicato settore, un generale vincolante potere interpretativo con effetto erga omnes affidato ad organo monocratico di Autorità Amministrativa Indipendente, i cui comunicati ermeneutici -per quanto autorevoli- possono senz’altro essere disattesi.
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Nessuna decisiva rilevanza può attribuirsi al comunicato del Presidente dell’ANAC del 05.10.2016 pervicacemente invocato dalla difesa della ricorrente.
Come noto,
il Codice degli appalti pubblici approvato con D.lgs. 50 del 2016 ha previsto per la relativa attuazione, in completa rottura rispetto al sistema precedente, non più un’unica fonte regolamentare avente forma e sostanza di regolamento governativo bensì una pluralità di atti, di natura eterogenea, tra cui per quello che qui interessa, le linee guida approvate dall’ANAC.
Tali linee guida, costituendo una novità assoluta nella contrattualistica pubblica, si distinguono in vincolanti (vedi ad es. art. 31, comma 5, D.lgs. 50/2016) e non vincolanti, quest’ultime invero molto più frequenti e assimilabili -secondo una tesi- alla categoria di stampo internazionalistico della c.d. “soft law” oppure -seconda altra opzione- alle circolari intersoggettive interpretative con rilevanza esterna, operando il Codice appalti un rinvio formale alle linee guida (es. art. 36, comma 7, D.lgs. 50/2016).
Senza dover affrontare tale tematica, per quel che qui rileva
va invece senz’altro affermata la natura di meri pareri dei comunicati del Presidente dell’ANAC, privi di qualsivoglia efficacia vincolante per le stazioni appaltanti, trattandosi di meri opinamenti inerenti l’interpretazione della normativa in tema di appalti pubblici.
Infatti, per quanto a norma dell’art. 213 del D.lgs. 50 del 2016 il novero dei poteri e compiti di vigilanza affidati all’ANAC sia invero penetrante ed esteso, a presidio della più ampia legalità nell’attività contrattuale delle stazioni appaltanti e della prevenzione della corruzione,
non può ammettersi nel vigente quadro costituzionale, in tal delicato settore, un generale vincolante potere interpretativo con effetto erga omnes affidato ad organo monocratico di Autorità Amministrativa Indipendente, i cui comunicati ermeneutici -per quanto autorevoli- possono senz’altro essere disattesi.
Diversamente dalle linee guida, per la cui formazione è previsto un percorso procedimentalizzato e partecipato (vedi art. 213, comma 2, D.lgs. 50 del 2016) -nel solco d’altronde degli stessi principi affermati dalla giurisprudenza in tema di esercizio di poteri di tipo normativo o regolatorio da parte di Autorità Indipendenti- i comunicati del Presidente dell’ANAC sono dunque pareri atipici e privi di efficacia vincolante per la stazione appaltante e gli operatori economici.
Alla stregua delle suesposte considerazioni
nessuna rilevanza può dunque avere, ai fini del presente giudizio, il comunicato ANAC del 05.10.2016 da cui la Regione Umbria poteva discostarsi senza dover fornire alcuna motivazione.
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Viene all’esame del Collegio la corretta interpretazione dell’art. 97, comma 2, lett. e), del D.lgs. 50/2016 ed in particolare la questione se nel caso di offerte recanti l’identico ribasso, ai fini del c.d. taglio delle ali, devono essere conteggiati o meno tutti i ribassi, con conseguente possibile esclusione di un numero di offerte superiore alla percentuale del 10% delle offerte di maggiore o minor ribasso.
Ritiene il Collegio la suindicata questione interpretativa particolarmente problematica sicché ritiene, altresì, di dover sospendere il giudizio sino alla pubblicazione della decisione dell’Adunanza Plenaria a seguito della rimessione operata dalla V Sezione del Consiglio di Stato.
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1.- Con il ricorso in epigrafe Ri.Co. s.r.l. impugna gli atti inerenti la gara d’appalto indetta dalla Regione Umbria ai sensi dell’art. 60 del D.lgs. 50/2016 per l’affidamento delle opere di urbanizzazione primaria per le soluzioni abitative d’emergenza presso il Comune di Norcia in seguito agli eventi sismici che hanno recentemente colpito anche il territorio umbro.
Con ordinanza n. 394 del 19.09.2016 a firma del Capo Dipartimento della Protezione civile, la Regione Umbria è stata indicata quale soggetto attuatore delle attività preliminari all’insediamento delle soluzioni abitative d’emergenza, anche in parziale deroga alla vigente disciplina in materia di appalti pubblici (art. 5 cit. ordinanza).
Il bando è stato pubblicato sulla G.U.R.I. V Serie Speciale Contratti Pubblici n. 151 del 30.12.2016 con importo a base d’asta di 3.222.326,55 euro e criterio di aggiudicazione del prezzo più basso ai sensi dell’art. 60 del D.lgs. 50 del 2016.
Alla procedura aperta hanno partecipato 265 concorrenti (tra cui l’impresa ricorrente) e il calcolo della soglia di anomalia sorteggiato dalla Commissione è risultato quello previsto dalla lett. e) dell’art. 97, comma 2, del D.lgs. 50/2016 (c.d. taglio delle ali).
Nell’individuare le offerte con minor ribasso da accantonare nella percentuale del 10% la Commissione escludeva 28 offerte in luogo delle 27, ritenendo come unica offerta le pervenute due offerte identiche tra quelle con minor ribasso (13,2230% proposte da Ni. s.r.l. e dall’a.t.i. Im.Ed.Ma. s.r.l.) entrambe dunque accantonate nel taglio delle ali, con conseguente determinazione della soglia di anomalia nel ribasso pari a 25,699%.
Con determinazione dirigenziale n. 902 del 03.02.2017 la gara è stata definitivamente aggiudicata in favore della Ma.Co. s.r.l. con un ribasso del 25,695% e in data 27.02.2017 è stato stipulato il contratto il quale allo stato attuale risulta in gran parte eseguito (in misura dell’85% secondo quanto risultante dagli atti di causa e rappresentato dalla difesa regionale all’udienza pubblica).
La Ri.Co., impugna il suddetto provvedimento di aggiudicazione unitamente ai verbali di gara, deducendo il seguente unico motivo di diritto:
   - Violazione e falsa applicazione dell’art. 97 comma 2, lett. e), del D.lgs. 50/2016 e delle “direttive” ANAC del 05.10.2016; violazione del principio di selezione della miglior offerta in tema di gare pubbliche; eccesso di potere per difetto di istruttoria, travisamento e sviamento: lamenta la Ri.Co. l’erroneità del calcolo della soglia di anomalia operato dalla stazione appaltante, poiché essa avrebbe dovuto escludere soltanto 27 delle offerte con il minor ribasso, ossia un numero di offerte pari al 10% arrotondato all’unità superiore (265 x 10% = 26,5 = 27) dovendo considerare le pervenute due offerte identiche “uti singulis” ovvero idonee ad essere considerate singolarmente ai fini della percentuale di offerte da inserire nel taglio delle ali.
La Commissione e la stazione appaltante non avrebbero correttamente applicato l’art. 92, comma secondo, lett. e), del nuovo Codice degli appalti pubblici approvato con D.lgs. 50 del 2016, perpetrando nell’applicazione del criterio previsto dall’art. 121 del d.P.R. 207/2010 abrogato per effetto dell’art. 217, c. 1, lett. u), del citato D.lgs. 50/2016. Pertanto nel caso di offerte di ugual valore, tutte dovrebbero essere considerate come offerte singole che vanno a formare il limite massimo del 10%.
La Ri.Co. lamenta pertanto la lesione del proprio interesse legittimo al conseguimento dell’aggiudicazione, dal momento che laddove le imprese escluse fossero state 27 (anziché 28) la soglia di anomalia sarebbe stata pari a 25,6846, si che la propria offerta diverrebbe con certezza quella con il minor ribasso percentuale tra le offerte non anomale. Cita a supporto della propria tesi anche il Comunicato del Presidente dell’ANAC del 05.10.2016 secondo cui sotto la vigenza del D.lgs. 50/2016 l’art. 121 del d.P.R. 207 del 2010 non può più essere applicato con conseguente non applicabilità del criterio c.d. relativo ivi previsto, dovendosi fare esclusivo riferimento al dato numerico delle offerte e non al valore delle stesse.
Si è costituita la Regione Umbria eccependo l’infondatezza del gravame, poiché in sintesi:
   - l’art. 121 del d.P.R. 207 del 2010 avrebbe carattere non già innovativo ma di norma interpretativa dell’art. 86 comma 1, del D.lgs. 163/2006, il cui testo coincide con l’art. 97, comma 2, del D.lgs. 50/2016;
   - la lettura fornita dal Presidente dell’ANAC nel comunicato del 05.10.2010 sarebbe del tutto errata;
   - la stessa ANAC avrebbe in realtà avallato l’operato della Regione Umbria avendo ricevuto il 20.02.2017 tutta la documentazione di gara nell’ambito del protocollo d’intesa siglato con la stessa Autorità di Vigilanza senza nulla eccepire in merito al calcolo della soglia di anomalia;
   - la propria assoluta mancanza di colpa in riferimento alla domanda risarcitoria ex adverso formulata.
...
2.-
Viene all’esame del Collegio la corretta interpretazione dell’art. 97, comma 2, lett. e), del D.lgs. 50/2016 ed in particolare la questione se nel caso di offerte recanti l’identico ribasso, ai fini del c.d. taglio delle ali, devono essere conteggiati o meno tutti i ribassi, con conseguente possibile esclusione di un numero di offerte superiore alla percentuale del 10% delle offerte di maggiore o minor ribasso.
Trattasi di questione invero ben nota in riferimento all’omologo disposto di cui all’art. 86, c. 1, del D.lgs. 163 del 2006 e relativa norma di attuazione contenuta nell’art. 121 del d.P.R. 207 del 2010, in passato oggetto di contrasti giurisprudenziali.
3. - Secondo un primo orientamento infatti,
nel caso in cui siano state presentate due o più offerte aventi la medesima riduzione percentuale che si trovino nella fascia delle imprese rientranti nel 10% ogni offerta deve essere considerata individualmente (c.d. criterio assoluto) poiché la soluzione opposta comporterebbe il superamento del limite fissato dal legislatore nel 10% e si porrebbe in contrasto con il dato letterale dell’art. 86, c. 1, del D.lgs. 163 del 2006 in assenza di ragioni sostenibili o ispirate all’interesse pubblico (ex multis Consiglio di Stato sez. V, 28.08.2014, n. 4429).
Al contrario, secondo un diverso orientamento giurisprudenziale avvalorato anche dai pareri della Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici (cfr. parere Autorità vigilanza contratti pubblici n. 133 del 24.07.2013; parere Anac n. 87 del 23.04.2014),
nel caso vi siano offerte portanti lo stesso ribasso nella fascia delle ali, devono essere conteggiati tutti i ribassi con conseguente possibile esclusione di un numero di offerte superiore alla percentuale del 10% delle offerte di maggiore o minore ribasso (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 18.06.2001, n. 3216; id. sez. V, 06.07.2012, n. 3953; 15.10.2009, n. 6323; id. sez. V, 15.03.2006, n. 1373; C.G.A.S., 26.07.2006, n. 439; id. 21.07.2008, n. 608; 15.10.2009, n. 6323; TAR Liguria, sez. II, 12.04.2006, n. 364; TAR Umbria, 11.04.2013, n. 230).
Si è infatti osservato che con il taglio delle ali la norma persegue l’intento di eliminare in radice l’influenza che possono avere sulla media dei ribassi, offerte manifestamente distanti dai valori medi e il ribasso, così individuato, ha natura oggettiva, nel senso che riporta ad unica categoria anche più offerte quando, casualmente o meno, esse hanno la medesima misura; pertanto l’indicazione del 10% delle offerte da escludere dalla media non deve essere inteso in senso soltanto numerico, ma anche in senso logico, cosicché a determinare il valore medio in questione concorrono offerte che, per la loro oggettiva consistenza, siano identiche ad altra ritenuta per definizione ininfluente o fuorviante, venendo altrimenti a mancare, nello scarto degli estremi, la funzione correttiva sostanziale sia del computo della media, sia del calcolo dello scarto aritmetico medio dei ribassi percentuali, cui l’articolo 86 del Codice fa riferimento.
I dubbi interpretativi -secondo la richiamata giurisprudenza- dovevano comunque ritenersi superati alla luce della norma regolamentare di cui all’articolo 121, primo comma, del d.P.R. n. 207 del 2010, a mente del quale “Qualora nell’effettuare il calcolo del dieci per cento di cui all’art. 86, comma 1, del codice, siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da accantonare ai fini del successivo calcolo della soglia di anomalia”.
Una volta ammesso, infatti, che il tenore letterale dell’articolo 86, comma 1, del D.lgs. n. 163 del 2006 può essere superato per via interpretativa per le offerte ‘a cavallo’ delle ali, non vi sono ragioni per non applicare lo stesso criterio alle offerte uguali che si collocano all’interno delle ali (entro l’ala superiore o entro l’ala inferiore, ovvero nel 10% delle offerte con maggior ribasso o nel 10% delle offerte con minor ribasso), criterio del c.d. “blocco unitario”.
Identificare ciascuna offerta con uno specifico ribasso (accorpando le offerte con valori identici) consente, nella fase del taglio delle ali, di depurare la base di calcolo dai ribassi effettivamente marginali (definiti ex lege nel limite del 10% superiore e inferiore di oscillazione delle offerte). In questa prospettiva è irrilevante che i ribassi identici siano a cavallo o all’interno delle ali, perché si tratta comunque di valori che se considerati distintamente limitano l’utilità dell’accantonamento e ampliano eccessivamente la base di calcolo della media aritmetica e dello scarto medio aritmetico, rendendo inaffidabili i risultati.
L’articolo 121, comma 1, del d.P.R. n. 207 del 2010 aveva dunque eliminato (secondo la prevalente giurisprudenza) ogni dubbio interpretativo, specificando che le offerte da accantonare sono quelle identiche, senza distinzione tra ribassi ‘a cavallo’ o all’interno delle ali. Il che equivale a dire che le offerte identiche devono essere considerate, in questa fase, come un’offerta unica, mentre nella fase successiva, calcolando la media aritmetica e lo scarto medio aritmetico, si utilizzano tutte le offerte, anche quelle con valori identici.
E, infatti, quando sia stato circoscritto in modo rigoroso l’intervallo dei ribassi attendibili ai fini del calcolo della soglia di anomalia, è ragionevole che alla definizione delle medie partecipino tutte le offerte non accantonate.
Tale interpretazione, tra l’altro, è stata correttamente ritenuta più garantista dell’interesse pubblico e previene manipolazioni della gara e del suo esito ostacolando condotte collusive in sede di formulazione delle percentuali di ribasso (ex plurimis Consiglio di Stato sez. V, 08.06.2015 n. 2813; id. sez. IV, 29.02.2016, n. 818).
3.1. - Tanto premesso
va evidenziato -come correttamente prospettato dalla difesa della Ri.Co.- che la descritta questione è stata recentemente nuovamente posta in discussione e rimessa, ai sensi dell’art. 99 cod. proc. amm., all’Adunanza Plenaria (Consiglio di Stato, sez. III, ordinanza 13.03.2017 n. 1151).
Precisamente sono stati proposti i seguenti quesiti:
   a)
se nel calcolo del 10% delle offerte aventi maggiore e/o minore ribasso, ai sensi dell’art. 86, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006, occorra computare tutte le offerte aventi medesimo valore (e, dunque, medesimo ribasso) singolarmente una ad una o, invece, quale unica offerta (c.d. blocco unitario), facendo detta disposizione riferimento, letteralmente, all’esclusione del 10% delle offerte aventi maggiore e minore ribasso e non dei singoli ribassi;
   b)
se la disposizione regolamentare dell’art. 121, comma 1, secondo periodo, del d.P.R. n. 207 del 2010, nel prevedere che «qualora nell’effettuare il calcolo del dieci per cento di cui all’articolo 86, comma 1, del Codice siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da accantonare ai fini del successivo calcolo della soglia di anomalia», intenda o, comunque, presupponga che le offerte aventi eguale valore rispetto a quelle da accantonare siano considerate, “accantonate” e accorpate come un’unica offerta o, invece, si limiti a prevedere solo che debbano essere escluse (“accantonate”) dal calcolo della soglia di anomalia le offerte che, pur non rientrando nella quota algebrica del 10%, abbiano tuttavia eguale valore rispetto a quelle da accantonare e cioè, per logica necessità, a quelle situate al margine estremo delle ali (c.d. offerte a cavallo).
3.2. - Come evidenziato dalla difesa della ricorrente trattasi di questione inerente l’applicazione dell’art. 86, comma 1, del D.lgs. 163/2006 e non già dell’art. 97, comma 2, lett. e), del nuovo Codice degli appalti pubblici approvato con D.lgs. 2016 n. 50 applicabile “ratione temporis” alla gara di che trattasi, ma nondimeno rilevante, in considerazione della sostanziale identità delle due norme.
Infatti a norma della prima “Nei contratti di cui al presente codice, quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso, le stazioni appaltanti valutano la congruità delle offerte che presentano un ribasso pari o superiore alla media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse, con esclusione del dieci per cento, arrotondato all'unità superiore, rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso, incrementata dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che superano la predetta media”.
Secondo il citato art. 97, comma 2, lett. e), del citato D.lgs. 50/2016 “Quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso la congruità delle offerte è valutata sulle offerte che presentano un ribasso pari o superiore ad una soglia di anomalia determinata, al fine di non rendere predeterminabili dai candidati i parametri di riferimento per il calcolo della soglia, procedendo al sorteggio, in sede di gara, di uno dei seguenti metodi: …omissis …… e) media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse, con esclusione del dieci per cento, arrotondato all'unità superiore, rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso, incrementata dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che superano la predetta media, moltiplicato per un coefficiente sorteggiato dalla commissione giudicatrice all’atto del suo insediamento tra i seguenti valori: 0,6; 0,8; 1; 1,2; 1,4;”.
3.3. - Dovendosi dar atto della sostanziale identità di contenuto tra le due norme (fatta eccezione per l’applicazione del coefficiente sorteggiato dalla Commissione) ritiene la Ri.Co. elemento decisivo l’intervenuta abrogazione (ad opera dell’art. 217, c. 1, lett. u), del D.lgs. 50 del 2016) dell’art. 121 del d.P.R. 207 del 2010, dal momento che il criterio c.d. relativo ai fini del calcolo delle ali traeva il proprio presupposto da tal innovativo disposto regolamentare.
Ritiene il Collegio la suindicata questione interpretativa particolarmente problematica.
3.4. - Infatti, da un lato potrebbe aderirsi alla motivata tesi della Regione che fa leva sul descritto orientamento pretorio formatosi prima dell’entrata in vigore del Regolamento attuativo del Codice dei Contratti pubblici del 2006, secondo cui sulla base del citato art. 86 (e ancor prima dell’art. 21, c. 1-bis, della legge “Merloni” n. 109/1994 e s.m.) va dato peso al valore delle offerte e non solo al relativo numero, considerando in modo unitario quelle aventi il medesimo ribasso, dando la stura alla possibile esclusione di un numero di offerte superiore alla percentuale del dieci per cento delle offerte di maggiore o minor ribasso.
La ragione di tale interpretazione era stata individuata -come visto- nella prevenzione di manipolazioni della gara frustrando altrimenti la ricerca voluta dal citato art. 86 di un indicatore ragionevole della soglia di anomalia, così vanificando in definitiva la ricerca del miglior contraente per la P.A.
Ne consegue, così opinando, la natura puramente interpretativa e non già innovativa della pur abrogata disposizione contenuta nell’art. 121 del d.P.R. 207/2010, limitandosi a chiarire il contenuto della disposizione della norma primaria secondo un significato affermatosi nella prassi e ormai diventato regola di diritto vivente.
Ne sarebbe dimostrazione poi la stessa natura esecutiva ed attuativa del Regolamento approvato con d.P.R. 207 del 2010 (Consiglio di Stato sez. affari normativi, 17.09.2007, n. 3262/2007) si da impedire in subiecta materia l’introduzione di disposizioni praeter legem.
3.5. - Al contempo anche la tesi prospettata dalla ricorrente non manca invero di elementi persuasivi, primo fra tutti l’intervenuta abrogazione dell’art. 121 del d.P.R. 207/2010, norma che anche a non volerne riconoscere il carattere innovativo aveva comunque assunto un indubbio valore sul piano ermeneutico.
Osserva poi il Collegio come la finalità di ostacolare condotte collusive in sede di formulazione delle percentuali di ribasso e prevenire manipolazioni della gara sia in realtà già a monte affrontata e disciplinata dal nuovo Codice degli appalti pubblici approvato con D.lgs. 50/2016, dal momento che il previsto (art. 97) innovativo meccanismo di sorteggio tra ben 5 diversi metodi per il calcolo della soglia di anomalia rende oltremodo difficoltosa tale manipolazione, a beneficio della effettività del confronto concorrenziale.
Con la conseguenza che venendo meno le ragioni di interesse pubblico alla base di tale lettura logico-sistematica, il criterio c.d. assoluto elaborato dalla giurisprudenza potrebbe in quanto in ipotesi maggiormente aderente al tenore letterale (art. 12, comma 1, disp. Prel. c.c.) riprendere corpo (vedi sul punto le analoghe argomentazioni del Consiglio di Stato nella citata ordinanza n. 1151 del 2017).
3.6. - D’altronde
nessuna decisiva rilevanza può attribuirsi al comunicato del Presidente dell’ANAC del 05.10.2016 pervicacemente invocato dalla difesa della Ri.Co..
Come noto,
il Codice degli appalti pubblici approvato con D.lgs. 50 del 2016 ha previsto per la relativa attuazione, in completa rottura rispetto al sistema precedente, non più un’unica fonte regolamentare avente forma e sostanza di regolamento governativo bensì una pluralità di atti, di natura eterogenea, tra cui per quello che qui interessa, le linee guida approvate dall’ANAC.
Tali linee guida, costituendo una novità assoluta nella contrattualistica pubblica, si distinguono in vincolanti (vedi ad es. art. 31, comma 5, D.lgs. 50/2016) e non vincolanti, quest’ultime invero molto più frequenti e assimilabili -secondo una tesi- alla categoria di stampo internazionalistico della c.d. “soft law (Consiglio di Stato parere n. 1767 del 02.08.2016) oppure -seconda altra opzione- alle circolari intersoggettive interpretative con rilevanza esterna, operando il Codice appalti un rinvio formale alle linee guida (es. art. 36, comma 7, D.lgs. 50/2016).
Senza dover affrontare tale tematica, per quel che qui rileva
va invece senz’altro affermata la natura di meri pareri dei comunicati del Presidente dell’ANAC, privi di qualsivoglia efficacia vincolante per le stazioni appaltanti, trattandosi di meri opinamenti inerenti l’interpretazione della normativa in tema di appalti pubblici.
Infatti, per quanto a norma dell’art. 213 del D.lgs. 50 del 2016 il novero dei poteri e compiti di vigilanza affidati all’ANAC sia invero penetrante ed esteso, a presidio della più ampia legalità nell’attività contrattuale delle stazioni appaltanti e della prevenzione della corruzione,
non può ammettersi nel vigente quadro costituzionale, in tal delicato settore, un generale vincolante potere interpretativo con effetto erga omnes affidato ad organo monocratico di Autorità Amministrativa Indipendente, i cui comunicati ermeneutici -per quanto autorevoli- possono senz’altro essere disattesi.
Diversamente dalle linee guida, per la cui formazione è previsto un percorso procedimentalizzato e partecipato (vedi art. 213, comma 2, D.lgs. 50 del 2016) -nel solco d’altronde degli stessi principi affermati dalla giurisprudenza in tema di esercizio di poteri di tipo normativo o regolatorio da parte di Autorità Indipendenti (Consiglio di Stato sez. atti normativi, 06.02.2006; TAR Lombardia Milano, 04.02.2006, n. 246)- i comunicati del Presidente dell’ANAC sono dunque pareri atipici e privi di efficacia vincolante per la stazione appaltante e gli operatori economici.
3.7. - Alla stregua delle suesposte considerazioni
nessuna rilevanza può dunque avere, ai fini del presente giudizio, il comunicato ANAC del 05.10.2016 da cui la Regione Umbria poteva discostarsi senza dover fornire alcuna motivazione.
4. - Per i suesposti motivi
ritiene il Collegio la sussistenza di peculiari ragioni di opportunità tali da sospendere il giudizio in attesa della decisione dell’Adunanza Plenaria, dal momento che in considerazione della particolare complessità della questione -nonché dello stesso interesse pubblico al completamento dei lavori e al contenimento della spesa pubblica stante la responsabilità oggettiva sussistente in subiecta materia (C.G.U.E. 30.09.2010 C - 314/09)- la sentenza resa dall’adito Tribunale rischierebbe di risultare “inutiliter data” ove in contrasto con le indicazioni dell’organo nomofilattico.
4.1. - E ciò anche nella pur consapevole mancanza sia di una previsione normativa (del tipo di quella recentemente introdotta in via sperimentale per il solo PAT) che autorizzi anche il Tribunale Amministrativo a deferire direttamente la questione alla Plenaria, riferendosi come noto l’art. 99 cod. proc. amm. al solo giudizio d’appello, sia invero di una norma che consenta nel caso di specie la sospensione del giudizio, non sussistendo i presupposti tipici indicati dagli artt. 295 e 296 c.p.c. (richiamati dall’art. 79 cod. proc. amm.) stante la stessa opposizione manifestata dalla difesa regionale al rinvio dell’udienza.
5. – Per tutti i suesposti motivi ritiene
il Collegio di dover sospendere il giudizio sino alla pubblicazione della decisione dell’Adunanza Plenaria a seguito della rimessione operata dalla V Sezione del Consiglio di Stato (TAR Umbria, ordinanza 31.05.2017 n. 428 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Oltre l'anno dalla mancata conclusione del procedimento è necessaria la nuova istanza.
Con la sentenza 28.04.2017 n. 427, la Sez. II del TAR Puglia-Bari, ha stabilito l’irricevibilità del ricorso notificato oltre il termine di un anno (termine previsto dall’articolo 31 Cpa per la proposizione dell’azione avverso il silenzio della pubblica amministrazione) dall’astratta scadenza del termine di conclusione del procedimento.
Il principio di diritto
Già il Consiglio di Stato ha infatti evidenziato, sul punto, che il legislatore, al fine di attenuare il rischio che, eliminato l’onere della diffida, il silenzio-inadempimento potesse divenire inoppugnabile dopo il decorso del termine (normalmente) più breve previsto per proposizione dei ricorsi davanti al giudice amministrativo, ha ritenuto congruo assegnare alla parte istante il termine di un anno (dal termine assegnato all’Amministrazione per la conclusione del procedimento) per esercitare l’azione tendente ad accertare l’illegittimità dell’inerzia.
Decorso tale termine la parte, se ha ancora interesse ad ottenere una pronuncia dall’Amministrazione, può rivolgere alla stessa una nuova istanza ed eventualmente, se l’Amministrazione non provvede nel termine procedimentale assegnato, può impugnare tempestivamente il nuovo silenzio inadempimento formatosi (Cons. Stato, sez. III, n. 1050/2015).
Riguardo a tale richiesta, peraltro, se rispetto ad essa non può ravvisarsi una posizione qualificata e differenziata di interesse legittimo della parte istante, né un obbligo di provvedere, e quindi di rispondere a tale richiesta in capo al Comune, l’inerzia diviene non qualificabile come silenzio-inadempimento e il ricorso, in parte qua, non può che essere dichiarato inammissibile.
Il caso
Nella specie, si controverteva sul se considerare irricevibile il ricorso notificato oltre il termine di un anno (termine previsto dall’art. 31 citata) dall’astratta scadenza del termine di conclusione del procedimento, nonostante l'invio, ad opera della parte istante, di una nota inidonea a far sorgere una posizione qualifica e differenziata di interesse legittimo, e neppure un obbligo di provvedere in capo alla Pa.
Argomenti, spunti e considerazioni
La decisione del Tar Puglia persuade.
In primo luogo, perché decorso il termine di un anno dal termine assegnato all’Amministrazione per la conclusione del procedimento, se la parte istante ha ancora interesse ad ottenere una pronuncia dall’Amministrazione, può rivolgere alla stessa una nuova istanza, che -per essere tale- non può essere evidentemente troppo diversa dalla prima, nella forma e soprattutto nella sostanza.
Inoltre, anche al di fuori dei casi di nuova istanza, ogniqualvolta l'istanza, per come formulata, non faccia sorgere una posizione qualifica e differenziata di interesse legittimo, né un obbligo di provvedere in capo all'amministrazione, l’inerzia diviene non qualificabile come silenzio-inadempimento e quindi il ricorso, in parte qua, non può che essere dichiarato inammissibile (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.05.2017).
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MASSIMA
Con il gravame indicato in epigrafe, parte ricorrente ha chiesto a questo Tribunale di dichiarare l’illegittimità del silenzio serbato dal Comune di Molfetta, in ordine all’istanza acquisita con il prot. n. 41626 del 15.07.2011, nonché in ordine alle istanze riportate nella diffida ad adempiere del 07.07.2016.
L’Amministrazione comunale si è costituita in giudizio eccependo l’inammissibilità del ricorso per essere stato presentato ben oltre i termini di decadenza previsti dagli articoli 30 e 31 del codice del processo amministrativo.
Il Comune di Molfetta ha evidenziato, inoltre, che con nota del 01.09.2011, era stato comunicato alla ricorrente, con provvedimento espresso, che l’istanza de qua era in attesa di essere istruita seguendo l’ordine cronologico di presentazione, giusta disposizione di cui all’art. 34 del Piano generale degli impianti pubblicitari e delle pubbliche affissioni.
Alla camera di consiglio del 04.04.2017 la causa è stata trattenuta in decisione.
Il Collegio, in via preliminare, deve esaminare l’eccezione d’inammissibilità del ricorso sollevata dal Comune di Molfetta.
L’eccezione è fondata e va accolta.
Il ricorso è irricevibile considerato che lo stesso è stato inviato alla notifica il 04.10.2016 e, dunque, oltre il termine di un anno (termine previsto dall’art. 31 del codice del processo amministrativo per la proposizione dell’azione avverso il silenzio della pubblica amministrazione) dall’astratta scadenza del termine di conclusione del procedimento di che trattasi (l’istanza risale, infatti, al 15.07.2011).
Sul punto, il Consiglio di Stato, ha evidenziato che “
Il legislatore, infatti, al fine di attenuare il rischio che, eliminato l’onere della diffida, il silenzio-inadempimento potesse divenire inoppugnabile dopo il decorso del termine (normalmente) più breve previsto per proposizione dei ricorsi davanti al giudice amministrativo, ha ritenuto congruo assegnare alla parte istante il termine di un anno (dal termine assegnato all’Amministrazione per la conclusione del procedimento) per esercitare l’azione tendente ad accertare l’illegittimità dell’inerzia. Decorso tale termine la parte, se ha ancora interesse ad ottenere una pronuncia dall’Amministrazione, può rivolgere alla stessa una nuova istanza ed eventualmente, se l’Amministrazione non provvede nel termine procedimentale assegnato, può impugnare tempestivamente il nuovo silenzio-inadempimento formatosi” (Cons. Stato, sez. III, 03.03.2015, n. 1050).
Infine, per quanto riguarda l’ulteriore richiesta contenuta nella diffida del 07.07.2016 (sulla quale la ricorrente, con il ricorso de quo, ha chiesto a questo Tribunale di pronunciarsi), consistente nel comunicare quali iniziative l’Ente comunale avesse adottato per conformarsi al rispetto della normativa vigente in tema di autorizzazioni per l’installazione di impianti pubblicitari, nonché, in tema di rispetto dei canoni di buona amministrazione, del principio costituzionale di libertà di iniziativa economica nonché, dei principi di trasparenza, pubblicità ed imparzialità, il Collegio si limita ad evidenziare che
in relazione a tale richiesta, come formulata, non si ravvisa né una posizione qualifica e differenziata di interesse legittimo della ricorrente, né un obbligo di provvedere (rectius di rispondere a tale richiesta) in capo al Comune; in assenza di un obbligo di provvedere in capo all’Amministrazione, l’inerzia non è qualificabile come silenzio-inadempimento e il ricorso, in parte qua, non può che essere dichiarato inammissibile.
Inammissibile per la sua assoluta genericità risulta, infine, la richiesta di condannare il Comune di Molfetta al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2-bis, comma 1 della legge n. 241 del 1990.
Sul punto, si evidenzia che, recentemente, il Consiglio di Stato ha chiarito che “
l'ingiustizia e la sussistenza stessa del danno non possono, in linea di principio, presumersi iuris tantum, in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo nell'adozione del provvedimento amministrativo favorevole, ma il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda (si veda ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 04.05.2011, n. 2675)” (Cons. Stato, sez. V, 25.03.2016, n. 1239).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle Entrate, 14.06.2017).

SICUREZZA LAVORO: Il D.Lgs. 09.04.2008 n. 81 -noto come Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro- in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, integrato con circolari, accordi Stato Regioni, interpelli ed altre fonti normative ed amministrative (aggiornato nell'edizione maggio 2017 - tratto da www.ispettorato.gov.it).

VARI: VADEMECUM PER ACQUISTARE O AFFITTARE CASA (C.C.I.A.A. di Milano, aprile 2017).

SINDACATI & ARAN

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Banca dati contratti integrativi – Comunicazione a tutte le pubbliche amministrazioni.
L’Aran e il Cnel hanno reso disponibile, attraverso una procedura WEB, la banca dati dei contratti integrativi delle amministrazioni pubbliche, consultabile all’indirizzo: www.contrattintegrativipa.it.
Si tratta di una banca dati che raccoglie tutti i contratti integrativi (o di secondo livello) stipulati dalle amministrazioni pubbliche e dai sindacati sul territorio.
I contratti integrativi raccolti –oltre 25.000 fino ad oggi- sono inviati da ciascuna amministrazione pubblica all’Aran ed al Cnel mediante la procedura di trasmissione congiunta che è attiva dal 01.10.2015.
Nella logica degli “open data”, la banca dati sarà accessibile a tutti. I dati saranno consultabili e scaricabili mediante “filtri di ricerca” che consentiranno estrazioni per singola amministrazione, per territorio di riferimento, per anno di trasmissione.
Questo strumento consentirà inoltre alle amministrazioni di ridurre i propri oneri informativi in materia di trasparenza. Le nuove norme introdotte con il cosiddetto FOIA sollevano infatti le amministrazioni pubbliche dall’obbligo di pubblicazione dei contratti integrativi inviati alla banca dati, a partire dal prossimo 23 giugno. In tal modo, i cittadini interessati, invece di consultare il sito di ciascuna amministrazione, avranno a disposizione un’unica pagina web “nazionale” nella quale saranno consultabili (e scaricabili) tutti i contratti integrativi acquisiti dalla banca dati.
Il nuovo strumento mette anche a disposizione di studiosi e istituzioni di ricerca, interessati al tema delle relazioni sindacali nella pubblica amministrazione, un importante patrimonio informativo sul quale sarà possibile effettuare elaborazioni e ricerche ad hoc (19.06.2017 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Semplificate le procedure per le progressioni verticali nel Pubblico Impiego (CGIL-FP di Bergamo, nota 25.05.2017).

PUBBLICO IMPIEGO: RACCOLTA SISTEMATICA DELLE DISPOSIZIONI CONTRATTUALI - Area II della dirigenza (ARAN, gennaio 2017).

PUBBLICO IMPIEGO: RACCOLTA SISTEMATICA DELLE DISPOSIZIONI CONTRATTUALI - Personale non dirigente (ARAN, gennaio 2017).

SEGRETARI COMUNALI: RACCOLTA SISTEMATICA DELLE DISPOSIZIONI CONTRATTUALI - Segretari comunali e provinciali (ARAN, gennaio 2017).

PUBBLICO IMPIEGO: Raccolta sistematica degli orientamenti applicativi - Istituto contrattuale: Permessi retribuiti (ARAN, dicembre 2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Raccolta sistematica degli orientamenti applicativi - Istituto contrattuale: Permessi brevi (ARAN, dicembre 2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Raccolta sistematica degli orientamenti applicativi - Istituto contrattuale: Diritto allo studio (ARAN, dicembre 2016).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 26 del 30.06.2017, "Recepimento accordo conferenza unificata moduli unificati e standardizzati in materia di attività commerciali e assimilate - d.lgs. n. 126/2016 e d.lgs. n. 222/2016" (decreto D.U.O. 27.06.2017 n. 7649).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 26 del 29.06.2017, "Aggiornamento dei bacini di utenza della rete di distribuzione carburanti dei prodotti metano e gpl sulla rete stradale ordinaria" (decreto D.U.O. 22.06.2017 n. 7494).

ENTI LOCALI: G.U. 26.06.2017 n. 147 "Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 19.08.2016, n. 175, recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica" (D.Lgs. 16.06.2017 n. 100).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PATRIMONIO: G.U. 23.06.2017 n. 144, suppl. ord. n. 31/L, "Testo del decreto-legge 24.04.2017, n. 50, coordinato con la legge di conversione 21.06.2017, n. 96, recante: «Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo»".
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Di particolare interesse si leggano:
• Art. 13-quater - Sospensione del conio di monete da 1 e 2 centesimi
• Art. 21 - Disposizioni in favore delle fusioni di comuni
• Art. 52-ter - Modifiche al codice dei contratti pubblici
• Art. 52-quater - Organizzazione dell’ANAC
• Art. 54 - Documento Unico di Regolarità Contributiva
• Art. 54-bis - Disciplina delle prestazioni occasionali. Libretto Famiglia. Contratto di prestazione occasionale
• Art. 62 - Costruzione di impianti sportivi
• Art. 65-bis - Modifica all’articolo 3 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380

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In Gazzetta Ufficiale la Manovrina (legge n. 96/2017).
Ok alla cessione dell'ecobonus condomini alle banche. Il sismabonus esteso all'acquisto di case demolite e ricostruite nelle zone a rischio 1 anche con variazione volumetrica. Possibilità di cambiare la destinazione d’uso di un immobile in seguito ad interventi di restauro o risanamento (26.06.2017 - link a
www.casaeclima.com).
...
La Manovrina è legge: tutte le novità punto per punto.
Ok alla cessione dell'ecobonus condomini alle banche. Il sismabonus esteso all'acquisto di case demolite e ricostruite nelle zone a rischio 1 anche con variazione volumetrica. Possibilità di cambiare la destinazione d’uso di un immobile in seguito ad interventi di restauro o risanamento
(15.06.2017 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 23.06.2017 n. 144, "Disposizioni recanti modifiche al decreto legislativo 08.03.2006, n. 139, concernente le funzioni e i compiti del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché al decreto legislativo 13.10.2005, n. 217, concernente l’ordinamento del personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, e altre norme per l’ottimizzazione delle funzioni del Corpo nazionale dei vigili del fuoco ai sensi dell’articolo 8, comma l, lettera a) , della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche" (D.Lgs. 29.05.2017 n. 97).
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Prevenzione incendi, dall'8 luglio sanzioni più severe per le imprese che omettono la SCIA.
Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legislativo di riforma del Corpo nazionale dei vigili del fuoco (26.06.2017 - link a www.casaeclima.com).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 22.06.2017, "Approvazione del secondo bando «Criteri e procedure per concessione ai comuni di contributi una tantum a fondo perduto per la rimozione del cemento-amianto esistente in pubblici edifici»" (decreto D.S. 15.06.2017 n. 7112).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 21.06.2017, "Disposizioni regionali concernenti l’attuazione del piano di gestione dei rischi di alluvione (PGRA) nel settore urbanistico e di pianificazione dell’emergenza, ai sensi dell’art. 58 delle norme di attuazione del piano stralcio per l’assetto idrogeologico (PAI) del bacino del Fiume Po così come integrate dalla variante adottata in data 07.12.2016 con deliberazione n. 5 dal comitato istituzionale dell’autorità di bacino del Fiume Po" (deliberazione G.R. 19.06.2017 n. 6738).

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 19.06.2017 n. 140 "Modifiche al DM 13.12.2016, recante Direttive e Calendario per le limitazioni alla circolazione stradale fuori dai centri abitati per l’anno 2017 nei giorni festivi e particolari, per i veicoli di massa superiore a 7,5 tonnellate" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 27.04.2017).
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Dal 19.12.2017 sarà possibile omologare e installare i misuratori di tempo residuo dei cicli semaforici.
Tra pochi mesi sarà possibile installare sugli impianti semaforici i dispositivi che avvisano gli utenti circa il tempo residuo del colore attivo. Ma per aggiornare i vecchi impianti andrà cambiato tutto il cuore del sistema. Meglio mettere semafori nuovi.

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 16.06.2017, "Riordino e razionalizzazione delle disposizioni attuative della disciplina regionale in materia di distribuzione carburanti e sostituzione delle dd.gg.rr. 11.06.2009, n. 9590, 02.08.2013, n. 568, 23.01.2015 n. 3052, 25.09.2015, n. 4071, 26.09.2016 n. 5613" (deliberazione G.R. 09.06.2017 n. 6698).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 14.06.2017, "Quarto aggiornamento 2017 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 08.06.2017 n. 6724).

APPALTI - INCARICHI PROFESSIONALI: G.U. 13.06.2017 n. 135, "Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato" (Legge 22.05.2017 n. 81).
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Di particolare interesse, si legga:
• Art. 12. - Informazioni e accesso agli appalti pubblici e ai bandi per l’assegnazione di incarichi e appalti privati.

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 12.06.2017, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in acustica ambientale alla data del 31.05.2017, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 06.06.2017 n. 102).

ENTI LOCALI - VARI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 12.06.2017, "Indirizzi regionali per l’organizzazione dei controlli delle ATS sulle case dell’acqua" (decreto D.U.O. 05.06.2017 n. 6589).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 09.06.2017, "Monitoraggio degli interventi di recupero dei vani e locali seminterrati in attuazione della legge regionale 10.03.2017, n. 7" (decreto D.S. 05.06.2017 n. 6555).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 07.06.2017 n. 130, "Modifiche e integrazioni al decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16, commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17, comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l), m), n), o), q), r), s) e z), della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche" (D.Lgs. 25.05.2017 n. 75).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 07.06.2017 n. 130, "Modifiche al decreto legislativo 27.10.2009, n. 150, in attuazione dell’articolo 17, comma 1, lettera r), della legge 07.08.2015, n. 124" (D.Lgs. 25.05.2017 n. 74).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 05.06.2017 n. 128, suppl. ord. n. 26, "Accordo tra il Governo, le Regioni e gli Enti locali concernente l’adozione di moduli unificati e standardizzati per la presentazione delle segnalazioni, comunicazioni e istanze. Accordo, ai sensi dell’articolo 9, comma 2, lettera c) del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281 (Repertorio atti n. 46/CU)" (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Conferenza Unificata, accordo 04.05.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA - TRIBUTI: G.U. 22.05.2017 n. 117, "Criteri per la realizzazione da parte dei comuni di sistemi di misurazione puntuale della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico o di sistemi di gestione caratterizzati dall’utilizzo di correttivi ai criteri di ripartizione del costo del servizio, finalizzati ad attuare un effettivo modello di tariffa commisurata al servizio reso a copertura integrale dei costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 20.04.2017).

ENTI LOCALI: G.U. 24.04.2017 n. 95, suppl. ord. n. 20/L, "Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo" (D.L. 24.04.2017 n. 50).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 16 del 21.04.2017, "Indicazioni per la presentazione a Regione Lombardia Delle istanze per tecnico competente in acustica conseguenti all’entrata in vigore del d.lgs. 42/2017" (comunicato regionale 18.04.2017 n. 65).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

URBANISTICA: D. D'Alessandro, L’esclusione dalla normativa sugli appalti delle convenzioni non onerose per l’amministrazione (fra programmazione urbanistica, interesse pubblico ed interesse privato) (28.06.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa e profili generali. 2. Alla ricerca di una nozione di causa idonea a tutelare l’interesse pubblico e quello privato. La funzione economico-individuale, la gratuità, l’interesse patrimoniale del disponente, il rischio di elusioni della disciplina dei contratti. 3. La gratuità ed i controversi limiti dell’urbanistica consensuale. Le opere a scomputo e l’art. 20, fra natura corrispettiva degli oneri tabellari e rischio di elusioni del codice dei contratti. 4. Le parti. Le tensioni in ordine ai requisiti dell’esecutore 5. La (blanda) tipizzazione. I contenuti necessari della proposta. 6. L’oggetto, come programma delle attività preordinato alla realizzazione dell’opera, fra autotutela civilistica e pubblicistica. 7. Il presupposto della previsione dell’opera nell’ambito di strumenti o programmi urbanistici. Interrogativi sull’ammissibilità di proposte di modifica e sulla configurabilità di un obbligo di provvedere. 8. La disciplina applicabile fra contratti attivi, accordi, attività di diritto privato e contratti esclusi. 9. Gli incerti confini con i contratti di sponsorizzazione. 10. Problemi e prospettive.

EDILIZIA PRIVATA: D. Marrama, Le novità in tema di SCIA del biennio 2015-2016 (28.06.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Gli esordi della D.I.A. tra scenari innovativi, lacune e difetti normativi. 2. Il nuovo art. 18-bis della legge n. 241 del 1990. 3. Le modifiche al 3° comma dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990. 4. SCIA ed autotutela. 5. Il nuovo art. 19-bis della legge 241 del 1990. 6. I poteri dell’Amministrazione dopo la scadenza del termine originario per provvedere. 7. SCIA e tutela del terzo.

EDILIZIA PRIVATA: A. Berti Suman, Scia e tutela del terzo - Le questioni aperte dopo la riforma Madia ed i decreti attuativi SCIA1 e SCIA2 (a margine della ordinanza Tar Toscana, Sez. III, 11.05.2017, n. 667) (16.06.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it)..
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SOMMARIO: 1. Premessa: il completamento della riforma della SCIA ed i nodi ancora irrisolti – 2. L’ordinanza Tar Toscana, sez. III, 11.05.2017, n. 667: dubbi di costituzionalità sulla mancanza di un termine espresso per la sollecitazione da parte del terzo dei poteri spettanti alla p.a. – 3. La tutela del terzo e la SCIA nella l. n. 124 del 2015 e nei decreti attuativi: il problema del coordinamento con la nuova disciplina dell’autotutela e del termine massimo di diciotto mesi – 4. L’evoluzione della giurisprudenza su SCIA e tutela del terzo – 4.1 L’intervento dell’Adunanza Plenaria n. 15/2011 e del legislatore (art. 19, comma 6-ter): il tipo di azione esperibile da parte del terzo – 4.2 La giurisprudenza più recente: contrasti sulla natura dei poteri spettanti alla p.a. e sul termine per la loro sollecitazione – 5. Le questioni aperte: a) il termine di sollecitazione; b) la sua decorrenza; c) i provvedimenti esigibili – 6. Le lacune dell’art. 19 secondo i pareri del Consiglio di Stato e la necessità di una disciplina di dettaglio: prospettive de iure condito e de iure condendo.

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Porporato, Il “nuovo” accesso civico “generalizzato” introdotto dal d.lgs. 25.05.2016, n. 97 attuativo della riforma Madia e i modelli di riferimento (14.06.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Le quattro tappe del cammino normativo della trasparenza. – 2. La quinta tappa del cammino normativo della trasparenza: la riforma Madia e il d.lgs. 25.05.2016, n. 97. Le novità del d.lgs. 25.05.2016, n. 97: alcuni rilievi critici. – 3. I modelli di riferimento della riforma Madia e del d.lgs. 25.05.2016, n. 97. – 4. Rilievi critici conclusivi.

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Gualdani, Il tempo nell’autotutela (14.06.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa. 2. La disciplina del termine nell’annullamento d’ufficio e la sempre attuale rilevanza del criterio della “ragionevolezza”. 3. La “conferma” della discrezionalità dell’annullamento d’ufficio: una prova di resistenza. 4. La natura del termine. 5. L’indispensabilità della previsione di una disciplina del tempo anche nella revoca.

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Nicotra, I principi di proporzionalità e ragionevolezza dell’azione amministrativa (14.06.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Introduzione. 2. Il principio di ragionevolezza: 2.1. Premessa. 2.2. Genesi del principio di ragionevolezza in diritto costituzionale. 2.3. Il significato del canone di ragionevolezza in diritto costituzionale. 2.4. La ragionevolezza nel diritto amministrativo. 3. Il principio di proporzionalità: origini e natura. 3.1. I presupposti applicativi. 4. Il rapporto tra il principio ragionevolezza e proporzionalità. 4.1. Ragionevolezza e proporzionalità in materia costituzionale. 4.2. Ragionevolezza e proporzionalità in diritto amministrativo. 5. I principi di proporzionalità e ragionevolezza nella materia degli appalti. 6. Considerazioni conclusive.

APPALTI: G. A. Giuffrè, Revirement del Consiglio di Stato sull’immediata impugnabilità della scelta del criterio di selezione delle offerte: le novità (sostanziali e processuali) del Codice dei contratti giustificano il superamento dell’Adunanza Plenaria n. 1 del 2013? (14.06.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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A fronte dell’illegittima adozione del criterio del massimo ribasso da parte della stazione appaltante, il concorrente che si ritiene danneggiato dalla scelta di siffatto criterio, deve impugnare immediatamente la documentazione di gara nella parte in cui lo prevede, senza attendere l’esito della gara, in quanto sono già sussistenti tutti i necessari presupposti:
   a) la posizione giuridica legittimante avente a base, quale interesse sostanziale, la competizione secondo meritocratiche opzioni di qualità oltre che di prezzo;
   b) la lesione attuale e concreta, generata dalla previsione del massimo ribasso in difetto dei presupposti di legge; c) l’interesse a ricorrere in relazione all’utilità concretamente ritraibile da una pronuncia demolitoria che costringa la stazione appaltante all’adozione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ritenuto dalle norme del nuovo codice quale criterio “ordinario” e generale (Consiglio di Stato,
Sez. III, sentenza 02.05.2017 n. 2014).

EDILIZIA PRIVATA: F. Lorenzotti, I regimi amministrativi degli interventi edilizi dopo il D.Lgs. n. 222 del 2016 (06.06.2017 - tratto da www.ambientediritto.it).
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Sommario: 1. Riforme e ritocchi incessanti per il testo unico dell’edilizia. – 2. La legge delega n. 124 del 2015 avvia la revisione dei titoli abilitativi edilizi. - 3. Il decreto legislativo n. 126 del 2016 e la revisione della SCIA. –3.1. Un principio difficilmente attuabile nell’edilizia: la libertà delle attività private. - 3.2. I moduli unificati e standardizzati per la presentazione di domande, segnalazioni e comunicazioni. - 3.3. La ricevuta della presentazione di domande, segnalazioni e comunicazioni. – 4. Il decreto legislativo n. 127 del 2016 e le modificazioni al procedimento per il rilascio del permesso di costruire. - 5. Il decreto legislativo n. 222 del 2016 e la Tabella A, sezione II, sui titoli abilitativi edilizi. - 6. Aspettando il glossario unico dell’edilizia. - 7. L’attività edilizia libera secondo la Tabella. - 8. L’attività edilizia delle pubbliche amministrazioni. – 9. Le attività edilizie soggette a semplice comunicazione di inizio lavori (CIL). - 10. La comunicazione di inizio dei lavori asseverata (CILA). – 11. Gli interventi edilizi realizzabili con la CILA secondo la Tabella. - 12. La segnalazione certificata di inizio attività (SCIA). – 13. Gli interventi edilizi realizzabili con la SCIA secondo la Tabella. - 14. Il permesso di costruire e il procedimento per il suo rilascio. – 15. Gli interventi realizzabili con il permesso di costruire secondo la Tabella. – 16. La formazione del silenzio assenso sulla domanda di permesso di costruire. - 17. Gli interventi realizzabili per silenzio assenso secondo la Tabella. - 18. La SCIA in alternativa al permesso di costruire. - 19. Gli interventi subordinati alla SCIA in alternativa al permesso di costruire secondo la Tabella. – 20. La Tabella e gli impianti alimentati da fonti rinnovabili. – 21. Passaggio dai titoli abilitativi edilizi ai regimi amministrativi degli interventi edilizi.

EDILIZIA PRIVATA: S. Cacace, Semplificazione amministrativa e governo del territorio: i titoli abilitativi e gli strumenti di semplificazione (22.04.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: 1. La disciplina dei titoli abilitativi edilizi. 2. La generalizzazione del silenzio-assenso: il silenzio avente valore di permesso di costruire. 3. La dichiarazione di inizio attività (D.I.A.) e la segnalazione certificata di inizio attività (Scia).

APPALTI: M. Fratini e F. Iorio, La contrattualizzazione della responsabilità precontrattuale (De Iustitia n. 2/2017 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Trattative e principio di buona fede: obblighi e ratio della responsabilità precontrattuale. 3. Le forme di responsabilità precontrattuale e la diversa entità di danno risarcibile. 4.1. La natura giuridica della responsabilità precontrattuale. 4.1.1. Il recente revirement della Corte di Cassazione: la sentenza n. 14188 del 2016. 4.1.2. Segue. Le conseguenze della contrattualizzazione della responsabilità precontrattuale: l’ipotesi della configurabilità di una responsabilità precontrattuale del terzo. 4.1.3. Segue. Le conseguenze della contrattualizzazione della responsabilità precontrattuale: la responsabilità precontrattuale della p.a.. 4.1.4. Segue. Atti adottati in sede di trattative. 5. Conclusioni.

EDILIZIA PRIVATA: G. Rizzi, La disciplina della attività edilizia dopo il D.Lgs. 222/2016 (20.02.2017 - tratto da www.notairizzitrentin.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. La Marca, La natura giuridica della cessione di cubatura e la tipicità dei diritti reali (De Iustitia n. 1/2017 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. I caratteri dei diritti reali: i principi del numerus clausus e di tipicità. 2. La cessione di cubatura e le sue condizioni di ammissibilità. 3. La natura giuridica dell’istituto: le teorie pubblicistiche e le teorie privatistiche. 4. La trascrizione dei contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti edificatori ai sensi dell’art. 2643, n. 2-bis, c.c.. 5. Conclusioni.

ATTI  AMMINISTRATIVI: A. Rapillo, La motivazione del provvedimento amministrativo e le sorti dell’atto plurimotivato parzialmente viziato (De Iustitia n. 1/2017 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. La motivazione del provvedimento amministrativo. 2.1. Profili storici. 2.2. La struttura della motivazione.3. Le funzioni della motivazione. 4. Le deroghe all’obbligo di motivazione. 5. I vizi della motivazione. 5.1. Segue… la riforma del 2005. 6. La motivazione postuma: una questione controversa. 7. Atto plurimotivato e vizio parziale della motivazione: il principio di conservazione degli atti.

EDILIZIA PRIVATA: R. Iervolino, L’evoluzione dell’istituto della S.C.I.A. nel processo di liberalizzazione delle attività private (De Iustitia n. 4/2016 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Premessa storica dell’istituto: dalla "denuncia", alla "dichiarazione", alla "segnalazione" di inizio attività; 3. La disciplina della s.c.i.a. alla luce della L. n. 122 del 2010; 4. La natura giuridica dell’istituto e la tutela dei contro interessati; 4.1. La tesi della natura pubblicistica; 4.2. La tesi della natura privatistica; 4.3. Conseguenze pratiche: tecniche di tutela del contro interessato; 4.4. La risposta al quesito: Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 15/2011; 4.5. La soluzione del Legislatore: il D.L. n. 138/2011; 5. Le ennesime riforme dell’istituto; 5.1. Lo “Sbolcca Italia”…; 5.2. …E la Riforma Madia; 6. Considerazioni conclusive.

APPALTI SERVIZI: I. Siniscalchi, L’affidamento in house dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Considerazioni alla luce della sentenza della Corte Costituzionale del 17.07.2012 n. 199 e del Decreto Legislativo n. 50 del 18.04.2016 (De Iustitia n. 4/2016 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. La nozione di servizio pubblico. 2. La disciplina dell’affidamento dei servizi pubblici locali e la tutela della concorrenza. 3. L’art. 23-bis del D.L. 25.06.2008, n. 112. 4. Il referendum abrogativo del 12 e 13.06.2011 e l’art. 4 del D.L. 13.08.2011, n. 138. 5. L’intervento della Corte Costituzionale con la sentenza del 17.07.2012 n. 199 e l’attuale disciplina dei servizi pubblici locali. 6. L’affidamento in house dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. 7. Il requisito del “controllo analogo” . 8. Il requisito della “destinazione prevalente dell’attività”.

EDILIZIA PRIVATA: A. Auletta, L’evoluzione giurisprudenziale sulle nullità urbanistiche: brevi riflessioni circa la (possibile) incidenza sulla vendita forzata (De Iustitia n. 3/2016 - tratto da www.deiustitia.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: E. Maino, Il principio di trasparenza: ieri, oggi e domani: le nuove prospettive della Foia (De Iustitia n. 3/2016 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Il principio di trasparenza ieri. 2. Il principio di trasparenza e il diritto di accesso: la casa dai vetri oscurati. 3. L’accesso civico e il principio di trasparenza oggi. 4. Foia e il ritorno alle origini. 5. Prospettive future del principio di trasparenza.

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Rubano, I reati di falso e la portata concreta del principio di offensività (De Iustitia n. 3/2016 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. La portata del principio di offensività. 2. I delitti contro la fede pubblica: cenni evolutivi. 3. La natura monoffensiva o plurioffensiva dei reati di falso. 4. Il concetto di falso documentale e la rilevanza delle invalidità dell’atto. 5. Il c.d. falso documentale consentito. 6. Il falso materiale e il falso ideologico. 7. Le falsità in atti pubblici. 8. Le falsità in atti privati e la loro recente abrogazione. 9. Il falso in autorizzazioni e in concessioni. 10. Il falso grossolano, innocuo e inutile. 11. La dichiarazione infedele di ammissione al patrocinio a spese dello Stato. 12. La falsa indicazione “Made in Italy”.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: A. Amendola, Il danno all’immagine della pubblica amministrazione (De Iustitia n. 2/2016 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Il risarcimento del danno non patrimoniale delle persone giuridiche. 3. Il danno all’immagine della p.a. nella giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte dei Conti. 4. La nuova disciplina dell’azione risarcitoria introdotta dall’art. 17, comma 30-ter, d.l. 78 del 2009.

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Caringella, Brevi osservazioni sull’annullamento con effetti variabili del provvedimento amministrativo … “verso un annullamento a geometrie variabili?” (De Iustitia n. 2/2016 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. I dubbi sollevati dalla giurisprudenza amministrativa. 2. Le geometrie variabili della tutela demolitoria.

APPALTI: V. Ferrara, Il soccorso istruttorio nelle procedure ad evidenza pubblica: l’atavico duello tra forma e sostanza (De Iustitia n. 1/2016 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Il dato normativo: genesi e profili problematici dell’istituto. 2. La giurisprudenza contrastante: come delimitare il raggio d’azione della stazione appaltante? 3. Le soluzioni dell’Adunanza Plenaria: il fardello del formalismo. 4. Uno sguardo ai cugini d’Oltralpe: l’art. 52 del Code des Marchés Publics. 5. Conclusioni.

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

URBANISTICA: Oggetto: Legge regionale 31/2014 per la riduzione del consumo di suolo – Modificato il regime transitorio (ANCE di Bergamo, circolare 28.06.2017 n. 117).

TRIBUTI: Oggetto: Esenzione IMU sul “magazzino” delle imprese edili – Dichiarazione (ANCE di Bergamo, circolare 28.06.2017 n. 116).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Svolgimento di manifestazioni pubbliche - Profili di security e di safety (Prefettura di Bergamo, nota 23.06.2017 n. 35618 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Albo Nazionale Gestori Ambientali: nuovi requisiti e verifiche di idoneità per il responsabile tecnico (ANCE di Bergamo, circolare 23.06.2017 n. 115).

SEGRETARI COMUNALIOggetto: articolo 43, comma 2, del C.C.N.L. dei segretari comunali e provinciali del 15.05.2001: modalità procedurali per la formulazione delle richieste di rimborso (Ministero dell'Interno, nota 20.06.2017 n. 7122 di prot.).
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Il Ministero dell'Interno, con circolare n. 7122 del 20.06.2017 concernente le modalità procedurali per la formulazione delle richieste di rimborso -articolo 43, comma 2, del CCNL- dei Segretari comunali e provinciali, fornisce indicazioni in merito. La normativa in oggetto, riserva al segretario collocato in posizione di disponibilità, la facoltà di conservare, in caso di incarico presso un ente di fascia immediatamente inferiore a quella di iscrizione, la retribuzione di posizione più alta, corrispondente alla fascia demografica dell'ente locale di cui il segretario era titolare al momento del collocamento di disponibilità .
In riferimento alle modalità per la formulazione delle richieste di rimborso viene precisato che compete comunque all'ente locale l'erogazione della retribuzione di posizione al segretario anche per la quota posta a carico del Ministero dell'Interno. L'importo oggetto di rimborso viene limitato, dalla contrattazione collettiva, al differenziale risultante dal confronto tra la retribuzione di posizione erogata al segretario durante il periodo di disponibilità e quella prevista per la fascia di appartenenza dell'ente dalla contrattazione collettiva di settore.
Non costituiscono oggetto di rimborso le voci stipendiali previste dai commi 4 e 5 dell'articolo 41 del C.C.N.L. 16.05.2001, eventualmente riconosciute dall'ente al segretario; parimenti esclusa dal rimborso è la retribuzione aggiuntiva per sedi convenzionate erogata dall'ente locale al segretario in relazione al trattamento economico in godimento ai sensi dell'articolo 45 del C.C.N.L. del 16.05.2001.
Infine si evidenzia che l'istanza di rimborso deve essere corredata da una dichiarazione da parte dell'ente locale attestante l'effettiva erogazione, in favore del segretario, del differenziale (commento tratto da www.logospa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Commissioni comunali di vigilanza sui locali di pubblico spettacolo (Ministero dell'Interno, Comando Provinciale Vigili del Fuoco - Bergamo, nota 12.06.2017 n. 12673 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Nuovi chiarimenti ministeriali sul decreto sottoprodotti (ANCE di Bergamo, circolare 09.06.2017 n. 105).
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Si legga anche la nota 30.05.2017 n. 7619 di prot. del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Direzione Generale per i Rifiuti e l'Inquinamento ivi menzionata).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Circolare esplicativa per l’applicazione del decreto ministeriale 13.10.2016, n. 264 (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Direzione Generale per i Rifiuti e l'Inquinamento, nota 30.05.2017 n. 7619 di prot.).
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Con decreto del Ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare 13.10.2016, n. 264 (in Gazzetta ufficiale del 15.02.2017, n. 38, di seguito “Regolamento” o “Decreto”) sono stati adottati «Criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti».
In considerazione dei molteplici quesiti pervenuti a questo Ministero su diversi profili interpretativi ed operativi, appare utile fornire in questa sede alcuni chiarimenti, in modo da consentire una uniforme applicazione ed una univoca lettura del provvedimento.
Stante l’oggettiva complessità della disciplina, di origine interna ed europea, concernente l’utilizzazione dei sottoprodotti, e l’assenza di prassi interpretative lungamente consolidate, per una migliore applicazione del Decreto si ritiene utile fornire alcuni chiarimenti interpretativi, accompagnando la presente circolare con un Allegato tecnico-giuridico, che deve essere considerato parte integrante della medesima. A tale Allegato si rinvia, dunque, sin d’ora, per l’approfondimento dei temi di seguito affrontati. (...continua).

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Riduzione del periodo di prognosi riportato nel certificato attestante la temporanea incapacità lavorativa per malattia (INPS, circolare 02.05.2017 n. 79 - link a www.inps.it).
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SOMMARIO: 1. Premessa - 2. Prognosi riportata nel certificato - 3. Obblighi del lavoratore e del datore di lavoro - 4. Provvedimenti sanzionatori.

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consiglieri, porte aperte. Legittimo l'accesso reiterato al protocollo. Va riconosciuto un diritto più ampio rispetto al semplice cittadino.
È legittima la condotta di un consigliere di minoranza che reitera nel tempo numerose istanze di accesso al protocollo del Comune?

Secondo l'art. 22, comma 2, della legge n. 241/1990 «l'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza».
L'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, invece, consente ai consiglieri comunali di accedere a «tutte le notizie e le informazioni» in possesso dell'Ente, utili all'espletamento del proprio mandato. Nella fattispecie in esame, il Sindaco ha sospeso le richieste di accesso del consigliere al protocollo, ritenendole «formalizzate in modo abnorme, generico, indiscriminato e reiterato e finalizzate a strategie ostruzionistiche comportanti aggravi dell'attività amministrativa dell'Ente».
Tuttavia, va considerato che al consigliere comunale, in relazione proprio al munus rivestito, deve essere riconosciuto un diritto più ampio rispetto a quello esercitabile dal semplice cittadino, che si estende oltre le competenze attribuite al consiglio comunale, al fine della necessaria valutazione della correttezza ed efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale (cfr.: Cds n. 4525 del 05/09/2014, Cds sez. V n. 5264/2007 che richiama Cons. stato, V sez. 21/02/1994 n. 119, Cons. stato, V sez. 26/09/2000 n. 5109, Cons. stato, V sez. 02/04/2001 n. 1893).
La giurisprudenza (cfr. Tar Sardegna n. 29/2007 e n. 1782/2004, Tar Lombardia, Brescia, n. 362/2005, Tar Campania, Salerno, n. 26/2005) -superando le precedenti decisioni contrarie e fatta salva la necessità di non aggravare la funzionalità amministrativa dell'Ente con richieste emulative- è infatti, oggi orientata nel ritenere illegittimo il diniego opposto dall'amministrazione di prendere visione del protocollo generale e di quello riservato del Sindaco, comprensivo sia della posta in arrivo che di quella in uscita.
Del resto, i giudici del Tar Sardegna, con la citata sentenza n. 29/2007, hanno affermato che è consentito prendere visione del protocollo generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, mentre il Tar Lombardia, Brescia, 01.03.2004 n. 163, ha ritenuto non ammissibile imporre al consigliere l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli atti che intendono visionare giacché trattasi di informazioni di cui gli stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso.
Pertanto, la previa visione dei vari protocolli (tra cui il protocollo informatico che rappresenta una innovazione tecnologica consolidata, già prevista dall'art. 17, del dlgs n. 82/2005), è necessaria, e potrà trovare apposita disciplina di dettaglio nel regolamento dell'Ente, per poter individuare gli estremi degli atti sui quali si andrà ad esercitare l'accesso vero e proprio.
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, esprimendosi sull'esercizio di tale diritto (cfr. parere 29.11.2009), sulla base del principio di economicità che incombe sia sugli uffici tenuti a provvedere, sia sui soggetti che chiedono prestazioni amministrative, ha riconosciuto «la possibilità per il consigliere di avere accesso diretto al sistema informatico interno, anche contabile, dell'ente attraverso l'uso della password di servizio ( ) proprio al fine di evitare che le continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale» (articolo ItaliaOggi del 02.06.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: risposta alla richiesta di parere circa la prova dell’esistenza di un edificio costruito ante 1967 (Regione Emilia Romagna, nota 30.05.2017 n. 402646 di prot.).
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1. Viene richiesto parere in oggetto, in quanto alla richiesta di un certificato di conformità edilizia, da parte di un privato, per un intervento su un immobile, da sottoporre a SCIA, di cui risulta esservi il solo accatastamento nel 2007 e che risulta essere costruito in un lasso di tempo tra il 1940 e il 1949, un Comune, ha richiesto l’attestazione dell’esistenza dell’edificio di cui sopra, prima del 1950.
Da quanto sopra descritto ed in buona sostanza si chiede se un edificio, originariamente posto in zona agricola e realizzato prima del 01.09.1967 e quindi prima dell’entrata in vigore della Legge 06.08.1967, n.765 (c.d. Legge Ponte), sia illegittimo, se privo di titolo edilizio. Si premette che il parere richiesto viene fornito rispetto a questioni generali che vengono considerate in astratto, escludendo quindi valutazioni sul caso specifico, il cui apprezzamento spetterà al Comune. (...continua).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Interpellanze in consiglio. La minoranza può chiedere la convocazione. Non si configura l'uso distorto dell'art. 39, comma 2, dlgs 267/2000.
Ai sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, la minoranza consiliare può chiedere al Presidente del consiglio comunale di convocare il consiglio, entro 20 giorni, per discutere interrogazioni, interpellanze, mozioni, o ciò costituisce un uso distorto di tale norma?

Secondo l'art. 39, comma 2, del dlgs n. 267/2000 il presidente del consiglio comunale è tenuto a riunire il consiglio, «in un termine non superiore ai venti giorni», quando lo richiedano un quinto dei consiglieri, inserendo all'ordine del giorno le questioni richieste. La norma sembra configurare un obbligo del Presidente del consiglio comunale di procedere alla convocazione dell'organo assembleare per la trattazione, da parte del Consiglio, delle questioni richieste, senza alcun riferimento alla necessaria adozione di determinazioni da parte del consiglio stesso.
Tale diritto di iniziativa, «...è tutelato in modo specifico dalla legge, che prevede la modificazione dell'ordine delle competenze mediante intervento sostitutorio del Prefetto (misura, questa, severa ed eccezionale) in caso di mancata convocazione del consiglio comunale in un termine, breve, di venti giorni» (Tar Puglia, Sez. 1, 25.07.2001, n. 4278).
L'orientamento che vede riconosciuto e definito come «diritto, dal legislatore, «...il potere dei consiglieri di chiedere la convocazione del Consiglio medesimo» è, quindi, ormai ampiamente consolidato (sentenza Tar Puglia, Lecce, Sez. I del 04.02.2004, n. 124). In merito alla questione relativa alla sindacabilità dei motivi che determinano i consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria dell'assemblea, l'orientamento consolidato è nel senso di prevedere che al Presidente del Consiglio spetti solo la verifica formale della richiesta, non potendo comunque sindacarne l'oggetto. La giurisprudenza in materia si è, al riguardo, da tempo espressa affermando che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (Tar Piemonte, n. 268/1996).
Nondimeno, spetta all'assemblea decidere in via pregiudiziale se un dato argomento inserito nell'ordine del giorno debba essere discusso (questione pregiudiziale) ovvero se se ne debba rinviare la discussione (questione sospensiva) (Tar Puglia, Lecce, Sez. 1, 25.07.2001, n. 4278 e sempre Tar Puglia, Lecce, Sez. 1, 04.02.2004, n. 124). Peraltro, l'art. 43 del Tuoel demanda alla potestà statutaria e regolamentare dei Comuni e delle province la disciplina delle modalità di presentazione delle interrogazioni, delle mozioni e di ogni altra istanza di sindacato ispettivo proposta dai consiglieri, nonché delle relative risposte, che devono comunque essere fornite entro trenta giorni.
Pertanto, qualora l'intenzione dei proponenti non sia diretta a provocare una delibera del Consiglio comunale, bensì a porre in essere un atto di sindacato ispettivo, si potrebbe ipotizzare che, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000, rientri nella competenza del Consiglio comunale, in qualità di «organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo», anche la trattazione di «questioni» che, pur non rientrando nell'elencazione del comma 2 del medesimo articolo, attengono comunque a tale ambito di controllo.
Del resto, la dizione legislativa che parla di «questioni» e non di deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel ritenere che la trattazione di argomenti non rientranti nella previsione del citato comma 2, dell'art. 42, non debba necessariamente essere subordinata alla successiva adozione di provvedimenti da parte del consiglio comunale. Quindi, la richiesta di convocazione del consiglio ex art 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 finalizzata all'esame degli atti di sindacato ispettivo non configura un utilizzo distorto della citata disposizione, dettata dal legislatore a tutela delle minoranze consiliari (articolo ItaliaOggi del 26.05.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: OSSERVATORIO VIMINALE/ Garanzia d'alto profilo. Commissione: attività di governo nel mirino. Questioni di sicurezza rientrano nel perimetro degli organismi speciali.
Al fine di verificare l'eventuale violazione delle norme sulla sicurezza nella costruzione di un distributore di carburanti nel territorio comunale, un comitato di cittadini può chiedere la convocazione della Commissione Garanzia e Controllo comunale?

La questione deve essere risolta facendo riferimento alle disposizioni di legge o di regolamento, ovvero degli statuti locali.
In linea generale, nei comuni sono operanti commissioni obbligatorie (previste per legge come, ad esempio, la commissione elettorale comunale) e commissioni facoltative (come, le cd. commissioni consiliari permanenti ex art. 38 del Tuoel n. 267/2000); in entrambi i casi, la rispettiva composizione ed il funzionamento si riconducono generalmente alla fonte normativa che le istituisce e, quindi, alle citate previsioni statutarie e regolamentari.
Nella fattispecie in esame, lo Statuto comunale stabilisce solo che i presidenti delle commissioni permanenti istituite con finalità di controllo sono eletti tra i rappresentanti dei gruppi consiliari di opposizione, prevede la possibilità di istituire commissioni di inchiesta e consente di istituire commissioni speciali per l'esame di problemi particolari, demandando al Consiglio la composizione, l'organizzazione, le competenze, i poteri e la durata.
Il regolamento consiliare, invece, disciplina le commissioni speciali e le commissioni di inchiesta; inoltre, dispone che le commissioni con funzioni di garanzia e di controllo «effettuano verifiche sull'attività di governo, sulla programmazione e sulla pianificazione delle attività, sui risultati e sugli obiettivi raggiunti».
Orbene, le commissioni aventi funzioni di controllo e di garanzia potrebbero considerarsi, come ha sostenuto parte della dottrina, una specie del medesimo genere delle commissioni di indagine. Tale assunto è confermato dalla circostanza che la materia è trattata nello stesso art. 44 del dlgs. n. 267/2000.
Tuttavia, ferma restando la tutela della minoranza che si concretizza nell'affidamento della presidenza della commissione permanente ad un consigliere dell'opposizione, una volta costituita, l'attività istituzionale di tale commissione segue la dinamica delle altre commissioni permanenti, nel rispetto comunque delle competenze amministrative demandate previamente agli Uffici comunali.
Poiché lo Statuto e il regolamento hanno previsto la possibilità di istituire anche commissioni speciali con il compito di approfondire «particolari questioni o problemi che interessino il comune», la fattispecie relativa alla presunta violazione delle norme sulla sicurezza nella costruzione di un impianto sul territorio comunale sembra incidere in particolare sulla competenza di tali organismi, dovendo limitarsi l'attività della commissione Garanzia e controllo, alle verifiche sull'attività di governo (articolo ItaliaOggi del 19.05.2017).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Presidente super partes. Revoca per motivi istituzionali, non politici. I casi in cui si può destituire il numero uno dell'assemblea comunale.
Il consiglio comunale può attivare la mozione di sfiducia nei confronti del suo stesso presidente?
Al riguardo, l'articolo 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 rinvia il funzionamento del consiglio comunale alla disciplina regolamentare «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto».
Circa la fattispecie in esame, assume particolare rilievo la modalità con cui la mozione di sfiducia, prevista dallo statuto nei confronti del presidente del consiglio, può conciliarsi con la disposizione regolamentare che limita la possibilità di un voto all'espressione di «un giudizio su mozione presentata in merito ad atteggiamenti del sindaco o della giunta comunale, ovvero un giudizio sull'intero indirizzo dell'amministrazione».
In merito la norma regolamentare che disciplina le adunanze affida addirittura al sindaco la presidenza del consiglio, non contenendo alcuna norma specifica che disciplini la sfiducia al presidente del consiglio, mentre è proprio lo statuto che prevede come meramente eventuale l'elezione di un presidente del consiglio comunale tra i propri componenti.
Nonostante la mancanza di una disciplina regolamentare di dettaglio, il consiglio ha dunque utilizzato la normativa statutaria (ritenendola sufficiente) per eleggere il presidente del consiglio; talché, la richiesta applicazione di ipotetiche norme regolamentari che dovrebbero obbligatoriamente disciplinare anche la revoca, appare incoerente rispetto alla pacifica accettazione della sola norma statutaria per l'elezione del presidente del consiglio.
Il decreto legislativo n. 267/2000, in ogni caso, non prevede espressamente la possibilità di revoca del presidente del consiglio, tant'è che in carenza di una specifica previsione statutaria, la giurisprudenza tende ad affermarne costantemente l'illegittimità (si veda tra l'altro, Tar Piemonte sez. I, 04/09/2009, n. 2248).
Ferma restando, dunque, l'applicabilità della citata disposizione statutaria che disciplina la revoca del presidente, «la giurisprudenza ha chiarito che la figura del presidente del consiglio è posta a garanzia del corretto funzionamento di detto organo e della corretta dialettica tra maggioranza e minoranza, per cui la revoca non può essere causata che dal cattivo esercizio della funzione, in quanto ne sia viziata la neutralità e deve essere motivata, perciò, con esclusivo riferimento a tale parametro e non a un rapporto di fiducia» (conforme, Tar Puglia–Lecce, sentenza n. 528/2014, Consiglio di stato, sez. V, 26.11.2013, n. 5605)
Peraltro il Tar Piemonte, con la citata sentenza (richiamando anche Tar Sicilia - Catania, sez. I, 20.04.2007, n. 696; Tar Sicilia Catania, sez. I, 18.07.2006, n. 1181), ha statuito che «lo statuto comunale, tuttavia, può prevedere ipotesi e procedure di revoca del presidente del consiglio comunale, con riferimento a fattispecie che integrino comportamenti incompatibili con il ruolo istituzionale super partes che esso deve costantemente disimpegnare nell'assemblea consiliare».
Inoltre, il Tar Campania–Napoli - sez. I, con decisione 03/05/2012 n. 2013, ribadendo che il ruolo del presidente del consiglio comunale è strumentale non già all'attuazione di un indirizzo politico di maggioranza, bensì al corretto funzionamento dell'organo stesso e, come tale, non solo è neutrale, ma non può restare soggetto al mutevole atteggiamento fiduciario della maggioranza, ha precisato che la revoca di detta carica non può essere attivata per motivazioni politiche, ma solo istituzionali, quali la ripetuta e ingiustificata omissione della convocazione del consiglio o le ripetute violazioni dello statuto o dei regolamenti comunali (si veda anche, Consiglio di stato, sez. V, 18/01/2006, n. 114) (articolo ItaliaOggi del 12.05.2017).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Il consiglio ai consiglieri. Il vicesindaco esterno non può presiederlo. Non si può fungere da presidente di un collegio a cui non si appartiene.
È possibile affidare la carica di vicepresidente del consiglio comunale al vice sindaco, assessore esterno in un Comune con popolazione inferiore a 15.000 abitanti? Il vicesindaco facente funzioni può assumere le funzioni di presidente della commissione elettorale comunale e partecipare alle relative operazioni?
In merito al primo quesito, ai sensi dell'art. 64, comma 3, del Tuel n. 267/2000, nei comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, non vi è incompatibilità tra la carica di consigliere comunale ed assessore nella rispettiva giunta, mentre la nomina di assessori esterni al consiglio fa parte del contenuto facoltativo dello statuto ai sensi dell'art. 47, comma 4, del medesimo decreto legislativo.
Per quanto concerne le funzioni di presidente del consiglio comunale, l'art. 39, comma 3, del richiamato decreto legislativo n. 267/2000 prevede che nei comuni sino a 15.000 abitanti le stesse sono svolte dal sindaco, «salvo differente previsione statutaria», mentre il comma 1, stabilisce che le funzioni vicarie del presidente del consiglio, quando lo statuto non dispone diversamente, sono esercitate dal consigliere anziano.
Pertanto, la normativa statale, anche in carenza di specifiche disposizioni dell'ente, individua il vicario del presidente del consiglio.
Nella fattispecie in esame, lo statuto del comune conferma al sindaco il potere di presiedere il consiglio comunale e stabilisce che, «qualora il consigliere anziano sia assente o rinunci a presiedere l'assemblea, la Presidenza è assunta dal consigliere che, nella graduatoria di anzianità occupa il posto immediatamente successivo».
Anche il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale conferma la titolarità della presidenza in capo al sindaco; la stessa disposizione, tuttavia, stabilisce che in caso di assenza o di impedimento del sindaco, la presidenza è assunta dal vice sindaco e ove questi sia assente o impedito, dall'assessore più anziano di età.
La disposizione regolamentare si pone, dunque, in contrasto con la norma statutaria.
Seguendo la gerarchia delle fonti, conformemente anche all'articolo 7 del citato decreto legislativo n. 267/2000 che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009 e Tar Lazio, n. 497 del 2011) la disposizione statutaria dovrebbe essere prevalente sulla norma regolamentare.
In ogni caso, per quanto concerne la possibilità, nei comuni fino a 15.000 abitanti di far presiedere il consiglio comunale, in assenza del sindaco, al vice sindaco non consigliere comunale, il Consiglio di stato, con il parere n. 94/96 del 21/02/1996 (richiamato dal successivo parere n. 501 del 14/6/2001), con riferimento all'estensione dei poteri del vicesindaco, ha evidenziato che il vicesindaco può sostituire il sindaco nelle funzioni di presidente del consiglio comunale soltanto nel caso in cui il vicario rivesta la carica di consigliere comunale.
Nell'ipotesi in cui il vice sindaco, come nel caso di specie, sia un assessore esterno, questi non può presiedere il consiglio, in quanto non può «fungere da presidente di un collegio un soggetto che non ne faccia parte».
La seconda questione prospettata trova adeguata soluzione nell'orientamento del Consiglio di stato, espresso con pareri n. 94/1996 del 21.02.1996 e n. 501/2001 del 04.06.2001, che, nella sostanza, hanno avallato la linea interpretativa già seguita, in materia, dal ministero dell'interno.
In particolare l'Alto consesso, rilevando che le funzioni del sindaco sospeso vengono svolte dal vicesindaco in virtù dell'art. 53, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, ha stabilito che nell'ipotesi di vicarietà, nessuna norma positiva identifica atti riservati al titolare della carica e vietati a chi lo sostituisce.
Tale considerazione di ordine testuale risulta confortata da riflessioni di carattere sistematico, poiché la preposizione di un sostituto all'ufficio o carica in cui si è realizzata la vacanza implica, di regola, l'attribuzione di tutti i poteri spettanti al titolare, con la sola limitazione temporale connessa alla vacanza medesima.
Se a ciò si aggiunge che l'esigenza di continuità dell'azione amministrativa dell'ente locale postula che in ogni momento vi sia un soggetto giuridicamente legittimato ad adottare tutti i provvedimenti oggettivamente necessari nell'interesse pubblico (riguardo la questione precedente, infatti, l'assenza del sindaco presidente del consiglio è supplita dal consigliere anziano) è necessario riconoscere al vicesindaco reggente pienezza di poteri.
Peraltro, in merito alla specifica fattispecie, il dpr 20.03.1967, n. 223 all'articolo 14, stabilisce che la commissione elettorale comunale è presieduta dal sindaco e in caso di assenza, impedimento o cessazione dalla carica, dall'assessore delegato o dall'assessore anziano. Se il sindaco, infine, è sospeso dalle funzioni di ufficiale del governo, la commissione è presieduta dal commissario prefettizio incaricato di esercitare tali funzioni.
Nel caso di cui trattasi, alla luce delle disposizioni di cui al Tuel, dunque, il vice sindaco assumerà anche le funzioni di presidente della commissione elettorale in sostituzione del sindaco assente (articolo ItaliaOggi del 05.05.2017).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Il sindaco paga lo staff. Il rapporto è necessariamente oneroso. La figura del consigliere politico non è prevista dall'ordinamento.
Il sindaco di un comune può individuare e nominare i «consiglieri politici», figure non previste dallo statuto comunale, che dovrebbero svolgere funzioni di supporto all'azione amministrativa assicurando maggiore incisività ed efficacia al governo della comunità locale, senza alcun onere per il comun
e?
L'ordinamento degli enti locali non prevede la figura del «consigliere politico»; i consiglieri, gli assessori ed il sindaco, quali organi di governo degli enti locali, sono figure tipiche individuate dalla legge.
Nel sistema disciplinato dal legislatore costituzionale, art. 117, lettera p), lo Stato ha legislazione esclusiva in materia di «organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane», mentre all'ente locale è riconosciuta un'autonomia statutaria, normativa, organizzativa ed amministrativa nel rispetto, però, dei principi fissati dal decreto legislativo n. 267/2000.
Ai sensi dell'art. 6 del Tuel, lo statuto stabilisce le norme fondamentali dell'organizzazione dell'ente e specifica le attribuzioni degli organi.
È prevista, inoltre, la possibilità di istituire uffici di supporto agli organi di direzione politica ai sensi dell'art. 90 del citato decreto legislativo che al primo comma demanda al regolamento degli uffici e dei servizi la possibilità di prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco, della giunta o degli assessori per l'esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo loro attribuite dalla legge. Con riferimento a tale istituto, la giurisprudenza contabile ha evidenziato il carattere necessariamente oneroso del rapporto con i soggetti incaricati di funzioni di staff (cfr. pronuncia Src Campania n. 155/2014/PAR).
Per quanto concerne la possibilità che il sindaco deleghi proprie funzioni ai consiglieri, tali ipotesi possono ricorrere, ai sensi dell'art. 54, comma 10, per l'esercizio delle funzioni di ufficiale del governo nei quartieri e nelle frazioni, e ai sensi dell'art. 31, comma 4, in caso di partecipazioni alle assemblee consortili (articolo ItaliaOggi del 28.04.2017).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ L'accesso non ha limiti. Gli uffici non possono sindacare le richieste. Vanno riviste le norme comunali che impongono l'obbligo di motivazione.
Ai sensi dell' art. 43 del dlgs n. 267/2000, in materia di diritto di accesso dei consiglieri comunali, possono considerarsi legittime le norme regolamentari che impongono al consigliere comunale di motivare la propria richiesta di accesso agli atti; ovvero che affidano al sindaco il potere di verificare che l'informazione richiesta attenga al mandato del consigliere; oppure che limitano il diritto di visione degli atti quando ciò si traduca in «un potere di inchiesta, di ispezione o di verifica»?

Il «diritto di accesso» e il «diritto di informazione» dei consiglieri comunali in ordine agli atti in possesso dell'amministrazione comunale, utili all'espletamento del proprio mandato, trovano la loro disciplina specifica nel citato art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, che si differenzia rispetto al pur ampio diritto di accesso riconosciuto al cittadino dall'articolo 10 del medesimo decreto legislativo.
Il termine «utili», contenuto nella citata disposizione del Tuel, garantisce, infatti, l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato (cfr. Cds n. 6963/2010) senza che alcuna limitazione possa derivare dall'eventuale natura riservata delle informazioni richieste (v. anche Consiglio di stato, sentenza n. 4525 del 05.09.2014, che ha richiamato Cds, sez. V, 17.09.2010, n. 6963 e 09.10.2007, n. 5264).
Anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, con parere reso in data 09.04.2014, ha specificato che l'accesso del consigliere non può essere soggetto ad alcun onere motivazionale, giacché altrimenti sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale. La Commissione, infatti, considerato che il consigliere è comunque vincolato al segreto d'ufficio, ha ritenuto che gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali si rinvengano, per un verso, nel fatto che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche, ovvero meramente emulative (fermo restando che la sussistenza di tali caratteri necessita di attento e approfondito vaglio, al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso), nonché, per altro verso, nel fatto che esso debba avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali (vedi, oltre al citato parere del 09.04.2014, anche il precedente plenum in data 06.04.2011, conforme a Cds, sez. V, 04.05.2004, n. 2716, Tar Trentino-Alto Adige, Trento, sez. I, 07.05.2009, n. 143).
Conseguentemente, gli uffici comunali e il sindaco non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato.
Ciò, anche nel rispetto della separazione dei poteri (artt. 4 e 14 del decreto legislativo n. 165/2001) sancita, per gli enti locali, dall'art. 107 del decreto legislativo n. 267/00 secondo cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, essendo riservata ai dirigenti la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica.
Peraltro, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del Tuel il consiglio è l'organo di indirizzo e «di controllo politico-amministrativo»; sicché, il controllo del sindaco sull'operato anche dei singoli consiglieri si porrebbe in contrasto alla predetta normativa.
Nel caso di specie, pertanto, è opportuna la revisione delle disposizioni che impongono l'obbligo motivazionale a carico dei consiglieri richiedenti l'accesso e che affidano al sindaco il potere di verifica. Tuttavia l'ente, attraverso l'esercizio della propria potestà regolamentare, può optare, tra le varie alternative possibili, per la disciplina che, in concreto, meglio contemperi esigenze concorrenti.
In particolare, quelle di garanzia delle condizioni più adeguate all'espletamento del mandato da parte dei consiglieri comunali e quelle di salvaguardia della funzionalità degli uffici e del normale espletamento del servizio da parte del personale dipendente, nonché quella di tutela della sicurezza degli uffici, del personale e del patrimonio (articolo ItaliaOggi del 21.04.2017).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Il gruppo cambia nome. Anche se lo statuto del comune non lo consente. È una scelta politica da considerarsi generalmente ammissibile.
Se le norme statutarie e regolamentari vigenti in un comune prevedono solo la modifica della composizione dei medesimi gruppi, è' ammissibile il cambio di denominazione dei gruppi consiliari?

L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3, art. 39, comma 4, e art. 125 del decreto legislativo n. 267/2000).
La materia deve, comunque, essere regolata da apposite norme statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa riconosciuta, dall'art. 38 del citato Tuel, ai consigli comunali.
I mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari, ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti, sono ammissibili. Tuttavia, sono i singoli enti locali, nell'ambito della propria potestà di organizzazione, i titolari della competenza a dettare norme, statutarie e regolamentari, nella materia.
Nel caso di specie, si tratta, tuttavia, di cambio di denominazione di un gruppo consiliare che, in assenza di una specifica disposizione statutaria o regolamentare, appare comunque rientrare nelle scelte proprie delle formazioni politiche presenti nel consiglio, che sono in genere da ritenersi ammissibili.
Peraltro, sebbene sia lo statuto che il regolamento dell'ente locale presentino, nella fattispecie in esame, una certa rigidità nella formazione dei gruppi, ancorandola alla denominazione della corrispondente lista di elezione, lo stesso statuto comunale consente la costituzione di gruppi non corrispondenti alle liste elettorali, purché siano composti da almeno tre membri.
Pertanto, può ritenersi che tale valore numerico costituisca il limite per la costituzione di gruppi con denominazioni diverse da quelle originarie (articolo ItaliaOggi del 31.03.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: NOLI (Savona) — Vincolo paesaggistico relativo alla via Aurelia (sede stradale e fasce laterali) (MIBACT, nota 08.03.2017 n. 7403 di prot.).
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Si riscontra la nota prot. 20630 del 07.12.2016 con la quale codesta Direzione, anche a seguito di uno specifico quesito posto dall'amministrazione comunale alla competente Soprintendenza, chiede un parere in merito alla corretta interpretazione del vincolo in oggetto, che tutela sia il sedime stradale dell'antica via Aurelia, sia le fasce laterali del sedime (per una profondità costante di 100 m dai due bordi stradali compresi tra le progressive chilometriche espressamente indicate) nelle quali vige il divieto assoluto di apporre cartelli stradali pubblicitari.
In particolare, il d.m. del 20.03.1956 dichiara di notevole interesse pubblico, ai sensi della legge 29.06.1939, n. 1497, "la sede stradale della via Aurelia", nel percorso ivi individuato. Per quanto riguarda invece le fasce laterali del sedime (non espressamente citate nel decreto di vincolo) nel testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 86 del 1956, a corredo del d.m., sono pubblicati gli estratti degli elenchi della Commissione provinciale di Savona, riferiti alle sedute del 20.10.1953 e del 17.02.1954. (...continua).

CORTE DEI CONTI

CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Danno erariale per l’incarico esterno su attività gestibili dai dipendenti dell’ente.
Il Comune che delibera l’affidamento di un incarico esterno che si sarebbe potuto svolgere con il proprio personale provoca un danno erariale in quanto viola, con grave colpa, i principi di economicità, efficienza, efficacia e ragionevolezza –sanciti dall’articolo 1 della L. n. 241/1990 e dal Dlgs n. 165/2001- posti a fondamento del buon andamento della Pa, di cui all’articolo 97 della Costituzione.
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La domanda risarcitoria dedotta in giudizio trae origine dall’affidamento esterno di una prestazione d’opera professionale -consistente nella ricerca della “attivazione di risorse finanziarie non impositive”- in assenza dei requisiti e delle condizioni che ne giustificassero l’adozione, con conseguente danno corrispondente all’inutile costo -pari ad € 40.500,00- riconosciuto alla ditta affidataria a titolo di ingiusto corrispettivo, ed imputato agli odierni convenuti (componenti della Giunta Municipale che adottò la Deliberazione n. 90 del 06/10/2008) in ragione delle responsabilità derivanti dalle funzioni e dai compiti esercitati in concreto nella procedura di affidamento, alla cui formazione era stato inizialmente riconosciuto il contributo causale del Responsabile dell’Area Tecnica -ing. Fr.Di.- il cui successivo decesso aveva comportato, unitamente alla esclusione della imputazione di personale responsabilità, la conseguente rideterminazione del danno, oggi utilmente perseguibile, nella misura di € 32.400,00.
Il Collegio ritiene che la pretesa risarcitoria azionata da Parte Pubblica sia fondata, e ciò sulle seguenti considerazioni fattuali e giuridiche che ne determinano l’integrale accoglimento, anche alla stregua di un percorso valutativo che imponga “ex ante” la misurazione delle regolari condotte esigibili, in fattispecie concreta, dai convenuti.
Preliminarmente il Collegio intende soffermarsi sulla esatta qualificazione giuridica da conferire alla “fattispecie negoziale” individuata come produttiva del danno in contestazione, ancorché su siffatta questione le parti non abbiano sollevato alcuna specifica eccezione o rilievo “dubitativo”, essendosi le ragioni della controversia sviluppate lungo la traccia giuridico-normativa delineata dall’art. 7, co. 6, D.Lgs. n. 165/2001 disciplinante il conferimento di incarichi fiduciari esterni, nonostante, dagli atti di causa emerga qualche riferimento al sistema degli appalti di servizi.
Invero:
- la determina n. 320 Reg. Gen. del 14.10.2008, a firma dell’ing. Fr.Di. reca ad oggetto l’“affidamento prestazioni”;
- il successivo contratto del 16.10.2008 (sempre firmato dall’ing. Di.), dopo aver riportato in premessa il richiamo a “prestazione servizi ai sensi D.Lgs. n. 163/2006”, individua quale oggetto dello stesso la “prestazione di servizi”;
- lo stesso atto di citazione, nell’introdurre la descrizione della vicenda di danno, discorre di “…prestazione di servizi…”;
- e, in ultimo, la pur censurata modalità di affidamento dell’incarico in argomento è quella –“negoziata”– contemplata dal suddetto D.Lgs. n. 163/2006 disciplinante la materia degli appalti di servizi.
In realtà, “…l’incarico di prestazione di servizi…” affidato dal Comune di Stigliano alla ditta “L.S.”, lungi dal consentire la pacifica ed agevole qualificazione dello stesso nel novero del sistema degli “Appalti di servizi”, configura una vera e propria fattispecie di “Conferimento di incarico esterno”, con conseguente applicazione dei presupposti, delle condizioni e dei limiti, di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, posti a presidio della corretta utilizzazione di tale modulo operativo.
E ciò, indipendentemente dal nomen iuris emergente dagli atti del procedimento amministrativo e dagli scritti di causa, inidonei a vincolare il Giudice nell’esercizio del proprio dovere-potere di qualificare giuridicamente l’azione ed il rapporto dedotto in giudizio, con l’unico limite dell’integrità dei fatti e degli elementi costitutivi della domanda
(Cass. Sez. II nn. 15925/2007, 10922/2005 e 3980/2004; C.d.c. FVG, 20.02.2009, n. 73).
Del resto, che la fattispecie si inquadri nel “tipo” degli incarichi e delle consulenze esterne, v’è conferma nel richiamo, svolto in punto di motivazione del provvedimento di affidamento, alla rilevata insufficienza, o impreparazione, del personale organicamente inserito nell’Ente per l’assolvimento della prestazione oggetto di esternalizzazione.
In ogni caso, ed indipendentemente dalla qualificazione giuridica prospettata dalle parti, ma nel rispetto di quei principi di ragionevolezza non suscettibili di alcuna indebita interferenza col divieto di sindacato sulle scelte discrezionali dell’Amministrazione,
va precisato come ormai cogente ed obbligatorio si manifesti il dovere per ogni Pubblica Amministrazione di rispettare le regole che presidiano gli affidamenti di incarichi esterni –comunque formalizzati– regole, queste, copiosamente e partitamente enucleate dalla Corte dei conti nell’esercizio della funzione giurisdizionale e di controllo sulla scorta dell’impianto normativo di settore formatosi nel tempo, e che conferiscono a tale “scelta operativa” il carattere della eccezionalità, rispetto all’ordinario impiego delle risorse professionali ritraibili dal proprio organico.
Nella sintetizzata ottica organizzativa vanno quindi lette le limitazioni costituite dalla peculiarità dell’oggetto della prestazione conferita, dalla delimitazione temporale dell’incarico, dalla coerenza del compenso con la qualità e quantità del lavoro affidato e dalla inesistenza di figure professionali “interne” in grado di assolvere a quel compito, riscontrata mediante una reale, e dimostrata, ricognizione.
I limiti, invero stringenti, al conferimento di incarichi esterni, sommariamente richiamati, risultano essere stati platealmente superati nell’ambito dell’affidamento del servizio di “ricerca dei finanziamenti utilizzabili” alla ditta “L.S.” sotto il duplice profilo dell’assenza di tratti di particolare complessità o specialità della prestazione, e del reale, concreto ed attendibile riscontro della inidoneità del personale “intraneo” a svolgere il servizio di cui si predicava, e disponeva, la necessaria esternalizzazione.
E tanto, senza indugiare sui pur adombrati profili collusivi documentalmente, e sospettosamente, emergenti dalla perfetta coincidenza delle prerogative professionali vantate dalla ditta in sede di illustrazione della propria offerta, con le motivazioni poste a sostegno della Deliberazione giuntale n. 90 del 2008, la cui valenza di “mero” atto di indirizzo, pure eccepita in sede difensiva dagli autori della stessa per decolorarne la incidenza nella dinamica causativa del danno, è clamorosamente smentita dalla minuziosa e particolareggiata descrizione delle caratteristiche della prestazione oggetto di affidamento, sorprendentemente coincidenti con le specifiche distintive della ditta affidataria.
In realtà, osserva il Collegio in aperta condivisione delle stigmatizzazioni accusatorie sul punto,
l’attività ricognitiva delle disponibilità finanziarie “dormienti” o “silenti”, non appare connotata da quel tratto di alta complessità o specialità che imponga il ricorso ad operazioni di particolare competenza non esigibile da personale impiegato nella gestione del settore economico-finanziario di un Comune che, a maggior dire per quello di Stigliano, non contempla tra i propri compiti quello di intraprendere o perseguire attività o strategie di investimento, o di indebitamento, che in qualche modo, e con elevato rischio, vengono riservate a soggetti finanziari privati, certamente più avvezzi alla speculazione che alla pianificazione.
Ed a conforto di tale valutazione non vale tanto richiamare la pur facile constatazione del risultato -invero “ordinario”- ottenuto dalla “fragorosa” iniziativa intrapresa (la contabilizzazione dei mutui non utilizzati), quanto la manifesta irragionevolezza di una scelta che, già in una valutazione ex ante, avrebbe dovuto far intuire, in un’ottica di credibile verosimiglianza sorretta dalla doverosa conoscenza dei dati relativi alla esperienza concreta della gestione delle risorse di bilancio, la possibilità di definire in autonomia, e senza ricorso ad onerose consulenze esterne, tale passaggio ricognitivo, anche nella ritenuta necessarietà dello stesso per la pianificazione di nuovi e proficui investimenti.
Peraltro, non è di poco conto rilevare come, successivamente a tale riscontrata necessità, iniziative di identico tenore e contenuto fossero state con successo intraprese dal Comune (Determinazioni del Servizio di Urbanistica “lavorate” dal personale dell’Ente e finalizzate all’accensione dei mutui di € 235.000,00 e € 14.500,00): a conferma del fatto che “…da soli si poteva!...”.
Né è ravvisabile, come ampiamente argomentato dalla difesa, una condizione di insufficienza, numerica e qualitativa, del personale impiegato cui poter affidare tale incombenza.
In disparte la pur condivisa osservazione sulla mancanza di ogni reale e concreta indagine ricognitiva che valesse ad integrare il requisito richiesto dalla normativa di settore (ma sarebbe più corretto dire “richiesto dalle regole di una ragionata e prudente amministrazione”) deve rilevarsi come “L’assetto organizzativo del Comune ed il piano di assegnazione contingenti di personale” di cui alla Deliberazione n. 78 del 03/07/2003, non sostanzialmente modificata dal successivo Atto giuntale (Deliberazione n. 5 del 28/01/2009) intervenuto sul punto, contemplasse l’assegnazione al 2° Settore-Area Economico finanziaria di 9 unità di personale, 7 delle quali appartenenti alle categorie B e C, e quindi con qualifica di “istruttore” e “collaboratore”: pur volendo considerare il rilievo “incidente” dell’assenza del dirigente, la descritta dotazione organica non appare plausibilmente connotata da quella grave e cronica penuria di risorse umane che offra ragione della scelta di esternalizzazione effettuata.
Né in altri atti dell’Ente è dato rilevare un significativo segnale di “criticità” della organizzazione del personale che, nel settore coinvolto indirettamente nella intrapresa iniziativa, ne paventasse in qualche modo l’adottata soluzione “di rimedio”.
Sulla scorta delle dispiegate osservazioni,
il Collegio giudica la scelta di ricorrere ad un oneroso servizio consulenziale esterno per la ricognizione delle risorse finanziarie disponibili, intrapresa dalla Giunta Municipale di Stigliano con la Deliberazione n. 90 del 2008, come segnata da grave ed inescusabile superficialità, nonché produttiva di ingiustificato danno, costituito dal corrispettivo riconosciuto alla ditta affidataria.
Di tale danno, pari ad € 32.400,00 per effetto dello stralcio della quota inizialmente addebitata all’ing. Di., nelle more della vicenda giudiziaria deceduto, vanno dichiarati responsabili gli odierni convenuti che, in qualità di componenti della Giunta Municipale che adottò la delibera di affidamento, offrirono decisivo ed unico contributo causale all’avveramento dello stesso.
Somma comprensiva di rivalutazione monetaria. Interessi legali dalla sentenza sino al soddisfo.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Basilicata così decide:
   a)
condanna gli odierni convenuti DI GI. Le., BA.An., CA.Gi. e FE.Gi. al risarcimento, in parti uguali, in favore del Comune di Stigliano, della somma complessiva di € 32.400,00. Somma comprensiva di rivalutazione monetaria. Interessi legali dalla sentenza sino al soddisfo (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Basilicata, sentenza 16.06.2017 n. 62).

APPALTI FORNITURE: Sulla possibilità di acquistare, al di fuori del Mercato elettronico (MePa) e della convenzione stipulata attraverso la Consip, il gasolio e la benzina per i mezzi comunali, a prezzi più vantaggiosi (-10%).
Obbligo Consip per le forniture di carburante anche senza risparmio di spesa.
Per rifornirsi di carburante il Comune non può approvvigionarsi in autonomia sul mercato e sottrarsi al meccanismo delle convenzioni-quadro, a prescindere dall'onerosità e dalla minor convenienza che l'acquisizione centralizzata di beni e servizi presso la Consip può comportare.

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Il Sindaco del Comune di Pettorazza Grimani (RO) ha presentato richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, formulando un quesito sulla possibilità di acquistare, al di fuori del Mercato elettronico (MePa) e della convenzione stipulata attraverso la Consip, il gasolio e la benzina per i mezzi comunali, considerato che i prezzi applicati in forza della convenzione sarebbero molto più alti di quelli praticati dai locali distributori di carburante, con una differenza di oltre il 10%.
...
Il quesito formulato dal Sindaco del Comune di Pettorazza Grimani, tuttavia, poiché espresso in termini non propriamente generali ed astratti, può essere affrontato limitatamente all’interpretazione delle summenzionate disposizioni ed all’ambito di operatività delle specifiche deroghe previste in materia.
L’acquisizione centralizzata di beni e servizi da parte delle pubbliche amministrazioni mediante le c.d. centrali di committenza e la Consip, in particolare (individuata dall’art. 58 della L. 388/2000 quale centrale di acquisti nazionale), ossia mediante convenzioni-quadro, già prevista dalla L. n. 488/1999, è stata ulteriormente disciplinata dalla L. n. 296/2006, la quale ha imposto alle Amministrazioni statali il ricorso a tali convenzioni per qualunque categoria merceologica, sancendo l’obbligo per la quasi totalità delle amministrazioni statali e periferiche di ricorrere al Mercato Elettronico della PA (MePa) per gli acquisti sotto la soglia di rilievo comunitario (art. 1, commi 449-450).
Successivamente, il D.L. n. 95/2012 (conv. nella L. n. 135/2012) ha esteso a tutte le pubbliche amministrazioni ed alle società inserite nel conto economico consolidato della PA l’obbligo di utilizzare le convenzioni Consip per particolari categorie merceologiche di beni, compresi i carburanti, prevedendo la nullità dei contratti stipulati in violazione di tale obbligo, oltre ad una connessa ipotesi di responsabilità disciplinare e per danno erariale in capo agli autori della violazione medesima.
Da ultimo, la L. n. 208/2015 ha introdotto una serie di disposizioni, sempre in materia di acquisti delle pubbliche amministrazioni, disciplinando ulteriormente la possibilità di deroga al regime dianzi sinteticamente descritto, che era stata introdotta dalla L. n. 228/2013.
In primo luogo,
il comma 510 dell’art. 1 della Legge di stabilità per il 2016, ha riconosciuto alle pubbliche amministrazioni obbligate ad approvvigionarsi attraverso le convenzioni Consip -o attraverso quelle stipulate con altre centrali di committenza regionali- la facoltà di procedere ad acquisti autonomi, esclusivamente nel caso in cui “il bene o il servizio oggetto di convenzione non sia idoneo al soddisfacimento dello specifico fabbisogno dell’amministrazione per mancanza di caratteristiche essenziali” ed a condizione che vi sia la previa autorizzazione motivata dell’organo di vertice amministrativo, da trasmettere al competente ufficio della Corte dei conti.
In secondo luogo,
il comma 494 del medesimo art. 1 della citata Legge di stabilità, modificando il comma 7 dell’art. 1 del D.L. n. 95/2012, ha fatta salva la possibilità, introdotta dall’art. 1, comma 151, della L. n. 228/2013, di procedere ad affidamenti al di fuori della convenzione Consip conseguenti “ad approvvigionamenti da altre centrali di committenza o a procedure di evidenza pubblica”, ma ha disposto, altresì, che gli stessi debbano prevedere “corrispettivi inferiori almeno del 10 per cento per le categorie merceologiche telefonia fissa e telefonia mobile e del 3 per cento per le categorie merceologiche carburanti extra-rete, carburanti rete, energia elettrica, gas e combustibili per il riscaldamento rispetto ai migliori corrispettivi indicati nelle convenzioni e accordi quadro messi a disposizione da Consip SpA e dalle centrali di committenza regionali”.
La disposizione, inoltre, ha confermato la necessità di apporre ai relativi contratti una clausola risolutiva espressa, fissando, però, ad una soglia (più del 10 per cento) la percentuale di maggior vantaggio economico ai fini dell’adeguamento del contraente ai “migliori corrispettivi” offerti dalla Consip ed ha individuato un “periodo sperimentale” di tre anni (dal 01.01.2017 al 31.12.2019), nel quale la facoltà per le amministrazioni di svincolarsi dalle convenzioni Consip non è operante.
La ratio delle modifiche appena illustrate è quella di rafforzare il sistema di acquisizione centralizzata, disincentivando gli acquisti autonomi anche attraverso la “disapplicazione” della deroga con riguardo ad alcune categorie merceologiche, tra le quali proprio i carburanti.
Così definito il quadro normativo di riferimento,
occorre accertare se ed in che termini un ente locale possa effettuare acquisti di carburante in via diretta, sottraendosi, cioè, al meccanismo della convenzione-quadro, ove questa comporti l’applicazione di un corrispettivo (prezzo) sensibilmente più elevato rispetto a quello rinvenibile sul mercato locale, avente, tra l’altro, il vantaggio della vicinanza dei luoghi di rifornimento (distributori presenti sul territorio comunale).
In merito si sono già espresse altre Sezioni regionali di controllo, soffermandosi, in particolare, sulla interpretazione delle citate norme derogatorie (Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, parere 20.04.2016 n. 38 e Sezione regionale di controllo per il Friuli Venezia Giulia, parere 25.03.2016 n. 35).
La prima, ossia quella che prevede la possibilità di procedere, in generale, ad acquisti autonomi, laddove il bene o servizio offerto in forza della convenzione non soddisfi lo specifico fabbisogno dell’amministrazione acquirente (comma 510 della L. n. 208/2015), correttamente è stata ritenuta non applicabile al caso di acquisto di beni fungibili (qual è, di norma e per natura, il carburante) (Sezione regionale di controllo per il Friuli Venezia Giulia, deliberazione cit.). La seconda, che riguarda, invece, il reperimento sul mercato di alcune categorie di prodotti, tra i quali proprio il carburante (art. 1, comma 7, del D.L. n. 95/2012, come modificato dal comma 494 della L. n. 208/2015) è senz’altro applicabile.
La deroga, come emerge dal testo di tale ultima disposizione, è sottoposta a limiti ed a condizioni ben precisi, concretizzandosi nell’alternativa del ricorso ad altre centrali di committenza o dell’esperimento di apposita procedura ad evidenza pubblica. E’ richiesto, in entrambi i casi, il conseguimento di un risparmio apprezzabile che, per quanto riguarda il carburante (ed altre tipologie di beni individuati dal legislatore), non può essere inferiore del 3 per cento rispetto ai prezzi fissati nelle convenzioni Consip.
Non esistono, allo stato, possibilità di approvvigionamento alternative diverse da quelle previste da tali disposizioni, le quali, tra l’altro, avendo carattere derogatorio e, quindi, eccezionale, devono considerarsi di stretta interpretazione.
Per quanto riguarda l’acquisto di carburante, in generale ed ad eccezione degli esercizi 2017, 2018 e 2019, dunque, il ricorso diretto al mercato, laddove sia suscettibile di determinare un effettivo risparmio di spesa, potrà avvenire in presenza dei presupposti individuati dal legislatore e nei limiti da quest’ultimo fissati.

