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AGGIORNAMENTO AL 31.07.2017 |
ã |
Regione Lombardia:
ecco la
nuova modulistica unificata e standardizzata in
materia edilizia. |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 29.07.2017, "Modulistica
edilizia unificata e standardizzata: adeguamento alle
normative specifiche e di settore di Regione Lombardia dei
contenuti informativi dei moduli nazionali per la
presentazione delle segnalazioni, comunicazioni e istanze in
materia di attività edilizia" (deliberazione
G.R. 17.07.2017 n. 6894).
---------------
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 24.07.2017, "Modulistica
edilizia unificata e profili applicativi della disciplina
edilizia" (circolare
regionale 20.07.2017 n. 10).
---------------
Per comodità di lettura e compilazione, si leggano i vari
allegati qui pubblicati separatamente sia in formato .pdf
sia in formato .doc (editabile):
●
Allegato 1:
Comunicazione di Inizio Lavori (C.I.L.)
à
formato editabile
●
Allegato 2:
“Modulo unico” (à
formato editabile) da
compilare a cura del titolare per:
- Comunicazione di inizio lavori asseverata (C.I.L.A.),
- Segnalazione Certificata di inizio attività (S.C.I.A.),
- Segnalazione Certificata di inizio attività
alternativa al permesso di costruire (S.C.I.A. ALTERNATIVA),
- Istanza del Permesso di Costruire (P.d.C.);
●
Allegato 3:
Relazione tecnica di Asseverazione (à
formato editabile) da
compilare, a cura del professionista, per:
- Comunicazione di inizio lavori asseverata (C.I.L.A.),
- Segnalazione Certificata di inizio attività (S.C.I.A.),
- Segnalazione Certificata di inizio attività
alternativa al permesso di costruire (S.C.I.A.
ALTERNATIVA),
- Permesso di Costruire (P.d.C.),
●
Allegato 4:
Soggetti coinvolti
à
formato editabile
●
Allegato 5:
Comunicazione di fine lavori
à
formato editabile
●
Allegato 6:
Comunicazione di inizio lavori asseverata (C.I.L.A.)
à
formato editabile
●
Allegato 7:
Segnalazione Certificata di inizio attività (S.C.I.A.)
à
formato editabile
●
Allegato 8:
Segnalazione certificata di inizio attività alternativa al
Permesso di Costruire (S.C.I.A. ALTERNATIVA)
à
formato editabile
●
Allegato 9:
Permesso di Costruire (P.d.C.)
à
formato editabile
●
Allegato 9-bis:
nota per la compilazione del punto 32 del Permesso di
Costruire (P.d.C.)
●
Allegato 10:
Segnalazione Certificata per l’Agibilità (S.C.A.)
à
formato editabile
---------------
Per approfondimenti si veda anche l'apposita
pagina web della Regione Lombardia. |
EDILIZIA PRIVATA: Recupero
sottotetti, Scia o Pc. Lombardia.
Recupero abitativo dei sottotetti in
Lombardia: regime giuridico da individuare
di volta per volta sulla base degli elementi
progettuali. In quanto essendo considerata
«ristrutturazione edilizia», la disciplina
applicabile non è più quello della denuncia
di inizio attività. Potrà essere una Scia o
un permesso di costruire per la
ristrutturazione c.d. «leggera» e permesso
di costruire o Scia alternativa per la
ristrutturazione c.d. «pesante».
Questi i chiarimenti contenuti nella
circolare 20.07.2017 n. 10
della Regione Lombardia.
Le novità introdotte dai decreti legislativi
n. 126 e n. 222 del 2016 -ricorda la
circolare- hanno reso necessario
l'adeguamento della modulistica per i titoli
edilizi (si veda ItaliaOggi del 17.05.2017).
Tutti i nuovi moduli edilizi unificati e
standardizzati, approvati il 4 maggio e il 6
luglio scorsi in conferenza unificata, con
accordo tra il governo, le regioni e gli
enti locali, sono stati adeguati alle
normative regionali e approvati, in un unico
provvedimento, con la deliberazione della
Giunta regionale Lombarda del 17.07.2017, n.
6894.
Nelle more di un aggiornamento e
riallineamento della normativa regionale, i
tecnici lombardi forniscono alcune
considerazioni in merito ad aspetti della
disciplina edilizia di più frequente
ricorrenza: come noto, infatti, il dpr
06.06.2001, n. 380 (Testo unico
dell'edilizia) è stato interessato negli
ultimi tempi da ripetuti interventi di
modifica. I funzionari Lombardi inoltre
sottolineano che a fronte di una
giurisprudenza costituzionale consolidata in
questi anni, si è affermato espressamente
che «la definizione delle diverse
categorie di interventi edilizi spetta allo
Stato».
Pertanto la disciplina degli interventi
edilizi dettata all'articolo 27 della legge
regionale n. 12/2005 è da considerarsi
superata, dovendosi ormai fare riferimento
alle definizioni di cui all'articolo 3 del
dpr 380/2001, in quanto disposizioni
espressamente qualificate dalla corte
costituzionale come «principi
fondamentali della materia»
(articolo ItaliaOggi del
28.07.2017). |
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Inchiesta sul
PARCO ADDA NORD: trapelano altri dettagli... |
ENTI LOCALI:
Olginate. Parco Adda Nord: abusi ambientali. La
minoranza interroga.
Un’interpellanza, una mozione e la richiesta di
convocare al più presto una commissione consiliare
presentate dalla minoranza Olginate si Cambia
all’amministrazione comunale per avere delucidazioni
in merito al caso della cava nel Parco Adda Nord,
oggetto, tra le altre cose, di alcune verifiche
eseguite da una Commissione d’inchiesta istituita da
Regione Lombardia.
La notizia, riportata oggi, giovedì, sul Corriere
della Sera, ha subito mobilitato il gruppo di
minoranza: “Stando a quanto affermato
nell’articolo parrebbe che nel Parco Adda Nord siano
state eseguite violazioni ambientali e urbanistiche
per danni stimati in oltre 1milione e 200mila euro
su una superficie pari a 6.500 mq” si legge
nell’interpellanza indirizzata al sindaco
Marco Passoni. L’inchiesta, come riportato dal quotidiano,
parte da alcuni rilievi condotti dalle Guardie del
corpo forestale che 4 anni e mezzo fa avrebbero
riscontrato alcune pesanti irregolarità: in
particolare la ditta esecutrice dei lavori avrebbe
sconfinato in alcuni terreni all’interno del Parco
di proprietà del Comune di Olginate: opere edilizie
su un’area di 6.500 metri quadrati con rimozione di
alberi e asportazione di terreno.