Ne consegue che,
qualora una amministrazione pubblica non volesse far ricorso ad altre centrali di committenza per l’acquisto di carburante, sottraendosi al meccanismo delle convenzioni-quadro, e volesse, invece, stabilire un rapporto diretto con un fornitore, non potrebbe proprio farlo nel presente esercizio (come negli altri due successivi), mentre al di fuori del periodo di sospensione della deroga, avrebbe l’obbligo di individuare tale fornitore mediante procedura ad evidenza pubblica, secondo i principi generali e secondo le modalità previste dal citato comma 494 dell’art. 1 della L. n. 208/2015.
Ciò a prescindere dall’onerosità e dalla minor convenienza che, nel caso concreto rappresentato dall’ente, sono certamente imputabili al sistema di acquisto previsto dalle norme vigenti, alle quali codesta Sezione, al pari delle amministrazioni pubbliche destinatarie della normativa medesima, tuttavia, è tenuta a dare applicazione (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 29.05.2017 n. 348).

CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI: Danno erariale al sindaco per l’affidamento diretto di incarichi legali.
Secondo i magistrati contabili l'affidamento in via diretta, da parte del sindaco, del patrocinio legale ad avvocati del libero foro, in presenza all'interno dell'ente di una propria avvocatura civica, costituisce colpa grave tale da generare danno erariale.
Una possibile ed eccezionale scelta di avvocati all'esterno, resta, in ogni caso, attribuita in via esclusiva alla competenza dell'organo gestionale (avvocatura) e non all'organo politico che, avendo proceduto con un illegittimo affidamento fiduciario, ne subisce le sorti in fatto di responsabilità erariale trattandosi di spesa inutilmente sostenuta dall'ente. In altri termini, i citati incarichi effettuati dal sindaco, rientrando in una scelta di gestione attiva, ne radicano le conseguenze e le relative responsabilità.

Sono queste le conclusioni cui è pervenuta la Corte dei conti, Sez. giurisdiz. per il Lazio con la sentenza 29.05.2017 n. 124.
Il fatto
La causa amministrativa che vedeva esposta l'amministrazione comunale, con rilevanti risarcimenti di danni richiesti da una ditta aggiudicataria a cui era stata successivamente disposta la revoca dell'aggiudicazione, aveva condotto il sindaco ad affidare in via diretta la difesa dell'ente a due avvocati esterni del libero foro, pur in presenza di una avvocatura interna. L'amministrazione, a fronte delle richieste avanzate dai ricorrenti e della possibile soccombenza l'ente, addiveniva a una transazione con l'aggiudicatario estromesso, transazione considerata vantaggiosa per l'ente.
In considerazione della mancata preventiva definizione degli onorari da corrispondere ai legali esterni, si addiveniva a un accordo sulle somme da corrispondere, con il successivo riconoscimento di un debito fuori bilancio da parte del consiglio comunale per circa mezzo milione di euro. A fronte di tale scelta fiduciaria e del rilevante importo corrisposto, la Procura rinviava a giudizio di conto il sindaco stimando il danno erariale pari alla differenza tra quanto corrisposto ai legali esterni e quanto invece da corrispondere agli avvocati interni (incentivi) in caso di assegnazione a questi ultimi della difesa dell'ente.
La difesa dell'ex sindaco
Nelle proprie memorie di comparsa l'ex primo cittadino si difende precisando come l'assistenza esterna era giustificata dalla rilevanza economica del risarcimento richiesto, tanto che la transazione, successivamente raggiunta, era avvallata anche dall'avvocatura interna, inoltre gli onorari pagati agli avvocati esterni prevedevano una decurtazione importante, rispetto a quanto inizialmente richiesto e, in ultimo, se di responsabilità doveva parlarsi la stessa non poteva non trovare altri possibili interlocutori a partire dai consiglieri comunali che avevano votato il riconoscimento e quindi l'utilità della citata prestazione, oltre ai responsabili dei servizi che ne avevano sottoscritto i pareri di conformità contabile e tecnica, ivi inclusa la stessa avvocatura civica che ne aveva giudicato la congruità.
Le motivazioni del collegio contabile
Secondo il collegio contabile la responsabilità del danno erariale, causato alle casse dell'ente locale, discende in via preliminare dall'illegittimo conferimento diretto effettuato dal sindaco, ossia in assenza di una comprovata e motivata impossibilità di assegnazione della difesa dell'ente alla propria avvocatura civica (composta da ben 24 legali interni). Altro aspetto fondamentale, che radica la responsabilità al primo cittadino, è soprattutto la circostanza che l'iniziativa per l'attribuzione dell'incarico esterno era stata assunta dal sindaco mediante una ingerenza nell'attività gestionale e tale che sul medesimo non poteva non gravare anche un onere di verifica della legittimità delle modalità con le quale si intendeva conferire i citati incarichi.
In altri termini, se l'incarico esterno fosse stato attribuito dal responsabile dell'avvocatura civica, lo stesso avrebbe dovuto necessariamente motivare l'impossibilità ad assolvere con la struttura interna il citato incarico, oltre alle necessarie ed obbligatorie attività gestionali, ivi comprese quelle relative all'affidamento degli incarichi di patrocinio legale all'esterno, mentre nel caso di specie il Sindaco, inserendosi indebitamente nella gestione attiva, non può non subirne le conseguenze degli incarichi illegittimi attribuiti in via fiduciaria.
Il Collegio contabile considera, pertanto, le somme corrisposte ai citati legali del libero foro come diminuzione patrimoniale subita dall'ente con ripristino della tutela contabile in capo al convenuto, applicando, tuttavia, la riduzione di 1/3 delle somme che avrebbero dovute essere poste in capo anche ad altri soggetti, non chiamati dalla Procura contabile in giudizio, ma che in ogni caso hanno partecipato alla successiva liquidazione delle somme non dovute mediante il citato riconoscimento del debito fuori bilancio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.06.2017).

INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGOAffinché l'affidamento di un incarico professionale all'esterno dell'ente non sostanzi un danno erariale, la giurisprudenza contabile ha precisato principi e criteri da osservare, poi positivizzati dal legislatore, quali:
   a) i conferimenti di incarichi di consulenza a soggetti esterni possono essere attribuiti ove i problemi di pertinenza dell'Amministrazione richiedano conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze del personale dipendente e conseguentemente implichino conoscenze specifiche che non si possono nella maniera più assoluta riscontrare nell'apparato amministrativo;
   b) l'incarico stesso non deve implicare uno svolgimento di attività continuativa bensì la soluzione di specifiche problematiche già individuate al momento del conferimento del quale debbono costituire l'oggetto espresso;
   c) l'incarico si deve caratterizzare per la specificità e la temporaneità, dovendosi altresì dimostrare l'impossibilità di adeguato assolvimento dell'incarico da parte delle strutture dell'ente per mancanza di personale idoneo;
   d) l'incarico non deve rappresentare uno strumento per ampliare surrettiziamente compiti istituzionali e ruoli organici dell'ente al di fuori di quanto consentito dalla legge;
   e) il compenso connesso all'incarico sia proporzionato all'attività svolta e non liquidato in maniera forfetaria;
   f) la delibera di conferimento deve essere adeguatamente motivata al fine di consentire l'accertamento della sussistenza dei requisiti previsti;
   g) l'organizzazione dell'Amministrazione deve essere comunque caratterizzata per il rispetto dei princìpi di razionalizzazione, senza duplicazione di funzioni e senza sovrapposizione all'attività ed alla gestione amministrativa, per la migliore utilizzazione e flessibilità delle risorse umane nonché per l'economicità, trasparenza ed efficacia dell'azione amministrativa, per il prioritario impiego delle risorse umane già esistenti all'interno dell'apparato;
   h) l'incarico non deve essere generico o indeterminato, al fine di evitare un evidente accrescimento delle competenze e degli organici dell'Ente, il che presuppone la previa ricognizione e la certificazione dell'assenza effettiva nei ruoli organici delle specifiche professionalità richieste;
   i) i criteri di conferimento non devono rivelarsi generici, perché la genericità non consente un controllo sulla legittimità dell'esercizio dell'attività amministrativa di attribuzione degli incarichi.

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Con riguardo all’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa si reputa che la condotte del convenuto (sindaco) sia stata connotata da colpa grave evincibile dalla violazione di disposizioni normative chiare, non connotate da complessità esegetiche in ordine al conferimento di incarichi esterni.
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4. Nel merito, il Collegio deve esaminare la vicenda descritta nella premessa in fatto e procedere alla verifica della sussistenza degli elementi tipici della responsabilità amministrativa che si sostanziano in un danno patrimoniale, economicamente valutabile, arrecato alla pubblica amministrazione, in una condotta connotata da colpa grave o dolo, nel nesso di causalità tra il predetto comportamento e l'evento dannoso, nonché, nella sussistenza di un rapporto di servizio fra colui che lo ha determinato e l'ente danneggiato.
5. Con riferimento all’elemento oggettivo va espressa condivisione in ordine all’an del danno erariale contestato dall’organo requirente e per le considerazioni dallo stesso espresse.
Si premette che il quadro normativo di riferimento è rappresentato:
   · dall’art. 13, comma 5, del "Regolamento sull'Ordinamento degli Uffici e dei Servizi" approvato con deliberazione della Giunta Comunale n. 62 del 29.10.2002, e vigente all’epoca dei fatti;
   · dall'art. 6, comma 1, del "Regolamento di Organizzazione per l'esercizio dell'azione di promovimento del giudizio, resistenza alle liti, conciliazione e transazione" approvato con deliberazione della Giunta Comunale n. 182 del 27.01.2001 e tuttora vigente;
   · in termini generali, dall’art. 110 del Tuel e dall’art. 7, comma 6 e seguenti, del decreto legislativo n. 165/2001.
Sempre
in subiecta materia la giurisprudenza contabile ha precisato principi e criteri da osservare, poi positivizzati dal legislatore con le disposizioni normative richiamate:
   a) i conferimenti di incarichi di consulenza a soggetti esterni possono essere attribuiti ove i problemi di pertinenza dell'Amministrazione richiedano conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze del personale dipendente e conseguentemente implichino conoscenze specifiche che non si possono nella maniera più assoluta riscontrare nell'apparato amministrativo;
   b) l'incarico stesso non deve implicare uno svolgimento di attività continuativa bensì la soluzione di specifiche problematiche già individuate al momento del conferimento del quale debbono costituire l'oggetto espresso;
   c) l'incarico si deve caratterizzare per la specificità e la temporaneità, dovendosi altresì dimostrare l'impossibilità di adeguato assolvimento dell'incarico da parte delle strutture dell'ente per mancanza di personale idoneo;
   d) l'incarico non deve rappresentare uno strumento per ampliare surrettiziamente compiti istituzionali e ruoli organici dell'ente al di fuori di quanto consentito dalla legge;
   e) il compenso connesso all'incarico sia proporzionato all'attività svolta e non liquidato in maniera forfetaria;
   f) la delibera di conferimento deve essere adeguatamente motivata al fine di consentire l'accertamento della sussistenza dei requisiti previsti;
   g) l'organizzazione dell'Amministrazione deve essere comunque caratterizzata per il rispetto dei princìpi di razionalizzazione, senza duplicazione di funzioni e senza sovrapposizione all'attività ed alla gestione amministrativa, per la migliore utilizzazione e flessibilità delle risorse umane nonché per l'economicità, trasparenza ed efficacia dell'azione amministrativa, per il prioritario impiego delle risorse umane già esistenti all'interno dell'apparato;
   h) l'incarico non deve essere generico o indeterminato, al fine di evitare un evidente accrescimento delle competenze e degli organici dell'Ente, il che presuppone la previa ricognizione e la certificazione dell'assenza effettiva nei ruoli organici delle specifiche professionalità richieste;
   i) i criteri di conferimento non devono rivelarsi generici, perché la genericità non consente un controllo sulla legittimità dell'esercizio dell'attività amministrativa di attribuzione degli incarichi.

Ciò posto,
l’illegittimità del conferimento di incarico in esame si evince:
   ·
dalla chiara violazione delle disposizioni regolamentari disciplinanti l’istituto, in base alle quali apparteneva al Capo dell'Avvocatura Comunale sia il potere di proposta di conferimento di incarichi professionali ad avvocati del libero foro (art. 13, comma 5, del "Regolamento sull'Ordinamento degli Uffici e dei Servizi”), sia il potere di scelta del legale esterno (all'art. 6, comma 1, "Regolamento di Organizzazione per l'esercizio dell'azione di promovimento del giudizio, resistenza alle liti, conciliazione e transazione"), mentre, nella fattispecie in esame, la nomina dei legali esterni è avvenuta mediante la procura a firma del Sindaco Gi.Al. estesa a margine dell'atto di costituzione del Comune di Roma nel giudizio avanti al TAR Lazio;
   ·
dall’omessa –seria e concreta- preliminare verifica in ordine alla effettiva impossibilità di ricorrere a risorse interne, imposta sia dalle disposizioni regolamentari richiamate che, più in generale, da norme di legge ordinaria. Al riguardo anche i principi di diritto affermati dalle Sezioni Riunite di questa Corte (delib. n. 6/2005) espressi nel senso che “deve essere adeguatamente motivato con specifico riferimento all’assenza di strutture organizzative o professionalità interne all’ente in grado di assicurare i medesimi servizi. L’affidamento dell’incarico deve essere preceduto, perciò, da un accertamento reale, che coinvolge la responsabilità del dirigente competente, sull’assenza di servizi o di professionalità, interne all’ente, che siano in grado di adempiere l’incarico”;
   · dalla circostanza –ben posta in rilievo dall’organo requirente- che all'epoca dei fatti, nel mese di febbraio 2009, l'Avvocatura Civica romana disponeva di ben ventiquattro avvocati in servizio permanente.
La grave carenza istruttoria rilevata milita, peraltro, nel senso che la nomina dei legali esterni sia stata frutto di scelta fiduciaria da parte dell'allora Sindaco Al..
5.1 Non inficiano le conclusioni raggiunte le pur suggestive argomentazioni difensive volte ad evidenziare:
   · la estrema rilevanza ed importanza (anche economica) della questione, giacché tale aspetto non rende legittimo il conferimento dell’incarico effettuato in palese violazione di disposizioni legislative e regolamentari;
   · l’assenza di segnalazione da parte del Capo dell’Avvocatura in ordine a una possibile violazione procedimentale del conferimento dell’incarico che -pur valutabile in sede di quantificazione del danno erariale imputabile- non ha valenza esimente dalla responsabilità amministrativa in ragione della esigibilità di una condotta informata ai principi di diligenza da parte del “primo cittadino”, e declinabile nella vicenda in esame in termini di preliminare verifica in ordine alla legittimità delle modalità del conferimento di incarico che si intendeva effettuare;
   · l’assenza di danno erariale asserita affermando che il compenso professionale era correlato alla prestazione, in quanto siffatta tesi sovrappone impropriamente due piani, quello civilistico riguardante l’esecuzione dell’incarico e che vede come Parti l’Ente locale e i legali interessati, e quello contabile nel cui ambito si è consumata la illegittima procedura di conferimento e nel quale vengono in rilievo l’Ente nella veste di danneggiato e il dipendente in quella di presunto danneggiante;
   · l’assenza di danno erariale affermata -sotto diverso profilo- sull’assunto secondo cui l’Ente locale non avrebbe conseguito un risparmio ove l’incarico fosse stato svolto in via esclusiva dagli Avvocati interni dell’Ente, in quanto asserzione puramente ipotetica;
   · l’interruzione di ogni nesso causale tra il presunto danno ed il comportamento tenuto dal convenuto che sarebbe stata determinata dall’adozione della delibera n. 64/2012, in quanto tale erronea tesi scaturisce dall’omessa distinzione tra la delibera di riconoscimento del debito fuori bilancio -che va a sanare un rapporto a contenuto patrimoniale tra l’Ente e un soggetto esterno- doverosa ex art. 191 del Tuel e la condotta illegittima e dannosa del convenuto foriera di responsabilità amministrativa;
   · l’impossibilità, da parte del sindaco, di essere a conoscenza del regolamento dell’Ente articolato e complesso disciplinante la materia, in quanto tale assunto –in astratto condivisibile- non tiene conto che –in concreto- nella fattispecie l’iniziativa per l’attribuzione dell’incarico era assunta dal sindaco con una ingerenza nell’attività gestionale e sul medesimo non poteva non gravare anche un onere di verifica della legittimità delle modalità con le quale si intendeva conferirlo;
   · l’autentica di firma apposta consiste nell’attestazione che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza da persona la cui identità è stata previamente accertata conferendo anche certezza alla data, ma non ha valenza di condivisione del contenuto dell’atto.
6. Diverso apprezzamento si ritiene debba esprimersi in ordine alla quantificazione del danno erariale -operata dall’organo requirente in euro 468.720,00- che deve tener conto del contributo causale di altri soggetti non evocati in giudizio, sicché il danno risarcibile in favore dell’Ente locale viene rideterminato in euro 312.480,00, oltre alla rivalutazione monetaria dalla data (02.07.2013) dell’esborso.
7.
Con riguardo all’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa si reputa che la condotte del convenuto sia stata connotata da colpa grave evincibile dalla violazione di disposizioni normative chiare, non connotate da complessità esegetiche in ordine al conferimento di incarichi esterni.
8. Si reputano, inoltre, sussistenti, nella fattispecie in esame, anche gli altri elementi della responsabilità amministrativa, del rapporto di servizio –peraltro non contestato- e del nesso di causalità.
9. In conclusione, accertata l’esistenza di tutti i requisiti costitutivi della responsabilità amministrativa, la domanda della Procura va accolta per le ragioni da questa prospettate ma nella diversa misura dal Collegio determinata oltre a rivalutazione monetaria e interessi legali dalla data della sentenza al soddisfo.
10. Alla soccombenza segue anche l’obbligo del pagamento delle spese di giudizio.
P. Q. M.
La Corte dei Conti – Sezione Giurisdizionale per la Regione Lazio, definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza ed eccezione reiette
RESPINGE
l’istanza di integrazione del contraddittorio.
CONDANNA
per l’addebito di responsabilità amministrativa di cui all’atto di citazione in epigrafe, il signor Gi.Al. al pagamento, in favore del comune di Roma Capitale, di complessivi euro 312.480,00, oltre alla rivalutazione monetaria dalla data del 02.07.2013.

Tale somma sarà gravate di interessi legali a far data dalla pubblicazione della presente sentenza all’effettivo soddisfo (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio, sentenza 29.05.2017 n. 124).

APPALTI - CONSIGLIERI COMUNALI:  Risponde di danno erariale il sindaco che assume iniziative per il comune senza seguire l'iter formale giuridico contabile.
Risponde di danno erariale il sindaco che, con una condotta del tutto difforme dalla normativa vigente, assume iniziative estranee alle finalità istituzionali assegnate dalla legge.
Nell'ordinamento degli enti locali le obbligazioni contratte per acquisto di beni e servizi senza atto di impegno contabile registrato sul competente capitolo di bilancio ovvero senza attestazione di copertura finanziaria non vincolano l'Amministrazione, bensì intercorrono tra il terzo e l'amministratore o funzionario che le ha stipulate e/o ne ha consentito l'esecuzione.
Va, pertanto, dichiarato danno ingiusto il pagamento -a titolo di debito fuori bilancio- delle somme richieste per prestazioni non collegate all'esercizio di funzioni o servizi di competenza dell'ente e delle somme cui non corrisponda un "arricchimento" dell'ente ai sensi dell'art. 2041 c.c.
(Corte dei conti, Sez. giurisdiz. Toscana, sentenza 23.05.2017 n. 133 - massima tratta da www.dirittodeiservizipubblici.it).
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MASSIMA
Non essendo state poste questioni preliminari, il Collegio entrando nel merito ritiene che la richiesta di parte attorea sia fondata e sia da accogliere nei sensi di cui in motivazione.
La Procura contesta all’odierno convenuto di aver assunto una iniziativa estranea alle finalità istituzionali dell’ente, con un uso della comunicazione istituzionale che, nella specie, poteva definirsi comunicazione politica.
Osserva il Collegio che nell’ambito degli indirizzi di modernizzazione delle Amministrazioni Pubbliche assume rilevanza l’adozione di iniziative e strumenti di trasparenza, relazione, comunicazione ed informazione diretti a realizzare un rapporto aperto con i cittadini.
Alcune iniziative di legge, e tra esse la legge 07.08.1990 n. 241 e la legge 07.06.2000 n. 150, nell’ottica di tale orientamento, hanno introdotto principi operativi e strutture organizzative volti a questo scopo.
Tra le iniziative adottate dalle Amministrazioni vi è quello della rendicontazione sociale che risponde alle esigenze conoscitive dei diversi interlocutori (singoli cittadini, famiglie, imprese, associazioni, altre istituzioni pubbliche e private), cui è consentito di comprendere e valutare gli effetti dell’azione amministrativa.
Nella specie la base normativa primaria di riferimento è costituita dall’art. 1 della l. 07.06.2000 n. 150 che prevede (comma 5): ”le attività di formazione e comunicazione sono, in particolare, finalizzate a: a) illustrare e favorire la conoscenza delle disposizioni normative al fine di facilitarne l’ applicazione; b) illustrare le attività delle istituzioni e il loro funzionamento; c) favorire l’accesso ai servizi pubblici, promuovendone la conoscenza; d) promuovere conoscenze allargate ed approfondite su temi di rilevante interesse pubblico e sociale; e) favorire processi interni di semplificazione delle procedure e di modernizzazione degli apparati amministrativi nonché la conoscenza dell’avvio e del percorso dei procedimenti amministrativi; f) promuovere l’ immagine delle amministrazioni , nonché quella dell’ Italia, in Europa e nel mondo, conferendo conoscenza e visibilità ad eventi di importanza locale, regionale, nazionale ed internazionale”.
Date queste finalità,
il volume dato alle stampe dal sig. Au.Pe. non appare certamente sussumibile in una delle tipologie previste dalla normativa e la condotta identifica, secondo la parte attorea, un danno erariale in quanto costituente un atto politico che può dichiararsi di parte e imputato e traslato come costo sul bilancio dell’Amministrazione.
Osserva il Collegio che
senza dubbio non appare sempre agevole lo scrutinio del contenuto della pubblicazione con la individuazione dell’assenza della finalità della comunicazione istituzionale e la strumentalizzazione della pubblicazione al fine della propaganda politica atteso che la propaganda (politica) in quanto caratterizzata da una valenza manipolativa e persuasiva -poiché il messaggio che a suo mezzo viene trasmesso ha la finalità di provocare l’adesione dei destinatari verso l’opzione enunciata dall’autore della comunicazione– che si distingue concettualmente dall’informazione, ma la distinzione, agevole in astratto, può in concreto presentare difficoltà nei casi limite: cfr. Cass. Sez. I Civ. 20.01.1998 n. 477.
Tuttavia in ogni caso
la finalità istituzionale disegnata dal quadro normativo suddetto è stata implementata dal convenuto con un uso scorretto delle risorse finanziarie e con consequenziale danno erariale per avere il soggetto convenuto violato l’iter formale giuridico contabile destinato ad esitare nel previo impegno di spesa, siccome è confermato dalla nota del segretario comunale del 23.10.2014, il quale confermava che non risultavano agli atti del Comune impegni di spesa inerenti l’acquisto del libro di cui si tratta.
In altri termini
il convenuto ha assunto, con condotta gravemente colposa, un’iniziativa che non solo può qualificarsi estranea alle finalità istituzionali assegnate dalla legge, in conseguenza della decisione di impegnare i fondi pubblici per la pubblicazione del volume in assenza dei presupposti previsti dalla richiamata normativa, ma ha agito anche in assenza di un impegno di spesa violando i doverosi passaggi procedurali giuscontabili comportamento sanzionato sistematicamente dalla giurisprudenza contabile (cfr. Sez. I Centr. 18.01.2016 n. 22 e Sez. II Centr. 05.04.2002 n. 114), con consequenziale assunzione di un debito fuori bilancio causativo di un danno erariale.
Pertanto, vista la ritenuta responsabilità per i menzionati motivi, gli oneri sostenuti dal Comune costituiscono danno erariale in quanto i relativi oneri non potevano essere posti a carico del Comune e devono essere rifusi dal convenuto che ha adottato l’iniziativa in questione: cfr. Sezione giurisdizionale Trentino Alto Adige 13.05.2015 n. 14.
Indiscusso il rapporto di servizio sussistente per il sindaco Pe., il danno erariale deriva e si configura definitivamente in forza del decreto ingiuntivo n. 36/2013 la cui cogenza esclude ogni responsabilità di coloro che espressero voto favorevole alla adozione della citata delibera n. 49/2014.
Osserva correttamente la parte attorea che il vincolo giuridico derivante dall’ obbligazione (di pagamento del corrispettivo) contratta nei confronti della Fe.Ed.Ar. srl, sarebbe gravato, come per legge, sul sig. Pe. se vi fosse stata opposizione al decreto ingiuntivo in modo da impedire allo stesso di divenire definitivo con traslazione dei costi sul bilancio pubblico.
Infatti
nell’ordinamento degli enti locali le obbligazioni contratte per acquisto di beni e servizi senza atto di impegno contabile registrato sul competente capitolo di bilancio ovvero senza attestazione di copertura finanziaria non vincolano l’Amministrazione, bensì intercorrono tra il terzo e l’amministratore o funzionario che le ha stipulate e/o ne ha consentito l’esecuzione (art. 23 D.L. n. 66/1989, riprodotto nell’ art. 37 D.Lgs. 77/1995 e nell’art. 191 D.Lgs. n. 267/2000), né vi è una parte “riconoscibile” o “riconosciuta” da parte dell’Ente che avrebbe potuto sanare l’assenza dell’atto di impegno con esperibilità da parte del privato di un’azione di indebito arricchimento antecedentemente non consentita (cfr. Sez. I Centr. 27.03.2008 n. 7966).
Va, pertanto, dichiarato danno ingiusto il pagamento –a titolo di debito fuori bilancio- delle somme richieste per prestazioni non collegate all’esercizio di funzioni o servizi di competenza dell’ente e delle somme cui non corrisponda un “arricchimento” dell’ente ai sensi dell’art. 2041 c.c..
Il danno erariale, sotto il profilo dell’efficienza causale, va attribuito all’odierno convenuto in quanto autore della condotta del tutto difforme dalla normativa vigente.
Il sig. Au.Pe. deve, pertanto, essere condannato al pagamento, in favore del Comune di Montescudaio, della somma sopra indicata, della somma di € 7.640,34, oltre rivalutazione monetaria fino alla data di pubblicazione della presente pronuncia, e con gli interessi legali sulla somma così rivalutata decorrenti dalla decisione sino al soddisfo.

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Danno erariale per la giunta che avvia una lite temeraria.
L'opposizione al decreto monitorio, privo degli elementi essenziali per essere accolto, costituisce lite temeraria i cui costi supplementari sopportati dall'amministrazione possono essere posti a carico dell'organo collegiale che ne deliberi la resistenza in giudizio. A fronte di un caso tipico di lite temeraria, dettagliatamente dimostrata dalla Procura e successivamente dal collegio contabile, sono stati condannati per danno erariale sia il sindaco che gli altri componenti della Giunta comunale.

Tali sono le conclusioni a cui è pervenuta la Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio, con la sentenza 11.05.2017 n. 107 .
La vicenda
A causa dei mancati pagamenti per alcuni lavori effettuati, l'impresa notificava al Comune un provvedimento monitorio nel quale si ingiungeva il pagamento che, oltre della parte capitale, comprendeva anche gli interessi moratori per ritardato pagamento nonché le spese dello stesso decreto monitorio. Avverso il citato decreto ingiuntivo proponeva, tuttavia, ricorso il Comune con delibera della giunta comunale.
Il Tribunale respingeva l'opposizione e condannava il Comune alle ulteriori spese di giudizio. La Procura rinviava, pertanto, a giudizio l'intera Giunta per rispondere del danno erariale causato al Comune a fronte delle maggiori spese corrisposte e quantificate pari all'importo complessivamente pagato con sola detrazione della quota del capitale in ogni caso dovuta all'impresa.
La difesa dei convenuti
I convenuti, oltre alla richiesta di prescrizione, si difendono evidenziando come non si trattasse di lite temeraria, tanto che sul punto nulla veniva evidenziato dal Tribunale, inoltre non vi era violazione di nessuna delle norme imperative tali da generare una tipizzata responsabilità erariale.
La sentenza del collegio contabile
Avuto riguardo alla prescrizione sostenuta dai convenuti, evidenzia il Collegio contabile come la stessa coincida con l'effettiva diminuzione patrimoniale del Comune, realizzatasi solo al momento del pagamento disposto a seguito della citata sentenza e non con la data della deliberazione che aveva disposto la resistenza in giudizio al decreto ingiuntivo. Nel merito domanda di risarcimento del danno a titolo di responsabilità amministrativa per lite temeraria è fondata, per le seguenti ragioni:
   • dall'esame degli atti emerge come il finanziamento dei citati lavori avrebbe dovuto essere disposto con mutuo contratto con la Cassa Depositi e Prestiti, ma il Comune, non avendo trasmesso la documentazione necessaria nei termini, non riceveva alcun finanziamento dall'istituto;
   • con successiva nota il Comune inviava la documentazione all'Istituto ma questi rispondeva in modo negativo in quanto trattandosi di nuovi lavori vi era assenza del provvedimento di devoluzione del mutuo richiesto;
   • mentre il Comune provvedeva alla richiesta del citato finanziamento la ditta terminava i lavori e a seguito della richiesta del pagamento, il Consiglio comunale negava la proposta di finanziamento con risorse a carico del bilancio comunale.
Effettuata la citata ricostruzione, appare evidente la responsabilità dell'intero organo esecutivo nel proporre opposizione al citato decreto ingiuntivo, con ovvia soccombenza in giudizio e aggravio di spese per l'ente. Il danno patito dall'ente, come quantificato dalla Procura, deve essere ripartito in parti uguali tra i convenuti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.05.2017).

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: Danno erariale per il responsabile finanziario che ritarda i pagamenti ai fornitori.
Condanna a carico del responsabile finanziario che ha ritardato il pagamento delle fatture emesse dalla società creditrice, debitamente vistate e provviste di fondi a destinazione vincolata, derivanti da mutuo Cassa depositi e prestiti.

È questo l'esito della sentenza 10.04.2017 n. 69 della sezione giurisdizionale della Corte dei conti per il Lazio, scaturita dopo che la sezione di controllo aveva inviato alla Procura informativa di danno arrecato a un Comune per maggiori somme corrisposte a una società rispetto al valore dei lavori che erano stati commissionati e regolarmente eseguiti.
La vicenda
Il caso è riferibile a un affidamento di lavori per il rifacimento delle strade urbane ed extraurbane per un importo complessivo contrattuale di 368.782 euro oltre Iva, per il quale la società non ha ricevuto il pagamento tempestivo di alcune fatture, nonostante gli esiti favorevoli del contenzioso in tutti i gradi di giudizio.
Solo a seguito della conclusione del lungo procedimento giudiziale, l'appaltatore ha visto soddisfatte le proprie ragioni. Oggetto del giudizio sono i maggiori oneri derivanti dal contenzioso (interessi legali e spese di lite) che l'amministrazione ha liquidato alla società. Le somme aggiuntive rappresentano infatti un danno per l'ente rispetto al costo dei lavori commissionati ed eseguiti.
Il danno
In particolare, le somme sono state riconosciute a seguito di atto transattivo nel quale le parti si sono accordate per la definizione delle spettanze con pagamento, di 56.387,39 euro, pari alla metà delle somme dovute a titolo di interessi, oltre 6.901,58 euro per spese legali, per complessivi 63.288,97 euro. Questo importo (al quale va aggiunto quello di mille euro pagati dal Comune quale compenso del commissario ad acta), seppure inferiore a quello costituente il credito della ditta a titolo di interessi e spese, costituisce pur sempre un danno erariale, in quanto ha comportato una lievitazione dei costi complessivi delle opere senza giustificazione alcuna.
La colpa
I costi dei lavori erano finanziati da fondi a destinazione vincolata, derivanti da mutuo della Cdp, le cui somme erano state incassate dal Comune in tempo utile per la liquidazione delle fatture. I giudici ricostruiscono che per tutte le fatture pagate in ritardo (tranne che per una), la causa del ritardo risiede nel mancato utilizzo delle somme incassate dal Comune dalla Cdp a fronte delle fatture, somme che sono state versate, invece, in tesoreria senza vincolo di destinazione, nel contesto della ormai cronica situazione di deficit dell'ente, esistente sin dal 2009 e sfociata nel 2011 nella dichiarazione di dissesto.
Conseguentemente, l'imputabilità del danno sofferto dal Comune è addossabile al responsabile finanziario, il quale ha determinato la dispersione delle risorse, la loro distrazione a fini diversi da quelli per i quali erano state erogate, e, nel contesto più generale di cronica indisponibilità di cassa, l'insolvenza delle fatture per lungo tempo. Gli elementi di colpa a carico del responsabile finanziario sarebbero riconducibili, secondo i giudici, alla necessaria conoscenza della disciplina dell'utilizzo delle somme a destinazione vincolata, del tutto incompatibile con il loro utilizzo per fin diversi.
La deliberazione ribadisce la necessità di procedere al tempestivo pagamento delle fatture, in particolar modo se relative a spese finanziate con entrate a destinazione vincolata già incassate e per le quali è stata riscontrata dal responsabile del procedimento la correttezza della prestazione e la sussistenza dei presupposti di legge per la liquidazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.05.2017).

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGOLa fattispecie del dolo, nell’ambito della responsabilità amministrativa patrimoniale, è definita, rispetto all’ambito della colpa grave, per l’assenza di ogni errore (l’errore non giustificabile è il nucleo della colpa grave) e per la presenza, invece, di una coscienza dell’illecito.
Dunque, la coscienza e volontà dell’illecito, cioè la consapevolezza del fatto che il proprio comportamento costituisce una trasgressione alle norme di legge e non è assistito da alcuna causa di giustificazione, rileva di per sé ai fini dell’assorbimento dell’illecito erariale nell’illecito doloso, senza che sia necessario, come lo è in altre sedi (come quella penale) accertare altri ulteriori elementi al fine di verificare se sia maturata o meno una determinata o specifica figura di reato.
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Il Responsabile finanziario è responsabile del danno erariale causato all'Ente per l'utilizzo di somme a destinazione vincolata (mutuo) ad altri fini (maggiori costi sopportati dal Comune per ritardati pagamenti a valere su fondi ricevuti con destinazione vincolata, ma utilizzati per altri scopi).
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In sostanza, la tesi accusatoria individua nel comportamento del Ma. il nesso causale per aver determinato l’insorgere del titolo per le maggiori somme spettanti alla società per interessi, per spese legali e del commissario ad acta, in quanto spese ricollegabili alla mancata tempestiva soddisfazione delle fondate pretese creditorie della società esecutrice dei lavori.
Sostiene che tali somme egli avrebbe dovuto tempestivamente liquidare, in quanto fondi a destinazione vincolata, che egli doveva obbligatoriamente destinare al pagamento tempestivo delle fatture, quale Responsabile del Dipartimento Finanziario, e, a maggior ragione, quale soggetto che aveva attestato la copertura finanziaria dei lavori proprio in ragione delle disponibilità derivanti dal mutuo contratto ad hoc ed esistenti in cassa, mentre le some risultano versate in tesoreria, e poi destiate ad altre spese, senza che sia stato rispettato il loro vincolo di destinazione.
...
4.2 I fatti come sopra esposti sono direttamente rilevanti ai fini della definizione del titolo dell’addebito al Ma., che il Collegio ritiene correttamente inquadrabile nella fattispecie del dolo.
Tale figura, nell’ambito della responsabilità amministrativa patrimoniale, è, infatti, definita, rispetto all’ambito della colpa grave, per l’assenza di ogni errore (l’errore non giustificabile è il nucleo della colpa grave) e per la presenza, invece, di una coscienza dell’illecito; dunque, la coscienza e volontà dell’illecito, cioè la consapevolezza del fatto che il proprio comportamento costituisce una trasgressione alle norme di legge e non è assistito da alcuna causa di giustificazione, rileva di per sé ai fini dell’assorbimento dell’illecito erariale nell’illecito doloso, senza che sia necessario, come lo è in altre sedi (come quella penale) accertare altri ulteriori elementi al fine di verificare se sia maturata o meno una determinata o specifica figura di reato.
Una tale consapevolezza è certa nella posizione del Ma. per tutte le modalità di commissione dell’illecito sopra evidenziate, ed è all’uopo sufficiente richiamare la disciplina dell’utilizzo delle somme a destinazione vincolata, del tutto incompatibile con l’utilizzo delle stesse ad altri fini, ed inserire tale illegittima deviazione di risorse nell’ambito della gestione del Ma. nel 2009 (quando, come si è detto, egli era, se non compartecipe delle cause, quantomeno sicuramente, nella sua qualità, del tutto a conoscenza dello stato di insolvenza dell’ente) per concluderne che egli aveva piena consapevolezza, sia della violazione, che delle conseguenze dannose che nel tempo ne sarebbero derivate al Comune debitore (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio, sentenza 10.04.2017 n. 69).

APPALTI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il risarcimento del danno erariale “da distrazione”.
Sussiste il danno erariale da distrazione quando una amministrazione comunale, beneficiaria di finanziamenti pubblici a destinazione vincolata, utilizza gli stessi per scopi differenti rispetto a quelli posti a base della richiesta di finanziamento, in particolare per la realizzazione di opere diverse, anche se aventi finalità istituzionali.
Il superficiale controllo, sebbene periodico, effettuato dagli enti finanziatori, che abbia contribuito ad agevolare i comportamenti amministrativi illeciti, determina un concorso di responsabilità.

Il Sindaco, l’Assessore all’urbanistica e il responsabile dell’area lavori pubblici di un Comune avevano chiesto un finanziamento al Ministero dell’ambiente e alla Regione Toscana al fine di effettuare opere di consolidamento e ricostruzione di muri di contenimento nel centro storico del paese, a seguito di dissesto idrogeologico. A tale scopo avevano presentato al Ministero e alla Regione un progetto preliminare delle opere da realizzarsi. Ottenuto il finanziamento, lo stesso era utilizzato per la costruzione di un parcheggio multipiano, in totale difformità rispetto al progetto preliminare posto a base della richiesta.
La Corte dei conti ha condannato i trasgressori al risarcimento del danno cd. “da distrazione”, con conseguente restituzione delle somme finanziate, non accogliendo le difese dei convenuti, i quali sostenevano comunque la sussistenza di una finalità istituzionale nella costruzione del parcheggio.
Tuttavia, considerato che parte delle opere realizzate avevano anche una funzione di contenimento idrogeologico e che l’omesso controllo (accertato in via incidentale) da parte del Ministero e della Regione sulla regolare esecuzione delle opere aveva agevolato la condotta illecita, i magistrati contabili hanno decurtato l’obbligazione risarcitoria dei responsabili (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz Toscana, sentenza 31.01.2013 n. 35 - commento tratto da http://drasd.unipmn.it).
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MASSIMA
L’insieme delle argomentazioni di cui trattasi, premessa la presenza o l’assenza di implicazioni di natura penale non rilevanti in questa sede (se non come imput alla presente indagine di responsabilità amministrativa contabile) indica sicuramente la sussistenza di un livello di colpa azionabile.
Al riguardo
la giurisprudenza di questa Corte si è più volte occupata dell’utilizzazione dei pubblici finanziamenti non conforme alle destinazioni impresse dalla legge o dall’amministrazione concedente, ritenendo che la fattispecie all’esame costituisca ipotesi di danno erariale (c.d. da distrazione).
Detta giurisprudenza costantemente è stata confermata anche in tempi recenti (Sez. III, 06.05.2009, n. 171 - Sez. III, 23.03.2009, n. 106) per cui il danno è stato considerato proprio quello di avere distratto i fondi dall’utilizzazione dei progetti presentati all’amministrazione (cfr. altresì la copiosa giurisprudenza di primo grado indicata in atto di citazione).
La medesima giurisprudenza ha peraltro evidenziato che il carattere illecito della distrazione di fondi a destinazione vincolata non è escluso dal fatto che i fondi stessi siano stati utilizzati per altre finalità istituzionali, potendosi, in tal caso, solo tenersi conto degli eventuali vantaggi in sede di quantificazione del danno (Sez. III, 12.10.2004, n. 542).
Peraltro la distrazione delle pubbliche finanze dai fini impressi dalla legge è espressamente punita anche dal codice penale (artt. 316-bis e 316-ter).
In sintesi
la procedura di finanziamento, come rilevato, lascia alcuni margini di discrezionalità all’amministrazione richiedente nell’indicare i luoghi e le soluzioni tecniche con cui eliminare i problemi connessi al rischio idrogeologico ma una volta indicati e prescelti ogni modifica è inibita all’amministrazione ed in ogni caso deve essere portata a conoscenza del Ministero che la deve valutare nuovamente come conforme all’interesse generale e specifico della tutela del territorio, revocando in caso contrario il finanziamento.
Peraltro anche le comunicazioni periodiche che il Comune inviava al Ministero per informarlo sull’andamento dei lavori (All. 1, sub. 12, nota dep. cit.) si limitavano a comunicare laconicamente gli importi erogati a stato di avanzamento dei lavori senza alcun ulteriore dettaglio.
La palese non conformità a norma di tali comportamenti amministrativi doveva essere rilevata dalla struttura ministeriale (come dalla struttura regionale per la parte di propria competenza) il cui silenzio è stato invece superato solo da una indagine penale, partita per irregolarità riscontrate nelle gare di affidamento dei lavori finanziati con gli importi in contestazione.
In altri termini il Collegio ritiene che
gli omessi controlli periodici demandati ex lege al Ministero dell’Ambiente ed alla Regione Toscana abbiano agevolato i comportamenti amministrativi di cui trattasi, incidendo anche sul volume del riflesso economico degli stessi.
Per quanto sopra, in conformità all’indirizzo giurisprudenziale già seguito da questa Sezione (Sent. n. 330 del 15.06.2012), dall’importo complessivo del danno erariale contestato vanno detratte le quote teoricamente ascrivibili al comportamento di soggetti non citati in giudizio ma la cui responsabilità va accertata in via incidentale (e, quindi, senza effetto di giudicato), al solo fine di consentire al Collegio di parametrare la condanna degli odierni citati in base al loro effettivo contributo causale, tenuto conto che il danno non può farsi risalire alla loro esclusiva responsabilità.
Tale quota può esser indicata in via equitativa nel 50% del danno azionabile la cui determinazione, come già anticipato in parte narrativa, ha richiesto l’adozione di una consulenza tecnica d’ufficio il cui deliberato è stato recepito da questo Collegio nei termini che seguono.
3. Danno erariale
In primo luogo mentre non paiono condivisibili (per tutte le argomentazioni soprasvolte) le eccezioni difensive che ipotizzano la non attualità del danno in quanto il Ministero dell’Ambiente potrebbe pur sempre attivarsi per recuperare gli importi nei confronti del Comune di Campagnatico oppure l’inesistenza dello stesso per l’ipotizzata “legittimità” della spesa, la richiesta di valutazione della utilitas è stata invece (parzialmente) accolta dal Collegio.
La materia, ovviamente, per il tecnicismo della stessa ha necessitato il ricorso ad un consulente esterno al quale sono stati posti due distinti quesiti volti ad appurare il valore delle opere realizzate e la quota parte delle stesse cui possa attribuirsi una azione di “contenimento del rischio idrogeologico”.
L’elaborato consegnato del perito, corredato da una ampia ed esaustiva documentazione, dopo aver ripercorso le fasi storiche del finanziamento, dalla richiesta alla utilizzazione, ha valorizzato la quota utile di fini della salvaguardia del territorio nei seguenti termini:
   A) finanziamento ministeriale:
utilizzato per € 1.079.002,67 (al netto del saldo disponibile di cassa pari ad € 90.997,33 potenzialmente a disposizione del Ministero dell’Ambiente e non oggetto della presente azione risarcitoria) di cui € 125.000,00 con valenza ambientale ed un danno differenziale di € 954.002,67;
   B) finanziamento regionale:
utilizzato per € 141.900,00 di cui € 105.000,00 con valenza ambientale ed un danno differenziale di € 36.900,00.
Come già riportato, il Collegio condivide la tesi del CTU (pagg. 64-67 dell’atto peritale) per la quale, diversamente da quanto richiesto dai Consulenti di parte, l’utilitas da detrarre postula un effetto “ambientale” dell’opera principale (struttura adibita a futuro parcheggio auto e terrazza calpestabile realizzata a contatto con mura pericolanti) nei fatti piuttosto contenuto mentre l’opera minore (muro di contenimento lungo la viabilità) per la maggior parte può dirsi di concreto aiuto all’ambiente.
In altri e definitivi termini le opere pubbliche (per inciso oggi del tutto incomplete e inutilizzabili nonché sotto sequestro per motivi di ordine penale) sono state sì parzialmente realizzate ma con denaro erogato e percepito con vincolo di destinazione all’interno di una procedura “rigida”, nei fatti superata da una progettazione esecutiva non solo difforme dalla preliminare ma neppure ritualmente approvata dalla Amministrazione centrale.
Sul punto poi il Consulente (pag. 56) indica anche violazioni in ordine alla violazione della normativa coinvolgente il Genio civile di Grosseto, situazione paradossale trattandosi ovviamente di opere in cemento armato.
A parte le considerazioni di cui sopra, come detto il 50% dal danno può attribuirsi a soggetti non evocati in giudizio, residua l’importo di € 477.001,33 a favore del Ministero dell’Ambiente ed € 18.450,00 a favore della Regione Toscana.
Ciò premesso a tutte le parte citate in giudizio possono essere ascritte censure a titolo di colpa grave, sia pure differentemente riscontrata nei seguenti termini.
4. Ripartizione danno erariale
   A) El.PE. in qualità di
Sindaco ha adottato gli atti fondamentali delle procedure di richiesta ed utilizzazione del finanziamento che, considerate le dimensioni del Comune di Campagnatico e l’entità delle opere realizzate, non può ritenersi un atto di mera ordinaria amministrazione.
A prescindere dalle ipotetiche implicazioni penali, sul piano prettamente amministrativo risultano essere stati posti in essere comportamenti non in linea con una doverosa corretta gestione amministrazione di denaro pubblico per cui la quota maggiore del danno, individuabile nel 60% dell’importo ascrivibile, deve essere addebitato al medesimo (€ 477.001,33 x 60% = 286.200,79 a favore del Ministero ed € 36.900,00 x 60% = 22.140,00 a favore della Regione) per un totale di € 308.340,79
   B) Lu.GR. come
Vice-sindaco Assessore all’Urbanistica ha partecipato alla adozione del progetto esecutivo accettandone colpevolmente i contenuti che non potevano e dovevano a lui sfuggire in virtù della natura del proprio Assessorato.
Per inciso la deliberazione è stata assunta da una Giunta, composta di soli tre soggetti, di cui uno era anche assente per cui il provvedimento doveva e poteva essere idoneamente attenzionato.
Al riguardo deve essere disattesa l’eccezione per cui essendo le opere concretamente avviate anche parzialmente diverse da quelle indicate nella progettazione, ne sarebbe esclusa la responsabilità.
In realtà la progettazione esecutiva fin dall’inizio contrastava con il solo progetto sottoposto al Ministero dell’Ambiente, quello preliminare ed allora tale eccezione può solo essere parzialmente accolta, ai fini della limitazione percentuale del danno ascrivibile.
Per quanto sopra, sempre a titolo di colpa grave, il convenuto può essere chiamato a rispondere del 20% del danno (€ 477.001,33 x 20% = 95.400,27 a favore del Ministero ed € 36.900,00 x 60% = 7.380,00 a favore della Regione) per un totale di € 102.780,27.
   C) Em.BA. in quanto
Responsabile della Area LL.PP. non solo ha dato i previsti pareri sulla delibera di adozione del progetto esecutivo ma ha altresì svolto le funzioni di Direttore lavori e Responsabile unico del procedimento (RUP) dell’opera finanziata per cui non poteva non conoscere nel dettaglio le opere in via di realizzazione.
Per quanto sopra, sempre a titolo di colpa grave, il convenuto può essere chiamato a rispondere del 20% del danno (€ 477.001,33 x 20% = 95.400,27 a favore del Ministero ed € 36.900,00 x 60% = 7.380,00 a favore della Regione) per un totale di € 102.780,27.
Alla somma per cui è condanna, trattandosi di debito di valore conseguente alla valutazione economica di parte del manufatto pubblico in contestazione obbligazione originariamente pecuniaria, vanno aggiunti la rivalutazione monetaria e gli interessi secondo i criteri che seguono:
   - la rivalutazione va calcolata secondo l’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie ed operai (FOI), a decorrere dal fatto illecito che trattandosi di un unicum va indicato nella data dell’ultima erogazione da parte del Ministero (15.06.2006), fino alla pubblicazione della presente sentenza;
   - gli interessi legali vanno calcolati dalla stessa data sulla somma originaria rivalutata anno dopo anno, cioè con riferimento ai singoli momenti con riguardo ai quali la predetta somma si incrementa nominalmente in base agli indici ci rivalutazione monetaria (Cass. Sez. II n. 18028/2010 – Sez. III n. 4587/2009 – Sez. III n. 5671/2010 – SS.UU. 1712/2005), fino al concreto soddisfo.
Dalla data di pubblicazione della presente sentenza sono altresì dovuti, sulla somma come sopra incrementata, gli interessi nella misura del saggio legale fino all’effettivo pagamento.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e vanno, quindi, poste a carico in quota percentuale delle parti convenute condannate;
PER QUESTI MOTIVI
la Sezione giurisdizionale della Regione Toscana della Corte dei conti, definitivamente pronunciando sul giudizio n. 57901/REL, in parziale conformità delle conclusioni del Pubblico ministero
CONDANNA
   A) El.PE. all’importo complessivo di € 308.340,79 (60% del totale) di cui 286.200,79 a favore del Ministero dell’Ambiente ed 22.140,00 a favore della Regione Toscana;
   B) Lu.GR. all’importo complessivo di € 102.780,27 (20% del totale) di cui 95.400,27 a favore del Ministero dell’Ambiente ed 7.380,00 a favore della Regione Toscana;
   C) Em.BA. all’importo complessivo di € 102.780,27 (20% del totale) di cui 95.400,27 a favore del Ministero dell’Ambiente ed 7.380,00 a favore della Regione Toscana;
somme tutte cui vanno aggiunti gli interessi legali e la rivalutazione monetarie secondo il criterio di calcolo indicato in motivazione.
Segue la condanna al pagamento delle spese processuali che, fino alla presente decisione, sono percentualmente liquidate in € 2182,90 (Euro duemilacentottantadue/90).
Dispone infine il pagamento delle spese peritali, quantificate in € 4.331,17 per rimborsi a piè di lista omnicomprensivi e € 19.678,00 oltre IVA di legge per onorari e spese (in totale € 28.145,55) a carico delle parti condannate nelle rispettive quote di competenza, dedotti gli eventuali acconti medio-tempore corrisposti.

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Esclusione dalla gara per gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia l’integrità o l’affidabilità del concorrente.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Per gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia l’integrità o l’affidabilità del concorrente – Art. 80, comma 5, lett. c, d.lgs. n. 50 del 2016 – Presupposti - Individuazione
L’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2016, n. 50 –che consente alle stazioni appaltanti di escludere i concorrenti da una procedura di affidamento di contratti pubblici in presenza di “gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità”– innovando rispetto al previgente assetto normativo, prevede che l’esclusione del concorrente è condizionata al fatto che la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che tra i “gravi illeciti professionali” rientrano le significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all’esito di un giudizio, ovvero che hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione ovvero l’omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione. Il dato assiologico che emerge appare incentrarsi sulla circostanza che, per effetto degli indicati fattori o di ulteriori elementi valutativi, emerga a carico dell’operatore economico un quadro tale da rendere dubbia la sua affidabilità.
La ratio della norma de qua risiede dunque nell’esigenza di verificare l’affidabilità complessivamente considerata dell’operatore economico che andrà a contrarre con la p.a. per evitare, a tutela del buon andamento dell’azione amministrativa, che quest’ultima entri in contatto con soggetti privi di affidabilità morale e professionale.
Ha aggiunto il Tar che persiste in capo alla Stazione appaltante un coefficiente di discrezionalità, il cui esercizio –ed il cui correlato sindacato in sede giurisdizionale- comporta la esatta riconduzione della fattispecie astratta contemplata dalla norma (grave illecito professionale) a quella concretamente palesatasi nella singola gara.
Il conferimento alle stazioni appaltanti di un diaframma di discrezionalità in sede applicativa –il quale attiene non all’individuazione delle fattispecie espulsive, che senz’altro compete al legislatore, in materia di requisiti generali, secondo una elencazione da considerare tassativa, bensì alla riconduzione della fattispecie concreta a quella astratta, siccome descritta genericamente mediante l’uso di concetti giuridici indeterminati– affiora, pur in mancanza di una formulazione della norma di segno univoco come quella contenuta nel previgente Codice appalti (laddove si discorreva di “motivata valutazione”), da quanto statuito a proposito della consacrata necessità di dare “dimostrazione con mezzi adeguati” della sussistenza della fattispecie espulsiva, nonché dall’uso di locuzione generiche (“dubbia”, “gravi”) e dalla omessa precisa elencazione di ipotesi escludenti, che il legislatore infatti si limita ad individuare a fini meramente esemplificativi (TAR Valle d’Aosta, sentenza 23.06.2017 n. 36 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
La censura non può essere condivisa
In diritto deve osservarsi che
l’art. 80, comma 5, lett. c), del D.Lgs. n. 50/2016, recante il codice dei contratti pubblici, consente alle stazioni appaltanti di escludere i concorrenti da una procedura di affidamento di contratti pubblici in presenza di «gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità», con la precisazione, ai fini che qui interessano, che in tali ipotesi rientrano, tra l’altro, «significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata».
La citata disposizione codicistica, innovando rispetto al previgente assetto normativo, prevede che l’esclusione del concorrente è condizionata al fatto che la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità.

Tra questi rientrano:
le significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all’esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione ovvero l’omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione.
Il dato assiologico che emerge appare incentrarsi sulla circostanza che, per effetto degli indicati fattori o di ulteriori elementi valutativi, emerga a carico dell’operatore economico un quadro tale da rendere dubbia la sua affidabilità.
La ratio della norma de qua risiede dunque nell’esigenza di verificare l’affidabilità complessivamente considerata dell’operatore economico che andrà a contrarre con la p.a. per evitare, a tutela del buon andamento dell’azione amministrativa, che quest’ultima entri in contatto con soggetti privi di affidabilità morale e professionale
Orbene, nel caso di specie, non solo non viene in rilievo un profilo immediatamente correlato al momento esecutivo di un pregresso rapporto contrattuale in termini di specifico inadempimento al complesso di obbligazioni dallo stesso scaturente; ma deve anche rilevarsi come la censurata carenza di requisito alla partecipazione, pur astrattamente non sottratto in quanto tale ad un più ampio giudizio di inadempimento mediato o di rimbalzo, in concreto non possa in alcun modo qualificarsi in tali termini.
...
Né infine può, secondo la traiettoria ermeneutica proposta dal ricorrente, riconnettersi al precedente dictum giudiziale un effetto di automatismo espulsivo ai presenti fini: deve al riguardo ribadirsi che anche in siffatta evenienza
persiste in capo alla Stazione appaltante un coefficiente di discrezionalità, il cui esercizio –ed il cui correlato sindacato in sede giurisdizionale- comporta la esatta riconduzione della fattispecie astratta contemplata dalla norma (grave illecito professionale) a quella concretamente palesatasi nella singola gara.
Il conferimento alle stazioni appaltanti di un diaframma di discrezionalità in sede applicativa –il quale attiene non alla individuazione delle fattispecie espulsive, che senz’altro compete al legislatore, in materia di requisiti generali, secondo una elencazione da considerare tassativa, bensì alla riconduzione della fattispecie concreta a quella astratta, siccome descritta genericamente mediante l’uso di concetti giuridici indeterminati- affiora, pur in mancanza di una formulazione della norma di segno univoco come quella contenuta nel previgente Codice Appalti (laddove si discorreva di “motivata valutazione”), da quanto statuito a proposito della consacrata necessità di dare “dimostrazione con mezzi adeguati” della sussistenza della fattispecie espulsiva, nonché dall’uso di locuzione generiche (“dubbia”, “gravi”) e dalla omessa precisa elencazione di ipotesi escludenti, che il legislatore infatti si limita ad individuare a fini meramente esemplificativi.
Ne consegue, anche per questa via ed alla luce dei rilievi di cui sopra, la correttezza della valutazione qui in esame, ove si consideri che l’intervenuto giudicato non espleta la propria efficacia accertativo-preclusiva su di un specifico fatto di inadempimento in sede propriamente posto in diretta relazione causale con la conseguente risoluzione del rapporto contrattuale, ma, come prima detto, sulla diversa dimensione di una carenza di requisito partecipativo che solo indirettamente e di rimbalzo ha comportato, non ex se ma in via derivata e mediata, l’incidenza su di un momento esecutivo-prestazionale peraltro connotato da comprovata e non contestata conformità tutti gli obblighi contrattualmente assunti.

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso ai documenti adottati in seduta riservata.
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Accesso ai documenti – Diritto – Atti adottati in seduta riservata – Diniego – Illegittimità.
E’ illegittimo il diniego di accesso agli atti riguardanti l’istante, opposto sul rilievo che erano stati adottati in seduta riservata da un Comune, ove non sia prevista diversa disposizione nel regolamento comunale (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che tra i casi di segreto espressamente previsti dall’ordinamento non rientrano le opinioni espresse ed i voti dati dai consiglieri comunali nell’esercizio delle loro funzioni e non ostano motivi di riservatezza in merito alla condotta della persona oggetto dell’attività di indagine da parte del consiglio comunale, in quanto è il richiedente l’accesso. Né d’altro canto l’attività d’indagine del consiglio comunale, volta a far valere una responsabilità politica, ha le stesse garanzie delle indagini penali della polizia e della magistratura (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 22.06.2017 n. 1409 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. Il ricorrente, ex dipendente comunale, ha proposto ricorso principale contro la mancata risposta alla richiesta di accesso agli atti della commissione d’indagine istituita dal Consiglio comunale sulla sua nomina a dirigente dell’ente.
Il ricorrente evidenzia che le relative deliberazioni comunali sono state pubblicate sul sito dell’ente ma che la relazione della commissione d’indagine, unitamente al verbale della deliberazione, risultavano omessi in quanto “trattasi di seduta segreta”.
Uguale silenzio è stato mantenuto sulla richiesta motivata di ostensione anche della “Interrogazione urgente presentata in Consiglio Comunale all’indomani dell’articolo pubblicato sul Giornale di Vimercate del 15/03/2016, a pag. 43, dal titolo: “una dipendente del Comune: “ho dato il decreto di nomina a dirigente di De Fi. al Sindaco”.
Contro i suddetti dinieghi taciti ha proposto i seguenti motivi di ricorso: violazione e falsa applicazione degli artt. 22 e ss. l. 241/1990; violazione e falsa applicazione dell’art. 3 d.p.r. 184/2006; violazione e falsa applicazione dell’art. 97 della costituzione.
2. Con ricorso per motivi aggiunti il ricorrente ha impugnato l’esplicito rigetto alle istanze di accesso, motivate con riferimento al fatto che trattasi di atti adottati in seduta segreta, l’articolo 50 dello Statuto del Comune di Carnate nonché degli articoli 16 e 52 del Regolamento sul funzionamento e l’organizzazione del consiglio comunale di Carnate, che prevedono la segretezza delle sedute, in quanto ai sensi dell’art. 24, comma 7, l. 241/1990 “… deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
La difesa del Comune ha chiesto la reiezione del ricorso.
Alla camera di consiglio del 20.06.2017 la causa è stata trattenuta dal Collegio per la decisione.
2. I ricorso sono parzialmente fondati.
La costante giurisprudenza, condivisa da questo Collegio, afferma che qualora l’accesso ai documenti amministrativi sia motivato dalla cura o la difesa di propri interessi giuridici, esso prevale sull’esigenza di riservatezza dei terzi (Consiglio di Stato, VI, 05.03.2015, n. 1113; IV, 10.03.2014, n. 1134).
A ciò si aggiunge che dalla lettura delle norme regolamentari comunali non si ricava in via diretta che gli atti della seduta segreta siano automaticamente sottratti all’accesso, atteso che è stabilita soltanto la non pubblicità della seduta. Tali norme infatti, relative al funzionamento del consiglio, trovano il loro fondamento nell’art. 38, c. 7, del D.Lgs. 267/2000 secondo il quale “Quando lo statuto lo preveda, il consiglio si avvale di commissioni costituite nel proprio seno con criterio proporzionale. Il regolamento determina i poteri delle commissioni e ne disciplina l'organizzazione e le forme di pubblicità dei lavori”.
Se la fonte regolamentare locale è la fonte primaria in merito alla forma di pubblicità delle sedute, grazie alla delega contenuta nell’art. 38, c. 7, citato, non vale altrettanto per l’accesso agli atti.
L’art. 22, c. 3, della legge 241/1990 stabilisce che tutti i documenti amministrativi sono accessibili, ad eccezione di quelli indicati all'articolo 24, commi 1, 2, 3, 5 e 6, riservando così alla legge la disciplina della segretezza documentale.
A sua volta l’art. 24 prevede che l’accesso è escluso nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge e dal regolamento governativo di cui al comma 6 mentre all’amministrazione compete, ai sensi del comma 2, di individuare gli atti coperti da segreto, secondo le norme di legge che lo prevedono.
Tra i casi di segreto espressamente previsti dall’ordinamento non rientrano le opinioni espresse ed i voti dati dai consiglieri comunali nell’esercizio delle loro funzioni e non ostano motivi di riservatezza in merito alla condotta della persona oggetto dell’attività di indagine da parte del consiglio comunale, in quanto è il richiedente l’accesso. Né d’altro canto l’attività d’indagine del consiglio comunale, volta a far valere una responsabilità politica, ha le stesse garanzie delle indagini penali della polizia e della magistratura.
Neppure eventuali testimonianze di impiegati comunali possono essere secretate in quanto attinenti ad attività amministrativa. Infatti il segreto d’ufficio, cioè l’obbligo di non comunicare all’esterno dell’amministrazione notizie o informazioni di cui siano venuti a conoscenza nell’esercizio delle loro funzioni, ovvero che riguardino l’attività amministrativa in corso di svolgimento o già conclusa, non può prevalere sul diritto d’accesso ai sensi dell’art. 28 della L. 241/1990.
A ciò si aggiunge che l’art. 24 della legge n. 241 del 1990 garantisce comunque l’accesso a quegli atti la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici (comma 7).

In definitiva quindi i ricorsi sono fondati per quanto attiene ai documenti richiesti.
Va invece respinta con riferimento alle norme dello Statuto e del regolamento consiliare, in quanto riferite alla pubblicità delle sedute e non all’accesso agli atti.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ripetizione emolumenti non dovuti al netto di tutte le ritenute fiscali e oneri previdenziali.
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Pubblico impiego privatizzato – Stipendi – Ripetizione emolumenti non dovuti - Su base lorda – Illegittimità.
E’ illegittimo il recupero, da parte dell’Amministrazione, di somme indebitamente erogate ad un dipendente su base lorda, anziché al netto di tutte le ritenute fiscali e oneri previdenziali (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che costituisce principio consolidato nella giurisprudenza amministrativa (sez. IV, 03.11.2015, n. 5010; id., sez. III, 21.01.2015, n. 198) che l'Amministrazione, nel procedere al recupero delle somme indebitamente erogate ai propri dipendenti, deve eseguire detto recupero al netto delle ritenute fiscali, previdenziali e assistenziali; non può invece pretendere di ripetere le somme al lordo delle predette ritenute, allorché, come di regola accade, le stesse non siano mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente.
Anche la Corte di Cassazione (sez. I, 04.09.2014, n. 18674) ha affermato analogo principio. In particolare, ha chiarito che nel rapporto di lavoro subordinato, il datore di lavoro versa al lavoratore la retribuzione al netto delle ritenute fiscali e, quando corrisponde per errore una retribuzione maggiore del dovuto, opera ritenute fiscali erronee per eccesso; per cui il medesimo datore di lavoro, salvi i rapporti con il fisco, può ripetere l'indebito nei confronti del lavoratore soltanto nei limiti di quanto effettivamente percepito da quest'ultimo, restando esclusa la possibilità di ripetere importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 22.06.2017 n. 858 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
RILEVATO QUANTO DI SEGUITO ESPOSTO.
Il ricorso è palesemente fondato, tanto da consentirsene la definizione con sentenza in forma semplificata.
Costituisce, infatti, come si usa dire jus receptum (cioè diritto vivente, consolidato e agevolmente conoscibile) nell’esperienza del Consiglio di Stato che l'Amministrazione, nel procedere al recupero delle somme indebitamente erogate ai propri dipendenti, deve eseguire detto recupero al netto delle ritenute fiscali, previdenziali e assistenziali; non può invece pretendere di ripetere le somme al lordo delle predette ritenute, allorché, come di regola accade, le stesse non siano mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente.
Di seguito si richiama solo una parte della cospicua giurisprudenza che un qualsiasi funzionario e dirigente di media cultura, preparazione e diligenza dovrebbe conoscere: Cons. St. sez. II, parere su ric. straord., n. 991, adunanza 05.04.2017; Cons. Stato Sez. IV, 03.11.2015, n. 5010; Cons. Stato, sez. III, 21.01.2015 n. 198; Cons. Stato, sez. IV, 12.02.2015, n. 750; Cons. Stato, sez. IV, 20.09.2012, n. 5043; Cons. Stato, sez. III, 04.07.2011, nr. 3984 e n. 3982; id., sez. VI, 02.03.2009 nr. 1164, solo per citarne alcune.
Nello stesso senso si atteggia l’orientamento dei Tribunali Amministrativi, secondo i quali
la richiesta di restituzione dei compensi illegittimamente percepiti non può che avere a oggetto le somme ricevute in eccesso (e cioè, effettivamente entrate nella sfera patrimoniale del dipendente medesimo), non potendosi pretendere la ripetizione di somme calcolate al lordo delle ritenute fiscali, le quali non sono mai entrate nella disponibilità materiale e giuridica del prestatore di lavoro.
Anche qui il Collegio si limita a ricordare, per dare un aiuto a quegli stessi funzionari e dirigenti dell’amministrazione finanziaria di cui si è già fatto cenno
: TAR Toscana, sez. I, 25.01.2017, n. 199; TAR Lazio Roma Sez. I-bis, 24/03/2016, n. 3753; TAR Bologna, sez. I, 04.06.2015, n. 525; TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 614/2013; TAR Umbria, sez. I, 05.12.2013, n. 559).
RICORDATO INOLTRE QUANTO SOTTO RIPORTATO.
Nella medesima direzione contraria alle difese dell’amministrazione si colloca, ancora, l’orientamento della Corte di Cassazione, evidenziante come
nel rapporto di lavoro subordinato, il datore di lavoro versa al lavoratore la retribuzione al netto delle ritenute fiscali e, quando corrisponde per errore una retribuzione maggiore del dovuto, opera ritenute fiscali erronee per eccesso; per cui il medesimo datore di lavoro, salvi i rapporti con il fisco, può ripetere l'indebito nei confronti del lavoratore soltanto nei limiti di quanto effettivamente percepito da quest'ultimo, restando esclusa la possibilità di ripetere importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente: Cass. Civ., sez. I, 04.09.2014, n. 18674; id., Sez. Lav., 02.02.2012, n. 1464; idem, sez. lavoro, 11.01.2006 n. 239; idem, sez. lavoro, 26.02.2002 n. 2844.
A conforto indiretto, ove ve ne fosse bisogno per convincere i più riottosi e incalliti, del suddetto orientamento è il convincimento del Giudice ordinario il quale, a proposito della speculare tematica delle modalità di calcolo degli accessori dovuti al lavoratore pubblico, ha evidenziato come appare consolidata la giurisprudenza anche amministrativa (Ad. Plen. 05.06.2012, n.18), nel ribadire la piena legittimità delle modalità di calcolo degli accessori del credito del dipendente pubblico riportate nell'alveo dell'art. 1224 c.c. ritenendo che possa ritenersi produttivo di interessi e soggetto ai meccanismi di attualizzazione del credito solo il denaro che viene posto a disposizione del creditore e che effettivamente ne incrementi il patrimonio, e non quello corrispondente alle ritenute alla fonte, operate dal sostituto d'imposta attraverso rapporto di delegazione ex lege, che non sarebbe mai entrato nella disponibilità del dipendente (Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., 28/10/2016, n. 2190).
OSSERVATO, INOLTRE, QUANTO SOTTO RIPORTATO.
A quanto esposto non può opporsi l’orientamento contrario espresso in materia dall'Agenzia delle entrate con infiniti atti interpretativi di varia denominazione (note, risoluzioni, determinazioni, circolari, ecc.: fra le tante v. quelle richiamate, sopra, dall’Avvocatura dello Stato, oppure la nota del 23.05.2013, richiamata dal citato parere di quest’anno della II sez. del CdS) con le quali la medesima Agenzia si è pervicacemente (ma inspiegabilmente) espressa per la legittimità della richiesta di recupero dell’indebito al lordo delle ritenute di legge, sulla base di quanto disposto dall’art. 10, comma 1, lett. d-bis) del d.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR), il quale statuisce la deducibilità dal reddito complessivo del contribuente di tutte le somme restituite in quanto indebitamente percepite e non le modalità concrete con cui detto recupero deve aver luogo.
Si tratta di un richiamo improvvido e temerario, perché con esso, da una norma di garanzia per il privato che esplica i suoi effetti nel rapporto tra contribuente erroneamente gravato di in peso tributario non dovuto e l’amministrazione finanziaria, si intende ricavare un principio vessatorio per il medesimo privato nei suoi rapporti con il datore di lavoro, costringendo quest’ultimo a ripetere quanto effettivamente pagato aumentato di oneri fiscali astrattamente dovuti dal lavoratore ma mai entrati nella sua sfera patrimoniale.
Come invece precisato dalla giurisprudenza innanzi riportata,
ciò che rileva nella fattispecie non è il rapporto intercorrente tra l’interessato e l’Agenzia fiscale -regolato dal succitato art. 10, comma 1, lett. d-bis) del TUIR- ma quello fra il ricorrente e l’Amministrazione di servizio, nell’ambito del quale la seconda versa al primo gli emolumenti al netto delle ritenute fiscali (nonché previdenziali e assistenziali); con la conseguenza che non risulta né logico, né equo, né lecito chiedere all’interessato un adempimento che può essere posto in essere direttamente dall’Amministrazione stessa senza gravare sul soggetto interessato in maniera non coerente con i fini del dovuto recupero delle somme erogate a titolo di imposte e contributi.
Il richiamo effettuato dall’Amministrazione al TUIR, dunque, non risulta adeguato a superare il consolidato orientamento giurisprudenziale più volte espresso dalle varie giurisdizioni ordinaria ed amministrativa, in base al quale, come in precedenza esposto,
la ripetizione dell'indebito nei confronti del dipendente non può non avere ad oggetto le sole somme effettivamente “pagate” (come recita l’art. 2033 c.c.) a quest'ultimo e da lui effettivamente percepite in eccesso, vale a dire quanto e solo quanto effettivamente sia entrato nella sfera patrimoniale del dipendente (Cons. di Stato, Sez. VI, 02.03.2009, n. 1164).
D’altra parte, i ricordati e concordi insegnamenti non avrebbero ragion d’essere soltanto ove l’amministrazione finanziaria –le cui palesemente errate direttive hanno determinato anche il presente contenzioso, essendo evidente che nessun pubblico dipendente si azzarderebbe (come pur potrebbe e dovrebbe) a disapplicare una direttiva della stessa amministrazione fiscale per ovvi timori di incorrere in responsabilità contabile– leggesse con un minimo di capacità e diligenza le norme codicistiche, peraltro già sopra richiamate.
L’art. 2033 cod. civ., sull’indebito oggettivo, stabilisce che chi ha eseguito un “pagamento” non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha “pagato”. La nozione di pagamento si correla a quelal di ricevimento (art. 1463, comma 1, cod. civ.) ed entrambe individuano un comportamento materiale costituente la modalità principe di estinzione in via satisfattiva dell’obbligazione pecuniaria. Pagamento e ricevimento, costituenti la medesima azione vista dalla parte rispettivamente del debitore e del creditore hanno per oggetto un bene materiale che la terminologia del codice, descrittiva di una società antica ma dai rapporti socio-economici fondamentali sempre attuali, individua nella “moneta” (artt. 1277 e seg. Cod. civ.), cioè in un preciso e determinato oggetto concreto avente valore di scambio.
Se è dunque, secondo la disciplina codicistica, la concreta materialità di ciò che si è pagato e, correlativamente, ricevuto a segnare le reciproche posizioni di debitore e creditore (oltre quelli che non a caso si chiamano “accessori”), non possono certo valere ad alterare il principio di materialità e concretezza dei pagamenti fatti e ricevuti un titolo di debito-credito astratto che indichi valori diversi.
Ancor più semplicemente,
se il datore di lavoro è debitore di cento, ma tale debito si riduce a cinquanta per effetto del c.d. cuneo fiscale, il lavoratore che abbia percepito erroneamente (ad esempio per una duplicazione di pagamenti) cinquanta, non è certo tenuto a restituire l’importo del suo credito lavorativo astratto, cioè cento.
Si tratta di concetti elementari e di assoluto buon senso, a fronte dei quali non possono valere gli inconcepibili richiami fatti dall’amministrazione finanziaria e per essa dall’amministrazione resistente, a specifiche norme tributarie di garanzia per il contribuente, che si vorrebbe tramutare in norme illogiche, inique e vessatorie, riecheggianti antichi ma defunti istituti come quello del “solve e repete” (prima paghi ciò che non devi e poi chiedi la restituzione).
AGGIUNTI I SEGUENTI ULTERIORI RILIEVI.
Risultano, perciò, privi di ogni rilevanza i richiami fatti dall’amministrazione resistente a comunicazioni, note, dispacci, circolari, direttive, chiarimenti, ecc. emanati dall’Agenzia delle Entrate nella materia qui di interesse, tutti illegittimi per i motivi innanzi ricordati.
E’ infatti altrettanto risaputo (“Jus receptum”) che le disposizioni contenute in circolari o altri atti di analogo contenuto e finalità interpretativi/esplicativi non possono condizionare il giudice nell'interpretazione delle norme che l’atto stesso intende spiegare.
Le circolari amministrative, infatti, in quanto atti di indirizzo interpretativo-illustrativo-applicativo, non sono vincolanti per i soggetti estranei all'Amministrazione: ed anche per gli organi ed uffici della stessa amministrazione emanante esse sono vincolanti, ma solo se legittime, potendo, altrimenti essere disapplicate qualora il funzionario chiamato a darvi applicazione ne accerti la portata contra legem.

Nei predetti limiti –derivanti dai canoni fondamentali di gerarchia delle fonti e di separazione dei Poteri- gli atti di tal natura sono atti diretti agli organi e uffici periferici ovvero sottordinati, e non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale o comunque vincolante per i soggetti estranei all'Amministrazione. Soccorre a tal proposito l’ormai diffusa teoria della disapplicazione, la quale tende a mitigare l’onere di impugnare espressamente e ritualmente innanzi al TAR la determinazione esplicativo-precettiva.
Una circolare amministrativa (o altro atto analogo) contra legem può essere, infatti, disapplicata anche d'ufficio dal giudice investito dell'impugnazione dell'atto che ne faccia applicazione.

Anche qui l’orientamento giurisprudenziale è sostanzialmente univoco e se ne riportano di seguito solo alcuni estratti da fungere quale elemento di stimolo e di studio per i dirigenti e funzionari dell’Agenzia delle Entrate: TAR Umbria, 06/05/2014, n. 248; TAR Lazio, Roma, sez. I, 07/02/2014, n. 1507; TAR,Puglia, Lecce, sez. I, 10/10/2012, n. 1653; Cons. Stato, sez. VI, 13/09/2012, n. 4859).
CONSIDERATO IN CONCLUSIONE.
Il ricorso va accolto e le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Il Collegio ravvisa nel comportamento dell’Agenzia delle Entrate che continua ad ignorare i richiamati, concordi insegnamenti giurisprudenziali elementi di grave negligenza ed imperizia, che continuano ad alimentare un inutile contenzioso dal prevedibile esito negativo per la parte pubblica, con i conseguenti oneri economici per le finanze pubbliche connessi alla necessaria condanna alle spese (art. 26 c.p.a.) come nel caso di specie.
Il Collegio manda pertanto alla Segreteria del TAR perché invii copia della presente sentenza alla Procura regionale della Corte dei Conti, al Sig. Presidente del Consiglio dei Ministri, al Sig. Ministro dell’Economia
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ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAIl ricorrente, in quanto proprietario di un immobile adiacente a quello della società controinteressata, ha chiesto di poter accedere alla documentazione relativa ai titoli edilizi e paesaggistici “richiesti, denegati e concessi” concernenti “l’intervento inerente il cambio di destinazione d’uso da lastrico solare a terrazzo praticabile (roof garden) con realizzazione di torrino ascensore ed installazione di pergolato presso l’albergo denominato ...”.
Ritiene il Collegio che in capo al ricorrente, in ragione del divisato presupposto della vicinitas, deve riconoscersi la sussistenza di un “interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è stato chiesto l'accesso”, che l'art. 22 l n. 241/1990, prevede quale presupposto per la legittimazione all'azione e l'accoglimento della relativa domanda.
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... per l'accertamento dell’illegittimo silenzio/inadempimento perfezionatosi sull’istanza di accesso inoltrata al Comune di Vico Equense a mezzo PEC in data 30.08.2016;
...
Il ricorso è fondato e va accolto.
Preliminarmente devono essere respinte le eccezioni di inammissibilità del ricorso perché proposto, secondo la prospettazione dei resistenti, ai sensi dell’art. 117 c.p.a. (ricorso avverso il silenzio inadempimento) e non ai sensi dell’art. 116 c.p.a. (accesso ai documenti amministrativi).
Deve, infatti, osservarsi che ai sensi dell’art. 32, comma 2, c.p.a. il giudice ha l’obbligo di qualificare l’azione proposta in base ai suoi elementi sostanziali.
Nella fattispecie, l’azione proposta è volta ad accertare il diritto del ricorrente (e il conseguente obbligo del Comune) di accedere alla documentazione richiesta con l’istanza del 30.08.2016 e sulla quale si è formato un provvedimento tacito di rigetto tempestivamente impugnato (il ricorso è stato notificato ai resistenti in data 19.10.2016). E’ evidente, quindi, che la domanda giudiziale (sebbene proposta dal ricorrente ai sensi dell’art. 117 c.p.a.) ha tutti i requisiti di forma e sostanza per essere qualificata come azione ai sensi dell’art. 116 c.p.a. volta all’annullamento del provvedimento tacito di rigetto dell’istanza di accesso e all’accertamento del diritto di ottenere la documentazione richiesta (con conseguente obbligo del Comune di esibirla).
Ciò premesso, il ricorso è fondato.
Il ricorrente in quanto proprietario di un immobile adiacente a quello della società controinteressata ha chiesto di poter accedere alla documentazione relativa ai titoli edilizi e paesaggistici “richiesti, denegati e concessi” concernenti “l’intervento inerente il cambio di destinazione d’uso da lastrico solare a terrazzo praticabile (roof garden) con realizzazione di torrino ascensore ed installazione di pergolato presso l’albergo denominato “Le An.” sito alla via ... n. ...”.
Ritiene il Collegio che in capo al ricorrente, in ragione del divisato presupposto della vicinitas, deve riconoscersi la sussistenza di un “interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è stato chiesto l'accesso”, che l'art. 22 l n. 241/1990, prevede quale presupposto per la legittimazione all'azione e l'accoglimento della relativa domanda.
Deve, inoltre, osservarsi che -contrariamente a quanto eccepito dal Comune resistente- la domanda di accesso è tutt’altro che generica in quanto individua o comunque consente di individuare agevolmente (cfr. D.P.R. 184/2006) gli atti richiesti che riguardano i titoli rilasciati per uno specifico intervento edilizio realizzato dalla controinteressata. Del resto lo stesso Comune con la nota inoltrata per conoscenza al ricorrente in data 24.05.2017 (e da quest’ultimo depositata) ha chiesto alla società controinteressata di evidenziare eventuali motivi di opposizione all’accesso agli atti in mancanza dei quali “procederà ad evadere” la richiesta; nonostante tale intendimento il Comune non risulta allo stato avere ancora adempiuto.
Quanto precede basta per concedere ingresso alla pretesa qui fatta valere, nella precisazione che siffatta decisione in nulla è condizionata da valutazioni circa la fondatezza delle eventuali pretese alla cui tutela l'acquisizione della documentazione è strumentale posto che, per costante giurisprudenza, il diritto di accesso è autonomo rispetto alla posizione giuridica posta a base della relativa istanza (cfr., per tutte, Tar Campania, questa sezione sesta, 11.03.2010, n. 1373).
In definitiva, alla luce di quanto fin qui argomentato, il ricorso deve essere accolto con conseguente accertamento del diritto all’ostensione, per effetto del quale l’amministrazione intimata dovrà consentire l’accesso, secondo le modalità indicate in dispositivo (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 21.06.2017 n. 3382 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAIl potere di autotutela è un potere discrezionale attribuito alle amministrazioni, che presuppone sia l'illegittimità dell'atto amministrativo annullando, sia la sussistenza di ragioni di interesse pubblico all'annullamento, entro un termine ragionevole.
La norma di cui all'art. 21-nonies L. n. 241/1990 prevede, dunque, che al fine di procedere all'annullamento d'ufficio di un atto amministrativo la P.A. necessita di un triplice ordine di presupposti: che l'atto sia illegittimo; che sussistano ragioni di interesse pubblico che ne giustifichino l'annullamento e che il tutto avvenga entro un termine ragionevole.
Nell’adozione dell’atto, inoltre, occorre tener conto degli interessi del destinatario; l’Amministrazione è infatti chiamata a svolgere un bilanciamento tra gli opposti interessi prima di decretare l’annullamento di un atto in autotutela. Di tutti questi elementi è necessario dare conto in motivazione.
In particolare, con riguardo all’annullamento di titoli edilizi, i presupposti per l’esercizio del potere di annullamento d'ufficio di un titolo edilizio devono rispondere ai requisiti di legittimità codificati nell'articolo 21-nonies della l. 07.08.1990, n. 241, consistenti nell'illegittimità originaria del titolo e nell'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino della legalità, comparato con i contrapposti interessi dei privati.
I presupposti dell'esercizio dell’autotutela dei titoli edilizi sono quindi costituiti dall'illegittimità originaria del provvedimento, dall'interesse pubblico concreto ed attuale alla loro rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari.
E’ noto che l'esercizio del potere di autotutela è espressione di rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia, l'Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei summenzionati presupposti.
L'ambito della motivazione esigibile è integrato dall'allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono (ambiente, paesaggio, salute, sicurezza, beni storici e culturali), che quasi sempre sono prevalenti rispetto a quelli contrapposti dei privati; nonché dell'eventuale negligenza o della malafede del privato che ha indotto in errore l'Amministrazione o ha approfittato di un suo errore (ad es. rappresentando in modo erroneo la situazione di fatto in base alla quale è stato rilasciato il titolo o sono stati individuati i legittimati attivi).
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Per quanto riguarda poi la disciplina dell’annullamento di ufficio anche questa risulta illegittimamente applicata dal Comune.
L’art. 21-nonies della legge 241/1990, nella formulazione ratione temporis applicabile, dispone infatti che “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge”.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che il potere di autotutela è un potere discrezionale attribuito alle amministrazioni, che presuppone sia l'illegittimità dell'atto amministrativo annullando, sia la sussistenza di ragioni di interesse pubblico all'annullamento, entro un termine ragionevole (Cons. Stato Sez. IV, 05.05.2016, n. 1808).
La norma di cui all'art. 21-nonies L. n. 241/1990 prevede dunque che al fine di procedere all'annullamento d'ufficio di un atto amministrativo la P.A. necessita di un triplice ordine di presupposti: che l'atto sia illegittimo; che sussistano ragioni di interesse pubblico che ne giustifichino l'annullamento e che il tutto avvenga entro un termine ragionevole. Nell’adozione dell’atto, inoltre, occorre tener conto degli interessi del destinatario; l’Amministrazione è infatti chiamata a svolgere un bilanciamento tra gli opposti interessi prima di decretare l’annullamento di un atto in autotutela. Di tutti questi elementi è necessario dare conto in motivazione (Cons. Stato Sez. III, 10.05.2017, n. 2169).
In particolare, con riguardo all’annullamento di titoli edilizi, i presupposti per l’esercizio del potere di annullamento d'ufficio di un titolo edilizio devono rispondere ai requisiti di legittimità codificati nell'articolo 21-nonies della l. 07.08.1990, n. 241, consistenti nell'illegittimità originaria del titolo e nell'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino della legalità, comparato con i contrapposti interessi dei privati (Consiglio di Stato, sez. VI, 29/01/2016, n. 351).
I presupposti dell'esercizio dell’autotutela dei titoli edilizi sono quindi costituiti dall'illegittimità originaria del provvedimento, dall'interesse pubblico concreto ed attuale alla loro rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari. E’ noto che l'esercizio del potere di autotutela è espressione di rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia, l'Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei summenzionati presupposti. L'ambito della motivazione esigibile è integrato dall'allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono (ambiente, paesaggio, salute, sicurezza, beni storici e culturali), che quasi sempre sono prevalenti rispetto a quelli contrapposti dei privati; nonché dell'eventuale negligenza o della malafede del privato che ha indotto in errore l'Amministrazione o ha approfittato di un suo errore (ad es. rappresentando in modo erroneo la situazione di fatto in base alla quale è stato rilasciato il titolo o sono stati individuati i legittimati attivi) (TAR Napoli, sez. VIII, 04/11/2015, n. 5117, sez, VI n. 3552/2016).
Nella fattispecie all’esame di questo giudice non emerge che l’Amministrazione abbia posto a fondamento della sua scelta alcuna argomentazione in merito all’interesse pubblico che si intende tutelare e alcuna ponderazione degli interessi coinvolti se non quella, peraltro errata, della non intervenuta decorrenza del termine assegnato alla Soprintendenza per pronunciarsi sulla autorizzazione paesaggistica n. 46 del 31/12/2009 rilasciata dal Comune e inoltrata all’Ente statale il 04.01.2010.
L’illegittimità dell’operato dell’amministrazione locale emerge ancor di più se si tiene conto che l’Amministrazione ha deciso di agire in autotutela dopo circa 3 anni dal rilascio del titolo, termine troppo lungo che imponeva una particolare istruttoria sia in merito all’affidamento ingenerato nei ricorrenti per il decorso del tempo che con riguardo alle ragioni di pubblico interesse.
Oltre al provvedimento assunto in autotutela n. 16014/2014, conseguentemente deve essere annullata anche l’ordinanza di demolizione n. 128/2014 assunta sulla base proprio del disposto annullamento in autotutela.
L’art. 27, comma 2, del d.P.R. 380/2001, richiamato nella detta ordinanza di demolizione prevede che “Il dirigente o il responsabile, quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, ……nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi…..”. Tale norma non può ritenersi applicabile alla presente fattispecie in quanto le opere contestate non risultano realizzate abusivamente, ma in forza del permesso di costruire n. 23/2011.
Conclusivamente il ricorso va accolto con il conseguente assorbimento delle ulteriori censure formulate e per l’effetto vanno annullati gli atti impugnati (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 21.06.2017 n. 3378 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa mancata notifica dell'ordinanza di demolizione a uno dei comproprietari non ne inficia la legittimità, comportandone semmai l'inefficacia relativa nei confronti del solo comproprietario interessato, ai fini della successiva acquisizione del bene al patrimonio pubblico.
Altresì, cui l'ordinanza di demolizione di opere abusive deve essere notificata oltre che al soggetto o ai soggetti responsabili dell'abuso anche al proprietario dell'area.
Il motivo per cui il proprietario viene ad essere destinatario dell'ordine di demolizione, pur in assenza di ogni coinvolgimento nella realizzazione delle opere non autorizzate, sta nel fatto che la legge pone a suo carico non una responsabilità (che sarebbe oggettiva e, come tale, contraria ai principi dell'ordinamento) ma un obbligo di cooperazione nella rimozione delle opere abusive il cui mancato adempimento può anche comportare la sanzione della acquisizione gratuita del terreno.
Si tratta di un obbligo di cooperazione il cui contenuto dipende dalle singole fattispecie: il proprietario incolpevole della singola particella sarà tenuto a non frapporre ostacoli alla demolizione, alla quale dovranno tuttavia provvedere i soggetti responsabili degli abusi. Non potrà essere riferita al proprietario incolpevole la previsione dell'ordinanza secondo la quale è possibile la sua esecuzione da parte dell'Amministrazione e a spese dei destinatari, essendo anche questa previsione necessariamente riferita ai responsabili dell'abuso, tenuti alla demolizione.

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Rispetto all'ordine demolizione non occorre alcun onere aggiuntivo motivazionale, trattandosi di atto dovuto e a contenuto vincolato ed inoltre la mancata comunicazione di avvio del procedimento dequota, secondo lo schema di cui all'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, a mera irregolarità non invalidante.
In altri termini, in materia di repressione di abusi edilizi, l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione circa le ragioni della sanzione, essendo sufficiente, a tal fine, la constatazione della natura abusiva del manufatto. Essa costituisce atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi.
L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere ulteriori indagini circa la sussistenza dell'interesse pubblico, concreto ed attuale, alla repressione dell'abuso né ad effettuare una comparazione tra questo e l'interesse privato alla conservazione del manufatto abusivo, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito ed al ripristino della legalità. L'ingiunzione di demolizione, infine, in quanto atto dovuto e dalla natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento.
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In sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia e non costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio.
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Prive di pregio si appalesano le censure di carattere formale-procedimentale, in disparte l’irrilevanza delle stesse a fronte di un provvedimento di natura vincolata a contenuto conforme rispetto ai dettami di legge (art. 21-octies, II co., L. 241/1990).
Ed, invero, per giurisprudenza pacifica (cfr. da ultimo TAR Venezia, sez. I, 20/11/2015, n. 1240), la mancata notifica dell'ordinanza di demolizione a uno dei comproprietari non ne inficia la legittimità, comportandone semmai l'inefficacia relativa nei confronti del solo comproprietario interessato, ai fini della successiva acquisizione del bene al patrimonio pubblico.
Del pari va ribadito il principio di diritto per cui l'ordinanza di demolizione di opere abusive deve essere notificata oltre che al soggetto o ai soggetti responsabili dell'abuso anche al proprietario dell'area.
Il motivo per cui il proprietario viene ad essere destinatario dell'ordine di demolizione, pur in assenza di ogni coinvolgimento nella realizzazione delle opere non autorizzate, sta nel fatto che la legge pone a suo carico non una responsabilità (che sarebbe oggettiva e, come tale, contraria ai principi dell'ordinamento) ma un obbligo di cooperazione nella rimozione delle opere abusive il cui mancato adempimento può anche comportare la sanzione della acquisizione gratuita del terreno.
Si tratta di un obbligo di cooperazione il cui contenuto dipende dalle singole fattispecie: il proprietario incolpevole della singola particella sarà tenuto a non frapporre ostacoli alla demolizione, alla quale dovranno tuttavia provvedere i soggetti responsabili degli abusi. Non potrà essere riferita al proprietario incolpevole la previsione dell'ordinanza secondo la quale è possibile la sua esecuzione da parte dell'Amministrazione e a spese dei destinatari, essendo anche questa previsione necessariamente riferita ai responsabili dell'abuso, tenuti alla demolizione.
Sul piano procedimentale –in disparte la corretta attivazione del meccanismo informativo-partecipativo ed i già svolti rilievi in punto di vizi formali non invalidanti– va ribadito l’assunto (cfr., da ultimo, TAR Napoli, sez. IV, 27/03/2017, n. 1668) per cui rispetto all'ordine demolizione non occorre alcun onere aggiuntivo motivazionale, trattandosi di atto dovuto e a contenuto vincolato ed inoltre la mancata comunicazione di avvio del procedimento dequota, secondo lo schema di cui all'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, a mera irregolarità non invalidante.
In altri termini, in materia di repressione di abusi edilizi, l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione circa le ragioni della sanzione, essendo sufficiente, a tal fine, la constatazione della natura abusiva del manufatto. Essa costituisce atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi.
L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere ulteriori indagini circa la sussistenza dell'interesse pubblico, concreto ed attuale, alla repressione dell'abuso né ad effettuare una comparazione tra questo e l'interesse privato alla conservazione del manufatto abusivo, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito ed al ripristino della legalità. L'ingiunzione di demolizione, infine, in quanto atto dovuto e dalla natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento.
Nel caso di specie, in particolare, le descritte opere risultano eseguite in assenza di atti abilitativi per costruire, ricadenti in zona P.I. , comportandone trasformazione urbanistica edilizia del territorio tanto da indurre il Comune di Capri a disporre la sanzione demolitoria prevista dall'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001. Oltre a ciò, le opere "abusive" risultano realizzate in violazione degli obblighi stabiliti dalle disposizioni del Titolo I, Parte Terza del Dlgs 22/01/2004 n. 42. Infine, le stesse opere risultano ricadere in zona classificata a rischio sismico di classe III dal 28/11/2002 ai sensi della L. 64/1974 e della L.R. 9/83 e pertanto sanzionate in applicazione del decreto legislativo n. 42/2004 n. 42, violando, tra l'altro, l'articolo 146 della stessa norma s.m.i..
Ne discende altresì l’infondatezza della censura relativa al mancato parere della Commissione edilizia, atteso che in sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia e non costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio (in termini TAR Napoli, sez. VI, 20/02/2017, n. 996) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 21.06.2017 n. 3377 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di pertinenzialità ai fini urbanistici ed edilizi ha connotati diversi da quelli civilistici, avendo rilievo determinante non tanto il legame materiale tra pertinenza e immobile principale, quanto che la prima non abbia autonoma destinazione e autonomo valore di mercato e che esaurisca la propria destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico e che vengano in rilievo manufatti di dimensioni estremamente modeste e ridotte, inidonei, quindi, ad alterare in modo significativo l'assetto del territorio.
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Infine e nel merito, non colgono nel segno le censure di merito volte ad evidenziare la mancata considerazione della vetustà delle opere in questione e la loro prevalente natura pertinenziale.
Di contro s’osserva, da un lato, che è del tutto irrilevante che alcuni manufatti siano già da tempo esistenti, atteso che –ed al fuori da vicende condonistiche legate all’epoca di realizzazione degli abusi- possono essere oggetto di demolizioni anche quelle opere abusive che comportino un aumento del volume dell'immobile preesistente; dall’altro lato i manufatti realizzati non possono essere considerate pertinenze, e quindi non soggette all'ordinanza di demolizione, avendo la giurisprudenza amministrativa chiarito che le opere, come nel caso di specie, aventi carattere di stabilità ed aventi un'utilizzazione autonoma, oltre a non poter essere considerate una mera pertinenza, costituiscono un'opera esterna per la cui costruzione occorre il permesso di costruire, non potendo fruire di regimi semplificati allorquando le loro dimensioni sono di entità tali da arrecare una visibile alterazione all'edificio, come nel caso che ci occupa.
Più in generale, deve ricordarsi come la nozione di pertinenzialità ai fini urbanistici ed edilizi ha connotati diversi da quelli civilistici, avendo rilievo determinante non tanto il legame materiale tra pertinenza e immobile principale, quanto che la prima non abbia autonoma destinazione e autonomo valore di mercato e che esaurisca la propria destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico e che vengano in rilievo manufatti di dimensioni estremamente modeste e ridotte, inidonei, quindi, ad alterare in modo significativo l'assetto del territorio, con la conseguenza che nel caso di specie, in ragione del dato qualitativo-quantitativo, non potrà riconoscersi siffatto carattere alle opere de quibus (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 21.06.2017 n. 3377 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Il Consiglio di Stato ha reso il parere in ordine alla competenza, a seguito del primo correttivo al Codice dei contratti pubblici, ad adottare gli atti di attuazione del sistema di qualificazione del contraente generale.
1. Oggetto del parere
Il Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione ha chiesto al Consiglio di Stato un parere in ordine alla portata degli artt. 197 e 199 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici).
Il quesito ha ad oggetto la competenza, a seguito del decreto legislativo 19.04.2017, n. 56 (Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50), ad adottare gli atti di attuazione del sistema di qualificazione del contraente generale: in particolare, il dubbio è sorto in quanto dalla lettura del citato articolo 197 sembra che la competenza sia dell’ANAC mediante l’adozione di linee guida, mentre dalla lettura del citato articolo 199 sembra che la competenza sia del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti mediante l’adozione di un decreto.
Si è trattato, pertanto, di stabilire se sia estensibile anche al sistema di qualificazione del contraente generale l’art. 83, coma 3, del d.lgs. n. 50 del 2016, come modificato dal decreto correttivo, nella parte in cui, recependo i rilievi prospettati dal Consiglio di Stato, con il parere 01.04.2016, n. 855, prevede che il sistema generale di qualificazione degli operatori economici debba avvenire mediante decreto ministeriale in ragione della natura “intrinsecamente normativa” del suo contenuto.
2. La risposta del Consiglio di Stato
Nel fornire la risposta al quesito nel parere è stata ricostruita la normativa che nel tempo si è succeduta in relazione al sistema di qualificazione degli operatori economici e del contraente generale.
Alla luce della ricostruzione effettuata la Commissione Speciale ha ritenuto che la volontà del legislatore sia stata quella di “estendere” anche al contraente generale la modifica che ha riguardato le disposizioni generali di qualificazione.
A tale conclusione, il Consiglio di Stato è pervenuto all’esito dell’analisi del dato letterale e della ragione sistematica dell’intervento correttivo.
Sul piano letterale, il legislatore ha modificato espressamente il regime transitorio di cui agli artt. 199 e 216, comma 27-bis, relativi al contraente generale, mediante un espresso richiamo al decreto di cui al secondo comma dell’art. 83. La mancata modifica anche dell’art. 197, per quanto si tratti della norma che pone la disciplina a regime, non può avere valenza determinante, proprio in ragione del fatto che la stessa non è stata oggetto di modifiche.
Sul piano della ragione sistematica, il legislatore del 2016 ha effettuato una chiara opzione a favore del sistema “unitario” che eviti differenziazioni di regime del sistema qualificazione dipendenti dalla presenza di un qualsiasi operatore economico ovvero di un contraente generale. In questo senso depone l’attribuzione alle SOA dei compiti di attestazione che nel precedente sistema erano affidati, per il solo contraente generale, ad un decreto ministeriale.
Deve, pertanto, presumersi che il legislatore del 2017 abbia inteso continuare lungo questo percorso unitario, estendendo anche al contraente generale la modifica che ha riguardato la natura delle fonti di regolazione. Del resto, si sottolinea nel parere, è la valenza intrinsecamente normativa dell’atto che giustifica la sua veste regolamentare. Ed è indubbio che tale valenza l’atto l’abbia anche quando esso trovi applicazione nell’ambito della disciplina del contraente generale.
3. Misure da adottare
In relazione al sistema di qualificazione nel parere sono stati segnalati alcuni errori materiali, conseguenza di un mancato coordinamento normativo che possono essere corretti con un avviso di rettifica.
In particolare, tale avviso dovrà sostituire i riferimenti alle linee guida contenuti nell’art. 83, comma 2, e nell’art. 216 con il riferimento al “decreto di cui all’art. 83, comma 2”.
In relazione al sistema di qualificazione del contraente generale, che è l’oggetto specifico del parere, la Commissione speciale ha sottolineato come la misura più idonea per ridare coerenza al sistema sia rimessa al legislatore. In questo caso, infatti, la difficoltà del ricorso al mero avviso di rettifica deriva dal fatto che non è sufficiente una mera sostituzione delle espressioni “linee guida” con “decreto di cui al secondo comma dell’art. 83”.
Ciò in quanto, il sistema di qualificazione rimane comunque affidato ad una pluralità di atti (linee guida e decreti regolamentari) che presentano un contenuto eterogeneo. E’ dunque necessaria una modifica sostanziale della norma (Consiglio di Stato, Comm. spec., parere 21.06.2017 n. 1479 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla distanza da osservare nel costruire un barbecue a confine.
Per l’art. 890 c.c. chi presso il confine vuole fabbricare forni o camini, per i quali può sorgere pericolo di danni, deve osservare le distanze stabilite dai regolamenti e, in mancanza, quelle necessarie a preservare i fondi vicini da ogni danno alla solidità, salubrità e sicurezza.
Tale articolo va quindi letto nel senso di considerare le cose espressamente elencate come gravate da una presunzione assoluta di nocività o pericolosità.
Il rispetto della distanza prevista dall’art. 890 c.c., nella cui regolamentazione rientrano anche i forni, è collegato ad una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisca la distanza medesima; mentre, in difetto di una disposizione regolamentare, si ha pur sempre una presunzione di pericolosità, seppure relativa, che può essere superata ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostri che mediante opportuni accorgimenti può ovviarsi al pericolo o al danno del fondo vicino.
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La Corte territoriale ha posto a fondamento della sua decisione le risultanze della consulenza tecnica di ufficio secondo le quali il barbecue in questione avrebbe dovuto essere collocato a non meno di 5-6 metri dalla proprietà del resistente (distanza che la corte territoriale ha affermato essere persino troppo modesta) e che il predetto manufatto invece era stato posto molto vicino alle finestre dell'abitazione privata di An.Ma., che risultavano "soprastanti per poche decine di centimetri", mentre la casa era situata "in posizione soprastante la piccola area esterna ove il sig. Ca.In. ha collocato il suo barbecue" e ha aggiunto che "le fotografie in atti sono più eloquenti di ogni scritto sull'argomento e il rinvio alla loro diretta visione potrebbe bastare quale motivazione della pronuncia giudiziale".
La Corte di appello ha qualificato il barbecue un forno e ha dato atto che il Tribunale, accogliendo la domanda ex art. 890 c.c. dell'attore aveva rilevato che era costituito da un manufatto in muratura il cui comignolo si trovava ad una distanza minima da meno di un metro a due metri circa da alcune finestre del soprastante appartamento dell'attore.
Per l'art. 890 c.c. chi presso il confine vuole fabbricare forni o camini, per i quali può sorgere pericolo di danni, deve osservare le distanze stabilite dai regolamenti e, in mancanza, quelle necessarie a preservare i fondi vicini da ogni danno alla solidità, salubrità e sicurezza.
Tale articolo va quindi letto nel senso di considerare le cose espressamente elencate come gravate da una presunzione assoluta di nocività o pericolosità.
Il rispetto della distanza prevista dall'art. 890 c.c., nella cui regolamentazione rientrano anche i forni
(tale essendo qualificato dalla Corte di appello il manufatto), è collegato ad una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisca la distanza medesima; mentre, in difetto di una disposizione regolamentare, si ha pur sempre una presunzione di pericolosità, seppure relativa, che può essere superata ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostri che mediante opportuni accorgimenti può ovviarsi al pericolo o al danno del fondo vicino (Cass. 22/10/2009 n. 22389; Cass. 06/03/2002 n. 3199).
Va precisato che
la presunzione che deve essere superata non è una presunzione di danno, ma una presunzione di pericolo che si produca il danna e prescinde dall'accertamento in concreto del danno, dovendo invece essere valutata in concreto la pericolosità del forno ancorché non in attività.
Ne discende quale necessaria conseguenza, l'irrilevanza di un accertamento svolto con il forno in funzione essendo invece sufficiente la potenzialità dell'esalazione nociva o molesta, potenzialità che è stata appunto accertata dal CTU A nulla rileva che l'apertura più vicina fosse una luce od una veduta e che si aprisse all'esterno del seminterrato, dovendosi tenere conto del complessivo mancato rispetto delle distanze come accertata in concreto dalla Corte di appello sulla base della CTU e in base alla posizione del forno rispetto all'immobile del resistente.
Il motivo deve pertanto essere rigettato.
2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione dell'art. 115 c.p.c. e sostiene che la Corte di appello ha erroneamente applicato la nozione del notorio ritenendo di comune esperienza la nocività delle immissioni provocate dal barbecue senza avere valutato in concreto la effettiva nocività e pericolosità del manufatto, amovibile in quanto soltanto appoggiato al suolo.
2.1. La Corte di appello ha rilevato che per il comune buon senso e per le nozioni di comune esperienza il carbone di legna è nocivo.
Il motivo è infondato perché
rientra ormai nella comune esperienza che dalla bruciatura del carbone di legna (come rilevato dalla Corte di appello) si sviluppa una sostanza cancerogena; già nel 2010 l'Agenzia Internazionale per la ricerca sul cancro ha inserito il fumo di legna tra i possibili agenti cancerogeni; va aggiunto che anche su quotidiani a larga tiratura è stata evidenziata la nocività dei fumi da barbecue (v. ad es. il quotidiano La Stampa 08/08/2012 inserto salute) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 20.06.2017 n. 15246 - massima tratta da https://renatodisa.com).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Si possono installare antenne per radioamatori su tetti condominiali senza titolo edilizio.
LE antenne come quella di cui si è dotato il ricorrente possono essere installate senza che sia necessario il rilascio di un titolo edilizio, una nozione che si può derivare con maggiore precisione dopo l’entrata in vigore del d.lvo 2003, n. 259.
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A diversa conclusione non può indurre la menzione operata in motivazione di due norme del regolamento edilizio comunale che imporrebbero l’acquisizione di un titolo edilizio per legittimare l’installazione del manufatto di che si tratta.
Al riguardo va considerato innanzitutto che l’art. 3, comma 2, del dpr 06.06.2001, n. 380 spiega un effetto sulla gerarchia delle fonti del diritto in materia edilizia che inibisce la possibilità di ritenere che un regolamento locale possa considerare un’attività costruttiva in modo differente rispetto ai principi generali posti dalla norma di legge citata.
Oltre a ciò il collegio deve richiamare adesivamente la motivazione della propria ordinanza cautelare (2000, n. 1167) nella parte in cui essa evidenziava l’impossibilità di derivare dalla lettura delle norme di regolamento l’obbligo di acquisizione del titolo edilizio per l’installazione dell’antenna.
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L’impugnazione è relativa ad un atto con cui il comune di Genova ha ingiunto all’interessato la rimozione dell’antenna per radioamatore installata sulla copertura dell’immobile condominiale ubicato in via ... 19. Il bene si eleva per circa undici metri.
In relazione alle censure proposte il collegio deve premettere una considerazione generale e assorbente in ordine alla situazione soggettiva dedotta: risulta infatti dall’esame della prevalente giurisprudenza in argomento (tar Lazio, Latina, 2011/861, tar Abruzzo, Pescara, 2009, n. 207, tar Piemonte, 2002, n. 2156) che le antenne come quella di cui si è dotato il ricorrente possono essere installate senza che sia necessario il rilascio di un titolo edilizio, una nozione che si può derivare con maggiore precisione dopo l’entrata in vigore del d.lvo 2003, n. 259.
La tesi è poi corroborata e non già smentita dalla giurisprudenza citata dalla difesa comunale, posto che le pronunce allegate presuppongono l’intervento autorizzativo della p.a. solo nel caso in cui l’impianto riguardi un sito paesisticamente rilevante, cosa che l’atto in questione non allega si sia verificato.
Ne deriva che, al di là delle censure dedotte, il provvedimento è carente nel presupposto che lo fonda, posto che esso non specifica la ragione per cui in una zona paesisticamente non significativa sarebbe necessario munirsi di un titolo edilizio per installare un’antenna da radioamatore.
A diversa conclusione non può indurre la menzione operata in motivazione di due norme del regolamento edilizio comunale che imporrebbero l’acquisizione di un titolo edilizio per legittimare l’installazione del manufatto di che si tratta.
Al riguardo va considerato innanzitutto che l’art. 3, comma 2, del dpr 06.06.2001, n. 380 spiega un effetto sulla gerarchia delle fonti del diritto in materia edilizia che inibisce la possibilità di ritenere che un regolamento locale possa considerare un’attività costruttiva in modo differente rispetto ai principi generali posti dalla norma di legge citata. Oltre a ciò il collegio deve richiamare adesivamente la motivazione della propria ordinanza cautelare (2000, n. 1167) nella parte in cui essa evidenziava l’impossibilità di derivare dalla lettura delle norme di regolamento l’obbligo di acquisizione del titolo edilizio per l’installazione dell’antenna.
Il ricorso è pertanto fondato e va accolto, conseguendo da ciò la condanna del comune soccombente alle spese di lite sostenute dall’interessato, oneri che vengono liquidati equamente date la natura della controversia e la lontananza nel tempo dei fatti per cui è lite (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 20.06.2017 n. 540 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda di risarcimento del danno asseritamente risentito per aver fatto affidamento sulla legittimità di provvedimenti urbanistici ed edilizi successivamente annullati dal Tar.
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Giurisdizione – Risarcimento danni - Affidamento sul legittimità di provvedimenti urbanistici ed edilizi successivamente annullati dal Tar – Controversia – Giurisdizione giudice ordinario.
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno asseritamente risentito per aver fatto affidamento sulla legittimità di provvedimenti urbanistici ed edilizi successivamente annullati dal Tar; la domanda giudiziale non attiene, infatti, ad atti e provvedimenti già adottati in materia, e neppure all’esercizio del potere amministrativo, espletatosi con l’approvazione del piano di lottizzazione e con il rilascio delle concessioni edilizie, ma all’attitudine del pregresso esercizio del potere amministrativo -sfociato nei provvedimenti illegittimi- a determinare come conseguenza causale l’insorgenza di un incolpevole affidamento nella permanenza della situazione di vantaggio ottenuta (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che la questione ricade nella giurisdizione del giudice ordinario perché involge l’apprezzamento del comportamento tenuto dalla pubblica amministrazione (cfr. Cass. civ., s.u., ord., 04.09.2015, n. 17586; id. 22.01.2015, n. 1162; id. 03.05.2013, n. 10305; id. 23.03.2011, n. 6594) (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 19.06.2017 n. 211 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Giustificazione della non anomalia dell'offerta di gara pubblica.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte anomale – Giustificazioni – Oggetto - Individuazione.
Ai sensi dell’art. 97, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, le giustificazioni rese dall’offerente nell’ambito del giudizio di anomalia della propria offerta devono riguardare elementi che concernono l’offerta stessa, tra cui l’economia del processo di fabbricazione dei prodotti, dei servizi prestati o del metodo di costruzione; le soluzioni tecniche prescelte o le condizioni eccezionalmente favorevoli di cui dispone l’offerente per fornire i prodotti, per prestare i servizi o per eseguire i lavori; l’originalità dei lavori, delle forniture o dei servizi proposti (1).
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   (1) Il Tar ha ritenuto inidonee a giustificare il notevole ribasso offerto dalla ricorrente le giustificazioni che si basano su elementi aleatori e futuri estranei all’offerta stessa, quali gli eventuali introiti che sarebbe possibile ricavare dalla vendita di un terreno ovvero dalla vendita di appartamenti da costruire sul terreno medesimo (TAR Umbria, sentenza 16.06.2017 n. 457 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. Viene all’esame del Collegio la legittimità degli atti riguardanti la procedura di gara per l’affidamento “dei lavori di realizzazione della Piazza dell’Archeologia con parte del corrispettivo costituito da trasferimento dell’immobile”, da effettuarsi presso il Comune di Città di Castello.
2. Con il primo motivo di ricorso, la società ricorrente sostiene che in sede di valutazione dell’anomalia della propria offerta, la stazione appaltante avrebbe errato nel ritenere insufficienti ed incongruenti le giustificazioni prodotte in ordine agli introiti derivanti dalla vendita del terreno che costituisce parte del corrispettivo, ovvero in relazione agli appartamenti che sarebbe possibile costruire e poi vendere su detto terreno.
2.1. Il motivo è infondato e va respinto.
2.2. Osserva infatti il Collegio che
ai sensi dell’art. 97 del d.lgs. n. 50/2016, le giustificazioni rese dall’offerente nell’ambito del giudizio di anomalia della propria offerta, devono riguardare elementi che concernono l’offerta stessa, tra cui: l’economia del processo di fabbricazione dei prodotti, dei servizi prestati o del metodo di costruzione; le soluzioni tecniche prescelte o le condizioni eccezionalmente favorevoli di cui dispone l’offerente per fornire i prodotti, per prestare i servizi o per eseguire i lavori; infine, l’originalità dei lavori, delle forniture o dei servizi proposti.
2.3. Contrariamente al suesposto dato normativo, la società ricorrente ha invece tentato di giustificare il notevole ribasso offerto, facendo affidamento su elementi aleatori e futuri estranei all’offerta stessa, quali gli eventuali introiti che sarebbe possibile ricavare dalla vendita del terreno facente parte della remunerazione della ditta aggiudicataria, ovvero dalla vendita di appartamenti da costruire sul terreno medesimo.
2.4. Appare pertanto corretta la valutazione effettuata dalla stazione appaltante, secondo cui deve ritenersi “infondata l’impostazione dell’impresa che ritiene di poter coprire costi derivanti dall’esecuzione del contratto mediante utili conseguibili eventualmente solo in un tempo successivo per mezzo di un negozio giuridico differente”.

EDILIZIA PRIVATA: Manufatto abusivo - Ingiunzione alla demolizione - Rigetto della richiesta di revoca o sospensione - Condanna definitiva - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Valutazione effettuata dall'amministrazione comunale - Criteri.
In materia urbanistica, la situazione particolare che viene a determinarsi in conseguenza della deliberazione comunale, sottraendo l'opera abusiva la suo normale destino, che è la demolizione, presuppone che la valutazione effettuata dall'amministrazione comunale sia estremamente rigorosa e deve essere puntualmente riferita al singolo manufatto, il quale va precisamente individuato, dando atto delle specifiche esigenze che giustificano la scelta, dovendosi escludere che possano assumere rilievo determinazioni di carattere generale riguardanti, ad esempio, più edifici o fondate su valutazioni di carattere generale (Sez. 3, n. 25824 del 22/05/2013, Mursia; V. anche Sez. 3, n. 9864 del 17/02/2016, Corleone e altro).
Immobile abusivo in zona sottoposta a vincolo paesaggistico - Condono edilizio ex legge 326/2003 - Provvedimento di sanatoria - Amministrazione comunale - Presupposti per l'emissione - Giurisprudenza.
La realizzazione, in area assoggettata a vincolo paesaggistico, di nuove costruzioni in assenza di permesso di costruire non è suscettibile di sanatoria (v. da ultimo, Sez. 3, n. 16471 del 17/02/2010, Giardina, nonché ex. pi. Sez. 3, n. 35222 del 11/04/2007, Manfredi e altro; Sez. 3, n. 38113 del 03/10/2006, De Giorgi; Sez. 4, n. 12577 del 12/01/2005, Ricci) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.06.2017 n. 30170 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla non sanabilità di un parcheggio per camion, abusivamente realizzato in zona agricola mediante livellamento del terreno e successivo riporto di ghiaia.
Quanto al parcheggio, funzionale all’esercizio delle attività di trasporto di cui era all’epoca titolare il marito della ricorrente, è del pari evidente la incompatibilità anche solo dell’inghiaiamento, sia con l’autorizzazione al livellamento per miglioramento della funzionalità agricola, sia con la destinazione agricola di zona (come pure con quella asseritamente sopravvenuta a “zona per impianti tecnologici”), nonché con l’art. 48 delle NTA dell’epoca, che escludevano in zona agricola qualsiasi deposito non funzionale all’attività agricola.
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Con gli atti impugnati il Comune di Crespano del Grappa ha denegato (18/19.05.2000, n. 2499) la sanatoria e il nulla osta paesistico di un parcheggio per camion, abusivamente realizzato in zona agricola mediante livellamento del terreno e successivo riporto di ghiaia, e di un muro di recinzione e contenimento a confine con il fondo adiacente del vicino, situato a livello inferiore.
L’autorizzazione 24.11.1990 per l’esecuzione di recinzione metallica su pali in ferro e per il “livellamento della depressione presente nel terreno agricolo"........... “al fine di realizzare un miglioramento fondiario del terreno” medesimo, non può evidentemente coprire la realizzazione di un muro di contenimento per proteggere il fondo confinante dal deflusso dell’acqua piovana e dal franamento del materiale ghiaioso (abusivamente riportato), né lo spianamento del terreno agricolo e la sua copertura con un materiale ghiaioso per realizzarvi un parcheggio, trattandosi di opere ben diverse da quelle autorizzate.
Un muro lungo 52 m e di altezza 2.40 (giustamente misurata dal piano di campagna esterno, perché i limiti di altezza, ed anche il vincolo paesaggistico di zona sono imposti a tutela dell’interesse pubblico e del contesto ambientale e non del fondo di sedime dell’abuso) è cosa ben diversa dalla recinzione metallica su pali (es. TAR Campania 677/2017; TAR Bologna I sez., 1003/2014); senza contare che l’art. 88 della NTA allora vigenti consentiva in zona agricola solo la recinzione delle aree di pertinenza dei fabbricati, in nessun caso di altezza superiore ai 2 m, quindi non vi era alcuna possibilità di sanatoria per mancanza della doppia conformità.
Quanto al parcheggio, funzionale all’esercizio delle attività di trasporto di cui era all’epoca titolare il marito della ricorrente, è del pari evidente la incompatibilità anche solo dell’inghiaiamento, sia con l’autorizzazione al livellamento per miglioramento della funzionalità agricola, sia con la destinazione agricola di zona (come pure con quella asseritamente sopravvenuta a “zona per impianti tecnologici”), nonché con l’art. 48 delle NTA dell’epoca, che escludevano in zona agricola qualsiasi deposito non funzionale all’attività agricola (cfr. TAR Veneto II, n. 5244/2010, Tar Campania VIII, n. 1397/2016, TAR Val D’Aosta I sez., n. 55/2016).
Anche per questo abuso, dunque, la sanatoria non poteva che essere de negata per mancanza della doppia conformità.
Tanto premesso sulle caratteristiche del muro di contenimento, è evidente che il diniego del nulla osta paesaggistico è adeguatamente motivato con l’affermazione che il muro “per posizione e tipologia interrompe i coni visuali di pregio ambientale” (cfr. Tar Toscana III 1238/2012 sui limiti dell’onere motivazionale del diniego di autorizzazione paesaggistica).
Dunque, tutti i motivi sono infondati.
Il ricorso è respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 15.06.2017 n. 572 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Esclusione dalla gara per l’affidamento in concessione di un servizio per omesso versamento del contributo all’Anac.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Per omesso versamento del contributo all’Anac – Gara per l’affidamento in concessione di un servizio – Non comporta l’esclusione.
L’omesso versamento, da parte del concorrente di una gara pubblica per l’affidamento in concessione di un servizio, del contributo all’Anac, previsto dall’art. 1, comma 67, l. 23.12.2005, n. 266, non comporta l’esclusione dalla procedura, non essendo il cit. comma 67 dell’art. 1 applicabile alla concessione di servizi (1).

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   (1) Ha chiarito il Tar che l’art. 1, comma 67, l. 23.12.2005, n. 266 pone il versamento del contributo all’Anac come condizione di ammissibilità dell’offerta unicamente per gli appalti di opere pubbliche. Ne consegue che, in difetto di espressa previsione di legge, tale previsione non può estendersi alle concessioni di servizi, perché una simile estensione risulterebbe incompatibile con il principio di tassatività delle cause di esclusione dalla gara previsto dall’art. 83, comma 8, d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
Ad avviso del Tribunale, inoltre, l’estensione alle concessioni di servizi della causa di esclusione dagli appalti pubblici consistente nel mancato versamento del contributo all’Anac si porrebbe in contrasto anche con il principio generalissimo che non consente l’applicazione di una norma eccezionale fuori dai casi da essa espressamente contemplati.
Il Tar ha quindi concluso che in base all’ora vista pronuncia dei giudici comunitari, il principio di parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza ostano all’esclusione di un operatore economico da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico in seguito al mancato rispetto, da parte di tale operatore, dell’obbligo di pagamento di un contributo (nel caso di specie: il contributo all’Anac) che non risulti espressamente dai documenti di gara o da norme di legge, bensì da una loro interpretazione (non condivisibile, per quanto sopra detto): infatti, in tali circostanze, i principi di parità di trattamento e di proporzionalità non ostano a che si consenta al citato operatore economico di regolarizzare la propria posizione e di adempiere a tale obbligo entro un termine fissatogli dall’amministrazione aggiudicatrice (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 15.06.2017 n. 563 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
- Considerato, in particolare, che nel merito le censure della ricorrente si incentrano, a ben guardare, tutte sulla stessa questione, cioè sul mancato versamento nella gara de qua, da parte della S.. S.r.l., del contributo all’Autorità di Vigilanza (ora all’A.N.A.C.) di cui all’art. 1, comma 67, della l. n. 266/2005;
- Considerato, tuttavia, che come già accennato in sede cautelare, l
’art. 1, comma 67, della l. n. 266 cit. non è applicabile alla fattispecie all’esame, avente ad oggetto una concessione di servizi, poiché la disposizione in parola pone il versamento del ridetto contributo come condizione di ammissibilità dell’offerta unicamente per gli appalti di opere pubbliche: la succitata condizione di ammissibilità non può, in difetto di espressa previsione di legge, estendersi alle concessioni di servizi, perché una simile estensione risulterebbe incompatibile con il principio di tassatività delle cause di esclusione dalla gara (v. art. 83, comma 8, del d.lgs. n. 50/2016 ed in passato art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006);
- Osservato, inoltre, che
l’estensione alle concessioni di servizi della causa di esclusione dagli appalti pubblici consistente nel mancato versamento del contributo all’A.N.A.C. si porrebbe in contrasto, oltre che con la lettera della legge, con il principio generalissimo che non consente l’applicazione di una norma eccezionale fuori dai casi da essa espressamente contemplati;
- Considerato, ancora, che
anche ove si volesse sostenere la doverosità del versamento del contributo nel caso di specie e che, pertanto, la S. S.r.l. fosse tenuta a versarlo, ne deriverebbe non già l’esclusione di detta società per il mancato versamento del contributo, ma soltanto la fissazione alla società stessa di un termine per regolarizzare la propria posizione (così il recentissimo arresto della Corte Giust. UE, 02.06.2016, n. 27);
- Considerato, infatti, che, in base all’ora vista pronuncia dei giudici comunitari,
il principio di parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza ostano all’esclusione di un operatore economico da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico in seguito al mancato rispetto, da parte di tale operatore, dell’obbligo di pagamento di un contributo (nel caso di specie: il contributo all’AVCP) che (come nella vicenda qui in esame) non risulti espressamente dai documenti di gara o da norme di legge, bensì da una loro interpretazione (non condivisibile, per quanto sopra detto): infatti, in tali circostanze, i principi di parità di trattamento e di proporzionalità non ostano a che si consenta al citato operatore economico di regolarizzare la propria posizione e di adempiere a tale obbligo entro un termine fissatogli dall’amministrazione aggiudicatrice;
- Ritenuto in definitiva, alla luce di quanto si è esposto, di dover dichiarare il ricorso manifestamente infondato ai sensi dell’art. 74 c.p.a..

EDILIZIA PRIVATACome è noto, soltanto con l’entrata in vigore dell’articolo 10 della legge 06.08.1967, n. 765 (c.d. “legge ponte”) è stato novellato l’articolo 31 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, mediante l’introduzione dell’obbligo generalizzato di munirsi della licenza edilizia per tutte le trasformazioni edificatorie dei suoli eseguite nell’intero territorio comunale. In precedenza, tale obbligo aveva invece una portata limitata, in quanto il richiamato articolo 31 stabiliva, al primo comma, che “Chiunque intenda eseguire nuove costruzioni edilizie ovvero ampliare quelle esistenti o modificarne la struttura o l'aspetto nei centri abitati ed ove esista il piano regolatore comunale, anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art. 7, deve chiedere apposita licenza al podestà del comune”.
Dalla suddetta disposizione deriva che, per le costruzioni realizzate prima dell’entrata in vigore della novella del 1967, la licenza edilizia non fosse richiesta, salvo che l’opera ricadesse nel centro abitato o nelle zone di espansione, e salvo inoltre –secondo l’orientamento fatto proprio recentemente dalla Sezione– il caso in cui l’obbligo di munirsi del titolo edilizio fosse comunque previsto dai regolamenti edilizi comunali.
La giurisprudenza ha, inoltre, ripetutamente affermato che “l’onere della prova sul possesso del titolo edilizio richiesto e, più in generale, circa l’epoca di realizzazione delle opere della cui demolizione di tratta e sulla legittimità degli interventi effettuati grava sul privato e non sulla P.A.”.
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Ritiene il Collegio che, con riferimento alle opere realizzate prima del 1967, l’applicazione di quest’ultimo principio comporti, ai fini del riparto dell’onere della prova, che spetta all’interessato dimostrare che l’edificio sia stato realizzato prima dell’entrata in vigore della novella che ha generalizzato l’obbligo di munirsi del titolo edilizio, e che tuttavia, una volta che la parte abbia dato questa prova, sia onere del Comune dimostrare che, nonostante l’epoca di realizzazione, l’edificazione richiedesse comunque il rilascio del titolo edilizio.
Ciò sia in quanto l’esistenza di una delle condizioni comportanti comunque la necessità della licenza costituisce un fatto impeditivo del dispiegarsi della situazione soggettiva allegata dal privato, sia per ragioni di prossimità della prova, atteso che, a distanza di molti anni, può risultare estremamente difficile per l’interessato acquisire la documentazione necessaria a dimostrare –in negativo– che la costruzione, all’epoca della sua realizzazione, non ricadesse in alcuna delle situazioni che avrebbero richiesto il previo rilascio del titolo edilizio.
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1. Con la proposizione del ricorso introduttivo del presente giudizio, la signora An.Ca.Da. ha impugnato l’ordinanza del Comune di Mandello del Lario in data 30.12.2015, con la quale le è stata ordinata la rimessione in pristino delle opere realizzate in difformità dal “Nulla Osta esecuzione opere edilizie” n. 1749 del 26.02.1962, con conseguente riconduzione dell’unità abitativa posta al quarto piano – sottotetto del fabbricato in Via ... 16/H alla destinazione di “ripostiglio”.
2. La ricorrente allega di aver acquistato nel 2011, mediante la stipulazione di un contratto di compravendita, la mansarda oggetto del provvedimento repressivo comunale. L’unità immobiliare, secondo quanto pure evidenziato dalla parte, sarebbe stata realizzata, con le stesse caratteristiche con le quali si presenta oggi, nel 1963, allorché fu costruito il fabbricato nel quale si colloca, e da allora sarebbe stata sempre destinata ad uso abitativo. L’esistenza della mansarda sarebbe peraltro nota da tempo all’Amministrazione, in quanto indicata nella relazione e certificato di collaudo delle opere in cemento armato del 1963, presente agli atti del Comune.
...
7. Il ricorso è fondato, dovendo trovare accoglimento il terzo motivo articolato dalla ricorrente, per le ragioni che di seguito si espongono.
8. Il provvedimento impugnato ha ordinato il ripristino della destinazione a ripostiglio della mansarda di proprietà della ricorrente, sulla base del riscontro della difformità della destinazione d’uso impressa all’immobile rispetto a quanto previsto dal nulla osta rilasciato nel 1962 per la costruzione dell’edificio ove è posto l’appartamento. La medesima ordinanza fa, inoltre, riferimento alla circostanza che l’unità abitativa non è indicata nel certificato di abitabilità, che si riferisce alle unità fino al terzo piano (mentre l’appartamento della ricorrente, come detto, si pone al quarto piano, costituito dal sottotetto).
9. Al riguardo, deve tenersi presente che come è noto, soltanto con l’entrata in vigore dell’articolo 10 della legge 06.08.1967, n. 765 (c.d. “legge ponte”) è stato novellato l’articolo 31 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, mediante l’introduzione dell’obbligo generalizzato di munirsi della licenza edilizia per tutte le trasformazioni edificatorie dei suoli eseguite nell’intero territorio comunale. In precedenza, tale obbligo aveva invece una portata limitata, in quanto il richiamato articolo 31 stabiliva, al primo comma, che “Chiunque intenda eseguire nuove costruzioni edilizie ovvero ampliare quelle esistenti o modificarne la struttura o l'aspetto nei centri abitati ed ove esista il piano regolatore comunale, anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art. 7, deve chiedere apposita licenza al podestà del comune”.
9.1 Dalla suddetta disposizione deriva che, per le costruzioni realizzate prima dell’entrata in vigore della novella del 1967, la licenza edilizia non fosse richiesta, salvo che l’opera ricadesse nel centro abitato o nelle zone di espansione, e salvo inoltre –secondo l’orientamento fatto proprio recentemente dalla Sezione– il caso in cui l’obbligo di munirsi del titolo edilizio fosse comunque previsto dai regolamenti edilizi comunali (per quest’ultimo profilo v. Cons. Stato, Sez. VI, 07.08.2015, n. 3899; Id., Sez. IV, 21.10.2008, n. 5141; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 09.01.2017, n. 37).
9.2 La giurisprudenza ha, inoltre, ripetutamente affermato che “l’onere della prova sul possesso del titolo edilizio richiesto e, più in generale, circa l’epoca di realizzazione delle opere della cui demolizione di tratta e sulla legittimità degli interventi effettuati grava sul privato e non sulla P.A.” (in questo senso, ex multis: Cons. Stato, Sez. VI, 05.01.2015, n. 13).
Ritiene il Collegio che, con riferimento alle opere realizzate prima del 1967, l’applicazione di quest’ultimo principio comporti, ai fini del riparto dell’onere della prova, che spetta all’interessato dimostrare che l’edificio sia stato realizzato prima dell’entrata in vigore della novella che ha generalizzato l’obbligo di munirsi del titolo edilizio, e che tuttavia, una volta che la parte abbia dato questa prova, sia onere del Comune dimostrare che, nonostante l’epoca di realizzazione, l’edificazione richiedesse comunque il rilascio del titolo edilizio. Ciò sia in quanto l’esistenza di una delle condizioni comportanti comunque la necessità della licenza costituisce un fatto impeditivo del dispiegarsi della situazione soggettiva allegata dal privato, sia per ragioni di prossimità della prova, atteso che, a distanza di molti anni, può risultare estremamente difficile per l’interessato acquisire la documentazione necessaria a dimostrare –in negativo– che la costruzione, all’epoca della sua realizzazione, non ricadesse in alcuna delle situazioni che avrebbero richiesto il previo rilascio del titolo edilizio.
10. Facendo applicazione di questi principi nel caso oggetto del presente giudizio, deve riscontrarsi che il fabbricato in cui è posta l’unità abitativa della ricorrente risulta essere stato realizzato nel 1963, come emerge dalla circostanza che in quell’anno furono emessi non solo il collaudo dei cementi armati (doc. 8 della ricorrente), ma anche il permesso di abitabilità (doc. 9 della ricorrente).
La signora Da. ha inoltre affermato che l’unità abitativa di sua proprietà, posta nel sottotetto, è stata realizzata con le attuali caratteristiche sin dal momento della costruzione dell’edificio, e a comprova di questa circostanza ha richiamato la relazione e certificato di collaudo delle opere in cemento armato del 1963, ove si legge che “Il sottotetto è accessibile mediante scala: nello stesso sottotetto sono stati ricavati due piccoli appartamenti in falda di tetto” (v. ancora il doc. 8 della ricorrente).
Sulla scorta di questi elementi di fatto, deve ritenersi effettivamente dimostrato che la destinazione del sottotetto a residenza sia avvenuta in epoca precedente al 1967. Circostanza, questa, peraltro non contestata dall’Amministrazione, né nel provvedimento impugnato, né in giudizio.
11. A fronte di questo dato, il Comune aveva perciò l’onere, secondo quanto sopra si è detto, di accertare –dandone conto nella motivazione dell’ordinanza di demolizione– che, nonostante l’epoca di realizzazione, le opere fossero soggette al rilascio del titolo edilizio.
11.1 Ciò, tuttavia, non emerge dalla lettura del provvedimento impugnato, il quale si limita a riscontrare la difformità del locale sottotetto rispetto al nulla osta rilasciato per l’edificazione dell’intero fabbricato nel 1962. La circostanza che sia stato emesso un “nulla osta” per l’esecuzione dell’intervento edificatorio non dimostra però, di per sé, che il previo rilascio del titolo fosse condizione necessaria per l’edificazione. E, d’altro canto, ove il titolo non fosse stato indispensabile, dovrebbe pure ritenersi irrilevante la circostanza che, nella realizzazione dell’intervento, l’allora proprietario si sia discostato dal nulla osta rilasciatogli.
11.2 Deve poi rilevarsi che, soltanto in giudizio, il Comune ha sostenuto, nelle proprie difese, che il fabbricato nel quale è situato il sottotetto si troverebbe “nel nucleo abitato consolidato del Comune” (v. memoria comunale in data 11.04.2016, p. 7). Secondo la prospettazione dell’Amministrazione, ciò si desumerebbe:
- dalla perimetrazione del centro edificato operata ai sensi della legge n. 865 del 1971, risultante dal Piano Regolatore Generale, la quale evidenzierebbe come l’abitato sia largamente sviluppato intorno all’edificio (doc. 5 del Comune);
- dalla fotografia tratta da Google Maps datata settembre 2010, che permetterebbe di riscontrare l’edificazione in epoca risalente dei fabbricati circostanti (doc. 14 del Comune).
I suddetti elementi, come anticipato, non risultano tuttavia essere stati fatti oggetto dell’istruttoria procedimentale e, comunque, non sono idonei a dimostrare la precisa circostanza che, nel 1963, l’area su cui sorge il fabbricato facesse parte del centro abitato.
11.3 Sotto altro profilo, non è dirimente, al fine di sorreggere la legittimità dell’ordinanza di demolizione, la circostanza che l’area entro la quale ricade l’immobile sia soggetta a vincolo paesaggistico.
Secondo l’Amministrazione, da questo dato dovrebbe discendere la necessarietà del provvedimento adottato, essendo stata disattesa l’autorizzazione rilasciata dalla Soprintendenza in relazione al progetto del 1962.
Al riguardo, deve tuttavia osservarsi che dalle motivazioni dell’ordinanza emerge che il profilo di difformità riscontrato rispetto all’autorizzazione paesaggistica attiene solo al numero e alle dimensioni delle finestre, ossia a profili che di per sé avrebbero potuto giustificare unicamente un provvedimento diretto a disporre la regolarizzazione delle aperture, ma non anche il ripristino della destinazione del sottotetto a ripostiglio. E ciò in quanto il mero utilizzo del locale sottotetto per finalità abitative, e la realizzazione di opere interne atte a realizzare la predetta destinazione, non incidono, di per se stessi, sull’aspetto esteriore dell’edificio, e sono quindi irrilevanti, come tali, dal punto di vista paesaggistico.
12. In definitiva, il provvedimento impugnato risulta affetto dai dedotti vizi di difetto di istruttoria e di motivazione, sotto i profili illustrati.
Il ricorso va quindi accolto, con assorbimento delle rimanenti censure, e va disposto, per l’effetto, l’annullamento del provvedimento impugnato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.06.2017 n. 1354 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI -EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della legittimità di un provvedimento non è necessario che la motivazione contenga un’analitica confutazione delle osservazioni e controdeduzioni svolte dalla parte, essendo invece sufficiente che dalla motivazione si evinca che l’amministrazione abbia effettivamente tenuto conto nel loro complesso di quelle osservazioni e controdeduzioni per la corretta formazione della propria volontà o del proprio giudizio.
Ciò che si richiede, ai fini della giustificazione del provvedimento, è quindi una motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell’atto stesso, ossia una esternazione motivazionale che renda, nella sostanza, percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione amministrativa alle deduzioni partecipative.

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9. Il ricorso è infondato.
10. Non può, anzitutto, trovare accoglimento il primo motivo, con il quale la ricorrente allega la violazione delle garanzie di partecipazione procedimentale, a causa dell’omessa valutazione delle osservazioni presentate dopo la ricezione della comunicazione di avvio del procedimento.
10.1 Al riguardo, deve richiamarsi l’unanime orientamento giurisprudenziale secondo il quale “ai fini della legittimità di un provvedimento non è necessario che la motivazione contenga un’analitica confutazione delle osservazioni e controdeduzioni svolte dalla parte, essendo invece sufficiente che dalla motivazione si evinca che l’amministrazione abbia effettivamente tenuto conto nel loro complesso di quelle osservazioni e controdeduzioni per la corretta formazione della propria volontà o del proprio giudizio” (così Cons. Stato, Sez. V, 02.10.2014, n. 4928). Ciò che si richiede, ai fini della giustificazione del provvedimento, è quindi una motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell’atto stesso, ossia una esternazione motivazionale che renda, nella sostanza, percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione amministrativa alle deduzioni partecipative (Cons. Stato, Sez. V, 13.02.2017, n. 603, che conferma TAR Lazio, Sez. II Ter, 07.10.2015, n. 11504).
10.2 Nel caso oggetto del presente giudizio, il provvedimento impugnato ha bensì evidenziato che la parte interessata avesse presentato “deduzione e documenti”, ma li ha ritenuti “non rilevanti ai fini del presente procedimento”.
Tale affermazione deve ritenersi sufficiente, posto che le ragioni per le quali l’Amministrazione non ha accolto quanto prospettato dall’interessata sono evincibili dalle ampie motivazioni del provvedimento amministrativo, che si contrappongono agli argomenti sostenuti nelle osservazioni della parte, in questo senso risultati non idonei a sorreggere un diverso esito del procedimento.
10.3 E invero, la parte aveva sostenuto, anzitutto, che dal tenore della comunicazione di avvio del procedimento, ove si afferma che il permesso di costruire n. 45 del 2012 era stato rilasciato “per tali opere”, dovesse ricavarsi che, secondo lo stesso Comune, l’intervento accertato in occasione del sopralluogo fosse conforme al predetto titolo edilizio.
Tale osservazione è stata implicitamente confutata dall’Amministrazione, la quale –chiarendo l’affermazione contenuta nella comunicazione di avvio del procedimento cui si era riferita la società– ha evidenziato che le opere non corrispondessero affatto a quelle oggetto del precedente permesso di costruire (che infatti aveva ad oggetto un intervento del tutto diverso, consistenti soltanto in una recinzione). In questo senso le opere sono state dichiarate “difformi” dal precedente titolo edilizio.
Una volta rilevata la mancanza di corrispondenza dell’intervento rispetto all’oggetto del permesso di costruire (circostanza, peraltro, obiettivamente riscontrabile), era irrilevante che il Comune confutasse gli argomenti spesi dalla parte per sostenere che il titolo edilizio non fosse decaduto.
Infine, la ricostruzione del Comune in ordine alla disciplina urbanistica applicabile all’area costituisce un’implicita confutazione della diversa prospettazione operata, sul punto, dalla società con la presentazione delle osservazioni.
10.4 Il motivo va, perciò, rigettato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.06.2017 n. 1351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione di opere edilizie abusive non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, al quale va garantita soltanto la possibilità di partecipare a quelle attività di rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa l’adozione del provvedimento repressivo.
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11. E’ pure infondato il secondo motivo, con il quale la parte lamenta la mancanza di corrispondenza, quanto all’individuazione dell’illecito edilizio, tra la comunicazione di avvio del procedimento e l’ordinanza di rimessione in pristino, oltre che la genericità di quest’ultima nell’indicare le opere come meramente difformi dal permesso di costruire.
11.1 La ricorrente insiste, anzitutto, sulla circostanza che –a suo avviso– dalla comunicazione di avvio del procedimento si evincerebbe che le opere fossero state ritenute conformi al permesso di costruire, per cui la loro abusività veniva fatta dipendere soltanto dalla ritenuta decadenza dello stesso titolo edilizio. Nel provvedimento conclusivo, invece, si afferma la difformità delle opere dal permesso di costruire, benché decaduto.
Secondo la parte, la differente impostazione dell’ordinanza di demolizione rispetto alla comunicazione di avvio del procedimento avrebbe, perciò, frustrato le garanzie di partecipazione procedimentale.
11.2 La prospettazione della parte non può essere condivisa.
Al riguardo, va anzitutto evidenziato che, secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, l’ordine di demolizione di opere edilizie abusive non richiede neppure la previa comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, al quale va garantita soltanto la possibilità di partecipare a quelle attività di rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa l’adozione del provvedimento repressivo (Cons. Stato, Sez. V, 07.06.2015, n. 3051). E, nel caso oggetto del presente giudizio, il rilevamento dello stato dei luoghi non è oggetto di contestazione.
11.3 Peraltro, l’Amministrazione ha effettivamente inviato all’interessata la comunicazione dell’avvio di un procedimento sanzionatorio degli abusi edilizi, evidenziando –secondo quanto sopra riportato– che le opere fossero state realizzate in assenza di titolo abilitativo. La ricorrente è stata così messa pienamente in grado di partecipare al procedimento, presentando le proprie osservazioni, al fine di dimostrare il carattere non illecito delle opere.
La circostanza, poi, che il tenore del provvedimento finale non corrisponda esattamente, per qualche profilo, alla comunicazione di avvio del procedimento non potrebbe in ogni caso costituire, di per sé, una lesione delle prerogative di partecipazione procedimentale dell’interessato. E ciò in quanto l’Amministrazione –nei procedimenti a iniziativa d’ufficio– è tenuta soltanto a rendere noto l’avvio dell’iter, ma non anche a comunicare lo schema finale del provvedimento che intende adottare. Tanto più quando avviene che, come nel caso di specie, il diverso tenore del provvedimento conclusivo dipenda proprio dalla necessità di chiarire profili (la corrispondenza o meno delle opere rispetto al precedente permesso di costruire) posti all’attenzione dell’Amministrazione dall’apporto partecipativo dell’interessato.
11.4 La parte lamentata poi la genericità dell’ordinanza di demolizione, nella parte in cui accerta la difformità delle opere rispetto al titolo, senza precisare se si tratti di difformità totale o parziale, e senza considerare che, secondo la tesi della parte, dovrebbe trovare applicazione analogica, pur in assenza della realizzazione di volumi edilizi, l’articolo 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, che imporrebbe di considerare irrilevante tale difformità.
La censura non può essere accolta.
Con l’uso del termine “difformità” l’amministrazione ha inteso affermare che le opere non fossero sorrette dal precedente permesso di costruire. Come detto, infatti, il titolo edilizio rilasciato nel 2012 si riferiva a una recinzione, mentre le opere sanzionate dal provvedimento impugnato consistono in una asfaltatura diretta ad allargare l’accesso carrabile e nella realizzazione di uno spazio adibito a parcheggio.
Ciò posto, deve tenersi presente che l’assenza di titolo e la totale difformità rispetto a questo sono del tutto assimilate quanto al trattamento sanzionatorio, per cui non è giuridicamente rilevante stabilire se si versi nell’una o nell’altra ipotesi. Conseguentemente, è pure irrilevante una eventuale improprietà terminologica del provvedimento su questo punto. E’, invece, radicalmente escluso che il tenore dell’ordinanza impugnata potesse ingenerare alcun dubbio circa la possibilità di ricondurre le opere alla fattispecie della mera difformità parziale dal permesso di costruire, tenuto conto degli atti del procedimento e della circostanza che sin dal verbale di sopralluogo era stata rilevato che le opere non fossero sorrette da alcun titolo. Nessuno spazio poteva trovare, quindi, l’applicazione analogica dell’articolo 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, ipotizzata dalla ricorrente, al fine di pervenire alla qualificazione delle “difformità” come irrilevanti.
11.5 Il motivo va, quindi, rigettato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.06.2017 n. 1351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La possibilità di procedere ad interventi ricadenti nell’ambito della c.d. ‘attività edilizia libera’ non opera in modo incondizionato, ma resta pur sempre subordinata (in base al comma 1 dell’articolo 6 del d.P.R. 380, cit.) al rispetto “[delle] prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e comunque [al] rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia (…)”.
La conformità urbanistica costituisce dunque un presupposto per l’esecuzione degli interventi di attività edilizia libera, e non una conseguenza della mera astratta riconducibilità dell’opera, in base alle sue caratteristiche tipologiche, nell’elencazione contenuta all’articolo 6 del d.P.R. n. 380 del 2001.

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12. Con il terzo motivo, infine, la ricorrente sostiene –in estrema sintesi– la conformità urbanistica delle opere.
La prospettazione della parte, tuttavia, non convince.
12.1 Sotto un primo profilo, la società allega che le opere consisterebbero nella mera pavimentazione dell’area e sarebbero, quindi, riconducibili nell’ambito dell’attività edilizia libera, ai sensi dell’articolo 6 del d.P.R. n. 380 del 2001. Secondo la parte, dall’applicazione di quest’ultima disposizione deriverebbe la possibilità di realizzare tali opere in qualunque porzione del territorio comunale, a prescindere dalla destinazione urbanistica. Conseguentemente, il Comune non avrebbe dovuto ordinare la rimessione in pristino, ma soltanto comminare la sanzione pecuniaria, per l’omessa comunicazione dell’intervento, secondo quanto prescritto dalla disciplina vigente al tempo della realizzazione dell’intervento.
Rileva il Collegio che –come ben evidenziato dalla difesa comunale– la medesima questione attinente all’interpretazione dell’articolo 6, sopra richiamato, è già stata affrontata in una pronuncia del Consiglio di Stato, peraltro relativa a un caso del tutto analogo a quello oggetto del presente giudizio. Si trattava infatti parimenti di opere di pavimentazione realizzate nel territorio del medesimo Comune di Seregno, in area destinata a standard d’uso pubblico (in quel caso “S/SA – massa boscata”).
E in quel precedente si è ritenuto –affermando un principio che il Collegio condivide e fa proprio– che “la possibilità di procedere ad interventi ricadenti nell’ambito della c.d. ‘attività edilizia libera’ non opera in modo incondizionato, ma resta pur sempre subordinata (in base al comma 1 dell’articolo 6 del d.P.R. 380, cit.) al rispetto “[delle] prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e comunque [al] rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia (…)” (Cons. Stato, Sez. VI, 27.07.2015, n. 3667).
La conformità urbanistica costituisce dunque un presupposto per l’esecuzione degli interventi di attività edilizia libera, e non una conseguenza della mera astratta riconducibilità dell’opera, in base alle sue caratteristiche tipologiche, nell’elencazione contenuta all’articolo 6 del d.P.R. n. 380 del 2001 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.06.2017 n. 1351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Risarcimento danni per revoca di aggiudicazione conseguente a informativa antimafia poi annullata giudizialmente se prima della revoca dell'aggiudicazione è intervenuta la cessione di ramo di azienda.
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Risarcimento danni – Contratti della Pubblica amministrazione – Aggiudicazione – Revoca Conseguente ad informativa antimafia – Annullamento in sede giurisdizionale – Istanza risarcitoria - Intervenuta cessione d’azienda - Difetto di legittimazione della società cedente.
E’ inammissibile per difetto di legittimazione attiva, la domanda di risarcimento dei danni subiti per effetto dell'informativa antimafia e della conseguente revoca dell'aggiudicazione dell'appalto di lavori, successivamente annullati in sede giurisdizionale, ove –prima della revoca dell’aggiudicazione– sia intervenuta cessione del ramo d’azienda.
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   (1) Ha chiarito il Tar che la cessione dell’azienda, infatti, comporta (ai sensi dell’art. 2558, comma 1, cod. civ.) il trasferimento al cessionario dei rapporti contrattuali relativi all’azienda e, soprattutto, di ogni credito verso terzi relativo all’azienda stessa, per effetto di quanto previsto dall’art. 2559, comma 1, cod. civ., secondo cui “La cessione dei crediti relativi all'azienda ceduta, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione, ha effetto, nei confronti dei terzi, dal momento dell'iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese”.
Regime giuridico che opera senz’altro anche in relazione ai crediti da fatto illecito, come chiarito dalla Corte di cassazione (sez. III, 31.07.2012, n. 13692) secondo cui “Tra i crediti che, nel caso di cessione d'azienda, si trasferiscono automaticamente al cessionario rientrano anche quelli derivanti da fatti illeciti commessi in danno dell'impresa cedente, a nulla rilevando che gli stessi consistano nella lesione di interessi legittimi pretensivi od oppositivi per condotta illegittima della p.a.” (TAR Sardegna, sentenza 14.06.2017 n. 403 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla rilevanza penale, o meno, dell'omessa esposizione del cd. cartello di cantiere.
La violazione dell'obbligo di esporre il cartello indicante gli estremi del titolo abilitativo, qualora prescritto dal regolamento edilizio o dal titolo medesimo, è tuttora punita dall'art. 44, lett. a) del d.P.R. 06.06.2011, n. 380, se commessa dal titolare del permesso a costruire, dal committente, dal costruttore o dal direttore dei lavori.
Ciò in quanto sussiste continuità normativa tra l'art. 4, comma 4, dell'abrogata legge 28.02.1985, n. 47, e la nuova fattispecie contemplata dall'art. 27, comma 4, del citato d.P.R. 380 del 2011.
Tant'è che integra il reato anche l'esposizione, in maniera non visibile, del cartello indicante il titolo abilitativo e i nominativi dei responsabili, ancorché esso risulti presente all'interno del cantiere.
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1. Il ricorso è fondato.
2. Lo stesso provvedimento impugnato ha dato atto del contrario insegnamento di legittimità in merito alla rilevanza penale dell'omessa esposizione del cd. cartello di cantiere, qualora detta prescrizione sia prevista dal provvedimento sindacale (come si evince in specie dal richiamo, contenuto nel capo d'imputazione, alla prescrizione contenuta nel permesso di costruire n. 4 del 2011).
In proposito, infatti, la violazione dell'obbligo di esporre il cartello indicante gli estremi del titolo abilitativo, qualora prescritto dal regolamento edilizio o dal titolo medesimo, è tuttora punita dall'art. 44, lett. a) del d.P.R. 06.06.2011, n. 380, se commessa dal titolare del permesso a costruire, dal committente, dal costruttore o dal direttore dei lavori (Sez. 3, n. 29730 del 04/06/2013, Stroppini, Rv. 255836; anche più recentemente, ad es. Sez. 3, n. 13963 del 29/01/2016, Carotenuto ed altri; Sez. 3, n. 10713 del 16/01/2015, Zanussi ed altri).
Ciò in quanto sussiste continuità normativa tra l'art. 4, comma 4, dell'abrogata legge 28.02.1985, n. 47, e la nuova fattispecie contemplata dall'art. 27, comma 4, del citato d.P.R. 380 del 2011 (Sez. 3, n. 46832 del 15/10/2009, Thabet e altro, Rv. 245613; quanto alla previsione normativa iniziale, Sez. U, n. 7978 del 29/05/1992, Aramini e altro, Rv. 191176).
Tant'è che integra il reato anche l'esposizione, in maniera non visibile, del cartello indicante il titolo abilitativo e i nominativi dei responsabili, ancorché esso risulti presente all'interno del cantiere (Sez. 3, n. 40118 del 22/05/2012, Zago e altri, Rv. 253673).
2.1. In particolare, quanto al contestato rilievo penale (v. provvedimento impugnato, pag. 2) delle sole norme violatrici delle prescrizioni concernenti la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, a suo tempo fu posto l'accento, nel contesto normativo in allora rappresentato dalla legge n. 47 del 1985, sull'art. 4 della stessa.
Detta norma, intitolata "vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nella concessione o nell'autorizzazione", prevedeva, all'ultimo comma, che gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria dessero immediata comunicazione all'autorità giudiziaria, al presidente della giunta regionale ed al sindaco ove nei luoghi di realizzazione delle opere non fosse esibita la concessione ovvero non fosse stato apposto il prescritto cartello, "ovvero in tutti gli altri casi di presunta violazione urbanistico-edilizia".
In tal modo testualmente consentendo di desumere, in particolare, come anche la sola violazione dell'obbligo di apposizione del cartello fosse appunto considerata dal legislatore come ipotesi di presunta violazione urbanistico-edilizia e, come tale, di particolare rilevanza ai suindicati fini.
A riprova era stato altresì notato come la sistemazione del prescritto cartello, contenente gli estremi della concessione edilizia e degli autori dell'attività costruttiva presso il cantiere, consentisse una vigilanza rapida, precisa ed efficiente dell'attività, rispondendo allo scopo di permettere ad ogni cittadino di verificare se i lavori fossero o meno stati autorizzati dall'autorità competente. Di qui, dunque, la riconducibilità della condotta omissiva in questione all'interno dell'allora precetto dell'art. 20, lett. a), della legge 47 del 1985, in relazione alla inosservanza delle norme di cui alla stessa legge.
Né tali conclusioni potevano mutare ove si abbia riguardo alla sopravvenuta normativa rappresentata dal d.P.R. n. 380 del 2001, posto che l'art. 27, comma 4, del d.P.R. stesso) ha riprodotto la previsione del previgente art. 4 cit. relativa alla immediata comunicazione agli enti competenti da parte degli ufficiali ed agenti di p.g. della mancata apposizione del cartello così come di "tutti gli altri casi di presunta violazione urbanistico-edilizia", restando quindi confermata l'appartenenza della violazione in questione alla attività edilizio-urbanistica e, dunque, la sanzionabilità della stessa all'interno delle ipotesi di cui all'art. 44, lett. a), del d.P.R. cit., così acquistando rilievo determinante la previsione di essa all'interno dei regolamenti edilizi o della concessione (cfr., in motivazione, n. 10713 del 2015 cit.).
La sentenza impugnata, che ha disatteso siffatto consolidato insegnamento in ordine alla riconducibilità dell'apposizione del cartello al campo delle violazioni in materia urbanistica ed edilizia, va pertanto annullata, con rinvio per nuovo giudizio -a norma dell'art. 623, lett. d), cod. proc. pen.- al competente Tribunale di Asti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.06.2017 n. 29213).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sulla responsabilità dell’inquinamento riguardante l’area “ex polveriera Montedison”.
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Inquinamento – Rifiuti – Rimozione e ripristino stato dei luoghi – Soggetto obbligato – Individuazione – Criterio.
La fonte dell'obbligo di procedere alla messa in sicurezza e all'eventuale bonifica del sito inquinato si identifica nella responsabilità dell'autore dell'inquinamento, che quindi va puntualmente e precisamente individuato da parte dell’Autorità amministrativa, sulla base di un rigoroso accertamento anche in caso di vicende societarie complesse (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che la Direttiva 2004/35/CE all’art. 2 definisce come “operatore”, cui si connette la responsabilità per danno ambientale (cfr. 2° e 18° Considerando) “qualsiasi persona fisica o giuridica, sia essa pubblica o privata, che esercita o controlla un'attività professionale”.
Pur volendo far riferimento –in via teorica ed astratta– ad una nozione ampia di operatore economico (rilevante ai fini dell’internalizzazione dei costi ambientali), nel caso all’esame del Tribunale sono del tutto assenti un’analisi e un accertamento in concreto del ruolo effettivamente svolto dalla ricorrente con specifico riferimento al ramo industriale interessato e ritenuto ‘responsabile’ della condotta inquinante (Tar Lazio, sez. II-bis, 21.03.2016, n. 3441), tenuto conto della complessa articolazione, anche nel tempo, del Gruppo Montedison.
Ha aggiunto il Tar che l'inquadramento della contaminazione come situazione permanente non esime dall’individuazione del soggetto responsabile, rilevando quel concetto ai fini dell'applicazione delle procedure amministrative di bonifica più recentemente introdotte nel nostro ordinamento anche a contaminazioni storiche, con conseguente applicazione dei relativi limiti tabellari o di rischio e delle relative fasi procedurali.
Il Tar ha infine ricordato che nell'ipotesi di mancata individuazione del responsabile, o di mancata esecuzione degli interventi in esame da parte sua –e sempreché non provvedano spontaneamente né il proprietario del sito, né altri soggetti interessati–, le opere di recupero ambientale devono essere eseguite dall'Amministrazione competente (art. 250, d.lgs. 03.04.2006, n. 152), che potrà poi rivalersi sul proprietario del sito, nei limiti del valore dell'area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei medesimi interventi (art. 253, d.lgs. n. 152 del 2006) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 13.06.2017 n. 1326 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
V.2) Così sinteticamente ricostruito il contenuto essenziale del provvedimento il Collegio osserva che l’istruttoria operata dal Comune, che si riverbera nell’articolato motivazionale, si presenta carente e non supportata da circostanze attuali.
L’attività istruttoria svolta dal Comune si fonda, infatti, da un lato, su elementi antecedenti all’ordinanza n. 76/2004, oggetto di annullamento, dall’altro su circostanze subprocedimentali successive dalle quali non trapela, in generale, alcuna attività volta ad individuare il soggetto responsabile dell’inquinamento e, nello specifico, alcun accertamento conducente e conclusivo per ritenere tale la ricorrente. Anzi, dall’attività compiuta parrebbe emergere l’intenzione del Comune di eseguire in proprio le opere di bonifica, per il tramite della propria società Ta. STU s.p.a.
Va ancora evidenziato che gli ultimi atti compiuti risalgono agli anni 2006/2007.
Da allora –per quasi dieci anni– non risulta, né dall’atto impugnato né dalla produzione documentale versata in atti, che il Comune abbia svolto alcuna attività di indagine ulteriore. Neppure si dà conto della permanente esistenza in vita della società Ta. STU spa (soggetto obbligato alla bonifica, unitamente al Comune, secondo l’ordinanza n. 76/2004), dell’avvenuta presentazione del progetto definitivo da parte di tale società né di ulteriori elementi rilevanti occorsi in tale lungo lasso di tempo.
Va osservato, innanzi tutto, che non risulta che la ricorrente sia mai stata proprietaria dell’area (ceduta al Comune nel 2002) né, tanto meno, che abbia svolto alcun tipo di attività sui terreni in questione.
Ciò posto, l’individuazione del soggetto responsabile è avvenuta sulla base di una indimostrata successione della ricorrente “a titolo universale” dal soggetto che, fino agli anni ’70, ha svolto l’attività inquinante.
Deve rammentarsi che il Comune nel 2002 ha acquistato l’area in questione dalla società Co.In.Im. srl, avente causa della società In.Ed. srl, già “Se.Im.Mo. spa” (per effetto del trasferimento della proprietà nel 1999) la quale a sua volta ne era divenuta proprietaria per conferimento (ciò è quanto si ricava dal contratto di compravendita tra il Comune e la società Co. srl).
Il Comune, nei propri atti difensivi, fa riferimento –a sostegno dell’assunto circa la successione di Ed. spa– ad una visura camerale relativa a Mo. srl da cui risultano, a partire dal 1999, i trasferimenti d’azienda, le fusioni, le scissioni e i subentri coinvolgenti le seguenti società: Ge.Ge.Im. srl, Im.Gr. srl, Società Im.As. spa, Ac. srl, Ce. srl, ICI Im.Co.In. srl, Ed.Tr.Se. srl, e, infine, con atto di fusione per incorporazione nell’aprile 2012, Ed.spa.
A fronte di tale complessità dei rapporti societari, sopra sinteticamente evidenziati (con indicazioni peraltro difformi tra quanto riportato nel provvedimento impugnato e quanto risulta dal documento prodotto in giudizio), che prendono l’avvio da una precisa società del più articolato “Gruppo Mo.”, l’individuazione di Ed. spa quale successore “a titolo universale”, che sarebbe, secondo l’atto impugnato, “soggetto giuridico succeduto a Mo. spa, Co.In.Im. srl e Mo. srl”, appare affermazione indimostrata, priva di alcuna evidenza documentale, né in sede procedimentale né in sede processuale.
Invero né è stata dimostrata –in modo rigoroso– l’effettiva qualificazione di avente causa della ricorrente dal soggetto responsabile dell’inquinamento (e quindi di successore a titolo universale), essendosi il Comune limitato ad una sommaria descrizione delle presunte successioni societarie di un gruppo che, in realtà, nel corso di oltre un cinquantennio, risulta essere stato oggetto di modificazioni complesse e articolate, composto da molteplici società svolgenti attività tra loro differenti. Né è stata dimostrata la responsabilità dell’inquinamento dell’area in questione da parte del ritenuto avente causa della ricorrente, considerato che, come già rilevato, l’individuazione nella società Co. srl del soggetto responsabile, effettuata con l’ordinanza n. 76/2004 (fondata sul titolo contrattuale), è stata ritenuta da questo Tribunale non corretta e non risulta che, in sede di nuovo procedimento, siano stati effettuati accertamenti ai fini dell’individuazione di una responsabilità ad altro titolo della predetta società, asserita dante causa della ricorrente.
La Direttiva 2004/35/CE all’art. 2 definisce come “operatore”, cui si connette la responsabilità per danno ambientale (cfr. 2° e 18° Considerando) qualsiasi persona fisica o giuridica, sia essa pubblica o privata, che esercita o controlla un'attività professionale”.
Pur volendo far riferimento –in via teorica ed astratta– ad una nozione ampia di operatore economico (rilevante ai fini dell’internalizzazione dei costi ambientali),
nel caso di specie sono del tutto assenti un’analisi e un accertamento in concreto del ruolo effettivamente svolto dalla ricorrente con specifico riferimento al ramo industriale interessato e ritenuto ‘responsabile’ della condotta inquinante (cfr. in termini Tar Lazio–Roma sez. II-bis 21.03.2016, n. 3441), tenuto conto della complessa articolazione, anche nel tempo, del Gruppo Mo..
L'inquadramento della contaminazione come situazione permanente, cui fa riferimento il Comune nel provvedimento impugnato, non esime dall’individuazione del soggetto responsabile, rilevando quel concetto ai fini dell'applicazione delle procedure amministrative di bonifica più recentemente introdotte nel nostro ordinamento anche a contaminazioni storiche, con conseguente applicazione dei relativi limiti tabellari o di rischio e delle relative fasi procedurali.
Le norme di cui agli artt. 242 e segg. del d.lgs. n. 152/2006 vanno interpretate nel senso che l'obbligo di adottare le misure dirette a fronteggiare la situazione di inquinamento incombe su colui che di tale situazione sia responsabile per avervi dato causa (cfr. Corte di Giustizia sentenza 04.03.2015, n. C-534/15, Fipa Group).
La fonte dell'obbligo di procedere alla messa in sicurezza e all'eventuale bonifica del sito inquinato si identifica, cioè, nella responsabilità dell'autore dell'inquinamento, che quindi va puntualmente e precisamente individuato da parte dell’Autorità amministrativa, sulla base di un rigoroso accertamento (Tar Milano sez. IV 13.10.2016, n. 1860; Consiglio di Stato, sez. V, 14.04.2016, n. 1509).
Nell'ipotesi di mancata individuazione del responsabile, o di mancata esecuzione degli interventi in esame da parte sua –e sempreché non provvedano spontaneamente né il proprietario del sito, né altri soggetti interessati–, le opere di recupero ambientale devono essere eseguite dall'Amministrazione competente (art. 250), che potrà poi rivalersi sul proprietario del sito, nei limiti del valore dell'area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei medesimi interventi (art. 253) (cfr. Cons. Stato sez. V 09.07.2015 n. 3449; Ad. Plen. n. 21/2013).
Tale disciplina rende priva di rilevanza la questione posta dalla ricorrente circa la permanenza dell’efficacia dell’ordinanza n. 76/2004 nella parte in cui il Comune imponeva a sé stesso gli obblighi di bonifica. A questi l’Amministrazione è tenuta comunque, nell’ipotesi sopra indicata, in forza di legge.
Sotto altro profilo, ma concorrente ai fini della fondatezza del lamentato vizio di carenza istruttoria, va rilevato che l’affermazione contenuta nel provvedimento impugnato circa “l’accertata contaminazione del sito” si fonda, tenuto conto della documentazione offerta, sulla relazione di ARPA di cui si è preso atto nella conferenza di servizi del 16.04.2006 che, tuttavia, ha evidenziato che “i valori analitici riscontrati nei campioni prelevati in contraddittorio corrispondono a quelli rilevati dal laboratorio di parte e non si riscontrano superamenti ai valori limite stabiliti dal DM 471/1999 per i siti ad uso verde pubblico, privato e residenziale”.
Nel corso del lungo periodo intercorso tra quegli accertamenti e il provvedimento impugnato non risulta che siano stati compiuti ulteriori analisi, anche alla luce della normativa sopravvenuta.
Per le ragioni che precedono il ricorso per motivi aggiunti, in relazione ai profili esaminati e assorbite le ulteriori censure, merita accoglimento e per l’effetto va disposto l’annullamento dell’ordinanza del 30.03.2016.

EDILIZIA PRIVATALe caratteristiche proprie della copertura di cui si tratta costituiscono una conferma che quest’ultima ha le funzioni e la destinazione propria di una vera e propria terrazza, funzioni queste ultime del tutto differenti da quelle che contraddistinguono un lastrico solare, destinato com’è a costituire esclusivamente un tetto, privo un’utilizzazione da parte dei dimoranti nell’immobile.
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In presenza di un utilizzo protratto della copertura come terrazzo, l’avvenuta realizzazione di una ringhiera protettiva costituisce un intervento per il quale non è richiesto il preventivo rilascio del permesso di costruire.
Infatti, tali opere seppure finalizzate a consentire l'utilizzo del solaio di copertura di un immobile non determinano una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ma si configurano piuttosto come mere pertinenze, essendo preordinate ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente inserite al servizio dello stesso, sfornite di un autonomo valore di mercato e caratterizzate da un volume minimo, tale da non consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell'immobile al quale accedono e, comunque, tale da non comportare un aumento del carico urbanistico.
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2.2 Altrettanto legittima è la realizzazione del terrazzo.
2.3 Sul punto è necessario premettere che i coniugi Ni. hanno ottenuto la sanatoria, con provvedimento del nr. 75/88, di un bagno con ripostiglio in ampliamento sulla corte posta sul retro dell’edificio di loro proprietà.
2.4 Parte ricorrente afferma di aver collocato delle ringhiere sul lastrico solare riferito ai manufatti oggetto di sanatoria e, ciò, in considerazione del fatto che lo stesso lastrico solare sarebbe stato da sempre utilizzato come terrazzo, pertinente all’abitazione.
2.5 Le affermazioni dei ricorrenti risultano confermate dai documenti allegati al ricorso, nell’ambito dei quali è possibile evincere che la copertura sovrastante gli ambienti condonati si trova a livello delle porte finestre di un locale adibito a “sala”, esplicando così le funzioni tipiche di una terrazza o di un balcone prospiciente le aperture della stessa unità abitativa.
Detta circostanza, desumibile dalla documentazione fotografica, unitamente alle caratteristiche proprie della copertura di cui si tratta, costituisce una conferma che quest’ultima ha le funzioni e la destinazione propria di una vera e propria terrazza, funzioni queste ultime del tutto differenti da quelle che contraddistinguono un lastrico solare, destinato com’è a costituire esclusivamente un tetto, privo un’utilizzazione da parte dei dimoranti nell’immobile (sulla diversità di funzioni tra lastrico e terrazza si veda anche TAR Sicilia Catania Sez. I, 10/11/2008, n. 2068).
2.6 In presenza di un utilizzo protratto della copertura come terrazzo, non assume carattere dirimente nemmeno l’avvenuta installazione delle ringhiere da parte dei ricorrenti e, ciò, considerando che secondo un costante orientamento giurisprudenziale l’avvenuta realizzazione di una ringhiera protettiva costituisce un intervento per il quale non è richiesto il preventivo rilascio del permesso di costruire; “infatti, tali opere seppure finalizzate a consentire l'utilizzo del solaio di copertura di un immobile non determinano una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ma si configurano piuttosto come mere pertinenze, essendo preordinate ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente inserite al servizio dello stesso, sfornite di un autonomo valore di mercato e caratterizzate da un volume minimo, tale da non consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell'immobile al quale accedono e, comunque, tale da non comportare un aumento del carico urbanistico (TAR Campania Salerno Sez. II, 27.06.2014, n. 1139)”.
Le censure di cui al secondo e al terzo motivo sono, pertanto, fondate (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 13.06.2017 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione ha un carattere dovuto, dovendo essere disposto indipendente dal periodo di tempo intercorso dalla commissione dell’abuso, non sussistendo alcun legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso.
Non sussiste, infatti, alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto abusivo, quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore contra legem. Non può ammettersi, pertanto, un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione di fatto abusiva.

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2.7 Vanno respinte, al contrario, le ulteriori censure proposte.
2.8 E’ infondato, in particolare, il primo motivo con il quale si sostiene l’esistenza di un eccesso di potere per carenza di motivazione, in quanto la demolizione sarebbe stata disposta dopo venti anni dalla realizzazione delle opere di cui si tratta.
2.9 Costituisce orientamento maggioritario, fatto proprio anche da questo Tribunale, quello in base al quale l'ordine di demolizione ha un carattere dovuto, dovendo essere disposto indipendente dal periodo di tempo intercorso dalla commissione dell’abuso, non sussistendo alcun legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso (Cons. Stato Sez. VI, 23.10.2015, n. 4880).
Non sussiste, infatti, alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto abusivo, quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore contra legem. Non può ammettersi, pertanto, un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione di fatto abusiva (Cons. Stato Sez. VI, 01.12.2015, n. 5426) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 13.06.2017 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, prevista dall’art. 34 del Dpr 380/2001, può essere adottata solo in un secondo momento e, cioè, quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione ed il Comune ha accertato che la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità.
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3.3 Altrettanto infondato è il quarto motivo, diretto a sostenere la legittimità dell’innalzamento del fabbricato.
3.4 Non solo i ricorrenti non hanno contestato né l’innalzamento né la modifica della pendenza del tetto, ma va evidenziato come dette variazioni non sono mai state oggetto di richiesta di un provvedimento abilitativo o di una variante alla concessione originaria, circostanza quest’ultima che conferma il carattere abusivo degli stessi manufatti.
3.5 Nemmeno risulta dimostrato che l’eventuale demolizione della tettoia sarebbe di pregiudizio per la parte conforme.
3.6 Si consideri come costituisca orientamento consolidato che la sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, prevista dall’art. 34 del Dpr 380/2001, può essere adottata solo in un secondo momento e, cioè, quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione ed il Comune ha accertato che la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità (TAR Campania Napoli Sez. IV, 24.04.2017, n. 2217 e TAR Campania Salerno Sez. I, 02.03.2016, n. 485, TAR Molise Campobasso Sez. I, 08.04.2016, n. 171) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 13.06.2017 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ noto che l’ordinanza di demolizione costituisce un atto dovuto dell’Amministrazione che non richiede la comunicazione di avvio del procedimento, riconducibile ad esercizio di potere vincolato e che, ancora, la mancata indicazione dell’area di sedime non inficia la legittimità dell’ordine demolitorio, attenendo tale aspetto al provvedimento successivo e relativo all’esecuzione dell’ordinanza gravata.
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3.7 E’ noto, altresì, che l’ordinanza di demolizione costituisce un atto dovuto dell’Amministrazione che non richiede la comunicazione di avvio del procedimento, riconducibile ad esercizio di potere vincolato (Cons. Stato Sez. VI, 15.09.2015, n. 4293) e che, ancora, la mancata indicazione dell’area di sedime non inficia la legittimità dell’ordine demolitorio, attenendo tale aspetto al provvedimento successivo e relativo all’esecuzione dell’ordinanza gravata (TAR Campania sez. IV del 06.10.2016, n. 4574 e Cons. Stato Sez. IV, 23.01.2012, n. 282) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 13.06.2017 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Giurisdizione giudice ordinario sull'accertamento tecnico preventivo finalizzato ad operazioni di occupazione d'urgenza non preordinate a decreto di esproprio.
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Giurisdizione – Espropriazione per pubblica utilità – Accertamento tecnico preventivo – Finalizzato ad operazioni di occupazione d'urgenza non preordinate a decreto di esproprio – Controversia – giurisdizione giudice ordinario.
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto il ricorso volto all’accertamento tecnico preventivo in vista di operazioni di occupazione d'urgenza collegate, ma non finalizzate, ad un provvedimento di espropriazione; ed infatti, l’accertamento tecnico preventivo, attesa la sua valenza cautelare e conservativa, è intimamente connesso al giudizio di merito nel quale la prova avrebbe dovuto essere acquisita in via ordinaria, con la conseguenza che il Giudice adito è tenuto a verificare preliminarmente se la futura ed eventuale domanda di merito, cui accede la domanda di accertamento tecnico preventivo, rientri o meno nella propria giurisdizione (1).
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   (1) Il Tar ha richiamato il recente arresto delle Sezioni unite della cassazione (ord., 09.02.2011, n. 3167) secondo cui le controversie concernenti l’occupazione temporanea di aree funzionale alla corretta esecuzione dei lavori, disposte ai sensi dell’art. 49, d.P.R. 08.06.2001, n. 327, non avendo ad oggetto atti o provvedimenti in materia ablatoria e rimanendo estranee alla materia espropriativa vera e propria, rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, purché la domanda sia limitata a far valere l’illecito protrarsi dell’occupazione temporanea, senza lamentare vizi di legittimità di provvedimenti amministrativi.
Nello stesso senso si è espresso il giudice amministrativo (Tar Umbria 16.01.2014, n. 49) con riferimento ad una controversia nella quale la parte ricorrente non si doleva della legittimità di provvedimenti o comportamenti in materia espropriativa, né dell’occupazione sine titulo preordinata all’espropriazione, bensì chiedeva la condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni subiti in occasione dell’occupazione temporanea del proprio fondo, asseritamente in carenza di potere (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 13.06.2017 n. 198 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
7. Ancor prima di procedere all’esame delle eccezioni processuali sollevate dall’amministrazione resistente con la memoria depositata in data 31.05.2017, giova rammentare che, secondo la giurisprudenza (TAR Lazio Roma, Sez. II, 29.03.2016, n. 3846), «l’esperibilità dell’accertamento tecnico preventivo nell’ambito del processo amministrativo -prima riconosciuta in via giurisprudenziale nel solco di una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni concernenti i mezzi probatori sperimentabili nel processo amministrativo, alla stregua dei principi del giusto processo, del diritto di difesa e di conservazione dei valori giuridici- trova espresso riconoscimento nell’art. 53, comma 5, del c.p.a., laddove espande espressamente l’esperibilità dei mezzi di prova nel processo amministrativo a tutti quelli previsti dal codice del processo civile con formula che esclude soltanto l’interrogatorio formale ed il giuramento. La ratio dell’accertamento tecnico preventivo, regolato dall’art. 696 c.p.c., è quella di ovviare al pericolo della dispersione della prova prima che la parte interessata attivi un giudizio di merito ovvero definisca con un accordo un procedimento contenzioso già iniziato. Presupposto essenziale di tale strumento di acquisizione della prova è la sussistenza di un’urgenza concreta di far verificare, ante causam, lo stato dei luoghi, ovvero la qualità o la condizione di una cosa, in chiara correlazione con un’esigenza di tipo cautelare che è resa evidente dall’incipit della norma».
8. Si deve poi evidenziare che
l’accertamento tecnico preventivo, attesa la sua valenza cautelare e conservativa, è intimamente connesso al giudizio di merito nel quale la prova avrebbe dovuto essere acquisita in via ordinaria (Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.10.2011, n. 5769), con l’ulteriore conseguenza che il Giudice adito è tenuto a verificare preliminarmente se la futura ed eventuale domanda di merito, cui accede la domanda di accertamento tecnico preventivo, rientri o meno nella propria giurisdizione.
9. Passando all’eccezione di difetto di giurisdizione di questo Tribunale, il Collegio ritiene che la stessa debba essere accolta.
Come ha puntualizzato il Giudice regolatore della giurisdizione (Cass. civ., Sez. Un., ord. 09.02.2011, n. 3167),
le controversie come quella per cui è causa, concernenti l’occupazione temporanea di aree funzionale alla corretta esecuzione dei lavori, disposte ai sensi dell’art. 49 del D.P.R. n. 327/2001, non avendo ad oggetto atti o provvedimenti in materia ablatoria e rimanendo estranee alla materia espropriativa vera e propria, rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, purché la domanda sia limitata a far valere l’illecito protrarsi dell’occupazione temporanea, senza lamentare vizi di legittimità di provvedimenti amministrativi.
Nello stesso senso si è espresso il giudice amministrativo (TAR Umbria Perugia, Sez. I, 16.01.2014, n. 49) con riferimento ad una controversia nella quale la parte ricorrente non si doleva della legittimità di provvedimenti o comportamenti in materia espropriativa, né dell’occupazione sine titulo preordinata all’espropriazione, bensì chiedeva la condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni subiti in occasione dell’ occupazione temporanea del proprio fondo, asseritamente in carenza di potere.
Ciò posto, con riferimento alla fattispecie in esame è sufficiente evidenziare che:
   A) l’occupazione di cui trattasi -che avrebbe cagionato i danni lamentati, per il suo protrarsi oltre il termine previsto- è stata disposta con la determinazione dirigenziale n. 862 del 28.10.2008 ai sensi dell’art. 28 della legge provinciale n. 6/1993 (disposizione questa che, come quella dell’art. 49 del D.P.R. n. 327/2001, risponde alla sola finalità di disciplinare l’occupazione temporanea dell’area interessata);
   B) la società ricorrente non lamenta alcun vizio della predetta determinazione dirigenziale n. 862 del 28.10.2008, né della successiva determinazione dirigenziale n. 706 del 23.11.2016, limitandosi a richiedere il risarcimento dei danni derivanti dalla pretesa occupazione abusiva dell’area successivamente al 31.05.2009 e dall’allagamento dell’area di sua proprietà, con conseguente richiesta di ripristino dello stato dei luoghi.

APPALTI Sulla sinteticità degli atti nel giudizio amministrativo e sulla natura sanzionatoria della condanna alle spese di cui all'art. 26, c. 2 c.p.a..
Sul criterio della c.d. doppia riparametrazione per le gare da aggiudicare con il criterio dell'offerta più vantaggiosa.
In tema di chiarezza e sinteticità degli atti amministrativi di cui all'art. 3, c. 2, c.p.a. il limite dimensionale degli atti giudiziari può essere superato ottenendo l'autorizzazione preventiva ex art. 6 del decreto del Segretariato generale della giustizia amministrativa del 22.12.2016, recante "Disciplina dei criteri di redazione e dei limiti dimensionali dei ricorsi e degli altri atti difensivi nel processo amministrativo".
In assenza di tale autorizzazione, la parte dell'atto eccedente i limiti non è esaminabile.
Inoltre, l'art. 26, c. 2, c.p.a. dispone che "Il giudice condanna d'ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio. Al gettito delle sanzioni previste dal presente comma si applica l'articolo 15 delle norme di attuazione".
Tale norma si lega a quanto sancito dall'art. 26, c. 1, c.p.a., secondo cui "Quando emette una decisione, il giudice provvede anche sulle spese del giudizio, secondo gli artt. 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del c.p.c., tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all'art. 3, c. 2".
E' pacifica la natura sanzionatoria della misura pecuniaria in esame, che tipizza uno dei casi di temerarietà del giudizio e che prescinde da una specifica domanda nonché dalla prova del danno subito, ed il cui gettito, commisurato a predeterminati limiti edittali, è destinato al bilancio della giustizia amministrativa, atteso che lo scopo della norma è quello di tutelare la rarità della risorsa giudiziaria, un bene non suscettibile di usi sovralimentati o distorti, soprattutto a presidio dei casi in cui il suo uso è davvero necessario
Nel sistema degli appalti pubblici nessuna norma di carattere generale impone, per le gare da aggiudicare con il criterio dell'offerta più vantaggiosa, l'obbligo della stazione appaltante di attribuire alla migliore offerta tecnica in gara il punteggio massimo previsto dalla lex specialis, mediante il criterio della c.d. doppia riparametrazione atteso che nelle gare da aggiudicarsi con detto criterio la riparametrazione ha la funzione di ristabilire l'equilibrio fra i diversi elementi qualitativi e quantitativi previsti per la valutazione dell'offerta solo se e secondo quanto voluto e disposto dalla stazione appaltante con il bando, con la conseguenza che l'operazione di riparametrazione deve essere espressamente prevista dalla legge di gara per poter essere applicata e non può tradursi in una modalità di apprezzamento delle offerte facoltativamente introdotta dalla commissione giudicatrice.
Infatti, la discrezionalità che pacificamente compete alla stazione appaltante nella scelta, alla luce delle esigenze del caso concreto, dei criteri da valorizzare ai fini della comparazione delle offerte, come pure nella determinazione della misura della loro valorizzazione, non può non rivestire un ruolo decisivo anche sul punto della c.d. riparametrazione che, avendo la funzione di preservare l'equilibro fra i diversi elementi stabiliti nel caso concreto per la valutazione dell'offerta (e perciò di assicurare la completa attuazione della volontà espressa al riguardo dalla stazione appaltante), non può che dipendere dalla stessa volontà e rientrare quindi già per sua natura nel dominio del potere di disposizione ex ante della stessa Amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.06.2017 n. 2852 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: All’Adunanza plenaria la questione della perdurante efficacia delle proposte di vincolo ante d.lgs. 42 del 2004 e non seguite dal provvedimento ministeriale di notevole interesse pubblico.
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Beni culturali, paesaggistici e ambientali – Proposte di vincolo formulate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004  –  Efficacia – Mancata conclusione del procedimento – Deferimento all’Adunanza plenaria
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Va rimessa all’Adunanza plenaria la questione se, a mente del combinato disposto degli articoli 140, 141 e 157, co. 2, d.lgs. 22.01.2004, n. 42 –come modificati dapprima con il d.lgs. 24.03.2006 n. 157, e poi, con il d.lgs. 26.03.2008 n. 63– le proposte di vincolo formulate prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto legislativo, e per le quali non vi sia stata conclusione del relativo procedimento con l’adozione del decreto ministeriale recante la dichiarazione di notevole interesse pubblico, cessino di avere effetto. (1)
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(1) I.- Con una articolata motivazione, la quarta sezione del Consiglio di Stato deferisce all’Adunanza plenaria la questione della perdurante efficacia delle proposte di vincolo paesaggistico formulate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004, non seguite dal decreto ministeriale di conclusione del procedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico.
La rimessione è stata disposta nell’ambito di un giudizio di appello proposto da una società –interessata al rilascio di un’autorizzazione unica ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003– la cui domanda di annullamento di un diniego di autorizzazione paesaggistica era stata respinta dal TAR sul presupposto (tra gli altri motivi di rigetto) della perdurante efficacia di due proposte di vincolo dell’area di localizzazione del parco eolico, non seguite dal decreto ministeriale di dichiarazione di notevole interesse pubblico che, invece, la ricorrente assumeva prive di effetti ai sensi dell’art. 141 d.lgs. n. 42 del 2004.
La questione giuridica controversa può essere sintetizzata nei seguenti termini.
L’art. 157, co. 2 d.lgs. n. 42/2004 prevede che “le disposizioni della presente Parte si applicano anche agli immobili ed alle aree in ordine ai quali, alla data di entrata in vigore del presente Codice, sia stata formulata la proposta ovvero definita la perimetrazione ai fini della dichiarazione di notevole interesse pubblico o del riconoscimento quali zone di interesse archeologico”.
Nel contesto antecedente al Codice dei beni culturali, la tutela dei valori paesaggistici si esplicava fin dal momento in cui la proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni interessati e la durata della misura cautelativa o anticipatoria di tutela durava fino alla approvazione del vincolo, senza indicazione di termine di efficacia della misura ovvero di decadenza dal potere di emanazione del provvedimento finale.
Per effetto delle modifiche introdotte all’art. 141 d.lgs. n. 42/2004 -dapprima con il d.lgs. 24.03.2006 n. 157, e poi, segnatamente, con il d.lgs. 26.03.2008 n. 63- il comma 5 del suddetto articolo prevede ora che “se il provvedimento ministeriale di dichiarazione non è adottato nei termini di cui all’art. 140, co. 1, allo scadere di detti termini, per le aree e gli immobili oggetto della proposta di dichiarazione, cessano gli effetti di cui all’art. 146, co. 1” (cioè i particolari limiti imposti ai proprietari, possessori o detentori dei beni che “non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione”).
Il TAR, in particolare, ha condiviso l’interpretazione ministeriale (parere 03.11.2009 n. 21909 dell’Ufficio legislativo del Ministero per i beni e le attività culturali), secondo cui la proposta di vincolo formulata dalla competente commissione prima della data di entrata in vigore del d.lgs. 22.01.2004 n. 42, conserva efficacia anche in assenza della approvazione mediante l’adozione della dichiarazione di notevole interesse pubblico, ai sensi e per gli effetti dell’art. 157, comma 2, del d.lgs. n. 42/2004.
A tale conclusione è pervenuto sulla scorta delle seguenti considerazioni:
   a) alla data di entrata in vigore del Codice di cui al d.lgs. 22.01.2004 n. 42, ha continuato a trovare applicazione la medesima disciplina prevista dall’art. 2, ultimo comma, della legge 29.06.1939 n. 1497 (trasfuso nell’art. 140 del d.lgs. 29.10.1999 n. 490), secondo la quale, relativamente alle cd. bellezze di insieme, la tutela dei valori paesaggistici (che si sostanzia nella necessità di ottenere l’autorizzazione paesaggistica per poter modificare i beni soggetti a tutela) si esplica fin dal momento in cui la proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni interessati ... e la durata della misura cautelativa o anticipatoria dura fino all’approvazione del vincolo, al fine di impedire che il lasso di tempo necessario per l’approvazione definitiva degli elenchi possa rendere possibili manomissioni incontrollate dei beni immobili ricompresi nell’elenco delle bellezze di insieme e quindi compromettere il paesaggio, valore tutelato dall’art. 9 Cost.;
   b) l’art. 157, co. 2, d.lgs. n. 42/2004 –il quale, nel prevedere che “le disposizioni della presente parte si applicano anche agli immobili ed alle aree in ordine ai quali, alla data di entrata in vigore del presente Codice, sia stata formulate la proposta ovvero definita la perimetrazione ai fini della dichiarazione di notevole interesse pubblico o del riconoscimento quali zone di interesse archeologico”, non prevede altresì “forme di decadenza del vincolo, termini perentori per il perfezionamento della procedura o forme di silenzio”– non ha subito alcuna modificazione ad opera del d.lgs. 24.03.2006 n. 157 e del d.lgs. 26.03.2008 n. 63; fonti queste ultime che, nel modificare gli artt. 141, co. 3 e co. 5 del Codice, hanno introdotto una espressa decadenza per le proposte non approvate dal Ministro entro il termine di cui all’art. 140, co. 1; da ciò consegue che le forme di decadenza successivamente introdotte non sono applicabili alle proposte di vincolo formulate antecedentemente alla entrata in vigore del Codice;
   c) ogni diversa interpretazione “si pone in contraddizione con l’interpretazione letterale e sistematica dell’art. 157, comma 2”, il quale, peraltro, non introduce un “rinvio mobile, così recependo tutte le successive novelle normative”, poiché ciò comporterebbe, oltre che un contrasto con “l’originaria intenzione del legislatore”, anche “la sostanziale retroattività delle norme sopravvenute ed una violazione proprio del principio del tempus regit actum”.
La società appellante, nel censurare le statuizione di primo grado, ha prospettato la tesi per cui il termine di decadenza, previsto nel caso di procedimenti di vincolo non conclusi entro il termine previsto dall’art. 140, co. 1, d.lgs. n. 42/2004, come introdotto in particolare dal d.lgs. n. 63/2008, si applicherebbe anche a quei procedimenti avviati prima dell’entrata in vigore del Codice dei beni culturali, a tale conclusione non ostandovi l’art. 157, co. 2, del Codice che, al contrario la confermerebbe.
II.- La rimessione.
Con l’ordinanza in esame la quarta sezione, dopo aver disatteso alcune questioni preliminari, ricostruisce i due orientamenti che si fronteggiano sul tema, richiamando al riguardo anche le argomentazioni addotte dalla giurisprudenza dei TAR e della Corte di cassazione in materia di tutela penale dei beni paesaggistici (favorevole alla tesi della ultrattività dell’efficacia delle mere proposte di vincolo).
La quarta sezione ha poi provveduto a prospettare ulteriori argomenti a sostegno dell’uno come dell’altro orientamento.
Secondo l’orientamento prevalente (
Cons. Stato, VI, 27.07.2015 n. 3663 e 21.03.2005 n. 1121 che si richiamano ai principi espressi da Corte cost., 23.07.1997 n. 262
; Cass. pen., sez. III, 12.01.2012 n. 6617; idem 17.02.2010 n. 16476; TAR Venezia 29.04.2015, n. 473):
   d) le proposte di vincolo avanzate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42/2004, ancorché i relativi procedimenti non si siano conclusi (nel rispetto dei termini di cui alla Tabella A, allegata al D.M. 13.06.1994 n. 495), non risentono delle modifiche introdotte all’art. 141 dal d.lgs. n. 63/2008, di modo che, per un verso, vi è sempre la possibilità, per l’amministrazione, di emanare il provvedimento di dichiarazione; per altro verso, perdurano gli effetti di tutela “anticipata”, di cui all’art. 146, co. 1 del Codice.
Tale affermazioni si fonda sul sistema di tutela introdotto dall’art. 2, ultimo comma, della legge n. 1497/1939 e sulla affermazione della Corte costituzionale per cui la mancata adozione del provvedimento di vincolo nel termine di conclusione del procedimento a tal fine previsto non comporta nemmeno “il venir meno dell’efficacia dell’originario vincolo”, quel vincolo cioè che, applicato in via provvisoria fin dalla pubblicazione della proposta, diviene definitivo con l’adozione della dichiarazione di interesse (Corte cost., n. 262 del 1997 cit.);
   e) il legislatore del 2008, a fronte dell’introduzione della perdita di efficacia delle misure di tutela per il mancato rispetto del termine di adozione del decreto ministeriale, non ha invece modificato l’art. 157, co. 2, del Codice, né questo contiene un “rinvio mobile”, di modo che le forme di decadenza successivamente introdotte (dd.lgs. nn. 157/2006 e 63/2008), non sono applicabili alle proposte formulate antecedentemente alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 42/2004;
   f) il ritenere applicabile anche alle antecedenti proposte il sopravvenuto regime decadenziale (recte, di perdita di efficacia delle misure di tutela) costituirebbe una applicazione retroattiva delle norme, contrastante anche con il principio del “tempus regit actum”;
   g) la “insensibilità” delle antecedenti proposte al nuovo regime si giustifica, sul piano logico–sistematico e secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, con finalità di tutela del paesaggio, in attuazione concreta dell’art. 9 Cost., posto che, diversamente opinando, si avrebbe una indiscriminata e generalizzata decadenza di tutte le proposte di vincolo non ancora approvate presenti sull’intero territorio nazionale indipendentemente dalla data della loro formulazione, entro i brevissimi tempi di decadenza previsti dall’art. 141 del d.lgs. n. 42/2004;
   h) la logica sottesa alla scelta di non considerare prive di effetti le proposte di vincolo a seguito di norme sostanziali e procedimentali (sopravvenute alla loro emanazione), che tale decadenza sanciscono, è la stessa che ha condotto la Corte costituzionale (cfr.
sentenza n. 57 del 2015, in Foro it., 2015, I, 3063 con nota di TRAVI) e l’Adunanza plenaria (cfr. sentenza n. 6 del 2015, in Foro it., 2015, III, 501, con nota di TRAVI e in Urbanistica e appalti, 2015, 1303, con nota di MUCIO, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza), ad escludere la soluzione esegetica che estende misure decadenziali a fatti storici anteriori dovendosi preferire, al contrario, quella che garantisce l’ultrattività delle norme precedenti in corso di attuazione (nella specie, come, noto, si trattava del termine decadenziale previsto dall’art. 30, comma 3, c.p.a. per la proposizione della domanda risarcitoria);
   i) va esclusa qualsiasi forma di indebita ingerenza dello Stato nei confronti della proprietà privata e della libertà di iniziativa economica alla stregua dei parametri europei atteso che la disciplina nazionale volta a tutelare il paesaggio come valore primario costituzionale (ma riconosciuto anche a livello internazionale), incide su una materia che non rientra nelle competenze dell’Unione; essa, pertanto, non può essere sindacata neppure sotto il profilo della violazione del principio generale della proporzionalità (cfr. negli esatti termini
Corte di giustizia UE, sez. X, 06.03.2014, C-206/13, Cruciano Siragusa).
Secondo un più recente orientamento, maturato in seno alla VI sezione del Consiglio di Stato (
Cons. Stato, VI, 16.11.2016 n. 4746; TAR Puglia–Bari, III, 08.03.2012, n. 521 e TAR Venezia, II, 08.04.2005, n. 1393
), anche per le proposte di vincolo approvate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004 varrebbe il regime decadenziale previsto dall’art. 141, qualora non sopravvenga, nel termine di legge, il provvedimento ministeriale conclusivo del relativo procedimento.
Ciò in quanto:
   j) la tesi dell’ultrattività delle mere proposte di vincolo presupporrebbe l’esistenza di un genus di proposte assistite da un regime speciale e rafforzato privo tuttavia di base normativa; né una tale specialità potrebbe desumersi dal peculiare pregio paesaggistico dei beni tutelati da tali peculiari proposte di vincolo poiché una tale caratteristica sarebbe indimostrata.
La stessa esegesi dell’art. 157, comma 2, escluderebbe, dal punto di vista del tenore letterale, una tale differenziazione nel regime giuridico delle proposte di vincolo poiché quando afferma che “conservano efficacia a tutti gli effetti” una serie di atti (dichiarazioni, elenchi, provvedimenti) fa riferimento ad atti formali e definitivi, non dunque a semplici loro proposte. Nessuna rilevanza potrebbe poi riconoscersi al profilo dell’impatto organizzativo della opposta tesi, in ordine alla perdita di efficacia di un numero considerevole di proposte di vincolo per intervenuta decadenza;
   k) il quadro normativo operante è stato profondamente modificato con gli interventi di cui ai decreti legislativi nn. 157/2006 e 63/2008, di modo che oggi la cessazione di efficacia del vincolo provvisorio per mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento (a differenza di quanto previsto dal quadro normativo vigente all’epoca della sentenza n. 262/1997 della Corte costituzionale), costituisce la “regola”, a fronte della quale sempre meno si giustifica, con il passare del tempo, una “eccezione” relativa a proposte di vincolo formulate in epoca anteriore al 2004;
   l) all’estensione della nuova disciplina anche alle mere proposte di vincolo non osterebbe la mancata modifica dell’art. 157, comma 2, d.lgs. n. 42/2004 sia in quanto appare dubbio sostenere la violazione del principio di irretroattività della legge nel caso di procedimenti non ancora conclusi, e dunque in assenza di situazioni e/o rapporti giuridici consolidati; sia in quanto tra due possibili interpretazioni della norma, ed in assenza di specifiche indicazioni del legislatore, appare preferibile una interpretazione che tenda ad “uniformare” il sistema, in luogo di una interpretazione che produca differenti applicazioni dei poteri amministrativi (e dei loro effetti) e, dunque, possibili disparità di trattamento.
III.- Per completezza si segnala:
   m) circa l’interpretazione dell'articolo 2, ultimo comma, della legge 29.06.1939, n. 1497 (trasfuso nell’articolo 140 del D.lgs. 29.10.1999, n. 490) secondo il quale, relativamente alle c.d. bellezze di insieme, la tutela dei valori paesaggistici (che si sostanzia nella necessità di ottenere l’autorizzazione paesaggistica per poter modificare i beni soggetti a tutela) si esplica fin dal momento in cui la proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni interessati e la durata della misura cautelativa o anticipatoria si protrae sino all’approvazione del vincolo- al fine di impedire che il lasso di tempo necessario per l'approvazione definitiva degli elenchi possa rendere possibili manomissioni incontrollate dei beni immobili ricompresi nell'elenco delle bellezze d'insieme e quindi compromettere il paesaggio, valore tutelato dall'art. 9 Cost. - Cons. Stato, Ad. plen., 06.05.1976, n. 3; Sez. IV, 19.12.1986, n. 913; idem 12.03.1987, n. 714; idem 25.01.1990, n. 139; Sez. VI, 21.03.2005, n. 1121; Sez. V, 11.10.2005, n. 5484; Tar Lazio, Sez. II, 21.02.2005 n. 1427;
   n) sul riparto di competenze Stato - Regioni in relazione alla titolarità ed all’ esercizio dei poteri di tutela, controllo e gestione dei beni culturali e paesaggistici, Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9, in Foro it., 2003, III 382, con nota di L. GILI;
   o) sulla importanza del paesaggio in sede di pianificazione del territorio, Corte cost., 24.07.2013, n. 238; 18.07.2013, n. 211 e 24.07.2012, n. 207, in Foro it., 2013, I, 3025, con nota di ROMBOLI, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza;
   p) sul carattere “trasversale” della materia della tutela e valorizzazione dei beni culturali, Corte cost., 17.07.2013, n. 194, in Foro it., 2013, I, 2733
(Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 12.06.2017 n. 2838 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: I portatori di un interesse specifico hanno diritto di accesso agli atti amministrativi per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, intendendo, per tali, le situazioni giuridiche soggettive che presentino un collegamento diretto ed attuale con gli atti cui la richiesta si riferisce.
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Nelle gare pubbliche il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici è sottoposto ad un limite generale che è quello della necessaria sussistenza di un interesse differenziato, concreto ed attuale, il quale deve trovarsi in evidente collegamento con la tutela giurisdizionale di una determinata posizione giuridica dell'istante; inoltre il diritto all'accesso ai documenti amministrativi oppure alla documentazione privata d'interesse amministrativo, soprattutto per questa ultima, deve essere sempre comparato con il diritto alla riservatezza e comunque si deve ritenere prevalente ove connesso al riconoscimento di una determinata situazione in sede giurisdizionale.
Inoltre: “E' da escludere che la titolarità del diritto d'accesso risieda soltanto in una situazione funzionale all'esercizio di un interesse giuridicamente protetto e suscettibile di tutela giurisdizionale; ed invero la richiesta di accesso, pur non potendo configurarsi quale forma di preventivo e generalizzato controllo dell'intera attività dell'Amministrazione, si può basare su un interesse anche non funzionalmente connesso ad un'immediata tutela in via giudiziale, purché concreto ed attuale; in altri termini, la nozione di «interesse giuridicamente rilevante», che fonda il diritto di accesso, è più ampia rispetto a quella di «interesse all'impugnazione»”.
“Il diritto di accesso non è stato configurato dal legislatore con carattere meramente strumentale rispetto alla difesa in giudizio, avendo un carattere autonomo, nel senso che il collegamento tra l'interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l'accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza va inteso in senso ampio, poiché la documentazione richiesta deve essere considerata mezzo utile per la difesa e non come strumento di prova diretta della lesione dell'interesse tutelato".
Deve, infine, precisarsi che: “Ai sensi dell'art. 22, comma 1, lett. b), l. 07.08.1990 n. 241 e successive modificazioni, il diritto di accesso si indirizza ai documenti amministrativi detenuti dall'Amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale; quindi è strutturato al fine di consentire la conoscenza di atti rappresentativi dell'attività della Pubblica amministrazione finalizzata alla cura e al perseguimento di scopi di interesse pubblico o che si configurino essenziali all'esercizio dell'attività stessa, indipendentemente dal fatto che essa sia espressione di poteri autoritativi o di autonomia negoziale dell' ente; nel documento deve quindi sostanziarsi l'esercizio della funzione amministrativa, ovvero deve costituire strumento per l'esercizio della potestà di amministrazione”
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In sede di accesso agli atti non è dato pretendere che l’istante indichi specifici dati (quali il numero di protocollo e la data di formazione di un atto) di atti e documenti non in suo possesso.
“L'esigenza di una puntuale indicazione degli estremi degli atti oggetto della domanda di accesso deve intendersi in modo flessibile e non formalistico, non occorrendo dunque l'indicazione di tutti gli estremi identificativi (organo emanante, numero di protocollo, data di adozione dell'atto), ma potendosi ritenere l'onere assolto con l'indicazione dell'oggetto e dello scopo cui l'atto è indirizzato, sì da mettere l'Amministrazione in condizione di comprendere la portata ed il contenuto della domanda”.
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Il Collegio ritiene che il ricorso sia fondato nei seguenti limiti, sussistendo il concreto interesse della ricorrente al riconoscimento in suo favore del diritto di accesso a tutti gli atti concernenti l’esecuzione dei lavori di cui all’oggetto, con particolare riferimento a quelli posti a fondamento della delibera di CME con cui è stata decisa la revoca dell’assegnazione ad -OMISSIS- della medesima esecuzione dei lavori.
Ed invero, il contratto di appalto è stato stipulato dal consorzio CME nell’interesse e per conto della deducente consorziata designata, che è stata la materiale esecutrice dei lavori sino alla sua estromissione.
Sussiste dunque la legittimazione di -OMISSIS- all’accesso a tutti i documenti concernenti l’esecuzione dei lavori di cui all’oggetto, con particolare riferimento a quelli prodromici alla revoca dei lavori di esecuzione dell’appalto.
E’ stato, in proposito, costantemente affermato dalla giurisprudenza amministrativa che i portatori di un interesse specifico hanno diritto di accesso agli atti amministrativi per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, intendendo, per tali, le situazioni giuridiche soggettive che presentino un collegamento diretto ed attuale con gli atti cui la richiesta si riferisce.
Il collegio richiama, sul punto, il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa in base al quale: “nelle gare pubbliche il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici è sottoposto ad un limite generale che è quello della necessaria sussistenza di un interesse differenziato, concreto ed attuale, il quale deve trovarsi in evidente collegamento con la tutela giurisdizionale di una determinata posizione giuridica dell'istante; inoltre il diritto all'accesso ai documenti amministrativi oppure alla documentazione privata d'interesse amministrativo, soprattutto per questa ultima, deve essere sempre comparato con il diritto alla riservatezza e comunque si deve ritenere prevalente ove connesso al riconoscimento di una determinata situazione in sede giurisdizionale” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 27.04.2015, n. 2096).
Inoltre: “E' da escludere che la titolarità del diritto d'accesso risieda soltanto in una situazione funzionale all'esercizio di un interesse giuridicamente protetto e suscettibile di tutela giurisdizionale; ed invero la richiesta di accesso, pur non potendo configurarsi quale forma di preventivo e generalizzato controllo dell'intera attività dell'Amministrazione, si può basare su un interesse anche non funzionalmente connesso ad un'immediata tutela in via giudiziale, purché concreto ed attuale; in altri termini, la nozione di «interesse giuridicamente rilevante», che fonda il diritto di accesso, è più ampia rispetto a quella di «interesse all'impugnazione»” (Cons. Stato, sez. V, 17.03.2015, n. 1370).
Il diritto di accesso non è stato configurato dal legislatore con carattere meramente strumentale rispetto alla difesa in giudizio, avendo un carattere autonomo, nel senso che il collegamento tra l'interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l'accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza va inteso in senso ampio, poiché la documentazione richiesta deve essere considerata mezzo utile per la difesa e non come strumento di prova diretta della lesione dell'interesse tutelato” (Cons. Stato, sez. VI, 10.02.2015, n. 714).
Deve, infine, precisarsi che: “Ai sensi dell'art. 22, comma 1, lett. b), l. 07.08.1990 n.241 e successive modificazioni, il diritto di accesso si indirizza ai documenti amministrativi detenuti dall'Amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale; quindi è strutturato al fine di consentire la conoscenza di atti rappresentativi dell'attività della Pubblica amministrazione finalizzata alla cura e al perseguimento di scopi di interesse pubblico o che si configurino essenziali all'esercizio dell'attività stessa, indipendentemente dal fatto che essa sia espressione di poteri autoritativi o di autonomia negoziale dell' ente; nel documento deve quindi sostanziarsi l'esercizio della funzione amministrativa, ovvero deve costituire strumento per l'esercizio della potestà di amministrazione” (Cons. Stato, sez. III, 22.12.2014, n. 6352).
Ne consegue, dunque, la possibilità dell’ostensione da parte della ricorrente anche di atti di natura privatistica, purché connessi all’esercizio della potestà autoritativa dell’amministrazione.
La legittimazione di -OMISSIS- all’accesso ai documenti richiesti si appalesa nel caso di specie in maniera ancor più evidente, posto che il consorzio CME ha disposto la revoca dell’assegnazione dell’appalto sulla base di presunti inadempimenti connessi con l’esecuzione del medesimo, cosicché è interesse della deducente prendere visione ed estrarre copia di tutti i documenti inerenti l’esecuzione dei lavori al fine di dimostrare, in sede giudiziale, la correttezza del proprio operato.
Riguardo all’asserzione avversaria secondo la quale il contenuto dell’istanza di -OMISSIS- non consentirebbe di individuare l’oggetto della stessa, gli atti di cui è stato richiesto l’accesso sono precisamente individuabili in relazione allo specifico appalto cui si riferiscono, espressamente indicato nella pertinente istanza («Intervento di ristrutturazione edilizia (OP 1.03 e OP 1.07) di cui al contratto d’appalto stipulato con l’Azienda Lombarda Edilizia Residenziale Milano (ALER MILANO), REP. 80/2008 – Q.re Molise/Calvairate – Lotto C – Fabbr. 8 – Via Tomei n. 2 e Piazza Insubria 1. Finanziamento “Contratti di Quartiere II” D.G.R. VII/13861 del 29/07/2003 – D.G.R. VII/14845 del 31/10/2003 CUP: I46I05000050007 – CIG. 02952331F»).
Inoltre, per insegnamento giurisprudenziale consolidato, in sede di accesso agli atti non è dato pretendere che l’istante indichi specifici dati (quali il numero di protocollo e la data di formazione di un atto) di atti e documenti non in suo possesso.
L'esigenza di una puntuale indicazione degli estremi degli atti oggetto della domanda di accesso deve intendersi in modo flessibile e non formalistico, non occorrendo dunque l'indicazione di tutti gli estremi identificativi (organo emanante, numero di protocollo, data di adozione dell'atto), ma potendosi ritenere l'onere assolto con l'indicazione dell'oggetto e dello scopo cui l'atto è indirizzato, sì da mettere l'Amministrazione in condizione di comprendere la portata ed il contenuto della domanda” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.01.2016, n. 28; TAR Lazio, Roma, sez. III., 17.01.2012, n. 487).
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va accolto e, per l’effetto, va annullato il provvedimento impugnato e va disposta la condanna dell’Amministrazione al riconoscimento in favore della società ricorrente del diritto di accesso a tutti gli atti concernenti l’esecuzione dei lavori di cui all’oggetto, con particolare riferimento a quelli posti a fondamento della delibera di CME con cui è stata decisa la revoca dell’assegnazione ad -OMISSIS- della medesima esecuzione dei lavori (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 12.06.2017 n. 1311 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIANon è configurabile in forma omissiva il reato di cui all'art. 256, comma secondo, d.lgs. n. 152 del 2006, nei confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti.
Nella fattispecie, il rapporto di coniugio non attribuisce il dovere di impedire che il coniuge reati e certamente non costituisce il coniuge custode o responsabile delle azioni dell'altro. Sicché tale rapporto non espande gli obblighi che (non) gravano sul proprietario dell'area.

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1.1 coniugi Gi.An. e Vi.Pa. ricorrono per l'annullamento della sentenza del 18/12/2015 del Tribunale di Brindisi che li ha condannati alla pena, condizionalmente sospesa, di 2.100,00 euro di ammenda per il reato di cui agli artt. 110, cod. pen., 256, commi 1 e 2, d.lgs. n. 152 del 2006, loro ascritto per aver, senza autorizzazione, raccolto, smaltito e stoccato rifiuti speciali non pericolosi, costituiti da pezzi di fili elettrici, terra e roccia da scavo, rifiuti legnosi, rifiuti ferrosi, plastica e gomma. Il fatto è contestato come accertato in Ceglie Messapica il 19/02/2014.
1.1. Con il primo motivo, deducendo che il (solo) An., titolare di impresa esercente attività edile, aveva momentaneamente depositato alcuni materiali ed attrezzature della propria ditta e che i cumuli di pietre erano null'altro che il prodotto di lavori agricoli di spietramento del terreno (circostanze oggetto della testimonianza resa dal figlio Ma., del tutto negletta), eccepiscono l'inosservanza e l'erronea applicazione degli artt. 192, cod. proc. pen., e 256, d.lgs. n. 152 del 2006 nonché vizio di motivazione contraddittoria ed illogica in ordine alla definizione di rifiuto dei beni sopra indicati e omessa valutazione di elementi di prova favorevoli all'imputato.
1.2. Con il secondo motivo eccepiscono, con riferimento alla posizione della Pa., la violazione del principio di colpevolezza e di responsabilità personale essendo la condanna basata sul presupposto della comproprietà del fondo e della 'culpa in vigilando'.
...
5. E' invece fondato il secondo motivo.
5.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, non è configurabile in forma omissiva il reato di cui all'art. 256, comma secondo, d.lgs. n. 152 del 2006, nei confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti (Sez. 3, n. 50997 del 07/10/2015, Cucinella, Rv. 266030; Sez. 3, n. 40528 del 10/06/2014, Cantoni, Rv. 260754; Sez. 3, n. 49327 del 12/11/2013, Merlet, Rv. 257294).
5.2. Il rapporto di coniugio non attribuisce il dovere di impedire che il coniuge reati e certamente non costituisce il coniuge custode o responsabile delle azioni dell'altro. Sicché tale rapporto non espande gli obblighi che (non) gravano sul proprietario dell'area.
5.3. Ne consegue che, essendo queste le uniche ragioni della condanna della Pa., nei suoi confronti la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio per non aver commesso il fatto (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.06.2017 n. 28704).

EDILIZIA PRIVATALa disposizione di cui all'art. 9, secondo comma, del DM del 02.04.1968, n. 1444 (nella parte in cui prevede che gli edifici di nuova realizzazione siano comunque ubicati ad una distanza minima, assoluta ed inderogabile, di dieci metri dalle pareti finestrate) deve applicarsi anche nell’ipotesi in cui si intenda realizzare un ripostiglio e, ciò, considerando sia, l’inesistenza di eccezioni in questo senso contenute nell’art. 9 sopra citato sia, ancora, in considerazione del fatto che anche detto manufatto è suscettibile di integrare la nozione di “fabbricato” e “costruzione” di cui allo stesso art. 9 e all’art. 873 del codice civile.
Precedenti pronunce hanno affermato che ai fini del computo della distanza di dieci metri “non sono computabili ai fini delle distanze tra edifici solamente:
   - gli sporti (cioè le sporgenze che non sono non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare);
   - le parti che hanno funzione ornamentale e decorativa (es. le mensole, le lesene, i risalti verticali);
   - le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni;
   - gli aggetti, gli elementi di ridotte dimensioni e gli altri manufatti di minima entità. Non possono invece essere esclusi dal computo delle distanze le pensiline, i balconi e tutte quelle sporgenze (anche dei generi ora indicati), che le particolari dimensioni sono destinate anche ad estendere ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l'uso abitativo dell'edificio”.
E’ noto, infatti, che la distanza minima fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione, luminosità ed altro.
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Deve ritenersi non condivisibile la tesi dell’Amministrazione comunale secondo la quale, al caso di specie, dovrebbe applicarsi l’art. 34 delle NTA, nella parte in cui detta disposizione consentirebbe di derogare alla distanza dei dieci metri, legittimando costruzioni “di servizio”, nei limiti delle distanze di cui al codice civile.
Sul punto è sufficiente evidenziare come costituisca orientamento consolidato che le disposizioni di cui al DM 1444/1968 prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica.
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1. Il ricorso va accolto, risultando fondati sia il primo che il secondo motivo.
1.1 In primo luogo è necessario premettere che costituisce circostanza incontestata che il manufatto è posizionato ad una distanza inferiore ai tre metri rispetto al muro perimetrale della villetta, così come risulta ad una distanza inferiore ai dieci metri rispetto alla parete finestrata del fabbricato sul fondo confinante di proprietà del Sig. Lo.Ju..
1.2 Ciò premesso è evidente che l’autorizzazione edilizia diretta a permettere la realizzazione del ripostiglio è stata adottata in violazione dell’art. 9, secondo comma, del DM del 02.04.1968, n. 1444, nella parte in cui prevede che gli edifici di nuova realizzazione siano comunque ubicati ad una distanza minima, assoluta ed inderogabile, di dieci metri dalle pareti finestrate.
1.3 Detta distanza deve applicarsi anche nell’ipotesi in cui si intenda realizzare un ripostiglio e, ciò, considerando sia, l’inesistenza di eccezioni in questo senso contenute nell’art. 9 sopra citato sia, ancora, in considerazione del fatto che anche detto manufatto è suscettibile di integrare la nozione di “fabbricato” e “costruzione” di cui allo stesso art. 9 e all’art. 873 del codice civile.
1.4 Precedenti pronunce hanno affermato che ai fini del computo della distanza di dieci metri “non sono computabili ai fini delle distanze tra edifici solamente: - gli sporti (cioè le sporgenze che non sono non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare); - le parti che hanno funzione ornamentale e decorativa (es. le mensole, le lesene, i risalti verticali); - le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni; - gli aggetti, gli elementi di ridotte dimensioni e gli altri manufatti di minima entità. Non possono invece essere esclusi dal computo delle distanze le pensiline, i balconi e tutte quelle sporgenze (anche dei generi ora indicati), che le particolari dimensioni sono destinate anche ad estendere ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l'uso abitativo dell'edificio (Cons. Stato Sez. IV, 21.10.2013, n. 5108, Cons. Stato Sez. V, 13.03.2014, n. 1272 Cass. civ. Sez. II, 24.11.1995, n. 12163)”.
1.5 E’ noto, infatti, che la distanza minima fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione, luminosità ed altro.
1.6 Deve ritenersi non condivisibile la tesi dell’Amministrazione comunale secondo la quale, al caso di specie, dovrebbe applicarsi l’art. 34 delle NTA, nella parte in cui detta disposizione consentirebbe di derogare alla distanza dei dieci metri, legittimando costruzioni “di servizio”, nei limiti delle distanze di cui al codice civile.
1.7 Sul punto è sufficiente evidenziare come costituisca orientamento consolidato che le disposizioni di cui al DM 1444/1968 prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (per tutti si veda TAR Emilia Romagna-Bologna Sez. I, 08.07.2016, n. 693, Cons. Stato Sez. IV, 29.02.2016, n. 856 Cons. Stato Sez. IV, 02.11.2010, n. 7731 e Cass. civ. Sez. Unite, 07.07.2011, n. 14953).
1.8 L’autorizzazione di cui si tratta è stata adottata anche in violazione dell’art. 873 del codice civile nella parte in cui prevede che le costruzioni tra fondi finitimi devono essere tenute ad una distanza non inferiore a tre metri, disposizione quest’ultima suscettibile di essere derogata solo prevedendo una distanza superiore.
2. In conclusione il ricorso è fondato e va accolto, con conseguente annullamento dell’autorizzazione edilizia n. 98 del 04.04.2002 (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 08.06.2017 n. 785 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl comma 2 dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 ammette distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi per gruppi di edifici che siano oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate dotati di “previsioni planovolumetriche”.
La previsione derogatoria si fonda sul presupposto che nel disciplinare la realizzazione ex novo o la sistemazione integrale di un insieme di edifici un piano di natura esecutiva possa adottare soluzioni progettuali e accorgimenti tecnici in grado di evitare problemi igienico-sanitari anche con una distanza inferiore a 10 metri.
Affinché la deroga possa operare è, quindi, necessario che il piano attuativo giunga ad un livello di dettaglio tale “da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario”.
A tale risultato conduce non solo la ratio ma anche la lettera del comma 2 dell’art. 9 del citato D.M. nella parte in cui richiede che la deroga all’obbligo di distanza possa derivare solo da uno strumenti pianificatorio che contenga “previsioni planovolumetriche”, ossia previsioni progettuali che evidenzino congiuntamente la planimetria ed il volume dei fabbricati presi in considerazione attraverso la proiezione in mappa delle relative ombre; posto che solo in tal modo risulta possibile operare una verifica concreta sul fatto se un distacco inferiore a quello standard di 10 m. possa nuocere alle esigenze di salubrità ed areazione degli edifici frontistanti.
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E’ fondata la prospettazione difensiva delle parti intimate che fa leva sulla non applicabilità degli obblighi di distanza prevista dall’art. 879 c.c. per le costruzioni al confine con vie e con piazze.
Anche a voler tacere del fatto che la citata disposizione si riferisce a costruzioni da realizzare su vie esistenti e non semplicemente programmate dagli strumenti urbanistici, la stessa non trova applicazione all’obbligo di distanza fra pareti finestrate previsto dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 in quanto tale obbligo non attiene solo ad una dimensione intersoggettiva di regolamentazione dei rapporti fra proprietà finitime ma è posto a presidio del preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico intorno alla strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che trova la sua disciplina esclusivamente nelle leggi e regolamenti urbanistico-edilizi fra cui il citato D.M..