“Il 20.09.2016 –proseguono i consiglieri di
Olginate si cambia– il sindaco Passoni e il
presidente del Parco Adda Nord
Agostino Agostinelli
avrebbero firmato con la ditta indicata come
esecutrice delle violazioni un accordo con il quale
si stabiliva, a carico della ditta, una sanzione
parti a 17mila euro su una superficie pari a 180 mq”.
Una riduzione notevole dell’effettiva area oggetto
delle violazioni ambientali, avvenuta di anno in
anno in seguito ad alcune contestazioni della ditta.
“Si ipotizza oggi un pesantissimo danno erariale
a carico dell’Amministrazione Pubblica. Alla luce di
ciò chiediamo se le notizie e i dati riportati dal
Corriere corrispondano al vero e se il sindaco
Passoni, assessore all’Ambiente ai tempi dell’avvio
delle indagini della Guardia Forestale, fosse a
conoscenza delle violazioni ambientali oggi
accertate all’interno dell’area interessata”.
L’interpellanza prosegue con altre richieste: “Vorremmo
sapere quali sono le documentazioni che il 20
settembre scorso avrebbero indotto il sindaco e il
presidente Agostinelli
a firmare l’accordo con la ditta indiziata,
considerato che l’articolo citato evidenzia che ‘la
riduzione della superficie, sulla quale sono stati
riscontrati abusi e danni ambientali, non sia
avvenuta sulla base di un’istruttoria supportata da
elementi veritieri e documentati bensì in base ad
una richiesta della ditta …’ e, infine, chiediamo al
sindaco quali sono le azioni che il Comune intende
attivare per evitare un presunto danno erariale”.
La minoranza ha quindi presentato una mozione,
chiedendo in via urgente “la trattazione della
presente mozione per l’istituzione immediata di una
Commissione Comunale ad hoc, costituita da almeno
due consiglieri comunali sia di maggioranza che di
minoranza, tecnico comunale ed assessore di
riferimento, segretario comunale, al fine di
verificare l’intero iter comunale degli abusi
accertati e delle motivazioni che hanno portato
Sindaco e Presidente del Parco alla quantificazione
delle sanzioni emesse”.
Nessun commento per il momento da parte del primo
cittadino che, contattato, ha dichiarato di non
avere ancora preso visione dell’interpellanza della
minoranza (20.07.2017 - tratto da e link a
www.lecconotizie.com).). |
ENTI
LOCALI:
La cricca del Parco Adda Nord. Olginate, la cava
degli abusi. Un buco da un milione di euro.
Il nuovo filone su cui si è concentrata la
commissione d’inchiesta di Regione Lombardia. Scavi
e lavori edilizi su 6.500 metri quadrati in più con
danni alla vegetazione arborea.
Violazioni ambientali e urbanistiche nel Parco Adda
Nord per danni stimati in oltre un milione e 200mila euro. Soldi che i vertici del Parco avrebbero
dovuto incassare da una società, responsabile di
scavi non autorizzati, ma che non sono mai entrati
nelle casse pubbliche.
La cava degli abusi è l’ennesimo filone su cui si è
concentrata la commissione d’inchiesta istituita da
Regione Lombardia il 19.10.2016, composta tra gli
altri da due componenti dell’Agenzia Anticorruzione
(Arac), Giovanna Ceribelli e Sergio Arcuri. Le
verifiche si sono concluse lo scorso 21 giugno, con
una relazione di 47 pagine che il Corriere ha
visionato. Il dossier è stato consegnato
all’assessore all’Ambiente Claudia Terzi (Lega).
Dopo le indagini su assunzioni e promozioni a mogli,
amiche e funzionari compiacenti e lo scandalo del
call center fantasma, emersi nei giorni scorsi,
adesso il lavoro degli ispettori si concentra su un
presunto danno erariale. In un’area di interesse
naturalistico e paesaggistico.
Tutto parte dai rilievi delle Guardie del corpo
forestale che, ben quattro anni e mezzo fa, hanno
riscontrato pesanti irregolarità. La ditta
Benedetti, che si occupa del commercio di ghiaia e
sabbia per l’edilizia, è accusata di avere
sconfinato a partire dal 2008 su terreni all’interno
del Parco non di sua proprietà (in corrispondenza
del Comune di Olginate). In base agli accertamenti
svolti sono stati scavati e sono state fatte opere
edilizie su 6.500 metri quadrati in più. Con
rimozione degli alberi, asportazione di rilevanti
quantità di terreno, creazione di terrazzamenti e
rampe di accesso per gli automezzi.
La sanzione prevista di oltre 1milione e 200mila
euro è direttamente proporzionale alla superficie
invasa irregolarmente. Il problema —da quanto emerge
dal lavoro degli ispettori Ceribelli e Arcuri— è che
negli anni le metrature dell’abuso sono state
ridotte, in seguito alle contestazioni della ditta
Benedetti, fino ad arrivare a poco più di 180 metri.
Così, in un accordo del 20.09.2016 firmato dal
sindaco di Olginate
Marco Passoni
e dal presidente
del Parco Agostino Agostinelli
(Pd) con la ditta
Benedetti, la sanzione scende a 17mila euro. Un taglio, secondo Ceribelli e Arcuri,
irregolare.
«Il direttore del Parco architetto
Minei
non ha proceduto a chiudere la pratica ma ha
continuamente richiesto all’ufficio di vigilanza la
modifica dei conteggi, con conseguente riduzione
delle aree —si legge nei documenti—. (...)
Dall’analisi degli accordi sostitutivi si può
rilevare come la riduzione della superficie, sulla
quale sono stati riscontrati abusi e danni
ambientali, non sia avvenuta sulla base di
un’istruttoria supportata da elementi veritieri e
documentati bensì in base a una richiesta della
ditta Benedetti».