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Nel merito sia il comune di Grosseto che la controinteressata osservano:
   1) che l’impugnata variante avrebbe la consistenza di piano particolareggiato dotato di previsioni planivolumetriche per ciascun isolato e, come tale, ben avrebbe potuto contenere previsioni derogatorie rispetto all’obbligo di distanza di 10 metri fra pareti finestrate in forza della previsione di cui alla seconda parte del comma 1 dell’art. 9 del D.M. 1444 del 1968.
   2) che essendo l’edificio oggetto dell’impugnato permesso confinante con un passaggio pubblico previsto dalla variante esso non era tenuto al rispetto delle distanze legali in forza della previsione di cui all’art. 879 c.c.
Entrambe le deduzioni difensive sono prive di fondamento.
Il comma 2 dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 ammette distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi per gruppi di edifici che siano oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate dotati di “previsioni planovolumetriche”.
La previsione derogatoria si fonda sul presupposto che nel disciplinare la realizzazione ex novo o la sistemazione integrale di un insieme di edifici un piano di natura esecutiva possa adottare soluzioni progettuali e accorgimenti tecnici in grado di evitare problemi igienico-sanitari anche con una distanza inferiore a 10 metri (TAR Brescia 730/2011).
Affinché la deroga possa operare è, quindi, necessario che il piano attuativo giunga ad un livello di dettaglio tale “da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario” (Corte Cost. 24/02/2017 n. 41).
A tale risultato conduce non solo la ratio ma anche la lettera del comma 2 dell’art. 9 del citato D.M. nella parte in cui richiede che la deroga all’obbligo di distanza possa derivare solo da uno strumenti pianificatorio che contenga “previsioni planovolumetriche”, ossia previsioni progettuali che evidenzino congiuntamente la planimetria ed il volume dei fabbricati presi in considerazione attraverso la proiezione in mappa delle relative ombre; posto che solo in tal modo risulta possibile operare una verifica concreta sul fatto se un distacco inferiore a quello standard di 10 m. possa nuocere alle esigenze di salubrità ed areazione degli edifici frontistanti.
Nel caso di specie la tavole della variante riferite alla zona omogenea B2 (isolato 29, lotto 3 nel quale sono compresi gli edifici di cui al ricorso – doc. 6 del fascicolo dell’amministrazione) contengono una rappresentazione “solo in pianta” dei fabbricati esistenti al momento della loro redazione e l’indicazione astratta dei volumi realizzabili in ampliamento, la cui collocazione, tuttavia, non è graficamente sviluppata attraverso una rappresentazione planovolumetrica.
Non risulta, quindi, raggiunto il livello di dettaglio progettuale previsto dal comma 2 dell’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 ai fini della derogabilità degli obblighi di distanza previsti dai commi precedenti.
E’ altresì fondata la prospettazione difensiva delle parti intimate che fa leva sulla non applicabilità degli obblighi di distanza prevista dall’art. 879 c.c. per le costruzioni al confine con vie e con piazze.
Anche a voler tacere del fatto che la citata disposizione si riferisce a costruzioni da realizzare su vie esistenti e non semplicemente programmate dagli strumenti urbanistici, la stessa, secondo un costante orientamenti giurisprudenziale che il Collegio condivide, non trova applicazione all’obbligo di distanza fra pareti finestrate previsto dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 in quanto tale obbligo non attiene solo ad una dimensione intersoggettiva di regolamentazione dei rapporti fra proprietà finitime ma è posto a presidio del preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico intorno alla strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che trova la sua disciplina esclusivamente nelle leggi e regolamenti urbanistico-edilizi fra cui il citato D.M. (TAR Palermo, sez. III, 17/10/2012, n. 2049; TAR Genova (Liguria) sez. I 20.07.2011 n. 1148; TAR Brescia, sez. I 03.07.2008 n. 788).
Alla luce di quanto sopra specificato occorre quindi concludere nel senso che la impugnata variante del comparto C.1 di Marina di Grosseto è illegittima in parte qua (con specifico riferimento ai lotti in cui insistono le proprietà dei ricorrenti e della controinteressata) nel punto in cui consente la realizzazione di interventi di ricostruzione con maggiore volumetria ad una distanza inferiore a quella prevista dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968, posto che tale tipologia di interventi, essendo inquadrabile nella categoria della nuova costruzione, deve rispettare gli obblighi di distanza legale (Cass. 20/08/2015 n. 17043).
Parimenti illegittimo (per derivazione) deve ritenersi l’impugnato permesso di costruire rilasciato in sua attuazione.
Il ricorso deve, quindi, essere accolto in relazione alla domanda di annullamento dei predetti atti, mentre è inammissibile con riferimento alla domanda di condanna della controinteressata alla demolizione del manufatti illegittimamente autorizzato posto che la stessa esula dalla giurisdizione esclusiva del g.a. in materia di atti e comportamenti della p.a. afferenti il governo del territorio (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 08.06.2017 n. 776 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sulla possibilità, o meno, di accede ad un parere legale del comune cui è succeduto il preavviso di diniego del richiesto permesso di costruire.
Le ragioni poste alla base del diniego di accesso al parere legale, fondate sulla sua natura di “documento interno riservato, prodromico anche ad una eventuale difesa in giudizio”, per quanto stringate, risultano puntuali e satisfattive.
Difatti, va dapprima sottolineato come il predetto parere legale non sia stato affatto richiamato esplicitamente nel provvedimento adottato dall’Amministrazione, comunque dotato di una specifica ed esaustiva motivazione, che ha posto in grado la ricorrente di percepire le ragioni del diniego tanto da indurla a ritirare la richiesta originaria; da ciò si deduce, quantomeno in via presuntiva, l’intenzione degli Uffici comunali di tenere riservato il parere legale e non utilizzarlo per rafforzare l’apparato motivazionale posto alla base del preavviso di diniego del permesso di costruire. L’assenza negli atti del procedimento di un diretto riferimento al parere rende molto dubbia la sua natura di atto endoprocedimentale e quindi la sua valenza istruttoria.
Inoltre, nell’impugnato diniego si specifica che il parere risulta essere un documento interno riservato, finalizzato anche ad una eventuale difesa in giudizio del Comune, con ciò chiarendosi le effettive intenzioni che hanno indotto l’Amministrazione all’acquisizione del predetto parere.
Del resto, il principio della riservatezza della consulenza legale, che dovrebbe garantire all’Amministrazione la possibilità di predisporre la propria strategia difensiva, in ordine ad un lite che, pur non essendo ancora in atto, può considerarsi quanto meno potenziale, si pone non come eccezione alla regola dell’accesso, e dunque, di stretta interpretazione, bensì come disciplina rispondente ai valori sottesi all’art. 24 Cost., in modo da evitare che l’accesso sia adoperato in modo strumentale e tale da offrire indebiti vantaggi ad una delle parti in giudizio.
Quindi il parere legale deve essere osteso soltanto laddove abbia con certezza una funzione endoprocedimentale e istruttoria, perché correlato ad un procedimento amministrativo che si conclude con un provvedimento ad esso collegato, mentre se lo stesso è reso allo scopo di definire una strategia difensiva, anche in vista di una lite potenziale, ben può essere ritenuto inaccessibile dall’Amministrazione.

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2. Passando all’esame del merito del ricorso, lo stesso è infondato.
3. Con le due censure di ricorso, da trattare congiuntamente in quanto strettamente connesse, si assume l’illegittimità del diniego comunale in ragione della ampiezza del diritto di accesso e della necessaria interpretazione restrittiva dei casi di sua esclusione, unitamente alla circostanza che il richiesto parere legale sarebbe stato riversato nel procedimento amministrativo e, senza alcuna effettiva motivazione, sarebbe stato sottratto all’accesso.
3.1. Le doglianze sono complessivamente infondate.
Appare opportuno premettere che non risultano affatto dimostrate –se non in modo apodittico e generico– la concretezza e l’attualità dell’interesse all’accesso, visto che il procedimento cui si riferisce il parere legale si è concluso per scelta autonoma della stessa ricorrente attraverso la rinuncia, dopo la comunicazione del preavviso di rigetto trasmessa dal Comune, all’originario intervento edilizio, per il quale era stato richiesto un permesso di costruire; la successiva presentazione di una s.c.i.a. per la realizzazione di un intervento avente differenti caratteristiche quali-quantitative non appare idonea a riattivare il pregresso e oramai concluso procedimento edilizio avviato con la richiesta di permesso di costruire, considerata l’alternatività tra gli stessi.
3.2. In ogni caso, le ragioni poste alla base del diniego di accesso al parere legale, fondate sulla sua natura di “documento interno riservato, prodromico anche ad una eventuale difesa in giudizio”, per quanto stringate, risultano puntuali e satisfattive, anche alla luce delle peculiarità del caso di specie.
Difatti, va dapprima sottolineato come il predetto parere legale non sia stato affatto richiamato esplicitamente nel provvedimento adottato dall’Amministrazione, comunque dotato di una specifica ed esaustiva motivazione, che ha posto in grado la ricorrente di percepire le ragioni del diniego tanto da indurla a ritirare la richiesta originaria (cfr. all. 2 al ricorso); da ciò si deduce, quantomeno in via presuntiva, l’intenzione degli Uffici comunali di tenere riservato il parere legale e non utilizzarlo per rafforzare l’apparato motivazionale posto alla base del preavviso di diniego del permesso di costruire. L’assenza negli atti del procedimento di un diretto riferimento al parere rende molto dubbia la sua natura di atto endoprocedimentale e quindi la sua valenza istruttoria (sull’accessibilità dei soli pareri posti alla base del provvedimento finale, laddove costituiscano parte integrante della motivazione: Consiglio di Stato, V, 23.06.2011, n. 3812; TAR Lombardia, Milano, II, 18.11.2011, n. 2788).
Inoltre, nell’impugnato diniego si specifica che il parere risulta essere un documento interno riservato, finalizzato anche ad una eventuale difesa in giudizio del Comune, con ciò chiarendosi le effettive intenzioni che hanno indotto l’Amministrazione all’acquisizione del predetto parere.
Del resto, il principio della riservatezza della consulenza legale, che dovrebbe garantire all’Amministrazione la possibilità di predisporre la propria strategia difensiva, in ordine ad un lite che, pur non essendo ancora in atto, può considerarsi quanto meno potenziale, si pone non come eccezione alla regola dell’accesso, e dunque, di stretta interpretazione, bensì come disciplina rispondente ai valori sottesi all’art. 24 Cost., in modo da evitare che l’accesso sia adoperato in modo strumentale e tale da offrire indebiti vantaggi ad una delle parti in giudizio (cfr. Consiglio di Stato, IV, 18.10.2016, n. 4338).
Quindi il parere legale deve essere osteso soltanto laddove abbia con certezza una funzione endoprocedimentale e istruttoria, perché correlato ad un procedimento amministrativo che si conclude con un provvedimento ad esso collegato, mentre se lo stesso è reso allo scopo di definire una strategia difensiva, anche in vista di una lite potenziale, ben può essere ritenuto inaccessibile dall’Amministrazione (cfr. Consiglio di Stato, IV, 18.10.2016, n. 4338).
Nella fattispecie di cui al presente contenzioso, pertanto, appare giustificato il diniego di accesso al parere legale opposto dal Comune alla società ricorrente.
3.3. Di conseguenza, le suesposte censure non sono meritevoli di accoglimento.
4. In conclusione, il ricorso deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.06.2017 n. 1293 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn sede di esame della istanza di accertamento di conformità proposta ai sensi dell’art. 36 del testo unico n. 380 del 2001, il Comune deve effettuare non solo gli accertamenti espressamente previsti dal medesimo art. 36, ma anche quelli –logicamente antecedenti e giuridicamente rilevanti– previsti dagli articoli 11 e 12 del medesimo testo unico.
Tra le disposizioni applicabili in tema di istanze in materia edilizia, vi è l’art. 11, comma 1, del testo unico, per il quale «il permesso di costruire è rilasciato al permesso di costruire o a chi abbia titolo per richiederlo».
Tale regola riguarda non solo le istanze volte a realizzare nuovi edifici, ma anche quelle volte alla sanatoria, a qualsiasi titolo, di un immobile realizzato sine titulo.
L’interpretazione estensiva dell’art. 11, comma 1, del testo unico si giustifica per la natura stessa dell’accertamento di conformità (ovvero del condono straordinario). La sua ratio corrisponde a quella dell’art. 4 della legge n. 10 del 1977.
Come rilevato dalla pacifica giurisprudenza, in sede di rilascio del titolo edilizio (sia esso la concessione, ovvero il permesso), «il Comune è tenuto a verificare la legittimazione soggettiva del richiedente, con il solo limite di non poter procedere d’ufficio ad indagini su profili che non appaiono controversi»: il Comune non deve effettuare un «definitivo accertamento di eventualmente confliggenti posizioni di diritto soggettivo, demandato alla sede naturale della risoluzione di tali conflitti, cioè alla giurisdizione ordinaria».
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7.1. Contrariamente a quanto è stato dedotto dalle interessate, in sede di esame della istanza di accertamento di conformità proposta ai sensi dell’art. 36 del testo unico n. 380 del 2001, il Comune deve effettuare non solo gli accertamenti espressamente previsti dal medesimo art. 36, ma anche quelli –logicamente antecedenti e giuridicamente rilevanti– previsti dagli articoli 11 e 12 del medesimo testo unico.
Tra le disposizioni applicabili in tema di istanze in materia edilizia, vi è l’art. 11, comma 1, del testo unico, per il quale «il permesso di costruire è rilasciato al permesso di costruire o a chi abbia titolo per richiederlo».
Tale regola riguarda non solo le istanze volte a realizzare nuovi edifici, ma anche quelle volte alla sanatoria, a qualsiasi titolo, di un immobile realizzato sine titulo.
L’interpretazione estensiva dell’art. 11, comma 1, del testo unico si giustifica per la natura stessa dell’accertamento di conformità (ovvero del condono straordinario).
La sua ratio corrisponde a quella dell’art. 4 della legge n. 10 del 1977.
Come rilevato dalla pacifica giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. IV, 25.11.2008, n. 5811; Sez. V, 11.03.2001, n. 1507), in sede di rilascio del titolo edilizio (sia esso la concessione, ovvero il permesso), «il Comune è tenuto a verificare la legittimazione soggettiva del richiedente, con il solo limite di non poter procedere d’ufficio ad indagini su profili che non appaiono controversi»: il Comune non deve effettuare un «definitivo accertamento di eventualmente confliggenti posizioni di diritto soggettivo, demandato alla sede naturale della risoluzione di tali conflitti, cioè alla giurisdizione ordinaria».
Pertanto, il Comune non poteva che attribuire rilevanza alla opposizione del signor Fu., che nel corso del procedimento ha fornito una documentazione tale da far ritenere ragionevole la sussistenza della sua legittimazione ad opporsi anche all’accertamento di conformità.
Poiché il provvedimento impugnato non doveva risolvere il conflitto venutosi a verificare tra le ricorrenti ed il signor Fu., ma doveva unicamente prendere atto della opposizione di quest’ultimo, adeguatamente motivata, il contestato diniego risulta adeguatamente istruito e motivato (e non si può nella presente sede giurisdizionale effettuare l’indagine sulla effettiva titolarità del bene, dovendosi unicamente verificare se l’atto impugnato sia legittimo) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 05.06.2017 n. 521 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Ostensione dell’offerta nella parte in cui contiene informazioni che costituiscano segreti tecnici o commerciali.
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Accesso ai documenti – Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione relativa – Art. 53, comma 5, lett. a, d.lgs. n. 50 del 2016 - Informazioni che costituiscano segreti tecnici o commerciali – Condizione.
Accesso ai documenti – Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione relativa – Art. 53, comma 5, lett. a, d.lgs. n. 50 del 2016 – Limiti – Prevalenza della difesa in giudizio – Decorso del termine per impugnare l’aggiudicazione – Irrilevanza ex se.
L’art. 53, comma 5, lett. a), d.lgs. 18.04.2016, n. 50 –che disciplina i casi di esclusione “relativa” all’accesso ai documenti di gara– non fa riferimento all’offerta nel suo complesso, che in linea di principio è accessibile, ma soltanto alla parte di essa che contiene informazioni che costituiscano segreti tecnici o commerciali, parti che devono essere indicate, motivate e comprovate da una espressa dichiarazione dell’offerente, contenuta nell’offerta stessa (1).
Il divieto di accesso ai documenti di gara, previsto dalla lett. a) del comma 5 dell’art. 53, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, non è assoluto, essendo infatti consentito, dal successivo comma 6, l’accesso al concorrente che lo chieda in vista della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto nell’ambito della quale viene formulata la richiesta di accesso, senza che tale possibilità venga meno a seguito del decorso del termine utile per intraprendere azioni giurisdizionali volte alla contestazione dell’esito della procedura di gara avanti il Tar competente (2).
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   (1) Ha chiarito il Tar che tale dichiarazione costituisce un onere per l’offerente che voglia mantenere riservate e sottratte all’accesso tali parti dell’offerta. Peraltro tale manifestazione di volontà è comunque suscettiva di autonomo e discrezionale apprezzamento da parte della stazione appaltante sotto il profilo della validità e pertinenza delle ragioni prospettate a sostegno dell’opposto diniego.
   (2) Ad avviso del Tar la tutela impugnatoria ai fini caducatori (soggetta allo stringente termine decadenziale dimezzato) non esaurisce lo spettro di forme di difese in giudizio del concorrente non aggiudicatario, ben potendo, anche nella stessa sede giurisdizional-amministrativa, azionare l’autonoma e concorrente tutela risarcitoria nel più ampio spatium temporis ivi previsto.
Ha aggiunto il tribunale che costituendo la previsione normativa de qua un’eccezione all’eccezione di esclusione (relativa) e di conseguente ripristinando il principio generale espresso dal primo comma dell’art. 53, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (in linea con un univoco trend normativo volto ad ampliare in termini quali-quantitativi il valore della trasparenza amministrativa sia con riguardo alla generale azione della Pubblica amministrazione, sia nello specifico settore dei contratti pubblici), della stessa deve esser data un’opzione ermeneutica non restrittivo-limitativa, ma al contrario ampliativo-estensiva, nel senso appunto di ricondurre al concetto di “difesa in giudizio” degli interessi del concorrente, in relazione alla procedura di affidamento del contratto nell’ambito del quale viene formulata la richiesta di accesso, come comprensiva di ogni forma di tutela delle proprie posizioni giuridiche.
In altri termini, se l’accesso è diritto dell’interessato ammesso in via generale dalla norma della l. 07.08.1990, n. 241, le compressioni di cui ai commi 2 e 5 dell’art. 53 del Codice rappresentano norme speciali e, comunque, eccezionali, da interpretarsi in modo restrittivo (attenendosi a quanto tassativamente ed espressamente contenuto in esse); mentre le deroghe a tali eccezioni, contenute nel comma 6 di tale ultima disposizione, consentendo una riespansione e riaffermazione del diritto generalmente riconosciuto nel nostro ordinamento di accedere agli atti, possono ben essere considerate “eccezioni all’eccezione” e, dunque, nuovamente regola (TAR Valle d’Aosta, sentenza 05.06.2017 n. 34 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPur nel nuovo sistema introdotto dagli artt. 2 e 3, l. n. 241 del 1990, il silenzio serbato dall'Amministrazione sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica di cui all'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di atto tacito di reiezione dell'istanza (e quindi di silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto).
Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato dall'interessato in sede giurisdizionale nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua di un comune provvedimento, senza che possano ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali i difetti di procedura o la mancanza di motivazione, con la conseguenza che il predetto provvedimento, in quanto tacito, è già di per sé privo di motivazione ed impugnabile non per difetto di motivazione, bensì per il suo contenuto di rigetto.
Pertanto, l'ordinamento, a seguito della presentazione dell'istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, non prevede alcun obbligo dell'Amministrazione di pronunciarsi con un provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato sulla predetta istanza come rifiuto della stessa.
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Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato.
Ed invero, in relazione ai primi due motivi di ricorso, concernenti l’assunta carenza di motivazione e la violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990, deve richiamarsi il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, per il quale: “Pur nel nuovo sistema introdotto dagli artt. 2 e 3, l. n. 241 del 1990, il silenzio serbato dall'Amministrazione sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica di cui all'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di atto tacito di reiezione dell'istanza (e quindi di silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto). Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato dall'interessato in sede giurisdizionale nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua di un comune provvedimento, senza che possano ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali i difetti di procedura o la mancanza di motivazione, con la conseguenza che il predetto provvedimento, in quanto tacito, è già di per sé privo di motivazione ed impugnabile non per difetto di motivazione, bensì per il suo contenuto di rigetto. Pertanto, l'ordinamento, a seguito della presentazione dell'istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, non prevede alcun obbligo dell'Amministrazione di pronunciarsi con un provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato sulla predetta istanza come rifiuto della stessa” (cfr., fra le tante, TAR Campania, sez. III, 22.08.2016, n. 4088) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 01.06.2017 n. 1231 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' del tutto inconciliabile con la finalità agricola, e non può essere ammissibile, la realizzazione in area agricola di opere di battitura del terreno, riporto di sabbia e di materiali inerti con asfaltatura per la realizzazione di una pavimentazione per uno spessore di circa 50 cm.
La realizzazione del piazzale-deposito altera lo stato dei luoghi e costituisce un intervento di permanente trasformazione edilizia e urbanistica del territorio disciplinato dall'art. 3, d.P.R. n. 380 del 2001 che, essendo subordinato al permesso di costruire, deve necessariamente rispettare le tipologie e le destinazioni d'uso funzionali consentite per la zona agricola.

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Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato.
...
Riguardo, invece, al terzo motivo di diritto, l’opera di asfaltatura è stata realizzata su area agricola.
In proposito, riguardo ad altre fattispecie analoghe a quella in questione la realizzazione di un parcheggio scoperto è stata riconosciuta assolutamente fuori dalle ipotesi di legittima utilizzazione che il proprietario poteva fare del proprio terreno ed è stato, in particolare, affermato che: “E' del tutto inconciliabile con la finalità agricola, e non può essere ammissibile, la realizzazione in area agricola di opere di battitura del terreno, riporto di sabbia e di materiali inerti con asfaltatura per la realizzazione di una pavimentazione per uno spessore di circa 50 cm. La realizzazione del piazzale-deposito altera lo stato dei luoghi e costituisce un intervento di permanente trasformazione edilizia e urbanistica del territorio disciplinato dall'art. 3, d.P.R. n. 380 del 2001 che, essendo subordinato al permesso di costruire, deve necessariamente rispettare le tipologie e le destinazioni d'uso funzionali consentite per la zona agricola” (cfr. TAR Campania, sez. VIII, 10.03.2016, n. 1397; 07.11.2016, n. 5116) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 01.06.2017 n. 1231 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell'art. 9, comma 1, l. 24.03.1989, n. 122 i proprietari di immobili possono realizzare, nei locali siti al piano terreno dei fabbricati, parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti.
Peraltro condizione essenziale per l'applicazione della succitata normativa è che si tratti di parcheggi «pertinenziali», nel senso che devono essere al servizio di singole unità immobiliari e fruibili solo da chi si trova in un determinato rapporto con tali unità immobiliari, che si può inverare nella «residenza» e può pure presupporre una relazione di pertinenzialità materiale tale, cioè, da evocare un rapporto d'immediata contiguità fisica tra il fabbricato principale e l'area asservita.

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Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato.
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Il Collegio condivide integralmente tale orientamento, risultando, pertanto, infondato pure il terzo motivo di gravame, anche in considerazione dell’insussistenza del vincolo giuridico-pertinenziale.
Ai sensi dell'art. 9, comma 1, l. 24.03.1989, n. 122 i proprietari di immobili possono realizzare, nei locali siti al piano terreno dei fabbricati, parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti; peraltro condizione essenziale per l'applicazione della succitata normativa è che si tratti di parcheggi «pertinenziali», nel senso che devono essere al servizio di singole unità immobiliari e fruibili solo da chi si trova in un determinato rapporto con tali unità immobiliari, che si può inverare nella «residenza» e può pure presupporre una relazione di pertinenzialità materiale tale, cioè, da evocare un rapporto d'immediata contiguità fisica tra il fabbricato principale e l'area asservita” (Cons. Stato, sez. IV, 23.05.2016, n. 2116).
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 01.06.2017 n. 1231 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAllo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può dare luogo a un atto propriamente di conferma, in grado, come tale, di costituire un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando l'amministrazione, a fronte di un'istanza di riesame, si limita a dichiararne l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione.
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A questo proposito, va ricordata la costante giurisprudenza elaborata in tema di atto di conferma.
Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può dare luogo a un atto propriamente di conferma, in grado, come tale, di costituire un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando l'amministrazione, a fronte di un'istanza di riesame, si limita a dichiararne l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione (cfr. per tutte Cons. Stato, sez. IV, 14.04.2014, n. 1805; sez. IV, 12.02.2015, n.758; sez. IV, 29.02.2016, n. 812) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 30.05.2017 n. 2564 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza è monolitica nell’affermare che il Comune in sede di istruttoria per il rilascio di un titolo edilizio non è chiamato a svolgere accertamenti complessi, dovendo limitarsi a verificare la sussistenza di un titolo legittimante, posto che l’autorizzazione viene emanata facendo comunque salvi i diritti dei terzi.
Dall’accertamento dell’esistenza di eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi dello ius aedificandi o della piena disponibilità dei beni oggetto dell’intervento consegue per l’amministrazione il dovere di adottare i provvedimenti volti al ripristino della legalità violata. La verifica dell'esistenza di un idoneo titolo sul bene oggetto della richiesta avviene mediante attività che non è diretta a risolvere i conflitti tra i privati ma ad accertare il requisito della legittimazione soggettiva del richiedente.
Del resto secondo condivisa giurisprudenza “l’Amministrazione non può agire in spregio dei principi che tutelano la proprietà privata nei confronti dell’azione amministrativa: principi che sono sanciti dalla Costituzione, ma ormai presidiati anche da un consistente corpus giurisprudenziale della Corte europea dei diritti dell’uomo; e che hanno anche un impatto sui profili sostanziali del governo e della gestione del territorio.
Ragionare diversamente significherebbe non salvaguardare, bensì pregiudicare i principi di buon andamento e del giusto procedimento, dovendosi aver riguardo alle fondamentali garanzie della proprietà. Ed anche il principio di conservazione degli atti si rivela recessivo nella specie, mancando il presupposto fondamentale della legittimazione, neppure sanato a posteriori.
E parimenti recessivo si rivela -in concreto- il principio dell’affidamento”.
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Tali principi ancor più valgono con riferimento alla denuncia/segnalazione di inizio attività, che è un atto soggettivamente ed oggettivamente privato, uno strumento di massima semplificazione quale manifestazione di autonomia privata con cui l'interessato certifica la sussistenza dei presupposti in fatto ed in diritto allegati a presupposto del legittimo esercizio dell'attività segnalata alla P.A.
Presupposto indefettibile perché una DIA/SCIA possa essere produttiva di effetti è la completezza e la veridicità delle dichiarazioni contenute nell'autocertificazione, in presenza di una dichiarazione inesatta o incompleta all'Amministrazione spetta comunque il potere di inibire l'attività dichiarata.
La Sezione in recente pronuncia ha richiamato, condividendolo, l’orientamento consolidato della giurisprudenza per cui “non sono evocabili i principi a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine dei presupposti per concludere favorevolmente il procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d'ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto dell'interessato (come nel caso in esame), non necessita, peraltro, di un'espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica e in considerazione che le affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato, ossia una situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato”.
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8.2. – Da quanto appena evidenziato consegue che i provvedimenti adottati dal Comune ed oggetto di gravame assumono i caratteri dell’atto dovuto.
La denunziata violazione delle regole e dei principi che governano l’esercizio del potere di autotutela ed il connesso principio dell’affidamento del privato, non appare meritevole di positiva delibazione.
Sia i precedenti proprietari nell’istanza di accertamento di conformità, che la ricorrente nella SCIA hanno, infatti, dichiarato l’assenza della lesione dei diritti dei terzi.
Tali dichiarazioni sono risultate non rispondenti ai contenuti della produzione documentale.
In simili casi anche l’attuale formulazione dell’art. 19 L. 241/1990, frutto di recenti interventi nel senso della liberalizzazione, al comma 6-bis L. 241/1990, consente al Comune di esercitare i propri poteri sanzionatori, prevedendo che «restano altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dalle leggi regionali».
La giurisprudenza è monolitica nell’affermare che il Comune in sede di istruttoria per il rilascio di un titolo edilizio non è chiamato a svolgere accertamenti complessi, dovendo limitarsi a verificare la sussistenza di un titolo legittimante, posto che l’autorizzazione viene emanata facendo comunque salvi i diritti dei terzi (ex multis Cons. Stato, sez. IV, sent, 5587 del 09.12.2015 e apre n. 4571 del 12.12.2011).
Dall’accertamento dell’esistenza di eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi dello ius aedificandi o della piena disponibilità dei beni oggetto dell’intervento consegue per l’amministrazione il dovere di adottare i provvedimenti volti al ripristino della legalità violata. La verifica dell'esistenza di un idoneo titolo sul bene oggetto della richiesta avviene mediante attività che non è diretta a risolvere i conflitti tra i privati ma ad accertare il requisito della legittimazione soggettiva del richiedente (TAR Sicilia, sez. III, sent. 100 del 13.01.2017).
Del resto secondo condivisa giurisprudenza “l’Amministrazione non può agire in spregio dei principi che tutelano la proprietà privata nei confronti dell’azione amministrativa: principi che sono sanciti dalla Costituzione, ma ormai presidiati anche da un consistente corpus giurisprudenziale della Corte europea dei diritti dell’uomo; e che hanno anche un impatto sui profili sostanziali del governo e della gestione del territorio.
Ragionare diversamente significherebbe non salvaguardare, bensì pregiudicare i principi di buon andamento e del giusto procedimento, dovendosi aver riguardo alle fondamentali garanzie della proprietà. Ed anche il principio di conservazione degli atti si rivela recessivo nella specie, mancando il presupposto fondamentale della legittimazione, neppure sanato a posteriori.
E parimenti recessivo si rivela -in concreto- il principio dell’affidamento
” (TAR Lazio, sez. II-bis, sent. 1141 del 02.02.2012).
8.3. - Tali principi ancor più valgono con riferimento alla denuncia/segnalazione di inizio attività, che è un atto soggettivamente ed oggettivamente privato, uno strumento di massima semplificazione quale manifestazione di autonomia privata con cui l'interessato certifica la sussistenza dei presupposti in fatto ed in diritto allegati a presupposto del legittimo esercizio dell'attività segnalata alla P.A.
Presupposto indefettibile perché una DIA/SCIA possa essere produttiva di effetti è la completezza e la veridicità delle dichiarazioni contenute nell'autocertificazione, in presenza di una dichiarazione inesatta o incompleta all'Amministrazione spetta comunque il potere di inibire l'attività dichiarata.
La Sezione in recente pronuncia (TAR Bari, sent. 96/2017) ha richiamato, condividendolo, l’orientamento consolidato della giurisprudenza per cui “non sono evocabili i principi a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine dei presupposti per concludere favorevolmente il procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d'ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto dell'interessato (come nel caso in esame), non necessita, peraltro, di un'espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. V, 08.11.2012 n. 5691; Consiglio di Stato, sez. IV, 30.07.2012 n. 4300) e in considerazione che le affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato (si veda, ad esempio, Consiglio di Stato, sez. I, 25.05.2012 n. 3060), ossia una situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato
” (ex multis, da ultimo, TAR Bari, sez. III, sent. 222 del 09.03.2017, TAR Campania, sez. IV, sent. 5726, del 13.12.2016).
9. - Dalle considerazioni che precedono discende anche il rigetto delle censure articolate avverso la successiva ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi, in quanto deve ritenersi provvedimento consequenziale rigidamente vincolato. L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, infatti, ‘in re ipsa’.
Né può ritenersi legittimamente invocata l’applicazione dell’art. 38 d.p.r. 380/2001. E’ sufficiente in proposito rilevare che la peculiarità dell’art. 38 è giustificata essenzialmente dalla necessità di tutela dell’affidamento del soggetto che ha edificato in conformità ad un titolo rivelatosi poi illegittimo. Ma si è già diffusamente argomentato sull’insussistenza, nella vicenda per cui è causa, di alcun legittimo affidamento tutelabile in capo alla ricorrente.
10. – In base alle considerazioni esposte il ricorso va rigettato (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 30.05.2017 n. 560 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Impugnazione immediata dell’ammissione di altro concorrente o unitamente all'aggiudicazione.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Rito superaccelerato – Impugnazione immediata ammissione di altro concorrente – Presupposto – Individuazione – Mancata pubblicità ex art. 29, d.lgs. n. 50 del 2016 – Impugnazione dell’ammissione unitamente all’aggiudicazione.
L'onere di immediata impugnazione del provvedimento di ammissione ad una gara d'appalto ai sensi dell’art. 120, comma 2 bis, c.p.a. risulta esigibile solo a fronte della contestuale operatività della disposizione che consente l’immediata conoscenza di tale ammissione da parte delle imprese partecipanti e, segnatamente, dell’art. 29, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (pubblicazione sul profilo del committente nella sezione “Amministrazione trasparente”), in mancanza della quale tale ammissione deve essere impugnata unitamente all’aggiudicazione (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che in difetto del contestuale funzionamento delle regole che assicurano la pubblicità e la comunicazione dei provvedimenti di cui si introduce l’onere di immediata impugnazione -che devono, perciò, intendersi legate da un vincolo funzionale inscindibile- la relativa prescrizione processuale si rivela del tutto inattuabile, per la mancanza del presupposto logico della sua operatività e, cioè, la predisposizione di un apparato regolativo che garantisca la tempestiva informazione degli interessati circa il contenuto del provvedimento da gravare nel ristretto termine di decadenza ivi stabilito.
Una volta esclusa l’applicazione del nuovo rito superaccelerato di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., trova applicazione il costante orientamento giurisprudenziale, formatosi prima dell’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici, che nega valenza procedimentale autonoma all’atto di ammissione alla gara e che ne ammette l’impugnazione solo unitamente al provvedimento di aggiudicazione (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 29.05.2017 n. 2843 - commento tratto da  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini della qualificazione di una strada come vicinale pubblica, occorre avere riguardo alle sue condizioni effettive, in quanto una strada può rientrare in tale categoria solo qualora rilevino il passaggio esercitato "iure servitutis pubblicae" da una collettività di persone appartenenti a un gruppo territoriale, la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via, e un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell'uso da tempo immemorabile. L'iscrizione della strada nell'elenco delle strade vicinali di uso pubblico costituisce presunzione "iuris tantum", superabile con la prova contraria, che escluda l'esistenza di un diritto di uso o di godimento della strada da parte della collettività.
In disparte ogni problematica in ordine alla giurisdizione in ipotesi di contestazione, resta fermo l'orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui "l'iscrizione di una strada nell'elenco formato dalla P.A. delle vie gravate da uso pubblico non ha natura costitutiva, ma è dichiarativa della pretesa della P.A. La stessa iscrizione pone in essere una mera presunzione "iuris tantum" di uso pubblico, superabile con la prova dell'inesistenza di un tale diritto di godimento da parte della collettività.".
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L'assoggettamento ad uso pubblico di una strada privata può derivare, oltre che dalla volontà del proprietario e dal mutamento della situazione dei luoghi, con conseguente inserimento della stessa nella rete viaria cittadina, anche da un immemorabile uso pubblico, inteso come comportamento della collettività contrassegnato dalla convinzione, pur essa palesata da una situazione dei luoghi che non consente di distinguere la strada in questione da una qualsiasi altra strada della rete viaria pubblica, di esercitare il diritto di uso della strada.
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7. Passando ai motivi del presente appello, si rileva che con il primo motivo il Consorzio sostiene che, costituendo il Consorzio stradale permanente degli utenti della rete viaria del centro turistico di Marsia, il Comune di Tagliacozzo avrebbe violato la disposizione dell’art. 14 della legge n. 126/1958, la quale prevedrebbe la costituzione di un consorzio stradale obbligatorio per la manutenzione soltanto delle strade vicinali pubbliche e non invece di quelle pubbliche.
Anche in questo caso si può prescindere dall’eccezione di inammissibilità per novità della censura, stante la sua infondatezza.
Infatti nella proposta di deliberazione del Consiglio comunale n. 26/P del 14.09.2009, è espressamente affermato che “La disciplina dei consorzi stradali obbligatori si applica a tutte le strade private aperte al pubblico transito, a prescindere che si tratti di strade vicinali o meno; le strade del centro turistico di Marsia, a prescindere da chi sia il proprietario, sono sicuramente aperte al pubblico transito; ciò è previsto, tra l’altro, dall’art. 7 del verbale di conciliazione sottoscritto innanzi al Commissario Regionale agli Usi Civici dell’Aquila in data 19.07.1968, Cron. N. 136 (e ribadito, nello stesso senso, nel verbale di conciliazione in data 01.04.1971, n. 171: “Le strade, i piazzali, i larghi destinati all’uso collettivo sono soggetti all’uso pubblico di circolazione, a norma delle leggi in materia, salvi gli oneri della società Marsia e suoi aventi causa per la costruzione, sistemazione e manutenzione delle strade”), ed è stato di recente confermato dalla sentenza del TAR dell’Aquila n. 232 del 2003 (divenuta definitiva per non essere stata impugnata da alcuno); pertanto, anche per esse trovano applicazione le disposizioni del d.lgs. n. 1446/1918 e dell’art. 14 della legge n. 126/1958”.
Inoltre, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 19.03.2015, n. 1515), ai fini della qualificazione di una strada come vicinale pubblica, occorre avere riguardo alle sue condizioni effettive, in quanto una strada può rientrare in tale categoria solo qualora rilevino il passaggio esercitato "iure servitutis pubblicae" da una collettività di persone appartenenti a un gruppo territoriale, la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via, e un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell'uso da tempo immemorabile. L'iscrizione della strada nell'elenco delle strade vicinali di uso pubblico costituisce presunzione "iuris tantum", superabile con la prova contraria, che escluda l'esistenza di un diritto di uso o di godimento della strada da parte della collettività.
In disparte ogni problematica in ordine alla giurisdizione in ipotesi di contestazione, resta fermo l'orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., Sez. Unite, 07.11.1994, n. 9206) secondo cui "l'iscrizione di una strada nell'elenco formato dalla P.A. delle vie gravate da uso pubblico non ha natura costitutiva, ma è dichiarativa della pretesa della P.A. La stessa iscrizione pone in essere una mera presunzione "iuris tantum" di uso pubblico, superabile con la prova dell'inesistenza di un tale diritto di godimento da parte della collettività.".
8. Inoltre, questa Sezione (sentenza 22.12.2014, n. 6197), confermando la sentenza n. 230 del 2003 del TAR per l’Abruzzo, ha definitivamente accertato la presenza di un immemorabile uso pubblico delle strade e delle piazze ricadenti all’interno del centro turistico di Marsia.
Ciò conferma risolutivamente che sussistevano i presupposti affinché, ai sensi dell’art. 14 L. n. 126/1958, fosse costituito dal Comunità di Tagliacozzo il consorzio stradale permanente degli utenti della rete viaria del centro turistico di Marsia.
Come già ricordato, l'assoggettamento ad uso pubblico di una strada privata può derivare, oltre che dalla volontà del proprietario e dal mutamento della situazione dei luoghi, con conseguente inserimento della stessa nella rete viaria cittadina, anche da un immemorabile uso pubblico, inteso come comportamento della collettività contrassegnato dalla convinzione, pur essa palesata da una situazione dei luoghi che non consente di distinguere la strada in questione da una qualsiasi altra strada della rete viaria pubblica, di esercitare il diritto di uso della strada.
In ogni caso, si rileva che nella proposta di deliberazione del Consiglio comunale n. 26/P del 14.09.2009, è espressamente affermato (pag. 4) che “Nessuna delle strade ricomprese nel comprensorio del centro turistico di Marsia può essere classificata come “strada comunale” ai sensi della vigente normativa, per cui tutte queste strade rientrano nella definizione di “strade private” soggette ad uso pubblico, e come tale soggette alla competenza del Consorzio stradale che si intende costituire”.
Tali rilievi sono sufficienti a dimostrare la legittimità degli atti impugnati sotto il profilo denunciato, restando salve altre ed ulteriori questioni di diritto proprietario che non sono comunque di competenza di questo plesso giurisdizionale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.05.2017 n. 2531 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAi sensi dell’art. 38, comma 1, lett. i), del D.Lgs. 12/04/2006, n. 163, sono esclusi dalle procedure di gara per i contratti pubblici quanti “hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali, secondo la legislazione italiana o dello Stato in cui sono stabiliti”.
Costituisce ius receputm che la regolarità contributiva postulata dalla trascritta norma deve sussistere fin dalla presentazione dell’offerta e permanere per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando irrilevanti eventuali adempimenti tardivi dell’obbligazione contributiva.
Tale principio, già chiaramente espresso dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 04/05/2012, n. 8, non è superato dall’articolo 31 (Semplificazioni in materia di DURC), comma 8, del D.L. 21/06/2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito con modificazioni dalla L. 09/08/2013, n. 98, sull’invito alla regolarizzazione, a norma del quale, ai fini della verifica per il rilascio del DURC, «in caso di mancanza dei requisiti per il rilascio di tale documento gli Enti preposti al rilascio, prima dell'emissione del DURC o dell'annullamento del documento già rilasciato, invitano l'interessato […] a regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a quindici giorni, indicando analiticamente le cause della irregolarità».
Ciò è stato recentemente ribadito dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato, con le sentenza 29/02/2016, n. 5 e 6, con le quali si è chiarito che anche dopo detto art. 31 non sono consentite regolarizzazioni postume delle posizioni previdenziali, perché l’impresa dev’essere in regola con l’assolvimento degli obblighi previdenziali e assistenziali fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato per la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante: sicché rimane irrilevante l’eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva, posto che l’invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC negativo), già previsto dall’art. 7, comma 3, del D.M. 24/10/2007 e ora recepito dall’art. 31 predetto, opera solo nei rapporti tra impresa ed ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. i), del Codice dei contratti pubblici ai fini della partecipazione alla gara d’appalto.
Nessun argomento contrario può trarsi, poi, dall’art. 4 del D.M. 30/01/2015, recante norme di “Semplificazione in materia di documento unico di regolarità contributiva (DURC)”.
Come rilevato dalla citata Adunanza Plenaria n. 6 del 2016: “Appurato, infatti, che a livello di normativa primaria, la disciplina dell'affidamento degli appalti pubblici non consente la regolarizzazione postuma della irregolarità contributiva, deve certamente escludersi che tale forma di regolarizzazione possa essere stata introdotta da una fonte di rango regolamentare, quale è il decreto ministeriale 30.01.2015.
È fin troppo evidente che il generale principio di gerarchia delle fonti normative non permette ad una norma regolamentare di introdurre una forma di regolarizzazione incompatibile con la disciplina di rango legislativo”.
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Può, pertanto, procedersi ad esaminare nel merito i due motivi di gravame che risultano infondati.
In punto di diritto occorre premettere che, ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. i), del D.Lgs. 12/04/2006, n. 163 (applicabile ratione temporis), sono esclusi dalle procedure di gara per i contratti pubblici quanti “hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali, secondo la legislazione italiana o dello Stato in cui sono stabiliti”.
Costituisce ius receputm che la regolarità contributiva postulata dalla trascritta norma deve sussistere fin dalla presentazione dell’offerta e permanere per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando irrilevanti eventuali adempimenti tardivi dell’obbligazione contributiva (cfr. da ultimo, Cons. Stato, Sez. V, 29/04/2016, n. 1650; Sez. III, 09/03/2016, n. 955).
Tale principio, già chiaramente espresso dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 04/05/2012, n. 8, non è superato dall’articolo 31 (Semplificazioni in materia di DURC), comma 8, del D.L. 21/06/2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito con modificazioni dalla L. 09/08/2013, n. 98, sull’invito alla regolarizzazione, a norma del quale, ai fini della verifica per il rilascio del DURC, «in caso di mancanza dei requisiti per il rilascio di tale documento gli Enti preposti al rilascio, prima dell'emissione del DURC o dell'annullamento del documento già rilasciato, invitano l'interessato […] a regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a quindici giorni, indicando analiticamente le cause della irregolarità».
Ciò è stato recentemente ribadito dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato, con le sentenza 29/02/2016, n. 5 e 6, con le quali si è chiarito che anche dopo detto art. 31 non sono consentite regolarizzazioni postume delle posizioni previdenziali, perché l’impresa dev’essere in regola con l’assolvimento degli obblighi previdenziali e assistenziali fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato per la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante: sicché rimane irrilevante l’eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva, posto che l’invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC negativo), già previsto dall’art. 7, comma 3, del D.M. 24/10/2007 e ora recepito dall’art. 31 predetto, opera solo nei rapporti tra impresa ed ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. i), del Codice dei contratti pubblici ai fini della partecipazione alla gara d’appalto.
Nessun argomento contrario può trarsi, poi, dall’art. 4 del D.M. 30/01/2015, recante norme di “Semplificazione in materia di documento unico di regolarità contributiva (DURC)”.
Come rilevato dalla citata Adunanza Plenaria n. 6 del 2016: “Appurato, infatti, che a livello di normativa primaria, la disciplina dell'affidamento degli appalti pubblici non consente la regolarizzazione postuma della irregolarità contributiva, deve certamente escludersi che tale forma di regolarizzazione possa essere stata introdotta da una fonte di rango regolamentare, quale è il decreto ministeriale 30.01.2015.
È fin troppo evidente che il generale principio di gerarchia delle fonti normative non permette ad una norma regolamentare di introdurre una forma di regolarizzazione incompatibile con la disciplina di rango legislativo
”.
I principi di diritto poc’anzi espressi si attagliano perfettamente alla fattispecie controversa, nella quale le stazioni appaltanti, in sede di verifica dell’autodichiarazione resa dal concorrente, hanno appurato l’esistenza di un’irregolarità contributiva a carico della R.C.B.
Al riguardo giova puntualizzare che nessuna rilevanza può avere il fatto che l’autocertificazione risalga al settembre 2012 e la verifica sia stata compiuta nel 2014, in quanto, come sopra osservato, la regolarità contributiva deve sussistere continuativamente dal momento della presentazione della domanda di partecipazione sino alla conclusione del rapporto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.05.2017 n. 2529 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Dall’esclusione dalla gara consegue automaticamente l’escussione della cauzione provvisoria, senza che all’uopo possano rilevare gli stati soggettivi del concorrente in ordine alle circostanze che hanno determinato il provvedimento espulsivo, ricollegandosi la detta escussione soltanto alla mancata prova del possesso dei requisiti di partecipazione dichiarati con la presentazione dell'offerta e al conseguente provvedimento di esclusione.
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Ritiene, infine, il Collegio, in linea con un consolidato orientamento giurisprudenziale, che dall’esclusione dalla gara consegua automaticamente l’escussione della cauzione provvisoria, senza che all’uopo possano rilevare gli stati soggettivi del concorrente in ordine alle circostanze che hanno determinato il provvedimento espulsivo, ricollegandosi la detta escussione soltanto alla mancata prova del possesso dei requisiti di partecipazione dichiarati con la presentazione dell'offerta e al conseguente provvedimento di esclusione (cfr, fra le tante, Cons. Stato, Sez. V, 15/03/2017, n. 1172; 13/06/2016, n. 2531; 01/10/2015 n. 4587; 28/04/2014, n. 2201; 16/04/2013, n. 2114; Sez. IV, 19/11/2015, n. 5280).
La reiezione delle censure sin qui esaminate consente di prescindere dall’affrontare le restanti doglianze prospettate, potendo l’impugnata sentenza reggersi sui capi risultati immuni da vizi.
L’appello va, in definitiva, respinto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.05.2017 n. 2529 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAL’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 si applica ai procedimenti che l’Amministrazione intenda concludere con un provvedimento che ‘per la prima volta’ rappresenta al richiedente una o più ragioni impeditive dell’accoglimento della sua istanza.
La sua ratio è quella di evitare ‘provvedimenti a sorpresa’, cioè che prospettino questioni di fatto o di diritto prima ignote al richiedente, o comunque da lui non percepibili: il contraddittorio da instaurare consente di valutare già in sede amministrativa le argomentazioni dell’interessato sul se vi siano effettivamente ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza e agevola la deflazione dei ricorsi giurisdizionali, poiché può avvenire o che l’Amministrazione condivida le osservazioni o che l’interessato si convinca della adeguatezza della valutazione dell’Amministrazione e che non proponga dunque ricorso.
L’art. 10-bis non si applica invece quando sia proposta una istanza di riesame, volta alla rinnovazione dell’esercizio del potere, e non prospetti alcuna sopravvenienza.
In tal caso, infatti, si chiede all’Amministrazione di effettuare una ulteriore valutazione della situazione di fatto e di diritto già in precedenza valutata e non vi sono profili che potrebbero comportare una ‘motivazione a sorpresa’.
Quando l’istanza di riesame è respinta con un atto meramente confermativo o solo di conferma del precedente atto, sulla base di una motivazione incentrata sulla immodificabilità della precedente valutazione, non occorre dunque una ulteriore interlocuzione procedimentale con l’interessato: l’Amministrazione, così come in linea di principio non ha l’obbligo di prendere in considerazione l’istanza di riesame, così non ha l’obbligo di inviare la comunicazione prevista dall’art. 10-bis, se intende respingerla perché ritiene immodificabile la precedente valutazione.

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13. Col quarto motivo, è lamentato che le determinazioni di ‘riesame negativo’ della Soprintendenza sarebbero illegittime, perché –in violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, nel frattempo entrato in vigore– la Soprintendenza non avrebbe comunicato preventivamente le ragioni di rigetto della istanza.
L’appellante ha richiamato molteplici precedenti giurisprudenziali, riguardanti la ratio dell’art. 10-bis e il suo ambito di applicazione.
Ritiene la Sezione che anche tale censura è infondata, per le seguenti considerazioni.
13.1. In primo luogo, il successivo atto negativo della Soprintendenza va considerato meramente confermativo del precedente parere.
Infatti, la Soprintendenza –con una nota sostanzialmente ‘di cortesia’- ancora una volta ha dato atto dell’esistenza del vincolo disposto dal decreto ministeriale del 24.09.1947, negando la possibilità di esercitare una discrezionalità contrastante con le esigenze di tutela poste a sua base, ribadendo il contenuto del precedente parere negativo e considerando ‘illecita’ una sanatoria che avrebbe consentito il mantenimento delle ‘alterazioni ambientali’.
13.2. Peraltro, le censure proposte non risultano fondate e vanno respinte.
L’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 si applica ai procedimenti che l’Amministrazione intenda concludere con un provvedimento che ‘per la prima volta’ rappresenta al richiedente una o più ragioni impeditive dell’accoglimento della sua istanza.
La sua ratio è quella di evitare ‘provvedimenti a sorpresa’, cioè che prospettino questioni di fatto o di diritto prima ignote al richiedente, o comunque da lui non percepibili: il contraddittorio da instaurare consente di valutare già in sede amministrativa le argomentazioni dell’interessato sul se vi siano effettivamente ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza e agevola la deflazione dei ricorsi giurisdizionali, poiché può avvenire o che l’Amministrazione condivida le osservazioni o che l’interessato si convinca della adeguatezza della valutazione dell’Amministrazione e che non proponga dunque ricorso.
L’art. 10-bis non si applica invece quando sia proposta una istanza di riesame, volta alla rinnovazione dell’esercizio del potere, e non prospetti alcuna sopravvenienza.
In tal caso, infatti, si chiede all’Amministrazione di effettuare una ulteriore valutazione della situazione di fatto e di diritto già in precedenza valutata e non vi sono profili che potrebbero comportare una ‘motivazione a sorpresa’.
Quando l’istanza di riesame è respinta con un atto meramente confermativo o solo di conferma del precedente atto, sulla base di una motivazione incentrata sulla immodificabilità della precedente valutazione, non occorre dunque una ulteriore interlocuzione procedimentale con l’interessato: l’Amministrazione, così come in linea di principio non ha l’obbligo di prendere in considerazione l’istanza di riesame, così non ha l’obbligo di inviare la comunicazione prevista dall’art. 10-bis, se intende respingerla perché ritiene immodificabile la precedente valutazione.
14. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 26.05.2017 n. 2507 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa comunicazione dei motivi ostativi di cui all’art. 10-bis, L. n. 241/1990, è priva di immediata lesività, attesa la funzione che le è propria, di consentire alla parte di partecipare attivamente al procedimento, ed in ipotesi, di far pervenire l'autorità competente anche ad una diversa determinazione rispetto a quanto rappresentato nella sede dell'interlocuzione procedimentale, essendo pertanto inammissibile la sua autonoma impugnazione.
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Il presente ricorso va dichiarato inammissibile.
Per giurisprudenza pacifica, la comunicazione dei motivi ostativi di cui all’art. 10-bis, L. n. 241/1990, è infatti priva di immediata lesività, attesa la funzione che le è propria, di consentire alla parte di partecipare attivamente al procedimento, ed in ipotesi, di far pervenire l'autorità competente anche ad una diversa determinazione rispetto a quanto rappresentato nella sede dell'interlocuzione procedimentale, essendo pertanto inammissibile la sua autonoma impugnazione (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 01.07.2015 n. 1515, TAR Roma, Lazio, Sez. II, 14.06.2016 n. 6788, Sez. III, 12.04.2012, n. 3359) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 26.05.2017 n. 1188 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Accesso alle offerte di gara e azione incidentale avverso il diniego del ricorrente e del controinteressato.
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Processo amministrativo – Accesso ai documenti – Azione ex art. 116, comma 2, c.p.a. – soggetto legittimato – Controinteressato – Esclusione.
Accesso ai documenti – Contratti della Pubblica amministrazione – Differimento dopo l’aggiudicazione – Art. 53, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016 – Interpretazione – Differimento del solo contenuto delle offerte – Documentazione amministrativa – E’ immediatamente accessibile.
La facoltà di azionare la tutela in materia di accesso ai documenti anche in pendenza di giudizio ex art. 116, comma 2, c.p.a., attesa la finalità istruttoria di tale strumento processuale, può essere riconosciuta solo alla parte ricorrente nel giudizio principale e non anche al controinteressato, stante la natura strumentale rispetto ad un’azione già incardinata, ferma restando, ovviamente la possibilità di proporre un autonomo processo di accesso.
L'art. 53, comma 2, lett. c), d.lgs. 18.04.2016, n. 50, secondo cui l'accesso in relazione alle offerte è differito fino al momento dell’aggiudicazione, deve essere interpretato nel senso che tale norma si riferisce solamente al contenuto delle offerte, essendo posta a presidio della segretezza delle offerte tecnico-economiche, ma non impedisce l’accesso alla documentazione amministrativa, relativa ai requisiti soggettivi dei concorrenti, essendo peraltro la conoscenza di tale documentazione elemento imprescindibile per l’esercizio del diritto di difesa in relazione al nuovo sistema delineato dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., che onera i concorrenti dell’impugnazione immediata delle ammissioni e delle esclusioni (1).
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   (1) Tar Lazio, sez. III, 28.03.2017, n. 3971.
Il Tar ha anche ricordato l’art. 29, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, il quale detta i principi generali sulla trasparenza e impone la pubblicità di tutti gli atti delle procedure di affidamento sul sito delle stazioni appaltanti, nella sezione amministrazione trasparente, e inoltre sulla piattaforma digitale ANAC e sul sito del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, nonché il comma 3 dell’art. 76 (nel testo ante correttivo attualmente vigente) che, in aggiunta alle pubblicazioni previste dall’art. 29, stabilisce che debba essere dato “avviso ai concorrenti, mediante PEC o strumento analogo negli altri Stati membri, del provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali, indicando l'ufficio o il collegamento informatico ad accesso riservato dove sono disponibili i relativi atti”; laddove per “atti” si devono intendere, i verbali di gara relativi alla fase di ammissione dei concorrenti e la documentazione amministrativa di cui si è detto sopra utile al fine della verificazione della sussistenza dei requisiti soggettivi dei concorrenti (
TAR Veneto, Sez. I, ordinanza 26.05.2017 n. 512 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Nel merito,
il diniego di accesso alla documentazione amministrativa opposto all’Impresa di Costruzioni Ga.Ro. è illegittimo, non essendo condivisibile l’assunto dell’Amministrazione secondo cui l’accesso alla documentazione amministrativa, ai sensi dell’art. 53, comma 2, lett. c), del D.lgs. n. 50 del 2016, è differito fino al momento dell’aggiudicazione;
Infatti,
tale ultima norma si riferisce solamente al contenuto delle offerte, ed è chiaramente posta a presidio della segretezza delle offerte tecnico-economiche, ma non impedisce l’accesso alla documentazione amministrativa contenuta normalmente nella busta A, relativa ai requisiti soggettivi dei concorrenti, essendo peraltro la conoscenza di tale documentazione elemento imprescindibile per l’esercizio del diritto di difesa in relazione al nuovo sistema delineato dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., che onera i concorrenti dell’impugnazione immediata delle ammissioni e delle esclusioni;
Giova considerare, inoltre, non solo l’art. 29 del D.lgs. 50/2016, il quale detta i principi generali sulla trasparenza e impone la pubblicità di tutti gli atti delle procedure di affidamento sul sito delle stazioni appaltanti, nella sezione amministrazione trasparente, e inoltre sulla piattaforma digitale ANAC e sul sito del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ma anche il comma 3 dell’art. 76 (nel testo ante correttivo attualmente vigente) che in aggiunta alle pubblicazioni previste dall’art. 29, stabilisce che debba essere dato “avviso ai concorrenti, mediante PEC o strumento analogo negli altri Stati membri, del provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali, indicando l'ufficio o il collegamento informatico ad accesso riservato dove sono disponibili i relativi atti”; laddove per “atti” si devono intendere, i verbali di gara relativi alla fase di ammissione dei concorrenti e la documentazione amministrativa di cui si è detto sopra utile al fine della verificazione della sussistenza dei requisiti soggettivi dei concorrenti;
Ed invero,
è proprio il nuovo regime diversificato di impugnazione previsto dal citato art. 120, comma 2-bis, del cpa, introdotto nel 2016, che impone una tale interpretazione, nel senso cioè che l’operatore economico possa accedere alla documentazione amministrativa e ai verbali di gara relativi alla fase di ammissione dei concorrenti, già nella fase iniziale della procedura selettiva (senza attendere cioè quella finale di aggiudicazione, come era previsto nel vecchio regime di cui al D.lgs. n. 163 del 2006) e che il differimento previsto dall’art. 53, comma 2, lett. c), del D.lgs. n. 50 del 2016 sia ormai limitato alle buste della proposta che contengono le offerte tecniche e economiche (cfr. in tal senso, TAR Lazio, sez. III, n. 3971 del 28.03.2017);
D’altro canto,
non sussiste alcuna esigenza di differimento delle richieste di accesso a tale documentazione amministrativa una volta conclusa la fase delle ammissioni e delle esclusioni, né verrebbe violata alcuna esigenza di riservatezza essendo noto il contenuta della busta contenente la documentazione amministrativa una volta aperta la stessa, né, quindi, potrebbe in alcun modo configurarsi alcuna violazione da parte dei pubblici ufficiali rilevante ai sensi dell’art. 326 c.p., richiamato dal comma 4 dell’art. 53 del D.lgs. 50/2016;
Pertanto, l’istanza avanzata dalla Ga.Ro. deve essere accolta e deve essere ordinato all’Amministrazione resistente di consentire alla stessa l’accesso alla documentazione amministrativa richiesta relativa alla Fr. e ai verbali di gara, entro il termine di 15 giorni dalla comunicazione in via amministrativa della presente ordinanza ovvero dalla notifica, se antecedente.

EDILIZIA PRIVATARegolamento unico edilizio, norma salva.
Non sono state accolte dalla Consulta, con la
sentenza 26.05.2017 n. 125, le questioni di legittimità costituzionali, sollevate dalla regione Puglia e dalla provincia autonoma di Trento, che hanno promosso due distinti ricorsi, iscritti rispettivamente ai numeri 5 e 9 del registro 2015, lamentando l'incostituzionalità dell'art. 17-bis (Regolamento unico edilizio) del dl 133/2014 (Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche), convertito, con modificazioni, dalla legge n. 164/2014.
La norma impugnata aggiunge il comma 1-sexies all'art. 4 del dpr n. 380/2001, stabilendo che in sede di Conferenza unificata il governo, le regioni e le autonomie locali stipulano accordi o intese per l'adozione di uno schema di regolamento edilizio-tipo e che «tali accordi costituiscono livello essenziale delle prestazioni, concernenti la tutela della concorrenza e i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale».
La regione sosteneva che la disposizione fosse in contrasto con l'art. 117, commi 2, 3 6, della Costituzione perché la disciplina in questione, nelle materie «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» e «tutela della concorrenza», rientrerebbe nella competenza statale esclusiva, ma la norma non andrebbe a individuare una prestazione da erogare, definendo poi i livelli strutturali e qualitativi necessari per soddisfare i diritti. La potestà regolamentare spetterebbe allo stato solo nelle materie di legislazione esclusiva: in questo caso, l'ausilio dello schema di regolamento-tipo integrerebbe gli estremi di una fonte regolamentare, invasiva della potestà riconosciuta alle regioni, sottolineava la difesa.
Secondo la Corte, la legge non ha perso la propria competenza attribuendo a un atto sub-legislativo il compito di disciplinare una materia affidata al legislatore statale che, infatti, detta tutti gli estremi necessari per raggiungere l'uniformità nazionale in un ambito di interesse. La scelta di rinviare ad altri atti l'identificazione delle specifiche caratteristiche è possibile, come confermano precedenti sentenze della Consulta. Lo schema di regolamento-tipo è privo dei contenuti propri delle fonti regolamentari e ha solo la funzione di raccordo e coordinamento meramente tecnico e redazionale. Fra l'altro, dopo l'intesa, gli enti locali, adeguandosi al tipo stabilito in Conferenza, potranno fare interventi in linea con le peculiarità territoriali grazie all'esercizio delle potestà regolamentari loro attribuite in materia edilizia.
Invece la provincia asseriva che la norma violasse l'art. 117, comma secondo, lettere e) e m), della Costituzione, ledendo la potestà legislativa primaria e la potestà amministrativa in materia di «urbanistica e piani regolatori» delle province autonome. Ma la norma è inapplicabile alle province autonome perché impedita dalla clausola di salvaguardia richiamata dall'art. 43-bis del dl. n. 133/2014 che prevede che «le norme trovino applicazione nelle Regioni a statuto speciale e nelle Province autonome compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti e con le relative norme di attuazione» (articolo ItaliaOggi del 27.05.2017).

EDILIZIA PRIVATA: La Corte costituzionale riconduce lo schema di regolamento edilizio-tipo adottato in sede di conferenza unificata Stato–Regioni–Enti locali tra i principi fondamentali del governo del territorio.
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Regolamento edilizio tipo – Accordo in sede di Conferenza unificata – Questione infondata di costituzionalità.
E’ infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17-bis del decreto-legge 12.09.2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo, terzo e sesto comma, della Costituzione nella parte in cui afferma «[i]l Governo, le regioni e le autonomie locali, in attuazione del principio di leale collaborazione, concludono in sede di Conferenza unificata accordi ai sensi dell’articolo 9 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281, o intese ai sensi dell’articolo 8 della legge 05.06.2003, n. 131, per l’adozione di uno schema di regolamento edilizio-tipo, al fine di semplificare e uniformare le norme e gli adempimenti. Ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettere e) e m), della Costituzione, tali accordi costituiscono livello essenziale delle prestazioni, concernenti la tutela della concorrenza e i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Il regolamento edilizio-tipo, che indica i requisiti prestazionali degli edifici, con particolare riguardo alla sicurezza e al risparmio energetico, è adottato dai comuni nei termini fissati dai suddetti accordi, comunque entro i termini previsti dall’articolo 2 della legge 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni». (1)
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(1) I.- Con la sentenza n. 125 del 2017, la Corte costituzionale ha ritenuto infondate, in riferimento agli artt. 117, commi secondo, terzo e sesto, della Costituzione, le questioni di legittimità costituzionale di cui alla massima sollevate dalla Regione Puglia e quelle analoghe proposte dalla Provincia autonoma di Trento in relazione però alle norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali.
La Regione Puglia, in particolare, aveva impugnato la norma di legge lamentando in particolare che:
   a)   la disciplina in esame non rientrerebbe nelle materie «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» e «tutela della concorrenza», di competenza statale esclusiva (art. 117, secondo comma, lettere e) e m). La disposizione in esame infatti non individuerebbe una prestazione da erogare, di cui è necessario definire i livelli strutturali e qualitativi capaci di soddisfare i diritti civili e sociali tutelati dalla Costituzione, ma disciplinerebbe una funzione normativa concernente le modalità di adozione e i contenuti del regolamento edilizio-tipo;
   b)   l’intervento legislativo de quo ricadrebbe, invece, nella materia di competenza concorrente «governo del territorio», in riferimento alla quale è attribuito al legislatore statale il potere di dettare i principi fondamentali della materia in forma di legge e non di regolamento, come accaduto nel caso di specie. Ne discenderebbe, secondo la ricorrente, non solo la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., ma anche del sesto comma dello stesso articolo, il quale stabilisce che la potestà regolamentare spetta allo Stato soltanto nelle materie di legislazione esclusiva.
II.- La Corte costituzionale, ha ritenuto le questioni non fondate sulla scorta delle seguenti considerazioni:
   c)   pur condividendo la doglianza regionale circa la impossibilità di ricondurre la disciplina in questione alle materie di competenza statale esclusiva dei «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» e della «tutela della concorrenza», tenuto altresì conto della irrilevanza della auto-qualificazione legislativa, la Corte osserva tuttavia che la norma in questione ha posto un criterio procedurale, di natura concertativa, finalizzato a semplificare la struttura dei regolamenti edilizi, anche attraverso la predisposizione di definizioni uniformi sull’intero territorio nazionale.
La decisione di ricorrere a uno schema “tipo”, riflettendo tale esigenza unitaria e non frazionabile, viene pertanto annoverata a pieno titolo tra i principi fondamentali del governo del territorio e quindi legittimamente ricompresa nella competenza statale esclusiva, senza tuttavia pregiudicare la possibilità, per le singole regioni, di operare nell’ambito dello schema e di svolgere una funzione di raccordo con gli enti locali operanti sul loro territorio;
   d)   è da escludersi che legge statale si sia spogliata della propria competenza, attribuendo ad un atto sub-legislativo il compito di disciplinare una materia che l’art. 117, terzo comma, Cost. affida al legislatore. La disposizione censurata, infatti, non contiene una autorizzazione “in bianco”, non omettendo di indicare i soggetti interessati, l’obiettivo da perseguire, il metodo e gli adempimenti procedurali necessari a unificare e coordinare la struttura e il lessico dei regolamenti edilizi locali;
   e)   è ben possibile che il legislatore rinvii ad atti integrativi e ad essi affidi «il compito di individuare le specifiche caratteristiche della fattispecie tecnica […] le quali necessitano di applicazione uniforme in tutto il territorio nazionale» e «mal si conciliano con il diretto contenuto di un atto legislativo» (
Corte cost. sentenza n. 11 del 2014). Poiché se è ovvio che tali atti, «qualora autonomamente presi, non possono assurgere al rango di normativa interposta, altra è la conclusione cui deve giungersi ove essi vengano strettamente ad integrare, in settori squisitamente tecnici, la normativa primaria che ad essi rinvia» (Corte cost. sentenza n. 11 del 2014);
   f)   la disciplina statale che rimette a decreti ministeriali l’approvazione di talune norme tecniche per le costruzioni costituisce «chiara espressione di un principio fondamentale» (
Corte cost. sentenze n. 282 del 2016 e n. 254 del 2010; nello stesso senso, sentenza n. 41 del 2017);
   g)   è da escludersi che lo schema di regolamento-tipo integrerebbe gli estremi di una fonte regolamentare statale, invasiva della potestà riconosciuta alle regioni nelle materie di legislazione concorrente. Il regolamento tipo non ha alcun contenuto innovativo della disciplina dell’edilizia ma svolge una funzione di raccordo e coordinamento meramente tecnico e redazionale, venendo a completare il principio (fondamentale) contenuto nella disposizione legislativa sicché ben potrebbe essere adottato in una materia di legislazione concorrente in quanto, come già precisato, «[l]’art. 117, sesto comma, Cost. […] preclude allo Stato, nelle materie di legislazione concorrente, non già l’adozione di qualsivoglia atto sub-legislativo, […] bensì dei soli regolamenti, che sono fonti del diritto, costitutive di un determinato assetto dell’ordinamento» (
Corte cost. sentenza n. 284 del 2016);
   h)   all’intesa potrà seguire il recepimento regionale e l’esercizio del potere regolamentare da parte degli enti locali. Questi, nell’adempiere al necessario obbligo di adeguamento delle proprie fonti normative al “tipo” concertato in Conferenza unificata e recepito dalle singole Regioni, godranno di un ragionevole spazio per intervenire con riferimenti normativi idonei a riflettere le peculiarità territoriali e urbanistiche del singolo comune, tramite l’esercizio delle potestà regolamentari loro attribuite in materia edilizia (art. 117, sesto comma, Cost.; artt. 2, comma 4, e 4 del citato TUEL).
Ad una soluzione identica, anche se tramite un percorso argomentativo in parte diverso, la Corte perviene in riferimento al ricorso proposto dalla Provincia autonoma di Trento.
III.- Sui rapporti tra Stato e Regioni in materia di Governo del territorio, e sulla individuazione dei principi fondamentali all’interno del t.u. ed. si vedano:
   i)   
Corte cost., sentenza 13.04.2017, n. 84 oggetto della NEWS US del 10.05.2017 ed i richiami di giurisprudenza e di dottrina ivi segnalati;
   j)   
Corte cost., sentenza 09.03.2016, n. 49 in Riv. giur. edilizia, 2016, I, 8, con nota di STRAZZA; Giur. it., 2016, 2233 (m), con nota di VIPIANA PERPETUA, secondo cui «È costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 117, 3º comma, cost., l’art. 84-bis, 2º comma, lett. b), l.reg. Toscana 03.01.2005 n. 1, che stabilisce la possibilità per l’amministrazione di esercitare poteri sanzionatori per la repressione degli abusi edilizi, anche oltre il termine di trenta giorni dalla presentazione della Scia, in un numero più ampio di ipotesi rispetto alla previsione statale; nell’ambito della materia concorrente del «governo del territorio», i titoli abilitativi agli interventi edilizi costituiscono oggetto di una disciplina che assurge a principio fondamentale e tale valutazione deve ritenersi valida anche per la denuncia di inizio attività (Dia) e per la segnalazione certificata di inizio attività (Scia), che si inseriscono in una fattispecie, il cui effetto è pur sempre quello di legittimare il privato ad effettuare gli interventi edilizi; tale fattispecie ha una struttura complessa e non si esaurisce, rispettivamente, con la dichiarazione o la segnalazione, ma si sviluppa in due fasi ulteriori: una prima, di ordinaria attività di controllo dell’amministrazione; una seconda, in cui può esercitarsi l’autotutela amministrativa; anche le condizioni e le modalità di esercizio dell’intervento della p.a., una volta che siano esauriti i termini prescritti dalla normativa statale, devono considerarsi il necessario completamento della disciplina dei titoli abitativi, poiché l’individuazione della loro consistenza e della loro efficacia non può prescindere dalla capacità di resistenza rispetto alle verifiche effettuate dall’amministrazione successivamente alla maturazione degli stessi; la disciplina di questa fase ulteriore è, dunque, parte integrante del titolo abilitativo e costituisce un tutt’uno inscindibile; il suo perno è costituito da un istituto di portata generale -quello dell’autotutela- che si colloca allo snodo delicatissimo del rapporto fra il potere amministrativo e il suo riesercizio, da una parte, e la tutela dell’affidamento del privato, dall’altra; ne deriva che la disciplina de qua costituisce espressione di un principio fondamentale della materia «governo del territorio»; la normativa regionale, nell’attribuire all’amministrazione un potere di intervento, lungi dall’adottare disposizioni di dettaglio, ha introdotto una disciplina sostitutiva dei principi fondamentali dettati dal legislatore statale, toccando i punti nevralgici del sistema elaborato nella legge sul procedimento amministrativo e con tutti i rischi per la certezza e l’unitarietà dello stesso»;
   k)   
Corte cost., 12.04.2013, n. 64 in Foro it., 2014, I, 2299 secondo cui «È incostituzionale l’art. 1, 1º e 2º comma, l.reg. Veneto 24.02.2012 n. 9, nella parte in cui prevede che, nell’ambito degli interventi edilizi nelle zone classificate sismiche, è esclusa, anche con riguardo ai procedimenti in corso, la necessità del previo rilascio delle autorizzazioni del competente ufficio tecnico regionale per i «progetti» e le «opere di modesta complessità strutturale», privi di rilevanza per la pubblica incolumità, individuati dalla giunta regionale in base ad una procedura nella quale è prevista l’obbligatoria assunzione di un semplice parere da parte della commissione sismica regionale» (Corte Costituzionale, sentenza 26.05.2017 n. 125 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi è inteso dalla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato secondo una concezione sostanziale/funzionale, nel senso che esso è da intendersi rispettato quando l’atto reca l’esternazione del percorso logico-giuridico seguito dall’amministrazione per giungere alla decisione adottata e il destinatario è in grado di comprendere le ragioni di quest’ultimo e, conseguentemente, di utilmente accedere alla tutela giurisdizionale, in conformità ai principi di cui agli artt. 24 e 113 della Costituzione.
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11. La prima censura è infondata.
Deve premettersi che l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi è inteso dalla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato secondo una concezione sostanziale/funzionale, nel senso che esso è da intendersi rispettato quando l’atto reca l’esternazione del percorso logico-giuridico seguito dall’amministrazione per giungere alla decisione adottata e il destinatario è in grado di comprendere le ragioni di quest’ultimo e, conseguentemente, di utilmente accedere alla tutela giurisdizionale, in conformità ai principi di cui agli artt. 24 e 113 della Costituzione (da ultimo: Cons. Stato, III, 23.11.2015, nn. 5311 e 5312; IV, 21.04.2015, n. 2011; V, 24.11.2016, n. 4959, 23.09.2015, n. 4443, 28.07.2015, n. 3702, 14.04.2015, n. 1875, 24.03.2014, n. 1420; VI, 06.12.2016, n. 5150).
Con riferimento al caso di specie può rilevarsi che nel verbale della seduta del 22.07.2015 della commissione giudicatrice le ragioni dell’esclusione sono espresse attraverso il richiamo alla previsione di cui al punto 1.4. del disciplinare di gara, secondo cui le proposte formulate dagli offerenti devono «adeguarsi alle quantità e alle tipologie dei corpi illuminanti previste nel progetto preliminare approvato», mentre «non verranno tenute in considerazione proposte di modifica delle tipologie richiamate».
Ciò è, ad avviso della Sezione, sufficiente a fare comprendere in modo compiuto le ragioni del provvedimento lesivo per l’interessato e a controdedurre sul punto in sede giurisdizionale, il che trova conferma proprio nell’introduzione della controversia in trattazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.05.2017 n. 2457 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAIl risarcimento del danno derivante da procedimento amministrativo illegittimo, per ciò che riguarda l'ammissibilità della domanda, giurisprudenza consolidata ritiene non sufficiente il mero annullamento del provvedimento lesivo, essendo necessario sia fornita la prova sia del danno subito, sia dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa dell'Amministrazione, configurabili quando l'adozione dell'atto illegittimo è avvenuta in violazione delle regole proprie dell'azione amministrativa, quali desumibili sia dai principi costituzionali d'imparzialità e buon andamento, sia dalle norme di legge ordinaria in materia di celerità, efficienza, efficacia e trasparenza, sia dai principi generali dell'ordinamento, quanto a ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza.
Essa è quindi connessa alla particolare dimensione della responsabilità dell'Amministrazione per lesione di interessi legittimi, identificabili con quelli al c.d. giusto procedimento, il quale richiede competenza, attenzione, celerità ed efficacia, necessari parametri di valutazione dell'azione amministrativa.

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... per la riforma della sentenza 01.06.2015 n. 851 del TAR Toscana, Sez. II, resa tra le parti, concernente condanna al risarcimento del danno a seguito di illegittimo diniego di autorizzazione per la realizzazione impianto fotovoltaico;
...
L’appello della Provincia di Grosseto è fondato, in particolare dove lamenta la mancata prova della sussistenza dei presupposti soggettivi dell’illecito.
Oggetto del ricorso di primo grado e della conseguente sentenza è la domanda di risarcimento dei danni asseritamente subiti da An.Me. derivante dal diniego opposto dall’Amministrazione provinciale alla richiesta di autorizzazione per realizzazione di impianto fotovoltaico e del ritardo che ne è seguito, causa il primitivo diniego poi annullato dal giudice.
La stessa sentenza di prime cure spiega che il mancato rilascio dell’autorizzazione unica è derivato dall’esito negativo della conferenza dei servizi del 19.10.2010, motivato dal parere di non conformità del progetto con il piano territoriale di coordinamento vigente, perché tale impianto non sarebbe stato localizzato in campi chiusi ma in un’area visibile da media distanza, perché localizzata nelle prime propaggini di un versante collinare adiacente un’area pianeggiante e quindi in base a valutazioni sui valori ambientali coinvolti e di conseguenza eminentemente discrezionale.
Non va sottaciuto infatti che tale diniego era scaturito da varie considerazioni, non ultimo che il Comune di Castiglione della Pescaia, interessato dalla Me. il 24.06.2010 per l’approvazione del programma aziendale pluriennale di miglioramento agricolo ambientale (P.A.P.M.A.A.) necessario per realizzare l’impianto, non si era pronunciato e lo ha poi fatto con rilevante ritardo il 20.03.2012, il che costituisce una grave responsabilità; ma va anche rilevato che l’autorizzazione non era atto vincolato da emanarsi a seguito di meri accertamenti, ma che richiedeva valutazioni sulla qualità dell’unità morfologica territoriale (U.M.T.) cui i fondi dell’interessata appartengono.
La sentenza che ha annullato il diniego cita l’area interessata come area collinare dovevano valorizzate le risorse storico-naturali, vanno promosse opere di miglioramento dell’ambiente dello spazio rurale, limitati degli erosivi derivanti dalla presenza di vigneti specializzati; tali indirizzi, dettati dal Piano territoriale di coordinamento provinciale, non potevano però essere considerati come incompatibili in assoluto con la realizzazione dell’impianto energetico da fonte rinnovabile; nemmeno il piano territoriale prevedeva preclusioni generalizzate per questi, se non criteri di ammissibilità coerenti con i valori identitari di ogni unità morfologica, per perseguire la tutela degli ambiti di rilevante pregio naturalistico e paesaggistico e verificare in concreto l’impatto dell’impianto, nel bilanciamento degli interessi contrapposti e tenendo conto che vi erano unità morfologiche più vulnerabili di quelle interessata, né che l’intervento riguardasse la produzione di energia eolica, ben più invasiva [in coerenza con TAR Toscana, II, 25.06.2007, n. 939].
Perciò fondamentale è stata la successiva approvazione del P.A.P.M.A.A. da parte del Comune, intervenuta con deplorevole ritardo, ma comunque senza domande di risarcimento: ritardo di cui non può rispondere una diversa amministrazione. In ogni caso è importante che anche tale ultimo atto presupposto aveva carattere di discrezionalità.
Si deve da un lato preliminarmente considerare che per il risarcimento del danno derivante da procedimento amministrativo illegittimo, per ciò che riguarda l'ammissibilità della domanda, giurisprudenza consolidata ritiene non sufficiente il mero annullamento del provvedimento lesivo, essendo necessario sia fornita la prova sia del danno subito, sia dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa dell'Amministrazione, configurabili quando l'adozione dell'atto illegittimo è avvenuta in violazione delle regole proprie dell'azione amministrativa, quali desumibili sia dai principi costituzionali d'imparzialità e buon andamento, sia dalle norme di legge ordinaria in materia di celerità, efficienza, efficacia e trasparenza, sia dai principi generali dell'ordinamento, quanto a ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza. Essa è quindi connessa alla particolare dimensione della responsabilità dell'Amministrazione per lesione di interessi legittimi, identificabili con quelli al c.d. giusto procedimento, il quale richiede competenza, attenzione, celerità ed efficacia, necessari parametri di valutazione dell'azione amministrativa (Cons. Stato, V, 08.04.2014 n. 1644).
Nella specie, la sentenza non ha mosso considerazioni sulle colpe ipoteticamente ascrivibili alla Provincia di Grosseto; ma passando in esame il suo comportamento, esso non pare caratterizzato da violazione di regole su trasparenza o celerità, né di quelle costituzionali a presidio dei principi di imparzialità e buon andamento.
L’Amministrazione ha avuto una particolare attenzione nei confronti della tutela paesaggistica, attenzione mancata nel passato e sanzionata dal Tribunale amministrativo della Toscana proprio in tema di energie alternative e non può ignorarsi che la Provincia si trovava di fronte ad una fattispecie latamente discrezionale in cui le attenzioni sono particolarmente dovute e ciò senza l’ausilio dell’approvazione del P.A.P.M.A.A., carenza che rendeva l’azione amministrativa di un sostegno istruttorio di grande rilievo.
Inoltre la Provincia era tenuta ad un’istruttoria coinvolgente altre amministrazioni. Sicché le cause potevano essere ascritte agli uffici provinciali. Tra dette altre amministrazioni coinvolte vi era il Comune (peraltro non intimato). La circostanza della presenza di un’ingiustificato ritardo nel pronunciarsi sul P.A.P.M.A.A., passaggio necessario per la Provincia al fine di esprimersi compiutamente, non necessariamente può dunque essere riferita alla Provincia medesima.
Per le ragioni suesposte l’appello va accolto con conseguente riforma della sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.05.2017 n. 2446 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAL'annullamento della destinazione urbanistica di un'area -rectius: dell'atto che la dispone-, in conseguenza dell'efficacia retroattiva della pronuncia caducatoria, comporta la riviviscenza della pregressa disciplina urbanistica di tale area.
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7. In conclusione, stante la fondatezza della seconda censura dedotta col ricorso principale e vista la fondatezza del corrispondente profilo di illegittimità derivata, dedotto con i primi e con i secondi motivi aggiunti, il ricorso stesso ed i motivi aggiunti devono essere accolti, restando assorbite le censure non esaminate.
Per l’effetto va annullato, oltre all’impugnato diniego, il regolamento urbanistico in parte qua, con conseguente riviviscenza, quanto alla proprietà della ricorrente, della disciplina urbanistica dettata dal previgente piano regolatore generale.
Invero, la caducazione della variante urbanistica determina la reviviscenza delle previsioni di piano precedenti, modificate dalla variante poi annullata (Cons. Stato, V, 22.02.2007, n. 954; idem, IV, 06.05.2004, n. 2800; TAR Lombardia, Milano, II, 02.12.2011, n. 3084; TAR Toscana, I, 10.12.2009, n. 3267; TAR Lazio, Roma, II, 02.11.2000, n. 8874; TAR Friuli Venezia Giulia, I, 29.07.2014, n. 423: “l'annullamento della destinazione urbanistica di un'area -rectius: dell'atto che la dispone-, in conseguenza dell'efficacia retroattiva della pronuncia caducatoria, comporta la riviviscenza della pregressa disciplina urbanistica di tale area").
Pertanto, per effetto dell’annullamento del regolamento urbanistico o di una sua variante il terreno avrà quella medesima destinazione che avrebbe avuto se tale ultimo atto non fosse mai venuto ad esistenza (Cons. Stato, IV, 28.01.2002, n. 456) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 23.05.2017 n. 725 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTICommissione di gara, presidenza non al Rup. Regola applicabile subito.
Il Rup (Responsabile unico del procedimento) non può essere nominato presidente della commissione giudicatrice; la regola è applicabile anche adesso e non occorre attendere l'istituzione dell'albo Anac dei commissari di gara.
Lo ha affermato il TAR Lazio-Latina, Sez. I, con la
sentenza 23.05.2017 n. 325 che esamina alcuni profili inerenti il ruolo del Rup nelle commissioni giudicatrici.
Nel caso esaminato dai giudici il Rup era stato nominato presidente della commissione di gara e aveva anche svolto la funzione di componente di un'altra commissione di gara per l'affidamento di un analogo servizio presso un diverso comune (gara vinta da un partecipante alla gara oggetto di esame da parte del Tar).
Rispetto a tali censure i giudici hanno accolto il ricorso affermando che il Rup non può essere membro della commissione; benché la compatibilità tra le due funzioni sia stata di recente affermata in giurisprudenza. Per i giudici laziali ciò si desume dal confronto tra la previsione del soppresso articolo 84, dlgs 12.04.2006, n. 163 secondo cui «i commissari diversi dal presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta» e la formulazione dell'articolo 77, comma 4, dlgs. 19.04.2016, n. 50 secondo cui «i commissari non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta».
Per il Tar la mancata esclusione del presidente dalla regola prevista dall'articolo 77 implica chiaramente che il Rup non possa essere componente della commissione nemmeno quale presidente. Ciò comporta il superamento della giurisprudenza formatasi sotto il codice De Lise e, ha sottolineato il Tar, l'applicazione immediata dell'art. 77, comma 4, che di fatto vieta la nomina del Rup, come nel caso esaminato, a presidente della commissione anche in assenza dell'istituzione dell'albo dei commissari previsto dall'articolo 77, comma 3, del codice, norma «formulata in termini generali e pertanto immediatamente efficace».
Da notare, però, che il decreto correttivo rimette a una valutazione specifica la possibilità di nomina del Rup a commissario di gara (articolo ItaliaOggi del 02.06.2017).

EDILIZIA PRIVATA: La recente giurisprudenza amministrativa, evidenziando che le cc.dd. “pergotende” non possono essere considerate “opere precarie” ex art. 3, comma 1, lett. e), del T.U. dell’Edilizia, perché non si connotano per una temporaneità della loro utilizzazione, ma piuttosto per costituire un elemento di migliore fruizione dello spazio, comunque duraturo, ha approfondito la questione della necessità o meno del previo rilascio del titolo abilitativo per la loro realizzazione, osservando come una struttura in alluminio anodizzato destinata ad ospitare una tenda retrattile in tessuto come quella in questione, non integri, in primo luogo, gli effetti di “trasformazione edilizia e urbanistica del territorio” propri degli “interventi di nuova costruzione” ex artt. 3 e 10 DPR n. 380/2001.
Va, invero, considerato che l’opera principale non è la struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno del locale; considerata in tale contesto, la struttura in alluminio anodizzato si qualifica in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della tenda.
Quest’ultima, poi, integrata alla struttura portante, non vale a configurare una “nuova costruzione”, attese la sua realizzazione in tessuto e la sua natura retrattile, che, escludendo elementi di fissità e stabilità nella copertura, priva di qualsiasi tamponatura laterale, fanno sì che non possa parlarsi di uno spazio chiuso e della creazione di nuova superficie o nuovo volume.

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Con il ricorso in epigrafe la Br. s.r.l., società esercente attività di somministrazione di alimenti e bevande nel locale commerciale di via ... 2/4, ha dedotto di aver chiesto ed ottenuto da Roma Capitale, con determinazione dirigenziale prot CI/235212/2014, per l’area pertinenziale esterna al suo locale, la concessione per l’occupazione di suolo pubblico con tenda autoportante, tavoli, sedie e fioriere, secondo i progetti depositati a supporto dell’istanza, ma di aver successivamente ricevuto, proprio in relazione alla suddetta struttura (realizzata in alluminio, poggiante su 6 pali alloggiati in 6 vasi, sostenuta da un sistema di assemblaggio laterale di staffe inox e fusioni in alluminio e non fissata sul muro perimetrale del fabbricato), avviso di apertura del procedimento amministrativo per realizzazione di opere abusive e l’ordinanza n. 1057/2016 di rimozione dell’installazione.
In merito a tale ultimo provvedimento, la Br. s.r.l. ha, quindi, lamentato l’errata rappresentazione da parte dell’Amministrazione, del manufatto in questione, che non era stato considerato negli elementi decisivi ai fini del suo corretto inquadramento, costituiti, appunto, dalla copertura retrattile e dalla funzione di semplice sostegno della tenda svolta dalla struttura in alluminio leggero, la cui apposizione doveva considerarsi assolutamente irrilevante dal punto di vista urbanistico - edilizio, ferma restando la necessità per l’occupazione del suolo pubblico della specifica concessione.
Tali censure sono fondate e meritevoli di accoglimento.
La recente giurisprudenza amministrativa, (cfr. Cons. St., Sez. VI, 17.04.2016 n. 1619), evidenziando che le cc.dd. “pergotende” non possono essere considerate “opere precarie” ex art. 3, comma 1, lett. e), del T.U. dell’Edilizia, perché non si connotano per una temporaneità della loro utilizzazione, ma piuttosto per costituire un elemento di migliore fruizione dello spazio, comunque duraturo, ha approfondito la questione della necessità o meno del previo rilascio del titolo abilitativo per la loro realizzazione, osservando come una struttura in alluminio anodizzato destinata ad ospitare una tenda retrattile in tessuto come quella in questione, non integri, in primo luogo, gli effetti di “trasformazione edilizia e urbanistica del territorio” propri degli “interventi di nuova costruzione” ex artt. 3 e 10 DPR n. 380/2001.
Va, invero, considerato che l’opera principale non è la struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno del locale; considerata in tale contesto, la struttura in alluminio anodizzato si qualifica in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della tenda.
Quest’ultima, poi, integrata alla struttura portante, non vale a configurare una “nuova costruzione”, attese la sua realizzazione in tessuto e la sua natura retrattile, che, escludendo elementi di fissità e stabilità nella copertura, priva di qualsiasi tamponatura laterale, fanno sì che non possa parlarsi di uno spazio chiuso e della creazione di nuova superficie o nuovo volume.
Allo stesso modo, deve ritenersi che non sia integrata la fattispecie della ristrutturazione edilizia, richiamata, invece, erroneamente nella determinazione impugnata.
Invero, ai sensi dell’articolo 3, lettera d), del dpr n. 380/2001, tale tipologia di intervento edilizio fa riferimento ad “interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere”, i quali “comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi e impianti”.
Orbene, la disposizione, così come declinata dal legislatore, richiede comunque che le opere realizzate abbiano consistenza e rilevanza edilizia, siano cioè tali da poter “trasformare l’organismo edilizio”, condividendo pertanto natura e consistenza degli elementi costitutivi di esso.
Tali caratteristiche risultano all’evidenza non sussistenti nella fattispecie della struttura in alluminio anodizzato atta ad ospitare una tenda retrattile, avuto riguardo alla consistenza di tale intervento ed alla circostanza che l’immobile accanto al quale essa è collocata è un fabbricato in muratura, sulla cui originaria identità e conformazione l’opera nuova non può certamente incidere.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte deve, pertanto, ritenersi che la struttura realizzata dalla ricorrente non necessitasse del previo rilascio del permesso di costruire, giacché la tenda retrattile che essa è unicamente destinata a servire si risolve, in ultima analisi, in un mero elemento di arredo dello spazio pertinenziale su cui insiste, legittimamente occupato dalla ricorrente in virtù di concessione di occupazione di suolo pubblico.
Tale interpretazione delle strutture in parola appare, in verità, essere stata già condivisa dall’Amministrazione di Roma Capitale nella circolare del 09.03.2012, nella quale, alla lettera i) del punto 3.2 si specifica che, tra le attività di edilizia libera (A.E.L.), sono ricomprese “tende autoportanti, tende in aggetto, ombrelloni, pedane e fioriere al servizio degli esercizi commerciali e di ristorazione ubicate su suolo pubblico, ferma restando l’acquisizione della specifica autorizzazione amministrativa secondo quanto previsto dalle deliberazioni di Roma Capitale in materia di occupazione suolo pubblico e naturalmente esclusa la loro chiusura sui lati perimetrali”.
In conclusione, il ricorso deve essere, dunque, accolto, con annullamento dell’atto impugnato ed assorbimento di ogni altra doglianza (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 22.05.2017 n. 6054 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Offerta anomala, non c'è audizione. Tar Lazio su procedure di verifica.
Non deve essere più convocato in audizione il concorrente di una gara di appalto che ha presentato un'offerta dichiarata anomala; i termini per presentare le giustificazioni non sono perentori e la verifica va condotta sul complesso dell'offerta.
Lo ha precisato il Tar Lazio-Roma, Sez. III-quater, con la sentenza 19.05.2017 n. 5979 nella quale si discuteva delle modalità di svolgimento della procedura di verifica delle offerte anomale.
Un primo punto sollevato riguardava la necessità o meno di convocare in audizione il concorrente anomalo; veniva contestata la violazione di legge per omessa convocazione della ricorrente, in audizione, nell'ambito del giudizio di anomalia. Sul punto, i giudici osservano come, in seguito all'entrata in vigore del nuovo codice degli appalti (decreto legislativo n. 50 del 2016) quest'obbligo procedimentale, precedentemente previsto, al ricorrere di determinati presupposti, dall'art. 88, comma 4, dell'abrogato dlgs 163/2006, non sia più altrimenti contemplato in seno all'art. 97 del nuovo codice.
Rispetto all'effetto derivante dal tardivo riscontro alle richieste di giustificazione dell'offerta nella sentenza ribadisce che nelle gare pubbliche la mancata o anche la sola tardiva produzione delle giustificazioni dell'offerta e degli eventuali chiarimenti non possono comportare l'automatica esclusione dell'offerta sospettata di anomalia e che i termini a tal fine previsti non sono perentori, ma sollecitatori, avendo lo scopo di contemperare gli interessi del concorrente a giustificare l'offerta e quelli dell'amministrazione alla rapida conclusione del procedimento di gara.
Sul tema delle modalità di svolgimento delle verifiche di anomalia il Tar laziale ha affermato che nelle gare pubbliche di appalto il giudizio d'insostenibilità e anomalia dell'offerta del concorrente deve essere complessivo, nel senso di tener conto di tutti gli elementi favorevoli o negativi, tanto da poter giungere a ritenere credibili voci di prezzo eccessivamente basse perché accompagnate da altre voci sulle quali sono possibili e realizzabili risparmi, al fine di giungere ad una compensazione che lasci l'offerta affidabile e seria a prescindere dalla gestione interna dell'impresa offerente (articolo ItaliaOggi del 26.05.2017).

APPALTILe mere questioni formali non escludono l'impresa.
Non si può escludere l'impresa dall'appalto solo perché nell'offerta manca l'impegno del fideiussore per l'esecuzione del contratto previsto dal bando di gara: scatta infatti il soccorso istruttorio a pagamento in favore dell'azienda partecipante. E il merito è anche del decreto correttivo al codice dei contratti pubblici che mostra come la legislazione in materia si evolva nel senso di evitare l'estromissione dalla procedura a evidenza pubblica per mere omissioni formali.

È quanto emerge dalla sentenza 19.05.2017 n. 1125, pubblicata dalla IV Sez. del TAR Lombardia-Milano.
Par condicio
Accolto il ricorso della società che si candida a gestire i servizi di manutenzione e riparazione di un termovalorizzatore, nell'ambito della gara a procedura aperta bandita da un organismo di diritto pubblico che opera nel settore della gestione ambientale.
È vero: nell'offerta dell'impresa esclusa manca l'impegno del fideiussore a rilasciare la garanzia prevista dall'articolo 103 del decreto legislativo 50/2016 in caso di aggiudicazione dell'appalto. Ma l'azienda può pagare la sanzione pecuniaria e ottenere così un termine per mettersi in regola: deve infatti escludersi la violazione della par condicio per i partecipanti all'appalto perché l'omissione non incide sull'offerta tecnica o economica e dunque sull'attribuzione dei punteggi che decreta la vittoria nella gara.
Lo stesso nuovo testo dell'articolo 83, comma 9, del decreto legislativo 50/2016, introdotto dal dlgs correttivo 56/2017, indica che il legislatore guarda con favore all'ampliamento del ricorso al soccorso istruttorio (articolo ItaliaOggi del 31.05.2017).
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MASSIMA
2. Il ricorso è fondato, per le ragioni che seguono.
La società istante è stata esclusa dalla procedura per la mancanza del requisito di cui all’art. 15 del disciplinare di gara, il quale –in conformità alla previsione dell’art. 93, comma 8, del D.Lgs. 50/2016– impone che l’offerta contenente la cauzione provvisoria del 2% dell’importo dell’appalto sia corredata, a pena di esclusione, dall’impegno di un fideiussore a rilasciare la garanzia per l’esecuzione del contratto, di cui all’art. 103 del D.Lgs. 50/2016, qualora l’offerente risultasse aggiudicatario.
In effetti, nel caso di specie, l’offerta della ricorrente non riporta tale impegno; tuttavia, come sostenuto nel gravame,
tale omissione non comporta l’automatica esclusione dell’offerta, bensì l’onere per la stazione appaltante di attivare il procedimento di soccorso istruttorio di cui all’art. 83, comma 9, secondo periodo, del D.Lgs. 50/2016 (c.d. soccorso istruttorio a pagamento).
Infatti, la norma dell’art. 93, comma 8, che pure contiene l’inciso “a pena di esclusione”, deve essere letta alla luce dell’ulteriore disposizione dell’art. 83, comma 9, che prevede (nel testo applicabile ratione temporis alla presente fattispecie) il soccorso istruttorio con pagamento di una sanzione pecuniaria, in caso di incompletezza, di mancanza e di ogni altra irregolarità essenziale degli elementi della domanda, “con esclusione di quelli afferenti all’offerta tecnica ed economica”.
Nel caso di specie, l’impegno di un terzo –vale a dire il fideiussore– al rilascio della garanzia per l’esecuzione del contratto non costituisce certamente un elemento dell’offerta tecnica o economica, bensì un differente elemento della domanda di partecipazione, riguardante il regime delle cauzioni da rilasciarsi da parte degli operatori, ma non incide sul concreto contenuto dell’offerta tecnica o economica da valutarsi da parte della stazione appaltante ai fini dell’attribuzione del punteggio ai partecipanti alla procedura di gara.
La possibilità di regolarizzare la mancanza del succitato elemento (vale a dire l’impegno al rilascio della garanzia definitiva), non viola quindi il principio della “par condicio” dei concorrenti ed è anzi volta ad evitare l’esclusione per difetto di un elemento meramente formale.
Le conclusioni alle quali lo scrivente Collegio giunge con l’attuale pronuncia trovano conferma nella giurisprudenza formatasi nella vigenza del pregresso codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 163/2006), il cui articolo 75, comma 8, ricalcava l’attuale art. 93, comma 8 (cfr. sul punto, TAR Liguria, sez. II, 17.10.2016, n. 1023).
Parimenti, le medesime conclusioni sono confermate dalla circostanza che l’evoluzione legislativa è nel senso dell’ampliamento degli spazi del soccorso istruttorio, per evitare l’esclusione dalle pubbliche gare per omissioni meramente formali e prive di sostanziale rilevanza (cfr. il nuovo testo dell’art. 83, comma 9, così come introdotto dal D.Lgs. 56/2017 di correzione del D.Lgs. 50/2016).
Per effetto dell’accoglimento del presente gravame, deve essere annullato il provvedimento di esclusione, con conseguente onere di Ac. Spa di avviare il soccorso istruttorio.

EDILIZIA PRIVATA: Reati di omessa denuncia dei lavori e presentazione dei progetti e di inizio dei lavori senza preventiva autorizzazione - Natura permanente dei reati - Violazione della normativa antisimica - Individuazione della cessazione della permanenza - Artt. 64, 65, 71, 72, 93, 94, 95 e 101 dlgs n. 380/2001 - Giurisprudenza.
In materia antisismica, i reati di omessa denuncia dei lavori e presentazione dei progetti e di inizio dei lavori senza preventiva autorizzazione scritta dell'ufficio competente hanno natura di reati permanenti, la cui consumazione si protrae sino a quando il responsabile non presenta la relativa denuncia con l'allegata documentazione, non completa l'opera, ovvero, non ricorrendo alcuna delle precedenti condizioni, sino alla data della sentenza di condanna di primo grado (Corte di cassazione, Sezione III penale, 20/01/2016, n. 2209; idem Sezione III penale, 14/01/2016, n. 1145).
Atteso che la lesione dell'interesse protetto dalla norma, ravvisabile nell'apprestamento degli strumenti necessari alla amministrazione competente per potere effettivamente ed efficacemente esercitare i propri compiti in tema di vigilanza sulla regolarità tecnica di ogni costruzione eseguita in zona sismica, permane sin tanto che tale controllo non viene consentito ovvero, una volta completata la realizzazione dell'opera, esso risulta oramai sostanzialmente non più utile.
Opere edilizie in zona sismica - Acquisizione delle autorizzazioni in materia antisismica - Necessità - Individuazione di un errore scusabile in capo all'agente - Integrazione degli elementi soggettivi ed oggettivi.
La realizzazione in zona sismica, di un ballatoio aggettante esterno e la sostituzione e dislocazione di parte di una scala interna, in assenza delle prescritte comunicazioni e autorizzazioni integra l'elemento materiale della contravvenzione in materia antisismica, mentre, ai fini della integrazione dell'elemento soggettivo è sufficiente accertare l'avvenuta consapevole violazione della norma legislativa prescrittiva, in assenza di fattori che avrebbero potuto legittimare l'individuazione di un errore scusabile in capo all'agente, per giustificare quanto meno la colposità della condotta (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.05.2017 n. 24574 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati paesaggistici e reati urbanistici - Disciplina difforme e differenziata - Effetti - Successivo provvedimento di compatibilità paesaggistica - Condono ambientale - Art. 181 dlgs n. 42/2004.
Sanatoria urbanistica e violazione paesaggistica - Artt. 36 e 44, comma 1, lettera e), dPR n. 380/2001 - Giurisprudenza.

La concessione rilasciata a seguito di accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36 del dPR n. 380 del 2001 estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non i reati paesaggistici previsti dal dlgs, n. 42 del 2004, che sono soggetti ad una disciplina difforme e differenziata, legittimamente e costituzionalmente distinta, avente oggettività giuridica diversa, rispetto a quella che riguarda l'assetto del territorio sotto il profilo edilizio.
Né ha rilievo la circostanza che la ricorrente avesse anche conseguito un provvedimento di compatibilità paesaggistica posto che la circostanza di avere ottenuto detto provvedimento non determina di per sé la non punibilità dei reati in materia ambientale e paesaggistica, in quanto compete sempre al giudice l'accertamento dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti l'applicazione del cosiddetto condono ambientale (Corte di cassazione, Sezione III penale, 06/04/2016, n. 13730) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.05.2017 n. 24111 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTIAggiudicazione mancata, scatta il risarcimento. Danno per mancato profitto.
In caso di mancata aggiudicazione, ritenuta illegittima, al concorrente spetta il risarcimento del danno per lucro cessante individuato come mancato profitto e come «danno curriculare».