Adesso il Parco è chiamato a rettificare la
superficie degli abusi ridotta. Nelle casse
pubbliche potrebbe entrare oltre un milione e 200mila euro (cifra che da sola ripagherebbe Regione
Lombardia dei costi sostenuti per il funzionamento
di Arac). Tutte le carte sono in Procura a Milano
(20.07.2017 - tratto da e link a http://milano.corriere.it). |
ENTI
LOCALI:
L’inchiesta sul Parco Adda Nord. Il call center per
i turisti di Expo 2015: un fantasma da 45 mila euro.
Finanziato dalla Regione Lombardia con i fondi
europei doveva fornire informazioni ai visitatori
durante i sei mesi dell’Esposizione. Ma non è mai
entrato in funzione.
«Il telefono risponde a vuoto da tempo. Il
trasferimento di chiamata è stato effettuato?».
Il 28.12.2016 il nuovo direttore del Parco Adda Nord
Cristina Capetta
verifica se le telefonate sono state deviate sui
numeri del personale del Parco. Il problema da
risolvere non è di poco conto. Il call center per
informazioni turistiche —finanziato con 37.500 euro
di fondi europei erogati da Regione Lombardia—
doveva entrare in funzione nel luglio/agosto 2015 in
concomitanza con Expo, ma del servizio non c’è
traccia. Il tentativo è di trovare un’alternativa:
una voce che risponda al posto di chi avrebbe dovuto
farlo per contratto.
Il centralino doveva essere attivo per 18 mesi sei
giorni la settimana. Ai turisti doveva essere
garantita un’infoline telefonica. Il progetto
s’intitolava: «Passaggio sull’Adda. Da Leonardo
ad Expo». Ma i risultati delle verifiche,
terminate lo scorso 21 giugno, portano a una
conclusione sorprendente: «La creazione e il
funzionamento del call center non risultano
documentati in alcun modo —scrivono Giovanna
Ceribelli e Sergio Arcuri dell’Anticorruzione
regionale (Arac), entrambi componenti della
commissione ispettiva sul Parco Adda Nord istituita
da Regione Lombardia—. Dalle dichiarazioni raccolte
pare non essere mai stato funzionante nonostante il
servizio sia stato pagato». Da una delibera del
20.08.2015 il compenso risulta di 45.750 euro.
La decisione del nuovo dg Capetta
di deviare le chiamate non è casuale. Viene presa
quando al Parco Adda Nord sono già al lavoro gli
ispettori regionali che vogliono fare chiarezza su
presunti comportamenti di dubbia legittimità. Tra
questi ci sono anche gli incarichi conferiti alla
cooperativa Coclea, vincitrice di 30 appalti in
otto anni per un importo di quasi 400mila euro,
compreso il bando per l’attivazione del call center
fantasma. L’aggiudicazione risale all’aprile 2015
durante la direzione del Parco da parte
dell’architetto Giuseppe Luigi
Minei, già
nel mirino della commissione di inchiesta per l’«incaricopoli»
del Parco, come raccontato nei giorni scorsi dal
Corriere.
Il call center per informazioni turistiche sulle
visite alle bellezze del Parco risulta mai attivato
sulla base di svariati indizi: le testimonianze
stesse del personale del Parco, la rendicontazione
di soli sei mesi di attività (gennaio-giugno 2015)
da parte della
cooperativa Coclea
e l’incongruenza tra la data del report di attività
e quella di aggiudicazione dell’appalto (aprile
2015). Uno dei soci fondatori della cooperativa, Andrea Biffi, scrive: «Il servizio è stato
portato a regime nei mesi da gennaio a giugno 2015.
Il centralino è stato presidiato da due operatori».
Ma si domandano gli ispettori regionali: «Com’è
possibile che la cooperativa abbia rendicontato
l’erogazione di un servizio dal mese di gennaio
2015, quando l’appalto è stato aggiudicato solo
nell’aprile 2015?». Non risultano altre
relazioni sull’attività del centralino: «Ma il
Parco ha provveduto al pagamento dell’intero
corrispettivo». E sugli appalti alla cooperativa
Coclea gli ispettori scrivono: «Emerge la
violazione dei principi di trasparenza, economicità,
imparzialità e parità di trattamento nella gestione
delle procedure» (16.07.2017 - tratto da
e link a http://milano.corriere.it). |
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Nell'interpretazione della legge, deve ritenersi
superato il canone "in claris non fit
intepretatio". |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Nell'ipotesi in cui
l'interpretazione letterale di una norma di legge sia
sufficiente ad individuarne, in
modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la
connessa portata precettiva, l'interprete non deve ricorrere
al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla
ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della "mens
legis", specie se,
attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al
risultato di modificare la
volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal
legislatore.
---------------
16. L'art. 12 delle disp. prel. cod. civ. impone che debba
applicarsi la legge
secondo il significato fatto palese dal significato proprio
delle parole secondo la
connessione di esse e dalla intenzione del legislatore.
Il criterio testuale, dunque, si basa sulla determinazione
del significato
dell'espressione legislativa in base al suo valore semantico
secondo l'uso linguistico
generale.
Questa Corte di legittimità (vd. Cass.
11359/1993; SS.UU. 4000/1982;
5128/2001) ha, inoltre, avuto modo di chiarire che
nell'ipotesi in cui
l'interpretazione letterale di una norma di legge sia
sufficiente ad individuarne, in
modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la
connessa portata precettiva, l'interprete non deve ricorrere
al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla
ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della "mens
legis", specie se,
attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al
risultato di modificare la
volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal
legislatore.
17. Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti
ambigua (e si appalesi
altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio
ermeneutico sussidiario), l'elemento
letterale e l'intento del legislatore, insufficienti in
quanto utilizzati singolarmente,
acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento
ermeneutico, sì che il
secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad
ovviare all'equivocità del
testo da interpretare, potendo, infine, assumere rilievo
prevalente rispetto
all'interpretazione letterale soltanto nel caso,
eccezionale, in cui l'effetto giuridico
risultante dalla formulazione della disposizione sia
incompatibile con il sistema
normativo, non essendo consentito all'interprete correggere
la norma nel significato
tecnico proprio delle espressioni che la compongono
nell'ipotesi in cui ritenga che
tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità
pratica cui la norma stessa è
intesa
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 13.07.2017 n. 17356). |
ATTI AMMINISTRATIVI: E'
ormai consolidato il principio che l'art. 12 delle preleggi,
laddove stabilisce che nell'applicare la legge non si può
attribuire alla stessa altro senso che quello fatto palese
dal significato proprio delle parole secondo la connessione
di esse e dall'intenzione del legislatore, non privilegia il
criterio interpretativo letterale poiché evidenzia, con il
riferimento «all'intenzione del legislatore», un essenziale
riferimento alla coerenza della norma e del sistema.