Lo ha chiarito l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 12.05.2017 n. 2 che ha approfondito il tema della quantificazione del danno nel caso di mancata aggiudicazione del contratto.
In particolare la sentenza ha chiarito che il danno conseguente al lucro cessante si identifica con l'interesse cosiddetto positivo, che ricomprende sia il mancato profitto (che l'impresa avrebbe ricavato dall'esecuzione dell'appalto), sia il danno cosiddetto curriculare (cioè il pregiudizio subìto dall'impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell'immagine professionale per non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell'appalto).
Dal punto di vista dell'onere della prova, spetta, in ogni caso, all'impresa danneggiata offrire, senza poter ricorrere a criteri forfettari, la prova rigorosa dell'utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto. Questo perché, dice il collegio, nell'azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento di cui all'articolo 64, commi 1 e 3, del codice di procedura amministrativa; inoltre la valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 del codice civile, è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità, o di estrema difficoltà, di una precisa prova sull'ammontare del danno.
Il mancato utile spetta nella misura integrale, in caso di annullamento dell'aggiudicazione impugnata e di certezza dell'aggiudicazione in favore del ricorrente, solo se questo dimostri di non aver utilizzato o potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa. In difetto di tale dimostrazione, può presumersi che l'impresa abbia riutilizzato o potuto riutilizzare mezzi e manodopera per altri lavori acquisiti o acquisibili da altri committenti (articolo ItaliaOggi del 19.05.2017).
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50. In conclusione, l’Adunanza plenaria enuncia i seguenti principi di diritto:
   1. Dal giudicato amministrativo, quando riconosce la fondatezza della pretesa sostanziale, esaurendo ogni margine di discrezionalità nel successivo esercizio del potere, nasce ex lege, in capo all’amministrazione, un’obbligazione, il cui oggetto consiste nel concedere “in natura” il bene della vita di cui è stata riconosciuta la spettanza.
   2. L’impossibilità (sopravvenuta) di esecuzione in forma specifica dell’obbligazione nascente dal giudicato –che dà vita in capo all’amministrazione ad una responsabilità assoggettabile al regime della responsabilità di natura contrattuale, che l’art. 112, comma 3, c.p.a., sottopone peraltro ad un regime derogatorio rispetto alla disciplina civilistica– non estingue l’obbligazione, ma la converte, ex lege, in una diversa obbligazione, di natura risarcitoria, avente ad oggetto l’equivalente monetario del bene della vita riconosciuto dal giudicato in sostituzione della esecuzione in forma specifica; l’insorgenza di tale obbligazione può essere esclusa solo dalla insussistenza originaria o dal venir meno del nesso di causalità, oltre che dell’antigiuridicità della condotta.
   3. In base agli articoli 103 Cost. e 7 c.p.a., il giudice amministrativo ha giurisdizione solo per le controversie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione o un soggetto ad essa equiparato, con la conseguenza che la domanda che la parte privata danneggiata dall’impossibilità di ottenere l’esecuzione in forma specifica del giudicato proponga nei confronti dell’altra parte privata, beneficiaria del provvedimento illegittimo, esula dall’ambito della giurisdizione amministrativa.
   4.
Nel caso di mancata aggiudicazione, il danno conseguente al lucro cessante si identifica con l’interesse c.d. positivo, che ricomprende sia il mancato profitto (che l’impresa avrebbe ricavato dall’esecuzione dell’appalto), sia il danno c.d. curricolare (ovvero il pregiudizio subìto dall’impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell’immagine professionale per non poter indicare in esso l’avvenuta esecuzione dell’appalto).
Spetta, in ogni caso, all’impresa danneggiata offrire, senza poter ricorrere a criteri forfettari, la prova rigorosa dell’utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell’appalto, poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.), e la valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità -o di estrema difficoltà- di una precisa prova sull’ammontare del danno.

   5.
Il mancato utile spetta nella misura integrale, in caso di annullamento dell’aggiudicazione impugnata e di certezza dell’aggiudicazione in favore del ricorrente, solo se questo dimostri di non aver utilizzato o potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa.
In difetto di tale dimostrazione, può presumersi che l’impresa abbia riutilizzato o potuto riutilizzare mezzi e manodopera per altri lavori, a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum.

APPALTIAvvalimento infragruppo, il contratto è da produrre. Gare: per la disponibilità dei requisiti.
Anche nell'avvalimento infragruppo è necessaria la produzione del contratto con il quale si mettono a disposizione i requisiti; il principio vale anche nei settori speciali.

È quanto ha precisato il TAR Lazio-Roma, III Sez., con la sentenza 09.05.2017 n. 5545 rispetto ad una fattispecie di avvalimento infragruppo, per una gara di appalto successiva all'entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici (dlgs 50/2016).
I giudici hanno messo in evidenza la discontinuità del nuovo codice rispetto al codice De Lise del 2006, segnalando che in base all'articolo 49, comma 2, lett. g), del vecchio codice era previsto che per le imprese appartenenti al medesimo gruppo, in luogo del contratto di avvalimento si potesse presentare una dichiarazione sostitutiva attestante il legame giuridico ed economico esistente nel gruppo, dal quale fare discendere gli obblighi di messa a disposizione dei requisiti oggetto di avvalimento per tutta la durata del contratto.
Ebbene, dicono i giudici laziali, «nessuna norma di analogo tenore trova oggi collocazione nel nuovo codice degli appalti pubblici»; quindi si applica sempre il generale obbligo di allegare il relativo contratto.
La norma del vecchio codice, dicono i giudici, non era peraltro «espressione di un particolare principio eurounitario di primaria rilevanza o cogente», il che avrebbe potuto portare a sostenere la diretta applicazione, né, ancora, i giudici ritengono che sia possibile desumere una eccezione per i cosiddetti «settori speciali» (acqua, energia e trasporti) con riferimento al comma 2 dell'art. 89 del nuovo codice. Il rinvio al comma 1 della stessa norma non consente di ammettere una deroga all'obbligo di stipulare e produrre in gara un contratto scritto di avvalimento.
La sentenza ha precisato, in particolare, che occorre depositare la dichiarazione dell'ausiliaria, «adempimento certamente non derogabile, non essendo altrimenti ipotizzabile altro documento idoneo a comprovare il rapporto di avvalimento e costituendo la suddetta dichiarazione da sempre la prova principale del rapporto di avvalimento, anche nel regime previgente» (articolo ItaliaOggi del 12.05.2017).
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MASSIMA
19.5.
Com’è noto, senza sostanziali differenze tra nuovo e vecchio Codice, l’istituto in questione (avvalimento), di derivazione comunitaria, consente che un imprenditore possa comprovare alla stazione appaltante il possesso dei necessari requisiti economici, finanziari, tecnici e organizzativi –nonché di attestazione della certificazione SOA– a fini di partecipazione ad una gara, facendo riferimento alle capacità di altro soggetto (ausiliario), che assume contrattualmente con lo stesso –impegnandosi nei confronti della stazione appaltante– una responsabilità solidale.
I caratteri e le finalità di fondo dell’istituto (per come delineati dall’articolo 47 della direttiva 2004/18/CE) sono stati da ultimo sostanzialmente confermati dall’articolo 63 della direttiva 2014/24/UE (cui corrispondono le analoghe previsioni dell’articolo 38, paragrafo 2 della direttiva 2014/23/UE in tema di concessioni e dell’articolo 79 della direttiva 2014/25/UE in tema di cc.dd. ‘settori speciali’), recepito nel nostro ordinamento dall’art. 89 d.lgs. n. 50 del 2016.
L’avvalimento, pertanto, può riguardare anche, come accaduto nella specie, un requisito di capacità tecnica, relativo ad una determinata esperienza tecnico-professionale maturata nella installazione di una specifica tipologia di macchine radiogene e, in casi di questo genere, deve ritenersi che “
l’impresa ausiliaria deve assumere l’impegno di mettere a disposizione dell’impresa ausiliata le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo, in termini di mezzi, personale e di ogni altro elemento aziendale qualificante (cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. Stato, VI, 31.07.2014, n. 4056; V, 22.01.2015, n. 257, 27.01.2014, n. 412, 04.11.2014, n. 5446, 23.05.2011, n. 3066 e 12.06.2009, n. 3762; III, 07.04.2014, n. 1636 e 11.07.2014, n. 3599; IV, 09.02.2015, n. 662). (…..) Nella situazione in esame, la società appellata richiama i requisiti di capacità tecnica ed economica, riferiti al fatturato ed ai contratti pregressi della ditta ausiliaria, ma non richiama in alcun modo la messa a disposizione –da parte di quest’ultima– della propria struttura organizzativa...” (è quanto si legge in Cons. Stato, sez. VI, 15.05.2015, n. 2486).
Il Collegio ritiene che, anche nel caso in esame, il requisito esperienziale di cui al punto III.1.3., lett. a), del bando non sia un mero requisito immateriale o “cartolare” ma che, al contrario, comporti l’effettiva prestazione di risorse, personale e mezzi, da parte della He..
In effetti la specifica esperienza tecnico-professionale delineata dalla clausola serve a garantire alla stazione appaltante la effettiva e concreta capacità della concorrente di svolgere adeguatamente le prestazioni contrattuali assunte, con particolare riguardo alla installazione delle macchine radiogene del tipo voluto dal bando e, più nel dettaglio dal Capitolato Speciale d’Appalto.
Seguendo, in altri termini, la differenziazione tipologica invalsa in tema di avvalimento, quello che viene in considerazione nella specie appare avvicinarsi, quanto meno per il profilo attinente alla installazione dei macchinari dedotti in appalto, ad un avvalimento di tipo “operativo” piuttosto che di mera “garanzia” (figura che, viceversa, ricorre in caso di messa a disposizione di un requisito patrimoniale o del solo fatturato, ad integrazione di una solidità finanziaria altrimenti non adeguata in capo alla concorrente ausiliata).
Pertanto, seguendo quanto recentemente affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza 04.11.2016, n. 23 laddove si richiama adesivamente (par. 3.4.) l’opinione secondo cui “
il contratto di avvalimento (qualificabile come contratto atipico) presenta tratti propri: i) del contratto di mandato di cui agli articoli 1703 e seguenti del codice civile, ii) dell’appalto di servizi, nonché iii) aspetti di garanzia atipica nei rapporti fra l’impresa ausiliaria e l’amministrazione aggiudicatrice per ciò che riguarda l’assolvimento delle prestazioni dedotte in contratto”, deve ritenersi che, nella specie, ai fini dell’integrazione del requisito in capo alla concorrente, nel contratto di avvalimento debbano necessariamente ricorrere elementi propri anche dell’appalto di servizi (prestazione di mezzi e risorse), che appaiono prevalenti rispetto agli aspetti di “mera garanzia patrimoniale”.

INCARICHI PROFESSIONALINotai, limiti al falso ideologico. Esclusione se l'omessa attestazione non provoca nullità. La prima presa di posizione della Cassazione sul collegamento con i lavori edilizi.
Il falso ideologico, a carico di un notaio, non è configurabile se l'omessa attestazione non incide sul contenuto dell'atto in modo da determinarne la nullità in base alla legge.

È questa la prima presa di posizione della Corte di Cassazione, Sez. V penale, in tema di falso ideologico e lavori edilizi (sentenza 08.05.2017 n. 22200).
In particolare secondo la Cassazione non commette falso ideologico il notaio che, in un atto pubblico da lui rogato, non attesta l'avvenuta «realizzazione di interventi edilizi c.d. “minori”, in quanto insuscettibili di determinare la nullità dell'atto traslativo, per l'epoca della costruzione dell'immobile e per la consistenza delle opere realizzate».
L'imputazione riguardava l'«attestazione da parte del notaio rogante, nell'atto pubblico stipulato per la compravendita di un fabbricato, oggetto di opere edili che avevano comportato il cambio di destinazione d'uso di una loggia e di un magazzino, e l'ampliamento planovolumetrico, che le opere realizzate in epoca successiva ai titoli legittimanti non richiedessero provvedimenti abilitativi; circostanza non rispondente al vero (secondo l'accusa), in quanto l'immobile era stato trasformato e modificato abusivamente in data antecedente alla vendita, della quale erano a conoscenza tutte le parti».
Con riferimento alla fattispecie concreta, la sentenza ha affermato che il notaio aveva l'obbligo di rogare l'atto, non ricorrendo alcuna proibizione alla sua stipulazione. Tale proibizione si configura, soltanto, nell'ipotesi in cui esista un vizio che dia luogo ad una nullità assoluta dell'atto. In relazione all'abusivismo edilizio la nullità assoluta dell'atto di compravendita si realizza soltanto nell'ipotesi in cui, in base alla normativa in materia, sia prevista la sua «incommerciabilità».
Nella fattispecie esaminata, invece, «è stata esclusa l'applicabilità delle norme sull'incommerciabilità degli atti traslativi aventi ad oggetto immobili abusivi», trattandosi di bene commerciabile in quanto costruito «prima del 17.03.1985» e sottoposto, successivamente a tale data, soltanto ad interventi edili c.d. «minori». Quindi, l'atto pubblico di compravendita non era «proibito dalla legge», poiché non affetto dal vizio di nullità (articolo ItaliaOggi Sette del 29.05.2017).
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MASSIMA
1. Il ricorso è infondato.
2. Giova premettere che correttamente la sentenza impugnata ha riqualificato il fatto contestato nel rato di falso ideologico, e non già materiale, in atto pubblico.
È altresì pacificamente emerso che le parti venditrici, la parte acquirente ed il Notaio rogante erano consapevoli della realizzazione di alcuni interventi edilizi illegittimi, pur tuttavia non richiamati nell'atto di compravendita stipulato. Al riguardo, va rammentato che
il falso ideologico per omissione è integrato dalla condotta che, incidendo sul significato di un enunciato dichiarativo o constatativo, produca un'attestazione non conforme ai fatti; tuttavia, l'omissione è configurabile soltanto se sussista un relativo obbligo giuridico di rappresentazione di alcuni fatti, sicché, in caso di omessa rappresentazione, l'atto pubblico assuma il significato di attestazione della loro inesistenza (cd. attestazione implicita) (in tal senso, Sez. 1, n. 46966 del 17/11/2004, Narducci, Rv. 231183: "La falsità ideologica di un atto può derivare anche dall'omissione o dalla incompletezza dei dati in esso illustrati, quando il contesto espositivo sia tale che la parzialità dell'informazione si risolve nella mendace negazione dell'esistenza di un fatto").
Tanto premesso, la sentenza impugnata appare immune da censure.
Nel caso in esame, infatti, è stata esclusa l'applicabilità delle norme sull'incommerciabilità degli atti traslativi aventi ad oggetto immobili abusivi, trattandosi di immobile realizzato prima del 17.03.1985 (e, addirittura, del 01.09.1967, data di entrata in vigore della c.d. "legge-ponte"), dies a quo per l'applicabilità dell'art. 46, comma 1, d.P.R. 380/2001, e di interventi edilizi c.d. "minori", non rientranti nelle previsioni di cui all'artt. 46, comma 5-bis (in relazione all'art. 22, comma 3) d.P.R. 380/2001.
Non ricorrendo un'ipotesi di nullità dell'atto, pertanto, e sul presupposto che l'art. 27 della l. 89 del 1913 (c.d. legge notarile) prevede che "Il notaro è obbligato a prestare il suo ministero ogni volta che ne è richiesto", è stato affermato che il Notaio rogante non avesse il divieto di stipulare l'atto di compravendita in oggetto, e non avesse neppure l'obbligo di dichiarare l'esistenza degli interventi edilizi "minori" realizzati, in quanto non incidenti sul regime di commerciabilità del bene.
L'art. 28 della legge notarile sancisce, infatti, che "Il notaro non può ricevere atti (...) se essi sono espressamente proibiti dalla legge (...)".
Sicché, nel caso in esame, trattandosi di bene commerciabile, in quanto costruito prima del marzo 1985 ed oggetto di interventi edilizi c.d. "minori", l'atto pubblico di compravendita non era "proibito dalla legge", in quanto non affetto dal vizio della nullità sancito dall'art. 46 d.P.R. 380/2001.
In tal senso si è, altresì, espressa la giurisprudenza civile di questa Corte, secondo cui, in tema di responsabilità disciplinare dei notai, il divieto, imposto dall'articolo 28, comma primo, n. 1, della legge 16.02.1913, n. 89, sanzionato con la sospensione a norma dell'art. 138, comma secondo, di ricevere atti "espressamente proibiti dalla legge" attiene ad ogni vizio che dia luogo ad una nullità assoluta dell'atto, con esclusione, quindi, dei vizi che comportano l'annullabilità o l'inefficacia dell'atto (ovvero la stessa nullità relativa) ed è sufficiente che la nullità risulti in modo inequivoco (Cass. Civ., Sez. 3, n. 11128 del 11/11/1997, Rv. 509864)
Del resto, lo stesso art. 2700 c.c., richiamato dal ricorrente, nel delimitare il regime di efficacia dell'atto pubblico, sancisce che questo "fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti".
Ebbene, oltre alla prova della provenienza del documento, l'efficacia probatoria dell'atto pubblico si estende alle dichiarazioni e ai fatti avvenuti in presenza del pubblico ufficiale; ma tale efficacia riguarda soltanto le dichiarazioni e i fatti rilevanti ai fini della formazione dell'atto pubblico.
In altri termini,
l'omessa esposizione di un fatto assume il significato della negazione della sua esistenza soltanto quando la sua rilevanza ne avrebbe imposto la manifestazione; al contrario, non ricorre la c.d. attestazione implicita, allorquando, come nel caso di specie, non sussista l'obbligo di attestare la realizzazione di interventi edilizi c.d. "minori", in quanto insuscettibili di determinare la nullità dell'atto traslativo, per l'epoca della costruzione dell'immobile e per la consistenza delle opere realizzate.

EDILIZIA PRIVATALa sostituzione o il rinnovamento di serramenti e, quindi, anche di infissi o di serrande, rientra nel concetto di finiture di edifici, come tale configurabile in termini di manutenzione ordinaria ai sensi dell’art. 31, lett. a), della l. 05.08.1978, n. 457, vigente all’epoca della contestazione dell’abuso ed (anche) oggi ai sensi dell'art. 3, lett. a), D.P.R. 06.06.2001, n. 380, disposizione ultima secondo la quale tale intervento costituisce attività libera e non soggetta a denuncia di inizio attività ai sensi dell'art. 6, lett. a), dello stesso decreto, e ciò sia che vengano impiegati gli stessi materiali componenti, sia che la sostituzione o il rinnovamento venga effettuata con materiali diversi.
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5. – Anche il secondo motivo di ricorso, nella sequenza proposta nell’atto introduttivo del presente giudizio, si presenta fondato.
Con il secondo motivo di ricorso, infatti, si sostiene correttamente che la sostituzione dell’infisso costituirebbe intervento di “manutenzione ordinaria”, di talché si presenta illegittima la sanzione demolitoria inflitta dal Comune.
Sul punto va rammentato, in aderenza ad una diffusa giurisprudenza, che la sostituzione o il rinnovamento di serramenti e, quindi, anche di infissi o di serrande, rientra nel concetto di finiture di edifici, come tale configurabile in termini di manutenzione ordinaria ai sensi dell’art. 31, lett. a), della l. 05.08.1978, n. 457, vigente all’epoca della contestazione dell’abuso ed (anche) oggi ai sensi dell'art. 3, lett. a), D.P.R. 06.06.2001, n. 380, disposizione ultima secondo la quale tale intervento costituisce attività libera e non soggetta a denuncia di inizio attività ai sensi dell'art. 6, lett. a), dello stesso decreto, e ciò sia che vengano impiegati gli stessi materiali componenti, sia che la sostituzione o il rinnovamento venga effettuata con materiali diversi (cfr. TAR Piemonte, Sez. I, 12.04.2010 n. 1761; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 18.10.2005 n. 16667 e TAR Lazio, Sez. II, 09.05.2005 n. 3438) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 08.05.2017 n. 5541 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo procedimento.
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7. - Quanto alla mancata comunicazione dell’avvio del procedimento repressivo sanzionatorio (ai sensi ai sensi dell’art. 7 l. 241/1990) che ha dato luogo all’ordinanza qui gravata, trova applicazione il costante insegnamento giurisprudenziale a mente del quale in ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo procedimento (cfr., per tutte, Cons. Stato, Sez. VI, 24.09.2010 n. 7129).
Ne deriva che, come la terza, anche la quarta censura non si presta ad essere accolta (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 08.05.2017 n. 5541 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: La competenza ad adottare atti di gestione in materia edilizia, compresi quelli repressivo-sanzionatori, è stata trasferita dalla legge ai dirigenti soltanto con l’entrata in vigore della l. 191/1998, vale a dire a far data dal 05.07.1998.
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6. – Con la terza censura dedotta il ricorrente sostiene la incompetenza del Sindaco ad adottare il provvedimento repressivo in materia edilizia qui impugnato, ma la censura non coglie nel segno.
Sul punto va invero considerato che in materia di riparto di competenza tra organi politici e organi della gestione negli Enti locali per la adozione di provvedimenti amministrativi si è assistito alla seguente evoluzione:
   - con l'originaria stesura dell'art. 51, terzo comma, della legge 08.06.1990, n. 142, venne previsto che ai dirigenti spettassero tutti i compiti, compresa la adozione di atti che impegnassero l'amministrazione verso l'esterno ma che non fossero espressamente riservati dalla legge o dallo statuto agli organi di governo, indicandosi in particolare, con richiamo alle modalità stabilite dallo statuto, la presidenza delle commissioni di gara e di concorso, la responsabilità sulle procedure d'appalto e di concorso, la stipulazione dei contratti;
   - con la modifica apportata dall'art. 6 della l. 15.05.1997, n. 127 la elencazione dei compiti attribuiti ai dirigenti ha subito un ampliamento, aggiungendosi, a quelli previsti dal cennato originario terzo comma, gli atti di gestione finanziaria, ivi compresa l'assunzione di impegni di spese (lett. d), gli atti di amministrazione e gestione del personale (lett. e), i provvedimenti di assentimento di cui alla sopra citata lett. [f], le attestazioni, certificazioni, comunicazioni, diffide, verbali, autenticazioni, legalizzazioni ed ogni altro atto costituente manifestazione di giudizio e di conoscenza (lett. g), gli atti ad essi attribuiti dallo statuto e dai regolamenti o, in base a questi, delegati dal sindaco (lett. h);
   - con l'art. 45 d.lgs. 31.03.1998, n. 80 è stato previsto che, a decorrere dalla data di entrata in vigore dello stesso decreto (e cioè dal 23.04.1998), le disposizioni previgenti che conferiscono agli organi di governo l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi di cui all'art. 3, secondo comma, del d.lgs. 03.02.1993, n. 29, si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti;
   - con l'art. 2, comma 12, l. 16.06.1998, n. 191, è stata inserita, dopo la lett. [f] del sopra citato e modificato art. 51 della l. n. 142/1990, la seguente lett. [f-bis]: “tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e regionale in materia di prevenzione e repressione dell'abusivismo edilizio e paesaggistico–ambientale”.
L'esplicito ampliamento normativo, subìto per due volte, della elencazione dei compiti originariamente spettanti ai dirigenti, conduce alla conclusione che quanto indicato, limitatamente alle commissioni, alle procedure e ai contratti, dall'iniziale stesura dell'art. 51, non fosse meramente esemplificativo. Una ipotesi del genere colliderebbe infatti con la considerazione in base alla quale il legislatore avrebbe emesso per tre volte norme sostanzialmente inutili (precisando dapprima taluni compiti nella originaria stesura dell'art. 51, ampliandoli poi con la legge n. 127 del 1997, ampliandoli ulteriormente con la legge n. 191 del 1998).
Va pertanto concluso, per quanto qui occorre, che il progressivo ampliamento delle competenze dei dirigenti sia avvenuto, di volta in volta, in concomitanza con la entrata in vigore delle varie norme sopra esaminate.
E va conseguentemente detto che le enunciazioni, di ampio significato, contenute nell'art. 51, terzo comma, cit. ("spettano ai dirigenti tutti i compiti...") e nell'art. 45 cit. ("le disposizioni previgenti che conferiscono agli organi di governo l'adozione di atti ... si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti"), sono state intese dal medesimo legislatore che le ha introdotte, e (cfr. in particolare l'originario art. 51 e l'art. 6, comma 2 cit.) nel momento stesso in cui sono state poste, nel senso di enunciazioni di principio, abbisognevoli di specificazioni necessarie; non utili quindi, ex se, a conferire senz'altro poteri dirigenziali sul punto.
Può concludersi pertanto che la competenza ad adottare atti di gestione in materia edilizia, compresi quelli repressivo-sanzionatori, sia stata trasferita dalla legge ai dirigenti soltanto con l’entrata in vigore della l. 191/1998, vale a dire a far data dal 05.07.1998 e quindi in epoca successiva alla data di adozione del provvedimento qui impugnato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 08.05.2017 n. 5541 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALICosti di sicurezza esclusi per le opere di tipo intellettuale. Consiglio di Stato. Appalti pubblici.
Novità per le prestazioni di natura intellettuale a pubbliche amministrazioni, negli appalti di servizi soggetti alla disciplina delle opere pubbliche (Dlgs 50/2016): il Consiglio di Stato esclude che per esse vi siano costi di sicurezza da indicare.

La sentenza 08.05.2017 n. 2098, relativa alla fornitura e manutenzione di software ad una società pubblica della provincia autonoma di Bolzano, decide il caso di un fornitore che aveva indicato la cifra «zero» per i costi di sicurezza, che il disciplinare di gara imponeva fossero chiariti.
Per i giudici, quando la fornitura riguarda un servizio di natura intellettuale, costi di sicurezza non sono configurabili e, in conseguenza, non si può escludere il concorrente per asserita violazione dell’articolo 87, comma 4, del Dlgs 163/2006 (oggi articolo 50, Dlgs 50/2016, Codice appalti), dovendosi valutare in concreto se la dichiarazione relativa all’offerta economica sia congrua. Il confine tra forniture di servizi di natura intellettuale ed altri tipi di servizi assume rilievo con l’evolversi delle professioni verso strutture imprenditoriali, articolate in organismi complessi, destinati ad operare non solo presso la sede professionale ma anche presso l’utente, anche in forme societarie complesse.
Le recenti modifiche al Dlgs 50/2016 (Dlgs 19.04.2017 n. 56, pubblicato il 5 maggio e in vigore dal 20 maggio) accentuano (articolo 50) la differenza degli appalti di servizi di natura intellettuale rispetto ad altri servizi, esonerando i primi, per la loro matrice personale, dalle clausole sociali che garantiscono generica stabilità occupazionale.
Restano di difficile definizione le figure in cui i costi di sicurezza non sono applicabili: la fornitura di pc con assistenza tecnica on-site, quindi con personale in loco, non è stata ritenuta prestazione intellettuale (Tar Bologna, sentenza 268/2015), nemmeno se vi è garanzia post vendita (Consiglio di Stato, 1798/2015); consulenza e brokeraggio assicurativo per una Regione non espongono a rischi o pericoli (Consiglio di Stato, 1051/2016; Tribunale amministrativo di Bolzano, 143/2017); il servizio di call center, ritenuto di natura intellettuale (Tar Bologna, 564/2016). Per i tecnici, la redazione di un piano di rischi idrogeologici con sopralluoghi e rilievi espone a rischi specifici (Consiglio di Stato, 3139/2016), come progettazione lavori, demolizione e ricostruzione di una scuola con sopralluoghi, rilievi e misurazioni (Tar Veneto, 182/2017).
Altre volte i servizi di ingegneria a supporto di una struttura tecnica di un’azienda ospedaliera sono stati ritenuti prevalentemente intellettuali, privi di rischi specifici perché si esprimono in attività di controllo e supervisione dei lavori, senza partecipazione attiva ai cantieri (Tar Napoli, 4150/2016); solo professionale è anche l’attività degli interpreti e traduttori (assistenza linguistica negli asili nido della provincia di Trento), anche se l’attività è prestata in scuole (Consiglio di Stato, 223/2017).
In sintesi, analizzando i costi aziendali emerge il ridursi delle prestazioni meramente intellettuali, che si riducono all’ideazione delle soluzioni, senza necessità di verifiche e collaudi
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.05.2017).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Nella fattispecie, l’istanza di accesso è assolutamente generica e indeterminata, facendo riferimento a “tutta la corrispondenza interna fra DL, RUP, ufficio affari legali M.M. e Consiglio di Amministrazione”.
Deve, dunque, ricevere applicazione la costante giurisprudenza sull’inesistenza in capo all’istante del concreto interesse all’accesso in tutti i casi in cui lo stesso miri ad un controllo generalizzato dell’operato dell’amministrazione, inammissibile ai sensi dell’art. 24, comma 3, della legge n. 241/1990.
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Ai sensi dell'art. 13, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 nelle gare pubbliche il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici è sottoposto ad un limite generale che è quello della necessaria sussistenza di un interesse differenziato, concreto ed attuale, il quale deve trovarsi in evidente collegamento con la tutela giurisdizionale di una determinata posizione giuridica dell'istante; inoltre il diritto all'accesso ai documenti amministrativi oppure alla documentazione privata d'interesse amministrativo, soprattutto per questa ultima, deve essere sempre comparato con il diritto alla riservatezza e comunque si deve ritenere prevalente ove connesso al riconoscimento di una determinata situazione in sede giurisdizionale.
Inoltre “E' da escludere che la titolarità del diritto d'accesso risieda soltanto in una situazione funzionale all'esercizio di un interesse giuridicamente protetto e suscettibile di tutela giurisdizionale; ed invero la richiesta di accesso, pur non potendo configurarsi quale forma di preventivo e generalizzato controllo dell'intera attività dell'Amministrazione, si può basare su un interesse anche non funzionalmente connesso ad un'immediata tutela in via giudiziale, purché concreto ed attuale; in altri termini, la nozione di «interesse giuridicamente rilevante», che fonda il diritto di accesso, è più ampia rispetto a quella di «interesse all'impugnazione»”.
“Il diritto di accesso non è stato configurato dal legislatore con carattere meramente strumentale rispetto alla difesa in giudizio, avendo un carattere autonomo, nel senso che il collegamento tra l'interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l'accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza va inteso in senso ampio, poiché la documentazione richiesta deve essere considerata mezzo utile per la difesa e non come strumento di prova diretta della lesione dell'interesse tutelato”.
Deve, infine, precisarsi che: “Ai sensi dell'art. 22, comma 1, lett. b), l. 07.08.1990 n.241 e successive modificazioni, il diritto di accesso si indirizza ai documenti amministrativi detenuti dall'Amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale; quindi è strutturato al fine di consentire la conoscenza di atti rappresentativi dell'attività della Pubblica amministrazione finalizzata alla cura e al perseguimento di scopi di interesse pubblico o che si configurino essenziali all'esercizio dell'attività stessa, indipendentemente dal fatto che essa sia espressione di poteri autoritativi o di autonomia negoziale dell' ente; nel documento deve quindi sostanziarsi l'esercizio della funzione amministrativa, ovvero deve costituire strumento per l'esercizio della potestà di amministrazione”.
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Il collegio ritiene che il ricorso sia fondato solo in parte, sussistendo il concreto interesse della ricorrente all’accesso esclusivamente riguardo al verbale del CdA di MM che concerne la sua posizione con riferimento alla risoluzione del contratto in questione.
Ed invero, riguardo alla porzione dell’istanza concernente la copia della corrispondenza privata interna intercorsa tra la DL e il RUP, la DL e la DT, la DT e la progettazione, nonostante l’astratta configurabilità della possibilità dell’ostensione anche di atti di natura privatistica, purché connessi all’esercizio della potestà autoritativa dell’amministrazione, nella fattispecie in questione l’istanza è assolutamente generica e indeterminata, facendo riferimento a “tutta la corrispondenza interna fra DL, RUP, ufficio affari legali M.M. e Consiglio di Amministrazione”. Deve, dunque, ricevere applicazione la costante giurisprudenza sull’inesistenza in capo all’istante del concreto interesse all’accesso in tutti i casi in cui lo stesso miri ad un controllo generalizzato dell’operato dell’amministrazione, inammissibile ai sensi dell’art. 24, comma 3, della legge n. 241/1990 (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 12.01.2016, n. 68).
Riguardo alla documentazione detenuta da ANAC, l’accesso è stato legittimamente negato da MM in virtù del differimento già dalla stessa Autorità disposto con nota del 12.12.2016 su analoga istanza di accesso presentatagli dalla odierna ricorrente, poiché ai sensi del Regolamento concernente l’accesso ai documenti formati o detenuti stabilmente dall’Autorità, l’accesso è differito a una data successiva all’adozione della delibera conclusiva del Consiglio, che non è ancora intervenuta.
Riguardo, invece, al verbale del Consiglio di Amministrazione di MM, il Collegio ritiene che sia rinvenibile l’interesse della ricorrente all’ostensione del medesimo, anche se non specificato nell’istanza, atteso che nel provvedimento di risoluzione si fa menzione di un’autorizzazione alla risoluzione medesima da parte del Consiglio di Amministrazione, risultando, dunque, lo stesso facilmente individuabile.
Il Collegio richiama, in proposito, il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa in base al quale: “Ai sensi dell'art. 13, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 nelle gare pubbliche il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici è sottoposto ad un limite generale che è quello della necessaria sussistenza di un interesse differenziato, concreto ed attuale, il quale deve trovarsi in evidente collegamento con la tutela giurisdizionale di una determinata posizione giuridica dell'istante; inoltre il diritto all'accesso ai documenti amministrativi oppure alla documentazione privata d'interesse amministrativo, soprattutto per questa ultima, deve essere sempre comparato con il diritto alla riservatezza e comunque si deve ritenere prevalente ove connesso al riconoscimento di una determinata situazione in sede giurisdizionale” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 27.04.2015, n. 2096).
Inoltre “E' da escludere che la titolarità del diritto d'accesso risieda soltanto in una situazione funzionale all'esercizio di un interesse giuridicamente protetto e suscettibile di tutela giurisdizionale; ed invero la richiesta di accesso, pur non potendo configurarsi quale forma di preventivo e generalizzato controllo dell'intera attività dell'Amministrazione, si può basare su un interesse anche non funzionalmente connesso ad un'immediata tutela in via giudiziale, purché concreto ed attuale; in altri termini, la nozione di «interesse giuridicamente rilevante», che fonda il diritto di accesso, è più ampia rispetto a quella di «interesse all'impugnazione»” (Cons. Stato, sez. V, 17.03.2015, n. 1370).
Il diritto di accesso non è stato configurato dal legislatore con carattere meramente strumentale rispetto alla difesa in giudizio, avendo un carattere autonomo, nel senso che il collegamento tra l'interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l'accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza va inteso in senso ampio, poiché la documentazione richiesta deve essere considerata mezzo utile per la difesa e non come strumento di prova diretta della lesione dell'interesse tutelato” (Cons. Stato, sez. VI, 10.02.2015, n. 714).
Deve, infine, precisarsi che: “Ai sensi dell'art. 22, comma 1, lett. b), l. 07.08.1990 n.241 e successive modificazioni, il diritto di accesso si indirizza ai documenti amministrativi detenuti dall'Amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale; quindi è strutturato al fine di consentire la conoscenza di atti rappresentativi dell'attività della Pubblica amministrazione finalizzata alla cura e al perseguimento di scopi di interesse pubblico o che si configurino essenziali all'esercizio dell'attività stessa, indipendentemente dal fatto che essa sia espressione di poteri autoritativi o di autonomia negoziale dell' ente; nel documento deve quindi sostanziarsi l'esercizio della funzione amministrativa, ovvero deve costituire strumento per l'esercizio della potestà di amministrazione” (Cons. Stato, sez. III, 22.12.2014, n. 6352).
Ne consegue, dunque, la possibilità dell’ostensione anche di atti di natura privatistica, purché connessi all’esercizio della potestà autoritativa dell’amministrazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 05.05.2017 n. 1035 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I lavori di adeguamento su struttura socio-riabilitativa per portatori di disabilità, da parte di una IPAB, rientrano per definizione all’interno delle “… opere pubbliche o di interesse generale”, di cui all'art. 17, co. 3, lett. c) TUE. Trattasi infatti di struttura volta alla cura di persone con gravi disabilità, e mirante ad assicurare loro assistenza continuativa, anche dopo la morte dei relativi familiari.
Sicché, la fattispecie è esente dal versamento del contributo di costruzione ai sensi dell’art. 17, co. 3, lett. c), TUE. Invero, il contributo di costruzione, non è dovuto: “… per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici” ove “Per integrare la fattispecie normativa, è necessario il concorso di due requisiti, l'uno di carattere oggettivo e l'altro di carattere soggettivo. Per effetto del primo, la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale; per effetto del secondo, le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente. La ratio della norma è innanzitutto quella di agevolare l'esecuzione di opere destinate al soddisfacimento di interessi pubblici o dalle quali la collettività possa comunque trarre una utilità. Il legislatore ha, quindi, inteso evitare l'imposizione di oneri concessori al soggetto che interviene per l'istituzionale attuazione del pubblico interesse; imposizione che sarebbe altrimenti intimamente contraddittoria, poiché verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi dal loro pagamento. In tale prospettiva, è stato chiarito dalla giurisprudenza -con riferimento al requisito soggettivo- che per “enti istituzionalmente competenti" debbano intendersi i soggetti pubblici, ovvero anche i soggetti privati, purché l'opera sia realizzata per conto di un ente pubblico”.

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1. La ricorrente –iscritta nell’elenco delle IPAB operanti all’interno della Regione– ha ottenuto permesso di costruire al fine di eseguire lavori di adeguamento del proprio immobile a struttura socio-riabilitativa, versando il relativo contributo concessorio.
Avvedutasi della possibilità di fruire dell’esenzione stabilita dall’art. 17, co. 3, lett. c), d.P.R. n. 380/2001 (TUE), essa ha diffidato il Comune di Castro a trasformare il permesso di costruire da oneroso in gratuito, restituendo conseguentemente le somme indebitamente percepite dall’ente a titolo di oneri concessori.
Tale diffida è stata formalmente disattesa dal Comune con nota prot. n. 7141/15.
Avverso tale nota, e ai relativi provvedimenti presupposti, la ricorrente è insorta, deducendone l’illegittimità sulla base dei seguenti motivi di gravame: violazione dell’art. 17, co. 3, lett. c), d.P.R. n. 380/2001; eccesso di potere per errore.
All’udienza del 19.04.2017 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
...
4. Nel merito, con i vari motivi di gravame, deduce la ricorrente la violazione, ad opera del Comune, della previsione di cui all’art. 17, co. 3, lett. c), TUE, avuto riguardo sia alla sua soggettività di diritto pubblico, sia alla natura di interesse generale delle opere realizzate dalla ricorrente.
Gli assunti sono fondati.
4.2. Ai sensi dell’art. 17, co. 3, lett. c), TUE, il contributo di costruzione, non è dovuto: “… per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Così individuata la previsione normativa di riferimento, occorre ora indagarne la portata.
4.3. Sul punto, osserva il Collegio che, per condivisa giurisprudenza amministrativa, “Per integrare la fattispecie normativa, è necessario il concorso di due requisiti, l'uno di carattere oggettivo e l'altro di carattere soggettivo. Per effetto del primo, la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale; per effetto del secondo, le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente. La ratio della norma è innanzitutto quella di agevolare l'esecuzione di opere destinate al soddisfacimento di interessi pubblici o dalle quali la collettività possa comunque trarre una utilità. Il legislatore ha, quindi, inteso evitare l'imposizione di oneri concessori al soggetto che interviene per l'istituzionale attuazione del pubblico interesse; imposizione che sarebbe altrimenti intimamente contraddittoria, poiché verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi dal loro pagamento. In tale prospettiva, è stato chiarito dalla giurisprudenza -con riferimento al requisito soggettivo- che per “enti istituzionalmente competenti" debbano intendersi i soggetti pubblici, ovvero anche i soggetti privati, purché l'opera sia realizzata per conto di un ente pubblico” (TAR Lombardia, II, 03.11.2016, n. 2011. Cfr. altresì la copiosa giurisprudenza ivi citata).
5. Ciò premesso, e venendo ora al caso in esame, rileva il Collegio che, per quel che attiene al requisito soggettivo, già la denominazione giuridica della ricorrente –i.e: Istituzione pubblica di assistenza e beneficenza (IPAB)– ne tradisce la sua natura pubblicistica, peraltro assai risalente nel tempo, essendo le IPAB originariamente disciplinate dalla legge 17.07.1890, n. 6972.
Inoltre, ai sensi dell’art. 1 d.lgs. n. 207/2001, si è previsto “il riordino delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza”, la qual cosa costituisce ulteriore indice della sua natura pubblicistica.
La natura pubblicistica della ricorrente è poi confermata dalla L.R. n. 15/2004, la quale in coerenza con la citata normativa statale ha dettato previsioni per il riordino delle IPAB già esistenti in ambito regionale, tra le quali risulta inclusa la ricorrente –il cui statuto è stato approvato in data 10.07.1923 (cfr. doc. n. 11 del fascicolo di parte ricorrente)– come da nota Regione Puglia n. 635/2013 (cfr. n. 35 del relativo Allegato contenente indicazione di tutte le IPAB regionali – Doc. n. 15).
Da ultimo, vi è in atti nota n. 32 del 18.02.2010 con la quale la Regione, visto il piano di risanamento elaborato dalla ricorrente, ha autorizzato quest’ultima a conservare la soggettività giuridica pubblica in atto, nelle more della sua trasformazione in Azienda pubblica di servizi alla persona (ASP), ai sensi del d.lgs. n. 207/2001.
Alla luce di tali elementi, è evidente la natura pubblicistica della ricorrente, e l’assenza del fine di lucro della stessa, sicché deve senz’altro ritenersi integrato il requisito soggettivo richiesto dalla cennata previsione di cui all’art. 1,7 co. 3, lett. c) TUE.
6. Per quel che attiene al requisito oggettivo, peraltro mai contestato dal Comune, rileva il Collegio che l’opera realizzata dalla ricorrente –realizzazione di una struttura socio-riabilitativa per portatori di disabilità– rientra per definizione all’interno delle “… opere pubbliche o di interesse generale”, di cui al cennato art. 17, co. 3, lett. c) TUE. Trattasi infatti di struttura volta alla cura di persone con gravi disabilità, e mirante ad assicurare loro assistenza continuativa, anche dopo la morte dei relativi familiari.
7. Per tali ragioni, reputa il Collegio la sussistenza di entrambi i requisiti normativamente previsti ai fini dell’esenzione del contributo in esame.
Ne consegue, in accoglimento del ricorso, la condanna del Comune di Castro alla restituzione, in favore della ricorrente, di tutte le somme versate da quest’ultima al Comune a titolo di oneri concessori relativi al p.d.c. 18.12.2012, n. 7274.
Trattandosi di indebito oggettivo, e in assenza di indici di mala fede da parte del Comune, il relativo importo andrà maggiorato di rivalutazione monetaria e interessi legali sulla somma via via rivalutata, dal 09.02.2016 –data di notifica del presente ricorso, e dies a quo di decorrenza della mora (art. 2033 c.c.)– al soddisfo (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 04.05.2017 n. 671 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAppalti, essenziale la sicurezza. Esclusa l'impresa che non indica i costi anti-infortuni. Il Tar Campania: non attivabile il soccorso istruttorio per un obbligo previsto dalla legge.
Il soccorso istruttorio non salva dall'esclusione dalla gara l'impresa che nell'offerta economica manca di indicare i costi di sicurezza interna. Con il nuovo codice dei contratti pubblici, infatti, l'obbligo scaturisce direttamente dalla legge, che indica come elemento economico essenziale gli oneri sostenuti dell'azienda per tutelare la salute dei lavoratori: l'estromissione della società inadempiente dalla gara scatta dunque al di là delle previsioni ad hoc contenute nello stesso bando emesso dall'ente.

È quanto emerge dalla
sentenza 03.05.2017 n. 2358, pubblicata dalla III Sez. del TAR Campania-Napoli.
Parla chiaro l'articolo 95, comma 10, del decreto legislativo 50/2016: «Nell'offerta economica l'operatore deve indicare i propri costi aziendali concernenti l'adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro». Resta fuori, quindi, dalla procedura a evidenza pubblica la società che puntava a gestire la raccolta dei rifiuti urbani in un comune del Napoletano.
È escluso che l'impresa candidata possa ottenere il termine di dieci giorni per mettersi in regola previsto dall'articolo 83, nono comma, del decreto legislativo 50/2016: il soccorso istruttorio, infatti, si può ottenere soltanto per sanare le carenze formali del documento di gara unico europeo, mentre la partecipante alla procedura pubblica che non espone i costi necessari agli adempimenti per la sicurezza sui luoghi di lavoro viene meno a un obbligo imposto dalla legge che integra di per sé gli atti di gara. Non conta allora se il bando, il disciplinare oppure lo stesso modello di offerta economica predisposto dalla stazione appaltante prevedano la dichiarazione separata degli oneri sostenuti per tutelare la salute dei dipendenti.
Già prima del decreto legislativo 50/2016 la giurisprudenza di legittimità è intervenuta sull'esclusione dalla gara l'impresa che in sede di offerta economica non ha indicato gli oneri necessari a evitare gli infortuni, anche se un incombente del genere non risulta richiesto dal bando. E ha chiarito che si tratta di un precetto imperativo per qualsiasi tipo di procedura pubblica, quale che sia la posta in palio: lavori, servizi o forniture.
Deve ritenersi che il principio secondo cui ogni impresa che partecipa a un appalto pubblico deve indicare gli oneri di sicurezza aziendali è un obbligo che integra «dall'esterno» la legge di gara. Se non si adegua, dunque, l'azienda resta fuori dalla procedura benché il bando non preveda l'estromissione ad hoc, il tutto in base al principio di «tassatività attenuata» delle cause di esclusione dalle gare, sancito dall'articolo 46 del codice dei contratti pubblici. Il Consiglio di stato con la sentenza 5873/2015, pubblicata dalla quinta sezione, dà continuità all'orientamento di giurisprudenza espresso dall'adunanza plenaria di Palazzo Spada.
Resta da motivare perché in caso di mancata indicazione degli oneri di sicurezza aziendali non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti al soccorso istruttorio: nella specie, anche si dovesse ritenere che il bando abbia escluso l'obbligo delle imprese di indicare i costi di sicurezza aziendale in sede di offerta, la legge di gara risulta comunque impugnata sul punto da un'impresa partecipante (articolo ItaliaOggi Sette del 29.05.2017).

APPALTI: Non si possono imporre iscritti a particolari ordini.
Annullata. Va posta nel nulla l'aggiudicazione dell'appalto se si scopre che la lettera d'invito impone alla società partecipante di avere un dipendente iscritto a uno specifico ordine professionale, titolato ai lavori messi a gara, mentre l'impresa vincitrice ha solo un consulente con quei requisiti, per quanto legato all'azienda da un contratto in esclusiva.
E ciò perché non si può disattendere il requisito indicato nella lettera d'invito agli operatori economici: l'amministrazione ha infatti interesse a che il professionista sia a diretta disposizione dell'aggiudicataria.
È quanto emerge dalla sentenza 28.04.2017 n. 150, pubblicata dalla I Sez. del TAR Molise.
Potere e intensità
Accolto il ricorso dello studio professionale associato, che fa bloccare la gara vinta dal competitor per il piano di assestamento forestale del comune: per realizzarlo, infatti, ci vuole un agronomo, mentre il titolare dell'aggiudicataria è un geologo e solo il consulente esterno ha il requisito indicato.
Ai fini dell'appalto il rapporto di lavoro subordinato non può essere equiparato alla prestazione d'opera per le evidenti differenze fra gli istituti ex articoli 2094 c.c. e 2222 c.c.: nel primo caso risulta evidente la maggiore intensità del potere che il creditore vanta nel pretendere l'esecuzione della prestazione dal professionista.
Senza dimenticare che un'eventuale equiparazione delle due figure è contraria alla par condicio fra i partecipanti alla procedura: penalizza chi sostiene i costi dell'assunzione e paga i contributi rispetto all'altro che con la consulenza risparmia (articolo ItaliaOggi del 31.05.2017).

APPALTIGiustificare i prezzi corregge l'anomalia. Valutazione congruità offerte in gara.
È illegittima l'esclusione per anomalia dell'offerta laddove l'offerente abbia documentato gli scostamenti tra prezzi indicati in offerta e prezzi indicati in sede di giustificazione.

Lo ha precisato il TAR Lombardia-Milano, I Sez., con la sentenza 27.04.2017 n. 963 analizzando la disciplina della verifica della congruità delle offerte.
In particolare, i giudici hanno affermato che nelle gare pubbliche la valutazione della congruità dell'offerta, pur essendo espressione di discrezionalità cosiddetta tecnica della stazione appaltante è tuttavia suscettibile di sindacato esterno da parte del giudice amministrativo nei profili dell'eccesso di potere per manifesta irragionevolezza, erronea valutazione dei presupposti, e contraddittorietà; diversamente, il provvedimento che valuta un'offerta non anomala non abbisogna di una motivazione analitica, essendo sufficiente anche un rinvio alle argomentazioni e giustificazioni della parte che l'ha formulata, quello che la ritiene anomala, deve essere invece puntualmente motivato.
Ciò premesso, era accaduto che gli importi dell'analisi dei prezzi delle lavorazioni più significative indicati dall'offerente in sede di giustificazione non coincidessero con i prezzi inseriti in sede di offerta; inoltre, non erano stati dimostrati i fattori e le circostanze che avevano prodotto tali scostamenti. Da qui l'esclusione per anomalia da parte della stazione appaltante che però i giudici ritengono illegittima in quanto l'impresa aveva documentato gli scostamenti tra i prezzi indicati in sede di offerta e i prezzi indicati in sede di giustificazione.
Nella fattispecie esaminata dal Tar, la ricorrente non aveva sostanzialmente modificato la ripartizione delle voci, riducendone alcune ed aumentandone altre, per riuscire a giustificare il prezzo complessivamente offerto né quello relativo a singole voci, essendosi invece limitata a dimostrare la loro congruità, sostenendo a tal fine che i valori indicati in sede di gara erano addirittura eccedenti rispetto ai costi che la stessa avrebbe sostenuto nell'esecuzione dell'appalto di che trattasi, potendo infatti anche essere ulteriormente ribassati, rimanendo tuttavia idonei a coprire le spese, e ad assicurare un utile di impresa (articolo ItaliaOggi del 05.05.2017).
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MASSIMA
I.1) In via preliminare, osserva il Collegio che,
nelle gare pubbliche, la valutazione della congruità dell'offerta, pur essendo espressione di discrezionalità c.d. tecnica della stazione appaltante, è tuttavia suscettibile di sindacato esterno da parte del giudice amministrativo nei profili dell'eccesso di potere per manifesta irragionevolezza, erronea valutazione dei presupposti, e contraddittorietà (C.S., Sez. V, 29.04.2016, n. 1652).
Inoltre, per giurisprudenza pacifica,
mentre il provvedimento che valuta un’offerta non anomala non abbisogna di una motivazione analitica, essendo sufficiente anche un rinvio alle argomentazioni e giustificazioni della parte che l’ha formulata, quello che la ritiene anomala, deve essere invece puntualmente motivato (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 10.10.2013, n. 4532).
In particolare,
il giudizio negativo sul piano dell'attendibilità deve riguardare voci che, per la loro incidenza complessiva, rendano l'intera operazione economica non plausibile, e per l'effetto, non suscettibile di accettazione da parte della stazione appaltante (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 16.12.2015 n. 14142), con irrilevanza di eventuali singole voci di scostamento, non avendo ad oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica (TAR Umbria, Sez. I, 14.03.2015 n. 114, C.S., Sez. IV, 26.02.2015, n. 963), quanto invece la dimostrazione della complessiva inaffidabilità dell’offerta, e dunque la sua inidoneità a garantire la serietà nell'esecuzione del contratto (TAR Lazio, Roma, Sez. I, 02.12.2016, n. 12066, TAR Puglia, Bari, Sez. I, 23.02.2017, n. 184, TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 06.10.2016, n. 4619, C.S. Sez. V, 13.09.2016, n. 3855).
...
II) In aggiunta a quanto precede, di per sé risolutivo ai fini dell’accoglimento del ricorso, ritiene il Collegio che le motivazioni addotte nel citato verbale n. 2/2016, oltreché insufficienti, siano altresì errate.
Come sopra evidenziato, secondo detto provvedimento, l’offerta della ricorrente andava esclusa, sostanzialmente, poiché le giustificazioni fornite, e riferite a 8 voci, “non coincidono per difetto con i prezzi inseriti nella lista delle lavorazioni e fornitura” (v. punto n. 1).
II.1) Osserva il Collegio che,
in linea generale, nella fase del controllo dell’anomalia, non è effettivamente possibile un’indiscriminata ed arbitraria modifica postuma della composizione dell’offerta economica, con il solo limite del rispetto del saldo complessivo, ponendosi ciò in contrasto con le esigenze conoscitive, da parte della stazione appaltante, della struttura dei costi, finendo altrimenti per snaturarsi completamente la funzione ed i caratteri del subprocedimento di anomalia (C.S., Sez. III, 15.04.2016 n. 1533, C.S., Sez. III, 10.03.2016 n. 962).
E’ tuttavia consentito al concorrente di dimostrare, in sede di verifica di anomalia, che determinate voci di prezzo erano eccessivamente basse, mentre altre, per converso, erano sopravvalutate, pervenendo così ad un rimaneggiamento, volto a documentare per alcune di esse un risparmio idoneo a compensare il maggior costo di altre, incidendo finanche anche sull'utile esposto (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 26.09.2016, n. 9927), al fine di giungere ad una compensazione tra sottostime e sovrastime, che lasci l’offerta affidabile e seria (C.S., Sez. V, 06.08.2015 n. 3859, TAR Veneto, Sez. I, 12.10.2015, n. 1033).
II.2) Con riferimento alla fattispecie per cui è causa, in via preliminare, osserva il Collegio che le compensazioni operate dalla ricorrente sono di modesto importo, limitandosi a circa Euro 9.000,00, e riferite a sole 8 voci su 23, dubitandosi pertanto che le stesse fossero idonee a stravolgere l’impianto complessivo dell’offerta.
Inoltre, il Collegio evidenzia che, malgrado la stessa ricorrente abbia affermato di aver effettuato, mediante le proprie giustificazioni, una “compensazione” tra le voci di costo oggetto di verifica, in realtà, più semplicemente, si è limitata a dare conto della composizione della propria offerta, cercando inoltre di dimostrare che la stessa era addirittura complessivamente eccedente rispetto ai costi da sostenersi nell’esecuzione dell’appalto. Infatti, poiché le giustificazioni sono risultate superiori ai prezzi offerti per un importo irrisorio (voci art. 9E e 11E, Euro 36,36), essendo invece inferiori di quasi 9000 Euro, deve concludersi che la ricorrente non ha sostanzialmente effettuato tanto una compensazione, in aumento ed in diminuzione, delle voci di costo indicate in sede di offerta, avendo al contrario cercato di dimostrare che le stesse erano in realtà sovrastimate rispetto ai costi effettivamente necessari.
Conseguentemente, malgrado la non coincidenza tra i valori delle voci di costo indicate nelle giustificazioni, e quelli offerti in gara, erroneamente assunta dal provvedimento impugnato quale causa di esclusione della ricorrente, ed a prescindere dalla loro entità quantitativa, la stazione appaltante avrebbe dovuto pronunciarsi sulla congruità dell’offerta, alla luce delle risultanze del procedimento di anomalia.
L’indirizzo giurisprudenziale, implicitamente posto a fondamento del provvedimento impugnato, e che il Collegio condivide, secondo cui
il concorrente sottoposto a verifica di anomalia non può fornire giustificazioni tali da integrare un’operazione di “finanza creativa”, modificando, in aumento o in diminuzione, le voci di costo (TAR Lazio, Roma, Sez. II 26.09.2016 n. 9927, TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 01.06.2015, n. 1287, C.S., Sez. VI, 07.02.2012 n. 636), non è infatti applicabile alla fattispecie, essendosi formato in una casistica in cui il rimaneggiamento delle voci è finalizzato a mantenere fermo l’importo finale, al solo scopo di “far quadrare i conti”, ossia di assicurare che il prezzo complessivo offerto resti immutato, per superare le contestazioni sollevate dalla stazione appaltante su alcune voci di costo.
Come detto, nella fattispecie per cui è causa, la ricorrente non ha invece sostanzialmente modificato la ripartizione delle voci, riducendone alcune ed aumentandone altre, per riuscire a giustificare il prezzo complessivamente offerto, né quello relativo a singole voci, essendosi invece limitata a dimostrare la loro congruità, sostenendo a tal fine che i valori indicati in sede di gara erano addirittura eccedenti rispetto ai costi che la stessa avrebbe sostenuto nell’esecuzione dell’appalto di che trattasi, potendo infatti anche essere ulteriormente ribassati, rimanendo tuttavia idonei a coprire le spese, ed ad assicurare un utile di impresa.
Paradossalmente, se la ricorrente si fosse limitata a formulare le proprie giustificazioni per un importo identico a quello offerto in gara, la stazione appaltante si sarebbe pronunciata sulla loro congruità. Poiché invece nel caso di specie, mediante dette giustificazioni, la ricorrente ha sostanzialmente inteso comprovare non solo che il prezzo offerto in gara era congruo, ma anche che il medesimo era addirittura eccedente ai costi effettivi, del tutto irragionevolmente, la Commissione ha invece ritenuto che l’offerta andasse esclusa, sic et simpliciter.

PATRIMONIODemanio senza automatismi. Addio al rinnovo delle concessioni senza selezione. APPALTI/ Una sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia.
Addio rinnovo automatico delle concessioni demaniali in essere anche dopo il decreto legge enti locali 113/2016, il tutto in ossequio alla sentenza C-458/14 della Corte Ue che ha dichiarato illegittimo l'affidamento a privati delle spiagge italiane, prorogato al 31.12.2020 senza «una imparziale e trasparente procedura di selezione dei potenziali candidati».
E ciò perché l'articolo 24, c. 3-septies, del dl 113/2016 introduce in pratica una moratoria sulle concessioni esistenti ma senza un termine finale certo.

Così la sentenza 27.04.2017 n. 959 del TAR Lombardia-Milano, Sez. I.
La controversia nasce dalla procedura a evidenza pubblica bandita dal comune per la gestione di uno stabilimento balneare. I giudici di Lussemburgo hanno già bocciato la norma di cui all'articolo 1, comma 18, del decreto legge 194/2009 che prorogava le autorizzazioni demaniali per gestire attività turistiche e ricreative in riva al mare e ai laghi. Ma dopo la sentenza Ue nel dl 113/2016 è stata introdotta una norma secondo cui i rapporti pendenti conservano validità fino a quanto la materia non sarà regolata dallo stato nazionale secondo i principi eurounitari di libera concorrenza.
E anche voler condividere l'interpretazione della società ricorrente secondo cui la proroga prevista all'articolo, comma 3-septies, del dl 113/2016 debba trovare applicazione con riferimento alle concessioni non solo di beni demaniali ma anche di beni appartenenti al patrimonio indisponibile, queste norme devono essere disapplicate per contrasto con il diritto Ue (articolo ItaliaOggi del 31.05.2017).
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MASSIMA
9.1 Prima di esaminare le censure, occorre delineare il quadro normativo la cui applicazione al caso di specie è oggetto della presente controversia.
9.2 L’art. 1, c. 18, d.l. n. 194/2009, come modificato dall'articolo 1, comma 1, della legge 26.02.2010, n. 25, in sede di conversione e, successivamente, dall'articolo 34-duodecies, comma 1, del D.L. 18.10.2012, n. 179, dall'articolo 1, comma 547, della Legge 24.12.2012, n. 228 e, da ultimo, dall'articolo 1, comma 291, della Legge 27.12.2013, n. 147, dispone che: “ferma restando la disciplina relativa all'attribuzione di beni a regioni ed enti locali in base alla legge 05.05.2009, n. 42, nonché alle rispettive norme di attuazione, nelle more del procedimento di revisione del quadro normativo in materia di rilascio delle concessioni di beni demaniali marittimi, lacuali e fluviali con finalità turistico-ricreative, ad uso pesca, acquacoltura ed attività produttive ad essa connesse, e sportive, nonché quelli destinati a porti turistici, approdi e punti di ormeggio dedicati alla nautica da diporto, da realizzarsi, quanto ai criteri e alle modalità di affidamento di tali concessioni, sulla base di intesa in sede di Conferenza Stato-regioni ai sensi dell'articolo 8, comma 6, della legge 05.06.2003, n. 131, che è conclusa nel rispetto dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento, di garanzia dell'esercizio, dello sviluppo, della valorizzazione delle attività imprenditoriali e di tutela degli investimenti, nonché in funzione del superamento del diritto di insistenza di cui all'articolo 37, secondo comma, secondo periodo, del codice della navigazione, [che è soppresso dalla data di entrata in vigore del presente decreto], il termine di durata delle concessioni in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto e in scadenza entro il 31.12.2015 è prorogato fino al 31.12.2020, fatte salve le disposizioni di cui all'articolo 03, comma 4-bis, del decreto-legge 05.10.1993, n. 400, convertito, con modificazioni, dalla legge 04.12.1993, n. 494. All'articolo 37, secondo comma, del codice della navigazione, il secondo periodo è soppresso”.
9.3 La conformità al diritto comunitario di questa norma è stata oggetto di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, disposto con sentenza di questo Tribunale n. 2401/2014 e con ordinanza del Tar Sardegna n. 224/2015.
La Corte, con sentenza del 14.07.2016, ha affermato che:
   1) l’articolo 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12.12.2006, relativa ai servizi nel mercato interno, deve essere interpretato nel senso che osta a una misura nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati.
   2) l’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che consente una proroga automatica delle concessioni demaniali pubbliche in essere per attività turistico ricreative, nei limiti in cui tali concessioni presentano un interesse transfrontaliero certo.

9.4 A seguito della decisione della Corte di Giustizia, il legislatore italiano, con legge n. 160 del 07.08.2016, ha introdotto, in sede di conversione al d.l. n. 113/2016, all’art. 24, il comma 3-septies, ai sensi del quale: “nelle more della revisione e del riordino della materia in conformità ai principi di derivazione europea, per garantire certezza alle situazioni giuridiche in atto e assicurare l'interesse pubblico all'ordinata gestione del demanio senza soluzione di continuità, conservano validità i rapporti già instaurati e pendenti in base all'articolo 1, comma 18, del decreto-legge 30.12.2009, n. 194, convertito, con modificazioni, dalla legge 26.02.2010, n. 25”.
10.1 Così delineato il quadro normativo, si può procedere con l’esame delle doglianze formulate dalla ricorrente.
10.2 Anche a volere condividere la linea interpretativa prospettata dalla ricorrente, secondo cui la proroga prevista all’art. 1, c. 18, d.l. n. 194/2009 ed all’art. 24, c. 3-septies, d.l. n. 113/2016 debba trovare applicazione con riferimento alle concessioni non solo di beni demaniali ma anche di beni appartenenti al patrimonio indisponibile, queste norme devono essere disapplicate per contrasto con il diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte di Giustizia UE con la sentenza sopra richiamata.
Per costante giurisprudenza, al pari di regolamenti e direttive, anche le pronunce della Corte di Giustizia della Comunità europea hanno, difatti, efficacia diretta nell'ordinamento interno degli stati membri, vincolando sia le amministrazioni che i giudici nazionali alla disapplicazione delle norme interne con esse configgenti (Cfr. C. Cost., 19.04.1985, n. 113 che ha affermato l’immediata applicabilità delle statuizioni risultanti dalle sentenze interpretative della Corte di Giustizia; Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 16.05.2016, n. 139).
10.3 La presente controversia ha ad oggetto il contratto in forza del quale il Comune di Como ha attribuito alla ricorrente il diritto utilizzare il compendio denominato “lido di Villa Olmo”, appartenente al patrimonio indisponibile, quale lido e stabilimento balneare, dietro versamento di un canone periodico e senza alcun corrispettivo a carico dell’amministrazione.
Tale contratto presenta i caratteri della concessione, ai sensi del diritto dell’Unione, essendo il rischio d’impresa a carico della società Villa Olmo s.n.c.
La concessione rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 12 della direttiva 2006/123 in quanto:
   - deve essere qualificata quale autorizzazione, ai sensi delle disposizioni della direttiva, in quanto atto formale che il prestatore deve ottenere dall’autorità nazionale al fine di potere esercitare l’attività economica;
   - il numero di autorizzazioni disponibili per l’attività in questione è indubbiamente limitato per via della scarsità delle risorse naturali, quali sono, in generale, le rive del lago di Como, suscettibili di sfruttamento economico solo in numero limitato, e quale è, in particolare, il compendio in questione, in considerazione delle sue peculiarità (in relazione alla sua ubicazione ed alla sua storia);
   - la concessione d’uso del bene in questione non rientra nella categoria delle concessioni di servizi, escluse dall’ambito di applicazione della direttiva 2006/123 e rientranti in quello della direttiva 2014/23, per le ragioni affermate dalla Corte di Giustizia con la sentenza del 14.07.2016 (punti 44-48) ed estensibili anche al caso di specie.
10.4 L’art. 12, c. 1, della direttiva 2006/123, dispone che, qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, il rilascio delle autorizzazioni deve essere soggetto ad una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un'adeguata pubblicità dell'avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento.
10.5 Come affermato dalla Corte di Giustizia ai punti 50 e ss. della sentenza sopra richiamata, “una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che prevede una proroga ex lege della data di scadenza delle autorizzazioni equivale a un loro rinnovo automatico, che è escluso dai termini stessi dell’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2006/123.
Inoltre, la proroga automatica di autorizzazioni relative allo sfruttamento economico del demanio marittimo e lacuale non consente di organizzare una procedura di selezione come descritta al punto 49 della presente sentenza
”.
La Corte ha poi affermato che,
pur se l’articolo 12, paragrafo 3, della direttiva 2006/123 prevede espressamente che gli Stati membri possano tener conto, nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni legate a motivi imperativi d’interesse generale, “è previsto che si tenga conto di tali considerazioni solo al momento di stabilire le regole della procedura di selezione dei candidati potenziali e fatto salvo, in particolare, l’articolo 12, paragrafo 1, di tale direttiva.
Pertanto l’articolo 12, paragrafo 3, della direttiva in questione non può essere interpretato nel senso che consente di giustificare una proroga automatica di autorizzazioni allorché, al momento della concessione iniziale delle autorizzazioni suddette, non è stata organizzata alcuna procedura di selezione ai sensi del paragrafo 1 di tale articolo
”.

Inoltre, “
una giustificazione fondata sul principio della tutela del legittimo affidamento richiede una valutazione caso per caso che consenta di dimostrare che il titolare dell’autorizzazione poteva legittimamente aspettarsi il rinnovo della propria autorizzazione e ha effettuato i relativi investimenti. Una siffatta giustificazione non può pertanto essere invocata validamente a sostegno di una proroga automatica istituita dal legislatore nazionale e applicata indiscriminatamente a tutte le autorizzazioni in questione”.
La previsione di cui all’art. all’art. 1, c. 18, d.l. n. 194/2009, come affermato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, contrasta quindi con l’articolo 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123.
10.6 Un identico contrasto deve ritenersi sussistente con riferimento alla previsione di cui all’art. 24, c. 3-septies, d.l. n. 113/2016.
Con tale norma, il legislatore -nel prevedere la conservazione della validità dei rapporti già instaurati e pendenti in base all'articolo 1, comma 18, del decreto-legge 30.12.2009, n. 194, convertito, con modificazioni, dalla legge 26.02.2010, n. 25 “nelle more della revisione e del riordino della materia in conformità ai principi di derivazione europea”– ha, difatti, sostanzialmente reintrodotto un rinnovo automatico delle autorizzazioni concesse, oltretutto senza la previsione di un termine finale certo, che impedisce lo svolgimento di procedure comparative, eludendo così, al pari dell’art. 1, c. 18, d.l. n. 194/2009, il dettato della direttiva 2006/123 e le indicazioni date dalla Corte di Giustizia.
10.7
Poiché le norme invocate dalla ricorrente si pongono in contrasto con il diritto comunitario, esse devono essere disapplicate. A ciò consegue la piena legittimità della decisione del Comune di Como di non considerare efficace la concessione in questione e di procedere alla pubblicazione del bando per l’assegnazione del compendio immobiliare.

APPALTILe stazioni appaltanti hanno il potere di fissare nella lex specialis parametri di capacità tecnica dei partecipanti e requisiti soggettivi specifici di partecipazione attraverso l'esercizio di un'ampia discrezionalità, fatti salvi i limiti imposti dai principi di ragionevolezza e proporzionalità, i quali consentono il sindacato giurisdizionale sull'idoneità ed adeguatezza delle clausole del bando rispetto alla tipologia e all'oggetto dello specifico appalto.
In definitiva, in sede di predisposizione della lex specialis di gara d'appalto, l'Amministrazione è legittimata ad introdurre disposizioni atte a limitare la platea dei concorrenti onde consentire la partecipazione alla gara stessa di soggetti particolarmente qualificati, specie per ciò che attiene al possesso di requisiti di capacità tecnica e finanziaria, tutte le volte in cui tale scelta non sia eccessivamente quanto irragionevolmente limitativa della concorrenza, in quanto correttamente esercitata attraverso la previsione di requisiti pertinenti e congrui rispetto allo scopo perseguito.

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14. La ricorrente ha, infine, dedotto, in via subordinata, l’illegittimità, per eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà, dell’art. 9 dell’avviso d’asta nella parte in cui prevede, a pena di esclusione, tra i requisiti di partecipazione, “un’esperienza professionale di almeno tre anni nell’ambito della conduzione di impianti sportivi o di pubblici esercizi”.
A suo avviso, avendo il Comune individuato l’uso per il quale il bene è dato in concessione nella “gestione di uno stabilimento balneare, quale attività principale, oltre ad attività di somministrazione di alimenti e bevande accessorie alle suddette attività” (art. 2 dell’avviso d’asta) e avendo richiesto ai concorrenti il possesso del requisito dell’iscrizione alla competente camera di commercio “per le specifiche attività oggetto della concessione”, sarebbe illegittimo richiedere, a dimostrazione della capacità tecnica, una generica esperienza professionale nell’ambito della conduzione di ogni tipo di impianto sportivo o di pubblico esercizio e non esigere, invece, una specifica esperienza nella conduzione degli stabilimenti balneari.
La conduzione di uno stabilimento balneare, con due piscine, necessiterebbe di specifiche competenze e capacità che spaziano dall’assistenza ai bagnanti, alla manutenzione degli impianti natatori, alla gestione degli attracchi per l’ormeggio delle imbarcazioni, alla balneabilità o meno dello specchio lacuale, alla tutela dell’ambiente lacustre.
15. La censura è infondata.
Per costante giurisprudenza "le stazioni appaltanti hanno il potere di fissare nella lex specialis parametri di capacità tecnica dei partecipanti e requisiti soggettivi specifici di partecipazione attraverso l'esercizio di un'ampia discrezionalità, fatti salvi i limiti imposti dai principi di ragionevolezza e proporzionalità, i quali consentono il sindacato giurisdizionale sull'idoneità ed adeguatezza delle clausole del bando rispetto alla tipologia e all'oggetto dello specifico appalto. In definitiva, in sede di predisposizione della lex specialis di gara d'appalto, l'Amministrazione è legittimata ad introdurre disposizioni atte a limitare la platea dei concorrenti onde consentire la partecipazione alla gara stessa di soggetti particolarmente qualificati, specie per ciò che attiene al possesso di requisiti di capacità tecnica e finanziaria, tutte le volte in cui tale scelta non sia eccessivamente quanto irragionevolmente limitativa della concorrenza, in quanto correttamente esercitata attraverso la previsione di requisiti pertinenti e congrui rispetto allo scopo perseguito" (TAR Campania, Napoli, sez. V, 03.05.2016 n. 2185; Cons. di St., sez. V, 23.09.2015, n. 4440; TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.09.2015, n. 11008).
Nel caso di specie, la decisione dell’amministrazione di consentire la partecipazione alla gara a soggetti iscritti alla camera di commercio per “le specifiche attività oggetto di concessione” ed aventi un’esperienza professionale nella conduzione, in generale, di impianti sportivi o anche di pubblici esercizi, anziché ai soli soggetti aventi una specifica esperienza nella conduzione di stabilimenti balneari non può ritenersi viziata per manifesta illogicità né per contraddittorietà.
La scelta dell’amministrazione è, invero, adeguata in considerazione dell’oggetto della concessione (gestione di uno stabilimento balneare ed esercizio dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande), della tipologia di beni di cui è composto il compendio immobiliare (biglietteria, due piscine scoperte e solarium, cabine, guardaroba, docce, servizi igienici, locali deposito e sale macchine e dehor-bar) e delle destinazioni funzionali ammesse (ludico/ricreativo e bar nell’ambito del lido).
Le attività che dovranno essere svolte dal concessionario sono dunque plurime e riguardano l’attività di ristorazione, la gestione di impianti sportivi (le due piscine) e la gestione dello stabilimento balneare, attività, quest’ultima, che consta di prestazioni già ricomprese nelle prime due (come l’attività di assistenza ai bagnanti, richiamata dalla stessa ricorrente): ciò giustifica che il requisito di esperienza non sia limitato esclusivamente a quest’ultima attività.
Inoltre, consentire la partecipazione alla gara ai soli soggetti che hanno maturato la propria esperienza nella conduzione di stabilimenti balneari, e non al più ampio numero di gestori di impianti sportivi in genere, avrebbe, invece, ristretto eccessivamente ed ingiustificatamente la platea dei partecipanti, in netto contrasto con i principi del favor partecipationis e dell’apertura al mercato di settori dai quali finora sono rimasti esclusi tutti quegli operatori non affidatari di provvedimenti concessori rilasciati senza gara (
TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 27.04.2017 n. 959).

TRIBUTINotifiche a mezzo posta, un pieno di insidie. Dalle notifiche a mezzo posta degli atti tributari un pieno di insidie per i contribuenti.
Secondo una recentissima sentenza della Corte di Cassazione alle notifiche fiscali si applica infatti la disposizione contenuta nell'articolo 1335 del codice civile secondo la quale «ogni dichiarazione diretta a una determinata persona si reputa conosciuta nel momento in cui giunge all'indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell'impossibilità di averne notizia».
Se questa tesi dei giudici di legittimità (Sez. V civile) contenuta nella sentenza 26.04.2017 n. 10245, dovesse affermarsi, ne deriverebbero gravi conseguenze per i contribuenti.
In quanto si verrebbe ad affermare che la notifica è giunta a buon fine anche quando l'atto venga consegnato ad un soggetto che si trovi in loco del tutto per caso, come un conoscente del figlio del destinatario oppure, al limite, a chi si è introdotto abusivamente nella proprietà altrui. Ponendo sul destinatario l'onere della prova -difficile e quasi diabolica- di essere stato senza colpa nell'impossibilità di avere notizia della circostanza.
In ambito tributario infatti a seguito della notifica scatta un breve termine entro il quale il debitore deve contestare nelle forme di legge la pretesa del Fisco (in genere ricorrendo alla giustizia tributaria); se egli resta inerte la pretesa fiscale si «consolida», cioè si ha per definitivamente accertata.
Di qui l'enorme rilievo che assumono del diritto tributario le norme sulla notifica degli atti impositivi.
Per quanto sopra illustrato molto spesso accade che il contribuente venga a conoscenza della pretesa fiscale solo quando inizia la procedura di riscossione coattiva. E in quel momento affermi di non aver avuto notizia dell'atto di accertamento. Ma questa sua asserita ignoranza è irrilevante se l'atto impositivo è stato notificato, secondo regole e prassi che tendono ad avvantaggiare il Fisco, ad esempio consentendogli di ricorre al servizio postale; né è necessaria la prova che il contribuente abbia ricevuto materialmente l'atto impositivo, ma è sufficiente che esso sia giunto in un'area, come la buca delle lettere, ove il contribuente avrebbe potuto prenderne visione; o a mani di una persona che si può presumere gli consegni la missiva.
Legge e regolamento postale individuano poi i soggetti cui l'atto inviato per posta può essere consegnato; si tratta di un elenco piuttosto ampio, ma ove la consegna avvenga a chi non ha alcun legame con il contribuente e con il luogo della notifica, sarebbe logico ritenere che la notifica non sia andata a buon fine.
Nei rapporti di diritto civile invece il creditore non è collocato in una posizione istituzionale di vantaggio rispetto al debitore, e perciò la notifica informa soltanto il debitore di quanto da lui si pretende; ed impedisce il venir meno del diritto (per prescrizione o decadenza). Ma il debitore non ha, di regola, alcun onere di replicare alla richiesta pervenutagli. E se il creditore vorrà realizzare il suo diritto dovrà rivolgersi al giudice, avanti al quale il debitore potrà difendersi.
Dunque nei rapporti privati la applicazione dell'art. 1335 del codice civile produce effetti limitati Mentre l'applicazione del medesimo principio alla notifica degli atti tributari produce effetti negativi dirompenti per il presunto debitore. E simile applicazione estensiva dell'art. 1335 pare tradisca la funzione della norma, che è, inserita nel libro quarto (delle obbligazioni) nel capo II (dei contratti in generale) del codice civile; e quindi non è stata concepita per regolare un rapporto pubblicistico come quello tributario, che è fondato non sul consenso contrattuale, bensì sul potere impositivo dello Stato (articolo ItaliaOggi Sette del 29.05.2017).

APPALTIIntegrazione documentale tramite la Pec.
Nelle gare d'appalto la richiesta di integrazione documentale ai fini del soccorso istruttorio deve essere comunicata alla ditta mediante posta elettronica certificata.

Lo ha stabilito il TAR Toscana, Sez. III, con la sentenza 26.04.2017 n. 609.
La vicenda nasce dall'esclusione di un raggruppamento temporaneo «reo» di non aver trasmesso una serie di atti richiesti dal committente pubblico. La p.a. inoltre non aveva voluto concedere la rimessione in termini, anche se era stato addotto che la domanda di ulteriore carteggio ex art. 83, comma 9, dlgs n. 50 del 2016 non era stata ricevuta e che comunque era partita da un semplice indirizzo di posta elettronica.
Il Collegio ha risolto la quaestio iuris interpretando in termini più ampi l'art. 76, comma 3, citato dlgs, il quale prescrive l'utilizzo della Pec in caso di «provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento».
L'organo giudicante vi ha fatto rientrare non solo i provvedimenti di esclusione in senso stretto, ma anche quegli atti che pongono a carico dei concorrenti degli incombenti il cui mancato rispetto comporta come sanzione l'esclusione dalla gara. In tale quadro rientra anche l'atto con il quale la stazione appaltante assegna al concorrente un termine non superiore a dieci giorni perché siano rese, integrate o completate le dichiarazioni necessarie alla partecipazione.
Infine il Tar ha ribadito che la posta elettronica ordinaria non garantisce certezza in ordine all'inoltro e al recepimento dell'atto, per cui in questo caso non poteva dirsi maturata la decadenza a carico del ricorrente (articolo ItaliaOggi Sette del 29.05.2017).
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MASSIMA
9 – Il Collegio ritiene fondata la prima censura di cui al ricorso introduttivo del giudizio, ove parte ricorrente censura la erronea applicazione della lex specialis e delle norme vigenti in materia di comunicazioni ai concorrenti ai sensi del d.lgs. n. 50 del 2016.
L’art. 8 del Disciplinare di gara -in disparte le “comunicazioni aventi carattere generale”, per le quali prevede la sola pubblicazione sul sito START nell’area riservata alla gara- contiene per le comunicazioni aventi specifica valenza per il singolo concorrente due distinte previsioni, che devono essere tra loro armonizzate; da un lato stabilisce che le comunicazioni di valenza individuale “sono eseguite ai sensi dell’art. 76 d.lgs. 50/2016”, dall’altro lato aggiunge che le comunicazioni “comunque avvengono e si danno per eseguite mediante spedizione di messaggi alla casella di posta elettronica o alla casella di posta elettronica certificata indicata dal concorrente ai fini della procedura telematica di acquisto nella domanda di partecipazione”, con l’aggiunta dell’inserimento delle comunicazioni stesse in area riservata del sistema START.
Le due richiamate previsioni disciplinari hanno diversa portata applicativa, dal momento che l’art. 76 d.lgs. n. 50 del 2016, espressamente richiamato dall’art. 8 del Disciplinare, prevede per alcune tipologie di comunicazioni l’uso esclusivo della pec, essendo questo uno degli elementi innovativi in materia del Codice del 2016, mentre la restante previsione dell’art. 8 del Disciplinare contempla l’alternativa tra pec o posta elettronica ordinaria.
Invero il coordinamento tra i due contenuti dell’art. 8 cit. è agevole, ancorché lo stesso avrebbe potuto essere formulato in termini maggiormente perspicui; cioè
il Disciplinare di gara, nel richiamare l’art. 76 d.lgs. n. 50 del 2016, vincola la stazione appaltante all’utilizzo della pec per le comunicazioni per le quali la norma del Codice preveda tale strumento in via esclusiva, con l’effetto che l’ulteriore previsione di alternatività tra pec e posta elettronica ordinaria vale solo per le comunicazioni diverse da quelle per le quali l’art. 76 d.lgs. n. 50 del 2016 impone l’uso della pec.
Tale lettura del sistema normativo comporta, quale ulteriore passaggio esegetico, la necessità di chiarire se la comunicazione di integrazione documentale in sede di soccorso istruttorio, di cui all’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016, rientri o meno tra quelle per le quali era necessario l’utilizzo in via esclusiva della pec, ovvero se tale richiesta di integrazione sia legittimamente comunicabile anche con mezzo diverso.
Ritiene il Collegio che
la risposta al quesito passi attraverso la corretta interpretazione dell’art. 76, comma 3, d.lgs. n. 50 del 2016, laddove l’utilizzo della pec è imposto con riferimento al “provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento”. L’Amministrazione resistente sembra leggere la suddetta previsione normativa come riferita ai provvedimenti di esclusione in senso stretto, avendo infatti comunicato l’esclusione della concorrente dalla gara a mezzo pec e non utilizzando la casella di posta elettronica ordinaria, pur indicata da parte ricorrente nella domanda di partecipazione alla selezione.
Ritiene tuttavia il Collegio che la suddetta previsione normativa debba essere letta in termini più ampi, sì da comprendere cioè non solo i provvedimenti di esclusione in senso stretto, ma anche quegli atti che pongono a carico dei concorrenti degli incombenti il cui mancato rispetto comporta come sanzione l’esclusione dalla gara, parlando infatti la norma di provvedimento “che determina” l’esclusione, cioè il cui esito finale può essere l’esclusione dalla gara.
In tal quadro rientra dunque anche l’atto di cui all’art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016, con il quale la stazione appaltante assegna al concorrente un termine non superiore a dieci giorni perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie alla partecipazione alla gara, con la precisazione che “in caso di inutile decorso del termine di regolarizzazione, il concorrente è escluso dalla gara”.
Si tratta anche in questo caso, dunque, di un atto “che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento”, cioè dotato di forte potenzialità lesiva per il concorrente, stante la perentorietà del termine che viene assegnato per la regolarizzazione, che cade nella disciplina del combinato disposto degli artt. 83, comma 9, e 76, comma 3, d.lgs. n. 50 del 2016, e di cui quindi deve essere dato avviso ai concorrenti a mezzo pec.
Nel caso di specie, invece, come già chiarito, l’atto di soccorso istruttorio è stato comunicato a mezzo posta elettronica ordinaria, che non garantisce certezza in ordine al suo inoltro e recepimento, per cui non può dirsi maturata a decadenza a carico del concorrente, risultando quindi illegittima la disposta esclusione dalla gara.

VARITumore da telefonino, è malattia professionale.
L'Inail dovrà risarcire un ex dipendente della Telecom ammalatosi di neurinoma dell'acustico, un tumore benigno ma invalidante, causato dall'utilizzo prolungato del telefono cellulare.

Lo ha deciso, in primo grado, il TRIBUNALE di Ivrea con la sentenza 21.04.2017 n. 96, che riconosce il legame tra tumore cranico e uso del cellulare.
Il lavoratore per 15 anni, dal 1995 al 2010, ha utilizzato il telefono cellulare messogli a disposizione dall'azienda, anche per 3-4 ore al giorno. Fino a quando inizia ad avvertire disturbi a un orecchio che dopo ripetuti controlli medici risultano causati da un neurinoma dell'acustico, carcinoma benigno ma che necessita di essere asportato. L'intervento avviene nel 2011: i medici rimuovono il neurinoma, ma anche il nervo acustico, con la conseguente perdita di udito dall'orecchio destro.
Un danno biologico permanente del 23%, come stabilito dal giudice del lavoro Luca Fadda, che si è basato su una consulenza tecnica d'ufficio e ha condannato l'Inail a versare al lavoratore un vitalizio da malattia professionale, quantificabile in circa 500 euro al mese. «Con il caso deciso dal tribunale di Ivrea», hanno spiegato i legali della vittima Renato Ambrosio e Stefano Bertone, «è la prima volta che, fin dall'inizio, la giustizia italiana riconosce la piena plausibilità dell'effetto oncogeno delle onde elettromagnetiche dei cellulari. Effetto già riconosciuto sin dal 2011 dalla Iarc (International agency for research on cancer) che includeva le onde dei cellulari e dei cordless fra i possibili cancerogeni».
«A oggi non c'è un rapporto causa-effetto accertato che indichi che l'uso del telefono cellulare aumenta il rischio di cancro», ha però commentato Carmine Pinto, presidente dell'Aiom, l'associazione italiana di oncologia medica». «In 20 anni la letteratura scientifica non ha prodotto evidenze certe sulla correlazione tra cellulari e cancro, ci sono diversi studi contraddittori, non esaustivi». Il punto, ricorda l'oncologo, è che i cellulari emettono campi elettromagnetici a bassa frequenza, e «su questi campi non ci sono studi completi. Non ci sono prove che anche basse frequenze riescano a influire sui neuroni tanto da provocare un cancro cerebrale».
«Anche perché», conclude, «dal momento che l'irradiamento di questo tipo di campi è molto tenue, ci vogliono 30 anni per poter valutare in maniera attendibile i possibili effetti sul cervello» (articolo ItaliaOggi del 21.04.2017).

URBANISTICAL'arte sposta l'ambulante.
È legittimo il piano del commercio su area pubblica di un comune che, per riqualificare l'area vicino a un importante basilica, d'accordo con la soprintendenza per i beni architettonici, ha disposto il parziale spostamento di alcuni posteggi in altre aree del territorio comunale.

Questo è il principio espresso dal Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 19.04.2017 n. 1816 in materia di spostamento di un piano di commercio ambulante su area pubblica per la tutela dei centri storici delle città d'arte.
I giudici del consiglio di stato sostengono che la difesa di un centro storico non si può limitare alla conservazione della consistenza materiale, ma deve riguardare anche la qualità dell'ambiente (articolo ItaliaOggi del 21.04.2017).
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MASSIMA
4.3. Osserva inoltre il Collegio che l’illegittimità degli atti impugnati in primo grado neppure può essere affermata in base all’invocata inclusione del mercato di San Lorenzo fra i ‘mercati storici’ e fra le ‘espressioni di identità culturale e collettiva’ di cui alle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del c.d. patrimonio culturale immateriale e la promozione delle diversità culturali adottate a Parigi il 03.11.2003 e il 20.10.2005: per meglio dire «espressioni di identità culturale collettiva», le quali, a norma dell’art. 7-bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio, «sono assoggettabili alle disposizioni» di tutela e valorizzazione di quel Codice soltanto «qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell'articolo 10», cioè per la dichiarazione di bene culturale: il che qui non ricorre (è semmai il contesto monumentale ad avere tale qualifica, a muovere dalla basilica).
Il Comune appellato bene ha obiettato che la ratio della l. 20.02.2006, n. 77 è la protezione dei siti di interesse culturale, paesaggistico e ambientale, inseriti nella «lista del patrimonio mondiale» dell'UNESCO, al fine di preservarne l’unicità in quanto elementi di rilievo mondiale del patrimonio italiano e della sua rappresentazione a livello internazionale.
Ma la sufficiente ragione giuridica dei richiamati interventi non necessita di una siffatta, aggiuntiva, qualificazione internazionale e –come indica l’art. 52 del Codice– si riferisce alla coerenza attuale del commercio con un contesto, qui particolarmente significativo, del patrimonio culturale italiano.
La ratio dell’art. 52 non è quella di una mera conservazione della situazione esistente, ma quella di una valutazione in ragione delle trasformazioni che il commercio stesso, per sua natura, può presentare. Sicché non può ritenersi che l’operatività della norma debba limitarsi nella pura e semplice cristallizzazione (in modo –per così dire– ‘statico’) delle caratteristiche dei luoghi, specie quando per le dinamiche commerciali vengano a presentarsi evidenti e gravi profili di conseguito degrado, contrari alla conservazione dei valori da tutelare.
Al contrario, la salvaguardia dei siti in questione comporta interventi orientati al decoro urbano, cioè a preservare attivamente le caratteristiche essenziali dei luoghi.
Come già la giurisprudenza di questa Sezione ha precisato in un rilevante caso di postazioni di commercio ambulante nel centro storico di Roma, “
il decoro urbano non è una materia o un’attività ma una finalità immateriale dell’azione amministrativa, che corrisponde al valore insito in un apprezzabile livello di qualità complessiva della tenuta degli spazi pubblici, armonico e coerente con il contesto storico, perseguita mediante la selezione delle apposizioni materiali (es. dehor) e delle utilizzazioni, specie commerciali (art. 52 del Codice) ma non solo. A seconda del profilo e dello strumento, può essere frutto vuoi di tutela (e valorizzazione) del patrimonio culturale, vuoi di disciplina urbanistica o del commercio, vuoi della politiche comunali di concessioni di suolo pubblico: comunque in ragione delle competenze di legge” (Cons. Stato, V, 23.08.2016, n. 3861).
Un siffatto obiettivo può dalle amministrazioni competenti essere perseguito anche con riguardo alle trasformazioni negative che nel tempo subisce la dinamica, pur solo merceologica, del commercio ambulante, ove –ferme naturalmente le trasformazioni tecniche compatibili- giunga al punto da divenire incongrua con le concrete caratteristiche storico-artistiche e con la dignità culturale dei luoghi.
La previsione risponde a una finalità essenziale per la salvaguardia dei centri storici e delle città d’arte: la quale, per non restare claudicante perché incentrata sulla preservazione del solo elemento materiale, deve riguardare anche la dimensione immateriale e qualitativa. In questa si iscrivono appunto, per decoro urbano, la corrispondenza tra il contesto storico-artistico e la connotazione che nei fatti assume l’attività commerciale, su cui il provvedere, analiticamente o per congrue categorie, compete al Comune ex art. 52 cit. (mentre altre misure, di stretta tutela di beni culturali, competono senz’altro al solo Ministero: cfr. artt. 20, 12, 13 e 45 del Codice).
Alla luce di tali parametri, l’operato del Comune di Firenze (e con esso degli impugnati atti della Soprintendenza) risulta congruo, coerente e non viziato dai lamentati profili di abnormità ed irragionevolezza.
Il Comune ha rilevato che il Piano di gestione adottato ai sensi della l. n. 77 del 2006 ha previsto espresse misure di tutela per le tradizionali botteghe artigiane fiorentine, nonché per i negozi storici (cioè gli esercizi commerciali “che vantano una lunga tradizione di genere merceologico venduto nello stesso negozio o dell’attività ivi esercitata, ma anche la tipicità della produzione”).
Queste altre sono misure comunali volte a coniugare la salvaguardia di luoghi storici con la preservazione di attività economiche integrate da tempo immemorabile e che mantengono la corrispondente connotazione storica. Sicché la loro preservazione, lungi dal costituire un detrimento come nei casi cennati, continua ad esprimere un elemento delle caratteristiche tradizionali dell’apprezzabilità dei luoghi e del decoro urbano da attivamente perseguire.
In coerenza con l’art. 52 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, l’amministrazione comunale ha il compito non, riduttivamente, di attestarsi a una mera rilevazione economica; ma di vagliare l’attualità di un rapporto tra la realtà effettiva delle attività commerciali e il contesto di particolare pregio. Il fatto della presenza di attività commerciali risalenti non comporta la loro automatica congruenza con quel carattere dei luoghi: al contrario, occorre considerare la compatibilità –seppur con attenzione alla normale evoluzione tecnica– delle loro mutate caratteristiche rispetto a quello stesso ambiente.
Essendo questo il proporzionato e contestuale modo in cui inquadrare da parte del Comune la preservazione di attività economiche in àmbiti di carattere storico o monumentale, è evidente che tale salvaguardia non può favorire indistintamente qualunque attività economica, cioè anche quella che (ad es., per cessioni o per recente costituzione) si trovi ad operare in un sito storico offrendo ora in vendita merci che non hanno qualitativamente a vedere con la connotazione e il pregio storico del contesto.
Pertanto
è congruo e giustificato l’operato selettivo del Comune appellato il quale, per salvaguardare le caratteristiche di pregio dei siti UNESCO e in attuazione del Piano di gestione del giugno 2006, ha disposto l’istituzione di un albo degli esercizi commerciali, artigianali e alberghieri e dei pubblici esercizi, anche per commercio su area pubblica, che svolgono attività di rilevante valore artistico, storico, ambientale e documentario.
Risulta in atti che nessuna delle attività gestite dagli appellanti sia iscritta nel richiamato Albo (e, in particolare, che non vi risulti iscritto l’esercente nei cui confronti è stata resa la sentenza di questo Consiglio di Stato, V, 23.02.2015, n. 847, richiamata dagli appellanti con memoria 05.01.2017).

APPALTIBandi di gara e formulazione delle offerte. Clausole escludenti da impugnare subito.
Le clausole di un bando di gara escludenti la partecipazione devono essere immediatamente impugnate; le altre potenzialmente lesive devono essere impugnate al momento dell'aggiudicazione definitiva.

È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 18.04.2017 n. 1809 relativamente all'onere di tempestiva impugnazione delle clausole di atti di gare per l'affidamento di contratti pubblici.
La sentenza si pronuncia in merito all'impugnativa della clausola del bando di gara nella quale veniva precisato il criterio di calcolo delle offerte teso a premiare l'impresa concorrente che avrebbe offerto un ribasso maggiore sulla parte di fornitura che rappresentava il più alto impegno economico per l'amministrazione. I giudici ricostruiscono in termini generali le regole sull'impugnazione precisando che l'onere di impugnare immediatamente le previsioni della legge di gara non concerne solo quelle in senso classico «escludenti», che prevedono requisiti soggetti di partecipazione, ma anche le clausole afferenti alla formulazione dell'offerta, sia sul piano tecnico che economico, laddove esse rendano impossibile la presentazione di una offerta.
La sentenza ricorda quali siano le fattispecie che devono essere immediatamente oggetto di impugnativa, fra cui: le regole impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale; le previsioni che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura impossibile; le disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell'offerta; le condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente.
Pertanto, dicono i giudici, le rimanenti tipologie di clausole «asseritamente ritenute lesive devono essere impugnate insieme con l'atto di approvazione della graduatoria definitiva». È quello il momento in cui viene definita la procedura concorsuale e identificato in concreto il soggetto leso dal provvedimento, così rendendo attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva e postulano la preventiva partecipazione alla gara (articolo ItaliaOggi del 28.04.2017).
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MASSIMA
6.11. La previsione del disciplinare di gara infatti, proprio per il tenore della censura e indipendentemente dall’esito della gara, appariva immediatamente lesiva per la ricorrente, che proprio in base alla sua stessa prospettazione sarebbe stata costretta dalla legge di gara a formulare una offerta asseritamente illogica sul piano della convenienza economica oltre che, come deduce l’appellante (p. 20 del ricorso), asseritamente irragionevole e illogica, per la stessa stazione appaltante, anche rispetto al dichiarato intento di configurare a lotto unico indivisibile.
6.12. Occorre al riguardo rammentare, infatti, che
l’onere di impugnare immediatamente le previsioni della legge di gara non concerne solo quelle in senso classico “escludenti”, che prevedono requisiti soggetti di partecipazione (Ad. plen., 29.01.2003, n. 1), ma anche le clausole afferenti alla formulazione dell’offerta, sia sul piano tecnico che economico, laddove esse rendano (realmente) impossibile la presentazione di una offerta (v., ex plurimis, Cons. St., sez. IV, 11.10.2016, n. 4180).
6.13.
La più recente giurisprudenza segue ormai fermamente tale linea interpretativa (Cons. St., sez. III, 02.02.2015, n. 491) e, nel tentativo di enucleare le ipotesi in cui tale evenienza può verificarsi, ha a più riprese puntualizzato che, tra le altre, tali sono:
   a)
le regole impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale (v., in particolare, Cons. St., sez. IV, 07.11.2012, n. 5671);
   b)
le previsioni che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura impossibile (così, del resto, la già citata pronuncia n. 1 del 29.01.2003 dell’Adunanza plenaria);
   c)
le disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell’offerta (cfr. Cons. St., sez. V, 24.02.2003, n. 980);
   d)
le condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente (cfr. Cons. St., sez. V, 21.11.2011 n. 6135);
   e)
l’imposizione di obblighi contra ius (come, ad esempio, la cauzione definitiva pari all’intero importo dell’appalto: Cons. St., sez. II, 19.02.2003, n. 2222);
   f)
le gravi carenze nell’indicazione di dati essenziali per la formulazione dell’offerta (quelli relativi, exempli gratia, al numero, alle qualifiche, alle mansioni, ai livelli retributivi e all’anzianità del personale destinato ad essere assorbiti dall’aggiudicatario) ovvero la presenza di formule matematiche del tutto errate (come quelle per cui tutte le offerte conseguono comunque il punteggio di “0” punti);
   g)
gli atti di gara del tutto mancanti della prescritta indicazione nel bando di gara dei costi della sicurezza “non soggetti a ribasso (cfr. Cons. St., sez. III, 03.10.2011 n. 5421).
6.14.
Le rimanenti tipologie di clausole asseritamente ritenute lesive devono essere impugnate insieme con l’atto di approvazione della graduatoria definitiva, che definisce la procedura concorsuale ed identifica in concreto il soggetto leso dal provvedimento, rendendo attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva (Cons. Stato, sez. V, 27.10.2014, n. 5282) e postulano la preventiva partecipazione alla gara.
6.15. Non occorre aggiungere altro per comprendere che l’odierna appellante avrebbe dovuto impugnare immediatamente, come il primo giudice ha rilevato in limine litis, la previsione qui contestata che rendeva, a suo dire, ragionevolmente impossibile la formulazione di un’offerta economica seria, ponderata, logica e coerente con il principio del prezzo complessivamente più basso.
6.16. Il non avere l’appellante stessa contestato specificamente il pur sintetico rilievo del TAR rende il motivo qui disaminato inammissibile per difetto di interesse, restando precluso al Collegio l’esame di esso nel merito.
7. In conclusione, per i motivi esposti, l’appello deve in parte dichiarato inammissibile e in parte deve essere respinto, secondo le ragioni sopra esposte, con piena conferma della sentenza impugnata.

APPALTIAggiudicazione provvisoria. Si può censurare solo se è illogica.
Il ritiro di una aggiudicazione provvisoria è censurabile davanti al giudice amministrativo soltanto in caso di manifesta illogicità o irrazionalità della scelta compiuta dalla stazione appaltante.

È quanto ha precisato il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, con la sentenza 18.04.2017 n. 900 che tratta degli effetti del ritiro, da parte di una stazione appaltante, una aggiudicazione provvisoria.
I giudici hanno ricostruito il quadro normativo vigente con riguardo all'articolo 33 del decreto 50/2016 che ha sostituito l'aggiudicazione provvisoria con la proposta di aggiudicazione, facendo seguito agli orientamenti giurisprudenziali formatisi sull'atto di aggiudicazione provvisoria che avevano circoscritto gli effetti di questa prima fase del procedimento di aggiudicazione del contratto.
I giudici hanno ricordato come anche in passato, prima del decreto 50, le sentenze avevano chiarito che l'aggiudicazione provvisoria, facendo nascere in capo all'interessato solo una mera aspettativa alla definizione positiva del procedimento stesso, non assume le caratteristiche di un provvedimento conclusivo della procedura di evidenza pubblica, avendo, per sua natura, un'efficacia destinata ad essere superata.
Da questo il Tar fa discendere che, ai fini del ritiro dell'aggiudicazione provvisoria, non vi è obbligo di avviso di avvio del procedimento né un particolare onere motivazionale. Infatti, la possibilità che all'aggiudicazione provvisoria della gara d'appalto non segua quella definitiva è un evento del tutto fisiologico, inidoneo di per sé a ingenerare qualunque affidamento tutelabile con conseguente obbligo risarcitorio. Diversamente, dopo l'aggiudicazione definitiva e prima della stipula del contratto, la revoca è pur sempre possibile, salvo un particolare e più aggravato onere motivazionale.
Pertanto il ritiro dell'aggiudicazione provvisoria può essere censurato, oltre che per violazione della norma di legge eventualmente invocata dalla stazione appaltante a fondamento della sua decisione, solo in caso di manifesta illogicità o irrazionalità della scelta amministrativa compiuta (articolo ItaliaOggi del 21.04.2017).
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MASSIMA
3.1. Ebbene, il Collegio deve anzitutto rammentare che, con l’entrata in vigore del nuovo codice, l’aggiudicazione provvisoria è stata sostituita dalla “proposta di aggiudicazione”, di cui all’art. 33 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50: non di meno, in prima approssimazione, si possono richiamare gli orientamenti giurisprudenziali formatisi sull’atto di aggiudicazione provvisoria, cui si riferiva il previgente codice degli appalti.
3.2. Ciò vale anzitutto per la tesi, del tutto condivisibile, per cui
l’aggiudicazione provvisoria, facendo nascere in capo all'interessato solo una mera aspettativa alla definizione positiva del procedimento stesso, non è individuabile come provvedimento conclusivo della procedura di evidenza pubblica, avendo, per sua natura, un’efficacia destinata ad essere superata: per cui, ai fini della suo ritiro non vi è obbligo di avviso di avvio del procedimento (così, da ultimo C.d.S., III, 05.10.2016, n. 4107).
Così, nelle gare pubbliche, “
la possibilità che all'aggiudicazione provvisoria della gara d'appalto non segua quella definitiva è un evento del tutto fisiologico, disciplinato dagli artt. 11, comma 11, 12 e 48, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, inidoneo di per sé a ingenerare qualunque affidamento tutelabile con conseguente obbligo risarcitorio” (C.d.S., V, 21.04.2016, n. 1600); per lo stesso motivo, “non è richiesto un particolare onere motivazionale a sostegno della revoca del procedimento, mentre dopo l'aggiudicazione definitiva e prima della stipula del contratto, la revoca è pur sempre possibile, salvo un particolare e più aggravato onere motivazionale” (TAR Lazio, II, 05.09.2016, n. 9543).
3.3.
Ne segue che il ritiro dell’aggiudicazione provvisoria può essere censurato, oltre che per violazione della norma di legge eventualmente invocata dalla Stazione appaltante a fondamento della sua decisione, soltanto in caso di manifesta illogicità o irrazionalità della scelta amministrativa compiuta: e ciò vale anche per il caso che tale decisione trovi il proprio fondamento, come nel caso, nel bando di gara, giacché è pur sempre la stessa aspettativa transitoria a chiedere tutela.
3.4.1. Ebbene, in specie, non è in questione che l’originaria lex specialis mancasse di quel secondo allegato 3, il quale è stato poi incluso nel nuovo disciplinare tecnico.
3.4.2. È poi condivisibile che una parte di tali elementi fosse desumibili dalle restanti disposizioni contenute negli allegati originari, per cui la loro migliore esposizione nel nuovo allegato 3 da sola non avrebbe ragionevolmente giustificato la rinnovazione della procedura; ma ciò non si può affermare per le quantità di reagenti da utilizzare nel servizio.
3.5. Non bisogna dimenticare che la gara de qua era al massimo ribasso, e ciò comporta che la prestazione richiesta debba essere esattamente delineata nel suo contenuto, non potendo la Stazione appaltante svolgere, durante la selezione, un giudizio qualitativo sulle offerte presentate.
3.6. Così, prestabilendo –secondo una scelta tecnica ampiamente discrezionale e di norma incesurabile- un quantitativo di reagente da impiegare nel servizio, si impone ragionevolmente un’adeguata soglia qualitativa del servizio stesso, rilevante sia nel momento della valutazione d’anomalia (ed è infatti in quel momento che, in specie, la Stazione appaltante si è resa conto dell’incompletezza dell’offerta) sia poi, durante l’esecuzione del contratto, per verificare, in corso d’opera, il reale utilizzo dei reagenti e, così, la qualità complessiva del servizio.
3.7. È dunque legittimo che l’Amministrazione, quando abbia originariamente omesso tale elemento, possa poi includervelo, previo ritiro e reiterazione della procedura, almeno finché manchi un’aggiudicazione definitiva: l’affermazione per cui lo scopo sarebbe stato quello di ampliare il numero dei partecipanti resta una mera insinuazione.
3.8. Accertata come legittima la decisione di ritiro, ad analoga conclusione si deve pervenire per la nuova procedura di gara, di cui resta irrilevante l’esito.

AMBIENTE-ECOLOGIA - TRIBUTIMinambiente in fuorigioco sui rifiuti. Tar Lazio.
È illegittimo il silenzio inadempimento ventennale del Ministero dell'ambiente in materia di assimilazione dei rifiuti speciali ai rifiuti urbani.

Il TAR Lazio-Roma - Sez. II-bis, con sentenza 13.04.2017 n. 4611, ha obbligato il ministero dell'ambiente ad adottare, entro un termine massimo di 120 giorni (dall'emissione sentenza), il decreto ministeriale atteso ormai dal lontano 1997 (ovvero dall'anno dell'entrata in vigore del cosiddetto «decreto Ronchi»).
Il fatto in concreto. Il dicastero del Ministero dell'ambiente, il Ministero dello sviluppo economico e il Comune di Reggio Emilia venivano chiamati in causa da un'azienda bolognese (operante nel settore rifiuti, attiva soprattutto sul fronte della raccolta e avvio a riciclo della carta da macero) che lamentava di essere gravemente danneggiata, in termini di ingiusta sottrazione di risorse e beni al mercato privato e di elevato versamento Tari, dalla eccessiva assimilazione dei rifiuti speciali ai rifiuti urbani effettuata dalle amministrazioni comunali, a causa della mancanza di una regolamentazione ministeriale (prevista dall'articolo 195 del dlgs 152/2006, e prima ancora dall'articolo 18, 2° comma, lettera d, dlgs 5/1997 c.d. decreto Ronchi).
Il Tar Lazio ha accolto il ricorso sostenendo che «il Ministero dell'ambiente, pur tenuto ad adottare la regolamentazione suddetta, risulta non aver ancora completato l'iter relativo, avendo soltanto avviato le attività propedeutiche all'adozione del decreto in questione».
Cosa che «rende illegittima l'inerzia tenuta dallo stesso» e, per questo motivo, dovrà adottare «di concerto con il ministro dello Sviluppo economico il decreto che fissi i criteri per l'assimilabilità dei rifiuti speciali ai rifiuti urbani, nel termine di giorni 120» dalla data della sentenza.
Per la metà di agosto prossimo e dopo vent'anni di attesa, il regolamento potrebbe finalmente essere emanato (articolo ItaliaOggi del 28.04.2017).

EDILIZIA PRIVATA - VARINuovo ufficio. Il garage perde la sosta vietata.
Chi trasforma il garage in attività commerciale non può mantenere il cartello di divieto di sosta regolarmente autorizzato dal comune per consentire l'accesso e lo stazionamento dei veicoli all'interno del locale. Neppure se occasionalmente nello stesso manufatto vengono ricoverati dei motorini o delle biciclette.

Lo dice il TAR Toscana, Sez. III, con la sentenza 12.04.2017 n. 560.
Un cittadino ha trasformato una autorimessa in ufficio mantenendo attiva la vecchia concessione comunale per l'esercizio di un passo carraio. Contro la conseguente revoca della licenza attivata a seguito di un controllo della polizia municipale l'interessato ha proposto senza successo ricorso al Tribunale amministrativo locale.
Ai sensi del codice stradale il passo carrabile deve consentire l'accesso a un'area laterale idonea allo stazionamento e alla sosta dei veicoli. Quindi se un locale è utilizzato per fini commerciali diversi non risulta possibile attivare o mantenere un passo carrabile. Neppure se nelle ore serali gli stessi locali ad uso ufficio sono utilizzati per il rimessaggio occasionale di motorini o di velocipedi da parte degli operatori (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.05.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla pergotenda.
La struttura costituita da due pali poggiati sul pavimento di un terrazzo a livello e da quattro traverse con binario di scorrimento a telo in pvc, ancorata al sovrastante balcone e munita di copertura rigida a riparo del telo retraibile (c.d. pergotenda) non configura né un aumento del volume e della superficie coperta, né la creazione o la modificazione di un organismo edilizio, né l'alterazione del prospetto o della sagoma dell'edificio cui è connessa, in ragione della sua inidoneità a modificare la destinazione d'uso degli spazi interni interessati, della sua facile e completa rimovibilità, dell'assenza di tamponature verticali e della facile rimovibilità della copertura orizzontale: la stessa va pertanto qualificata come arredo esterno, di riparo e protezione, funzionale alla migliore fruizione temporanea dello spazio esterno all'appartamento cui accede ed è riconducibile agli interventi manutentivi liberi, ossia non subordinati ad alcun titolo abilitativo ai sensi dell'art. 6, comma 1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380.