Di conseguenza il dualismo, presente nell'art. 12, tra
lettera («significato proprio delle parole secondo la
connessione di esse») e spirito o ratio («intenzione del
legislatore») va risolto con la svalutazione del primo
criterio, rilevandosi inadeguata la stessa idea di
interpretazione puramente letterale.
---------------
10. Richiamando precedenti ormai remoti, l’appellante
sostiene l’autosufficienza della lettura letterale della
norma da applicarsi e, in definitiva, invoca il canone in
claris non fit intepretatio.
10.1 Sennonché questo canone non trova alcun conforto negli
orientamenti della giurisprudenza più recente. Al contrario,
è ormai consolidato il principio che l'art. 12 delle
preleggi, laddove stabilisce che nell'applicare la legge non
si può attribuire alla stessa altro senso che quello fatto
palese dal significato proprio delle parole secondo la
connessione di esse e dall'intenzione del legislatore, non
privilegia il criterio interpretativo letterale poiché
evidenzia, con il riferimento «all'intenzione del
legislatore», un essenziale riferimento alla coerenza
della norma e del sistema.
Di conseguenza il dualismo, presente nell'art. 12, tra
lettera («significato proprio delle parole secondo la
connessione di esse») e spirito o ratio («intenzione
del legislatore») va risolto con la svalutazione del
primo criterio, rilevandosi inadeguata la stessa idea di
interpretazione puramente letterale (cfr. Cons. Stato, sez.
V, 13.12.2012, n. 6392; Id., 07.10.2013, n. 4920; Id., sez.
IV, 11.02.2016, n. 606; Cass. civ., sez. lav., 11.02.2014,
n. 3036; Id., sez. III, 20.03.2014, n. 6514)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.06.2017 n. 3233 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Il senso
della disposizione «fatto palese dal significato
proprio
delle parole secondo la connessione di esse» è il primo canone
di
interpretazione della legge (ex art. 12, comma primo, preleggi).
-----------------
10. È infine infondato anche l'ultimo motivo.
L'art. 17, comma 1, d.lgs. 15.12.1997, n. 446, così
dispone: «per i soggetti che alla data di entrata in vigore
del presente
decreto hanno acquisito il diritto a fruire di uno dei
regimi di
esenzione decennale a carattere territoriale dell'imposta
locale sui
redditi nel rispetto delle condizioni e dei requisiti
previsti dalle singole
leggi di esonero, il valore prodotto nel territorio della
regione ove è
ubicato lo stabilimento o l'impianto cui il regime
agevolativo si
riferisce, determinato a norma degli articoli 4 e 5, è
ridotto per il
residuo periodo di applicabilità del detto regime di un
ammontare pari
al reddito che ne avrebbe fruito».
Il senso di tale disposizione «fatto palese dal significato
proprio
delle parole secondo la connessione di esse» (primo canone
di
interpretazione della legge ex art. 12, comma primo,
preleggi) appare
univocamente quello di stabilire che l'agevolazione di cui
il soggetto
passivo aveva acquisito il diritto sotto il vigore della
precedente imposta locale sui redditi si riflette con
riferimento alla nuova imposta
solo attraverso la riduzione della nuova base imponibile di
importo
corrispondente all'imponibile che, secondo la precedente
imposta,
avrebbe beneficiato della previste esenzione
(Corte di Cassazione, Sez. V civile,
sentenza 17.05.2017 n. 12286). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
significato proprio delle parole secondo la connessione di
esse deve essere ritenuto decisivo dall'art. 12 prel. c.c.
ai fini dell'interpretazione della legge.
Va
riconosciuto carattere interpretativo soltanto a quelle
disposizioni che hanno il fine obiettivo di chiarire il
senso di norme preesistenti ovvero di escludere o di
enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragionevolmente
riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di imporre
a chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata un
determinato significato normativo.
La possibilità che il legislatore adotti disposizioni di
interpretazione autentica, che è ammessa in linea generale
non solo ove sussistano situazioni di incertezza
nell'applicazione del diritto o siano insorti contrasti
giurisprudenziali ma anche in presenza di indirizzi
giurisprudenziali omogenei, trova comunque un limite nella
circostanza che la scelta imposta per vincolare il
significato ascrivibile alla legge anteriore rientri tra le
possibili varianti di senso del testo originario, dovendo
altrimenti ritenersi che la disposizione asseritamente
interpretativa non abbia valore che per l'avvenire, giusta
la previsione generale di cui all'art. 11 prel. c.c..
----------------
-
che, essendo il significato proprio delle parole secondo la
connessione di
esse ritenuto decisivo dall'art. 12 prel. c.c. ai fini
dell'interpretazione
della legge (v. in tal senso Cass. n. 1111 del 2012, ove
ampi riferimenti
alla giurisprudenza di questa Corte), sembra doversi
concludere che il
testo dell'art. 51, comma 6, cit., non consente se non di
ritenere
irrilevante, ai fini dell'individuazione della nozione di trasfertista, la
modalità continuativa o meno di corresponsione delle
indennità in
questione, per attribuire rilievo all'obbligo contrattuale
assunto dal
dipendente di espletare normalmente le proprie attività
lavorative in
luoghi sempre variabili e diversi e quindi al di fuori di
una qualsiasi sede di lavoro prestabilita (così,
espressamente, ancora Cass. n. 396 del
2012);
-
che, potendo essere riconosciuto carattere interpretativo
soltanto a
quelle disposizioni che hanno il fine obiettivo di chiarire
il senso di norme
preesistenti ovvero di escludere o di enucleare uno dei
sensi fra quelli
ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma
interpretata, allo scopo
di imporre a chi è tenuto ad applicare la disposizione
considerata un
determinato significato normativo (v. tra le più recenti
Corte cost. n.
314 del 2013), l'attribuzione di senso operata dall'art.