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Il primo gruppo di censure è infondato.
È noto e condivisibile il consolidato orientamento della giurisprudenza sulle cosiddette pergotende (cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 11.04.2014, n. 1777).
Per la giurisprudenza richiamata, la struttura costituita da due pali poggiati sul pavimento di un terrazzo a livello e da quattro traverse con binario di scorrimento a telo in pvc, ancorata al sovrastante balcone e munita di copertura rigida a riparo del telo retraibile (c.d. pergotenda) non configura né un aumento del volume e della superficie coperta, né la creazione o la modificazione di un organismo edilizio, né l'alterazione del prospetto o della sagoma dell'edificio cui è connessa, in ragione della sua inidoneità a modificare la destinazione d'uso degli spazi interni interessati, della sua facile e completa rimovibilità, dell'assenza di tamponature verticali e della facile rimovibilità della copertura orizzontale: la stessa va pertanto qualificata come arredo esterno, di riparo e protezione, funzionale alla migliore fruizione temporanea dello spazio esterno all'appartamento cui accede ed è riconducibile agli interventi manutentivi liberi, ossia non subordinati ad alcun titolo abilitativo ai sensi dell'art. 6, comma 1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
Diversamente, peraltro, deve essere valutato l’intervento realizzato dalla ricorrente, essendo stato accertato che, oltre alla pergotenda, identificabile nella struttura di sostegno della copertura ritraibile e nella copertura stessa, si è verificata la tamponatura dei tre lati originariamente aperti con policarbonato trasparente, oltre alla realizzazione di porte di accesso laterali.

Dall’esame complessivo dell’opera risulta insussistente il presupposto ravvisato dalla giurisprudenza amministrativa, oltre che dalla richiamata circolare di Roma Capitale, per la qualificazione della stessa come edilizia libera, perché le chiusure verticali e la presenza di porte di accesso, seppure in materiale leggero e facilmente amovibile, impediscono di considerare la stessa come un arredo esterno, funzionale alla fruizione temporanea del terrazzo, essendo, al contrario, riconoscibile una vera e propria opera di ristrutturazione edilizia, in quanto rivolta a modificare l’appartamento mediante la trasformazione del terrazzo in un ambiente tendenzialmente chiuso.
Ne derivano l’infondatezza delle censure e, nei limiti del dedotto, la legittimità dell’ordine di ripristino (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 11.04.2017 n. 4448 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'istanza di accertamento di conformità (c.d. sanatoria) non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego.
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1.– La questione posta all’esame della Sezione attiene alla legittimità dell’ordinanza del Comune resistente che ha ordinato la demolizione delle opere descritte nella parte in fatto.
2.– L’appello non è fondato.
3.– Con un primo motivo si afferma l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha avrebbe dichiarato l’inefficacia dell’ordine di demolizione a seguito della presentazione, da parte degli appellanti, in data 25.02.2003, di una domanda di accertamento di conformità.
Il motivo non è fondato.
L’art. 31 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) prevede che, in presenza di interventi, quali quelli di nuova costruzione, eseguita in assenza di un permesso di costruire, l’amministrazione deve ordinare la demolizione.
L’art. 36 dello stesso decreto che in presenza, tra l’altro, di tali abusi è possibile «ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda».
Il due procedimenti sono diversi e separati. La giurisprudenza di questo Consiglio, con orientamento che si condivide, ha affermato, infatti, che «l'istanza di accertamento di conformità (c.d. sanatoria) non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego» (Cons. Stato, sez. VI, 02.02.2015, n. 466) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.04.2017 n. 1667 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della p.a., con la conseguenza che ai fini dell'adozione delle ordinanze di demolizione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
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1.– La questione posta all’esame della Sezione attiene alla legittimità dell’ordinanza del Comune resistente che ha ordinato la demolizione delle opere descritte nella parte in fatto.
2.– L’appello non è fondato.
...
4.– Con un secondo motivo si afferma l’erroneità della sentenza nella parte in cui non avrebbe ritenuto illegittimi gli atti impugnati per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento e per la mancata indicazione del responsabile del procedimento.
Il motivo non è fondato.
L’art. 7 della legge n. 241 del 1990 prevede che l’avvio del procedimento è comunicato, tra gli altri, ai soggetti «nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti». L’art. 8 dispone che con tale comunicazione deve essere indicato anche il nome del responsabile del procedimento.
L’art. 21-octies, secondo comma, secondo inciso, della stessa legge prevede che: «Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato».
Parte della giurisprudenza amministrativa, con orientamento che la Sezione condivide, assume che venendo in rilievo elementi conoscitivi nella disponibilità del privato, spetta a quest’ultimo indicare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo che la parte ha adempiuto a questo onere l’amministrazione «sarà gravata dal ben più consistente onere di dimostrare che, anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato». La tesi opposta porrebbe a carico della p.a. una probatio diabolica «quale sarebbe quella consistente nel dimostrare che ogni eventuale contributo partecipativo del privato non avrebbe mutato l’esito del procedimento» (Cons. Stato, sez. VI, 04.04.2015, n. 1060; Id., VI, 29.07.2008, n. 3786; id., V, 18.04.2012, n. 2257).
Nel settore dell’edilizia la giurisprudenza di questo Consiglio ha già avuto modo di affermare che: «l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della p.a., con la conseguenza che ai fini dell'adozione delle ordinanze di demolizione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto» (Cons. Stato, sez. VI, 05.01.2015, n. 13).
La parte non ha inoltre indicato alcun elemento probatorio rilevante atto a dimostrare, ai sensi dell’art. 21-ocites della legge n. 241 del 1990, che se avesse partecipazione al procedimento avrebbe inciso sul contenuto della determinazione finale (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.04.2017 n. 1667 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI presupposti per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio con effetti ex tunc sono l’illegittimità originaria del provvedimento, l’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino della legalità, l’assenza di posizioni consolidate in capo ai destinatari e non ultima una più puntuale e convincente motivazione allorché la caducazione intervenga ad una notevole distanza di tempo.
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L’infedele prospettazione dello stato dei luoghi incide certamente sull’onere motivazionale dell’Amministrazione relativo alla comparazione tra interesse pubblico e privato e all’affidamento riposto dal richiedente sul mantenimento del manufatto, non potendo l’interessato medesimo vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza di un beneficio ottenuto attraverso l’induzione in errore dell’Amministrazione procedente, (errore) determinato dallo stesso soggetto richiedente, ma pur sempre a condizione che l’Amministrazione descriva puntualmente l’infedele rappresentazione dei luoghi e motivi adeguatamente in ordine all’incidenza sostanziale della difformità tra quanto dichiarato e quanto esistente in ordine alla legittimità del titolo edilizio.
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7.2 - Il ricorso si palesa, invece, fondato in relazione al contestuale annullamento del pdc in variante.
Ed invero, secondo i principi giurisprudenziali enucleati dal Consiglio di Stato, poi sostanzialmente confluiti nell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 (nel testo ratione temporis applicabile ovvero quello antecedente alle novelle del 2014 e 2015), “i presupposti per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio con effetti ex tunc sono l’illegittimità originaria del provvedimento, l’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino della legalità, l’assenza di posizioni consolidate in capo ai destinatari e non ultima una più puntuale e convincente motivazione allorché la caducazione intervenga ad una notevole distanza di tempo (cfr. fra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 27/11/2010 n. 8291; Sez. IV, n. 2885 del 2016; Sez. IV, n. 2908 del 2016)” - così, da ultimo, Consiglio di stato, sez. IV, sent. 25/01/2017 n. 293.
Dunque, l’illegittimità originaria del provvedimento (che, in disparte il caso di vizi meramente procedurali, in materia urbanistica si traduce nel contrasto del titolo con gli strumenti urbanistici e la normativa edilizia vigenti) è pur sempre un indefettibile presupposto per l’annullamento in autotutela, che –nel caso di specie– difetta o del quale, comunque, il Comune ha omesso di dare conto nell’atto gravato.
L’infedele prospettazione dello stato dei luoghi, in altri termini, incide certamente sull’onere motivazionale dell’Amministrazione relativo alla comparazione tra interesse pubblico e privato e all’affidamento riposto dal richiedente sul mantenimento del manufatto, non potendo l’interessato medesimo vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza di un beneficio ottenuto attraverso l’induzione in errore dell’Amministrazione procedente (ex multis, Consiglio di Stato, IV, 24.12.2008, n. 6554; Consiglio di Stato, V, 08.11.2012, n. 5691; TAR Puglia, Lecce, III, 21.02.2005, n. 686, TAR Campania, Napoli, VIII, 19.05.2015, n. 2791), (errore) determinato dallo stesso soggetto richiedente, ma pur sempre a condizione che l’Amministrazione descriva puntualmente l’infedele rappresentazione dei luoghi e motivi adeguatamente in ordine all’incidenza sostanziale della difformità tra quanto dichiarato e quanto esistente in ordine alla legittimità del titolo edilizio.
Per quanto innanzi detto, l’atto gravato –limitatamente al disposto annullamento del pdc in variante n. 167/2008- va annullato, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 10.04.2017 n. 380 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Paletti al rito superveloce. Tar Puglia.
Il Comune non può pretendere l'applicazione del rito superaccelerato al ricorso di chi impugna l'aggiudicazione dell'appalto se non ha pubblicato l'elenco delle aziende ammesse alla procedura nella sezione ad hoc «amministrazione trasparente» prevista dal decreto legislativo 33/2013. È dunque tempestivo l'atto introduttivo del giudizio depositato dall'impresa esclusa entro 30 giorni dalla Pec con cui la stazione appaltante rende noto l'affidamento dei lavori insieme con l'elenco delle aziende che hanno partecipato all'iter.

È quanto emerge dalla
sentenza 05.04.2017 n. 340, pubblicata dalla III Sez. del TAR Puglia-Bari.
Principio di effettività
Infondata l'eccezione di irricevibilità per tardività sollevata dal Comune benché la graduatoria della gara sia stata pubblicata il 9 agosto scorso mentre risulta notificato soltanto il 16 novembre il ricorso proposto contro la mancata esclusione dell'Ati aggiudicataria. Il punto è che la graduatoria compare nell'albo pretorio della provincia, in quanto profilo committente della stazione appaltante, ma non nella sezione amministrazione trasparente come richiede l'articolo 29 del nuovo codice degli appalti pubblici, che richiama il decreto trasparenza sull'attività delle pubbliche amministrazioni: è la stessa difesa dell'ente locale ad ammetterlo durante la discussione.
E d'altronde neanche il bando di gara risulta più chiaro: si limita a rinviare al sito Internet della stazione unica appaltante che nella sezione «bandi e gare» contiene solo regolamenti e moduli. Il tutto mentre la giurisprudenza delle Corte Ue condanna per violazione del principio di effettività le leggi nazionali che richiedono ricorsi sprint senza che la parte privata abbia una completa conoscenza degli atti. Il ricorso dell'azienda è rigettato nel merito ma le spese di giudizio sono comunque compensate per la novità della questione (articolo ItaliaOggi del 12.05.2017).

PUBBLICO IMPIEGOPot Entrate, il Tar è incompetente.
Sulla legittimità delle posizioni organizzative temporali (Pot) dell'Agenzia delle entrate è competente il giudice del lavoro.

Con queste motivazioni il TAR Lazio-Roma ha respinto il ricorso presentato da Dirpubblica invitando l'associazione a riassumere la causa davanti alla giurisdizione competente entro tre mesi dalla data della sentenza 30.03.207 n. 4049.
Per il Tar Lazio con gli atti impugnati da Dirpubblica, l'Agenzia delle entrate ha attribuito mere responsabilità gestionali. Per queste ragioni il collegio ritiene, conformandosi a giurisprudenza consolidata, che la questione di selezione interna per titoli tra pubblici dipendente avviata per attribuzione temporanea di mansioni superiori, appartenga alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto non incide sulla posizione di ruolo dei concorrenti, che rimane immutata.
Non c'è insomma per il giudice amministrativo un mutamento di profilo professionale ma solo di una implementazione di compiti per cui il giudice adito dovrà essere quello del lavoro (articolo ItaliaOggi dell'01.04.2017).
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MASSIMA
Il complesso gravame tende a revocare in dubbio la legittimità, amministrativa e costituzionale, delle disposizioni con le quali le Agenzie fiscali hanno provveduto ad assegnare -in via temporanea, da ultimo fino al 30.09.2017, e comunque nelle more dell’espletamento del concorso pubblico per la copertura dei posti dirigenziali vacanti (concorso non ancora indetto)- incarichi ai propri funzionari privi di livello dirigenziale consistenti nella delega alla firma di atti tributari e relative funzioni che non siano quelle riservate esclusivamente per legge ai dirigenti, con attribuzione ai medesimi di posizioni organizzative speciali e senza previa indizione del concorso pubblico.
In questi termini perimetrata la causa petendi, il ricorso deve ritenersi inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
Ed invero, il ricorso in esame in quanto volto a contestare l’attribuzione delle posizioni organizzative speciali strumentali al conferimento delle deleghe di firma di atti tributari con relative funzioni presupposte integra una vicenda che rientra nella giurisdizione del Giudice Ordinario.
Come già ha avuto modo di rilevare questo Tribunale con riguardo ad una vicenda parzialmente simile decisa inter partes con sentenza n. 11005/2016, nel caso di specie vengono in considerazione atti ricompresi tra le determinazioni assunte con la capacità e i poteri del datore di lavoro privato ai sensi dell’art. 5, comma 2, d.lgs. n.165 del 2001 di fronte ai quali sussistono posizioni di diritti soggettivi.
Tanto si evince dalla circostanza che con gli atti impugnati l’Agenzia delle Entrate ha attribuito mere “responsabilità gestionali connesse all’esercizio delle deleghe” con attribuzione di “posizioni organizzative temporanee” e relativo trattamento economico, da conferirsi ad interim previa procedura selettiva interna, con valutazione comparata dei curricula degli interessati e colloquio di approfondimento, che non implica una “progressione verticale” rientrante nella materia dei concorsi pubblici.
Più in particolare, vengono all’esame nell’odierna controversia atti con i quali si intende conferire una posizione organizzativa sulla base di deleghe all’esercizio di funzioni gestionali; il concetto di procedura concorsuale —riservata, ai sensi dell'art. 63, comma 4, d.lgS. n. 165 del 2001, alla giurisdizione del Giudice Amministrativo— evoca una procedura caratterizzata dalla valutazione dei candidati e dalla compilazione finale di una graduatoria: ne sono escluse, pertanto, non solo le assunzioni che non sono basate su di una logica selettiva, ma soprattutto le procedure che si sostanziano (come nella fattispecie) in una mera verifica di idoneità di determinati soggetti, già inseriti nell'ambito dell'Amministrazione di riferimento.
Il Collegio ritiene, sulla scorta di una consolidata giurisprudenza (v. Tar Campobasso, sez. I, 16/07/2013, n. 487; in termini: TAR Puglia–Lecce n. 290 del 16.02.2016; Tar Lazio, sez. III, n. 11005/2016; ordinanza Tar Lazio, sez. II, n. 3702/2016 del 07.07.2016) che
appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto la selezione interna per titoli fra pubblici dipendenti avviata non per la nomina a un posto o per la progressione verticale o per la promozione in un'area organizzativa diversa, bensì per l'attribuzione temporanea di superiori mansioni (quale appare profilarsi nella fattispecie), sicché essa non consiste in un concorso pubblico propriamente inteso né in un concorso interno per la progressione verticale, non incidendo sulla posizione di ruolo dei concorrenti, che rimane immutata.
Va soggiunto, che al vaglio di questo TAR non sono stati sottoposti atti c.d. di macro-organizzazione, ossia volti a ridefinire le linee fondamentali di organizzazione degli uffici, trattandosi piuttosto di atti volti a sopperire a temporanee esigenze funzionali degli uffici mediante Linee guida preordinate alla individuazione dei funzionari interni alla struttura cui attribuire, in via provvisoria e per assicurare la continuità dell’azione amministrativa, talune responsabilità gestionali da conferire secondo criteri organizzativi propri del datore di lavoro privato.
I provvedimenti oggetto di gravame, pertanto, non sono idonei a derogare alla regola che vuole la giurisdizione ordinaria estesa ad ogni aspetto del rapporto di lavoro contrattualizzato.
A conferma di tanto, occorre soggiungere che la ricorrente, sia nell’atto introduttivo che nei motivi aggiunti, ha più volte precisato a motivo dell’asserita illegittimità degli atti impugnati l’assenza della procedura concorsuale che l’intimata Amministrazione avrebbe dovuto indire; unica materia che, ai sensi dell’art. 63, comma 4°, del decreto legislativo n. 165 del 2001, sarebbe residuata alla giurisdizione di questo TAR.
L’inapplicabilità di tale ultima disposizione è confermata dal fatto che il conferimento delle deleghe alla firma di atti tributari e delle pedisseque posizioni organizzative speciali ad interim di cui qui si tratta, non comporta un mutamento di profilo professionale, che rimane invariato, né determina un mutamento di area, ma comporta soltanto un’implementazione di compiti connessi all’esercizio di deleghe di funzioni riferite a uffici aventi natura dirigenziale alla quale si correla una indennità di posizione e di risultato e non anche una variazione del trattamento economico in godimento.
Dalle considerazioni che precedono ne consegue che la controversia oggi in decisione rientra nell’alveo della giurisdizione del Giudice Ordinario, in funzione di Giudice del lavoro.
Va, pertanto, declinata la giurisdizione del Giudice Amministrativo in favore di quella del Giudice Ordinario, davanti al quale il giudizio andrà riassunto, ai sensi dell’art. 11, comma II c.p.a., entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della presente sentenza, salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda, e ferme restando le preclusioni e le decadenze eventualmente intervenute.

APPALTI SERVIZI: Un freno all'avvalimento nella scelta del socio. Non si può applicare l'avvalimento nelle gare indette per la selezione del socio privato della società mista a cui è affidato il servizio pubblico.
Lo dice il TAR Abruzzo-L'Aquila con la sentenza 30.03.2017 n. 152.
Il principio ha come sfondo la tematica dell'utilizzo da parte del Comune del modello gestionale operativo della società mista.
Alla base di questo partenariato pubblico-privato vi è l'esigenza di creare un'organizzazione comune con un soggetto privato appositamente selezionato, al fine di dotarsi del patrimonio di esperienza, composto di conoscenze tecniche e scientifiche, maturate dal privato, il quale deve contribuire all'arricchimento del «know how» pubblico e ad alleggerire gli oneri gestionali del Comune.
Quindi, se il privato, al fine di aggiudicarsi un contratto pubblico, ha bisogno di avvalersi dell'esperienza e dei requisiti tecnico-organizzativi di un altro soggetto (c.d. ausiliario), perché non li possiede, ciò vuol dire che non sarà in condizione di fornire alcun «know how» alla pubblica amministrazione.
Né tale «know how» potrà essere apportato dall'impresa ausiliaria, la quale non è una concorrente né diventa parte del contratto di società stipulato con l'ente locale. Il collegio ha concluso dichiarando che bene ha fatto l'ente territoriale a richiedere nel bando il possesso dei requisiti di capacità, tecnica e organizzativa in capo all'aspirante socio in proprio e di non consentire la partecipazione a soggetti non singolarmente in possesso di detti requisiti (articolo ItaliaOggi Sette del 18.04.2017).
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MASSIMA
7.- Con l’ultimo motivo di ricorso è dedotta l’illegittimità del bando di gara, nella parte in cui (punto 9.3) vieta l’istituto dell’avvalimento, in violazione dei principi comunitari in tema di favor partecipationis, nonché per violazione e falsa applicazione degli articoli 30 e 89 del d.lgs. 50/2016 e degli articoli 1 e 17 del d.lgs. n. 175/2016.
Il motivo è infondato.
7.1.- Alla luce di un’interpretazione coordinata delle disposizioni del nuovo codice dei contratti pubblici,
deve ritenersi esclusa la possibilità di applicare l’istituto dell’avvalimento alle gare, come quella in esame, indette ai sensi dell’art. 179 del d.lgs. 50/2016 nell’ambito del partenariato pubblico privato, quale quella indetta per la selezione del socio operativo della società mista affidataria del servizio pubblico.
Dal combinato disposto dell’art. 179, commi 1 e 2, del d.lgs. 80/2016 e art. 164, comma 2, del d.lgs. 50/2016, al quale rinvia l’art. 179, comma 2 citato, si desume che prevede che alle procedure di affidamento disposte nell’ambito del partenariato pubblico privato si applicano:
- “in quanto compatibili”, le disposizioni di cui alla parte I, III, V e VI e della parte II, limitatamente al titolo I;
- le disposizioni contenute nella parte I e nella parte II, del presente codice limitatamente ai “principi generali, alle esclusioni, alle modalità e alle procedure di affidamento, alle modalità di pubblicazione e redazione dei bandi e degli avvisi, ai requisiti generali e speciali e ai motivi di esclusione, ai criteri di aggiudicazione, alle modalità di comunicazione ai candidati e agli offerenti, ai requisiti di qualificazione degli operatori economici, ai termini di ricezione delle domande di partecipazione alla concessione e delle offerte, alle modalità di esecuzione” (art. 164, comma 2, del d.lgs. 50/2016, richiamato dall’art. 179, comma 2, dello stesso decreto legislativo).
Dalla lettura della norma emerge che, mentre il richiamo della parte I, III, V e VI e alla parte II, titolo I, costituisce un rinvio interno “aperto” ovvero a tutte le disposizioni in tali parti e titoli contenute, fatta salva la compatibilità delle stesse con la disciplina del partenariato pubblico privato, invece, il richiamo alla parte I e alla parte II costituisce un rinvio interno “chiuso” ovvero circoscritto ad un elenco tassativo di ipotesi.
Orbene,
l’art. 89 del d.lgs. n. 50/2016, che disciplina l’avvalimento, è collocato nella parte II, titolo III, e, ancorché tale titolo sia denominato “Procedura di affidamento”, l’istituto in questione non è annoverabile in alcuno degli ambiti disciplinari nominativamente elencati, non potendo farsi rientrare né tra le “modalità” di affidamento né tra le “procedure di affidamentostrictu sensu intese, né tra i “requisiti generali e speciali”, trattandosi di un istituto che soccorre alla carenza dei requisiti tecnici, organizzativi e finanziari da parte di un concorrente.
L’esclusione dell’avvalimento nelle gare indette per la selezione del socio privato della società mista trova conferma anche dall’esame della specifica disciplina delle società miste, contenuta nell’art. 17, comma 2, del d.lgs. 175/2016, ai sensi del quale è il socio privato che “deve possedere i requisiti di qualificazione” in relazione alle prestazioni per cui la società è stata costituita.

8.3.- D’altra parte, la decisione del Comune di Teramo di vietare l’avvalimento, è compatibile con il modello organizzativo, prescelto a monte, per la gestione del servizio pubblico di igiene ambientale e degli altri servizi e lavori accessori.
Invero,
il partenariato pubblico-privato costituisce una modalità organizzativa di tipo istituzionalizzato (termine utilizzato dalla Commissione europea nel “Libro verde” presentata il 30.04.2004), alternativa alla gestione in economia e alla completa esternalizzazione della gestione delle funzioni e dei servizi pubblici, che trova espressione nel principio di libera organizzazione, sancito dall’art. 2 della direttiva n. 2014/23/UE. Secondo tale principio “le autorità nazionali, regionali e locali possono liberamente organizzare l'esecuzione dei propri lavori o la prestazione dei propri servizi in conformità del diritto nazionale e dell'Unione” e “sono libere di decidere il modo migliore per gestire l'esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi per garantire in particolare un elevato livello di qualità, sicurezza e accessibilità, la parità di trattamento e la promozione dell'accesso universale e dei diritti dell'utenza nei servizi pubblici”.
Dunque,
la scelta dell’ente locale di adottare il modello organizzativo del partenariato pubblico-privato per la gestione di determinati servizi pubblici si realizza con la costituzione di una società, partecipata congiuntamente dal partner pubblico e dal partner privato.
La società mista, a differenza della esternalizzazione del servizio ad operatori economici estranei alla pubblica amministrazione, realizza una collaborazione stabile e di lunga durata tra la pubblica amministrazione ed il privato, attraverso l’istituzione di un’organizzazione comune con la “missione” di assicurare determinati servizi (e/o funzioni e/o opere) in favore della comunità locale.

Alla base della decisione della pubblica amministrazione di optare per il modello gestionale della società mista (oggi disciplinato dal d.lgs. 19.08.2016, n. 175, che ha consolidato una serie di norme contenute in frammentarie disposizioni legislative e ha codificato i principi elaborati dalla giurisprudenza) vi è, infatti, l’esigenza di creare un’organizzazione comune con un soggetto privato appositamente selezionato, al fine di dotarsi del patrimonio di esperienza, composto di conoscenze tecniche e scientifiche, maturate dal privato, il quale, con il proprio apporto organizzativo e gestionale, dovrà contribuire all’arricchimento del “Know how” pubblico, e, con il proprio apporto finanziario, ad alleggerire gli oneri economico finanziari che l’ente territoriale deve sopportare la gestione dei servizi pubblici.
Tale esigenza, nella specie, è manifestata dal Comune di Teramo all’art. 4.3 del bando, che richiede ai concorrenti di “presentare una proposta di piano industriale per la TE. Am. S.p.a., apportando il proprio Know how tecnico, gestionale, organizzativo nel settore del servizio di igiene ambientale, nonché la propria capacità tecnica manageriale per il migliore conseguimento degli obiettivi di crescita e sviluppo della società”. In particolare, il bando richiede che la proposta di piano industriale “dovrà essere indirizzata al concreto miglioramento dell’efficienza e dell’economicità aziendale, anche attraverso interventi di integrazione organizzativa/gestionale, inerenti le attività specifiche di trattamento finalizzato al recupero e/o alla valorizzazione dei rifiuti ivi compreso lo smaltimento degli stessi”.
Orbene,
se il privato, al fine di aggiudicarsi un contratto pubblico, ha la necessità di avvalersi dell’esperienza e dei requisiti tecnico-organizzativi di un altro soggetto (c.d. ausiliario nel contratto di avvalimento), perché non li possiede, non potrà evidentemente apportare alcun “Know how” alla pubblica amministrazione. Né tale “Know how” potrà essere apportato dall’impresa ausiliaria, la quale non è una concorrente né diventa parte del contratto di società stipulato con l’ente locale.
Ne deriva, alla luce delle considerazioni svolte, la legittimità, della volontà negoziale dell’ente locale, espressa nel bando di gara, di richiedere il possesso dei requisiti di capacità, tecnica e organizzativa in capo all’aspirante socio in proprio e di non consentire la partecipazione a soggetti non singolarmente in possesso di detti requisiti.

LAVORI PUBBLICIPartenariato, Cds chiede formazione doc nella p.a..
Via libera alle linee guida Anac sul partenariato pubblico privato (Ppp), ma con adeguata formazione nelle p.a..

È il contenuto principale del parere 29.03.2017 n. 775 favorevole con osservazioni (Parere sullo schema di linee guida recanti “Monitoraggio delle amministrazioni aggiudicatrici sull’attività dell’operatore economico nei contratti di partenariato pubblico privato”) reso ieri dal Consiglio di Stato. I giudici premettono che si tratta di linee guida che, dal punto di vista giuridico, hanno in realtà una duplice natura.
Sono non vincolanti quanto al contenuto della parte prima (analisi e allocazione dei rischi) e invece vincolanti quanto alla parte seconda (monitoraggio dell'attività dell'operatore economico). Si sottolinea come sia opportuno che le linee guida forniscano alle amministrazioni aggiudicatrici le opportune indicazioni per assicurare una adeguata selezione e formazione dei funzionari pubblici che dovranno concretamente implementare le linee guida.
Si evidenzia poi che la necessità di produrre nell'offerta un piano economico-finanziario asseverato è previsto dall'art. 183 (finanza di progetto), ma non dall'articolo 181 (Ppp) invitando l'Anac a rivedere la richiesta di asseverazione (articolo ItaliaOggi del 30.03.2017).

ENTI LOCALI - VARISono legittime benedizioni in aula.
Impartire benedizioni religiose in classe (purché al di fuori delle lezioni e «facoltative») è legittimo.

Il Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.03.2017 n. 1388, ha accolto il ricorso del ministero dell'Istruzione e ribaltato la decisione del Tar Emilia Romagna, che aveva annullato la delibera con cui un consiglio di istituto di Bologna aveva consentito lo svolgimento del rito nelle aule nel 2015.
Secondo la VI sezione di palazzo Spada le benedizioni non incidono sulla vita scolastica, «non diversamente dalle diverse attività parascolastiche che» possono essere «programmate, o autorizzate dagli organi di autonomia delle singole scuole, anche senza una formale delibera»; inoltre, «per un elementare principio di non discriminazione, non può attribuirsi alla natura religiosa di un'attività una valenza negativa tale da renderla vietata, o intollerabile», soltanto perché «espressione di una fede religiosa, mentre, se non avesse tale carattere, sarebbe ritenuta ammissibile e legittima».
Del resto, la Costituzione, all'articolo 20, pone, hanno puntualizzato i magistrati amministrativi, «un divieto di trattamento deteriore, sotto ogni aspetto, delle manifestazioni religiose in quanto tali». All'origine della vicenda il ricorso depositato da alcuni insegnanti e genitori di un istituto bolognese e dal comitato «Scuola e costituzione», ai quali, in primo grado, il Tar aveva dato ragione, nel 2016, motivando la scelta con il fatto che la scuola non potesse essere coinvolta in un rito attinente unicamente alla sfera individuale di ciascuno.
Il Consiglio di stato, però, ha adesso capovolto il giudizio, affermando che le benedizioni non condizionano «in alcun modo lo svolgimento della didattica». Una delle docenti ricorrenti ha già annunciato che ora ci si appellerà alla Corte di giustizia europea (articolo ItaliaOggi del 28.03.2017).

APPALTI SERVIZISettori speciali, revisione prezzi alla giustizia Ue. Verificare se è legittimo non applicarla.
Verificare se sia legittima l'inapplicabilità della revisione prezzi negli appalti dei settori speciali.

È quanto ha chiesto alla Corte di giustizia europea il Consiglio di Stato, Sez. IV, con l'ordinanza 22.03.2017 n. 1297 in merito all'esclusione dell'istituto della revisione prezzi nell'ambito dei contratti aggiudicati nei cosiddetti settori speciali (energia, acqua e trasporti).
La fattispecie oggetto di esame del collegio giudicante riguardava un contratto di servizi affidato da parte della Rfi, Rete ferroviaria italiana spa, per il quale era stata avanzata una richiesta di adeguamento revisionale del corrispettivo d'appalto, respinta dalla stazione appaltante; in primo grado era stata confermata la legittimità dell'operato di Rfi mentre il Consiglio di stato ha scelto la strada del rinvio della questione alla Corte europea per valutare la conformità dell'interpretazione del giudice di prime cure.
La questione viene posta in relazione ai principi del Trattato, all'articolo 16 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e alla direttiva n. 17/2004 per sapere se l'interpretazione del diritto interno che escluda la revisione dei prezzi nei contratti afferenti ai cosiddetti settori speciali, con particolare riguardo a quelli con oggetto diverso da quelli cui si riferisce la stessa direttiva, ma legati a questi ultimi da un nesso di strumentalità sia legittimo.
Inoltre, i giudici hanno chiesto se la direttiva n. 17/2004 (ove si ritenga che l'esclusione della revisione dei prezzi in tutti i contratti stipulati e applicati nell'ambito dei cosiddetti settori speciali discenda direttamente da essa), sia conforme ai principi dell'Unione europea (in particolare, agli articoli 3, co. 1 Tue, 26, 56/58 e 101 TfUe, art. 16 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea), «per l'ingiustizia, la sproporzionatezza, l'alterazione dell'equilibrio contrattuale e, pertanto, delle regole di un mercato efficiente».
Una questione di particolare rilievo che potrebbe avere ripercussioni sull'intero sistema semplificato che caratterizza il regime in cui operano i settori speciali (articolo ItaliaOggi del 31.03.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Casa galleggiante sul Tevere, serve il permesso di costruire. Chi vuole realizzare il sogno di avere una casa sul fiume deve ottenere il permesso di costruire perché non basta la sola concessione.
Per la Corte di Cassazione (Sez. III penale, sentenza 15.03.2017 n. 12387) i cosiddetti fiumaroli che seguono la moda della casa galleggiante, senza essersi prima messi in regola con il testo unico sull'edilizia (Dpr 380/2001) commettono il reato di abuso edilizio.
La vicenda
Partendo da questa premessa respinge il ricorso dell'imputato, un architetto-imprenditore, che aveva realizzato sul Tevere, e dunque in una zona sottoposta a vincolo paesaggistico, un edificio galleggiante di due piani, composto da otto appartamenti e vari terrazzi in forza di una concessione e di un parere tecnico della Ausl ma senza il permesso di costruire.
Secondo il proprietario della houseboat infatti, i galleggianti che stazionano sul biondo fiume della città eterna sarebbero sottratti alla disciplina urbanistica, anche quando come nel suo caso, c'era stato un cambio di destinazione da attività ricreativa ad abitazione. In subordine invocava il riconoscimento della sua buona fede, considerando le autorizzazioni già ottenute dalla pubblica amministrazione e l'oggettiva difficoltà di interpretare la legge sul punto.
La decisione
La Cassazione non è d'accordo. I via libera ricevuti, per lo più riferiti ad aspetti prettamente idraulici, avevano lasciato impregiudicata la necessità di ulteriori permessi e fatto salve altre disposizioni vigenti. Inoltre l'imputato aveva il dovere, anche “rafforzato” in virtù della sua doppia qualifica di architetto e imprenditore, di contattare gli uffici comunali per avere chiarimenti sugli atti amministrativi. Spiegazioni che intanto fornisce la Suprema corte.
Per la Cassazione le caratteristiche qualificavano la casa galleggiante come intervento di nuova costruzione (Dpr 380/2001) perché comportavano una trasformazione edilizia e urbanistica del territorio. L'abitazione sul fiume rientrava tra le opere definite, a titolo di esempio dalla norma (articolo 3, comma 1, lettera e5) e in particolare, tra le «strutture o imbarcazioni utilizzate come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini o simili non diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee». I giudici della terza sezione penale sottolineano che la necessità del permesso di costruire per le strutture galleggianti ancorate alle sponde del Tevere è stata riconosciuta dalla giurisprudenza amministrativa, in casi analoghi.
Anche i fondali subacquei, infatti, vanno considerati come suolo, in questo caso demaniale e le strutture stabilmente installate sull'acqua sono assoggettabili al testo unico sull'edilizia (articoli 3, 10 e 35). Il principio dettato dalla Cassazione non vale soltanto per chi sul fiume vuole vivere ma anche per chi crea un luogo di lavoro: ristoranti, ritrovi, depositi, magazzini, studi ecc. Per tutti c'è bisogno del permesso di costruire a meno che le strutture non siano destinate a soddisfare delle esigenze in un tempo limitato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.03.2017).

VARILa multa degli altri è segreta. Tar Molise.
Chi viene sanzionato per divieto di sosta può chiedere al comando di polizia locale di conoscere quanti veicoli sono stati multati in quella determinata situazione. Ma non certo di avere accesso indiscriminato ai verbali dei colleghi trasgressori.

Così il TAR Molise, Sez. I, sentenza 15.03.2017 n. 81.
Un conducente ha lasciato inavvertitamente il proprio veicolo in sosta vietata durante la sagra di Ferragosto e per questo è stato multato dai vigili. Ha poi chiesto al comune informazioni sul numero dei verbali elevati nella medesima circostanza. Nonostante la risposta del comando di polizia locale l'interessato ha proposto doglianze al collegio che ha rigettato le censure. In particolare circa la possibilità di ottenere copia integrale di tutti i verbali elevati dai vigili.
È infatti discutibile che un comune debba rilasciare informazioni di questo tipo, specifica il collegio. È sufficiente comunicare quante infrazioni sono state accertate in quella determinata situazione dal comando di polizia locale. Non rilasciare copia degli altri atti sanzionatori (articolo ItaliaOggi Sette del 27.03.2017).

APPALTIDitta in doppia veste, no all'esclusione automatica.
Nelle gare sotto soglia regolate dal nuovo codice dei contratti, è illegittima l'esclusione automatica della ditta in lizza sia come concorrente sia come subappaltatrice.

Lo afferma il TAR Piemonte, Sez. II, con la sentenza 08.03.2017 n. 328.
La stazione appaltante aveva estromesso la società in quanto la compresenza nello stesso soggetto del ruolo di partecipante e di subappaltatore alterava la competizione. Ciò aveva indotto la pubblica amministrazione a liberarsi della concorrente in base all'art. 80, comma 5, lett. m), del decreto legislativo 50/2016 che fa riferimento a situazioni di controllo o comunque ad offerte imputabili ad un unico centro decisionale.
Il collegio ha dato ragione al privato rilevando che la legge di gara, pur imponendo l'indicazione dei subappaltatori, non prevedeva un divieto per lo stesso soggetto di concorrere in più vesti. Né ciò è vietato dalla legge, in analogia a quanto invece disposto, ad esempio, per gli ausiliari o i componenti il raggruppamento temporaneo di imprese.
In definitiva la presenza del medesimo soggetto nell'ambito di più offerte può costituire mero sintomo di collegamento tra le offerte e di dubbia trasparenza delle stesse ma, quale mero indizio, va verificato nel contraddittorio delle parti (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.05.2017).

APPALTI SERVIZI: Ok alla consegna anticipata del servizio.
Legittima la consegna anticipata del servizio anche se il contratto d'appalto non è ancora efficace. Possibile? Sì, se il servizio risulta essenziale e il Comune ad esempio è alle prese con la necessità liberare dalla neve le strade cittadine: in casi di urgenza è l'articolo 32, comma 13, del nuovo codice dei contratti pubblici che consente alla stazione appaltante di stringere i tempi.

È quanto emerge dalla sentenza 07.03.2017 n. 209, pubblicata dalla II Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna.
Interesse pubblico
Non conta che il provvedimento dell'amministrazione sia adottato in pendenza del periodo di stand still, la classica clausola dei contratti che impedisce alle parti di avere rapporti con terzi mentre è in corso l'accordo fra loro.
Fa un buco nell'acqua il consorzio agrario che contesta l'esecuzione anticipata decisa dal Comune per lo sgombero della neve e il trattamento antigelo sul territorio.
È vero: l'esecuzione può avere inizio soltanto quando il contratto risulta efficace, ma la stazione appaltante può ottenere la consegna del servizio prima del tempo per evitare pericoli a persone o cose.
Altrettanto vale quando si tratta di tutelare l'igiene e la salute pubblica ma anche per il patrimonio storico, artistico e culturale dell'area. Insomma: la stazione appaltante ha diritto alla prestazione immediata quando un ulteriore ritardo può danneggiare l'interesse pubblico sotteso alla gara, compresa l'ipotesi in cui l'amministrazione rischia di perdere finanziamenti europei.
E in ogni caso l'aggiudicazione inefficace della gara è tutt'altro che inesistente: risulta solo sospesa (articolo ItaliaOggi Sette del 18.04.2017).
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MASSIMA
6. Con i motivi aggiunti parte ricorrente contesta la consegna anticipata del servizio in via d’urgenza, lamentando innanzitutto, con il primo di detti motivi, che con tale consegna anticipata sarebbe stata pretermessa la fase delle verifiche, al cui esito è condizionata l’efficacia dell’aggiudicazione (come si è già detto nel paragrafo 2).
Il Collegio ancora una volta tralascia le argomentazioni che attengono a presunte irregolarità inficianti le gare svoltesi nei precedenti anni, che non possono trovare ingresso nel presente giudizio, non essendo state tempestivamente denunciate con ricorso innanzi al TAR.
Ciò premesso, si osserva che
la consegna anticipata dell’appalto è prevista dal d.lgs. n. 50/2016. L’art. 32 prevede, al comma 13, che l'esecuzione del contratto può avere inizio solo dopo che lo stesso è divenuto efficace, salvo che, in casi di urgenza, la stazione appaltante ne chieda l'esecuzione anticipata, nei modi e alle condizioni previste al comma 8.
Il comma 8 prevede che «Nel caso di servizi e forniture, se si è dato avvio all'esecuzione del contratto in via d'urgenza, l'aggiudicatario ha diritto al rimborso delle spese sostenute per le prestazioni espletate su ordine del direttore dell'esecuzione. L'esecuzione d'urgenza di cui al presente comma è ammessa esclusivamente nelle ipotesi di eventi oggettivamente imprevedibili, per ovviare a situazioni di pericolo per persone, animali o cose, ovvero per l'igiene e la salute pubblica, ovvero per il patrimonio, storico, artistico, culturale ovvero nei casi in cui la mancata esecuzione immediata della prestazione dedotta nella gara determinerebbe un grave danno all'interesse pubblico che è destinata a soddisfare, ivi compresa la perdita di finanziamenti comunitari».
Il successivo comma 9 dispone che il contratto non può comunque essere stipulato prima di trentacinque giorni dall'invio dell'ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione; il comma 10 prevede alcune eccezioni alla predetta regola, tra le quali quella di cui alla lettera b): «nel caso di un appalto basato su un accordo quadro di cui all'articolo 54, nel caso di appalti specifici basati su un sistema dinamico di acquisizione di cui all'articolo 55, nel caso di acquisto effettuato attraverso il mercato elettronico e nel caso di affidamenti effettuati ai sensi dell'articolo 36, comma 2, lettere a) e b).».

Orbene, a fronte della natura essenziale del servizio di cui trattasi era necessario assicurarne lo svolgimento durante la stagione invernale, sicché non si ravvisano profili di illegittimità, essendo certamente rispondente all’interesse pubblico lo svolgimento del servizio medesimo ed essendo altresì possibile e anche probabile, in caso di mancata esecuzione, il verificarsi di pregiudizi anche rilevanti all’incolumità delle persone e all’integrità dei beni.
Si precisa che
nel caso in esame è legittima anche l’esecuzione anticipata durante il periodo di stand still, secondo le disposizioni su riportate, trattandosi di affidamento ai sensi dell’art. 36/2 lett. b.

EDILIZIA PRIVATA: Non sono sanabili opere edilizi abusive realizzate su un’area ricompresa in un piano particolareggiato destinato a interventi di e.r.p. a favore della popolazione nomade, a cui il ricorrente stesso appartiene.
È pacifico che le opere di cui si discute sono state edificate senza titolo, dunque abusivamente. È altrettanto pacifico che si tratta di opere che necessitano complessivamente del permesso di costruire.
Il ricorrente sostiene che l’abuso sarebbe regolarizzabile in via di sanatoria perché insistente su un’area ricompresa in un piano particolareggiato destinato a interventi di e.r.p. a favore della popolazione nomade, a cui il ricorrente stesso appartiene. Si osserva in proposito:
   - da un lato, l’asserita sanabilità dell’abuso non incide sulla legittimità dell’ordine di demolizione, né sulla sua efficacia, almeno fino al momento in cui l’istanza di sanatoria non venga presentata (e qui non risulta che sia stata presentata);
   - dall’altro, come sostenuto dal Comune resistente, non può dirsi conforme alla disciplina urbanistica un intervento privato in un’area nella quale sono previsti soltanto interventi pubblici di e.r.p.; e la circostanza che l’autore dell’abuso appartenga al gruppo sociale che dovrebbe fruire degli interventi pubblici in questione non fa venir meno il carattere abusivo di quanto individualmente realizzato senza titolo.
Né tale carattere può venire meno in ragione delle particolari condizioni economiche e di salute del ricorrente e dei suoi familiari o della appartenenza all’etnia sinti: questa Sezione ha già avuto ripetutamente occasione di pronunciarsi a quest’ultimo riguardo in cause analoghe, evidenziando che “la normativa urbanistica statale e regionale si applica indifferentemente a tutti i soggetti che pongono in essere trasformazioni permanenti del territorio e che a nessun proprietario è precluso, in ragione della sua origine etnica, di esercitare lo ius aedificandi nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e dei piani regolatori” .
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... per l'annullamento dell'ordinanza n. 440 del 23.11.2016 con la quale il Dirigente del Comune di Nichelino (TO) ha ordinato la demolizione delle opere edilizie realizzate all'interno del lotto di terreno sito in Nichelino (TO), Via ..., censito al Catasto Terreni al foglio 22, mappale 173, ed il ripristino dello stato dei luoghi, nonché di ogni altro atto ad essa presupposto, consequenziale o connesso.
...
1) Con il provvedimento in epigrafe il Dirigente dell’Area tecnica del Comune di Nichelino ha ordinato la demolizione di opere edilizie abusive realizzate dal sig. Ott.Ce. -di etnia sinti- su un terreno di sua proprietà, in assenza di permesso di costruire e in contrasto con la disciplina urbanistica vigente nel predetto Comune, consistenti in un “fabbricato di civile abitazione ad un piano fuori terra costituito da muratura perimetrale in blocchi di laterizi intonacati fondati su un basamento in calcestruzzo…”, nonché in un “cancello carraio e pedonale per l’accesso al lotto…” e in “manufatti vari posti in adiacenza al fabbricato principale…”.
2) Di tale provvedimento l’interessato ha chiesto l’annullamento deducendo:
   - che le opere in questione, per quanto abusive, sono comunque conformi alla disciplina urbanistica, in quanto ricadono in area disciplinata da un piano particolareggiato finalizzato a interventi di edilizia residenziale pubblica in favore della popolazione nomade;
   - che dunque il ricorrente potrebbe chiedere al Comune un permesso in sanatoria;
   - che nell’immobile vivono il ricorrente e il suo nucleo familiare, i cui componenti presentano anche numerosi problemi di salute;
   - che il provvedimento impugnato, infine, viola l’art. 8 della CEDU e il principio di proporzionalità, in quanto non tiene conto delle condizioni personali del ricorrente e della sua famiglia, aventi risorse economiche limitate e comprovati problemi di salute.
...
5) Il ricorso è infondato.
È pacifico che le opere di cui si discute sono state edificate senza titolo, dunque abusivamente. È altrettanto pacifico che si tratta di opere che necessitano complessivamente del permesso di costruire.
Il ricorrente sostiene che l’abuso sarebbe regolarizzabile in via di sanatoria perché insistente su un’area ricompresa in un piano particolareggiato destinato a interventi di e.r.p. a favore della popolazione nomade, a cui il ricorrente stesso appartiene. Si osserva in proposito:
   - da un lato, l’asserita sanabilità dell’abuso non incide sulla legittimità dell’ordine di demolizione, né sulla sua efficacia, almeno fino al momento in cui l’istanza di sanatoria non venga presentata (e qui non risulta che sia stata presentata);
   - dall’altro, come sostenuto dal Comune resistente, non può dirsi conforme alla disciplina urbanistica un intervento privato in un’area nella quale sono previsti soltanto interventi pubblici di e.r.p.; e la circostanza che l’autore dell’abuso appartenga al gruppo sociale che dovrebbe fruire degli interventi pubblici in questione non fa venir meno il carattere abusivo di quanto individualmente realizzato senza titolo.
Né tale carattere può venire meno in ragione delle particolari condizioni economiche e di salute del ricorrente e dei suoi familiari o della appartenenza all’etnia sinti: questa Sezione ha già avuto ripetutamente occasione di pronunciarsi a quest’ultimo riguardo in cause analoghe, evidenziando che “la normativa urbanistica statale e regionale si applica indifferentemente a tutti i soggetti che pongono in essere trasformazioni permanenti del territorio e che a nessun proprietario è precluso, in ragione della sua origine etnica, di esercitare lo ius aedificandi nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e dei piani regolatori” (cfr. TAR Piemonte, sez. II, n. 1223 del 05.10.2016, che richiama le precedenti n. 358/2016 e n. 551/2015).
6) In relazione a quanto sopra il ricorso deve essere respinto (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 03.03.2017 n. 307 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione soppalco: quando occorre il permesso di costruire.
In base ad un rilievo logico, prima che giuridico, la disciplina edilizia del soppalco, ovvero dello spazio aggiuntivo che si ricava all’interno di un locale, di solito come nella specie, un’abitazione, interponendovi un solaio, non è definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto.
In linea di principio, sarà necessario il permesso di costruire quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, con incremento delle superfici dell'immobile e in prospettiva ulteriore carico urbanistico.
Si rientrerà invece nell’ambito degli interventi edilizi minori, per i quali comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il soppalco sia tale da non incrementare la superficie dell’immobile, e ciò sicuramente avviene quando esso non sia suscettibile di utilizzo come stanza di soggiorno.

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... per la riforma della sentenza del TAR Lazio, sede di Roma, sezione I-quater 30.11.2011 n. 9401, resa fra le parti, con la quale è stato respinto il ricorso per annullamento della determinazione dirigenziale 29.09.2006 n.1803 di Roma Capitale, di demolizione in quanto abusive di opere realizzate senza permesso di costruire all’interno di un’unità immobiliare sita a Roma, in via ... n. 17;
...
I ricorrenti appellanti hanno impugnato in primo grado il provvedimento indicato in epigrafe, con il quale hanno ricevuto ingiunzione a demolire, in quanto realizzate senza permesso di costruire, una serie di opere realizzate all’interno di un immobile di proprietà -sito a Roma, via ... 17, e distinto al catasto al f. 622, part. 300 sub. 501- costituite da una struttura di putrelle in ferro orizzontali e verticali, disposte in modo da formare un soppalco a forma di “L” della superficie di circa 24,80 mq all’interno di un locale più ampio.
L’area soppalcata al piano superiore consiste di un solaio in muratura con due finestre, posto ad altezza variabile da un soffitto irregolare, da metri 2,30 a metri 1.55 circa; la struttura del soppalco poggia invece per circa 20 mq su una pedana in muratura di circa 0,40 metri di altezza, ha un distacco di metri 1,88 e un’altezza interna praticabile di circa 1,45 metri; per la parte restante di circa 4,80 mq poggia sul piano di calpestio ed ha un distacco di 2,10 metri.
L’area sottostante il soppalco è poi priva di finestre, con nuove tramezzature ed attacchi per impianti idrici ed elettrici (v. doc. 1 in primo grado ricorrenti appellanti, ordinanza impugnata).
Con la sentenza indicata in epigrafe, il TAR ha respinto il ricorso, ritenendo in sintesi estrema che l’intervento fosse effettivamente soggetto a permesso di costruire, mai ottenuto né richiesto.
Contro tale sentenza, i ricorrenti in primo grado propongono appello, affidato a due motivi:
   - con il primo di essi, deducono propriamente eccesso di potere per carenza di presupposti e mancanza di motivazione. Premettono in fatto che, a loro dire, da un lato per l’opera in questione sarebbe stato pendente un procedimento di condono edilizio, su istanza dei precedenti proprietari, certi Salvi; dall’altro, che per una porzione dello stesso immobile sarebbe stata emessa un’analoga ordinanza, annullata dal TAR del Lazio con sentenza 30.01.2007 n. 636.
Ciò premesso, sostengono che l’intervento, in quanto soppalco non praticabile, non sarebbe soggetto a permesso di costruire, contrariamente a quanto ritenuto dal Giudice di primo grado. Ciò sarebbe stato in qualche modo riconosciuto dall’Autorità giudiziaria penale, che ne avrebbe disposto il dissequestro;
   - con il secondo motivo, deducono violazione degli artt. 33 e 37 T.U. 06.06.2001 n.380, perché il Giudice di primo grado non avrebbe valutato la presentazione da parte loro di una denuncia di inizio attività – DIA a sanatoria, che in ogni caso avrebbe dovuto far venir meno l’abuso.
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1. Il primo motivo di appello è fondato ed assorbente, nei termini che seguono.
2. In base ad un rilievo logico, prima che giuridico, la disciplina edilizia del soppalco, ovvero dello spazio aggiuntivo che si ricava all’interno di un locale, di solito come nella specie, un’abitazione, interponendovi un solaio, non è definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto.
3. In linea di principio, sarà necessario il permesso di costruire quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, con incremento delle superfici dell'immobile e in prospettiva ulteriore carico urbanistico: così per tutte C.d.S. 03.09.2014 n. 4468.
Si rientrerà invece nell’ambito degli interventi edilizi minori, per i quali comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il soppalco sia tale da non incrementare la superficie dell’immobile, e ciò sicuramente avviene quando esso non sia suscettibile di utilizzo come stanza di soggiorno.
4. Quest’ultima è l’ipotesi che si verifica nel caso di specie, in cui, come detto in narrativa, lo spazio realizzato con il soppalco è un vano chiuso, senza finestre o luci, di altezza interna modesta, tale da renderlo assolutamente non fruibile alle persone: si tratta, in buona sostanza, di un ripostiglio.
5. Quanto sopra è sufficiente per affermare l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione impugnata, che va annullata, in riforma della sentenza di primo grado, perché fondata, in sintesi, su un presupposto non corretto.
6. Va invece assorbito il secondo motivo, che si fonda sul rapporto fra l’ordinanza impugnata ed un fatto ulteriore, la presentazione in un momento successivo della DIA. E’ evidente infatti che, annullata l’ordinanza stessa, la possibilità che rispetto alla demolizione da essa ordinata si sia prodotta una sanatoria è priva di rilievo.
Spetterà invece all’amministrazione, nel prosieguo della propria attività, valutare se l’opera compiuta integri un diverso e minore tipo di abuso, e in caso affermativo se esso sia stato sanato dalla DIA in questione. Ciò però rientra nel futuro esercizio di poteri amministrativi, sui quali il Giudice non può pronunciare (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.03.2017 n. 985 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa revoca di una aggiudicazione non rientra tra le ipotesi di esclusione dell’art. 80, comma V, dlgs 50/2016, poiché non costituisce automaticamente un grave illecito professionale, tale da rendere dubbia la affidabilità, né integra l’ipotesi di significative carenze nell’esecuzione di un precedente appalto.
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Il verbale della commissione di gara costituisce un atto pubblico che è assistito da fede privilegiata, facendo prova sino a querela di falso di quanto in esso attestato; una volta che il verbale venga "chiuso", cioè confermato e sottoscritto, esso diviene pertanto intangibile anche per gli stessi componenti della Commissione, nel senso che il potere che con la verbalizzazione è stato esercitato è venuto meno, cioè si è consumato.
Può peraltro ammettersi che, nel caso in cui il verbale sia inficiato da errori materiali, sia consentito operare le opportune rettifiche, ma deve trattarsi di vero e proprio errore materiale, cioè di una inesattezza percepibile ictu oculi dal contesto dell'atto e tale da non determinare alcuna incertezza in ordine alla individuazione di quanto effettivamente rappresentato e avvenuto.
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1) Il presente ricorso è proposto avverso gli atti della gara per l’affidamento del servizio di ristorazione scolastica della scuola materna ed elementare per il triennio 2016/2019, del Comune di Campiglione Fenile.
Il Collegio, anche dopo l’esame più approfondito, rispetto a quello della fase cautelare, non ravvisa elementi per discostarsi dalla decisione interinale, per le ragioni di seguito rappresentate.
2) Il primo motivo verte sulla violazione dell’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 50/2016, per la mancata dichiarazione nella domanda di ammissione al punto h), da parte della G. di una precedente revoca dell’aggiudicazione del servizio presso il Comune di Sciolze, per l’omissione nella dichiarazione di reati riferibili al legale rappresentante rilevanti sotto il profilo dell’affidabilità morale e professionale.
La censura è infondata in fatto, in quanto nella domanda di ammissione l’Amministratore unico della G. ha dichiarato che l’affidamento per il servizio di refezione scolastica era stato revocato dalla Centrale Unica di Committenza - capofila Comune di Chivasso, per asserite false dichiarazioni rese dalla Sig. Ka.Pi. amministratore unico della società sino al 01.07.2016 e che il provvedimento era però stato impugnato avanti il Tar Lazio.
Sempre secondo parte ricorrente la revoca avrebbe dovuto comportare l’esclusione dalla gara, in quanto il fatto integra l’ipotesi di grave illecito professionale, tale da rendere dubbia la integrità e affidabilità di cui all’art. 80, comma V, d.lgs. 50/2016.
Anche questo rilievo non può essere condiviso, poiché la revoca di una aggiudicazione non rientra tra le ipotesi di esclusione dell’art. 80, comma V, poiché non costituisce automaticamente un grave illecito professionale, tale da rendere dubbia la affidabilità, né integra l’ipotesi di significative carenze nell’esecuzione di un precedente appalto.
Nel caso di specie la revoca non ha riguardato l’esecuzione di un contratto, ma l’omissione di dichiarazioni rese dal precedente amministratore, mentre in questa sede la G. non solo ha dichiarato l’intervenuta revoca, ma anche le ragioni della stessa, indicando altresì il reato contestato all’ex amministratore, nonché gli atti societari successivi con cui la società si è dissociata dalle condotte contestate.
...
E’ fondata anche la censura nella parte in cui osserva che la formulazione dell’offerta non potesse indurre a ritenere che vi fosse una “donazione” delle attrezzature a fine contratto, poiché nell’offerta la G. si limita a dichiarare la “fornitura a proprie spese” di tutta una serie di strumenti (dai frigoriferi ai piccoli elettrodomestici), che indica la volontà di sostituzione gratuita degli esistenti, ma senza alcun riferimento alla fase conclusiva del contratto e alla volontà di trasferire in proprietà i beni alla stazione appaltante.
Il chiarimento reso in sede di apertura delle offerte, nella seduta del 18.08.2016, si è sostanziato in una dichiarazione integrativa dell’offerta originale, attraverso cui è stata introdotta una nuova proposta, in palese violazione al principio della immodificabilità dell’offerta.
Né può valere la dichiarazione postuma della commissione: in base ai principi generali in materia e secondo pacifica giurisprudenza, il verbale della commissione costituisce un atto pubblico che è assistito da fede privilegiata, facendo prova sino a querela di falso di quanto in esso attestato; una volta che il verbale venga "chiuso", cioè confermato e sottoscritto, esso diviene pertanto intangibile anche per gli stessi componenti della Commissione, nel senso che il potere che con la verbalizzazione è stato esercitato è venuto meno, cioè si è consumato (TAR Campania Napoli, sez. II, 21.05.2009, n. 2831; TAR Toscana Firenze, sez. I, 21.03.2006 , n. 977; TAR Firenze, sez. II, 22.06.2010, n. 2031).
Può peraltro ammettersi che, nel caso in cui il verbale sia inficiato da errori materiali, sia consentito operare le opportune rettifiche, ma deve trattarsi di vero e proprio errore materiale, cioè di una inesattezza percepibile ictu oculi dal contesto dell'atto e tale da non determinare alcuna incertezza in ordine alla individuazione di quanto effettivamente rappresentato e avvenuto (TAR Lazio Latina, sez. I, 10.01.2008, n. 28)
Tale ipotesi non si è però verificata nel caso in esame, atteso che la commissione ha integrato con una dichiarazione successiva il proprio giudizio, modificando quanto attestato nel precedente verbale, "letto, confermato e sottoscritto" dai commissari.
In ogni caso, anche a voler considerare valida la dichiarazione, la commissione ha confermato di aver inteso la formula “fornitura a proprie spese” come espressione di volontà di trasferire la proprietà delle attrezzature al termine dell’appalto, confermando che ha assegnato un punteggio per un criterio non previsto dalla lex specialis e per un impegno non espressamente e inequivocabilmente assunto dall’offerente.
Ne consegue il punteggio massimo di 10 punti per la voce migliorie del centro di cottura, non poteva essere assegnato, poiché alla voce “fornitura a proprie spese” come intesa dalla commissione, cioè trasferimento della proprietà delle attrezzature al termine del contratto, non poteva essere assegnato punteggio
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 28.02.2017 n. 289 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna è suscettibile di revoca quando risulti assolutamente incompatibile con atti amministrativi della competente autorità, che abbiano conferito all'immobile una diversa destinazione o ne abbiano sanato l'abusività (fermo restando tra l'altro il potere-dovere del giudice dell'esecuzione di verificare la legittimità dell'atto concessorio sotto il duplice profilo della sussistenza dei presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio).
Non sussiste infatti alcun diritto "assoluto" alla inviolabilità del domicilio, desumibile dalle decisioni della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, tale da precludere l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un immobile abusivo, finalizzato a ristabilire l'ordine giuridico violato (dalla giurisprudenza CEDU si ricava, al contrario, l'opposto principio dell'interesse dell'ordinamento all'abbattimento -in luogo della confisca- delle opere incompatibili con le disposizioni urbanistiche).
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La sanzione dell'ordine di demolizione, prevista dall'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sfugge alla regola del giudicato penale ed è sempre riesaminabile in sede esecutiva al fine di una eventuale revoca, che è consentita solo in presenza di determinazioni della P.A. o del giudice amministrativo incompatibili con l'abbattimento del manufatto, ovvero quando sia ragionevolmente prevedibile, in base ad elementi concreti e specifici, che tali provvedimenti saranno adottati in breve tempo, non potendo la tutela del territorio essere rinviata indefinitamente.
Sì che del tutto correttamente il Procuratore generale ha osservato -irrilevante essendo il momento di presentazione dell'istanza di condono in rapporto alla condanna giudiziale- che
per neutralizzare l'ordine di demolizione non è ovviamente sufficiente la, mera, possibilità che in tempi lontani, e comunque non prevedibili come in specie, siano emanati atti favorevoli alla parte ricorrente.
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4.1. In ragione della loro stretta connessione, i motivi di impugnazione possono essere esaminati congiuntamente.
In proposito,
è invero principio del tutto consolidato che l'ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna è suscettibile di revoca quando risulti assolutamente incompatibile con atti amministrativi della competente autorità, che abbiano conferito all'immobile una diversa destinazione o ne abbiano sanato l'abusività (fermo restando tra l'altro il potere-dovere del giudice dell'esecuzione di verificare la legittimità dell'atto concessorio sotto il duplice profilo della sussistenza dei presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio) (Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci e altro, Rv. 260972).
Non sussiste infatti alcun diritto "assoluto" alla inviolabilità del domicilio, desumibile dalle decisioni della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, tale da precludere l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un immobile abusivo, finalizzato a ristabilire l'ordine giuridico violato (dalla giurisprudenza CEDU si ricava, al contrario, l'opposto principio dell'interesse dell'ordinamento all'abbattimento -in luogo della confisca- delle opere incompatibili con le disposizioni urbanistiche) (Sez. 3, n. 18949 del 10/03/2016, Contadini e altro, Rv. 267024).
4.2. Ciò posto, dallo stesso contenuto del ricorso emerge che la procedura di sanatoria pende da circa venti anni, senza alcun apprezzabile risultato.
Né appare seriamente sostenibile, dati siffatti precedenti ed anche al di là delle comunque non impegnative dichiarazioni del tecnico comunale (al riguardo, nel provvedimento impugnato si dà invece espressamente atto che proprio dalle parole del funzionario pubblico poteva addirittura desumersi che alcuna rapida definizione delle pratiche edilizie era prevista), che essa possa concludersi in tempi ragionevolmente pronosticabili.
Infatti
la sanzione dell'ordine di demolizione, prevista dall'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sfugge alla regola del giudicato penale ed è sempre riesaminabile in sede esecutiva al fine di una eventuale revoca, che è consentita solo in presenza di determinazioni della P.A. o del giudice amministrativo incompatibili con l'abbattimento del manufatto, ovvero quando sia ragionevolmente prevedibile, in base ad elementi concreti e specifici, che tali provvedimenti saranno adottati in breve tempo, non potendo la tutela del territorio essere rinviata indefinitamente (Sez. 3, n. 25212 del 18/01/2012, Maffia, Rv. 253050).
Sì che del tutto correttamente il Procuratore generale ha osservato -irrilevante essendo il momento di presentazione dell'istanza di condono in rapporto alla condanna giudiziale- che
per neutralizzare l'ordine di demolizione non è ovviamente sufficiente la, mera, possibilità che in tempi lontani, e comunque non prevedibili come in specie, siano emanati atti favorevoli alla parte ricorrente.
4.3. In ragione di ciò, non vi è alcuna possibilità, pertanto, di confrontare l'ordine di demolizione con provvedimenti di segno diverso, tali da metterne in dubbio la perdurante piena efficacia.
4.4. Al riguardo, e con particolare attenzione al secondo motivo di ricorso, è poi appena il caso di aggiungere che -ferme le svolte considerazioni- non rileva il fatto dell'inutile pendenza ventennale della procedura amministrativa di sanatoria (tra l'altro, finora, ad evidente esclusivo vantaggio del privato che ha goduto del bene), atteso che, a fronte delle innegabili inefficienze di pubbliche autorità, si pone in ogni caso l'obbligo di porre in esecuzione un ordine di demolizione, nascente da una sentenza irrevocabile di condanna.
5. I motivi di censura appaiono quindi manifestamente infondati nella loro integralità, e ne va dichiarata l'inammissibilità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.02.2017 n. 8887).

EDILIZIA PRIVATAL'ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28 della legge 24.11.1981, n. 689, che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva.
La demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa, che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso. Per tali sue caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen..
Una lettura sistematica della disposizione, dunque, impone di ribadire la natura amministrativa, e la dimensione accessoria, ancillare, rispetto al procedimento penale, della demolizione, pur quando ordinata dal giudice penale; tant'è che, pur integrando un potere autonomo e non alternativo a quello dell'autorità amministrativa, nel senso che la demolizione deve essere ordinata dal giudice penale anche qualora sia stata già disposta dall'autorità amministrativa, l'ordine 'giudiziale' di demolizione coincide, nell'oggetto (l'opera abusiva) e nel contenuto (l'eliminazione dell'abuso), con l'ordine (o l'ingiunzione) 'amministrativo', ed è eseguibile soltanto "se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Pertanto,
se la 'demolizione d'ufficio' e l'ingiunzione alla demolizione sono disposte dall'autorità amministrativa, senza che venga revocata in dubbio la natura amministrativa, e non penale, delle misure, e senza che ricorra la pertinenzialità ad un fatto-reato, in quanto, come si è visto, la demolizione può essere disposta immediatamente, senza neppure l'individuazione dei responsabili, non può affermarsi che la 'demolizione giudiziale' -identica nell'oggetto e nel contenuto- muti natura giuridica solo in ragione dell'organo che la dispone.
Anche perché è pacifico che l'ordine 'giudiziale' di demolizione è suscettibile di revoca da parte del giudice penale allorquando divenga incompatibile con provvedimenti amministrativi di diverso tenore
, in tal senso non mutuando il carattere tipico delle sanzioni penali, consistente nella irretrattabilità, ed è impermeabile a tutte le eventuali vicende estintive del reato e/o della pena; resta eseguibile, qualora sia stato impartito con la sentenza di applicazione della pena su richiesta, anche nel caso di estinzione del reato conseguente al decorso del termine di cui all'art. 445, comma 2, cod. proc. pen.; non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta all'irrevocabilità della sentenza.
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L'acquisizione gratuita dell'opera abusiva al patrimonio disponibile del Comune non è incompatibile con l'ordine di demolizione emesso dal giudice con la sentenza di condanna e con la sua successiva esecuzione da parte del pubblico ministero, a spese del condannato, sussistendo incompatibilità solo nel caso in cui l'ente locale stabilisca, con propria delibera, l'esistenza di interessi pubblici al mantenimento delle opere abusive, prevalenti rispetto a quello del ripristino dell'assetto urbanistico violato.
Oltre a ciò,
il giudice, nella sentenza di condanna, può subordinare il beneficio della sospensione della pena alla demolizione dell'opera abusiva, in quanto tale ordine ha la funzione di eliminare le conseguenze dannose del reato, né a tale subordinazione è ostativa l'avvenuta acquisizione dell'immobile al patrimonio del comune, poiché anche questa vicenda è finalizzata alla demolizione del manufatto abusivamente costruito.
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4. I ricorsi sono inammissibili.
4.1. In relazione al primo profilo di censura, ed in ragione della particolare struttura semplificata del presente provvedimento, è del tutto opportuno e sufficiente ricordare che
è già stata anche ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 117 Cost., dell'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 per mancata previsione di un termine di prescrizione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo disposto con la sentenza di condanna, in quanto le caratteristiche di detta sanzione amministrativa —che assolve ad una funzione ripristinatoria del bene leso; configura un obbligo di fare per ragioni di tutela del territorio; non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che si trova in rapporto con il bene, anche se non è l'autore dell'abuso— non consentono di ritenerla "pena" nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU, e, pertanto, è da escludere sia la irragionevolezza della disciplina che la riguarda rispetto a quella delle sanzioni penali soggette a prescrizione, sia una violazione del parametro interposto di cui all'art. 117 Cost. (Sez. 3, n. 41475 del 03/05/2016, Porcu, Rv. 267977).
Sì che va ribadito che
l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28 della legge 24.11.1981, n. 689, che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva (ad es. Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Fornnisano, Rv. 264736).
4.2. La Corte infine richiama ed integralmente condivide Sez. 3, n. 9949 del 20/01/2016, Di Scala -allo stato non massimata- che appunto conclude nel senso che
la demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa, che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso. Per tali sue caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen..
In ogni caso, ivi è comunque ribadito che l'art. 31 Testo Unico dell'edilizia disciplina l'ingiunzione alla demolizione delle opere abusive, adottata dall'autorità amministrativa nel caso non venga disposta la demolizione d'ufficio; in caso di inottemperanza, è prevista l'irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, e, comunque, l'acquisizione dell'opera abusiva al patrimonio del Comune, finalizzata alla demolizione 'in danno', a spese dei responsabili dell'abuso, salvo che con specifica deliberazione consiliare non venga dichiarata l'esistenza di prevalenti interessi pubblici, e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali. Il comma 9 del medesimo art. 31 prevede che la demolizione venga ordinata dal giudice con la sentenza di condanna, "se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Una lettura sistematica della disposizione, dunque, impone di ribadire la natura amministrativa, e la dimensione accessoria, ancillare, rispetto al procedimento penale, della demolizione, pur quando ordinata dal giudice penale; tant'è che, pur integrando un potere autonomo e non alternativo a quello dell'autorità amministrativa, nel senso che la demolizione deve essere ordinata dal giudice penale anche qualora sia stata già disposta dall'autorità amministrativa, l'ordine 'giudiziale' di demolizione coincide, nell'oggetto (l'opera abusiva) e nel contenuto (l'eliminazione dell'abuso), con l'ordine (o l'ingiunzione) 'amministrativo', ed è eseguibile soltanto "se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Pertanto,
se la 'demolizione d'ufficio' e l'ingiunzione alla demolizione sono disposte dall'autorità amministrativa, senza che venga revocata in dubbio la natura amministrativa, e non penale, delle misure, e senza che ricorra la pertinenzialità ad un fatto-reato, in quanto, come si è visto, la demolizione può essere disposta immediatamente, senza neppure l'individuazione dei responsabili, non può affermarsi che la 'demolizione giudiziale' -identica nell'oggetto e nel contenuto- muti natura giuridica solo in ragione dell'organo che la dispone. Anche perché è pacifico che l'ordine 'giudiziale' di demolizione è suscettibile di revoca da parte del giudice penale allorquando divenga incompatibile con provvedimenti amministrativi di diverso tenore (Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci, Rv. 260972), in tal senso non mutuando il carattere tipico delle sanzioni penali, consistente nella irretrattabilità, ed è impermeabile a tutte le eventuali vicende estintive del reato e/o della pena (ad esso non sono applicabili l'amnistia e l'indulto, cfr. Sez. 3, n. 7228 del 02/12/2010, dep. 2011, D'Avino, Rv. 249309); resta eseguibile, qualora sia stato impartito con la sentenza di applicazione della pena su richiesta, anche nel caso di estinzione del reato conseguente al decorso del termine di cui all'art. 445, comma 2, cod. proc. pen. (cfr. Sez. 3, n. 18533 del 23/03/2011, Abbate, Rv. 250291); non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta all'irrevocabilità della sentenza (cfr. Sez. 3, n. 3861 del 18/01/2011, Baldinucci e altri, Rv. 249317).
Si tratta, dunque, della medesima sanzione amministrativa, adottabile parallelamente al procedimento amministrativo, la cui emissione è demandata (anche) al giudice penale all'esito dell'affermazione di responsabilità penale, al fine di garantire un'esigenza di celerità ed effettività del procedimento di esecuzione della demolizione.
4.3. In relazione all'ulteriore, e sostanzialmente connesso, profilo di censura, la giurisprudenza del tutto consolidata della Corte è altresì nel senso che
l'acquisizione gratuita dell'opera abusiva al patrimonio disponibile del Comune non è incompatibile con l'ordine di demolizione emesso dal giudice con la sentenza di condanna e con la sua successiva esecuzione da parte del pubblico ministero, a spese del condannato, sussistendo incompatibilità solo nel caso in cui l'ente locale stabilisca, con propria delibera, l'esistenza di interessi pubblici al mantenimento delle opere abusive, prevalenti rispetto a quello del ripristino dell'assetto urbanistico violato (ex plurimis, Sez. 3, n. 42698 del 07/07/2015, Marche, Rv. 265495; Sez. 3, n. 4962 del 28/11/2007, dep. 2008, Mancini, Rv. 238803; Sez. 3, n. 49397 del 16/11/2004, Sposato, Rv. 230652; Sez. 3, n. 3489 del 03/11/2000, Mosca, Rv. 217999).
Oltre a ciò, è stato ricordato anche dal Procuratore generale che
il giudice, nella sentenza di condanna, può subordinare il beneficio della sospensione della pena alla demolizione dell'opera abusiva, in quanto tale ordine ha la funzione di eliminare le conseguenze dannose del reato, né a tale subordinazione è ostativa l'avvenuta acquisizione dell'immobile al patrimonio del comune, poiché anche questa vicenda è finalizzata alla demolizione del manufatto abusivamente costruito (Sez. 3, n. 32351 del 01/07/2015, Giglia e altro, Rv. 264252; Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013, dep. 2014, Russo, Rv. 258517) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.02.2017 n. 8882).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di un abbaino è da qualificarsi quale "nuova costruzione".
Nell'ambito delle opere edilizie, la semplice "ristrutturazione" si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre si verte in ipotesi di "nuova costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima, quando la fabbrica comporti una variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio e, in particolare, comporti aumento della volumetria.
Nella specie, la Corte di Appello ha constatato che gli abbaini hanno determinato un aumento di volumetria del fabbricato di parte convenuta e, conseguentemente, ha esattamente concluso che essi costituiscono nuova costruzione.
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RITENUTO IN FATTO
1. — In accoglimento delle domande proposte da Fr.Ir. nei confronti di Se.Wa., Se.Lu. e Fr.Br., il Tribunale di Bolzano condannò i convenuti all'arretramento —fino alla distanza legale— di due abbaini edificati dai medesimi nel loro immobile e di un'antenna televisiva ivi installata, nonché al risarcimento del danno; accertò inoltre il confine tra i fondi delle parti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
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2. — Col secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto, nonché il vizio di motivazione della sentenza impugnata, per avere la Corte territoriale qualificato gli abbaini come "nuove costruzioni" in contrasto con la previsione dell'art. 52 del regolamento di esecuzione alla legge urbanistica provinciale di Bolzano e per avere erroneamente ritenuto che gli abbaini determinavano un aumento di volumetria del piano sottostante al sottotetto.
Le doglianze non possono trovare accoglimento.
Il primo profilo, relativo al regolamento provinciale risulta nuovo e, perciò, inammissibile, non avendo peraltro parte ricorrente dedotto —come era suo onere— di aver posto la questione a fondamento di apposito motivo di appello.
Il secondo profilo è infondato.
Invero, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio di diritto secondo cui, nell'ambito delle opere edilizie, la semplice "ristrutturazione" si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre si verte in ipotesi di "nuova costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima, quando la fabbrica comporti una variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio e, in particolare, comporti aumento della volumetria (Cass., Sez. Un., n. 21578 del 2011).
Nella specie, la Corte di Appello ha constatato che gli abbaini hanno determinato un aumento di volumetria del fabbricato di parte convenuta (p. 19 sentenza impugnata) e, conseguentemente, ha esattamente concluso che essi costituiscono nuova costruzione.
La motivazione del giudizio di fatto circa la sussistenza di aumento di volumetria è esente da vizi logici e giuridici e rimane, pertanto, non sindacabile in sede di legittimità (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 17.02.2017 n. 4255).

CONSIGLIERI COMUNALILa critica al politico che fa scattare il reato di diffamazione. Offesa all'onore di consiglieri comunali. La scriminante dell'esercizio del diritto di critica politica.
Era stato condannato in primo e secondo grado del reato di diffamazione aggravata e al risarcimento dei danni un per avere offeso l'onore di tre consiglieri comunali, facendo affiggere per le strade principali di un Comune dei manifesti in cui detti consiglieri erano indicati come responsabili della sottrazione di 560 mila euro dal bilancio comunale per motivazioni addotte dai "cinque cavalieri della tavola ... rotonda" quali "problemi personali che possono essere compresi, ma non possono essere soddisfatti dall'amministrazione comunale ...".
La Corte di Cassazione, se da un lato ha annullato la sentenza agli effetti penali per intervenuta prescrizione del reato dall'altro ha, invece, confermato gli effetti civili della condanna in quanto non ha riconosciuto la sussistenza della scriminante dell'esercizio del diritto di critica politica.
In particolare, la Corte, ha richiamato la giurisprudenza a tenore della quale l'esercizio di tale diritto può rendere non punibili espressioni anche aspre e giudizi di per sé ingiuriosi, tesi a stigmatizzare comportamenti realmente tenuti da un personaggio pubblico, ma non può scriminare la falsa attribuzione di una condotta scorretta, utilizzata come fondamento per l'esposizione a critica del personaggio stesso: dunque, la critica politica -che nell'ambito della polemica fra contrapposti schieramenti può anche tradursi in valutazioni e commenti tipicamente "di parte", ossia non obiettivi- deve pur sempre fondarsi sull'attribuzione di fatti veri, in quanto nessuna interpretazione soggettiva, che sia fonte di discredito per la persona che ne sia investita, può ritenersi rapportabile al lecito esercizio del diritto di critica, quando tragga le sue premesse da una prospettazione dei fatti non vera.
Alla luce di tali principi, la Suprema Corte ha evidenziato come nella vicenda in esame la Corte distrettuale ha dato conto della falsa attribuzione alle persone offese di una condotta scorretta, ricostruendo il significato offensivo delle espressioni riportate nei manifesti non già singolarmente considerate, ma collocate nel «complesso dell'informazione rappresentato dal testo»: in tale corretta prospettiva ricostruttiva dell'obbiettivo significato del fatto comunicativo, il riferimento alla "sottrazione" della cospicua somma dal bilancio comunale è posto in correlazione, nei manifesti fatti affiggere dall'imputato nelle strade principali del Comune, a "problemi personali" dei consiglieri comunali, a loro volta indicati come "cavalieri della tavola ... rotonda".
Nei termini indicati, conclude la Corte, "la deduzione difensiva circa la riferibilità del contenuto dei manifesti ad un'operazione di storno di bilancio dà corpo, al più, ad un'interpretazione soggettiva di detto significato, laddove la sua valenza lesiva della reputazione delle persone offese fondata su una prospettazione dei fatti non vera è stata congruamente argomentata valorizzando il collegamento testuale della sottrazione all'esigenza di far fronte a "problemi personali" dei consiglieri comunali, rappresentati come partecipi alla "tavola ... rotonda" costituita, all'evidenza, da risorse pubbliche" (commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).
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MASSIMA
In premessa, la Corte rileva che, considerato il periodo di sospensione del corso della prescrizione e non risultando il ricorso inammissibile, la fattispecie estintiva del reato risulta perfezionata in data 02/12/2013.
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali per essere il reato estinto per prescrizione, mentre il ricorso deve essere esaminato, a norma dell'art. 578 cod. proc. pen., ai soli effetti civili.
Esso non è fondato.
I due motivi possono essere esaminati congiuntamente, essendo entrambi volti al riconoscimento della sussistenza della
scriminate dell'esercizio del diritto di critica politica.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare,
l'esercizio di tale diritto può rendere non punibili espressioni anche aspre e giudizi di per sé ingiuriosi, tesi a stigmatizzare comportamenti realmente tenuti da un personaggio pubblico, ma non può scriminare la falsa attribuzione di una condotta scorretta, utilizzata come fondamento per l'esposizione a critica del personaggio stesso (Sez. 5, n. 14459 del 02/02/2011 - dep. 11/04/2011, Contrisciani, Rv. 249935; Sez. 5, n. 24087 del 13/01/2004 - dep. 26/05/2004, Boldrini, Rv. 228900): dunque, la critica politica -che nell'ambito della polemica fra contrapposti schieramenti può anche tradursi in valutazioni e commenti tipicamente "di parte", ossia non obiettivi- deve pur sempre fondarsi sull'attribuzione di fatti veri, in quanto nessuna interpretazione soggettiva, che sia fonte di discredito per la persona che ne sia investita, può ritenersi rapportabile al lecito esercizio del diritto di critica, quando tragga le sue premesse da una prospettazione dei fatti non vera (Sez. 5, n. 7419 del 03/12/2009 - dep. 24/02/2010, Cacciapuoti, Rv. 246096).
La Corte distrettuale ha dato conto della falsa attribuzione alle persone offese di una condotta scorretta, ricostruendo il significato offensivo delle espressioni riportate nei manifesti non già singolarmente considerate, ma collocate nel «complesso dell'informazione rappresentato dal testo»: in tale corretta prospettiva ricostruttiva dell'obbiettivo significato del fatto comunicativo, il riferimento alla "sottrazione" della cospicua somma dal bilancio comunale è posto in correlazione, nei manifesti fatti affiggere dall'imputato nelle strade principali del Comune, a "problemi personali" dei consiglieri comunali, a loro volta indicati come "cavalieri della tavola ... rotonda".
Nei termini indicati, la deduzione difensiva circa la riferibilità del contenuto dei manifesti ad un'operazione di storno di bilancio dà corpo, al più, ad un'interpretazione soggettiva di detto significato, laddove la sua valenza lesiva della reputazione delle persone offese fondata su una prospettazione dei fatti non vera è stata congruamente argomentata valorizzando il collegamento testuale della sottrazione all'esigenza di far fronte a "problemi personali" dei consiglieri comunali, rappresentati come partecipi alla "tavola ... rotonda" costituita, all'evidenza, da risorse pubbliche.
Prive di pregio sono le ulteriori deduzioni circa il riferimento della sentenza impugnata ai lettori dei manifesti, ossia la cittadinanza comunale, riferimento, questo, congruamente volto a dar conto della valutazione delle espressioni di cui all'imputazione sulla base di un criterio di media convenzionale in rapporto alla personalità dell'offeso e dell'offensore ed al contesto nel quale la frase offensiva è stata diffusa (cfr. Sez. 5, n. 19070 del 27/03/2015 - dep. 07/05/2015, Foti, Rv. 263711; Sez. 5, n. 11632 del 14/02/2008 - dep. 14/03/2008, Tessarolo, Rv. 239479).
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali per essere il reato è estinto per prescrizione, mentre, agli effetti civili, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di parte civile liquidate come da dispositivo (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 10.02.2017 n. 6332).

APPALTICommissione di gara illegittima se tra i componenti c’è un rapporto gerarchico.
Riveste una particolare importanza la sentenza 06.02.2017 n. 108 del TAR Marche in relazione ad alcune precisazioni in tema di composizione della commissione di gara negli appalti da aggiudicarsi secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
In particolare per quanto attiene ad un preciso profilo di incompatibilità –non di consueta considerazione da parte dei giudici– determinato dal fatto che un commissario era, a sua volta, anche superiore gerarchico di altro componente. Circostanza che, secondo il giudice, incideva sulla libera determinazione del componente «subordinato».
Le incompatibilità
Il nuovo codice degli appalti ha ampliato, dal punto di vista soggettivo con il comma 4 dell'articolo 77, le ipotesi di incompatibilità ritenendo –a differenza del comma 4 dell'articolo 84 del pregresso codice– che anche il presidente di commissione, se risulta essere stato interessato dalla redazione degli atti di gara (in qualità di Rup) e/o dal contratto della cui aggiudicazione si tratta, non possa far parte della commissione né, appunto, presiederla. Circostanza questa, in ogni caso, destinata a venir meno con la prevista modifica –a opera del decreto correttivo del codice- del comma 3 dell'articolo 77 che imporrà la nomina esterna del presidente della commissione direttamente dall'Albo dei commissari.
Raramente, nella giurisprudenza è venuta in considerazione una diversa –possibile– tipologia di incompatibilità determinata dal fatto che un commissario, operando nel servizio di altro componente della commissione responsabile del servizio, potesse essere considerato come soggetto potenzialmente «condizionato» dal fatto di essere subordinato ad altro componente e quindi «influenzabile» nelle proprie libere scelte per una sorta di timore reverenziale (metus reverentialis) nei confronti del superiore.
È questa la decisione del giudice marchigiano che ha ritenuto persuasiva la censura del ricorrente di incompatibilità – tra le altre - tra 2, dei tre, commissari perché tra questi insisteva «un rapporto di dipendenza gerarchica».
La decisione
Secondo il giudice, «per un principio generale dell'ordinamento di settore, ma applicabile naturalmente anche ai concorsi pubblici, ogni commissario deve essere libero di svolgere in autonomia le proprie valutazioni, il che sarebbe fortemente ostacolato dal fatto che uno dei membri possa esercitare, anche inconsciamente, una qualche “pressione” su uno o più degli altri componenti».
E uno «dei casi in cui tale “pressione” può manifestarsi si verifica proprio quando fra i commissari vi sono rapporti di dipendenza gerarchica».
Tra l'altro, il vizio deve ritenersi a valenza invalidante «ex se, a prescindere quindi dal fatto che in concreto non sia fornita la prova di uno sviamento di potere».
Si tratta di una decisione non completamente condivisibile che rischia di incidere anche sulle normali dinamiche di nomina delle commissioni di gara, spesso –anche per carenza di organico– composte da soggetti presenti nello stesso servizio interessato dall'appalto (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.02.2017).
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MASSIMA
1. La cooperativa ricorrente ha preso parte alla procedura ad evidenza pubblica indetta dalla Centrale Unica di Committenza (C.U.C.) istituita presso l’Unione Montana Alta Valle del Metauro per conto del Comune di Urbania, avente ad oggetto l’affidamento del servizio di gestione dell’asilo nido comunale per il periodo 1/9/2016-31/7/2018.
Alla gara hanno preso parte solo “La So.” e “Eu.As.” e quest’ultima è risultata collocata al primo posto della graduatoria finale con punti 86/100, mentre la ricorrente ha conseguito punti 74,07/100. Prima di decretare l’aggiudicazione, la C.U.C. ha sottoposto l’offerta di “Eu.” a verifica di congruità.
2. Con il ricorso introduttivo “La So.” (gestore uscente del servizio) censura il complessivo operato della C.U.C. e del Comune di Urbania per i seguenti motivi:
   - il RUP designato dalla C.U.C. è diverso da quello indicato nella determina di indizione della gara;
   - la commissione è stata nominata dalla C.U.C. e non dalla stazione appaltante (ossia dal Comune di Urbania);
   - la commissione di gara non era composta da membri esperti del settore;
   - fra due dei commissari sussiste un rapporto di dipendenza gerarchica;
   - il presidente della commissione ha svolto anche le funzioni di RUP, in violazione dell’art. 77, comma 4, D.Lgs. n. 50/2016, nonché del successivo comma 7;
   - i punteggi attribuiti dalla commissione alle due offerte risultano illogici e immotivati (e ciò anche in conseguenza dell’assenza di specifica competenza in materia in capo ai commissari);
   - la valutazione della congruità dell’offerta della controinteressata è stata svolta dal solo RUP e non dalla commissione nel suo plenum;
   - la valutazione di congruità, peraltro, non è stata in realtà compiuta, essendosi il RUP limitato a verificare i certificati del casellario giudiziale depositati dall’aggiudicataria;
   - è altresì illegittima l’esecuzione anticipata del servizio disposta dal Comune, e ciò in quanto il ritardo nella conclusione della gara è ascrivibile unicamente alla stazione appaltante ed alla C.U.C.
La ricorrente ha proposto altresì la domanda di subentro (e in via subordinata di risarcimento per equivalente monetario del danno da mancata aggiudicazione) e la domanda risarcitoria per i danni derivanti dalla consegna anticipata del servizio alla controinteressata.
...
8. Ciò detto, vanno accolte le censure inerenti le modalità di nomina del RUP e della commissione di gara, le quali, come si dirà meglio infra, hanno valenza assorbente.
Nel merito, si osserva quanto segue.
8.1.
Il fatto che la presente gara sia stata bandita in epoca immediatamente successiva all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 50/2016 ha certamente provocato qualche incertezza circa le disposizioni da applicare al riguardo, e ciò anche alla luce del parere reso dal Consiglio di Stato sulle Linee guida predisposte dall’ANAC in materia di nomina del RUP (vedasi il parere della Commissione Speciale n. 1767/2016). Ciò peraltro non giustifica l’operato della C.U.C..
8.2. Va infatti considerato che, anche volendo applicare, ai sensi dell’art. 77, comma 12, D.Lgs. n. 50/2016, le disposizioni interne alla C.U.C., la nomina del RUP e della commissione sono illegittime. In effetti, la convenzione stipulata nel 2015 per l’istituzione e l’implementazione della C.U.C. operante presso l’Unione Montana Alta Valle del Metauro prevede che il RUP sia nominato dal Comune interessato e che la commissione di gara sia formalmente nominata dalla C.U.C. ma su designazione del Comune interessato (art. 3, comma 4, e art. 4 della Convenzione).
Anche l’art. 31, comma 1, del D.Lgs. n. 50/2016 prevede che il RUP sia designato dalla stazione appaltante.
E, del resto, con la determinazione comunale n. 51/2016 il RUP era stato già nominato.
8.3. L’art. 31, comma 14, del D.Lgs. n. 50/2016 (secondo cui “Le centrali di committenza e le aggregazioni di stazioni appaltanti designano un RUP per le attività di propria competenza con i compiti e le funzioni determinate dalla specificità e complessità dei processi di acquisizione gestiti direttamente”) disciplina una fattispecie peculiare e non applicabile nella specie, visto che l’appalto per cui è causa non presenta né particolari difficoltà tecnico-amministrative né un importo economicamente rilevante (si tratta, infatti, di un servizio routinario erogato ormai da molti anni e oggetto, alla scadenza dei vari contratti, di periodico rinnovo all’esito di gara ad evidenza pubblica).
8.4.
Tenuto conto dei compiti particolarmente delicati che il D.Lgs. n. 50/2016 attribuisce al RUP, nonché dell’essenza stessa della figura (si noti, in particolare, l’aggettivo “unico”), in uno stesso procedimento non possono coesistere due RUP e, comunque, l’eventuale secondo RUP, ai sensi del citato art. 31, comma 14, è chiamato a svolgere solo le specifiche attività per cui è stato nominato.
8.5. Quanto alla nomina della commissione, nella specie il Comune di Urbania non risulta aver designato formalmente alcuno dei tre componenti, per cui è stata violata la predetta convenzione istitutiva della C.U.C.
A questo proposito va evidenziato che l’art. 3, comma 6, della convenzione, a differenza di quanto opinato dalla difesa delle amministrazioni resistenti, non pone alcuna eccezione con riguardo alle gare da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, essendo anche in quel caso prevista la designazione da parte del Comune interessato.
8.6. E’ parzialmente fondata anche la censura relativa alla competenza tecnica dei commissari chiamati a far parte della commissione di gara.
In effetti, mentre è legittima la presenza del segretario generale del Comune di Urbania (sia per le sue indubbie competenze in materia di procedure ad evidenza pubblica, sia perché lo stesso risulta aver diretto ormai da qualche anno il Settore Sociale-Educativo dello stesso Comune resistente), non altrettanto può dirsi per gli altri due commissari.
Questo sotto due profili: quanto al geom. Di., non è stato provato che lo stesso possegga specifiche competenze professionali riguardo al servizio oggetto dell’appalto; quanto al geom. Co., in aggiunta alle precedenti considerazioni rileva il fatto che il medesimo è in rapporto di subordinazione gerarchica con il geom. Di. (tale circostanza, affermata in ricorso, non è stata infatti smentita dalle amministrazioni intimate).
Per un principio generale dell’ordinamento di settore, ma applicabile naturalmente anche ai concorsi pubblici, ogni commissario deve essere libero di svolgere in autonomia le proprie valutazioni, il che sarebbe fortemente ostacolato dal fatto che uno dei membri possa esercitare, anche inconsciamente, una qualche “pressione” su uno o più degli altri componenti. Uno dei casi in cui tale “pressione” può manifestarsi si verifica proprio quando fra i commissari vi sono rapporti di dipendenza gerarchica. Il vizio ha valenza invalidante ex se, a prescindere quindi dal fatto che in concreto non sia fornita la prova di uno sviamento di potere.
9. In vista della riedizione della gara, il Tribunale ritiene altresì di osservare che la censura relativa all’incompatibilità in cui versava il presidente della commissione ai sensi dell’art. 77, comma 4, D.Lgs. n. 50/2016 va ritenuta infondata alla luce delle Linee guida adottate dall’ANAC in data 26.10.2016.
Come è noto, e pur a fronte di un dettato normativo più restrittivo rispetto alla formulazione del previgente art. 84, comma 4, del D.Lgs. n. 163/2006, in sede di parere il Consiglio di Stato aveva censurato l’originaria formulazione delle Linee guida (vedasi il punto “Pag. 3, par. 1.2., terzo periodo” del parere, in cui la Commissione Speciale ha evidenziato che “…la disposizione che in tal modo viene interpretata (e in maniera estremamente restrittiva) è in larga parte coincidente con l’articolo 84, comma 4, del previgente ‘Codice’ in relazione al quale la giurisprudenza di questo Consiglio aveva tenuto un approccio interpretativo di minor rigore, escludendo forme di automatica incompatibilità a carico del RUP, quali quelle che le linee-guida in esame intendono reintrodurre (sul punto ex multis: Cons. Stato, V, n. 1565/2015). Pertanto, non sembra condivisibile che le linee-guida costituiscano lo strumento per revocare in dubbio (e in via amministrativa) le acquisizioni giurisprudenziali…”).
L’ANAC si è adeguata al rilievo, tanto che nella stesura definitiva le Linee guida (punto 2.2., ultimo periodo) stabiliscono che “Il ruolo di RUP è, di regola, incompatibile con le funzioni di commissario di gara e di presidente della commissione giudicatrice (art. 77, comma 4, del Codice), ferme restando le acquisizioni giurisprudenziali in materia di possibile coincidenza”.
Peraltro, non potendosi escludere futuri révirement giurisprudenziali, è consigliabile che in sede di ripetizione della procedura il Comune e la C.U.C. chiariscano nettamente le rispettive competenze circa l’approvazione dei vari atti di gara, visto che l’incompatibilità non sussiste laddove, ad esempio, il RUP non abbia in alcun modo cooperato nella stesura del capitolato tecnico o del bando.
10. Le censure inerenti l’omessa/errata valutazione dell’anomalia dell’offerta dell’aggiudicataria sono assorbite, sia perché la ricorrente non ha graduato i motivi di ricorso, sia perché –come meglio si preciserà infra– nella specie il Tribunale non è oggettivamente in grado di valutare allo stato (ammesso che a ciò sia legittimato ex officio) la maggiore satisfattività per la ricorrente dell’accoglimento di una piuttosto che di un’altra censura.
11. In conclusione, la domanda impugnatoria va accolta, con conseguente annullamento dell’aggiudicazione definitiva e dell’affidamento del servizio in via d’urgenza disposto in favore della controinteressata.
Questo secondo provvedimento non ha infatti valenza autonoma, dovendosi dare quasi per scontato che in tanto il servizio è stato affidato a “Eurotrend” in quanto la stessa era risultata aggiudicataria provvisoria. In ogni altro caso, infatti (deserzione della gara, annullamento in autotutela del bando, ritardo nella conclusione della procedura, etc.), il servizio sarebbe stato certamente affidato in proroga al precedente gestore, ossia alla cooperativa ricorrente.
12. A questo punto il problema si sposta alla verifica della corretta modalità di esecuzione della presente sentenza.
12.1. Si deve premettere che dall’accoglimento delle censure formulate dalla ricorrente (le quali, come detto, non sono state graduate) non deriverebbe in nessun caso l’accertamento della spettanza dell’aggiudicazione, visto che:
   - l’accoglimento delle doglianze relative alle modalità di nomina del RUP e della commissione ed alla competenza dei commissari ha quale effetto l’obbligo per la C.U.C. di ripetere la gara (visto che le offerte sono ormai note e non è quindi più assicurabile la genuinità del giudizio, nemmeno se questo fosse affidato ad altra commissione);
   - dall’accoglimento delle censure inerenti la omessa/errata valutazione dell’anomalia e l’oggettiva insostenibilità dell’offerta di “Eurotrend” sarebbe invece disceso l’obbligo per la stazione appaltante di procedere alla (ri)valutazione dell’anomalia, anche alla luce delle doglianze svolte dalla ricorrente. Per giurisprudenza costante, infatti, in prima battuta la valutazione de qua compete alla stazione appaltante, il giudice essendo chiamato solo a stabilire se tale valutazione è stata preceduta da adeguata istruttoria e se essa risponde ai consueti canoni di adeguatezza e logicità.
12.2. Diverso è il discorso per quanto concerne l’annullamento dell’affidamento in via d’urgenza del servizio, perché in questo caso l’effetto della sentenza potrebbe esplicarsi in pieno, essendo solo due le ditte partecipanti alla gara e non essendo stato rappresentato alcun problema di ammissibilità di una o di entrambe le offerte (per cui, allo stato, non vi è pericolo che il servizio possa essere svolto da un operatore che non possiede i requisiti morali e tecnici).
Peraltro, come il Tribunale ha già statuito per due volte in sede cautelare, la valutazione circa l’ottimale gestione di questa fase interinale non può che essere rimessa al Comune di Urbania, e ciò anche alla luce del fatto che la ricorrente ha sul punto formulato la domanda risarcitoria (per cui i danni patrimoniali subiti di cui si chiede il ristoro –in sé di importo non particolarmente rilevante- sarebbero elisi in toto in caso di accoglimento della domanda stessa).
Al riguardo il Tribunale, richiamando analogicamente l’art. 122 cod. proc. amm. (e ciò in quanto nella specie il contratto non è stato ancora formalmente stipulato), non ritiene di poter decretare la cessazione immediata della gestione del servizio da parte della controinteressata, soprattutto in ragione della particolare natura dell’utenza e dell’indiscutibile esigenza di continuità gestionale.
12.3. In accoglimento della presente sentenza, pertanto, il Comune di Urbania dovrà ripetere in tempi ragionevolmente contenuti la procedura di gara, attenendosi ai principi di diritto dianzi esposti.
Per la trattazione della domanda risarcitoria va invece fissata l’udienza pubblica dell’08.11.2017 (TAR Marche, sentenza 06.02.2017 n. 108 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso a costruire per le verande, libertà alle pergotende.
La realizzazione di una veranda su balconi, terrazzi, attici o giardini richiede il permesso di costruire in quanto, dal punto di vista edilizio, determina un aumento della volumetria dell'edificio, perché è caratterizzata da ampie superfici vetrate, che all'occorrenza si aprono tramite finestre scorrevoli o a libro.
La pergotenda rappresenta, invece, un elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, stabile e duraturo. Tenuto conto della sua consistenza, delle caratteristiche costruttive e della funzione, una pergotenda non costituisce un'opera edilizia soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo e rientra all'interno della categoria delle attività di edilizia libera.

Il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 25.01.2017 n. 306 si è espresso riguardo alla definizione di pergolati, verande, gazebo e pergotende. E in particolare riprende per la prima volta la definizione di veranda data dal regolamento edilizio tipo, cioè «locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili».
Il fatto in sintesi. Tizia presentava ricorso al Tar contro l'ordinanza di demolizione di una copertura e chiusura perimetrale di un pergolato con teli plastificati, fissati alla struttura. Il sistema utilizzato per fissare i teli è quello degli occhielli e chiavetta, con un riquadro di materiale plastico come finestra nella parte centrale, perché copertura e chiusura perimetrale sono state realizzate in assenza di titolo abilitativo. Il Tar ha respinto il ricorso, ma il Consiglio di stato lo ha accolto, classificando il manufatto come una pergotenda, non assoggettata al rilascio di un titolo edilizio.
Il Consiglio di stato ha cercato di chiarire la materia con delle definizioni, pur ammettendo che «in relazione ad alcune opere di limitata consistenza e di limitato impatto sul territorio (come pergolati, gazebo, tettoie, pensiline e pergotende) non è sempre agevole individuare il limite entro il quale esse possono farsi rientrare nel regime dell'edilizia libera o per cui è richiesta una comunicazione o permesso di costruire» (articolo ItaliaOggi del 28.04.2017).

APPALTI: Sull'illegittimità del provvedimento con il quale la stazione appaltante annulla d'ufficio la gara, senza aver dato prima alle imprese partecipanti l'avviso dell'inizio del procedimento di autotutela.
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l'articolo 21-octies, comma 2, della legge 241/1990, oltre a riprendere orientamenti già vigenti, che consideravano il principio ivi espresso come immanente nel sistema, è norma di carattere processuale e pertanto, in quanto tale, applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge n. 15 del 2005, e tuttavia, con riferimento alla mancata comunicazione di avvio, la disposizione in parola non può comunque, anche per fattispecie anteriori, essere applicata d'ufficio dal giudice, ma solo "ope exceptionis" da parte dell'amministrazione, alla quale incombe altresì l'onere di dimostrare che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso";
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con la presentazione della domanda di partecipazione alla gara per l'appalto-concorso e con la predisposizione e l'inoltro dell'offerta, i soggetti concorrenti assumono una posizione differenziata e qualificata, per cui, ove l'amministrazione che ha bandito la gara intenda annullarla in autotutela, deve provvedere, ai sensi degli art. 7 e 8 l. n. 241/1990 a comunicare loro l'avviso di avvio del relativo procedimento, con la conseguenza che è illegittimo, per violazione dei canoni partecipativi di cui agli artt. 7 e 8, l. 07.08.1990 n. 241, il provvedimento con il quale la stazione appaltante annulla d'ufficio la gara, senza aver dato alle imprese partecipanti previo avviso d'inizio del procedimento di autotutela";
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l'annullamento in autotutela presuppone, oltre all'illegittimità dell'atto, valide ed esplicite ragioni di interesse pubblico ed il provvedimento deve intervenire entro un termine ragionevole e previa valutazione degli interessi dei destinatari dell'atto da rimuovere, non potendo l'autotutela essere finalizzata al mero ripristino della legalità violata, ma dovendo la medesima essere il risultato di un'attività istruttoria adeguata che dia conto della valutazione dell'interesse pubblico e di quello del privato che ha riposto affidamento nella conservazione dell'atto".
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MASSIMA
2. Il motivo è fondato.
2.1. Va rilevato che, con la domanda proposta in prime cure, An.Fe., chiedeva accertarsi l'illiceità del comportamento del Comune di Arcene -che aveva annullato in via di autotutela per motivi formali, con la delibera n. 435 del 18.11.1994, la procedura concorsuale per l'assegnazione della licenza di autonoleggio da rimessa per autobus- e condannarsi l'ente al risarcimento dei danni subiti.
A seguito dell'espletamento dei tre gradi del giudizio, il Fe. provvedeva alla riassunzione della causa ex art. 392 cod. proc. civ. in seguito alla pronuncia di questa Corte n. 3666/2006, con la quale -sul presupposto che la delibera n. 435 del 18.11.1994 integrasse un atto di annullamento in via di autotutela della procedura concorsuale per l'assegnazione della predetta licenza- la causa veniva rinviata al giudice di merito per la verifica della legittimità di detto provvedimento, "sotto il profilo della necessità della comunicazione dell'avvio del procedimento" ex art. 7 della legge n. 241 del 1990, e sotto quello della natura discrezionale e non vincolata del provvedimento di autotutela, che comporta, pertanto, "una valutazione comparativa tra l'interesse pubblico alla rimozione della illegittimità e l'interesse privato alla conservazione dell'atto che 'medio tempore' ha prodotto effetti e suscitato legittime aspettative".
2.2. Ebbene, sotto il primo profilo, va osservato che la Corte di Appello ha ancorato il rigetto del gravame, in sede di rinvio, sulla giurisprudenza amministrativa -precedente l'entrata in vigore della legge n. 241 del 1990, ed applicabile ratione temporis- secondo la quale l'obbligo della comunicazione di avvio del procedimento amministrativo sussiste solo quando, in relazione alle ragioni che giustificano l'adozione del provvedimento, e a qualsiasi altro possibile profilo, la comunicazione stessa apporti una qualche utilità all'azione amministrativa, affinché questa, sul piano del merito e della legittimità, riceva arricchimento dalla partecipazione del destinatario del provvedimento. Nei casi in cui, invece, anche con la partecipazione del privato il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso, viene meno l'obbligo della comunicazione di cui trattasi (C. St. 7056/2005).
Di più, la Corte territoriale ha fatto, altresì, applicazione dell'art. 21-octies della legge n. 15 del 2005, sebbene entrato in vigore dopo i fatti per cui è causa e l'instaurazione del giudizio di primo grado, avvenuta nel 1994, affermando che "la validità dell'indirizzo giurisprudenziale" succitato era stata "pienamente confermato (sic) dalla norma di cui all'art. 21-octies della legge n. 240 (sic) del 1990, introdotta dalla legge n. 15 del 2005".
Tale disposizione -al secondo comma- stabilisce, infatti, che "Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
E sarebbe "incontestabile", secondo la Corte di merito, che "nel caso in esame non si sarebbe potuto pervenire ad un provvedimento diverso rispetto all'annullamento per autotutela della procedura di assegnazione della licenza di autonoleggio da autorimessa di autobus, anche a fronte della eventuale partecipazione del Fe.. E ciò per un duplice ordine di ragioni:
   a) in considerazione del fatto che la mancata eliminazione dell'illegittimità del procedimento di assegnazione della licenza (approvazione della Giunta Regionale in data 27.07.1994, ossia dopo la pubblicazione del bando di gara, e mancato rispetto degli obblighi di pubblicità previsti dall'art. 13 del Regolamento Comunale) costituirebbe violazione dell'interesse pubblico al ripristino della legalità;
   b) al fine di evitare ricorsi di terzi controinteressati, nel caso di omesso annullamento
".
2.2.1. Orbene, è bensì vero che -secondo l'orientamento di una parte della giurisprudenza amministrativa- l'articolo 21-octies, comma 2, della legge 241/1990 -oltre a riprendere orientamenti già vigenti, che consideravano il principio ivi espresso come immanente nel sistema- è norma di carattere processuale e pertanto, in quanto tale, applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge n. 15 del 2005.
E tuttavia, la medesima giurisprudenza ha avuto cura di precisare che, con riferimento alla mancata comunicazione di avvio, la disposizione in parola non può comunque, anche per fattispecie anteriori, essere applicata d'ufficio dal giudice, ma solo "ope exceptionis" da parte dell'amministrazione, alla quale incombe altresì l'onere di dimostrare che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso (cfr. C. St. 3048/2013).
Nel caso di specie, la Corte territoriale ha, per contro, applicato la disposizione in parola in assenza dell'eccezione suddetta - la cui proposizione non si rileva in alcun modo dall'impugnata sentenza, e senza dare conto, nella decisione impugnata, dell'eventuale esistenza di specifici e concreti elementi di prova (richiesi anche dalla giurisprudenza precedente la legge n. 15 del 2005, che ha introdotto l'art. 21-octies) in ipotesi forniti dall'amministrazione sul piano della conformazione concreta dell'oggetto del provvedimento, al di là del generico ed astratto interesse al ripristino della legalità, circa il fatto che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso, anche nel caso in cui il Fe. fosse stato invitato a partecipare al procedimento.
2.2.2. In mancanza di tali indispensabili precisazioni, non desumibili dalla decisione di appello, non possono che trovare applicazione, pertanto, nel caso di specie, i principi enunciati dalla giurisprudenza amministrativa con specifico riferimento alla fattispecie, ricorrente nel caso concreto, di annullamento di ufficio di una gara. Si è, per vero, affermato -al riguardo- che la presentazione della domanda di partecipazione alla gara per l'appalto-concorso e con la predisposizione e l'inoltro dell'offerta, i soggetti concorrenti assumono una posizione differenziata e qualificata.
Di conseguenza,
ove la medesima amministrazione che ha bandito la gara intenda annullarla in autotutela, deve provvedere, ai sensi degli art. 7 e 8 l. n. 241/1990 a comunicare loro l'avviso di avvio del relativo procedimento, con la conseguenza che è illegittimo, per violazione dei canoni partecipativi di cui agli artt. 7 e 8, l. 07.08.1990 n. 241, il provvedimento con il quale la stazione appaltante annulla d'ufficio la gara dopo che erano state espletate le formalità di apertura delle offerte ed essa aveva avuto conoscenza delle ditte partecipanti, senza aver dato a queste ultime previo avviso d'inizio del procedimento di autotutela (cfr. C. St. 17/2009).
Nel caso concreto, per contro, la sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione di tali principi, e soprattutto di quanto statuito dalla decisione n. 3666/2006 di questa Corte, secondo la quale il giudice di rinvio avrebbe dovuto verificare la legittimità della delibera di annullamento della procedura concorsuale "sotto il profilo della necessità della comunicazione dell'avvio del procedimento, ai sensi dell'art. 7 della legge 07.08.1990, n. 241".
La Corte di Appello si è, difatti, limitata ad affermare che "anche a fronte dell'eventuale partecipazione del Fe. alla procedura" il provvedimento di annullamento in via di autotutela non avrebbe potuto essere diverso, facendo riferimento -non a specifiche ragioni inerenti la concreta determinazione del provvedimento, sul piano del dispiegamento della funzione amministrativa di autotutela- bensì operando un generico riferimento ad astratte esigenze di ripristino della legalità e ad ipotetiche, quanto improbabili, azioni di terzi.
2.3. Ma egualmente carente, sul piano del rispetto delle statuizioni contenute nella decisione rescindente di questa Corte n. 3666/2006, si palesa l'impugnata sentenza quanto al profilo della natura discrezionale e non vincolata del provvedimento di autotutela, che in quanto tale comporta, secondo quanto affermato nella predetta decisione di legittimità, "una valutazione comparativa tra l'interesse pubblico alla rimozione della illegittimità e l'interesse privato alla conservazione dell'atto che 'medio tempore' ha prodotto effetti e suscitato legittime aspettative".
2.3.1.
E' del tutto pacifico, infatti, che l'annullamento in autotutela presuppone, oltre all'illegittimità dell'atto, valide ed esplicite ragioni di interesse pubblico ed il provvedimento deve intervenire entro un termine ragionevole e previa valutazione degli interessi dei destinatari dell'atto da rimuovere. L'autotutela non può essere, invero, finalizzata al mero ripristino della legalità violata, dovendo essere il risultato di un'attività istruttoria adeguata, che dia conto della valutazione dell'interesse pubblico e di quello del privato che ha riposto affidamento nella conservazione dell'atto (cfr., ex plurimis, C. St. 1265/2014; 2940/2014; 1798/2016).
2.3.2. Per converso, nel caso di specie, il Comune di Arcene -con comunicazione del 15.05.1993, trascritta nel ricorso (p. 3)- si limitò a sospendere -non a denegare- la licenza di autonoleggio da rimessa per autobus (accordando al Fe. solo quella di autonoleggio da rimessa di autovetture), in attesa dell'approvazione regionale.
Sopravvenuta, quindi, tale approvazione con provvedimento n. 55279 del 27.07.1994, il Fe. sollecitava per due volte (in data 18.10.1994 ed in data 17.11.1994) il Comune al rilascio della predetta licenza. Con delibera n. 435 del 18.11.1994 l'ente pubblico comunicava, invece, il rigetto dell'istanza per le ragioni formali dianzi dette. Ciò posto, è evidente che la Corte territoriale, in sede di rinvio, avrebbe dovuto -in ottemperanza a quanto disposto da questa Corte nella sentenza n. 3666/2006 ed in applicazione dei principi affermati dalla giurisprudenza amministrativa succitata- accertare quale interesse pubblico specifico e concreto, al di là di quello, insufficiente a giustificare l'annullamento di un atto amministrativo in via di autotutela, del ripristino della legalità, fosse stato -in ipotesi- posto dall'amministrazione comunale a fondamento dell'annullamento in questione.
La Corte di merito avrebbe dovuto, inoltre, operare -come stabilito da questa Corte- una valutazione comparativa "tra l'interesse pubblico alla rimozione della illegittimità e l'interesse privato alla conservazione dell'atto che 'medio tempore' ha prodotto effetti e suscitato legittime aspettative".
Per converso, il giudice di rinvio non ha in alcun modo evidenziato la sussistenza di un interesse specifico e concreto alla rimozione dell'atto in capo all'amministrazione, diverso da quelle generale ed astratto al ripristino della legalità, né si è curata di accertare se l'annullamento della procedura concorsuale, solo sospesa nelle more dell'approvazione regionale, e disposto quando detta approvazione era stata ormai concessa, avesse fatto venire meno effetti già prodotti da tale atto o leso legittime aspettative del privato, come statuito dalla sentenza di questa Corte n. 3666/2006.
2.3. Per tutte le ragioni esposte, pertanto, la censura deve essere accolta.
3. L'accoglimento del ricorso comporta la cassazione dell'impugnata sentenza, con rinvio alla Corte di Appello di Brescia in diversa composizione, che dovrà procedere a nuovo esame della controversia facendo applicazione dei seguenti principi di diritto:
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l'articolo 21-octies, comma 2, della legge 241/1990, oltre a riprendere orientamenti già vigenti, che consideravano il principio ivi espresso come immanente nel sistema, è norma di carattere processuale e pertanto, in quanto tale, applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge n. 15 del 2005, e tuttavia, con riferimento alla mancata comunicazione di avvio, la disposizione in parola non può comunque, anche per fattispecie anteriori, essere applicata d'ufficio dal giudice, ma solo "ope exceptionis" da parte dell'amministrazione, alla quale incombe altresì l'onere di dimostrare che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso";
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con la presentazione della domanda di partecipazione alla gara per l'appalto-concorso e con la predisposizione e l'inoltro dell'offerta, i soggetti concorrenti assumono una posizione differenziata e qualificata, per cui, ove l'amministrazione che ha bandito la gara intenda annullarla in autotutela, deve provvedere, ai sensi degli art. 7 e 8 l. n. 241/1990 a comunicare loro l'avviso di avvio del relativo procedimento, con la conseguenza che è illegittimo, per violazione dei canoni partecipativi di cui agli artt. 7 e 8, l. 07.08.1990 n. 241, il provvedimento con il quale la stazione appaltante annulla d'ufficio la gara, senza aver dato alle imprese partecipanti previo avviso d'inizio del procedimento di autotutela";
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l'annullamento in autotutela presuppone, oltre all'illegittimità dell'atto, valide ed esplicite ragioni di interesse pubblico ed il provvedimento deve intervenire entro un termine ragionevole e previa valutazione degli interessi dei destinatari dell'atto da rimuovere, non potendo l'autotutela essere finalizzata al mero ripristino della legalità violata, ma dovendo la medesima essere il risultato di un'attività istruttoria adeguata che dia conto della valutazione dell'interesse pubblico e di quello del privato che ha riposto affidamento nella conservazione dell'atto" (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 11.01.2017 n. 511).