7-quinquies, d.l.
n. 193/2016 (conv. con I. n. 225/2016), nei confronti
dell'art. 51,
comma 6, T.U. n. 917/1986, pare avere valore innovativo,
avendo nei
fatti il significato di sopprimere la locuzione congiuntiva
"anche se", che
figura nella disposizione interpretata;
-
che la possibilità che il legislatore adotti disposizioni di
interpretazione
autentica, che è ammessa in linea generale non solo ove
sussistano
situazioni di incertezza nell'applicazione del diritto o
siano insorti
contrasti giurisprudenziali ma anche in presenza di
indirizzi
giurisprudenziali omogenei, trova comunque un limite nella
circostanza
che la scelta imposta per vincolare il significato
ascrivibile alla legge
anteriore rientri tra le possibili varianti di senso del
testo originario (v. ex plurimis Corte cost. nn. 15 del 2012, 271 del 2011, 209
del 2010,
525 del 2000), dovendo altrimenti ritenersi che la
disposizione
asseritamente interpretativa non abbia valore che per
l'avvenire, giusta
la previsione generale di cui all'art. 11 prel. c.c.
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 18.04.2017 n. 9731). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Sebbene
la norma che qui viene in rilievo non brilli per chiarezza,
ritiene il
Collegio che non sia condivisibile la interpretazione alla
stessa data dalla Corte
territoriale, laddove il giudice di appello ha
del tutto omesso l'esame
dei commi successivi al primo ed ha in tal modo violato il
canone di ermeneutica
fissato dall'art. 12 delle preleggi, che, pur valorizzando
la interpretazione
letterale, dà rilievo "al significato proprio delle parole
secondo la connessione di
esse", e, quindi, esclude che l'interprete, a fronte di un
testo normativo composto
di più commi, possa prescindere dall'esame di quelle parti
della disposizione che
risultano inscindibilmente legate a quella oggetto di
esegesi.
---------------
2.2 - Sebbene la norma che qui viene in rilievo non brilli
per chiarezza, ritiene il
Collegio che non sia condivisibile la interpretazione alla
stessa data dalla Corte
territoriale, che ha ritenuto di potere prescindere
dall'intervento della Giunta
Regionale e di dovere riconoscere alla delibera richiamata
nel comma 1 il valore
di una "mera presa d'atto".
Nel pervenire a dette conclusioni il giudice di appello ha
del tutto omesso l'esame
dei commi successivi al primo ed ha in tal modo violato il
canone di ermeneutica
fissato dall'art. 12 delle preleggi, che, pur valorizzando
la interpretazione
letterale, dà rilievo "al significato proprio delle parole
secondo la connessione di
esse", e, quindi, esclude che l'interprete, a fronte di un
testo normativo composto
di più commi, possa prescindere dall'esame di quelle parti
della disposizione che
risultano inscindibilmente legate a quella oggetto di
esegesi
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 02.01.2017 n. 5). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La "chiarezza" che consente di evitare ogni altra
indagine interpretativa non è, infatti, "una chiarezza
lessicale in sé e per sé considerata, avulsa dalla
considerazione della comune volontà delle parti". Al
contrario, "la chiarezza che preclude qualsiasi
approfondimento interpretativo del testo contrattuale è la
chiarezza delle intenzioni dei contraenti".
Soltanto ove lettera ed intenzione delle parti siano
effettivamente chiari e tra loro coerenti potrà, dunque,
arrestarsi l'indagine dell'interprete. Con la conseguenza
che è da escludere che l'anzidetto principio possa trovare
applicazione "nel caso in cui il testo negoziale sia chiaro,
ma non coerente con ulteriori ed esterni indici rivelatori
della volontà dei contraenti".
---------------
4.1.2. - In siffatto contesto occorre, dunque, intendere il
principio (non ricompreso fra i criteri d'interpretazione
del contratto accolti dal codice vigente) secondo cui in
claris non fit interpretatio.
Come precisato da Cass., 09.12.2014, n. 25840, la "chiarezza"
che consente di evitare ogni altra indagine interpretativa
non è, infatti, "una chiarezza lessicale in sé e per sé
considerata, avulsa dalla considerazione della comune
volontà delle parti". Al contrario, "la chiarezza che
preclude qualsiasi approfondimento interpretativo del testo
contrattuale è la chiarezza delle intenzioni dei contraenti".
Soltanto ove lettera ed intenzione delle parti siano
effettivamente chiari e tra loro coerenti potrà, dunque,
arrestarsi l'indagine dell'interprete. Con la conseguenza
che è da escludere che l'anzidetto principio possa trovare
applicazione "nel caso in cui il testo negoziale sia
chiaro, ma non coerente con ulteriori ed esterni indici
rivelatori della volontà dei contraenti" (così ancora
Cass. n. 25840, cit.)
(Corte di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 15.07.2016 n. 14432). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Se
si vuol seguire la tesi circa la prevalenza del criterio
letterale nell’interpretazione della norma di legge, laddove
essa -per vero- ha un significato chiaro e non equivoco ma
-al contempo- manifesta un’aporia testuale del sistema, in
tal caso soccorre il principio evincibile dall'art. 12 delle
disposizioni sulla legge in generale, laddove stabilisce
che, nell'applicare la legge non le può attribuire un altro
senso che quello fatto palese dal significato proprio delle
parole secondo la loro connessione e dalla intenzione del
legislatore, non privilegia il criterio interpretativo
letterale poiché evidenzia, con riguardo alla «intenzione
del legislatore», un essenziale riferimento alla coerenza
della norma e del sistema.
Considerato pertanto che il dualismo del metodo
interpretativo, che s’evince dall’art. 12 stesso e che
s’invera nella compresenza del criterio letterale
(«significato proprio delle parole secondo la connessione di
esse» e spirito o ratio («intenzione del legislatore»), va
risolto se non con la mera o definitiva svalutazione, certo
con la possibilità di far recedere il primo criterio
rispetto al secondo, rilevandosi inadeguata la stessa idea
d’interpretazione puramente letterale, soprattutto quando il
risultato di tal operazione si mostri paradossale o
incoerente con il sistema giuridico stesso.
---------------
- Considerato in diritto che, con il ricorso in epigrafe ed
oltre a concludere per il rigetto anche dei due ulteriori
motivi di primo grado assorbiti dal TAR, le Amministrazioni
statali appellanti lamentano l’erroneità
dell’interpretazione analogica tentata dal TAR sul medesimo
art. 120, c. 1, in quanto, per un verso, va preferito per
giurisprudenza prevalente il criterio ermeneutico letterale
quando esso sia adeguato ad individuare in modo chiaro ed
univoco il significato della norma e, per altro verso, non è
utilizzabile la disciplina sulla revoca della patente di
guida fuori da tal contesto, ponendosi il c. 2 del medesimo
art. 120 in un rapporto di specialità rispetto al regime
recato dal c. 1 e non essendo in ogni caso invocabile l’art.
27 Cost. nella specie poiché riguarda le sole sanzioni
penali;
- Considerato al riguardo che, mentre il c. 1 del ripetuto
art. 120, per quel che qui interessa, dispone che «… non
possono conseguire la patente di guida… le persone
condannate per i reati di cui agli articoli 73 e 74 del
testo unico di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 09.10.1990, n. 309…», il successivo c. 2
prevede che (I per.) «… se le condizioni soggettive
indicate nel primo periodo del comma 1… intervengono in data
successivo al rilascio, il prefetto dispone la revoca della
patente di guida…», ma (II per.) «… la revoca non può
essere disposta se sono trascorsi più di tre anni dalla
data… di passaggio in giudicato della sentenza di condanna
per i reati indicati nel primo periodo del medesimo comma…»;
- Considerato sul punto che, come evincesi dalla serena
lettura congiunta dei citati due commi, v’è un’evidente
simmetria logica, afferendo entrambi i casi alla (non)
sussistenza dei requisiti morali di chi chiede o,
rispettivamente, possiede la patente di guida, tra i
presupposti del diniego di rilascio e quelli di revoca della
patente già rilasciata, ossia la condanna per uno dei reati
indicati nell’art. 120, c. 1, I per., tra cui quello per il
quale fu condannato il sig. Be.;
- Considerato nondimeno che tal simmetria non s’estende alle
conseguenze del passaggio del tempo dalla condanna, per cui,
mentre il legislatore ha reputato a priori congruo un
periodo ultratriennale dalla definizione della condanna
quale termine estintivo della potestà prefettizia di revoca,
nulla si prevede coeteris paribus per la vicenda del
rilascio;
- Considerato allora che, se si vuol seguire la tesi delle
Amministrazioni appellanti sulla prevalenza del criterio
letterale nell’interpretazione delle norme de quibus,
esse per vero hanno un significato chiaro e non equivoco, ma
al contempo manifestano un’aporia testuale del sistema, nel
senso, cioè, che la condanna per i reati ex art. 120, c. 1,
I per., ove letta da sola e senza un criterio di ragionevole
raccordo con l’ordinamento generale, si mostra in sé
preclusiva sine die dell’accesso del soggetto
condannato alla patente di guida;
- Considerato che un tal risultato ermeneutico s’appalesa
irrazionale non solo o non tanto rispetto alla funzione ed
agli effetti della pena —che non sono poi del tutto estranei
all’esercizio della funzione amministrativa (cfr., p. es.,
il rinnovo del permesso di soggiorno previa specifica
verifica sulla pericolosità sociale dell’interessato, seppur
condannato, escludendosi ogni forma di automatismo
preclusivo (arg. ex Cons. St., III, 03.12.2015 n. 5474)—, ma
soprattutto con l’obiettivo di protezione cui il diniego di
rilascio è preordinato, ossia la presenza dei requisiti
morali indicati dalla norma stessa, i quali, però, possono
variare nel tempo e, dunque, di tali variazioni, in meglio o
in peggio, l’ordinamento deve tener conto senza rigidezze o
definitive preclusioni, al fine di realizzare una seria ed
efficace uguaglianza di trattamento a parità di presupposti;
- Considerato che in tal caso soccorre il principio
evincibile proprio dall'art. 12 delle disposizioni sulla
legge in generale, laddove stabilisce che, nell'applicare la
legge non le può attribuire un altro senso che quello fatto
palese dal significato proprio delle parole secondo la loro
connessione e dalla intenzione del legislatore, non
privilegia il criterio interpretativo letterale poiché
evidenzia, con riguardo alla «intenzione del legislatore»,
un essenziale riferimento alla coerenza della norma e del
sistema (arg. ex Cons. St., V, 07.10.2013 n. 4920);
- Considerato pertanto che il dualismo del metodo
interpretativo, che s’evince dall’art. 12 stesso e che
s’invera nella compresenza del criterio letterale («significato
proprio delle parole secondo la connessione di esse» e
spirito o ratio («intenzione del legislatore»),
va risolto se non con la mera o definitiva svalutazione,
certo con la possibilità di far recedere il primo criterio
rispetto al secondo, rilevandosi inadeguata la stessa idea
d’interpretazione puramente letterale, soprattutto quando il
risultato di tal operazione si mostri paradossale o
incoerente con il sistema giuridico stesso
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.02.2016 n. 606 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
"chiarezza" che preclude ogni altra indagine interpretativa
non è una chiarezza lessicale in sé e per sé considerata,
avulsa dalla considerazione della comune volontà delle
parti.
Al contrario, la chiarezza che preclude qualsiasi
approfondimento interpretativo del testo contrattuale è la
chiarezza delle intenzioni dei contraenti.
---------------
Il principio "in claris non fit interpretatio" deve essere
rettamente inteso secondo i seguenti princìpi di
diritto:
(a) Il primo criterio da seguire
nell'interpretazione del contratto è la ricerca della comune
volontà delle parti, che deve avvenire non solo sulla base
del testo negoziale, ma in base alla condotta delle parti ed
al complesso dei patti contrattuali.
(b) Nell'interpretazione del contratto la
regola "in claris non fit interpretatio" non è applicabile
in presenza di clausole che, pur chiare se riguardate in sé,
non siano coerenti con l'intenzione delle parti, per come
desumibile dalle altre parti del contratto.
(c) Nel caso di collegamento negoziale tra più
contratti, ciascuno di essi va interpretato tenendo conto
della condotta tenuta dai contraenti nella stipula e
nell'esecuzione dei contratti collegati, se reciprocamente
nota.
(d) Se una delle parti del contratto manifesti la
volontà di attribuire un certo significato ad una clausola
ambigua, e l'altra presti acquiescenza a tali manifestazioni
di volontà, l'interpretazione del contratto secondo buona
fede, ai sensi dell'art. 1366 c.c., impone di ritenere
quella interpretazione coerente con la comune volontà delle
parti.