APPALTI: Nelle gare il passato non conta. Sentenza del tribunale amministrativo di Lecce.
Grazie al nuovo codice dei contratti pubblici l'impresa non può essere esclusa da una gara d'appalto solo perché in passato è scattata la risoluzione di un analogo contratto in cui è parte ad opera di un'altra amministrazione. A patto, però, che la società abbia impugnato la precedente decisione del comune: a differenza di quanto accadeva con le vecchie norme, infatti, la controversia sub iudice non integra «i gravi requisiti professionali» che possono determinare l'estromissione dalla procedura a evidenza pubblica. E ciò anche se l'azienda si è vista rigettare dal giudice l'istanza cautelare che aveva proposto nell'ambito della controversia instaurata davanti al tribunale delle imprese.

Emerge dalla
sentenza 22.12.2016 n. 1935 dalla III Sez. del TAR Puglia-Lecce.
Accolto il ricorso proposto dalla società igiene ambientale esclusa dalla stazione unica appaltante dalla procedura negoziata per l'affidamento del servizio di raccolta rifiuti nel comune: è annullata l'aggiudicazione provvisoria dell'appalto all'impresa controinteressata.
Il punto è che un'amministrazione locale di un'altra regione ha già sciolto un altro contratto relativo alla gestione dei rifiuti rilevando «gravi carenze» nell'esecuzione dell'appalto. Ma ciò non basta a legittimare l'esclusione perché l'articolo 80, quinto comma lettera c) del decreto legislativo 50/2016 ha innovato la disciplina previgente di cui all'articolo 38, primo comma lettera f) del decreto legislativo 163/06: oggi l'estromissione scatta solo se l'azienda esclusa non si rivolge al giudice contro la risoluzione del contratto precedente o la sussistenza dei gravi motivi professionali risulta «confermata a seguito di un giudizio».
E dunque risulta irrilevante anche il no all'istanza cautelare pronunciata dal tribunale delle imprese. Né si può disapplicare il nuovo codice dei contratti per una presunta contrarietà alla direttiva 2014/24/Ue, che pure è stata recepita dal decreto legislativo 50/2016: deve escludersi la normativa eurounitaria sia self executing perché non ha un carattere completo e dettagliato. Spese di giudizio interamente compensate per la novità del caso (articolo ItaliaOggi Sette del 24.04.2017).

EDILIZIA PRIVATALa questione concernente la determinazione dell’an e del quantum del contributo di costruzione comporta l’esplicazione, da parte dell’Amministrazione, di un’attività priva di profili di discrezionalità e attinente a posizioni giuridiche di diritto soggettivo.
Conseguentemente, sono radicalmente inconfigurabili i vizi di difetto di istruttoria e di motivazione.
E ciò in quanto le operazioni di corretta quantificazione della misura del contributo “si esauriscono in una mera operazione materiale che, se errata, può comportare soltanto la violazione dei criteri fissati dalla normativa ovvero dall'amministrazione con norme di natura regolamentare e, quindi, la sussistenza del solo vizio di violazione di legge, potendo l'interessato, sulla base dei predetti criteri generali, contestare l'erroneità della quantificazione operata dall'amministrazione, evidenziando ad esempio l'erroneità dei calcoli ovvero dei presupposti di fatto o di diritto”.
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Nell’ordinamento giuridico vige la regola generale dell’onerosità del permesso di costruire.
Si tratta di un principio introdotto dall’articolo 1 della legge 28.01.1977, n. 10 –in base al quale “Ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi (...)”– e oggi sancito dall’articolo 11, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, ove si conferma l’onerosità del permesso.
A fronte di tale regime generale, la disciplina primaria stabilisce una serie di ipotesi, indicate all’articolo 17 del d.P.R. n. 380 del 2001, di riduzione o di esonero dal contributo di costruzione. Tali ultime previsioni normative –secondo gli orientamenti espressi dalla giurisprudenza– sono tuttavia da ritenere “tassative e di stretta interpretazione”, proprio in quanto “derogatorie rispetto alla regola della normale onerosità del permesso” e, inoltre, perché qualificabili come esenzioni tributarie, come tali costituenti eccezioni al principio costituzionale di capacità contributiva.
Poste tali considerazioni, deve rilevarsi che –come sopra detto– l’articolo 17, comma 3, lett. c) del d.P.R. n. 380 del 2001, invocato dalla ricorrente, contempla anzitutto, quali trasformazioni edificatorie esonerate dal contributo di costruzione, “gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti”.
Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che, per integrare la fattispecie normativa, è necessario il concorso di due requisiti, l’uno di carattere oggettivo e l’altro di carattere soggettivo.
Per effetto del primo, la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale; per effetto del secondo, le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente.
La ratio della norma è anzitutto quella di agevolare l'esecuzione di opere destinate al soddisfacimento di interessi pubblici o dalle quali la collettività possa comunque trarre una utilità. Il legislatore ha quindi inteso evitare “l'imposizione degli oneri concessori al soggetto che interviene per l'istituzionale attuazione del pubblico interesse”; imposizione che “sarebbe altrimenti intimamente contraddittoria, poiché verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi dal loro pagamento”.
In tale prospettiva, la giurisprudenza ha altresì chiarito –con riferimento al requisito soggettivo– che per “enti istituzionalmente competenti” debbano intendersi i soggetti pubblici, ovvero anche i soggetti privati, purché l’opera sia realizzata per conto di un ente pubblico.
In particolare, con riferimento a questa seconda ipotesi, “l’esenzione spetta soltanto qualora (come avviene nella concessione di opera pubblica e in altre analoghe figure organizzatorie) lo strumento contrattuale utilizzato consenta formalmente di imputare la realizzazione del bene direttamente all’ente per conto del quale il privato abbia operato. In altri termini, l’esenzione spetta solo se il privato abbia agito quale organo indiretto dell’amministrazione, come appunto nella concessione o nella delega”.
E l’esattezza della soluzione in base alla quale si richiede che l’opera sia realizzata direttamente da enti pubblici ovvero da soggetti che agiscono per conto di enti pubblici è confermata non soltanto “dall'endiadi: "opere pubbliche o di interesse generale", che rinvia ad una figura soggettiva pubblica, ma dal fatto che nella sola seconda parte della proposizione normativa, concernente le opere di urbanizzazione, la disposizione reca la specifica indicazione: "eseguite anche da privati". Ne esce quindi caricata di ulteriore valore semantico la locuzione: "enti istituzionalmente competenti", che non può riferirsi che ad enti pubblici o a soggetti che agiscono per conto degli stessi”.
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E’ indubitabile che l’intervento di ristrutturazione dell’Istituto di ricovero e cura costituisca un’opera di interesse generale. Non può, invece, ritenersi che l’Associazione ricorrente sia qualificabile quale “ente istituzionalmente competente”.
Si tratta, infatti, di un soggetto che non ha natura pubblica e che non ha agito per conto di una pubblica amministrazione. E la mera circostanza che l’Istituto operi in regime di accreditamento con il servizio sanitario nazionale non comporta, di per sé, l’esistenza di un rapporto organizzatorio con la pubblica amministrazione, tale da determinare la riferibilità dell’opera realizzata a un ente pubblico.
Sotto altro profilo, il Collegio ritiene altresì non dirimente, al fine di qualificare l’Associazione come “ente istituzionalmente competente”, la circostanza che si tratti di un soggetto privo di finalità lucrative.
L’assenza di scopo di lucro è, infatti, una circostanza che attiene unicamente alla funzionalità interna della persona giuridica, la quale non potrà redistribuire gli eventuali utili derivanti dall’attività svolta. Si tratta, tuttavia, di un elemento che, in sé considerato, non è sufficiente a determinare la riferibilità dell’opera a un ente pubblico, che è quanto richiesto dalla norma al fine di rendere operativa l’esenzione.
Tale conclusione trova conferma anche nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, la quale ha evidenziato che la natura di ONLUS del soggetto che realizza l’intervento non soddisfa il prescritto requisito soggettivo, laddove –come avviene anche nel caso oggetto del presente giudizio– le opere sono destinate a rimanere nella disponibilità del privato, e non sono vincolate neppure a vedere conservata nel tempo la loro funzione.
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Deve rilevarsi che la disposizione ex art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001 richiede, ai fini dell’esenzione dal versamento del contributo di costruzione, non soltanto che si sia in presenza di un’opera di urbanizzazione, ma che questa sia altresì realizzata in attuazione di strumenti urbanistici.
Nel caso oggetto del presente giudizio, l’Istituto di ricovero e cura gestito dalla ricorrente è bensì astrattamente riconducibile nel novero delle opere di urbanizzazione secondaria –ai sensi dell’articolo 16, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001– in quanto rientrante tra le “attrezzature sanitarie”, ma non è stato realizzato in attuazione dello strumento urbanistico.
Invero, risulta agli atti del giudizio che l’opera ricade in Zona F2, destinata a ospitare “Servizi tecnologici e di interesse generale” e disciplinata dall’articolo 53 delle NTA del Piano delle Regole; zona ove sono localizzate “attrezzature pubbliche e/o private con funzioni di interesse generale”.
Al riguardo, la difesa comunale ha ben evidenziato che gli spazi per attrezzature pubbliche e collettive prescritti dall’articolo 9 della legge regionale n. 12 del 2005 sono classificati dallo strumento urbanistico non quale Zona F2, ma come “ZONA F1 (aree di servizi di uso pubblico e interesse comune)”, soggetta alla disciplina dell’articolo 52 delle NTA del Piano delle Regole. Solo tali spazi sono, quindi, specificamente destinati a standard urbanistici.
Al contrario, le aree classificate come Zona F2 non sono state prese in considerazione dallo strumento urbanistico al fine della verifica della dotazione di aree di uso pubblico a servizio di insediamenti residenziali e non danno luogo a standard urbanistici. Si tratta, infatti, di aree che comprendono compendi immobiliari aventi varia destinazione («Ambiti per servizi tecnologici», «Complesso socio-assistenziale, sanitario, ospedaliero “La Nostra Famiglia”», «Crossodromo Bodrone», «Villa Mira»), tutti caratterizzati dal soddisfacimento di finalità di interesse generale, ma non costituenti opere che il Comune ha reputato necessarie al fine dell’urbanizzazione dell’ambito entro il quale ricadono, tanto da non averle prese in considerazione ai fini del calcolo della relativa dotazione di standard.
Si tratta, in altri termini, di compendi immobiliari rispetto ai quali lo strumento urbanistico ha sostanzialmente operato una ricognizione, qualificandoli come attrezzature con funzioni di interesse generale, ma non quali opere indispensabili per assicurare i servizi necessari alla comunità insediata.
Da ciò derivano due considerazioni.
Sotto un primo profilo, poiché l’intervento oggetto del presente giudizio non è posto a servizio dell’urbanizzazione del territorio comunale, o di una porzione di questo, esso non dà luogo a un’opera di urbanizzazione, pur rientrando nelle categorie astrattamente indicate all’articolo 16, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001.
E invero, perché un’opera sia qualificabile come opera di urbanizzazione secondaria è necessario che essa sia direttamente funzionale a un ben preciso insediamento urbano. E ciò in considerazione della circostanza che “le opere di urbanizzazione secondaria hanno tendenzialmente una dimensione comunale o infra-comunale, in quanto finalizzate a migliorare il grado di fruibilità di uno specifico e circoscritto insediamento urbano mediante la creazione da parte dell’ente locale di determinate strutture di supporto per servizi fruibili da quella comunità”.
Conseguentemente, un centro ospedaliero contemplato dallo strumento urbanistico quale attrezzatura con funzioni di interesse generale, ma non previsto quale dotazione di standard a servizio di un ambito territoriale, di per sé non è qualificabile come opera di urbanizzazione secondaria.
Sotto altro, concorrente, profilo, la circostanza che –come detto– il Piano di Governo del Territorio si sia limitato a riconoscere la presenza sul territorio e l’interesse generale di una congerie assai diversificata di opere esistenti, indicandole con una medesima classificazione, senza però prenderle in considerazione quali dotazioni di servizi necessarie alla collettività, implica che tali opere debbano bensì reputarsi conformi allo strumento urbanistico, ma non attuative delle relative previsioni. Si tratta infatti di opere che non devono, ma possono essere presenti sul territorio comunale, per cui, laddove le attività che in esse si svolgono dovessero essere dismesse dai privati, non insorgerebbe l’obbligo per l’Amministrazione di assicurare in altro modo la soddisfazione delle dotazioni di servizi in favore della comunità insediata.
La validità della predetta distinzione tra opere meramente conformi, o specificamente attuative, del piano è stata, del resto, anche di recente ribadita dalla giurisprudenza, la quale ha esplicitamente affermato che la semplice riconduzione all’astratta tipologia di opera di urbanizzazione secondaria non può considerarsi sufficiente ai fini dell’esenzione del contributo, essendo necessario altresì che l’intervento sia attuativo di una specifica previsione di piano.
E, in questo senso, non può ritenersi pertinente il richiamo, operato dalla ricorrente, alla sentenza della IV Sezione del Consiglio di Stato 12.05.2011, n. 2870, al fine di sostenere che qualunque opera rientrante astrattamente nel novero delle opere di urbanizzazione, e realizzata in conformità allo strumento urbanistico, debba beneficiare dell’esenzione. La fattispecie decisa dal Consiglio di Stato riguardava, infatti, la costruzione di un’opera che corrispondeva a una puntuale previsione dello strumento urbanistico, il quale destinava specificamente un’area a servizi ospedalieri e sanitari.
Come detto, nel caso oggetto del presente giudizio, l’opera ricade, invece, in una zona avente una destinazione generica ad attrezzature con funzioni di interesse generale, in relazione alla quale il Comune ha operato una ricognizione di strutture esistenti, pur classificandole come di interesse generale, assicurando, per questa via, la mera compatibilità delle stesse con lo strumento urbanistico, senza però sancirne la necessità in relazione alle esigenze attinenti alle dotazioni di servizi in favore della comunità insediata.
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... per l'accertamento della non debenza del contributo di costruzione per l'esecuzione dell'intervento di ristrutturazione edilizia oggetto del permesso di costruire n. 39/2013 e per la conseguente condanna del Comune di Bosisio Parini alla restituzione delle somme versate a tale titolo dall’Associazione ricorrente, maggiorate degli interessi legali maturati dalla data della domanda giudiziale all'effettiva restituzione;
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1. La ricorrente Associazione “La nostra famiglia” (di seguito anche: l’Associazione) è un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, avente carattere di organizzazione non lucrativa di utilità sociale (ONLUS), che gestisce, nel territorio del Comune di Bosisio Parini, l’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico “Eugenio Medea” e un centro di riabilitazione, operando, per entrambe tali strutture, in regime di accreditamento con l’Azienda sanitaria della Provincia di Lecco.
2. L’Associazione ha chiesto al Comune il rilascio di un permesso di costruire per la ristrutturazione edilizia di un padiglione dell’Istituto “Eugenio Medea”.
In data 03.10.2013, l’Amministrazione ha comunicato l’emanazione del titolo edilizio, chiedendo tuttavia alla parte istante di produrre il calcolo analitico degli oneri dovuti per l’intervento, da corrispondersi prima del ritiro del permesso di costruire.
L’Associazione ha a questo punto prodotto le proprie controdeduzioni, ritenendo di non essere tenuta al versamento del contributo di costruzione.
A seguito di interlocuzioni tra le parti, la Giunta comunale, con deliberazione del 01.04.2015, n. 37, ha infine ribadito di ritenere dovuta la corresponsione degli oneri per il rilascio del titolo edilizio. L’Ufficio tecnico comunale ha quindi emesso la nota del 15.04.2015, con la quale è stato chiesto all’Associazione il versamento, a titolo di contributo di costruzione, dell’importo complessivo di euro 188.329,57; somma di cui la ricorrente ha chiesto e ottenuto la rateizzazione, riservandosi tuttavia di agire in giudizio per contestare la sussistenza dell’obbligazione.
3. L’Associazione ha quindi proposto il presente ricorso, con il quale ha chiesto a questo Giudice di accertare e dichiarare che nessun contributo è dovuto per la realizzazione dell’intervento di ristrutturazione, condannando conseguentemente il Comune alla restituzione delle somme già versate dalla ricorrente, maggiorate degli interessi legali dal giorno della domanda giudiziale, previo annullamento –occorrendo– degli atti comunali specificati in epigrafe.
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7. Il ricorso è infondato, per le ragioni che si espongono di seguito.
8. L’Associazione sostiene di non essere tenuta al versamento degli oneri per la realizzazione dell’intervento di ristrutturazione edilizia, in base alle previsioni dell’articolo 17, comma 3, lett. c), del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2011, n. 380; disposizione, questa, per la quale il contributo di costruzione non è dovuto “per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
La ricorrente ritiene l’intervento pienamente riconducibile entro il perimetro applicativo di entrambe fattispecie contemplate dalla previsione normativa ora richiamata. Le opere sarebbero, infatti, annoverabili tra “gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti” (primo motivo di ricorso) e, comunque, costituirebbero anche “opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici” (secondo motivo).
Sotto altro profilo, la parte allega la violazione dell’articolo 3 della legge n. 241 del 1990, nonché il vizio di eccesso di potere per carenza di istruttoria, carenza di motivazione e contraddittorietà, poiché l’Amministrazione non avrebbe illustrato le ragioni per le quali ha ritenuto di non aderire alle argomentazioni dell’Associazione in ordine al ricorrere di un’ipotesi di esonero dal versamento del contributo di costruzione (terzo motivo di ricorso).
9. Il Collegio ritiene, per ragioni di ordine logico, di dover prendere le mosse da quest’ultima censura.
9.1 La doglianza non può trovare accoglimento, per la ragione dirimente che la questione concernente la determinazione dell’an e del quantum del contributo di costruzione comporta l’esplicazione, da parte dell’Amministrazione, di un’attività priva di profili di discrezionalità (v., tra le ultime: Cons. Stato, Sez. IV, 18.05.2016, n. 2011) e attinente a posizioni giuridiche di diritto soggettivo (ex multis: Cons. Stato, Sez. IV, 21.08.2013, n. 4208). Conseguentemente, sono radicalmente inconfigurabili i vizi di difetto di istruttoria e di motivazione (Cons. Stato, Sez. IV, 10.03.2015, n. 1211).
E ciò in quanto le operazioni di corretta quantificazione della misura del contributo “si esauriscono in una mera operazione materiale che, se errata, può comportare soltanto la violazione dei criteri fissati dalla normativa ovvero dall'amministrazione con norme di natura regolamentare e, quindi, la sussistenza del solo vizio di violazione di legge, potendo l'interessato, sulla base dei predetti criteri generali, contestare l'erroneità della quantificazione operata dall'amministrazione, evidenziando ad esempio l'erroneità dei calcoli ovvero dei presupposti di fatto o di diritto” (Cons. Stato, Sez. V, 29.07. 2000, n. 4217; nello stesso senso: TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 08.09.2011, n. 2189).
9.2 Il terzo motivo di ricorso va quindi respinto.
10. Può passarsi, a questo punto, alla trattazione dei primi due mezzi, con i quali –come detto– l’Associazione allega di versare in entrambe le fattispecie contemplate dall’articolo 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001, e di aver pertanto diritto all’esenzione dal contributo di costruzione.
11. Al riguardo, mette conto anzitutto di ricordare che nell’ordinamento giuridico vige la regola generale dell’onerosità del permesso di costruire.
Si tratta di un principio introdotto dall’articolo 1 della legge 28.01.1977, n. 10 –in base al quale “Ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi (...)”– e oggi sancito dall’articolo 11, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, ove si conferma l’onerosità del permesso.
A fronte di tale regime generale, la disciplina primaria stabilisce una serie di ipotesi, indicate all’articolo 17 del d.P.R. n. 380 del 2001, di riduzione o di esonero dal contributo di costruzione. Tali ultime previsioni normative –secondo gli orientamenti espressi dalla giurisprudenza– sono tuttavia da ritenere “tassative e di stretta interpretazione”, proprio in quanto “derogatorie rispetto alla regola della normale onerosità del permesso” (Cons. Stato, Sez. IV, 11.02.2016, n. 595) e, inoltre, perché qualificabili come esenzioni tributarie, come tali costituenti eccezioni al principio costituzionale di capacità contributiva (TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 23.10.2014, n. 1111).
12. Poste tali considerazioni, deve rilevarsi che –come sopra detto– l’articolo 17, comma 3, lett. c) del d.P.R. n. 380 del 2001, invocato dalla ricorrente, contempla anzitutto, quali trasformazioni edificatorie esonerate dal contributo di costruzione, “gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti”.
12.1 Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che, per integrare la fattispecie normativa, è necessario il concorso di due requisiti, l’uno di carattere oggettivo e l’altro di carattere soggettivo.
Per effetto del primo, la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale; per effetto del secondo, le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente (ex multis: Cons. Stato, Sez. V, 11.01.2006, n. 51; Id. 20.10.2004, n. 6818; Id., 10.07.2000, n. 3860).
La ratio della norma –è stato inoltre rilevato– è anzitutto quella di agevolare l'esecuzione di opere destinate al soddisfacimento di interessi pubblici o dalle quali la collettività possa comunque trarre una utilità (Cons. Stato, n. 51 del 2006, cit.). Il legislatore ha quindi inteso evitare “l'imposizione degli oneri concessori al soggetto che interviene per l'istituzionale attuazione del pubblico interesse”; imposizione che “sarebbe altrimenti intimamente contraddittoria, poiché verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi dal loro pagamento” (così ancora Cons. Stato, n. 51 del 2006, cit.).
12.2 In tale prospettiva, la giurisprudenza ha altresì chiarito –con riferimento al requisito soggettivo– che per “enti istituzionalmente competenti” debbano intendersi i soggetti pubblici, ovvero anche i soggetti privati, purché l’opera sia realizzata per conto di un ente pubblico.
In particolare, con riferimento a questa seconda ipotesi, “l’esenzione spetta soltanto qualora (come avviene nella concessione di opera pubblica e in altre analoghe figure organizzatorie) lo strumento contrattuale utilizzato consenta formalmente di imputare la realizzazione del bene direttamente all’ente per conto del quale il privato abbia operato. (cfr. ex multis V Sez. n. 536 del 1999 e n. 1901 del 2000). In altri termini, l’esenzione spetta solo se il privato abbia agito quale organo indiretto dell’amministrazione, come appunto nella concessione o nella delega” (Cons. Stato, n. 595 del 2016, cit.).
E –come pure rilevato dalla giurisprudenza– l’esattezza della soluzione in base alla quale si richiede che l’opera sia realizzata direttamente da enti pubblici ovvero da soggetti che agiscono per conto di enti pubblici è confermata non soltanto “dall'endiadi: "opere pubbliche o di interesse generale", che rinvia ad una figura soggettiva pubblica, ma dal fatto che nella sola seconda parte della proposizione normativa, concernente le opere di urbanizzazione, la disposizione reca la specifica indicazione: "eseguite anche da privati". Ne esce quindi caricata di ulteriore valore semantico la locuzione: "enti istituzionalmente competenti", che non può riferirsi che ad enti pubblici o a soggetti che agiscono per conto degli stessi” (Cons. Stato, n. 51 del 2006, cit.).
12.3 Poste tali coordinate ermeneutiche, deve ritenersi che, nel caso oggetto del presente giudizio, sia riscontrabile soltanto il requisito oggettivo richiesto dalla previsione normativa, ma non anche il requisito soggettivo.
E’ infatti indubitabile che l’intervento di ristrutturazione dell’Istituto di ricovero e cura costituisca un’opera di interesse generale (anche alla luce delle previsioni di piano, delle quali si tratterà nello scrutinare il secondo motivo di ricorso).
Non può, invece, ritenersi che l’Associazione “La nostra famiglia” sia qualificabile quale “ente istituzionalmente competente”.
Si tratta, infatti, di un soggetto che non ha natura pubblica e che non ha agito per conto di una pubblica amministrazione. E la mera circostanza che l’Istituto operi in regime di accreditamento con il servizio sanitario nazionale non comporta, di per sé, l’esistenza di un rapporto organizzatorio con la pubblica amministrazione, tale da determinare la riferibilità dell’opera realizzata a un ente pubblico.
Sotto altro profilo, il Collegio ritiene altresì non dirimente, al fine di qualificare l’Associazione come “ente istituzionalmente competente”, la circostanza che si tratti di un soggetto privo di finalità lucrative.
L’assenza di scopo di lucro è, infatti, una circostanza che attiene unicamente alla funzionalità interna della persona giuridica, la quale non potrà redistribuire gli eventuali utili derivanti dall’attività svolta. Si tratta, tuttavia, di un elemento che, in sé considerato, non è sufficiente a determinare la riferibilità dell’opera a un ente pubblico, che è quanto richiesto dalla norma al fine di rendere operativa l’esenzione.
Tale conclusione trova conferma anche nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, la quale ha evidenziato che la natura di ONLUS del soggetto che realizza l’intervento non soddisfa il prescritto requisito soggettivo, laddove –come avviene anche nel caso oggetto del presente giudizio– le opere sono destinate a rimanere nella disponibilità del privato, e non sono vincolate neppure a vedere conservata nel tempo la loro funzione (Cons. Stato, n. 51 del 2006, cit.).
12.4 In definitiva, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, il primo motivo di ricorso deve essere respinto.
13. E’ altresì infondato il secondo motivo, con il quale la ricorrente afferma che l’intervento rientrerebbe comunque nella seconda fattispecie contemplata dall’articolo 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto annoverabile tra le “opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
13.1 Al riguardo, deve rilevarsi che la disposizione normativa richiede, ai fini dell’esenzione, non soltanto che si sia in presenza di un’opera di urbanizzazione, ma che questa sia altresì realizzata in attuazione di strumenti urbanistici.
Nel caso oggetto del presente giudizio, l’Istituto di ricovero e cura gestito dalla ricorrente è bensì astrattamente riconducibile nel novero delle opere di urbanizzazione secondaria –ai sensi dell’articolo 16, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001– in quanto rientrante tra le “attrezzature sanitarie”, ma non è stato realizzato in attuazione dello strumento urbanistico.
13.2 In particolare, risulta agli atti del giudizio che l’opera ricade in Zona F2, destinata a ospitare “Servizi tecnologici e di interesse generale” e disciplinata dall’articolo 53 delle NTA del Piano delle Regole; zona ove sono localizzate “attrezzature pubbliche e/o private con funzioni di interesse generale”.
Al riguardo, la difesa comunale ha ben evidenziato che gli spazi per attrezzature pubbliche e collettive prescritti dall’articolo 9 della legge regionale n. 12 del 2005 sono classificati dallo strumento urbanistico non quale Zona F2, ma come “ZONA F1 (aree di servizi di uso pubblico e interesse comune)”, soggetta alla disciplina dell’articolo 52 delle NTA del Piano delle Regole. Solo tali spazi sono, quindi, specificamente destinati a standard urbanistici.
Al contrario, le aree classificate come Zona F2 non sono state prese in considerazione dallo strumento urbanistico al fine della verifica della dotazione di aree di uso pubblico a servizio di insediamenti residenziali e non danno luogo a standard urbanistici. Si tratta, infatti, di aree che comprendono compendi immobiliari aventi varia destinazione («Ambiti per servizi tecnologici», «Complesso socio-assistenziale, sanitario, ospedaliero “La Nostra Famiglia”», «Crossodromo Bodrone», «Villa Mira»), tutti caratterizzati dal soddisfacimento di finalità di interesse generale, ma non costituenti opere che il Comune ha reputato necessarie al fine dell’urbanizzazione dell’ambito entro il quale ricadono, tanto da non averle prese in considerazione ai fini del calcolo della relativa dotazione di standard.
Si tratta, in altri termini, di compendi immobiliari rispetto ai quali lo strumento urbanistico ha sostanzialmente operato una ricognizione, qualificandoli come attrezzature con funzioni di interesse generale, ma non quali opere indispensabili per assicurare i servizi necessari alla comunità insediata.
Da ciò derivano due considerazioni.
13.3 Sotto un primo profilo, poiché l’intervento oggetto del presente giudizio non è posto a servizio dell’urbanizzazione del territorio comunale, o di una porzione di questo, esso non dà luogo a un’opera di urbanizzazione, pur rientrando nelle categorie astrattamente indicate all’articolo 16, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001.
E invero, perché un’opera sia qualificabile come opera di urbanizzazione secondaria è necessario che essa sia direttamente funzionale a un ben preciso insediamento urbano. E ciò in considerazione della circostanza che “le opere di urbanizzazione secondaria hanno tendenzialmente una dimensione comunale o infra-comunale, in quanto finalizzate a migliorare il grado di fruibilità di uno specifico e circoscritto insediamento urbano mediante la creazione da parte dell’ente locale di determinate strutture di supporto per servizi fruibili da quella comunità” (Cons. Stato, n. 595 del 2016, cit.).
Conseguentemente, un centro ospedaliero contemplato dallo strumento urbanistico quale attrezzatura con funzioni di interesse generale, ma non previsto quale dotazione di standard a servizio di un ambito territoriale, di per sé non è qualificabile come opera di urbanizzazione secondaria.
13.4 Sotto altro, concorrente, profilo, la circostanza che –come detto– il Piano di Governo del Territorio si sia limitato a riconoscere la presenza sul territorio e l’interesse generale di una congerie assai diversificata di opere esistenti, indicandole con una medesima classificazione, senza però prenderle in considerazione quali dotazioni di servizi necessarie alla collettività, implica che tali opere debbano bensì reputarsi conformi allo strumento urbanistico, ma non attuative delle relative previsioni. Si tratta infatti di opere che non devono, ma possono essere presenti sul territorio comunale, per cui, laddove le attività che in esse si svolgono dovessero essere dismesse dai privati, non insorgerebbe l’obbligo per l’Amministrazione di assicurare in altro modo la soddisfazione delle dotazioni di servizi in favore della comunità insediata.
13.5 La validità della predetta distinzione tra opere meramente conformi, o specificamente attuative, del piano è stata, del resto, anche di recente ribadita dalla giurisprudenza, la quale ha esplicitamente affermato che la semplice riconduzione all’astratta tipologia di opera di urbanizzazione secondaria non può considerarsi sufficiente ai fini dell’esenzione del contributo, essendo necessario altresì che l’intervento sia attuativo di una specifica previsione di piano (Cons. Stato, Sez. IV, 18.05.2016, n. 2011; TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 23.10.2014, n. 1111).
E, in questo senso, non può ritenersi pertinente il richiamo, operato dalla ricorrente, alla sentenza della IV Sezione del Consiglio di Stato 12.05.2011, n. 2870, al fine di sostenere che qualunque opera rientrante astrattamente nel novero delle opere di urbanizzazione, e realizzata in conformità allo strumento urbanistico, debba beneficiare dell’esenzione. La fattispecie decisa dal Consiglio di Stato riguardava, infatti, la costruzione di un’opera che corrispondeva a una puntuale previsione dello strumento urbanistico, il quale destinava specificamente un’area a servizi ospedalieri e sanitari.
Come detto, nel caso oggetto del presente giudizio, l’opera ricade, invece, in una zona avente una destinazione generica ad attrezzature con funzioni di interesse generale, in relazione alla quale il Comune ha operato una ricognizione di strutture esistenti, pur classificandole come di interesse generale, assicurando, per questa via, la mera compatibilità delle stesse con lo strumento urbanistico, senza però sancirne la necessità in relazione alle esigenze attinenti alle dotazioni di servizi in favore della comunità insediata.
13.6 Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, si conferma quindi il rigetto anche del secondo motivo di impugnazione.
14. In conclusione, l’intero ricorso deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.11.2016 n. 2011 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAffinché sia configurabile una «ristrutturazione edilizia», ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera d), del testo unico n. 380 del 2001 è indispensabile che la demolizione e la ricostruzione si verifichino «con la stessa volumetria» del manufatto preesistente.
Del tutto legittimamente, il Comune appellato ha qualificato le opere in questione come una «nuova costruzione», dal momento che vi è stato l’ampliamento di un preesistente manufatto, anche con modifica della «sagoma esistente»: si applica dunque l’art. 3, comma 1, lettera e1), del medesimo testo unico n. 380 del 2001 (quale disposizione primaria che ha previsto la necessità del permesso di costruire per la realizzazione della nuova costruzione).
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uando risulta la realizzazione di abusi edilizi, il Comune «deve senza indugio emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive» e cioè deve immediatamente emanare il provvedimento che ripristini la legalità.
Tale principio si fonda sul dato testuale dell’art. 31, comma 2, del testo unico n. 380 del 2001, per il quale «il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell’articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione».
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Le questioni inerenti alla sussistenza dei presupposti di applicabilità dell’art. 33, comma 2, del medesimo testo unico (per il quale, «qualora, sulla base di motivato accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell’ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile») riguardano una fase procedimentale successiva ed eventuale, dal momento che il destinatario dell’ordine di demolizione può preferire –entro il termine di novanta giorni, decorso il quale si verifica il prospettato acquisto del bene da parte dell’Amministrazione comunale– di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto e di non pagare la somma corrispondente al doppio dell’aumento di valore dell’immobile.
In altri termini, per l’applicabilità del medesimo art. 33, comma 2, occorre la sussistenza di alcuni presupposti, tra cui proprio la previa emanazione dell’ordine di demolizione, l’istanza tempestiva del destinatario dell’ordine ed un «motivato accertamento dell’ufficio tecnico comunale» sulla impossibilità materiale di ripristinare lo stato dei luoghi, configurabile soltanto quando «la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso» legittimamente realizzato, il che non avviene –in linea di principio- quando si tratta di eliminare opere realizzate in aggiunta a un manufatto preesistente.
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6.1. Con una adeguata motivazione, la sentenza impugnata ha evidenziato che sul lastrico di copertura dell’edificio è stato realizzato un manufatto del tutto diverso da quello preesistente.
Affinché sia configurabile una «ristrutturazione edilizia», ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera d), del testo unico n. 380 del 2001 è invece indispensabile che la demolizione e la ricostruzione si verifichino «con la stessa volumetria» del manufatto preesistente.
Del tutto legittimamente, il Comune appellato ha qualificato le opere in questione come una «nuova costruzione», dal momento che vi è stato l’ampliamento di un preesistente manufatto, anche con modifica della «sagoma esistente»: si applica dunque l’art. 3, comma 1, lettera e1), del medesimo testo unico n. 380 del 2001 (quale disposizione primaria che ha previsto la necessità del permesso di costruire per la realizzazione della nuova costruzione), il che comporta l’infondatezza delle censure di violazione delle norme sopra indicate e la insussistenza dei dedotti profili di eccesso di potere.
6.2. Quanto alla dedotta violazione dell’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, ritiene il Collegio che anch’essa risulta infondata e va respinta (sicché non rileva verificare se essa risulta inammissibile, in ragione delle censure formulate in primo grado), poiché:
   - quando risulta la realizzazione di abusi edilizi, il Comune «deve senza indugio emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive» (cfr. Consiglio Stato, Sez. VI, 30.03.2017, n. 1486; Sez. VI, 06.03.2017, n. 1060 e n. 1058; Sez. V, 11.07.2014, n. 3568; Sez. IV, 31.08.2010, n. 3955) e cioè deve immediatamente emanare il provvedimento che ripristini la legalità;
   - tale principio si fonda sul dato testuale dell’art. 31, comma 2, del testo unico n. 380 del 2001, per il quale «il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell’articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione»;
   - le questioni inerenti alla sussistenza dei presupposti di applicabilità dell’art. 33, comma 2, del medesimo testo unico (per il quale, «qualora, sulla base di motivato accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell’ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile») riguardano una fase procedimentale successiva ed eventuale, dal momento che il destinatario dell’ordine di demolizione può preferire –entro il termine di novanta giorni, decorso il quale si verifica il prospettato acquisto del bene da parte dell’Amministrazione comunale– di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto e di non pagare la somma corrispondente al doppio dell’aumento di valore dell’immobile;
   - in altri termini, per l’applicabilità del medesimo art. 33, comma 2, occorre la sussistenza di alcuni presupposti, tra cui proprio la previa emanazione dell’ordine di demolizione, l’istanza tempestiva del destinatario dell’ordine ed un «motivato accertamento dell’ufficio tecnico comunale» sulla impossibilità materiale di ripristinare lo stato dei luoghi, configurabile soltanto quando «la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso» legittimamente realizzato (cfr. ex plurimis Consiglio di Stato, Sez. VI, 30.03.2017, n. 1484; Sez. VI, 09.04.2013, n. 1912), il che non avviene –in linea di principio- quando si tratta di eliminare opere realizzate in aggiunta a un manufatto preesistente.
7. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.05.2017 n. 2347 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa proposizione d’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 380/2001, successivamente all’emissione dell’ordinanza di demolizione, lungi da determinare tout court l’illegittimità della sanzione adottata, incide unicamente sulla potestà del Comune di portare ad immediata esecuzione la sanzione.
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6. Col primo motivo d’appello, l’appellante ripropone la medesima censura già dedotta in prime cure incentrata sull’argomento che la presentazione d’istanza di accertamento di conformità, in tempo successivo all’emanazione dell’ordinanza di demolizione, condurrebbe all’illegittimità della sanzione adottata.
7. Il motivo è infondato.
7.1 Va data continuità all’indirizzo giurisprudenziale, qui condiviso, a mente del quale la proposizione d’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 380/2001, successivamente all’emissione dell’ordinanza di demolizione, lungi da determinare tout court l’illegittimità della sanzione adottata, incide unicamente sulla potestà del Comune di portare ad immediata esecuzione la sanzione (cfr. Consiglio di Stato, sez, IV, 19.02.2008 n. 849) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.05.2017 n. 2338 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il lungo periodo di tempo intercorrente tra la realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento sanzionatorio è circostanza che non rileva ai fini della legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso affidamento circa la legittimità dell'opera che il protrarsi del comportamento inerte del Comune avrebbe ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un ipotizzato ulteriore obbligo, per l'Amministrazione procedente, di motivare specificamente il provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a far demolire il manufatto, poiché la lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo.
Infatti, è di per sé ordinariamente irrilevante –ad eccezione di casi particolari qui non sussistenti– il tempo intercorrente tra la commissione di un abuso edilizio e l’emanazione del provvedimento di demolizione.
Quando risulta realizzato un manufatto abusivo, e malgrado il decorso del tempo, l’amministrazione deve senza indugio emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive: il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo “in re ipsa” l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione.
Da un lato, quando è realizzato un abuso edilizio non è radicalmente prospettabile un legittimo affidamento. Dall’altro, il proprietario non si può di certo dolere del ritardo con cui l’amministrazione –a causa del mancato accertamento dell’abuso o per la connivenza degli organi pubblici pro tempore– abbia emanato il provvedimento che la legge impone di emanare immediatamente.
La legge non ha mai attribuito rilievo sanante al ritardo con cui l’Amministrazione emana l’atto conseguente alla commissione dell’abuso edilizio, né si può affermare che l’inerzia o la connivenza degli organi pubblici possano comportare una sostanziale sanatoria, che la legge invece disciplina solo in casi tassativi, o con leggi straordinarie sul condono o con la normativa sull’accertamento di conformità.
Inoltre, il procedimento di accertamento di conformità delle opere promosso dal ricorrente esclude la sussistenza di alcun affidamento, mentre l’interesse pubblico alla rimozione delle opere abusive è in re ipsa.
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Constatata l’esistenza di un abuso edilizio, l’ordine di demolizione –e, in caso d’inottemperanza, l’acquisizione al patrimonio del Comune– è atto vincolato che non richiede alcuna specifica valutazione di ragioni d’interesse pubblico e attuale alla demolizione, né comparazione con gli interessi privati coinvolti, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione d’illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto.

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8. Col secondo motivo, l’appellante lamenta che i giudici di prime cure non hanno dato alcun rilievo all’affidamento maturato sulla legittimità delle opere stante il lungo lasso di tempo trascorso dall’avvenuta realizzazione di esse fino al momento dell’adozione della sanzione impugnata.
9. Il motivo è infondato e va respinto.
9.1 I manufatti oggetto dei provvedimenti gravati consistono in un fabbricato di circa 88, 00 mq, allo stato grezzo e due manufatti, rispettivamente di 2,5 mq e 9,8 mq, ottenuti dall’assemblaggio precario di elementi in legno e lamiera grecata, realizzati –circostanza di fatto non contestata– in assenza di titolo abilitativo.
9.2 Il lungo periodo di tempo intercorrente tra la realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento sanzionatorio è circostanza che non rileva ai fini della legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso affidamento circa la legittimità dell'opera che il protrarsi del comportamento inerte del Comune avrebbe ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un ipotizzato ulteriore obbligo, per l'Amministrazione procedente, di motivare specificamente il provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a far demolire il manufatto, poiché la lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo.
Infatti, è di per sé ordinariamente irrilevante –ad eccezione di casi particolari qui non sussistenti– il tempo intercorrente tra la commissione di un abuso edilizio e l’emanazione del provvedimento di demolizione.
9.3 Quando risulta realizzato un manufatto abusivo, e malgrado il decorso del tempo, l’amministrazione deve senza indugio emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive: il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo “in re ipsa” l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 02.10.2014, n. 4892; sez. V, 11.07.2014, n. 3568; sez. IV, 31.08.2010, n. 3955).
Da un lato, quando è realizzato un abuso edilizio non è radicalmente prospettabile un legittimo affidamento. Dall’altro, il proprietario non si può di certo dolere del ritardo con cui l’amministrazione –a causa del mancato accertamento dell’abuso o per la connivenza degli organi pubblici pro tempore– abbia emanato il provvedimento che la legge impone di emanare immediatamente.
La legge non ha mai attribuito rilievo sanante al ritardo con cui l’Amministrazione emana l’atto conseguente alla commissione dell’abuso edilizio, né si può affermare che l’inerzia o la connivenza degli organi pubblici possano comportare una sostanziale sanatoria, che la legge invece disciplina solo in casi tassativi, o con leggi straordinarie sul condono o con la normativa sull’accertamento di conformità.
Inoltre, il procedimento di accertamento di conformità delle opere promosso dal ricorrente esclude la sussistenza di alcun affidamento, mentre l’interesse pubblico alla rimozione delle opere abusive è in re ipsa.
Costituisce orientamento giurisprudenziale consolidato, da cui non sussistono giustificati motivi per qui discostarsi, che constatata l’esistenza di un abuso edilizio, l’ordine di demolizione –e, in caso d’inottemperanza, l’acquisizione al patrimonio del Comune– è atto vincolato che non richiede alcuna specifica valutazione di ragioni d’interesse pubblico e attuale alla demolizione, né comparazione con gli interessi privati coinvolti, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione d’illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 13.05.2016 n. 1948; Id., sez. VI, 05.05.2016 n. 1774).
10. Conclusivamente l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.05.2017 n. 2338 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ordine di demolizione di un immobile abusivo oggetto di sequestro penale.
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Edilizia – Abusi – Demolizione immobile sottoposto a sequestro penale – Invalidità ed inefficacia.
E’ invalido, e, comunque, inefficace, l'ordine di demolizione, e i conseguenti provvedimenti sanzionatori, di un immobile abusivo colpito da sequestro penale ex art. 31, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (1).
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   (1) La Sezione ha dato atto che l’indirizzo giurisprudenziale prevalente, sia amministrativo (cfr. ex multis Cons. St., sez. VI, 28.01.2016, n. 283), che penale (Cass. pen., sez. III, 14.01.2009, n. 9186), ritiene irrilevante la pendenza di un sequestro, ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione, della sua eseguibilità e, quindi, della validità dei conseguenti provvedimenti sanzionatori, sulla base della non qualificabilità della misura cautelare reale quale impedimento assoluto all’attuazione dell’ingiunzione, in ragione della possibilità, per il destinatario dell’ordine, di ottenere il dissequestro del bene ai sensi dell’art. 85 disp. att. c.p.p.
Da tale orientamento la Sezione si è però motivatamente discostata per una serie di ragioni.
La prima argomentazione si fonda sul fatto che l’ordine di demolizione di un immobile colpito da un sequestro penale dovrebbe essere ritenuto affetto dal vizio di nullità, ai sensi dell’art. 21-septies l. 07.08.1990, n. 241 (in relazione agli artt. 1346 e 1418 c.c.), e, quindi, radicalmente inefficace, per l’assenza di un elemento essenziale dell’atto, tale dovendo intendersi la possibilità giuridica dell’oggetto del comando. L’ordine di una condotta giuridicamente impossibile si rivela privo di un elemento essenziale e, come tale, affetto da invalidità radicale, e, in ogni caso, inidoneo a produrre qualsivoglia effetto di diritto.
A tale conclusione si ritiene potersi pervenire con riguardo ai casi in cui –come in quello di specie– l’ordine di demolizione (o di riduzione in pristino stato) sia stato adottato nella vigenza di un sequestro penale (di qualsiasi genere; ma sulla distinzione tra i diversi tipi di sequestro del processo penale si tornerà infra).
A tale argomentazione la Sezione ha aggiunto che le misure contemplate dall’art. 31, commi 3 e 4-bis, d.P.R. n. 380 del 2001, rivestono carattere chiaramente sanzionatorio e, come tali, esigono, per la loro valida applicazione, l’ascrivibilità dell’inottemperanza alla colpa del destinatario dell’ingiunzione rimasta ineseguita, in ossequio ai canoni generali ai quali deve obbedire ogni ipotesi di responsabilità. Ma nella situazione considerata non è dato ravvisare alcun profilo di rimproverabilità nella condotta (necessariamente) inerte del destinatario dell’ordine di demolizione, al quale resta, infatti, preclusa l’esecuzione del comando da un altro provvedimento giudiziario che gli ha sottratto la disponibilità giuridica e fattuale del bene. L’irrogazione di una sanzione per una condotta che non può in alcun modo essere soggettivamente ascritta alla colpa del soggetto colpito dalla sanzione stessa, non può che essere giudicata illegittima per il difetto del necessario elemento psicologico della violazione.
Ha ancora affermato il giudice di appello che a quanto già detto si aggiunge una ragione di equità: non può esigersi –e, giuridicamente, non lo si può soprattutto in difetto di un’espressa previsione di legge in tal senso, stante anche il divieto di prestazioni imposte se non che per legge, ex art. 23 Cost.– che il cittadino impieghi tempo e risorse economiche per ottenere la restituzione di un bene di sua proprietà, ai soli fini della sua distruzione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.05.2017 n. 2337 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
3. – Risulta, in particolare, fondata l’argomentazione, svolta soprattutto nel terzo motivo di appello, con cui la società appellante sostiene l’inapplicabilità delle sanzioni previste per l’inottemperanza a ordini di demolizione di manufatti abusivi, nelle ipotesi, quale quella in esame, in cui l’immobile sia sottoposto a sequestro penale.
La questione, quindi, si risolve nella disamina della validità o dell’efficacia dei provvedimenti sanzionatori adottati sulla base del rilievo dell’omessa esecuzione di presupposti ordini di demolizione (o di riduzione in pristino) di opere abusive, che esulano, tuttavia, dalla disponibilità del destinatario dell’ordinanza rimasta inattuata, in quanto sequestrati dal giudice penale.
Tale problema, tuttavia, implica anche la soluzione della (logicamente) presupposta questione della validità (e dell’efficacia) dell’ordine di demolizione, per la cui inottemperanza sono state irrogate le misure sanzionatorie previste dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001.
4. –
Il Collegio non ignora che l’indirizzo giurisprudenziale prevalente, sia amministrativo (cfr. ex multis Cons. St., sez. VI, 28.01.2016, n. 283), sia penale (Cass. Pen., sez. III, 14.01.2009, n.9186), ritiene irrilevante la pendenza di un sequestro, ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione, della sua eseguibilità e, quindi, della validità dei conseguenti provvedimenti sanzionatori, sulla base della non qualificabilità della misura cautelare reale quale impedimento assoluto all’attuazione dell’ingiunzione, in ragione della possibilità, per il destinatario dell’ordine, di ottenere il dissequestro del bene ai sensi dell’art. 85 disp. att. c.p.p.; ma reputa di dissentire da tale orientamento, per le ragioni di seguito sinteticamente (tenendo conto, per quanto possibile, della forma semplificata della presente sentenza) esposte.
5. – Con una prima, e, per certi versi, dirimente, argomentazione,
l’ordine di demolizione di un immobile colpito da un sequestro penale dovrebbe essere ritenuto affetto dal vizio di nullità, ai sensi dell’art.21-septies l. n. 241 del 1990 (in relazione agli artt. 1346 e 1418 c.c.), e, quindi, radicalmente inefficace, per l’assenza di un elemento essenziale dell’atto, tale dovendo intendersi la possibilità giuridica dell’oggetto del comando.
In altri termini,
l’ingiunzione che impone un obbligo di facere inesigibile, in quanto rivolto alla demolizione di un immobile che è stato sottratto alla disponibilità del destinatario del comando (il quale, se eseguisse l’ordinanza, commetterebbe il reato di cui all’art. 334 c.p.), difetta di una condizione costituiva dell’ordine, e cioè, l’imposizione di un dovere eseguibile (C.G.A.R.S., Sezioni Riunite, parere n. 1175 del 09.07.2013 – 20.11.2014, sull’affare n. 62/2013).
In quest’ordine di idee,
l’ordine di una condotta giuridicamente impossibile si rivela, quindi, privo di un elemento essenziale e, come tale, affetto da invalidità radicale, e, in ogni caso, per quanto qui rileva, inidoneo a produrre qualsivoglia effetto di diritto.
A tale conclusione si ritiene potersi pervenire con riguardo ai casi in cui –come in quello di specie– l’ordine di demolizione (o di riduzione in pristino stato) sia stato adottato nella vigenza di un sequestro penale (di qualsiasi genere; ma sulla distinzione tra i diversi tipi di sequestro del processo penale si tornerà infra).
6. –
L’affermazione dell’eseguibilità dell’ingiunzione di demolizione di un bene sequestrato, per quanto tralatiziamente ricorrente nella giurisprudenza amministrativa, non può, infatti, essere convincentemente sostenuta sulla base dell’assunto della configurabilità di un dovere di collaborazione del responsabile dell’abuso, ai fini dell’ottenimento del dissequestro e della conseguente attuazione dell’ingiunzione.
Tale argomentazione dev’essere, infatti, radicalmente rifiutata: sia perché riferisce a un’eventualità futura, astratta e indipendente dalla volontà dell’interessato la stessa possibilità (giuridica e materiale) di esecuzione dell’ingiunzione, mentre, come si è visto, l’impossibilità dell’oggetto attiene al momento genetico dell’ordine e lo vizia insanabilmente all’atto della sua adozione; sia perché, assiomaticamente, finisce per imporre al privato una condotta priva di qualsivoglia fondamento giuridico positivo; sia, infine, perché si risolve nella prescrizione di una iniziativa processuale (l’istanza di dissequestro) che potrebbe contraddire le strategie difensive liberamente opzionabili dall’indagato (o dall’imputato) nel processo penale, peraltro interferendo inammissibilmente nell’esercizio di un diritto costituzionalmente protetto, quale quello di difesa (basti porre mente, in proposito, al caso che il mantenimento del sequestro penale –sub specie probatorio, ex art. 253 c.p.p.– risulti funzionale ad assicurare, per il seguito delle indagini o per il dibattimento, la prova che quanto realizzato non fosse abusivo, o non fosse conforme a quanto contestato o ritenuto dalla pubblica accusa, ovvero avesse altre caratteristiche scriminanti o anche solo attenuanti l’illiceità penale del fatto ascritto).
7. – Si aggiunga, ancora, che
le misure contemplate dall’art. 31, commi 3 e 4-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001, rivestono carattere chiaramente sanzionatorio e, come tali, esigono, per la loro valida applicazione, l’ascrivibilità dell’inottemperanza alla colpa del destinatario dell’ingiunzione rimasta ineseguita, in ossequio ai canoni generali ai quali deve obbedire ogni ipotesi di responsabilità.
Sennonché, nella situazione considerata, non è dato ravvisare alcun profilo di rimproverabilità nella condotta (necessariamente) inerte del destinatario dell’ordine di demolizione, al quale resta, infatti, preclusa l’esecuzione del comando da un altro provvedimento giudiziario che gli ha sottratto la disponibilità giuridica e fattuale del bene.
Come si vede, quindi,
l’irrogazione di una sanzione (che di questo si tratta) per una condotta che non può in alcun modo essere soggettivamente ascritta alla colpa del soggetto colpito dalla sanzione stessa, non può che essere giudicata illegittima per il difetto del necessario elemento psicologico della violazione.
8. – Fermo restando il carattere assorbente delle considerazioni appena svolte, resta da aggiungere un argomento, tutt’altro che secondario, di equità (ma, come tosto si dirà, non solo equitativo): non può esigersi –e, giuridicamente, non lo si può soprattutto in difetto di un’espressa previsione di legge in tal senso, stante anche il divieto di prestazioni imposte se non che per legge, ex art. 23 Cost.– che il cittadino impieghi tempo e risorse economiche per ottenere la restituzione di un bene di sua proprietà, ai soli fini della sua distruzione.
Si tratta di un’argomentazione la cui valenza logica e intuitiva esime da ogni ulteriore spiegazione, restando immediatamente percepibile l’iniquità dell’imposizione di un dispendioso onere di diligenza, finalizzato solo alla distruzione del bene (ancora) di proprietà del destinatario dell’ingiunzione.
Per ulteriori considerazioni critiche in proposito –se il dissequestro, più o meno legittimamente, fosse negato, vi sarebbe anche un onere di gravame? E fino a che grado? O andrebbe riproposta l’istanza? E quando, e quante volte? – può rinviarsi al cit. parere del C.G.A.R.S. n. 62/2013; del quale però merita condividersi la conclusione, nel senso che “la tesi [qui avversata] si appalesa, quindi, poco approfondita in punto di diritto e apoditticamente sostenuta”.
Essa implica, infatti, l’imposizione di un onere di diligenza per il quale –al di là della sua assertiva invocazione ad opera di alcune prospettazioni giuridiche, che potrebbero forse sembrare più inopinatamente zelanti nella repressione degli abusi edilizi che adeguatamente attente al rispetto dei principi fondanti dell’ordinamento giuridico (ivi incluso quello ex art. 23 Cost., che si è già richiamato supra)– risulterebbe davvero complicato rinvenire un convincente fondamento normativo positivo; che, anzi, sembra da escludere, purché si tenga in adeguata considerazione l’esigenza che le sanzioni (non solo quelle penali: nemo tenetur se detergere; ma anche quelle amministrative) siano, almeno tendenzialmente, strutturate per essere applicate dai pubblici poteri, piuttosto che autoeseguite a proprio danno dallo stesso soggetto destinatario di esse.
9. – Nondimeno –sia per l’ipotesi che si ritenesse di poter prescindere dalla più persuasiva prospettazione, che si è sin qui illustrata, che qualifica in termini di nullità il vizio che affligge l’ordinanza di demolizione emanata nella pendenza del sequestro dell’immobile di cui trattasi; sia, comunque, con riferimento ai casi in cui l’ordine demolitorio o ripristinatorio sia stato adottato (e, in tal caso, validamente) in un momento in cui il bene non fosse sequestrato, ma venga invece sequestrato successivamente e nella pendenza del termine assegnato per ottemperare all’ingiunzione de qua– va ulteriormente indagato, per completezza di sistema, il tema dell’incidenza del sequestro penale (se non, in queste ipotesi, sulla validità) sull’efficacia dell’ordine di demolire e, derivativamente, sulla decorrenza o meno del termine a tal fine assegnato fintanto che il sequestro permanga efficace.
Limitandocisi in questa sede a un mero richiamo delle argomentazioni dogmatiche più approfonditamente svolte nel più volte cit. parere del C.G.A.R.S. n. 62/2013 –in tema di distinzione tra nullità, come difetto strutturale originario di uno degli elementi essenziali dell’atto giuridico (sub specie, qui, di possibilità dell’oggetto), e inefficacia, allorché tali elementi essenziali (e qui, dunque, la ridetta possibilità), originariamente sussistenti, vengano meno successivamente in modo temporaneo o definitivo, in quest’ultimo caso dandosi adito a una causa estintiva degli efficacia dell’atto (per impossibilità sopravvenuta) e invece nel primo solamente a una temporanea sospensione di tale efficacia– occorre evidenziare che,
finché il sequestro perdura, la demolizione (anche se validamente ingiunta: vuoi perché disposta anteriormente al sequestro, ossia in un momento in cui il suo destinatario, essendo in bonis, aveva la possibilità giuridica di ottemperarvi; vuoi, ipoteticamente, perché non si condivida la tesi, invero dogmaticamente più coerente, della nullità per impossibilità giuridica dell’oggetto del provvedimento che abbia ingiunto la demolizione in costanza di sequestro) certamente non può eseguirsi.
A questo semplice rilievo consegue necessariamente –e perfino a prescindere dall’incoerente assunto, che pure si è già confutato, secondo cui il destinatario dell’ordine demolitorio sarebbe tenuto ad attivarsi per chiedere il dissequestro ai soli fini della demolizione: giacché certamente non lo si potrebbe pure onerare del fatto del terzo, ossia di ottenere tale risultato entro il termine di 90 giorni normalmente assegnatogli– che, per tutto il tempo in cui il sequestro perdura (e, qui si aggiunge, indipendentemente dalla condotta attiva o passiva serbata dall’autore dell’abuso rispetto al sequestro stesso), la non ottemperanza all’ordine di demolizione non può qualificarsi non iure, appunto a causa della già rilevata oggettiva impossibilità giuridica di procedervi.
Ciò non può non implicare, come conseguenza giuridicamente necessaria, l’interruzione o, quantomeno, la sospensione del decorso del termine assegnato per demolire, per tutto il tempo in cui il sequestro rimane efficace.
Detto termine, dunque, inizierà nuovamente a decorrere –per intero ovvero per la sua parte residua, secondo che si opti per l’interruzione o per la sospensione di esso in costanza di sequestro– solo allorché il sequestro venga meno, per qualunque ragione.
Merita evidenziarsi che l’assunto, qui propugnato, che il destinatario dell’ordine di demolizione non possa considerarsi giuridicamente onerato di richiedere il dissequestro per poter demolire non implica affatto né che ciò gli sia precluso (potrebbe, infatti, avervi interesse, per esempio per azzerare la situazione di abusivismo e poter così richiedere ex novo un titolo edilizio urbanisticamente conforme per riprendere l’attività edificatoria secundum legem); né che il dissequestro non possa essere richiesto all’Autorità giudiziaria penale da parte di chiunque altro vi abbia interesse: ossia, in primis, dalla stessa Amministrazione che abbia ingiunto (prima del sequestro, secondo la tesi qui condivisa) o che intenda ingiungere (non appena venuto meno il sequestro) la demolizione, con l’effetto di far ripartire prima possibile il decorso del termine per demolire e di far produrre, in difetto, le ulteriori conseguenze (acquisitive) che la legge riconnette all’inutile decorso di detto termine; ma anche, nei congrui casi, ai soggetti pubblici e privati controinteressati al mantenimento dell’opera edilizia abusiva, che abbiano comunanza di intenti e di interessi con l’Amministrazione procedente.
Infatti,
il venir meno del sequestro –da chiunque provocato o indotto, e anche se spontaneamente disposto dall’Autorità giudiziaria procedente– consente ex se all’Amministrazione di ingiungere, o di reiterare, la demolizione; ovvero produce, parimenti in via automatica, l’effetto di far cessare la causa di sospensione (o interruzione) del decorso del termine entro cui deve essere eseguita la demolizione, con ogni ulteriore conseguenza di legge in difetto.
Sicché, come ognun vede, si riduce a una mera petizione di principio –non suffragata, però, da adeguati indici normativi a suo supporto– l’assunto che il sistema non possa prescindere dall’onerare il proprietario di richiedere, contra se, il dissequestro al fine di demolire, e che perciò tale onere sia necessariamente insito nel sistema stesso.
Tutto all’opposto, non solo di tale onere non è dato rinvenire alcun fondamento positivo –e neppure nell’art. 85 disp. att. al c.p.p., che viene solitamente invocato a tal fine, giacché esso contempla un’ipotesi, e peraltro soltanto “se l’interessato consente”, ma non radica alcun obbligo in proposito– ma anzi i principi fondamentali dell’ordinamento sembrano deporre nel senso della sua esclusione: viepiù ove si consideri che la funzionalità dell’istituto in discorso (ossia dell’ordine di demolizione) è comunque assicurata, pur di fronte all’inerzia dell’Autorità giudiziaria procedente, dalla facoltà di attivarsi per richiedere a quest’ultima il dissequestro che deve riconoscersi all’Amministrazione, oltre che a ogni altro soggetto che possa vantare analogo interesse.
Beninteso, l’Autorità giudiziaria adita da un’istanza di dissequestro, da chiunque proposta, potrebbe disporlo –benché “ai soli fini della demolizione”– solo laddove il mantenimento del sequestro non sia (più) funzionale alle pertinenti esigenze processuali penali: ossia, fisiologicamente, solo in casi tendenzialmente abbastanza limitati e particolari.
Come è noto, infatti,
il codice di procedura penale conosce essenzialmente tre tipologie di sequestro: quello (c.d. probatorio penale) ex art. 253 c.p.p., che disciplina “il sequestro del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato necessarie per l'accertamento dei fatti”; quello (c.d. preventivo) ex art. 321 c.p.p., che è volto a prevenire “che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati”; e quello (c.d. conservativo) ex art. 316 c.p.p., che è volto a evitare “che manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento della pena pecuniaria, delle spese di procedimento e di ogni altra somma dovuta all’erario dello Stato”.
È del tutto evidente che solo il sequestro preventivo può considerarsi normalmente “cedevole” rispetto alle esigenze della demolizione (giacché essa tendenzialmente elide le conseguenza del reato e ne previene la commissione di ulteriori); laddove, almeno in linea di massima, le esigenze probatorie del sequestro penale e quelle di garanzia del sequestro conservativo dovrebbero essere considerate prevalenti su ogni altra.
In tal senso pare in effetti disporre, abbastanza univocamente, l’art. 262 c.p.p., che disciplina la “Durata del sequestro e restituzione delle cose sequestrate” (“1. Quando non è necessario mantenere il sequestro a fini di prova, le cose sequestrate sono restituite a chi ne abbia diritto, anche prima della sentenza. Se occorre, l'autorità giudiziaria prescrive di presentare a ogni richiesta le cose restituite e a tal fine può imporre cauzione. 2. Nel caso previsto dal comma 1, la restituzione non è ordinata se il giudice dispone, a richiesta del pubblico ministero o della parte civile, che sulle cose appartenenti all'imputato o al responsabile civile sia mantenuto il sequestro a garanzia dei crediti indicati nell'articolo 316. 3. Non si fa luogo alla restituzione e il sequestro è mantenuto ai fini preventivi quando il giudice provvede a norma dell'articolo 321”).
Dall’esame congiunto dei suoi tre commi pare potersi cogliere, dunque, una comprensibile prevalenza delle esigenze sottese al c.d. sequestro probatorio penale, rispetto alle quali sono accessorie quelle tutelate dal sequestro conservativo; mentre risultano sostanzialmente residuali quelle sottese al sequestro preventivo.
Nella misura in cui queste considerazioni colgano nel segno, risulterebbe fortemente svalutata nel sistema la tematica connessa alle istanze di dissequestro; il che costituirebbe un ulteriore argomento esegetico nel senso della fallacia delle tesi che non solo vorrebbero onerare (quantomeno praeter legem) il destinatario dell’ordine demolitorio a richiederlo, ma che tendono altresì a sanzionare l’inottemperanza a tale preteso onere con l’acquisizione. La quale, invece, sembra essere prevista dalla legge solo a fronte di una condotta, parimenti omissiva, ma ben diversa: ossia per chi, ovviamente potendolo giuridicamente fare, non demolisca l’immobile (e non anche per chi, assertivamente tenuto a chiedere al giudice il dissequestro, ometta di formulare istanze in tal senso).
Sicché è anche il fondamentale principio di tipicità delle sanzioni a ulteriormente confortare la conclusione cui il Collegio qui perviene.

URBANISTICA: Rinegoziazione di una convezione di lottizzazione.
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Piani di lottizzazione – Oneri di urbanizzazione – Ratio – Differenza con i costi di costruzione.
 
Piani di lottizzazione – Oneri di urbanizzazione – Riduzione per mancata realizzazione di tutta la volumetria originariamente prevista – Conseguente riduzione oneri di urbanizzazione – Esclusione.
Piani di lottizzazione - Rinuncia alla realizzazione di un intervento -. Offerta di cessione di area edificabile a scomputo dei contributi di costruzione – Rinegoziazione secondo buona fede – Obbligo di esaminare la proposta.
Gli oneri di urbanizzazione sono contributi dovuti ai Comuni nei casi di modificazioni dell’assetto urbanistico-edilizio, per partecipare alle spese che i Comuni sostengono per l’urbanizzazione del loro territorio; i costi di costruzione, invece, costituiscono una compartecipazione comunale all'incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore (1).
Non è sufficiente rinunciare alla costruzione di uno dei diversi edifici previsti in un piano di lottizzazione per ottenere la riduzione degli oneri di urbanizzazione, dovendosi al più chiedere una variante riduttiva del piano di lottizzazione, modificando il layout della sua configurazione, poiché il progetto delle urbanizzazioni dipende dall’intera strutturazione del piano, a prescindere dalla realizzazione o meno degli interventi edilizi in esso pianificati (2).
• La rinuncia alla realizzazione di un intervento e l’offerta del lottizzante di cedere al Comune l’area edificabile (anche a scomputo dei contributi di costruzione) deve essere  presa in esame dal Comune, in virtù del principio del diritto-obbligo alla rinegoziazione secondo buona fede, che regola l’ambito delle convenzioni di lottizzazione e, più in generale, quello degli strumenti privatistici a base contrattuale o negoziale
(3).
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   (1) Ha ricordato il Tar che gli oneri di urbanizzazione si dividono in primaria e secondaria. I primi concorrono alla realizzazione di strade, parcheggi, fognature, illuminazione pubblica, verde pubblico, sistemi di distribuzione di acqua, energia, gas. I secondi sono destinati a finanziare la realizzazione di scuole, asili, centri civici, parchi urbani, impianti sportivi, parcheggi pubblici. I criteri di applicazione, fissati dalla normativa regionale e uniformi per tutto il territorio regionale, indicano le modalità di applicazione e i casi in cui ai Comuni è consentito modificare le entità determinate dalla Regione.
I costi di costruzione sono invece dovuti ai Comuni nei casi di nuova costruzione o ristrutturazione edilizia ed hanno un valore misurato in percentuale variabile sul costo
standard a metro quadro, fissato dalla Regione per le costruzioni di edilizia agevolata.
  
(2) V. Cons. St., sez. IV, 28.06.2016, n. 2915.
   (3) La premesso il Tar che il costo di costruzione, se è vero che è commisurato alle volumetrie virtuali previste nella lottizzazione, è altresì vero che non può prescindere dall’effettiva realizzazione dell’intervento edilizio. Esso richiede che vi sia un permesso di costruire e che il conseguente l'intervento determini un aumento del carico urbanistico (Tar Napoli, sez. VIII, 07.04.2016, n. 1769) ha aggiunto che l'art. 16 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 collega il pagamento del costo di costruzione all'effettiva attività edificatoria, in quanto gli oneri di costruzione costituiscono una prestazione patrimoniale di natura impositiva che trova la sua ratio giustificatrice nell'incremento patrimoniale che il titolare del permesso di costruire consegue in dipendenza del realizzando intervento edilizio.
Essendo il contributo in questione strettamente connesso al concreto esercizio della facoltà di edificare, in misura corrispondente all'entità e alla qualità del maggior carico urbanistico conseguente alla realizzazione del fabbricato assentito ed all'insieme dei benefici che la nuova opera ne trae, la formazione del credito del Comune postula, quale condizione di esigibilità, l'effettiva attività di edificazione e comporta la corresponsione di un contributo commisurato al costo di costruzione globalmente inteso, nel senso che deve investire ed essere riferito all'intera opera, per come assentita e realizzata (
Tar Lazio, sez. II quater, 12.05.2015, n. 6901).
Quanto alla rinegoziazione delle convenzioni di lottizzazione, il Tar ha chiarito che è la buona fede in executivis che viene in rilievo, nonché la buona fede quale fonte di eterointegrazione dell’accordo negoziale (artt. 1374 e 1375 c.c.). Il principio di rinegoziazione secondo buona fede ha, infatti, un inevitabile impatto anche nei contratti e negli accordi tra privati e Pubblica amministrazione. La poliedrica clausola generale di buona fede, di cui la rinegoziazione è una delle possibili declinazioni, è dotata di straordinaria pervasività, ergendosi a regola non solo del regolamento tra privati, ma come criterio generale dei rapporti tra privati e P.A., al fine di preservare la conservazione dell’equilibrio economico-giuridico fissato nell’atto consensuale.
Anche in assenza di un’apposita clausola della convenzione di lottizzazione che obblighi le parti a rinegoziare, è la stessa struttura di
genus dell’accordo sostitutivo di provvedimento, ex art. 11, l. 07.08.1990, n. 241, cui si può ricondurre la species della convenzione di lottizzazione, a imporre all’Amministrazione pubblica di ponderare gli interessi pubblici e privati coinvolti nel procedimento negoziato, non solo nella fase genetica (l’accordo) ma anche nella fase della sua esecuzione. Ciò anche in considerazione del fatto che, tra i principi che reggono la negoziazione pubblica, vi è quello di matrice comunitaria di “proporzionalità”, a presidio del quale la rinegoziazione è evidentemente predisposta (TAR Molise, sentenza 17.05.2017 n. 184 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Divieto per i cani di entrare nei parchi pubblici.
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Sindaco – Ordinanza contingibile e urgente – Divieto accesso ai cani nei parchi pubblici – In mancanza di accertamento di emergenza sanitaria o di igiene pubblica.
E’ illegittima l’ordinanza sindacale contingibile ed urgente che vieta l’accesso di cani, anche accompagnati dai rispettivi conducenti, ad un parco pubblico, per essere stata riscontrata “la presenza di numerosi escrementi canini in ambito urbano comunale”, ove sia mancato l’accertamento di un’emergenza sanitaria o di igiene pubblica (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che l’esercizio, da parte del sindaco, del potere extra ordinem presuppone il requisito della necessità di un intervento immediato, al fine di rimuovere uno stato di grave pericolo per l'igiene e/o la salute pubblica e caratterizzato da una situazione eccezionale e/o imprevedibile da fronteggiare per mezzo di misure straordinarie di carattere provvisorio e, pertanto, non adeguatamente contrastabile tramite l'utilizzo degli ordinari mezzi di carattere definitivo previsti dall'ordinamento giuridico.
Le ordinanze contingibili e urgenti, derogando al principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi, impongono la precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in quanto solo in via temporanea può essere consentito l'uso di strumenti extra ordinem, che permettono la compressione di diritti ed interessi privati con mezzi diversi da quelli tipici indicati dalla legge.
Nel caso all’esame del Tar il provvedimento impugnato, oltre a non recare alcuna indicazione in ordine ai suoi limiti temporali di efficacia, non è sorretto da una adeguata istruttoria in ordine all’esistenza effettiva di un’emergenza sanitaria o di igiene pubblica, tale evidentemente non potendo considerarsi la mera rilevazione di “escrementi canini in ambito urbano comunale
Per completezza il Tar ha ricordato che la Regione Toscana, con la legge n. 59 del 2009 ha disciplinato la “tutela degli animali” da affezione, stabilendo all'art. 19 che “ai cani accompagnati dal proprietario o da altro detentore è consentito l'accesso a tutte le aree pubbliche e di uso pubblico, compresi i giardini, i parchi e le spiagge; in tali luoghi è obbligatorio l'uso del guinzaglio e della museruola qualora previsto dalle norme statali”.
Stabilendo al secondo comma che è vietato l'accesso ai cani solamente “in aree destinate e attrezzate per particolari scopi, come le aree gioco per bambini, qualora a tal fine sono chiaramente delimitate e segnalate con appositi cartelli di divieto” (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 16.05.2017 n. 694 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Il ricorso merita accoglimento.
Rivedendo con una più approfondita ponderazione quanto ritenuto con l’ordinanza cautelare il Collegio è dell’avviso che sussista la legittimazione a ricorrere dell’associazione.
Si è infatti più volte affermato che,
ai sensi degli artt. 13 e 18, l. 08.07.1986, n. 349 —che attribuiscono alle associazioni ambientalistiche riconosciute, in via generale, la legittimazione processuale per la tutela degli interessi di cui le stesse risultano portatrici— sussiste sempre la legittimazione ad agire in capo a un organismo associativo con finalità ambientalistiche avverso provvedimenti lesivi degli interessi diffusi o collettivi, perseguiti e protetti, tra i quali rientra quello ad un corretto rapporto con gli animali in genere e con gli addomesticati, in particolare (TAR Molise, 17.02.2014 n. 104; TAR Puglia–Lecce, n. 732/2013; TAR Veneto, sez. III, 16.11.2010, n. 6045; ma vedasi anche Cass. pen., sez. III, 04.10.2016 n. 52031, in tema di legittimazione di tali associazioni a costituirsi parte civile nei procedimenti relativi a reati commessi ai danni di animali).
Nel caso concreto, l’art. 2 dello Statuto stabilisce che lo scopo dell’associazione è quello di promuovere la difesa della fauna ed il riconoscimento dei diritti soggettivi di tutti gli animali e che, a tal fine, l’associazione “attua o favorisce tutte le iniziative giuridiche, politiche, culturali...idonee”.
Nel merito il ricorso è fondato, assumendo assorbente rilievo quanto dedotto con il primo e terzo motivo in relazione all’insussistenza dei presupposti di cui dell’art. 50, co. 5, d.lgs. n. 267/2000 e al difetto di istruttoria e di motivazione.
Dispone la norma in parola che il sindaco può emettere ordinanze contingibili e urgenti “in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale”.
La disposizione è pacificamente interpretata nel senso che
l’esercizio da parte del sindaco di tale potere extra ordinem presuppone il requisito della necessità di un intervento immediato, al fine di rimuovere uno stato di grave pericolo per l'igiene e/o la salute pubblica e caratterizzato da una situazione eccezionale e/o imprevedibile da fronteggiare per mezzo di misure straordinarie di carattere provvisorio e, pertanto, non adeguatamente contrastabile tramite l'utilizzo degli ordinari mezzi di carattere definitivo previsti dall'ordinamento giuridico (tra le più recenti, TAR Abruzzo, L'Aquila, 05.11.2015 n. 746; TAR Campania, sez. III, 01.06.2015 n. 3011; TAR Lombardia, sez. III, 15.12.2014 n. 3039).
Si è altresì rilevato che,
in quanto derogano al principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi, le ordinanze contingibili e urgenti impongono la precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in quanto solo in via temporanea può essere consentito l'uso di strumenti "extra ordinem", che permettono la compressione di diritti ed interessi privati con mezzi diversi da quelli tipici indicati dalla legge (TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 13.02.2015 n. 455).
Nel caso di specie, il provvedimento impugnato, oltre a non recare alcuna indicazione in ordine ai suoi limiti temporali di efficacia, non appare sorretto da una adeguata istruttoria in ordine all’esistenza effettiva di un’emergenza sanitaria o di igiene pubblica, tale evidentemente non potendo considerarsi la mera rilevazione di “escrementi canini in ambito urbano comunale”.
Per completezza d’argomentazione, pur non costituendo motivo di ricorso, va rilevato che, come evidenziato dalla ricorrente nella sua memoria conclusiva, la Regione Toscana, con la legge n. 59/2009 ha disciplinato la “tutela degli animali” da affezione, stabilendo all'art. 19 che “ai cani accompagnati dal proprietario o da altro detentore è consentito l'accesso a tutte le aree pubbliche e di uso pubblico, compresi i giardini, i parchi e le spiagge; in tali luoghi è obbligatorio l'uso del guinzaglio e della museruola qualora previsto dalle norme statali”. Stabilendo al secondo comma che è vietato l'accesso ai cani solamente “in aree destinate e attrezzate per particolari scopi, come le aree gioco per bambini, qualora a tal fine sono chiaramente delimitate e segnalate con appositi cartelli di divieto”.
Ne discende, per le ragioni esposte che il ricorso va accolto con il conseguente annullamento dell’atto impugnato.

APPALTIAnche in tema di gare pubbliche, ai fini della decorrenza del termine di impugnazione dei provvedimenti relativi ad una gara pubblica, assume rilevanza l’effettiva “piena conoscenza” dei provvedimenti stessi, ancorché sia acquisita in fase di seduta pubblica o in un’altra circostanza e anteriormente alla formale comunicazione di cui all’art. 79 del d.lgs. n. 163/2006 (ora art. 76 del d.lgs. n. 50/2016): ciò perché la disposizione ora menzionata, se risponde al fine di garantire piena conoscenza e certezza della data di conoscenza in relazione agli atti di esclusione e di aggiudicazione della gara, non prevede forme di comunicazione esclusive o tassative e consente che la “piena conoscenza” dell’atto sia acquisita con altre forme, ovviamente con onere della prova a carico di chi eccepisce l’avvenuta piena conoscenza con forme diverse da quelle tipiche prescritte.
In definitiva, l’art. 79 cit. non incide sulle regole processuali generali del processo amministrativo in tema di decorrenza dei termini di impugnazione –dalla data della notificazione, comunicazione o, comunque, piena conoscenza dell’atto– ex art. 120, comma 5, c.p.a..
Un recente arresto ha richiamato la ratio acceleratoria della disciplina processuale di cui all’art. 120 c.p.a., osservando che gli eventuali problemi di coordinamento con la normativa regolante l’accesso agli atti possono essere superati con il rimedio –prima ricordato– della proposizione dei motivi aggiunti per profili di illegittimità conosciuti successivamente, in virtù dell’integrale conoscenza degli atti. La decisione in commento ha, peraltro, precisato che qualsiasi profilo relativo ad eventuali impedimenti nel prendere visione degli atti di gara, ai fini della proposizione dell’impugnativa, va improntato al principio di diligenza delle parti, che debbono attivarsi tempestivamente onde ottenere l’accesso agli atti secondo i mezzi messi loro a disposizione dall’ordinamento.

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La suesposta eccezione di tardività va esaminata alla stregua dei principi giurisprudenziali in tema di “piena conoscenza” degli atti amministrativi lesivi.
In particolare, è orientamento consolidato in giurisprudenza quello per il quale la piena conoscenza del provvedimento –da cui decorre il termine decadenziale per proporre ricorso– è integrata dalla cognizione dei suoi elementi essenziali, del suo contenuto dispositivo e della sua lesività rispetto agli interessi del ricorrente, senza che, per contro, sia necessaria la completa acquisizione di tutti gli atti del procedimento e del contenuto integrale della determinazione conclusiva (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. IV, 14.06.2016, n. 2565; id., Sez. V, 07.08.2015, n. 3881; id., Sez. III, 16.06.2015, n. 3025).
In altre parole, l’impugnazione va ancorata al momento in cui in concreto si è verificata ed è stata apprezzata la situazione di lesività, poiché la piena conoscenza del provvedimento che l’ha causata non può reputarsi operante oltre ogni limite temporale, visto che ciò renderebbe l’attività della P.A. e le iniziative dei controinteressati suscettibili di impugnazione sine die (C.d.S., Sez. IV, 19.08.2016, n. 3645).
Nondimeno, è altrettanto pacifica la facoltà di proporre motivi aggiunti, ove l’accesso agli atti abbia consentito di avere conoscenza di ulteriori profili di illegittimità dell’atto impugnato (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VI, 30.11.2015, n. 5398).
In ogni caso, la verifica della “piena conoscenza” dell’atto lesivo da parte del ricorrente, ai fini di individuare la decorrenza del termine di proposizione del ricorso, deve essere estremamente cauta e rigorosa, non potendo basarsi su mere supposizioni o su deduzioni, pur se sorrette da apprezzabili argomentazioni logiche: essa deve risultare incontrovertibilmente da elementi oggettivi, ai quali il giudice deve riferirsi, nell’esercizio del suo potere di verifica d’ufficio dell’eventuale irricevibilità del ricorso, o che debbono essere rigorosamente indicati dalla parte che, nel processo, eccepisca l’irricevibilità del ricorso (C.d.S., Sez. IV, 22.11.2016, n. 4900; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 09.01.2017, n. 25).
Gli ora visti principi ricevono integrale applicazione anche in tema di gare pubbliche. Infatti, ai fini della decorrenza del termine di impugnazione dei provvedimenti relativi ad una gara pubblica, assume rilevanza l’effettiva “piena conoscenza” dei provvedimenti stessi, ancorché sia acquisita in fase di seduta pubblica o in un’altra circostanza e anteriormente alla formale comunicazione di cui all’art. 79 del d.lgs. n. 163/2006 (ora art. 76 del d.lgs. n. 50/2016): ciò perché la disposizione ora menzionata, se risponde al fine di garantire piena conoscenza e certezza della data di conoscenza in relazione agli atti di esclusione e di aggiudicazione della gara, non prevede forme di comunicazione esclusive o tassative e consente che la “piena conoscenza” dell’atto sia acquisita con altre forme, ovviamente con onere della prova a carico di chi eccepisce l’avvenuta piena conoscenza con forme diverse da quelle tipiche prescritte. In definitiva, l’art. 79 cit. non incide sulle regole processuali generali del processo amministrativo in tema di decorrenza dei termini di impugnazione –dalla data della notificazione, comunicazione o, comunque, piena conoscenza dell’atto– ex art. 120, comma 5, c.p.a. (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. IV, 17.02.2014, n. 740; id., Sez. VI, 13.12.2011, n. 6531; TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 11.10.2016, n. 2555).
Un recente arresto (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 02.02.2017, n. 696) ha richiamato la ratio acceleratoria della disciplina processuale di cui all’art. 120 c.p.a., osservando che gli eventuali problemi di coordinamento con la normativa regolante l’accesso agli atti possono essere superati con il rimedio –prima ricordato– della proposizione dei motivi aggiunti per profili di illegittimità conosciuti successivamente, in virtù dell’integrale conoscenza degli atti. La decisione in commento ha, peraltro, precisato che qualsiasi profilo relativo ad eventuali impedimenti nel prendere visione degli atti di gara, ai fini della proposizione dell’impugnativa, va improntato al principio di diligenza delle parti, che debbono attivarsi tempestivamente onde ottenere l’accesso agli atti secondo i mezzi messi loro a disposizione dall’ordinamento (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 15.05.2017 n. 471 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La commissione di gara dev'essere composta da un numero dispari di membri e costituisce un collegio perfetto.
E' ben noto al Collegio come, nel vigore del d.lgs. n. 163/2006, la giurisprudenza abbia negato che la regola sulla composizione della Commissione di gara pubblica con un numero dispari di componenti non superiore a cinque, costituisse espressione di un principio generale, immanente nell’ordinamento e tale da implicare l’illegittimità della costituzione di un collegio con un numero pari di componenti, essendo numerose le ipotesi di collegi, sia giurisdizionali che amministrativi, che operano, o occasionalmente possono operare, in composizione paritaria.
Tuttavia, il Collegio sottolinea come la regola in parola, già presente nell’art. 21, comma 5, della l. n. 109/1994 e poi ribadita dall’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163/2006, sia stata riaffermata categoricamente –e senza deroghe di sorta– dall’art. 77, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, cosicché non si vede come la procedura in esame –esperita nel vigore del d.lgs. n. 50 cit.– potesse ad essa sottrarsi.
La ridetta regola, del resto, risponde agli obiettivi di garantire il computo del quorum strutturale e soddisfare le necessità di funzionamento del principio maggioritario ed è coerente con il principio in base al quale i collegi perfetti (com’è la Commissione di gara) sono sempre composti da un numero dispari di membri.
In secondo luogo, l’affidamento alle due Sottocommissioni in cui era suddivisa la Commissione, del compito di valutare, rispettivamente, le offerte economiche e le offerte tecniche, a sua volta integra violazione dei principi in tema di funzionamento dei collegi perfetti, per cui i ridetti collegi debbono operare con l’interezza dei propri membri, dovendo le decisioni essere assunte dal plenum.
A tal proposito la giurisprudenza ha affermato che:
  