---------------
3.5. La seconda ragione per la quale la sentenza impugnata
ha violato l'art. 1362 c.c. è l'erronea applicazione del
principio in claris non fit interpretatio. Con questa
espressione, come noto, si sintetizza la massima
d'esperienza secondo cui quando il testo del contratto è
indiscutibile, diviene superfluo indagare la comune
intenzione delle parti.
Il principio in claris non fit interpretatio tuttavia
deve essere rettamente inteso.
La "chiarezza" che preclude ogni
altra indagine interpretativa non è una chiarezza lessicale
in sé e per sé considerata, avulsa dalla considerazione
della comune volontà delle parti. Al contrario, la chiarezza
che preclude qualsiasi approfondimento interpretativo del
testo contrattuale è la chiarezza delle intenzioni dei
contraenti
(principio ripetutamente affermato da questa Corte, a
partire da Sez. L, Sentenza n. 866 del 08/03/1975, Rv.
374242).
Così, ad esempio, non v'è dubbio che sia lessicalmente
chiaro il testo contrattuale "Tizio vende a Calo il fondo
Tuscolano"; ma se nel medesimo contratto le parti
avessero premesso che Caio intendeva avere la disponibilità
del fondo per un periodo di tempo determinato dietro
pagamento di un canone, la chiarezza del testo cessa di
essere tale, perché confliggente con la dichiarata comune
intenzione delle parti. Tre, dunque, sono le possibilità
teoricamente concepibili, dalle quali dipende la scelta del
corretto metodo interpretativo d'un contratto.
Può accadere, innanzitutto, che in un contratto siano chiari
e tra loro coerenti la lettera e l'intenzione delle parti,
ed in tal caso nessuna ulteriore attività interpretativa è
consentita (in applicazione, appunto, del principio "in
claris").
Può accadere, poi, che sia chiara ed inequivoca la comune
intenzione delle parti, mentre sia ambiguo il testo: anche
in tal caso non si porrà alcun problema interpretativo,
dovendo il giudice privilegiare l'intenzione dei contraenti
rispetto al testo letterale.
Infine, può verificarsi che il testo contrattuale sia
chiaro, ma non coerente con ulteriori ed esterni indici
rivelatori della volontà delle parti. In questo caso la
regola "in daris" non può trovare applicazione, per
una questione logica prima che giuridica: e cioè che lo iato
tra testo e intenzione impedisce di definire "chiaro"
il contratto.
La Corte d'appello, in definitiva, ha fatto scorretta
applicazione della regola in claris, perché in luogo
di accertare se la comune intenzione delle parti risultasse
in modo certo ed immediato dal contratto, mediante l'impiego
articolato dei vari canoni ermeneutici, ivi compreso il
comportamento complessivo delle parti, si è arrestata al
testo negoziale considerandolo chiaro di per sé, senza
verificare se fosse anche coerente con le dichiarate
intenzioni delle parti (così, ex multis, Sez. L,
Sentenza n. 12360 del 03/06/2014, Rv. 631051; Sez. 3,
Sentenza n. 7083 del 28/03/2006, Rv. 588667).
...
3.8. La sentenza d'appello
deve dunque essere cassata con rinvio alla Corte d'appello
di Ancona in differente composizione.
Il giudice del rinvio, nel riesaminare il contratto alla
luce dell'intero testo negoziale, della condotta delle parti
e del principio di buona fede, si atterrà ai seguenti
princìpi di diritto:
(a) Il primo criterio da seguire
nell'interpretazione del contratto è la ricerca della comune
volontà delle parti, che deve avvenire non solo sulla base
del testo negoziale, ma in base alla condotta delle parti ed
al complesso dei patti contrattuali.
(b) Nell'interpretazione del contratto la regola "in
claris non fit interpretatio" non è applicabile in
presenza di clausole che, pur chiare se riguardate in sé,
non siano coerenti con l'intenzione delle parti, per come
desumibile dalle altre parti del contratto.
(c) Nel caso di collegamento negoziale tra più
contratti, ciascuno di essi va interpretato tenendo conto
della condotta tenuta dai contraenti nella stipula e
nell'esecuzione dei contratti collegati, se reciprocamente
nota.
(d) Se una delle parti del contratto manifesti la
volontà di attribuire un certo significato ad una clausola
ambigua, e l'altra presti acquiescenza a tali manifestazioni
di volontà, l'interpretazione del contratto secondo buona
fede, ai sensi dell'art. 1366 c.c., impone di ritenere
quella interpretazione coerente con la comune volontà delle
parti
(Corte di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 09.12.2014 n. 25840). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Nell'ipotesi in cui
l'interpretazione letterale di una norma di legge o
regolamentare sia sufficiente ad individuarne, in modo
chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa
portata precettiva, l'interprete non deve ricorrere al
criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca,
mercé l'esame complessivo del testo, della
mens legis,
specie se, attraverso siffatto procedimento, possa
pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma
sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore.
Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti
ambigua, e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al
predetto criterio ermeneutico sussidiario, l'elemento
letterale e l'intento del legislatore, insufficienti in
quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo
paritetico in seno al procedimento ermeneutico, sì che il
secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad
ovviare all'equivocità del testo da interpretare, potendo,
infine, assumere rilievo prevalente rispetto
all'interpretazione letterale soltanto nel caso,
eccezionale, in cui l'effetto giuridico risultante dalla
formulazione della disposizione sia incompatibile con il
sistema normativo, non essendo consentito all'interprete
correggere la norma nel significato tecnico proprio delle
espressioni che la compongono nell'ipotesi in cui ritenga
che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità
pratica cui la norma stessa è intesa.
---------------
La questione sollevata con il primo motivo di ricorso
investe il significato da attribuirsi alla locuzione "imprese
già beneficiarie", sostenendo il ricorrente che la
stessa dovrebbe interpretarsi nel senso di imprese che già
abbiano beneficiato dello sgravio contributivo generale
contemplato dalla norma richiamata.
L'indagine deve essere naturalmente svolta alla luce del
disposto dell'art. 12, comma 1, delle disposizioni sulle
legge in generale, a mente del quale "Nell'applicare la
legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello
fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la
connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore".