• “la commissione giudicatrice di gare d’appalto costituisce un collegio perfetto che deve operare con il plenum e non con la semplice maggioranza dei suoi componenti; pertanto, le operazioni di gara propriamente valutative, quali la fissazione dei criteri di massima e la valutazione delle offerte non possono essere delegate a singoli membri o a sottocommissioni, tanto più quando di queste facciano parte soggetti estranei alla commissione aggiudicatrice”;
   • “La regola della collegialità perfetta alla quale deve attenersi la Commissione di gara può essere derogata ogni qualvolta non si tratti di compiere atti a carattere valutativo e discrezionale; con la conseguenza che è possibile delegare a singoli membri o a sottocommissioni attività preparatorie” o meramente materiali;
   • “L’attività della commissione di gara può essere svolta, in special modo quando si tratti di esprimere valutazioni (spesso complesse) sotto il profilo tecnico-qualitativo, attraverso l’articolazione in sottocommissioni o gruppi di lavoro incaricati di svolgere l’istruttoria sulle singole offerte ovvero su parti dei progetti tecnici presentati dai concorrenti: la garanzia della collegialità è preservata dalla esigenza che le attività istruttorie preliminari siano esaminate dalla commissione aggiudicatrice nella sua integrale composizione, e in tale veste la commissione proceda alla attribuzione dei punteggi alle singole offerte o progetti”.
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Nel merito il ricorso è fondato e da accogliere, in virtù della fondatezza delle censure (di cui ai nn. 1, 2 e 3 del ricorso) mosse alla composizione della Commissione giudicatrice ed all’affidamento ad apposite Sottocommissioni della valutazione delle offerte.
Invero, dalla documentazione in atti (cfr. il verbale del 07.09.2016, all. 11 al ricorso e doc. 5 della Fondazione) si ricava che la Commissione di gara era composta da due Consiglieri di Gestione della Fondazione (dr. Ga. ed arch. Ap.) e da due Conservatori del Museo Archeologico “Eno Bellis” e della Pinacoteca “Alberto Martini” (dr.ssa Ma. e dr.ssa Bo.). Si ricava, altresì, che la ridetta Commissione si è divisa in due Sottocommissioni, la prima formata dai Consiglieri di Gestione, con incarico di esaminare le offerte economiche, la seconda formata dai due Conservatori, con incarico di esaminare le offerte tecniche.
In questo modo, tuttavia, si è violata anzitutto la regola –già contenuta nell’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163/2006 ed ora riproposta dall’art. 77, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016– che impone che la Commissione di gara sia costituita da un numero dispari di commissari, non superiore a cinque.
Sul punto è ben noto al Collegio come, nel vigore del d.lgs. n. 163/2006, la giurisprudenza abbia negato che la regola sulla composizione della Commissione di gara pubblica con un numero dispari di componenti non superiore a cinque, costituisse espressione di un principio generale, immanente nell’ordinamento e tale da implicare l’illegittimità della costituzione di un collegio con un numero pari di componenti, essendo numerose le ipotesi di collegi, sia giurisdizionali che amministrativi, che operano, o occasionalmente possono operare, in composizione paritaria (cfr. C.d.S., Sez. III, 03.10.2013, n. 4884; id., 11.07.2013, n. 3730).
Tuttavia, il Collegio sottolinea come la regola in parola, già presente nell’art. 21, comma 5, della l. n. 109/1994 e poi ribadita dall’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163/2006, sia stata riaffermata categoricamente –e senza deroghe di sorta– dall’art. 77, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, cosicché non si vede come la procedura in esame –esperita nel vigore del d.lgs. n. 50 cit.– potesse ad essa sottrarsi.
La ridetta regola, del resto, risponde agli obiettivi di garantire il computo del quorum strutturale e soddisfare le necessità di funzionamento del principio maggioritario ed è coerente con il principio in base al quale i collegi perfetti (com’è la Commissione di gara) sono sempre composti da un numero dispari di membri (cfr. C.d.S., Sez. V, 06.04.2009, n. 2143; TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 20.04.2011, n. 595; id., 05.03.2010, n. 1122).
In secondo luogo, l’affidamento alle due Sottocommissioni in cui era suddivisa la Commissione, del compito di valutare, rispettivamente, le offerte economiche e le offerte tecniche, a sua volta integra violazione dei principi in tema di funzionamento dei collegi perfetti, per cui i ridetti collegi debbono operare con l’interezza dei propri membri, dovendo le decisioni essere assunte dal plenum.
A tal proposito la giurisprudenza ha affermato che “la commissione giudicatrice di gare d’appalto costituisce un collegio perfetto che deve operare con il plenum e non con la semplice maggioranza dei suoi componenti; pertanto, le operazioni di gara propriamente valutative, quali la fissazione dei criteri di massima e la valutazione delle offerte non possono essere delegate a singoli membri o a sottocommissioni, tanto più quando di queste facciano parte soggetti estranei alla commissione aggiudicatrice” (cfr. C.d.S., Sez. V, 09.06.2003, n. 3247).
La regola della collegialità perfetta alla quale deve attenersi la Commissione di gara può essere derogata ogni qualvolta non si tratti di compiere atti a carattere valutativo e discrezionale; con la conseguenza che è possibile delegare a singoli membri o a sottocommissioni attività preparatorie” o meramente materiali (v. TAR Sicilia, Catania, Sez. III, 10.12.2009, n. 2009).
L’attività della commissione di gara può essere svolta, in special modo quando si tratti di esprimere valutazioni (spesso complesse) sotto il profilo tecnico-qualitativo, attraverso l’articolazione in sottocommissioni o gruppi di lavoro incaricati di svolgere l’istruttoria sulle singole offerte ovvero su parti dei progetti tecnici presentati dai concorrenti: la garanzia della collegialità è preservata dalla esigenza che le attività istruttorie preliminari siano esaminate dalla commissione aggiudicatrice nella sua integrale composizione, e in tale veste la commissione proceda alla attribuzione dei punteggi alle singole offerte o progetti” (cfr. TAR Piemonte, Sez. II, 26.10.2007, n. 3305) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 15.05.2017 n. 471 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La Corte di giustizia dell’UE ritorna sulla questione della legittimazione dell’impresa “non definitivamente” esclusa dalla gara di appalto.
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Unione europea – Gara – Appalti pubblici – Offerte – Integrazione e regolarizzazione – Differenze.
Unione europea – Gara – Appalti pubblici – Offerente escluso – Legittimazione a ricorrere – Condizioni.
Il principio di parità di trattamento degli operatori economici stabilito dall’articolo 10 della direttiva 2004/17/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali, deve essere interpretato nel senso che esso osta a che, nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, l’amministrazione aggiudicatrice inviti un offerente a presentare le dichiarazioni o i documenti la cui comunicazione era richiesta dal capitolato d’oneri e che non sono stati presentati nel termine stabilito per presentare le offerte. Tale articolo non osta, invece, a che l’amministrazione aggiudicatrice inviti un offerente a chiarire un’offerta o a rettificare un errore materiale manifesto contenuto in quest’ultima, a condizione che, tuttavia, un tale invito sia rivolto a qualsiasi offerente che si trovi nella stessa situazione, che tutti gli offerenti siano trattati in modo uguale e leale e che tale chiarimento o tale rettifica non possa essere assimilato alla presentazione di una nuova offerta, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. (1)
La direttiva 92/13/CE del Consiglio, del 25.02.1992, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle norme comunitarie in materia di procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia e degli enti che forniscono servizi di trasporto nonché degli enti che operano nel settore delle telecomunicazioni, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11.12.2007, deve essere interpretata nel senso che, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, in cui una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico ha dato luogo alla presentazione di due offerte e all’adozione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, di due decisioni in contemporanea recanti rispettivamente rigetto dell’offerta di uno degli offerenti e aggiudicazione dell’appalto all’altro, l’offerente escluso, che ha presentato un ricorso avverso tali due decisioni, deve poter chiedere l’esclusione dell’offerta dell’offerente aggiudicatario, in modo tale che la nozione di «un determinato appalto», ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13, come modificata dalla direttiva 2007/66, può, se del caso, riguardare l’eventuale avvio di una nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico. (2)
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(1) I.- Con la prima massima in rassegna la Corte di Giustizia torna sulla questione della compatibilità del dovere di soccorso con il principio di parità di trattamento e precisa che:
   a) l’obbligo per l’amministrazione aggiudicatrice di rispettare il principio di parità di trattamento degli offerenti, che ha lo scopo di favorire lo sviluppo di una concorrenza sana ed efficace tra le imprese che partecipano ad un appalto pubblico implica, in particolare, che gli offerenti devono trovarsi su un piano di parità sia al momento in cui preparano le loro offerte sia al momento in cui queste sono valutate da tale amministrazione aggiudicatrice;
   b) il principio di parità di trattamento impone, segnatamente, che tutti gli offerenti dispongano delle stesse possibilità nella formulazione dei termini delle loro offerte e implica quindi che queste siano sottoposte alle medesime condizioni per tutti i concorrenti;
   c) il principio di parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza implicano che, in linea di principio, un’offerta non può essere modificata dopo il suo deposito, né su iniziativa dell’amministrazione aggiudicatrice né dell’offerente;
   d) il principio di parità di trattamento non osta a che un’offerta possa essere corretta o completata su singoli punti, qualora quest’ultima necessiti in modo evidente un chiarimento o qualora si tratti di correggere errori materiali manifesti, fatto salvo tuttavia il rispetto di una serie di requisiti:
      i) una richiesta di chiarimenti di un’offerta, che può intervenire soltanto dopo che l’amministrazione aggiudicatrice abbia acquisito conoscenza di tutte le offerte, deve, in linea di principio, essere rivolta in modo equivalente a tutti gli offerenti che si trovino nella stessa situazione e deve riguardare tutti i punti dell’offerta che richiedono un chiarimento;
      ii) tale richiesta non può condurre, da parte dell’offerente interessato, alla presentazione di quella che in realtà sarebbe una nuova offerta;
      iii)  nell’esercizio del potere discrezionale di cui dispone per quanto attiene alla facoltà di chiedere ai candidati di chiarire la loro offerta, l’amministrazione aggiudicatrice deve trattare i candidati in maniera uguale e leale, di modo che, all’esito della procedura di selezione delle offerte e tenuto conto del risultato di quest’ultima, non possa apparire che la richiesta di chiarimenti abbia indebitamente favorito o sfavorito il candidato o i candidati cui essa è stata rivolta;
      iv)  una richiesta di chiarimenti non può, tuttavia, ovviare alla mancanza di un documento o di un’informazione la cui comunicazione era richiesta dai documenti dell’appalto, poiché l’amministrazione aggiudicatrice è tenuta ad osservare rigorosamente i criteri da essa stessa fissati.
Dopo aver richiamato i principi espressi dalla propria giurisprudenza come sopra sintetizzati, la Corte rimette al giudice del rinvio la verifica in concreto se nelle circostanze del procedimento principale (avente per oggetto una gara per l’affidamento di servizi per la digitalizzazione di archivi cartacei), la sostituzione effettuata dalle imprese concorrenti (sostituzione con un nuovo campione di microfilm di quello che esse avevano allegato alla loro offerta e che non era conforme alle specifiche del capitolato d’oneri) sia rimasta nei limiti della rettifica di un errore manifesto inficiante l’offerta.
II.- Sul  potere di soccorso in materia di gare di appalto e sul principio di tassatività delle cause di esclusione, per completezza si segnala:
   e)
Corte giust. UE, sez. VI, 02.06.2016, C-27/15, Pippo Pizzo, oggetto della News US in data 05.07.2016, cui si rinvia per ogni ulteriore riferimento anche in relazione alla disciplina nazionale;
   f)
Corte giust. UE, sez. X, 06.11.2014, C-42/13, Cartiera dell’Adda, in Urbanistica e appalti, 2015, 137 con nota di PATRITO; Dir. proc. amm., 2015, 1006, con nota di MAMELI, cui si rinvia per ogni ulteriore approfondimento;
   g)
Tar per il Lazio, ordinanza sez. III, 03.10.2016, n. 10012 (oggetto della News US in data 05.10.2017, cui si rinvia per ogni ulteriore riferimento anche in relazione alla disciplina nazionale), che ha rimesso alla Corte di giustizia la questione della compatibilità, col diritto europeo, della disciplina recata dal vecchio codice degli appalti nella parte in cui ha previsto il c.d. soccorso istruttorio oneroso;
   h) l’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016 -Codice dei contratti pubblici- nel testo novellato dal primo decreto delegato correttivo 19.04.2017, n. 56 (su cui v. il parere reso da
Cons. Stato, comm. spec., 30.03.2017, n. 782).
(2) I. - La questione di cui alla seconda massima è stata sollevata nel corso di una gara per l’affidamento del servizio di digitalizzazione di archivi cartacei con due soli partecipanti, in cui due imprese, concorrenti in ATI (da quanto è dato intendere dalla motivazione), hanno presentato entrambe ricorso avverso la decisione dell’amministrazione aggiudicatrice di esclusione della loro offerta impugnando al contempo la decisione di ammissione dell’offerta dell’altra unica partecipante.
Il giudice del rinvio:
   a)  premette che l’operatore economico che ha presentato un’offerta nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico qualora la sua offerta sia ricusata, non ha un interesse ad agire avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto pubblico. Di conseguenza, se è vero che un offerente quale l’ATI ricorrente ha certamente un interesse a contestare una decisione che rifiuta la propria offerta, nella misura in cui, in tal caso, lo stesso conservi una possibilità che l’appalto gli sia aggiudicato, non ha più, invece, interesse nella fase successiva del procedimento di aggiudicazione dell’appalto dal momento in cui la sua offerta sia stata definitivamente rigettata, perlomeno nell’ipotesi in cui una pluralità di offerte sia stata presentata e selezionata;
   b) sulla scorta di tale premessa domanda se la nozione di «un determinato appalto», ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13, possa riguardare l’eventuale avvio di una nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, atteso che l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13 prevede che gli Stati membri provvedono a rendere accessibili le procedure di ricorso, secondo le modalità che spetta agli Stati membri determinare, a chiunque abbia o abbia avuto interesse ad ottenere l’aggiudicazione di un «determinato appalto» e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione.
II. -Sul punto la Corte, operando una sintesi delle proprie precedenti pronunce rese sul tema, evidenzia:
   c)  di avere già statuito (sentenze
04.07.2013, n. 100, Fastweb, in Foro it., 2015, IV, 311, n. con nota di CONDORELLI e 05.04.2016 C- 689/13, Puligenica, id., 2016, IV, 324, con nota di SIGISMONDI, cui si rinvia per ogni riferimento di dottrina e giurisprudenza) che, nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, gli offerenti hanno un analogo interesse legittimo all’esclusione dell’offerta degli altri offerenti ai fini dell’aggiudicazione dell’appalto indipendentemente dal numero di partecipanti alla procedura e dal numero di partecipanti che hanno presentato ricorso; da un lato, infatti, l’esclusione di un offerente può far sì che un altro offerente ottenga l’appalto direttamente nell’ambito della stessa procedura; d’altro lato, nell’ipotesi di un’esclusione di tutti gli offerenti e dell’indizione di una nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, ciascuno degli offerenti potrebbe parteciparvi e, quindi, ottenere indirettamente l’appalto;
   d)  innova il proprio indirizzo precisando che nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico che ha dato luogo alla presentazione di due sole offerte e all’adozione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, di due decisioni in contemporanea, recanti rispettivamente il rigetto dell’offerta di uno degli offerenti e l’aggiudicazione dell’appalto all’altro offerente, all’offerente che ha proposto ricorso deve essere riconosciuto un interesse legittimo all’esclusione dell’offerta dell’aggiudicatario per mancanza di conformità di quest’ultima alle specifiche del capitolato d’oneri che può portare, se del caso, alla constatazione dell’impossibilità, per l’amministrazione aggiudicatrice, di procedere alla scelta di un’offerta regolare;
   e)  ribadisce quanto affermato dalla
sentenza 21.12.2016, C- 355/15, GesmbH, nel senso che a un offerente la cui offerta sia stata esclusa dall’amministrazione aggiudicatrice da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico può tuttavia essere negato l’accesso a un ricorso avverso la decisione di aggiudicazione di un appalto pubblico qualora la decisione di esclusione di tale offerente sia stata confermata da una decisione che ha acquisito autorità di cosa giudicata prima che il giudice investito del ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto si pronunci, in modo tale che detto offerente debba essere considerato definitivamente escluso dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto pubblico in questione;
   f)  evidenzia che nel caso portato all’esame dal giudice del rinvio le imprese ricorrenti hanno proposto ricorso avverso la decisione che esclude la loro offerta e avverso la decisione che aggiudica l’appalto,
adottate contemporaneamente, e non possono quindi essere ritenute definitivamente escluse dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto pubblico; in una situazione del genere, la nozione di «un determinato appalto» ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13 può, dunque, riguardare anche l’avvio di una nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico.
III. Per la ricostruzione del dibattito e per i riferimenti di dottrina e di giurisprudenza sul controverso tema si rinvia alle seguenti News US:
   g) 
04.01.2017 avente ad oggetto Corte UE 21.12.2016 GesmbH (secondo cui «L’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11.12.2007, dev’essere interpretato nel senso che esso non osta a che a un offerente escluso da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico con una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice divenuta definitiva sia negato l’accesso ad un ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi e la conclusione del contratto, allorché a presentare offerte siano stati unicamente l’offerente escluso e l’aggiudicatario e detto offerente sostenga che anche l’offerta dell’aggiudicatario avrebbe dovuto essere esclusa»);
   h)
07.04.2016 avente ad oggetto Corte UE 05.04.2016, Puligienica cit., (secondo cui «L’articolo 1, paragrafi 1, terzo comma, e 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11.12.2007, deve essere interpretato nel senso che osta a che un ricorso principale proposto da un offerente, il quale abbia interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici o delle norme che traspongono tale diritto, e diretto a ottenere l’esclusione di un altro offerente, sia dichiarato irricevibile in applicazione di norme processuali nazionali che prevedono l’esame prioritario del ricorso incidentale presentato dall’altro offerente»);
   i)
19.01.2017 avente ad oggetto Corte cost., 245 del 2016 pubblicata altresì in Foro it., 2017, I, 75, secondo cui è inammissibile, salvo casi eccezionali, l’impugnativa di una procedura di gara da parte di una impresa che non vi abbia partecipato o chiesto di partecipare;
   l)
04.04.2017 avente ad oggetto Tar per la Liguria ordinanza n. 263 del 2017 (secondo cui «Va rimessa alla Corte di giustizia dell’Unione Europea la seguente questione pregiudiziale: se gli artt. 1, parr. 1, 2 e 3, e l’art. 2, par. 1, lett. b), della direttiva n. 89/665 CEE, avente ad oggetto il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, ostino ad una normativa nazionale che riconosca la possibilità di impugnare gli atti di una procedura di gara ai soli operatori economici che abbiano presentato domanda di partecipazione alla gara stessa, anche qualora la domanda giudiziale sia volta a sindacare in radice la procedura, derivando dalla disciplina della gara un’altissima probabilità di non conseguire l’aggiudicazione»)
(Corte giust. comm. ue, sez. VIII, sentenza 10.05.2017,  n. C-131/16, Archus - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA:  Illegittima la mancata notifica ai controinteressati nel caso di permesso di costruire in deroga al PGT..
Per fondare la legittimazione e l’interesse ad agire di un’azione di annullamento rivolta avverso un permesso di costruire è sufficiente l’elemento della vicinitas, intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato. Ne consegue che, in sua presenza, non è necessario accertare concretamente se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino un effettivo pregiudizio per il ricorrente.
Ritiene il Collegio che questi principi possano essere applicati anche in caso di permesso di costruire in deroga, posto che trattasi pur sempre di atto autorizzatorio riguardante una specifica opera, il cui impatto sul carico urbanistico influisce normalmente sugli interessi dei proprietari dei fondi finitimi.
Ciò premesso si deve osservare che i ricorrenti sono proprietari di immobili residenziali collocati in un complesso condominiale che, contrariamente da quanto sostiene la controinteressata, è posto in prossimità della struttura oggetto dell’atto impugnato: ritiene infatti il Collegio che la distanza di cinquanta metri sia tutt’altro che eccessiva e non faccia dunque perdere il carattere della prossimità necessario per fondare la legittimazione e l’interesse ad agire.
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La disciplina riguardante i permessi di costruire rilasciati in deroga alle previsioni contenute negli strumenti urbanistici è contenuta nell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001 e nell’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005.
Stabilisce il secondo comma del suindicato art. 14 che dell’avvio del procedimento instaurato per il rilascio di tale tipologia di permessi è dato avviso agli interessati ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990. Disposizione analoga è contenuta nell’art. 40, ultimo comma, della legge regionale n. 12 del 2005.
Queste norme costituiscono deroga al principio generale, secondo il quale, per il rilascio del permesso di costruire, non è di regola necessario l’invio della comunicazione di avviso di avvio del procedimento ai proprietari dei fondi finitimi che potrebbero avere interesse contrario alla realizzazione dell’opera.
La deroga si spiega in quanto, mentre per il rilascio del permesso di costruire ordinario non è necessaria alcuna attività di comparazione degli interessi coinvolti, dovendo l’amministrazione semplicemente valutare la conformità dell’intervento alla normativa urbanistico-edilizia vigente, nei casi di permesso di costruire in deroga l’amministrazione deve invece effettuare una scelta discrezionale che si sostituisce a quella effettuata in sede di pianificazione, per il perfezionarsi della quale è dunque necessario l’apporto collaborativo dei vari soggetti portatori degli interessi coinvolti, così come avviene appunto per le scelte urbanistiche effettuate in sede di redazione del piano di governo del territorio.
E proprio perché il procedimento volto al rilascio di un permesso di costruire in deroga presenta, sul piano funzionale, caratteristiche simili a quello di approvazione di una variante al piano urbanistico, è necessario consentire una ampia partecipazione allo stesso procedimento, così come avviene per i procedimenti finalizzati all’approvazione delle varianti. Ne consegue che, nell’individuare i soggetti interessati ai sensi dell’art. 14, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 40, ultimo comma, della legge regionale n. 12 del 2005, non si possono utilizzare criteri restrittivi, dovendosi dare alle due norme ampia applicazione.
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Viene dedotta la violazione dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005 in quanto l’Amministrazione -senza autorizzare espressamente una deroga alle previsioni di piano riguardanti le destinazioni funzionali- permetterebbe la realizzazione di una struttura avente destinazione contrastante con le previsioni dello strumento urbanistico, violando peraltro in tal modo le suddette norme che, a dire dei ricorrenti, non ammetterebbero la possibilità di assentire deroghe alle destinazioni di piano impresse alle aree.
La censura è fondata per le ragioni di seguito esposte.
L’area interessata dal permesso di costruire impugnato ricade in zona asservita a verde pubblico, disciplinata dall’art. PS11 delle NTA del Piano dei Servizi. In base a tale norma, nella suddetta zona sono insediabili “punti di ristoro”.
Invero, in mancanza di esplicita definizione contenuta nella normativa regionale e/o di piano, al concetto di “punto di ristoro” non possano essere ricondotti i veri e propri ristoranti, giacché si deve ritenere che, in un’area destinata a verde pubblico, lo strumento di pianificazione intenda consentire l’insediamento di strutture aventi impatto urbanistico poco significativo che non costituiscano esse stesse polo di attrazione, ma siano esclusivamente funzionali a rendere più godibile la fruizione del parco. Si deve pertanto ritenere che nel concetto di “punto di ristoro” possano rientrare solo le strutture di dimensioni contenute, dove si somministrano bevande e, tutt’al più, cibi di veloce preparazione e consumazione.
A contrario non è utile il richiamo all’art. 30 delle NTA del Piano delle Regole, in quanto neppure tale norma fornisce la definizione specifica di “punto di ristoro”.
Ne consegue che la destinazione dell’opera oggetto degli atti impugnati, destinata ad ospitare un vero e proprio ristorante, non è compatibile con le previsioni di piano anche per il profilo della destinazione funzionale.
Va a questo punto rilevato che la delibera di Consiglio comunale non ha autorizzato la deroga alla destinazione funzionale, ma ha esclusivamente autorizzato la deroga al parametro riguardante il rapporto massimo di copertura.
Si deve pertanto rilevare che -indipendentemente dalla risoluzione delle problematiche astratte circa la possibilità, per i permessi di costruire in deroga, di derogare alle previsioni di piano attinenti alle destinazioni funzionali delle aree (problematica che involge anche questioni di carattere costituzionale stante la non conformità sul punto dell’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005 con l’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001, il quale per gli aspetti che vengono qui in rilievo sembrerebbe dettare norme di principio)- sul piano concreto, l’opera oggetto del presente giudizio non possa comunque essere realizzata, e ciò proprio in quanto, con la suddetta delibera, il Comune (evidentemente ritenendo erroneamente che l’opera stessa fosse, sotto il profilo funzionale, conforme allo strumento urbanistico) non ha autorizzato alcuna deroga alle destinazioni d’uso.
Coglie pertanto nel segno la doglianza del ricorrente nella parte in cui deduce appunto l’illegittimità degli atti impugnati per aver essi assentito la realizzazione di un’opera non conforme alle previsioni contenute nello strumento urbanistico che disciplinano le destinazioni d’uso delle aree.
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In base all’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001 ed all’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005, il permesso di costruire in deroga agli strumenti di pianificazione può essere rilasciato esclusivamente per la realizzazione di impianti ed edifici pubblici o di interesse pubblico.
La giurisprudenza ha precisato che, siccome le norme fanno riferimento, non solo alle opere pubbliche, ma anche agli interventi di interesse pubblico, il permesso di costruire in deroga può essere rilasciato anche per la realizzazione di edifici privati per i quali sussista appunto un interesse pubblico alla loro realizzazione.
La giurisprudenza afferma inoltre che la deliberazione di consiglio comunale che assente tale tipologia di interventi deve essere specificamente motivata con riguardo al profilo dell’interesse pubblico, dovendo le amministrazioni dare conto, nel corpo motivazionale dell’atto, delle superiori ragioni che le inducono ad introdurre un regime distonico rispetto alle previsioni di piano le quali, per loro natura, dovrebbero aver delineato un quadro armonico degli assetti del territorio, assetti che potrebbero venire invece compromessi dalle disposizioni derogatorie.
Si deve ancora aggiungere che, fra le ragioni che possono sostenere la scelta, vi può anche essere quella di ovviare a situazioni di degrado.
Va però rilevato che, a parere del Collegio, nel caso specifico, il riferimento alla situazione di degrado contenuta nel provvedimento impugnato (nel quale si evidenzia che la struttura precaria attualmente esistente, oltre che non contestualizzata con l’ambiente, arreca disturbo alla quiete pubblica) non fornisce adeguato supporto motivazionale alla scelta operata, giacché non si spiegano le ragioni per le quali, invece di intervenire sul piano sanzionatorio, si è preferito intervenire con un permesso di costruire in deroga, e ciò sebbene la situazione di degrado cui si intende ovviare è stata proprio causata dall’utilizzo inappropriato della terrazza di cui trattasi.
In altre parole, la delibera impugnata avrebbe dovuto spiegare le ragioni per le quali, invece di vietare l’utilizzo di una struttura considerata fonte di degrado, si sia ritenuto che solo l’ampliamento del ristorante esistente costituisca elemento di valorizzazione dell’area e della globalità del quartiere, tanto da assurgere al rango di interesse pubblico preminente che giustifica addirittura la deroga al vigente strumento urbanistico.
Questi aspetti non sono stati illustrati nel corpo motivazionale del provvedimento impugnato; si deve pertanto ritenere che la motivazione in esso contenuta sia effettivamente inadeguata.
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1. Con il ricorso introduttivo viene impugnata la deliberazione di Consiglio comunale del Comune di Basiglio n. 24 del 10.06.2016, con la quale è stata accolta la domanda presentata dalla società AD. s.r.l., finalizzata all’ottenimento di una deroga, ai sensi dell’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005 e dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001, per la realizzazione di un intervento edilizio non conforme allo strumento urbanistico.
2. L’intervento consiste nella chiusura di una terrazza di pertinenza di un ristorante, mediante la sostituzione delle strutture rimovibili con altra tipologia di strutture di carattere fisso.
...
9. Deve preliminarmente esaminarsi l’eccezione di inammissibilità del ricorso e dei motivi aggiunti sollevata dalla controinteressata secondo la quale i ricorrenti sarebbero privi di legittimazione ed interesse ad agire.
10. In proposito va osservato che, secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, dal quale il Collegio non ha motivo per discostarsi, per fondare la legittimazione e l’interesse ad agire di un’azione di annullamento rivolta avverso un permesso di costruire è sufficiente l’elemento della vicinitas, intesa come situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato. Ne consegue che, in sua presenza, non è necessario accertare concretamente se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino un effettivo pregiudizio per il ricorrente (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 19.11.2015, n. 5278; Id., sez. III, 17.11.2015, n. 5257; TAR Piemonte Torino, sez. II, 15.11.2016, n. 1407; TAR Sicilia Catania, sez. I, 18.01.2016, n. 164).
11. Ritiene il Collegio che questi principi possano essere applicati anche in caso di permesso di costruire in deroga, posto che trattasi pur sempre di atto autorizzatorio riguardante una specifica opera, il cui impatto sul carico urbanistico influisce normalmente sugli interessi dei proprietari dei fondi finitimi.
12. Ciò premesso si deve osservare che i ricorrenti sono proprietari di immobili residenziali collocati in un complesso condominiale che, contrariamente da quanto sostiene la controinteressata, è posto in prossimità della struttura oggetto dell’atto impugnato: ritiene infatti il Collegio che la distanza di cinquanta metri sia tutt’altro che eccessiva e non faccia dunque perdere il carattere della prossimità necessario per fondare la legittimazione e l’interesse ad agire.
13. Per questa ragione l’eccezione in esame va respinta.
14. Con il primo motivo viene dedotta la violazione dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto l’Amministrazione ha omesso di inviare ai ricorrenti la comunicazione di avviso di avvio del procedimento.
15. In proposito si osserva quanto segue.
16. La disciplina riguardante i permessi di costruire rilasciati in deroga alle previsioni contenute negli strumenti urbanistici è contenuta nell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001 e nell’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005.
17. Stabilisce il secondo comma del suindicato art. 14 che dell’avvio del procedimento instaurato per il rilascio di tale tipologia di permessi è dato avviso agli interessati ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990. Disposizione analoga è contenuta nell’art. 40, ultimo comma, della legge regionale n. 12 del 2005.
18. Queste norme costituiscono deroga al principio generale, secondo il quale, per il rilascio del permesso di costruire, non è di regola necessario l’invio della comunicazione di avviso di avvio del procedimento ai proprietari dei fondi finitimi che potrebbero avere interesse contrario alla realizzazione dell’opera (cfr. sul punto TAR Piemonte, sez. II, 14.03.2014, n. 448).
La deroga si spiega in quanto, mentre per il rilascio del permesso di costruire ordinario non è necessaria alcuna attività di comparazione degli interessi coinvolti, dovendo l’amministrazione semplicemente valutare la conformità dell’intervento alla normativa urbanistico-edilizia vigente, nei casi di permesso di costruire in deroga l’amministrazione deve invece effettuare una scelta discrezionale che si sostituisce a quella effettuata in sede di pianificazione, per il perfezionarsi della quale è dunque necessario l’apporto collaborativo dei vari soggetti portatori degli interessi coinvolti, così come avviene appunto per le scelte urbanistiche effettuate in sede di redazione del piano di governo del territorio.
19. E proprio perché il procedimento volto al rilascio di un permesso di costruire in deroga presenta, sul piano funzionale, caratteristiche simili a quello di approvazione di una variante al piano urbanistico, è necessario consentire una ampia partecipazione allo stesso procedimento, così come avviene per i procedimenti finalizzati all’approvazione delle varianti. Ne consegue che, nell’individuare i soggetti interessati ai sensi dell’art. 14, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 40, ultimo comma, della legge regionale n. 12 del 2005, non si possono utilizzare criteri restrittivi, dovendosi dare alle due norme ampia applicazione.
20. Ciò premesso si deve osservare che il Comune di Basiglio non ha inviato ai ricorrenti la comunicazione di avviso di avvio del procedimento culminato con l’adozione dell’atto impugnato, e ciò sebbene questi soggetti risiedano in prossimità della struttura interessata dall’intervento.
21. Ritiene il Collegio che questa omissione costituisca una evidente violazione dell’art. 14, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 e che, quindi, la censura in esame sia da condividere.
22. A contrario non vale eccepire, come fa la controinteressata, che fra la struttura oggetto dell’intervento e le abitazioni dei ricorrenti è interposto un parco comunale. In proposito è, infatti, sufficiente rilevare che il parco comunale è di dimensioni contenute, tanto è vero che, come riconosce la stessa controinteressata, le abitazioni più prossime sono collocate a distanza inferiore a cinquanta metri dalla struttura; ad una distanza che permette ai residenti di percepirne appieno l’impatto visivo nonché di percepirne le propagazioni rumorose che da essa promanano.
23. Si deve pertanto ritenere che i ricorrenti rivestano la qualifica di soggetti interessati ai sensi del secondo comma dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001; ne consegue, che, come anticipato, l’Amministrazione avrebbe dovuto inviare loro la comunicazione prevista dalla suddetta norma.
24. Va quindi ribadita la fondatezza della censura.
25. Con il secondo motivo del ricorso introduttivo ed il primo motivo dei motivi aggiunti (rubricato sub 2), viene dedotta la violazione dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005 in quanto, con l’atto impugnato, l’Amministrazione -senza autorizzare espressamente una deroga alle previsioni di piano riguardanti le destinazioni funzionali- permetterebbe la realizzazione di una struttura avente destinazione contrastante con le previsioni dello strumento urbanistico, violando peraltro in tal modo le suddette norme che, a dire dei ricorrenti, non ammetterebbero la possibilità di assentire deroghe alle destinazioni di piano impresse alle aree.
26. La censura è fondata per le ragioni di seguito esposte.
27. L’area interessata dal permesso di costruire impugnato ricade in zona asservita a verde pubblico, disciplinata dall’art. PS11 delle NTA del Piano dei Servizi.
28. In base a tale norma, nella suddetta zona sono insediabili “punti di ristoro”.
29. Tanto premesso, va osservato che, secondo il Collegio, in mancanza di esplicita definizione contenuta nella normativa regionale e/o di piano, al concetto di “punto di ristoro” non possano essere ricondotti i veri e propri ristoranti, giacché si deve ritenere che, in un’area destinata a verde pubblico, lo strumento di pianificazione intenda consentire l’insediamento di strutture aventi impatto urbanistico poco significativo che non costituiscano esse stesse polo di attrazione, ma siano esclusivamente funzionali a rendere più godibile la fruizione del parco. Si deve pertanto ritenere che nel concetto di “punto di ristoro” possano rientrare solo le strutture di dimensioni contenute, dove si somministrano bevande e, tutt’al più, cibi di veloce preparazione e consumazione (in questo senso si veda Consiglio di Stato, sez. IV, 06.08.2013, n. 4148).
30. A contrario non è utile il richiamo all’art. 30 delle NTA del Piano delle Regole, in quanto neppure tale norma fornisce la definizione specifica di “punto di ristoro”.
31. Ne consegue che la destinazione dell’opera oggetto degli atti impugnati, destinata ad ospitare un vero e proprio ristorante, non è compatibile con le previsioni di piano anche per il profilo della destinazione funzionale.
32. Va a questo punto rilevato che la delibera di Consiglio comunale n. 24 del 10.06.2016 non ha autorizzato la deroga alla destinazione funzionale, ma ha esclusivamente autorizzato la deroga al parametro riguardante il rapporto massimo di copertura.
33. Si deve pertanto rilevare che -indipendentemente dalla risoluzione delle problematiche astratte circa la possibilità, per i permessi di costruire in deroga, di derogare alle previsioni di piano attinenti alle destinazioni funzionali delle aree (problematica che involge anche questioni di carattere costituzionale stante la non conformità sul punto dell’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005 con l’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001, il quale per gli aspetti che vengono qui in rilievo sembrerebbe dettare norme di principio)- sul piano concreto, l’opera oggetto del presente giudizio non possa comunque essere realizzata, e ciò proprio in quanto, con la suddetta delibera, il Comune (evidentemente ritenendo erroneamente che l’opera stessa fosse, sotto il profilo funzionale, conforme allo strumento urbanistico) non ha autorizzato alcuna deroga alle destinazioni d’uso.
34. Coglie pertanto nel segno la doglianza del ricorrente nella parte in cui deduce appunto l’illegittimità degli atti impugnati per aver essi assentito la realizzazione di un’opera non conforme alle previsioni contenute nello strumento urbanistico che disciplinano le destinazioni d’uso delle aree.
35. Preme al Collegio precisare che a contrario non è neppure utile invocare l’art. 23-bis, primo comma, lett. a-bis), del d.P.R. n. 380 del 2001 (che esclude la rilevanza urbanistica dei mutamenti di destinazione d’uso che comunque non sottraggono ai fabbricati la destinazione turistico-ricettiva), atteso che il terzo comma di tale norma fa salve le diverse disposizioni contenute negli strumenti urbanistici e che, per le ragioni sopra illustrate, si deve escludere che lo strumento urbanistico del Comune di Basiglio abbia inteso assentire l’insediamento di veri e propri ristoranti nell’area oggetto del presente giudizio.
36. Per tutte queste ragioni deve essere ribadita la fondatezza della censura in esame.
37. Con il terzo motivo del ricorso introduttivo e con il secondo motivo dei motivi aggiunti (rubricato sub 3), viene ancora dedotta la violazione dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005 in quanto, a dire dei ricorrenti, le ragioni di interesse pubblico addotte a fondamento della decisione di concedere la deroga sarebbero del tutto inadeguate.
38. Anche questa censura è fondata per le ragioni di seguito esposte.
39. In base all’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001 ed all’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005, il permesso di costruire in deroga agli strumenti di pianificazione può essere rilasciato esclusivamente per la realizzazione di impianti ed edifici pubblici o di interesse pubblico.
40. La giurisprudenza ha precisato che, siccome le norme fanno riferimento, non solo alle opere pubbliche, ma anche agli interventi di interesse pubblico, il permesso di costruire in deroga può essere rilasciato anche per la realizzazione di edifici privati per i quali sussista appunto un interesse pubblico alla loro realizzazione (cfr., Consiglio di Stato, sez. IV, 12.12.2005 n. 7031; id., sez V, 29.10.2002 n. 5913; TAR Puglia Lecce, sez. I, 23.09.2016, n. 1475; TAR Lombardia Milano, sez. II, 07.02.2014, n. 417).
41. La giurisprudenza afferma inoltre che la deliberazione di consiglio comunale che assente tale tipologia di interventi deve essere specificamente motivata con riguardo al profilo dell’interesse pubblico, dovendo le amministrazioni dare conto, nel corpo motivazionale dell’atto, delle superiori ragioni che le inducono ad introdurre un regime distonico rispetto alle previsioni di piano le quali, per loro natura, dovrebbero aver delineato un quadro armonico degli assetti del territorio, assetti che potrebbero venire invece compromessi dalle disposizioni derogatorie (Consiglio di Stato, sez. V, 05.09.2014, n. 4518; id., 20.12.2013, n. 6136; id., sez. IV, 23.07.1999, n. 4664; id., 03.02.1981, n. 128).
42. Si deve ancora aggiungere che, fra le ragioni che possono sostenere la scelta, vi può anche essere quella di ovviare a situazioni di degrado.
43. Va però rilevato che, a parere del Collegio, nel caso specifico, il riferimento alla situazione di degrado contenuta nel provvedimento impugnato (nel quale si evidenzia che la struttura precaria attualmente esistente, oltre che non contestualizzata con l’ambiente, arreca disturbo alla quiete pubblica) non fornisce adeguato supporto motivazionale alla scelta operata, giacché non si spiegano le ragioni per le quali, invece di intervenire sul piano sanzionatorio, si è preferito intervenire con un permesso di costruire in deroga, e ciò sebbene la situazione di degrado cui si intende ovviare è stata proprio causata dall’utilizzo inappropriato della terrazza di cui trattasi.
44. In altre parole, la delibera impugnata avrebbe dovuto spiegare le ragioni per le quali, invece di vietare l’utilizzo di una struttura considerata fonte di degrado, si sia ritenuto che solo l’ampliamento del ristorante esistente costituisca elemento di valorizzazione dell’area e della globalità del quartiere, tanto da assurgere al rango di interesse pubblico preminente che giustifica addirittura la deroga al vigente strumento urbanistico.
45. Questi aspetti non sono stati illustrati nel corpo motivazionale del provvedimento impugnato; si deve pertanto ritenere che la motivazione in esso contenuta sia effettivamente inadeguata.
46. Le censure in esame sono, quindi, fondate (
TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza  09.05.2017 n. 1045 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Strumenti urbanistici: il valore delle osservazioni dei proprietari interessati
Le osservazioni formulate dai proprietari interessati costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute, in modo serio e ragionevole, in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano regolatore generale.
D’altra parte, su un piano più generale, le scelte effettuate dall'Amministrazione nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico- discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al prg., salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
In questo senso, le uniche evenienze, che richiedono una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali sono date dal superamento degli standards minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree, dalla lesione dell'affidamento qualificato del privato, derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione e, infine, dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
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Con la seconda parte dell’unico motivo di impugnazione (che per ragioni logiche conviene esaminare in via prioritaria) gli appellanti deducono il difetto di motivazione che vizierebbe l’atto impugnato, in quanto la Regione non ha specificamente ed esaurientemente esternato le ragioni in base alle quali l’osservazione da loro proposta –pur favorevolmente esitata dal comune– non è stata accolta.
Il mezzo non merita positiva considerazione.
La Giurisprudenza di questa Sezione ha infatti da tempo chiarito che le osservazioni formulate dai proprietari interessati costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ritenute, in modo serio e ragionevole, in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano regolatore generale (cfr. fra le recenti IV Sez. nn. 3643 del 2016 e 874 del 2017).
D’altra parte, su un piano più generale, le scelte effettuate dall'Amministrazione nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico- discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al prg., salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
In questo senso, le uniche evenienze, che richiedono una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali sono date dal superamento degli standards minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree, dalla lesione dell'affidamento qualificato del privato, derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione e, infine, dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
Dal momento che gli appellanti non rientrano in alcuna delle descritte situazioni differenziate il mezzo in parola va quindi conclusivamente disatteso.
Sotto un diverso profilo gli appellanti osservano che l’inserimento del loro fondo nella zona di espansione (all’interno della quale l’edificazione è consentita ai sensi delle NTA comunali solo previa redazione di un piano di lottizzazione di misura eccedente quella del fondo stesso) si dimostra illogica e irrazionale in quanto la zona circostante, infatti, è già densamente edificata.
Anche questo mezzo non merita positiva considerazione in quanto in primo luogo investe il merito di scelte discrezionali coinvolgenti il governo del territorio e riservate all’Amministrazione, come tali insindacabili in sede giurisdizionale (
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.05.2017 n. 2089 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa modifica normativa dell'art. 21-nonies della Legge n. 241/1990, introdotta dall'art. 6, comma 1, lett. d), n. 1) della Legge n. 124/2015 -che prevede un regime temporale rigido di annullabilità dell'atto amministrativo (18 mesi)- si applica ai provvedimenti in autotutela di provvedimenti di primo grado adottati successivamente all'entrata in vigore della norma.
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... per l'annullamento della determinazione del Responsabile del V Settore – Tecnico del Comune di Mercogliano 04.11.2015 n. 166 – Registro Generale n. 416 del 03.12.2015, recante "annullamento in autotutela del permesso di costruire n. 17/2006 del 05/04/2006 e succ. variante del 19/12/2006 e di tutti gli atti preordinati, connessi, collegati e conseguenti", notificato a Banco Popolare il 18.12.2015, nonché di eventuali atti connessi e presupposti.
...
Il ricorso è infondato.
I. Non convince il primo mezzo, col quale parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 21-nonies della l. n. 241/1990 per essere stato emesso l’impugnato provvedimento del 03.12.2015 ben oltre il termine di diciotto mesi contemplato da detta norma con la modifica introdotta dall’art. 6 della legge n. 124/2015. Il lasso di tempo decorso non sarebbe comunque ragionevole, riferendosi l’atto a permessi di costruire rilasciati nel 2006 e quindi risalenti a circa dieci anni prima.
L’infondatezza si deve al fatto che la modifica normativa dell'art. 21-nonies della Legge n. 241/1990, introdotta dall'art. 6, comma 1, lett. d), n. 1) della Legge n. 124/2015 -che prevede un regime temporale rigido di annullabilità dell'atto amministrativo- si applica ai provvedimenti in autotutela di provvedimenti di primo grado adottati successivamente all'entrata in vigore della norma (TAR Napoli, sez. II, 12.09.2016, n. 4229).
La vicenda di causa risulta quindi estranea all’alveo applicativo della norma invocata da parte ricorrente, in considerazione della data cui risalgono i permessi di costruire annullati. Il decorso di circa due lustri dalla data di adozione di questi, a sua volta, non rileva stante la particolare pregnanza dell’interesse pubblico sotteso all’atto impugnato, come si esporrà al capo che segue. Il motivo in esame è quindi infondato (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 08.05.2017 n. 869 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Niente spoils system per l'incarico tecnico-professionale affidato dal Sindaco ad un soggetto esterno al Comune.
   1) nell'ambito del lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, con riguardo agli incarichi dirigenziali, sulla base alla giurisprudenza della Corte costituzionale affermatasi a partire dalle sentenze n. 103 e n. 104 del 2007 e ormai consolidata, le uniche ipotesi in cui l'applicazione dello "spoils system" può essere ritenuta coerente con i principi costituzionali di cui all'art. 97 Cost. sono quelle nelle quali si riscontrano i requisiti della "apicalità" dell'incarico nonché della "fiduciarietà" della scelta del soggetto da nominare, con la ulteriore specificazione che la "fiduciarietà", per legittimare l'applicazione del suindicato meccanismo, deve essere intesa come preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e personale con il titolare dell'organo politico, che di volta in volta viene in considerazione come nominante.
Pertanto, il meccanismo non è applicabile in caso di incarico di tipo tecnico-professionale che non comporta il compito di collaborare direttamente al processo di formazione dell'indirizzo politico, ma soltanto lo svolgimento di funzioni gestionali e di esecuzione rispetto agli indirizzi deliberati dagli organi di governo dell'Ente di riferimento. In questa caso, infatti, la "fiduciarietà" della scelta del soggetto da nominare non si configura come preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e personale con il titolare dell'organo politico nominante
;
   2)
l'interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto dell'art. 97 Cost., come inteso dalla consolidata giurisprudenza costituzionale in materia di "spoils system", del combinato disposto degli artt. 51 e 110, commi 3, primo periodo, e 4, del d.lgs. n. 267 del 2000 con l'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, porta ad escludere che un incarico di tipo tecnico-professionale, che non implica il compito di collaborare direttamente al processo di formazione dell'indirizzo politico dell'Ente di riferimento (nella specie: Comune), che sia stato affidato dal Sindaco di un Comune, con un contratto prevedente la coincidenza del termine finale del rapporto con "lo scadere del mandato elettorale del Sindaco", possa essere oggetto di anticipata cessazione da parte del Comune stesso a causa della morte improvvisa del Sindaco persona fisica nominante, sull'assunto del "carattere fiduciario" dell'incarico medesimo
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III - Esame delle censure
3. L'esame congiunto di tutti i motivi di censura - reso opportuno dalla loro intima connessione - porta all'accoglimento del ricorso, per le ragioni di seguito esposte.
...
4. Deve essere chiarito che, nella presente controversia, si discute dell'incarico di funzioni di dirigente dei Settori Urbanistica, Lavori pubblici, Programmazione e progettazione originariamente attribuito all'attuale ricorrente nel marzo 1999 fino allo scadere del mandato elettorale del sindaco dal Sindaco del Comune di Reggio Calabria, incarico confermato con la stessa durata nel maggio 2001 dopo le elezioni comunali svoltesi "medio tempore", di cui lo stesso Comune nel maggio 2002 ha disposto l'anticipata cessazione, in conseguenza dell'improvviso decesso del Sindaco persona fisica che aveva conferito l'incarico.
La principale questione controversa è quella di stabilire se l'art. 110, commi 3 e 4, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (d'ora in poi: TUEL) possa consentire di applicare nella specie il meccanismo dello "spoils system" che comporta la cessazione anticipata dell'incarico e se tale risultato possa, o meno, considerarsi conforme alla clausola del contratto accessorio al provvedimento di conferimento dell'incarico ove si è stabilito che il termine finale del rapporto doveva coincidere con "lo scadere del mandato elettorale del sindaco".
5. La soluzione di tale questione comporta la ricostruzione di una complessa vicenda normativa e fattuale.
Tale ricostruzione è stata effettuata dalla Corte d'appello di Reggio Calabria muovendo dalla premessa secondo cui in base all'art. 110, comma 3, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 (d'ora in poi: TUEL) sarebbe consentita la cessazione automatica degli incarichi dirigenziali non apicali del tipo qui considerato al venire meno del "rapporto fiduciario" con il Sindaco persona fisica che ha provveduto al relativo conferimento, sicché in caso di improvviso decesso del Sindaco prima della fine del relativo mandato a detti incarichi potrebbe applicarsi il meccanismo dello "spoils system".
6. Tale premessa è erronea in quanto non trova riscontro né nella lettera e nella "rado" della suindicata disposizione, né nella consolidata giurisprudenza in materia di "spoils system" della Corte costituzionale (di cui si dirà più avanti) condivisa da questa Corte di cassazione, alla quale il Collegio intende dare continuità.
Ne risultano prive di base, e quindi infondate, tutte le ulteriori statuizioni che -partendo dalla suindicata premessa- hanno condotto la Corte territoriale al rigetto dell'appello proposto da Gi.Ro.Fi., a partire dalla interpretazione della clausola del contratto di lavoro dirigenziale originariamente stipulato dall'appellante con il Comune di Reggio Calabria l'11.03.1999 -il cui contenuto, come si è detto, è stato confermato con decreto n. 102 del 28.05.2001, successivo a nuove elezioni comunali svoltesi "medio tempore"- ove si era stabilito che il termine finale del rapporto dovesse coincidere con "lo scadere del mandato elettorale del Sindaco".
7. A tale ultimo riguardo va, in particolare, sottolineato come la interpretazione data dalla Corte territoriale alla suddetta clausola del contratto "de quo", oltre ad essere il "portato" di una erronea interpretazione della disciplina generale in materia di incarichi conferiti dalle Amministrazioni Pubbliche effettuata senza alcuna considerazione dei principi affermati in materia da una giurisprudenza costituzionale ormai decennale, risulta anche essere stata effettuata senza il dovuto rispetto dei criteri di ermeneutica contrattuale dettati dal codice civile (artt. 1362 e ss. cod. civ.).
8. Per chiarezza espositiva si ritiene opportuno procedere, in primo luogo, a delineare, per sommi capi il quadro normativo di riferimento, partendo dal duplice presupposto secondo cui, diversamente da quanto si afferma nella sentenza impugnata:
   a) è indubbia l'applicabilità agli enti locali della disciplina in materia di incarichi dirigenziali dettata per il lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni Pubbliche dal relativo TU (d'ora in poi: TUPI), a partire dall'originario d.lgs. n. 29 del 1993 fino all'attuale d.lgs. n. 165 del 2001 e s.m.i.;
   b) agli incarichi affidati a soggetti esterni alla Amministrazione si applica, in linea di massima, la medesima disciplina dettata per gli incarichi dati a dipendenti dell'Amministrazione, tranne che per gli aspetti intrinsecamente incompatibili ovvero specificamente diversificati.
8.1. Invero, a norma dell'art. 1 del TUPI le disposizioni contenute in tale TU "disciplinano l'organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche" (comma 1), intendendosi per amministrazioni pubbliche, tra le altre, "le amministrazioni dello Stato, le Regioni, le Province e i Comuni" (comma 2). Tali disposizioni "costituiscono principi fondamentali ai sensi dell'art. 117 Cost." (comma 3) e, in quanto tali, devono trovare applicazione pure nell'ambito delle Amministrazioni degli enti locali. In epoca successiva ai fatti per cui è controversia ciò è stato reso palese attraverso la sostituzione dell'originario comma 6 dell'art. 7 dello stesso TUPI -disposizione questa inserita nel Titolo I ("Principi generali")- con i commi 6, 6-bis e 6-ter dell'articolo, che poi sono stati ulteriormente modificati.
È stato così chiarito, al comma 6, che le amministrazioni pubbliche, per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, possono conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa ad esperti di provata competenza, soltanto in presenza dei presupposti di legittimità ivi indicati e si è aggiunto che "i regolamenti di cui all'art. 110, comma 6, del TU di cui al d.lgs. 18.08.2000, n. 267 si adeguano ai principi di cui al comma 6" (vedi: comma 6-ter, introdotto con decorrenza dal 12.08.2006, dal d.l. n. 223 del 2006, art. 32, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006, richiamato da Cass. 13.01.2014, n. 478, cui si rinvia per eventuali ulteriori approfondimenti).
8.2. Parallelamente, gli artt. 88 e 111 del TUEL hanno previsto, rispettivamente, che:
   a) "all'ordinamento degli uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi i dirigenti" si applicano, oltre a quelle del TUEL, le disposizioni del d.lgs. 03.02.1993, n. 29 e successive modificazioni ed integrazioni e quindi, nel tempo, quelle del d.lgs. n. 165 del 2001 (art. 88);
   b) con particolare riguardo alla disciplina della dirigenza, gli enti locali, nell'esercizio della propria potestà regolamentare e statutaria, devono adeguare i propri statuti e i regolamenti oltre che ai principi dettati dal TUEL e anche a quelli stabiliti del capo II ("Dirigenza") del d.lgs. n. 29 del 1993 e s.m.i. cit.
Peraltro, anche in questo ambito, tale soluzione è stata definitivamente ribadita con il d.lgs. 27.10.2009, n. 150, art. 40 -avente decorrenza 15.11.2009, quindi successiva ai fatti per cui è controversia- ove è stato nuovamente stabilito che le disposizioni dei commi 6 (come modificato) e 6-bis dell'art. 19 cit. -comprendenti la norma sulla durata degli incarichi- si applicano alle amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, e cioè a tutte le Amministrazioni pubbliche, tra cui le Regioni, le Province e i Comuni (vedi comma 6-ter dell'art. 19 cit.).
8.3. Comunque, deve essere precisato che i suindicati interventi legislativi chiarificatori successivi ai fatti di causa sono stati qui richiamati soltanto per completezza -e per dare conto dell'evoluzione del quadro normativo- in quanto l'applicabilità agli enti locali del regime degli incarichi esterni dettato dal TUPI era già indubbia da quando la relativa normativa è entrata originariamente in vigore.
In particolare, dell'applicabilità, in aggiunta alla normativa dettata dal TUEL, dell'art. 19 del TUPI (rubricato: "Incarichi di funzioni dirigenziali"), non poteva dubitarsi da quando è entrato in vigore l'art. 111 del TUEL (13.10.2000), visto che il suddetto art. 19 è compreso tra le norme del Capo II del TUPI richiamate dall'art. 111 stesso.
8.4. In base all'indicato art. 19 del TUPI (nel testo applicabile "ratione temporis") gli incarichi di funzione dirigenziale, che non comportano la direzione degli uffici di livello dirigenziale generale, come quello "de quo" (come si dirà più avanti):
   a) sono conferiti a tempo determinato;
   b) "hanno durata non inferiore a due anni e non superiore a sette anni, con facoltà di rinnovo" (comma 2);
   c) sono revocati nelle previste ipotesi di responsabilità dirigenziale per inosservanza delle direttive generali e per i risultati negativi dell'attività amministrativa e della gestione ovvero in caso di risoluzione consensuale del contratto individuale (comma 7).
L'art. 110, comma 4, TUEL prevede come ulteriore specifica ipotesi di risoluzione di diritto del contratto a tempo determinato in argomento, quella del "caso in cui l'ente locale dichiari il dissesto o venga a trovarsi nelle situazioni strutturalmente deficitarie".
Anche in questo ambito si sono avuti ulteriori interventi del legislatore, successivi ai fatti di causa. Così il d.l. n. 155 del 2005, art. 14-sexies, convertito con modificazioni dalla legge n. 168 del 2005, nel modificare l'art. 19 cit. circa le modalità del conferimento degli incarichi dirigenziali, ha stabilito, tra l'altro, che la loro durata non possa essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque anni. In tal modo la durata massima degli incarichi disciplinati dall'art. 19 cit. è stata allineata a quella prevista dal TUEL, il cui art. 110, comma 3, nel primo periodo, stabilisce che gli incarichi a contratto -qual'è quello per cui è controversia- non possono avere durata superiore al mandato elettivo del sindaco (o del presidente della Provincia) in carica.
Ebbene, pure la suddetta modifica legislativa, evidentemente diretta ad equiparare il più possibile la disciplina degli incarichi esterni conferiti dalle diverse Amministrazioni pubbliche pure dal punto di vista della durata, offre un ulteriore elemento ermeneutico -di tipo evolutivo- volto a confermare che il significato da attribuire alla suindicata disposizione dell'art. 110, comma 3, del TUEL non può che essere quello, e solo quello, di indicare nel quinquennio la durata massima degli incarichi.
8.5. Quanto al CCNL del Comparto Regioni ed Enti Locali Area della Dirigenza 1998-2001, all'art. 13 (Affidamento e revoca degli incarichi), nel sostituire l'art. 22 del CCNL del 10.04.1996:
   a) ribadisce che gli enti, con gli atti previsti dai rispettivi ordinamenti, adeguano le regole sugli incarichi dirigenziali ai principi stabiliti dall'art. 19, commi 1 e 2, del TUPI, "con particolare riferimento ai criteri per il conferimento e la revoca degli incarichi e per il passaggio ad incarichi diversi nonché per relativa durata che non può essere inferiore a due anni, fatte salve le specificità da indicare nell'atto di affidamento e gli effetti derivanti dalla valutazione annuale dei risultati";
   b) aggiunge che "la revoca anticipata dell'incarico rispetto alla scadenza può avvenire solo per motivate ragioni organizzative e produttive o per effetto dell'applicazione del procedimento di valutazione dei risultati".
Per quel che si è detto - contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza impugnata - non può certamente dubitarsi che la suddetta disciplina contrattuale abbia portata generale, ma va anche aggiunto che essa si limita a chiarire il significato della disciplina legislativa e a confermare l'obbligo degli Enti locali di adeguamento della propria disciplina sugli incarichi dirigenziali a quella prevista dal TUPI.
9. A tutto questo va aggiunto che la Corte territoriale -nell'affermare che le sentenze della Corte costituzionale n. 161 del 2008 e n. 103 del 2007, richiamate dall'appellante ai fini della prospettata questione di legittimità costituzionale, riguardano fattispecie non equiparabili a quella di cui si discute nel presente giudizio- non ha considerato che, al di là dell'incidente di costituzionalità, comunque tali sentenze si inseriscono nella copiosa giurisprudenza della Corte costituzionale che, a partire proprio dalla sentenza n. 103 del 2007 e dalla coeva sentenza n. 104 del 2007, ha riscontrato profili di illegittimità costituzionale in alcune discipline legislative in materia di "spoils system" e, nel contempo, ne ha meglio delineato i connotati, precisando che la decadenza automatica -in assenza di valutazioni concernenti i risultati raggiunti, condotte nel rispetto del principio del giusto procedimento- risulta in contrasto con l'art. 97 Cost., sotto il duplice profilo della tutela dell'imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione oltre che del principio di continuità dell'azione amministrativa.
Questo complesso cammino ha portato il Giudice delle leggi a precisare che le uniche ipotesi in cui l'applicazione dello "spoils system" può essere ritenuta coerente con i principi costituzionali sono quelle nelle quali si riscontrano i requisiti della "apicalità" dell'incarico nonché della "fiduciarietà" della scelta del soggetto da nominare, con la ulteriore specificazione che tale "fiduciarietà", per legittimare l'applicazione dell'indicato meccanismo, deve essere intesa come preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e personale con il titolare dell'organo politico, che di volta in volta viene in considerazione come nominante.
In assenza di tali requisiti, il meccanismo si pone in contrasto con l'art. 97 Cost., in quanto la sua applicazione viene a pregiudicare la continuità, l'efficienza e l'efficacia dell'azione amministrativa, oltre a comportare la sottrazione al titolare dell'incarico, dichiarato decaduto, delle garanzie del giusto procedimento (in particolare la possibilità di conoscere la motivazione del provvedimento di decadenza), poiché la rimozione del dirigente risulterebbe svincolata dall'accertamento oggettivo dei risultati conseguiti.
9.1. In questo ambito più volte (sentenze n. 228 del 2011, n. 224 e n. 34 del 2010, n. 390 e n. 351 del 2008, n. 104 e 103 del 2007) la Corte costituzionale ha affermato l'incompatibilità con l'art. 97 Cost. di disposizioni di legge prevedenti meccanismi di decadenza automatica dalla carica, dovuti a cause estranee alle vicende del rapporto instaurato con il titolare e non correlati a valutazioni concernenti i risultati conseguiti da quest'ultimo, quando tali meccanismi siano riferiti non al personale addetto ad uffici di diretta collaborazione con l'organo di governo (sentenza n. 304 del 2010) oppure a figure apicali, per le quali risulti decisiva la personale adesione agli orientamenti politici dell'organo nominante, ma ai titolari di incarichi dirigenziali che comportino l'esercizio di funzioni amministrative di attuazione dell'indirizzo politico, anche quando tali incarichi siano conferiti a soggetti esterni (sentenze n. 246 del 2011, n. 81 del 2010 e n. 161 del 2008).
Nel dichiarare l'illegittimità costituzionale di disposizioni regionali che prevedevano la decadenza automatica di figure tecnico- professionali incaricate non già del compito di collaborare direttamente al processo di formazione dell'indirizzo politico, ma di perseguire gli obiettivi definiti dagli atti di pianificazione e indirizzo degli organi di governo locali (sentenze n. 20 del 2016, n. 27 del 2014, n. 152 del 2013, n. 228 del 2011, n. 104 del 2007 e, ancora, n. 34 del 2010) la Corte ha dato rilievo al fatto che "le relative nomine richiedano il rispetto di specifici requisiti di professionalità, che le loro funzioni abbiano in prevalenza carattere tecnico-gestionale" e che i loro rapporti istituzionali con gli organi politici dell'Ente non siano diretti, bensì mediati da una molteplicità di livelli intermedi (sentenza n. 20 del 2016).
9.2. In sintesi se si tratta di figure tecnico-professionali incaricate non già del compito di collaborare direttamente al processo di formazione dell'indirizzo politico, ma chiamate a svolgere soltanto funzioni gestionali e di esecuzione rispetto agli indirizzi deliberati dagli organi di governo dell'Ente di riferimento il meccanismo dello "spoils system" non è applicabile anche se la nomina è avvenuta fiduciariamente, perché in questo caso la "fiduciarietà" della scelta del soggetto da nominare non si configura come preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e personale con il titolare dell'organo politico (vedi, da ultimo: sentenza n. 269 del 2016).
10. Poiché nella presente controversia si discute dell'utilizzabilità del meccanismo dello "spoils system" (dovuto al decesso del Sindaco nominante) per un incarico di funzioni dirigenziali di tipo tecnico-professionale (dirigenza dei Settori Urbanistica, Lavori pubblici, Programmazione e progettazione), ne risulta l'assoluta pertinenza della suddetta giurisprudenza costituzionale, alla quale si è conformata la giurisprudenza di questa Corte (vedi, per tutte: Cass. 22.07.2008, n. 20177; Cass. 09.06.2009, n. 13232; Cass. 10.02.2015, n. 2555; Cass. 18.02.2016, n. 3210; Cass. 15.07.2016, n. 14593).
All'applicazione dei principi affermati da tale giurisprudenza alla presente fattispecie consegue che:
   a) l'art. 110, comma 3, TUEL non può certamente essere inteso nel senso di consentire l'applicabilità dello "spoils system" ad incarichi non apicali e di tipo tecnico-professionale, a meno che non sia dimostrato che la "fiduciarietà" iniziale si configuri come preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e personale tra l'incaricato del titolare dell'organo politico di cui si tratta;
   b) a tale risultato ermeneutico si perviene in base all'obbligo dell'interprete di intendere tutte le norme in materia di "spoils system" in senso costituzionalmente orientato al rispetto dell'art. 97 Cost., come interpretato dalla Corte costituzionale;
   c) in particolare, rispetto a tale interpretazione è incompatibile l'attribuzione all'espressione "in carica" posta alla fine della prima frase dell'art. 110, comma 3, cit. -il cui testo completo, per quanto interessa, è il seguente: "3. I contratti di cui ai precedenti commi non possono avere durata superiore al mandato elettivo del sindaco ... in carica"- del significato di consentire la decadenza automatica dall'incarico tutte le volte in cui il sindaco per una qualunque ragione e, quindi, anche per il suo decesso improvviso, non sia più in carica, in quanto questo equivarrebbe a legittimare il ricorso al meccanismo dello "spoils system" anche in ipotesi nella quali ciò si porrebbe in contrasto con l'art. 97 della Costituzione, come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale;
   d) di conseguenza, la su riportata norma non può che essere intesa come diretta a stabilire un limite oggettivo é chiaro di durata massima degli incarichi di cui si tratta (la cui durata minima è quella stabilita dell'art. 19 TUPI), attraverso un implicito riferimento al precedente art. 51 TUEL, ove è stabilita la durata quinquennale del mandato elettivo "de quo";
   e) nello stesso modo devono, quindi, intendersi tutti gli atti che per gli incarichi in parola fanno riferimento alla durata del mandato, quindi anche la clausola contrattuale con la quale si è stabilito che il termine finale del rapporto in oggetto doveva coincidere con "lo scadere del mandato elettorale del Sindaco".
11. A proposito di questa clausola vi è da aggiungere che la Corte territoriale, nell'interpretarla, non ha neppure tenuto conto dei principi affermati da questa Corte in merito all'interpretazione delle clausole contrattuali.
11.1. Una prima inesattezza rinvenibile al riguardo nella sentenza impugnata è rappresentata dalla mancata considerazione della normativa sui contratti di lavoro a termine nella parte in cui stabilisce la necessità di fissare il termine finale del rapporto. In base a tale disciplina, in linea generale, la suddetta scadenza può anche non essere fissata in una data determinata purché sia comunque determinabile (Cass. 02.03.1994, n. 2047; Cass. 20.02.1990, n. 1234).
Ma ciò certamente non significa che si possa trattare di una data "variabile", determinata ad esclusiva discrezione della parte datoriale.
E, tanto meno, una simile legittima scelta può legittimare la creazione di ipotesi di risoluzione anticipata del contratto stipulato con una P.A. per un incarico dirigenziale che non trovino alcun riscontro nelle disposizioni normative di riferimento, come è avvenuto nella specie, avendo la Corte territoriale -per giustificare la propria decisione sul punto- richiamato il comma 4 dell'art. 110 del TUEL mentre tale disposizione non fa alcun riferimento, neppure implicito, al decesso improvviso del Sindaco, per la risoluzione di diritto, visto che testualmente stabilisce: "4. Il contratto a tempo determinato è risolto di diritto nel caso in cui l'ente locale dichiari il dissesto o venga a trovarsi nelle situazioni strutturalmente deficitarie".
Di conseguenza, anche in questa ottica, in conformità sia con l'art. 97 Cost. sia con la giurisprudenza di questa Corte, l'espressione usata dai contraenti per indicare il momento finale del rapporto non poteva che essere intesa nel senso di ricalcare la norma di cui all'art. 110, comma 3, TUEL, e quindi nel senso stabilire un termine finale certo di durata del rapporto (in armonia con quanto stabilito dal TUPI), tanto più considerando l'avvenuto prolungamento dell'originario termine biennale operato con il decreto 05.07.2001, che la Corte territoriale considera pacifico.
11.2. In ogni caso, in base al principio di utilità, la clausola stessa deve essere interpretata nel senso che possa produrre un effetto valido e conforme alla legge piuttosto che in senso contrario (arg. ex Cass. 20.03.2012, n. 8295).
11.3. Inoltre, secondo la consolidata e condivisa giurisprudenza di questa Corte
l'interpretazione del contratto, dal punto di vista logico-giuridico è un percorso circolare, il quale impone all'interprete di:
   (a) compiere l'esegesi del testo, considerandone il contenuto nella sua interezza e interpretando le clausole le une per mezzo delle altre, onde valutare il senso complessivo dell'atto;
   (b) ricostruire in base ad essa l'intenzione delle parti;
   (c) verificare se l'ipotesi di "comune intenzione" ricostruita sulla base del testo sia coerente con le parti restanti del contratto e con la condotta delle parti, il tutto facendo puntuale applicazione i dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ. (vedi, da ultimo: Cass. 10.05.2016, n. 9380; Cass. 15.07.2016, n. 14432; Cass. 09.12.2014, n. 25840).
12. Per concludere, nella sentenza impugnata, l'affermata utilizzabilità dello "spoils system" al caso di specie:
   a) con riguardo alla ricostruzione del quadro normativo di riferimento, risulta il frutto della mancata applicazione della consolidata giurisprudenza costituzionale e di legittimità in materia di cessazione anticipata degli incarichi dirigenziali nel lavoro pubblico, dalla quale agevolmente su desume l'inapplicabilità del suddetto meccanismo.
Ciò in quanto l'incarico di cui si tratta, oltre a non essere apicale, risulta pacificamente essere stato conferito per svolgere compiti di tipo tecnico-professionale nell'esercizio di funzioni meramente gestionali, sicché la fiduciarietà della scelta operata dal Sindaco nominante, titolare dell'organo politico "de quo", non risulta essersi basata su una preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e personale tra il nominante e il soggetto incaricato né si deduce che l'incarico sia stato attribuito per svolgere compiti di collaborazione diretta al processo di formazione del relativo indirizzo politico.
Inoltre, pure dai numerosi riscontri positivi ottenuti dal Ro.Fi. in sede di valutazione è facile arguire che, tutt'al più, si sia trattato di una "fiducia" nella preparazione tecnico-professionale dell'incaricato allo svolgimento delle diverse funzioni via via affidategli, con l'obbligo di perseguire in veste neutrale risultati ed obiettivi indicati dall'Amministrazione in conformità con gli indirizzi deliberati dagli organi di governo dell'Ente;
   b) con riguardo alla interpretazione della clausola relativa alla durata del contratto accessorio al provvedimento di conferimento dell'incarico, risulta viziata altresì dalla mancata applicazione corretta degli artt. 1362 e ss. cod. civ., che invece avrebbe consentito di dare alla clausola stessa il significato di attribuire al contratto una durata quinquennale, come stabilito dalla normativa di riferimento (in particolare dall'art. 110, comma 3, TUEL, primo periodo, cit., interpretato in conformità con l'art. 97 Cost.).
IV — Conclusioni
14. In sintesi, per le ragioni dianzi esposte il ricorso deve essere accolto, con assorbimento di ogni altro profilo di censura.
La sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d'appello di Reggio Calabria, in diversa composizione, che si atterrà, nell'ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i principi su affermati e, quindi, anche ai seguenti:
   1)
nell'ambito del lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni, con riguardo agli incarichi dirigenziali, sulla base alla giurisprudenza della Corte costituzionale affermatasi a partire dalle sentenze n. 103 e n. 104 del 2007 e ormai consolidata, le uniche ipotesi in cui l'applicazione dello "spoils system" può essere ritenuta coerente con i principi costituzionali di cui all'art. 97 Cost. sono quelle nelle quali si riscontrano i requisiti della "apicalità" dell'incarico nonché della "fiduciarietà" della scelta del soggetto da nominare, con la ulteriore specificazione che la "fiduciarietà", per legittimare l'applicazione del suindicato meccanismo, deve essere intesa come preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e personale con il titolare dell'organo politico, che di volta in volta viene in considerazione come nominante.
Pertanto, il meccanismo non è applicabile in caso di incarico di tipo tecnico-professionale che non comporta il compito di collaborare direttamente al processo di formazione dell'indirizzo politico, ma soltanto lo svolgimento di funzioni gestionali e di esecuzione rispetto agli indirizzi deliberati dagli organi di governo dell'Ente di riferimento. In questa caso, infatti, la "fiduciarietà" della scelta del soggetto da nominare non si configura come preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e personale con il titolare dell'organo politico nominante
(vedi, da ultimo: Corte cost. sentenza n. 269 del 2016);
   2)
l'interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto dell'art. 97 Cost., come inteso dalla consolidata giurisprudenza costituzionale in materia di "spoils system", del combinato disposto degli artt. 51 e 110, commi 3, primo periodo, e 4, del d.lgs. n. 267 del 2000 con l'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, porta ad escludere che un incarico di tipo tecnico-professionale, che non implica il compito di collaborare direttamente al processo di formazione dell'indirizzo politico dell'Ente di riferimento (nella specie: Comune), che sia stato affidato dal Sindaco di un Comune, con un contratto prevedente la coincidenza del termine finale del rapporto con "lo scadere del mandato elettorale del Sindaco", possa essere oggetto di anticipata cessazione da parte del Comune stesso a causa della morte improvvisa del Sindaco persona fisica nominante, sull'assunto del "carattere fiduciario" dell'incarico medesimo (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 05.05.2017 n. 11015).

EDILIZIA PRIVATAIl secondo comma dell’art. 34 prevede, come è noto, l’applicazione della sanzione pecuniaria pari al doppio del costo di costruzione e non specifica espressamente in capo a quali soggetti la sanzione debba essere applicata.
La questione è tuttavia risolta in termini inequivoci dall’art. 29 del T.U. Edilizia, ai cui sensi possono essere sanzionati il titolare del permesso di costruire, il committente, il costruttore ed il direttore dei lavori, che sono responsabili “ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente capo”. L’ultimo periodo del primo comma dell’art. 29 specifica, poi, che essi soltanto sono “tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e solidalmente alle spese per l’esecuzione in danno, in caso di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell’abuso”.
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che ogni sanzione amministrativa, anche in materia edilizia, va comminata nei confronti del responsabile dell’abuso edilizio contestato, che ai sensi dell’art. 29 T.U. Edilizia non è soltanto il costruttore, ma anche il committente, mentre il proprietario non autore dell’abuso e non committente delle opere può ritenersi responsabile soltanto ove emerga un suo coinvolgimento doloso o colposo nella realizzazione dei lavori.
Ne discende, per tale profilo, l’illegittimità dell’ingiunzione di pagamento disposta nei confronti dei ricorrenti, che sono rimasti estranei alla commissione dell’abuso edilizio e non sono riconducibili ad alcuna delle figure tassativamente indicate dalla legge, non essendo titolari della concessione edilizia per la costruzione dell’immobile, né committenti, né costruttori, né direttori dei lavori.

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... per l'annullamento della determinazione 02.01.2017, n. 3, del Responsabile del Settore Tecnico e di Pianificazione del Territorio del Comune di Sangano (comunicata in data 14.01.2017), con la quale è stata applicata nei confronti dei sig.ri Ba.An., Ba.Ro., Ga.Ch. e Ve.Da., ai sensi dell'art. 34, c. 2, D.P.R. 380/2001, la sanzione pecuniaria di Euro 62.433,41 a titolo di ‘fiscalizzazione' per la realizzazione di opere in parziale difformità dalla concessione edilizia n. 55/1973 ed, in particolare, per l'ampliamento di 35,93 mq. della superficie dell'edificio di civile abitazione ubicato in via .. n. 1 - via ... (doc. 9);
...
5. Il ricorso è fondato e va accolto, e viene definito con sentenza in forma semplificata alla luce di recenti decisioni della Sezione che si sono pronunciate su fattispecie analoghe a quella qui in esame in senso conforme alla tesi sostenuta dai ricorrenti con il secondo motivo di ricorso, che assume valore assorbente.
5.1. Si tratta delle sentenze n. 1204/2013 del 15.11.2013 e n. 500/17 del 13.04.2017. Ha osservato la Sezione che “Il secondo comma dell’art. 34 prevede, come è noto, l’applicazione della sanzione pecuniaria pari al doppio del costo di costruzione e non specifica espressamente in capo a quali soggetti la sanzione debba essere applicata.
La questione è tuttavia risolta in termini inequivoci dall’art. 29 del T.U. Edilizia, ai cui sensi possono essere sanzionati il titolare del permesso di costruire, il committente, il costruttore ed il direttore dei lavori, che sono responsabili “ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente capo”. L’ultimo periodo del primo comma dell’art. 29 specifica, poi, che essi soltanto sono “tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e solidalmente alle spese per l’esecuzione in danno, in caso di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell’abuso”.
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che ogni sanzione amministrativa, anche in materia edilizia, va comminata nei confronti del responsabile dell’abuso edilizio contestato, che ai sensi dell’art. 29 T.U. Edilizia non è soltanto il costruttore, ma anche il committente, mentre il proprietario non autore dell’abuso e non committente delle opere può ritenersi responsabile soltanto ove emerga un suo coinvolgimento doloso o colposo nella realizzazione dei lavori (cfr. TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 26.09.2007 n. 2205; TAR Lazio, Sez. I-quater, 10.05.2010 n. 10469).
Ne discende, per tale profilo, l’illegittimità dell’ingiunzione di pagamento disposta nei confronti dei ricorrenti, che sono rimasti estranei alla commissione dell’abuso edilizio e non sono riconducibili ad alcuna delle figure tassativamente indicate dalla legge, non essendo titolari della concessione edilizia per la costruzione dell’immobile, né committenti, né costruttori, né direttori dei lavori
”.
5.2. In senso analogo si è pronunciato anche TAR Liguria, sez. I, 05.07.2011, n. 1051 (in aggiunta ai precedenti già citati).
5.3. Tali principi, da cui il collegio non ha motivi per discostarsi, si attagliano perfettamente al caso qui in esame.
Nel caso di specie, infatti, è pacifico che i ricorrenti non sono i soggetti responsabili dell’abuso accertato dall’amministrazione comunale, né rientrano tra i soggetti di cui all’art. 29 del D.P.R. n. 380/2001 (titolare del permesso di costruire, committente, costruttore, direttore dei lavori). Essi hanno acquistato la proprietà delle rispettive unità immobiliari solo in anni recenti, tra il 1984 e il 2008, mentre l’abuso edilizio è stato posto in essere all’epoca di realizzazione dell’intero fabbricato, tra il 1973 e il 1974, e comunque certamente prima del 1984, come dimostra il primo atto pubblico di vendita posto in essere dai titolari della concessione edilizia, sig.ri Gi. e Ru., (atto a rogito Notaio Pi. in data 28.06.1984, rep. n. 18858/7979, docc. 3 e 3-bis), che già aveva ad oggetto due unità immobiliari al piano terreno, in luogo dell’unica assentita dall’amministrazione, e due unità immobiliari al primo piano, nella stessa conformazione plano-volumetrica accertata attualmente dal Comune di Sangano e fatta oggetto del provvedimento sanzionatorio.
5.4. Da tali considerazioni discende, pertanto, l’illegittimità del provvedimento impugnato, il quale è stato adottato nei confronti di soggetti privi della qualificazione soggettiva richiesta dall’art. 34, comma 2, DPR 380/2001 ai fini dell’irrogazione della sanzione pecuniaria ivi prevista (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 21.04.2017 n. 540  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimo il provvedimento di revoca del passo carrabile se il garage diventa ufficio.
Non è possibile mantenere un passo carrabile di fronte ad un ufficio che in precedenza era adibito a locale destinato al ricovero dei veicoli. Anche se saltuariamente questo manufatto viene utilizzato per ricoverare veicoli a due ruote.
Ai sensi dell’art. 46, comma 2, lett. B), del Dpr 495/1992 “il passo carrabile deve consentire l'accesso ad un'area laterale che sia idonea allo stazionamento dei veicoli”.
Proprio il tenore di detta disposizione dimostra che il locale in riferimento al quale viene concesso il passo carrabile deve essere utilizzato esclusivamente per il rimessaggio di autoveicoli, finalità quest’ultima che esclude che gli stessi locali possano legittimamente essere utilizzati a fini commerciali.
Altrettanto evidente è che l’avvenuto utilizzo ai fini commerciali non è suscettibile di venir meno laddove risulti dimostrato che gli stessi locali siano utilizzati, nelle ore serali, per il rimessaggio di motorini, risultando detta circostanza del tutto ininfluente rispetto alla destinazione d’uso impressa dalla stessa ricorrente.

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... per l'annullamento:
- del provvedimento dirigenziale n. 2016/DD/08491 del 01.12.2016, notificato il 21.12.2016, con il quale è stata disposta “la revoca della concessione per l'esercizio di passo carrabile n. 6947 del 01/06/1996” e intimata “la riconsegna del cartello n. 6947 di Passo Carrabile (…) nonché il ripristino (…) dello stato dei luoghi (rifacimento marciapiede in corrispondenza del n. civico 12/r)”;
- di ogni altro atto presupposto, attuativo e/o comunque connesso a tale provvedimento, se lesivo, ivi compresi:
   a) la comunicazione di inizio del procedimento di revoca della concessione passo carrabile n. 6947/1996, a firma del Responsabile della Direzione Nuove Infrastrutture e Mobilità, P.O. Z.T.L., Aree Pedonali e Autorizzazioni;
   b) la comunicazione del 30.01.2017, Responsabile della Direzione Nuove Infrastrutture e Mobilità, P.O. Z.T.L., Aree Pedonali e Autorizzazioni, di conferma della provvedimento di revoca.
...
Con il presente ricorso la Sig.ra Ca.Al. ha impugnato il provvedimento dirigenziale n. 2016/DD/08491 del 01.12.2016, notificato il 21.12.2016, con il quale è stata disposta “la revoca della concessione per l’esercizio di passo carrabile n. 6947 del 01/06/1996” e intimata “la riconsegna del cartello n. 6947”, unitamente all’impugnazione degli atti ad esso presupposti, tra i quali, la comunicazione del 30.01.2017 del Comune Firenze di conferma della provvedimento di revoca.
...
Il ricorso è infondato e va respinto.
Con i due motivi di gravame, la cui sostanziale analogia delle argomentazioni proposte consente una trattazione unitaria, si sostiene che l’Amministrazione comunale avrebbe ingenerato l’affidamento circa l’ammissibilità del mantenimento del passo carrabile anche in presenza di locali utilizzati ad uso “uffici” e, ancora, la violazione dell’art. 46, comma 2, lett. b), del Dpr 495/1992.
Al riguardo va rilevato che, nel corso della voltura del 2005, era stata la stessa Sig.ra Ca. a dichiarare che l’autorimessa e/o lo spazio aperto a cui si accede con il passo carrabile “è permanentemente e continuativamente destinato a ricovero di veicoli e che in caso di cambiamenti nella destinazione d’uso questi saranno tempestivamente comunicati”.
L’autorizzazione per il passo carrabile è stata dunque rilasciata sul presupposto della veridicità delle dichiarazioni rese dalla Sig.ra Ca. e in funzione di una precisa utilizzazione dei locali, circostanze queste ultime che sono state smentite dagli accertamenti posti in essere.
In particolare dal verbale del 21.09.2016 si desume che, contrariamente a quanto affermato, dal passo carrabile si accedeva ad un’agenzia di assicurazioni e, quindi, non a locali adibiti al ricovero di veicoli, ma a locali utilizzati a ufficio (circostanza comprovata dalla documentazione in atti ed in particolare dal contratto di locazione sottoscritto dalla ricorrente e dal materiale fotografico allegato al ricorso).
Ciò premesso è evidente che, a fronte dell’insussistenza dei presupposti per il mantenimento del passo carrabile, il Comune di Firenze non avrebbe potuto che adottare il provvedimento di revoca ora impugnato.
Si consideri, infatti, che, ai sensi dell’art. 46, comma 2, lett. B), del Dpr 495/1992 “il passo carrabile deve consentire l'accesso ad un'area laterale che sia idonea allo stazionamento dei veicoli”.
Proprio il tenore di detta disposizione dimostra che il locale in riferimento al quale viene concesso il passo carrabile deve essere utilizzato esclusivamente per il rimessaggio di autoveicoli, finalità quest’ultima che esclude che gli stessi locali possano legittimamente essere utilizzati a fini commerciali (in questo senso si veda TAR Toscana Firenze Sez. III, 17.02.2006, n. 485).
Altrettanto evidente è che l’avvenuto utilizzo ai fini commerciali non è suscettibile di venir meno laddove risulti dimostrato che gli stessi locali siano utilizzati, nelle ore serali, per il rimessaggio di motorini, risultando detta circostanza del tutto ininfluente rispetto alla destinazione d’uso impressa dalla stessa ricorrente.
In definitiva l’infondatezza delle censure dedotte consente di respingere il ricorso (
TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.04.2017 n. 560 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire e formazione del silenzio assenso
“La formazione del silenzio-assenso sulla domanda di permesso a costruire postula che l'istanza sia assistita da tutti i presupposti di accoglibilità, non determinandosi ope legis l'accoglimento dell'istanza ogni qualvolta manchino i presupposti di fatto e di diritto previsti dalla norma, tenendo presente che il silenzio-assenso non può formarsi in assenza della documentazione completa prescritta dalle norme in materia per il rilascio del titolo edilizio, in quanto l'eventuale inerzia dell'Amministrazione nel provvedere non può far guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non potrebbero mai conseguire in virtù di un provvedimento espresso”; e tanto perché “il silenzio equivale al provvedimento amministrativo, e ciò non incide in senso abrogativo sull’esistenza del regime autorizzatorio, che rimane inalterato, ma introduce una modalità semplificata di conseguimento dell’autorizzazione”.
In particolare, poi, costituisce requisito essenziale, ai fini della formazione del provvedimento silenzioso, la dichiarazione del progettista abilitato che assevera la conformità del progetto alla disciplina urbanistica vigente “poiché rappresenta la motivazione interna del provvedimento favorevole al privato e può giustificare, in un’ottica di semplificazione, l’inerzia dell’Amministrazione e il conseguente assenso tacito su un progetto apparentemente conforme alla disciplina urbanistica”; ragion per cui, “non può ritenersi formato il silenzio-assenso nell'ipotesi in cui il progettista si sia limitato ad affermare genericamente la compatibilità dell'intervento rispetto alla vigente normativa ed abbia omesso qualsiasi attestazione sulla sua conformità urbanistica, stante da un lato l'insussistenza di una equivalenza tra i differenti concetti della conformità e della compatibilità (quest'ultima, infatti, postula un apprezzamento valutativo, sia pure alla stregua di regole tecniche) e, dall'altro, la necessità che le dichiarazioni siano rese in maniera chiara ed inequivoca dal progettista, soprattutto in considerazione delle relative responsabilità, anche sul piano penale”, atteso anche che “La formazione del silenzio assenso sulle domande di concessione edilizia ha carattere limitato ed è subordinato alla esistenza di uno strumento urbanistico vigente ed adeguato alle prescrizioni ed agli standard introdotti dalla l. n. 765 del 1967, nonché di una programmazione urbanistica di dettaglio, tale da non lasciare all'amministrazione alcuno spazio di discrezionalità, neppure sotto il profilo tecnico”.
Peraltro, va evidenziato che “della presenza di tutta la documentazione deve essere data prova, alla stregua degli ordinari principi processuali (art. 64, comma 1, c.p.a.), dalla parte ricorrente, trattandosi di documentazione la cui copia è attualmente nella sua disponibilità o è virtualmente accessibile mediante l'impiego degli strumenti procedimentali o processuali previsti dall'ordinamento”.
---------------
Oggetto della domanda demolitoria proposta in questa sede è la nota prot. n. 5245/2012 del 05/12/2012, con cui il Comune di Cautano - Sportello Unico per l'Edilizia ha inviato a Ma.Lu. [la quale, in data 04.07.2012, aveva presentato un’istanza (prot. n. 3181) per il rilascio di un permesso di costruire volto al “mutamento di destinazione d’uso per uso residenziale del nucleo familiare del proprietario, L.R. n. 19/2009 mod. dalla L.R. n. 1/2011 art. 6-bis (piano casa bis)”, in relazione a cui, peraltro, già vi era stata una richiesta di integrazione documentale (con nota prot. n. 3352 del 05.07.2012), riscontrata positivamente dall’interessata il successivo 03.08.2012 (prot. n. 3701)] la seguente comunicazione: “in riferimento alla domanda di PDC in oggetto, la Commissione Edilizia nella seduta del 26/11/2012 ha rinviato la pratica con osservazioni e per acquisire relazione tecnica asseverata sui titoli abilitativi pregressi con allegati grafici”; contestualmente evidenziandosi che "nel caso di mancata integrazione”l’Ufficio“trascorso il termine perentorio di 60 giorni dalla data della ricezione” avrebbe archiviato l’istanza edilizia.
A sostegno di detta domanda, parte ricorrente prospetta un unico, articolato motivo di ricorso.
Ciò posto, va preliminarmente rilevato che, pur avendo la citata nota natura di atto infraprocedimentale, la sua impugnazione risulta ammissibile per essere essa suscettibile di determinare un arresto del procedimento edilizio attivato dalla Matarazzo, con conseguente lesione dell’interesse legittimo di costei, in caso di mancata produzione da parte sua di una “relazione tecnica asseverata sui titoli abilitativi pregressi con allegati grafici” (richiesta di cui appunto viene contestata qui la legittimità).
Nel merito, va disattesa la censura incentrata sull’asserito sostanziarsi, secondo il modulo previsto dall’art. 20 DPR 380/2001 (nella formulazione applicabile ratione temporis), del silenzio assenso sulla presentata domanda di permesso di costruire.
Va premesso, invero, conformemente a condivisibile giurisprudenza, che “La formazione del silenzio-assenso sulla domanda di permesso a costruire postula che l'istanza sia assistita da tutti i presupposti di accoglibilità, non determinandosi ope legis l'accoglimento dell'istanza ogni qualvolta manchino i presupposti di fatto e di diritto previsti dalla norma, tenendo presente che il silenzio-assenso non può formarsi in assenza della documentazione completa prescritta dalle norme in materia per il rilascio del titolo edilizio, in quanto l'eventuale inerzia dell'Amministrazione nel provvedere non può far guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non potrebbero mai conseguire in virtù di un provvedimento espresso” (così TAR Campania-Napoli n. 110 del 29.02.2016; nonché cfr. TAR Puglia-Lecce n. 3342 del 19.01.2015); e tanto perché “il silenzio equivale al provvedimento amministrativo, e ciò non incide in senso abrogativo sull’esistenza del regime autorizzatorio, che rimane inalterato, ma introduce una modalità semplificata di conseguimento dell’autorizzazione” (così TAR Puglia-Bari n. 37 del 14.01.2016).
In particolare, poi, costituisce requisito essenziale, ai fini della formazione del provvedimento silenzioso, la dichiarazione del progettista abilitato che assevera la conformità del progetto alla disciplina urbanistica vigente “poiché rappresenta la motivazione interna del provvedimento favorevole al privato e può giustificare, in un’ottica di semplificazione, l’inerzia dell’Amministrazione e il conseguente assenso tacito su un progetto apparentemente conforme alla disciplina urbanistica” (così TAR Abruzzo-Pescara n. 486 del 03.12.2014); ragion per cui, “non può ritenersi formato il silenzio-assenso nell'ipotesi in cui il progettista si sia limitato ad affermare genericamente la compatibilità dell'intervento rispetto alla vigente normativa ed abbia omesso qualsiasi attestazione sulla sua conformità urbanistica, stante da un lato l'insussistenza di una equivalenza tra i differenti concetti della conformità e della compatibilità (quest'ultima, infatti, postula un apprezzamento valutativo, sia pure alla stregua di regole tecniche) e, dall'altro, la necessità che le dichiarazioni siano rese in maniera chiara ed inequivoca dal progettista, soprattutto in considerazione delle relative responsabilità, anche sul piano penale” (così TAR Campania-Napoli n. 2281 del 03.05.2013), atteso anche che “La formazione del silenzio assenso sulle domande di concessione edilizia ha carattere limitato ed è subordinato alla esistenza di uno strumento urbanistico vigente ed adeguato alle prescrizioni ed agli standard introdotti dalla l. n. 765 del 1967, nonché di una programmazione urbanistica di dettaglio, tale da non lasciare all'amministrazione alcuno spazio di discrezionalità, neppure sotto il profilo tecnico” (così Cons. di Stato sez. V, n. 3796 del 17.07.2014).
Peraltro, va evidenziato che “della presenza di tutta la documentazione deve essere data prova, alla stregua degli ordinari principi processuali (art. 64, comma 1, c.p.a.), dalla parte ricorrente, trattandosi di documentazione la cui copia è attualmente nella sua disponibilità o è virtualmente accessibile mediante l'impiego degli strumenti procedimentali o processuali previsti dall'ordinamento” (così TAR Lazio-Roma n. 9267 del 09.08.2016).
Orbene, nella fattispecie in esame, dalla prodotta copia della “richiesta di permesso di costruire inoltrata in data 04.07.2012 prot. n. 3181 e documentazione allegata” (cfr. indice della produzione di parte ricorrente) presentata al Comune di Cautano, risultano sì essere state allegate alla pratica edilizia, una “relazione tecnica” e una “relazione paesaggistica”, entrambe a firma dell’architetto Co.Ca., ma le stesse non risultano essere munite della formale asseverazione prescritta dall’art. 20, co. 1, DPR 380/2001, specificamente richiesta quanto alla “conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie nel caso in cui la verifica in ordine a tale conformità non comporti valutazioni tecnico-discrezionali, alle norme relative all'efficienza energetica”; come pure non emerge la presentazione della “attestazione concernente il titolo di legittimazione” pure richiesta dal medesimo articolo: e appunto tali carenze portano ad escludere che sussistessero i presupposti per la formazione dell’invocato silenzio-assenso.
E’ fondata, viceversa, l’ulteriore censura incentrata sull’assunto che la richiesta di integrazione documentale sarebbe in violazione degli artt. 9-bis e 20 co. 5 DPR 380/2001.
Deve, infatti, convenirsi con la difesa di parte ricorrente, allorché evidenzia che i “titoli abilitativi pregressi” relativi al fabbricato oggetto del progettato intervento sono atti già in disponibilità dell’Amministrazione procedente, ovvero da questa acquisibili autonomamente, per cui la richiesta di una “relazione tecnica asseverata” in ordine ad essi, “con allegati grafici” risulta del tutto ultronea e dilatoria; come anche dimostrato dalla circostanza che si tratta di una seconda richiesta di integrazione documentale, laddove appunto il comma 5 del ricordato art. 20 DPR 380/2001 consente un’unica interruzione procedimentale per acquisire “documenti che integrino o completino la documentazione presentata”.
Non sussiste, infine, la necessità di esaminare la censura incentrata sull’asserzione della non necessità, per l’intervento de quo, del previo rilascio di una autorizzazione paesaggistica, non figurando tale problematica tra le ragioni ostative ad una positiva conclusione del procedimento edilizio.
Pertanto, l’atto impugnato va annullato, salvi comunque rimanendo gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione procedente in ordine alla definizione della pratica edilizia in questione
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 03.04.2017 n. 1776 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIANon vi è dubbio che il proprietario del terreno sul quale terzi abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato non possa andare incontro a una responsabilità di posizione, in difetto di elementi di diretta partecipazione al reato o di un contributo materiale o morale nell'illecita gestione dei rifiuti.
I reati di realizzazione e gestione di discarica non autorizzata e stoccaggio di rifiuti tossici e nocivi senza autorizzazione hanno natura di reati permanenti, che possono realizzarsi soltanto in forma commissiva; ne consegue che essi non possono consistere nel mero mantenimento della discarica o dello stoccaggio da altri realizzati, pur in assenza di qualsiasi partecipazione attiva e in base alla sola consapevolezza della loro esistenza, salvo che risulti integrata una condotta concorsuale mediante condotta omissiva, nei casi in cui il soggetto aveva l'obbligo giuridico di impedire la realizzazione od il mantenimento dell'evento lesivo.
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che, in materia di rifiuti, non è configurabile in forma omissiva il reato di cui all'art. 256, comma secondo, D.Lgs. n. 152 del 2006, nei confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti.

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1. I ricorsi sono infondati.
2. Come ha correttamente argomentato il procuratore Generale non vi è dubbio che il proprietario del terreno sul quale terzi abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato non possa andare incontro a una responsabilità di posizione, in difetto di elementi di diretta partecipazione al reato o di un contributo materiale o morale nell'illecita gestione dei rifiuti.
I reati di realizzazione e gestione di discarica non autorizzata e stoccaggio di rifiuti tossici e nocivi senza autorizzazione hanno natura di reati permanenti, che possono realizzarsi soltanto in forma commissiva; ne consegue che essi non possono consistere nel mero mantenimento della discarica o dello stoccaggio da altri realizzati, pur in assenza di qualsiasi partecipazione attiva e in base alla sola consapevolezza della loro esistenza (Sez. U, n. 12753 del 05/10/1994, Zaccarelli, Rv. 199385), salvo che risulti integrata una condotta concorsuale mediante condotta omissiva, nei casi in cui il soggetto aveva l'obbligo giuridico di impedire la realizzazione od il mantenimento dell'evento lesivo (Sez. F, n. 44274 del 13/08/2004, Preziosi, Rv. 230173).
Sul punto, come ricorda lo stesso ricorrente, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che, in materia di rifiuti, non è configurabile in forma omissiva il reato di cui all'art. 256, comma secondo, D.Lgs. n. 152 del 2006, nei confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti (Sez. 3, n. 50997 del 07/10/2015, Cucinella, Rv. 266030).
Nel caso in esame, tuttavia, l'accusa ipotizza che gli indagati abbiano realizzato o comunque gestito una discarica non autorizzata sul proprio terreno.
Va ricordato che, in sede di riesame del sequestro probatorio, il tribunale è chiamato a verificare l'astratta configurabilità del reato ipotizzato, valutando il "fumus commissi delicti" in relazione alla congruità degli elementi rappresentati, non già nella prospettiva di un giudizio di merito sulla concreta fondatezza dell'accusa, bensì con esclusivo riferimento alla idoneità degli elementi, su cui si fonda la notizia di reato, a rendere utile l'espletamento di ulteriori indagini per acquisire prove certe o ulteriori del fatto, non altrimenti esperibili senza la sottrazione del bene all'indagato o il trasferimento di esso nella disponibilità dell'autorità giudiziaria (Sez. 3, n. 15254 del 10/03/2015, Previtero, Rv. 263053) sicché, in materia di riesame del vincolo probatorio, il sindacato del giudice non può investire la concreta fondatezza dell'accusa, ma è circoscritto alla verifica dell'astratta possibilità di sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato e al controllo circa la qualificazione dell'oggetto sequestrato come corpus delicti e, quindi, all'esistenza di una relazione di immediatezza tra il bene stesso e l'illecito penale.
Ciò posto, il tribunale ha osservato i suddetti principi ed ha anche dato atto tanto delle finalità probatorie perseguite dal pubblico ministero quanto della serietà del progetto investigativo finalizzato ad eseguire ulteriori accertamenti già delegati alla polizia giudiziaria con atto del 18.12.2015, con la conseguenza che la doglianza formulata non ha alcun fondamento né sotto il profilo del fumus e neppure riguardo alle perseguite finalità probatorie.
3. I ricorsi vanno pertanto rigettati (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.03.2017 n. 14503).

URBANISTICA: I Piani urbanistici attuativi devono contenere le indicazioni anche per gli edifici pubblici.
E' da ritenersi illegittimo il Piano urbanistico attuativo che prevede la riqualificazione di un'area dismessa quantificando gli standard di parcheggio con esclusivo riferimento alle destinazioni private (residenze, uffici e negozi), senza indicazioni per quanto riguarda gli edifici pubblici.
Con riferimento ai piani di attuazione degli strumenti urbanistici generali, ai sensi della disposizione contenuta nell'art. 22 l.r. Lombardia 51/1975, (come modificata dalla l.r. n. 1/2001), che indica, la dotazione minima delle attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale dei nuovi insediamenti, sommando le singole superfici di parcheggi realizzati in tipologia multipiano, è legittimo individuare la superficie complessiva destinata a parcheggio.
In particolare, sia il d.m. 02.04.1968, n. 1444, sia la l.r. Lombardia n. 51 del 1975, nel disciplinare la materia degli standards urbanistici a livello comunale, prevedono che negli strumenti urbanistici sia assicurata una dotazione globale minima, inderogabile, di aree per attrezzature pubbliche e di uso pubblico, rapportata all'entità degli insediamenti residenziali rimettendo alla potestà discrezionale dell'amministrazione in relazione alle effettive esigenze locali di derogare ai parametri interni di distribuzione della stessa dotazione fra quattro categorie di opere (la prima delle quali concerne l'istruzione superiore): è pertanto illegittima la determinazione del fabbisogno delle aree da destinare alle attrezzature scolastiche operata, nel rispetto dei predetti criteri di ripartizione, senza valutare l'effettiva esigenza di vincolare nuove aree ai predetti fini in presenza di strutture scolastiche private già esistenti e funzionanti.
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7.4. Infine, è fondata la censura con la quale l’appellante lamenta che il TAR avrebbe dovuto rilevare come fosse corretta la scelta dell’amministrazione di rinunciare alla realizzazione del P.I.I. stante la sua illegittimità per violazione dell’art. 22, l.r. Lombardia, n. 51/1975, nella parte in cui, pur avendo contemplato la formazione di rilevanti strutture che generano fabbisogno di parcheggi, quali il nuovo municipio e la sala espositiva biblioteca, non prevedeva contestualmente la formazione degli standard di supporto.
Al riguardo, infatti, deve essere richiamata la copiosa giurisprudenza di questo Consiglio (Cons. St., Sez. IV, 16.12.2003, n. 8234) che ha precisato come con riferimento ai piani di attuazione degli strumenti urbanistici generali, ai sensi della disposizione contenuta nell'art. 22 cit., (come modificata dalla l.r. n. 1/2001), che indica, la dotazione minima delle attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale dei nuovi insediamenti, sommando le singole superfici di parcheggi realizzati in tipologia multipiano, è legittimo individuare la superficie complessiva destinata a parcheggio.
In particolare, sia il d.m. 02.04.1968, n. 1444, sia la l.r. Lombardia n. 51 del 1975, nel disciplinare la materia degli standards urbanistici a livello comunale, prevedono che negli strumenti urbanistici sia assicurata una dotazione globale minima, inderogabile, di aree per attrezzature pubbliche e di uso pubblico, rapportata all'entità degli insediamenti residenziali rimettendo alla potestà discrezionale dell'amministrazione in relazione alle effettive esigenze locali di derogare ai parametri interni di distribuzione della stessa dotazione fra quattro categorie di opere (la prima delle quali concerne l'istruzione superiore): è pertanto illegittima la determinazione del fabbisogno delle aree da destinare alle attrezzature scolastiche operata, nel rispetto dei predetti criteri di ripartizione, senza valutare l'effettiva esigenza di vincolare nuove aree ai predetti fini in presenza di strutture scolastiche private già esistenti e funzionanti (Cons. St., Sez. IV, 09.04.1984, n. 226) (
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.02.2017 n. 488 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Agente degradato.
Svilire la professionalità di un agente di polizia può configurare mobbing e dare luogo al risarcimento del danno. Il comune non può mortificare un agente di polizia municipale sottraendogli ogni attività e relegandolo in un ufficio cimiteriale. In questo caso scatterà addirittura il mobbing e l'amministrazione sarà costretta a risarcire il danno patito dallo sfortunato operatore.
Al fine di configurare il mobbing lavorativo, questa Corte ha affermato che devono ricorrere:
   a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio -illeciti o anche leciti se considerati singolarmente- che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
   b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
   c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
   d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

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1. Il primo motivo denuncia violazione degli artt. 4 e 6 d.lgs. 165/2001 per avere la Corte di appello ritenuto illegittime le delibere della giunta comunale del luglio 2004, con cui il Ba. venne inquadrato nella qualifica Istruttore Amministrativo; tali determinazioni avevano ad oggetto modifiche della pianta organica, materia che esula dalla competenza dirigenziale.
Dal secondo all'ottavo motivo il ricorso denuncia vizi di motivazione, così sintetizzabili: 2-3) omessa motivazione in ordine alla necessità, da parte del Comune, nell'esercizio dello ius variandi, di rinvenire una collocazione adeguata al dipendente giudicato inidoneo ai servizi esterni; 4) contraddittoria motivazione in ordine alla disamina e valutazione delle deposizioni dei testi Ba. e Be. in merito alla ritenuta inattività lavorativa in cui sarebbe stato lasciato il dipendente; 5) erronea valutazione di inattendibilità del teste Ma.; 6) contraddittorietà della sentenza nella valorizzazione della deposizione della teste Be. a fronte della deposizione del teste Ba.; 7) motivazione contraddittoria circa la deposizione del teste Barone in merito all'assegnazione della sede di lavoro del Ba. presso gli "uffici cimiteriali"; 8) omessa motivazione in ordine alla circostanza che il Ba. per circa tre anni (dal 1998 al 2001) svolse regolarmente la propria attività in qualità di vigile urbano addetto anche ai servizi esterni.
2. Al punto nove, parte ricorrente contesta la sussistenza del mobbing, deducendo che il Ba. prestò regolare servizio per un triennio senza nulla lamentare, ma nell'immediatezza del verbale della Commissione medica si rifiutò di prestare servizio esterno anche in via sporadica; il Comune chiese la revoca della qualifica di Agente di Polizia Municipale, non avendo necessità di un agente che prestasse servizio interno e procedette ad inquadrare il Ba. quale Istruttore Amministrativo; d) lo stesso viene successivamente assegnato all'Ufficio Tributi. Alla stregua dei fatti, non vi erano elementi per affermare l'esistenza di un intento persecutorio o di vessazioni poste in essere dal Comune ai danni del proprio dipendente.
3. Il ricorso è infondato.
4. Quanto alla questione di diritto oggetto del primo motivo, deve rilevarsene l'inammissibilità per essere il ricorso carente dei requisiti di indicazione e di allegazione, di cui agli artt. 366, primo comma, n. 6 c.p.c. e 369, secondo comma, n. 4 c.p.c. non risultando le delibere vertenti sullo ius variandi trascritte né in tutto né in parte e non essendo indicata la sede della loro produzione in giudizio (ex plurimis, Cass. n. 26174 del 2014, n. 2966 del 2014, n. 15628 del 2009; cfr. pure Cass. Sez. Un. n. 28547 del 2008; Cass. n. 22302 del 2008, n. 4220 del 2012, n. 8569 del 2013 n. 14784 del 2015 e, tra le più recenti, Cass. n. 6556 del 14.03.2013, n. 16900 del 2015).
Vi è un duplice onere a carico del ricorrente, quello di produrre il documento e quello di indicarne il contenuto. Il primo onere va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto del documento. La violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile.
4.1. Il motivo è inammissibile anche per altra ragione: l'illegittimità dell'atto è stata valutata dalla Corte di appello anche (e soprattutto) per il demansionamento in cui il mutamento di assegnazione si espresse. Valutando il complesso delle acquisizioni istruttorie, la Corte di merito ha rilevato che sin da settembre/ottobre 2004 il Ba., nella nuova posizione assegnata, venne dapprima relegato a compiti esecutivi non riconducibili a profili della categoria di inquadramento (area C), ma riferibili addirittura a mansioni di area A, e successivamente venne privato del tutto delle mansioni.
4.2. Esula quindi dall'oggetto del giudizio ogni problematica sull'equivalenza delle mansioni in relazione all'art. 52 d.lgs. n. 165/2001 e dell'esercizio dello ius variandi datoriale in relazione alla dedotta esigibilità di tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria. Il Ba. non venne adibito alle mansioni proprie del profilo assegnato di Istruttore Amministrativo, ma ad altre (ben inferiori) non riconducibili a da quelle proprie della categoria di appartenenza. Del pari, la sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere costituisce ipotesi vietata anche nell'ambito del pubblico impiego (Cass. n. 11835 del 2009, n. 11405 del 2010, nonché Cass. n. 687 del 2014).
5. Per il resto, il ricorso sostanzialmente tende a proporre una diversa valutazione dei fatti con formulazione, in definitiva, di una richiesta di duplicazione del giudizio di merito.
Costituisce principio consolidato che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge.
5.1. Nella specie, la Corte di merito ha ricostruito, alla stregua delle risultanze della prova testimoniale e documentale, i numerosi elementi atti a configurare, nel loro concorso, il mobbing lavorativo. Come questa Corte ha affermato, a tal fine devono ricorrere:
   a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio -illeciti o anche leciti se considerati singolarmente- che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
   b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
   c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
   d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (Cass. 17698 del 2014).
5.2. La ricostruzione della vicenda operata dal giudice di merito è agevolmente sussumibile nella fattispecie astratta così definita. La soluzione si fonda su un giudizio valutativo immune da vizi logici e adeguato a sorreggere la decisione, dovendo altresì osservarsi che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360 n. 5 c.p.c., non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità.
5.3. Ne consegue che risulta del tutto estranea all'ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di Cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l'autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa. Né, ugualmente, la stessa Corte realizzerebbe il controllo sulla motivazione che le è demandato, ma inevitabilmente compirebbe un (non consentito) giudizio di merito, se -confrontando la sentenza con le risultanze istruttorie- prendesse in considerazione fatti probatori diversi o ulteriori rispetto a quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua decisione, accogliendo il ricorso "sub specie" di omesso esame di un punto (v. Cass. n. 3161/2002).
5.4. Deve poi osservarsi, quanto alle censure vertenti sulla omessa considerazione di fatti ritenuti decisivi, che costituisce fatto (o punto) decisivo ai sensi del'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. (nel testo anteriore alle modifiche apportate dall'art. 54, comma 1, lett. b, del D.L. 22.06.2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 07.08.2012, n. 134), quello la cui differente considerazione è idonea a comportare, con certezza, una decisione diversa (Cass. n. 18368 del 31.07.2013); la nozione di decisività concerne non il fatto sulla cui ricostruzione il vizio stesso ha inciso, bensì la stessa idoneità del vizio denunciato, ove riconosciuto, a determinarne una diversa ricostruzione e, dunque, inerisce al nesso di casualità fra il vizio della motivazione e la decisione, essendo peraltro necessario che il vizio, una volta riconosciuto esistente, sia tale che, se non fosse stato compiuto, si sarebbe avuta una ricostruzione del fatto diversa da quella accolta dal giudice del merito e non già la sola possibilità o probabilità di essa. (v., ex plurimis, Cass. n. 3668 e 20612 del 2013).
5.5. Nella specie, i dedotti vizi di motivazione non corrispondono al modello enucleabile negli esposti termini dal n. 5 del citato art. 360 c.p.c., poiché, si sostanziano nel ripercorrere criticamente il ragionamento decisorio svolto dal giudice del rinvio; nel valutare le stesse risultanze istruttorie da quest'ultimo esaminate; nel trarne implicazioni e spunti per la ricostruzione della vicenda in senso difforme da quello esposto nella sentenza impugnata; nel desumerne apprezzamenti circa la maggiore o minore valenza probatoria di alcun elementi rispetto ad altri. Essi, dunque, incidono sull'intrinseco delle opzioni nelle quali propriamente si concreta il giudizio di merito, risultando per ciò stesso estranee all'ambito meramente estrinseco entro il quale è circoscritto il giudizio di legittimità (v. ex plurimis Cass. n. 6288 del 2011).
6. Il ricorso va, pertanto, respinto. Nulla va disposto quanto alle spese del giudizio di legittimità, in mancanza di attività difensiva dell'intimato (Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, sentenza 27.01.2017 n. 2142).

EDILIZIA PRIVATAChe la regola sancita dall’art. 31, nono comma, della legge 17.08.1942, n. 1150 (secondo cui “chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto e ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione”) non abbia inteso introdurre una forma di azione popolare, è affermazione troppo consolidata per richiedere il sostegno di specifici precedenti.
Sebbene l’art. 31 sia stato formalmente abrogato dall’art. 136, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 380 del 2001, in ordine all’impugnazione dei titoli edilizi -secondo l’orientamento ormai consolidato di questo Consiglio di Stato, che da quella disposizione si sviluppa- deve essere riconosciuta una posizione qualificata e differenziata solo in favore dei proprietari di immobili siti nella zona in cui la costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una situazione di "stabile collegamento" con la stessa.
Di conseguenza, è legittimato a impugnare il titolo edilizio ad altri rilasciato il soggetto in questa situazione che, dolendosi del mancato rispetto di una servitù di non edificazione gravante sul terreno della controparte e della perdita di valore di mercato dell’immobile di proprietà, censuri l’alterazione dello stato dei luoghi e la violazione dell’ordine urbanistico, indipendentemente dalla circostanza dell’aver fornito la prova che i lavori contestati abbiano provocato uno specifico danno e, in particolare, una diminuzione del valore economico dei beni, costituendo questa una questione di merito irrilevante sulla condizione dell'azione.
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Non è consentito al giudice di anticipare alla fase dello scrutinio della sussistenza dell’interesse (e della legittimazione) a ricorrere la verifica del rispetto o meno dell'assetto prodotto dall'intervento contestato, perché è sufficiente l'astratta prospettazione della suscettibilità del contrasto con siffatto assetto ad arrecare pregiudizio a coloro che siano titolari di immobili ubicati nella zona ovvero che con la stessa abbiano comunque, anche a titolo diverso, uno stabile collegamento a consentire di riconoscerne l’interesse, oltre che la legittimazione attiva, al ricorso giurisdizionale avverso le scelte compiute.

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25.1. Quanto al primo motivo, non ha pregio l’eccezione di carenza di interesse in capo all’originario ricorrente, già vagliata e respinta dal TAR e riproposta in questo grado di giudizio.
25.1.1. Che la regola sancita dall’art. 31, nono comma, della legge 17.08.1942, n. 1150 (secondo cui “chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto e ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione”) non abbia inteso introdurre una forma di azione popolare, è affermazione troppo consolidata per richiedere il sostegno di specifici precedenti.
25.1.2. Sebbene l’art. 31 sia stato formalmente abrogato dall’art. 136, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 380 del 2001, in ordine all’impugnazione dei titoli edilizi -secondo l’orientamento ormai consolidato di questo Consiglio di Stato, che da quella disposizione si sviluppa- deve essere riconosciuta una posizione qualificata e differenziata solo in favore dei proprietari di immobili siti nella zona in cui la costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una situazione di "stabile collegamento" con la stessa.
Di conseguenza, è legittimato a impugnare il titolo edilizio ad altri rilasciato il soggetto in questa situazione che, dolendosi del mancato rispetto di una servitù di non edificazione gravante sul terreno della controparte e della perdita di valore di mercato dell’immobile di proprietà, censuri l’alterazione dello stato dei luoghi e la violazione dell’ordine urbanistico, indipendentemente dalla circostanza dell’aver fornito la prova che i lavori contestati abbiano provocato uno specifico danno e, in particolare, una diminuzione del valore economico dei beni, costituendo questa una questione di merito irrilevante sulla condizione dell'azione (cfr. per tutte, in termini, sez. VI, 15.06.2010, n. 3744; sez. IV, 08.07.2013, n. 3596; sez. IV, 18.11.2014, n. 3596; sez. IV, 12.11.2015, n. 5160; sez. IV, 06.06.2016, n. 2395; sez. IV, 26.07.2016, n. 3330).
25.1.3. In definitiva, non è consentito al giudice di anticipare alla fase dello scrutinio della sussistenza dell’interesse (e della legittimazione) a ricorrere la verifica del rispetto o meno dell'assetto prodotto dall'intervento contestato, perché è sufficiente l'astratta prospettazione della suscettibilità del contrasto con siffatto assetto ad arrecare pregiudizio a coloro che siano titolari di immobili ubicati nella zona ovvero che con la stessa abbiano comunque, anche a titolo diverso, uno stabile collegamento a consentire di riconoscerne l’interesse, oltre che la legittimazione attiva, al ricorso giurisdizionale avverso le scelte compiute (cfr. sez. IV, 12.06.2013, n. 3257)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.10.2016 n. 4380 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio è dell’avviso che il modulo procedimentale prefigurato dall’art. 8 del d.P.R. n. 160/2010 sia strutturalmente analogo -per quanto qui interessa- a quello a suo tempo previsto dall’abrogato art. 5 del d.P.R. n. 447/1998, sicché può essere utilmente richiamata per l’uno la giurisprudenza formatasi sull’altro.
La necessità dell’assenso regionale, espressa nella disposizione dell’art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010, era infatti implicita in quella dell’art. 5, comma 2, del d.P.R. n. 447/1998, perché, se non era richiesta l'approvazione della Regione, le attribuzioni di quest’ultima erano comunque fatte salve dalla partecipazione alla conferenza di servizi nei termini previsti dall'articolo 14, comma 3-bis, della legge 07.08.1990, n. 24, nel testo all’epoca vigente.
Deve dunque dirsi che:
   a) benché l’assenso della Regione (o dell’ente delegato, nel caso di specie la Provincia) sia essenziale al completamento dell’iter (art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010), la Regione stessa è solo uno dei soggetti pubblici che prendono parte alla Conferenza di servizi contemplata dalle disposizioni ricordate;
   b) il parere regionale ha natura di atto endo o infra procedimentale, la cui efficacia vincolante non incide sulla natura propria di questo, che -come detto- rimane un atto interno nell’ambito di un procedimento unico. Solo il parere contrario, producendo un arresto definitivo che termina nella sostanza il procedimento, ha un’autonoma efficacia lesiva, riveste carattere provvedimentale e, in quanto tale, può essere immediatamente impugnato dal destinatario;
   c) l’atto conclusivo del procedimento che si articola nella Conferenza non ha carattere decisorio ma costituisce una proposta di variante dello strumento urbanistico (espressamente l’art. 5, comma 2, del d.P.R. n. 447/1998; implicitamente l’art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010);
   d) secondo entrambi le disposizioni ora citate, la deliberazione definitiva -nel senso di aderire o no a tale proposta- spetta al Consiglio comunale;
   e) il Comune è dunque la sola Autorità emanante, necessariamente destinata a essere evocata in giudizio;
   f) poiché alla Regione (o alla Provincia) non è attribuito nell'ambito del procedimento alcun potere decisorio, non è necessario notificare ad essa la domanda impugnatoria della deliberazione del Consiglio comunale che approva la variante del P.R.G. in forma semplificata, e parimenti, essendo un atto endoprocedimentale l'assenso da essa espresso alla variante nel corso della Conferenza di servizi, non occorre neppure che lo stesso venga impugnato.

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Per giurisprudenza costante, la procedura semplificata di variante urbanistica ha carattere eccezionale e derogatorio della disciplina generale, sicché non può trovare applicazione al di fuori delle ipotesi specificamente previste dalla norma, e i presupposti fattuali, da cui si assume nascere l’esigenza di tale variante, vanno accertati con in modo oggettivo con il dovuto rigore.
Secondo la normativa vigente, la variante semplificata può essere adottata “nei comuni in cui lo strumento urbanistico non individua aree destinate all'insediamento di impianti produttivi o individua aree insufficienti, fatta salva l'applicazione della relativa disciplina regionale” (art. 8 del d.p.r. n. 160/2010, cit.).
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26. Del pari infondati sono i motivi dell’appello n. 4840/2016.
26.1 Non ha pregio il primo motivo, con il quale il Comune appellante rinnova un’eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado, già rigettata dal TAR e fondata sull’omessa notifica alla Provincia di Perugia dell’atto introduttivo del giudizio.
26.1.1. Condividendo pienamente le osservazioni del Tribunale regionale sul punto, il Collegio è dell’avviso che il modulo procedimentale prefigurato dall’art. 8 del d.P.R. n. 160/2010 sia strutturalmente analogo -per quanto qui interessa- a quello a suo tempo previsto dall’abrogato art. 5 del d.P.R. n. 447/1998, sicché può essere utilmente richiamata per l’uno la giurisprudenza formatasi sull’altro.
26.1.2. La necessità dell’assenso regionale, espressa nella disposizione dell’art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010, era infatti implicita in quella dell’art. 5, comma 2, del d.P.R. n. 447/1998, perché, se non era richiesta l'approvazione della Regione, le attribuzioni di quest’ultima erano comunque fatte salve dalla partecipazione alla conferenza di servizi nei termini previsti dall'articolo 14, comma 3-bis, della legge 07.08.1990, n. 24, nel testo all’epoca vigente.
26.1.3. Deve dunque dirsi che:
   a) benché l’assenso della Regione (o dell’ente delegato, nel caso di specie la Provincia) sia essenziale al completamento dell’iter (art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010), la Regione stessa è solo uno dei soggetti pubblici che prendono parte alla Conferenza di servizi contemplata dalle disposizioni ricordate;
   b) il parere regionale ha natura di atto endo o infra procedimentale, la cui efficacia vincolante non incide sulla natura propria di questo, che -come detto- rimane un atto interno nell’ambito di un procedimento unico. Solo il parere contrario, producendo un arresto definitivo che termina nella sostanza il procedimento, ha un’autonoma efficacia lesiva, riveste carattere provvedimentale e, in quanto tale, può essere immediatamente impugnato dal destinatario (per una problematica analoga -riguardo al ruolo dell’autorizzazione paesaggistica nel procedimento di rilascio di un titolo edilizio- Cons. Stato, sez. VI, 12.06.2008, n. 2903; sez. IV, 12.02.2015, n. 738);
   c) l’atto conclusivo del procedimento che si articola nella Conferenza non ha carattere decisorio ma costituisce una proposta di variante dello strumento urbanistico (espressamente l’art. 5, comma 2, del d.P.R. n. 447/1998; implicitamente l’art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010);
   d) secondo entrambi le disposizioni ora citate, la deliberazione definitiva -nel senso di aderire o no a tale proposta- spetta al Consiglio comunale (Cons. Stato, sez. IV, 10.08.2011, n. 4768; sez. IV, 02.10.2012, n. 5187; sez. V, 11.04.2013, n. 1972; sez. IV, 26.05.2014, n. 2667);
   e) il Comune è dunque la sola Autorità emanante, necessariamente destinata a essere evocata in giudizio;
   f) poiché alla Regione (o alla Provincia) non è attribuito nell'ambito del procedimento alcun potere decisorio, non è necessario notificare ad essa la domanda impugnatoria della deliberazione del Consiglio comunale che approva la variante del P.R.G. in forma semplificata, e parimenti, essendo un atto endoprocedimentale l'assenso da essa espresso alla variante nel corso della Conferenza di servizi, non occorre neppure che lo stesso venga impugnato (Cons. Stato, n. 2667 del 2014, cit.).
26.1.3. Da ciò, appunto, il rigetto dell’eccezione.
26.2. E’ anche infondato il secondo motivo.
26.2.1. Per giurisprudenza costante, la procedura semplificata di variante urbanistica ha carattere eccezionale e derogatorio della disciplina generale, sicché non può trovare applicazione al di fuori delle ipotesi specificamente previste dalla norma, e i presupposti fattuali, da cui si assume nascere l’esigenza di tale variante, vanno accertati con in modo oggettivo con il dovuto rigore (Cons. Stato, sez. IV, 03.03.2006, n. 1038; sez. IV, 25.06.2007, n. 3593; sez. IV, 15.07.2011, n. 4308; sez. IV, 08.01.2016, n. 27).
26.2.2. Secondo la normativa vigente, la variante semplificata può essere adottata “nei comuni in cui lo strumento urbanistico non individua aree destinate all'insediamento di impianti produttivi o individua aree insufficienti, fatta salva l'applicazione della relativa disciplina regionale” (art. 8 del d.p.r. n. 160/2010, cit.).
26.2.3. Nel caso di specie, è noto che il capannone industriale preesisteva e non è stata data alcuna convincente spiegazione circa l’effettiva necessità di un ampliamento degli spazi per l’attività di distribuzione di energia per i veicoli a trazione elettrica.
26.2.4. Sembra piuttosto doversi dire che il Comune, messo sull’avviso dall’ordinanza cautelare della Sezione n. 3150/2011 (che, resa in relazione al ricorso n. 4654/2011, ha accolto la domanda cautelare, ma al solo scopo di mantenere la res integra, considerando tuttavia prima facie la sentenza appellata esente dalle censure proposte), abbia inteso utilizzare la speciale procedura della variante semplificata per un fine improprio, cioè quello di sanare un insediamento abusivo.
26.2.5. Sono dunque fondate le censure di violazione di legge e di eccesso di potere per sviamento dalla funzione tipica, sicché il secondo motivo dell’appello va parimenti respinto.
26.3. Tanto premesso, non occorre neppure esaminare il terzo motivo del gravame, essendo acclarata l’illegittimità del provvedimento impugnato. Tale motivo, per ragioni di economia processuale, resta perciò assorbito (Cons. Stato, ad. plen., 27.04.2015, n. 5)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.10.2016 n. 4380 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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