Secondo il condiviso orientamento della giurisprudenza di
legittimità, nell'ipotesi in cui
l'interpretazione letterale di una norma di legge o
regolamentare sia sufficiente ad individuarne, in modo
chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa
portata precettiva, l'interprete non deve ricorrere al
criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca,
mercé l'esame complessivo del testo, della
mens legis,
specie se, attraverso siffatto procedimento, possa
pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma
sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore;
soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti
ambigua, e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al
predetto criterio ermeneutico sussidiario, l'elemento
letterale e l'intento del legislatore, insufficienti in
quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo
paritetico in seno al procedimento ermeneutico, sì che il
secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad
ovviare all'equivocità del testo da interpretare, potendo,
infine, assumere rilievo prevalente rispetto
all'interpretazione letterale soltanto nel caso,
eccezionale, in cui l'effetto giuridico risultante dalla
formulazione della disposizione sia incompatibile con il
sistema normativo, non essendo consentito all'interprete
correggere la norma nel significato tecnico proprio delle
espressioni che la compongono nell'ipotesi in cui ritenga
che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità
pratica cui la norma stessa è intesa
(cfr, ex plurimis, Cass., n. 5128/2001)
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 11.02.2014 n. 3036). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Come
precisato dalla giurisprudenza anche di questa Sezione,
l'art. 12 delle preleggi “non privilegia in assoluto il
criterio interpretativo letterale, poiché evidenzia,
attraverso il riferimento "all'intenzione del legislatore"
un essenziale riferimento alla coerenza della norma e del
sistema; di conseguenza il dualismo, presente nell' art. 12,
tra lettera "significato proprio delle parole secondo la
connessione di esse" e spirito o ratio "intenzione del
legislatore" va risolto con la svalutazione del primo
criterio, rilevandosi inadeguata la stessa idea di
interpretazione puramente letterale”.
---------------
1. Con unico articolato motivo di censura il ricorrente
deduce l’erroneità della gravata sentenza laddove, da un
lato, ha attribuito al termine “prospiciente”
richiamato dall’art. 139 delle N.T.A. del P.R.G. un
significato riduttivo rispetto a quello letterale e,
dall’altro, non ha riconosciuto la violazione del principio
di liberalizzazione vigente in materia .
Assume, al riguardo, che dal fondo di sua proprietà (ubicato
in una fascia di rispetto ambientale) può esercitarsi
l’affaccio senza ostacoli su una zona D5 senza che, in
proposito, possa rilevare l’esistenza –tra detto fondo e
detta zona– di due sedi stradali e di un’altra fascia di
rispetto, o una specifica ratio sottesa
all’emanazione del citato art. 139.
L’art. 12 delle preleggi escluderebbe, infatti, il ricorso
al criterio ermeneutico di tipo teleologico tutte le volte
in cui le parole utilizzate dal legislatore non lascino
margine di dubbio sul loro significato.
La locuzione “prospiciente” sarebbe chiara e
concettualmente del tutto autonoma dalle diverse espressioni
usate dal medesimo articolo 139 (ossia quelle di “contatto”
e di “ricadente”), con conseguente doverosità, per
l’Amministrazione comunale, di autorizzare l’installazione
dell’impianto.
Sostiene, poi, che consentire l’apertura di stazioni di
rifornimento per le sole esigenze di determinate aree (e non
già di tutti gli utenti della strada) sarebbe contrastante
con il principio di liberalizzazione vigente in materia.
2. La doglianza non può essere condivisa.
3. Ed invero, come precisato dalla giurisprudenza anche di
questa Sezione, l'art. 12 delle preleggi “non privilegia
in assoluto il criterio interpretativo letterale, poiché
evidenzia, attraverso il riferimento "all'intenzione del
legislatore" un essenziale riferimento alla coerenza della
norma e del sistema; di conseguenza il dualismo, presente
nell'art. 12, tra lettera "significato proprio delle parole
secondo la connessione di esse" e spirito o ratio
"intenzione del legislatore" va risolto con la svalutazione
del primo criterio, rilevandosi inadeguata la stessa idea di
interpretazione puramente letterale” (Cons. Stato, Sez.
V, 13.12.2012, n. 6392).
Nella specie, proprio in considerazione della ratio
sottesa all’adozione dell’art. 139 delle NTA del PRG del
Comune di Perugia, non è quindi irragionevole ritenere che
il termine “prospiciente”, utilizzato in una
disposizione di natura urbanistica, possa non avere lo
stesso identico significato ad esso attribuito nel
linguaggio comune.
Ed in merito all’individuazione di detta ratio, il
Collegio non ha motivo di discostarsi da quanto rilevato dal
primo giudice.
L’art. 139 delle N.T.A. del Comune di Perugia -secondo una
previsione generale, emanata in considerazione della natura
del territorio e nell’ambito della pianificazione
urbanistica dello stesso– permette infatti di realizzare,
nelle fasce di rispetto ambientale, impianti di
distribuzione di carburante solo ed esclusivamente se
funzionali alle contigue zone artigianali ed industriali
(D1, D2, D3 e D5), agricole (Ea, Eb, Ep), ovvero destinate
ad ospitare infrastrutture e servizi generali (Fa, Sg, Spr,
Sa).
Pertanto, in un siffatto contesto, è del tutto ragionevole
ritenere che al termine “prospiciente” debba
attribuirsi un significato più ristretto rispetto a quello
comunemente inteso (e cioè di “orientato nella direzione
corrispondente a una data veduta”, come specificato dal
Devoto-Oli), poiché altrimenti potrebbero essere
autorizzati impianti senza alcuna diretta e concreta
correlazione con (ed utilità per) le zone sopra
indicate,siccome realizzabili anche ad elevata distanza
dalle stesse, con ciò vanificandosi il fine perseguito
dalla norma.
In altri termini, l’art. 139 in questione consente di
intervenire su aree di particolare rilievo quali sono le
fasce di rispetto ambientale , solo ed in ragione del fatto
che gli impianti ivi previsti risultino oggettivamente a
diretto ed immediato servizio delle zone considerate che,
pertanto, devono risultare strettamente contigue.
Nella specie,pertanto,il significato di prospicienza deve
ragionevolmente essere inteso in senso restrittivo e,
quindi, fatto coincidere con quello di “immediata
vicinanza” tra la fascia di rispetto ambientale e le
zone D1/D2/D3/D5/EA/B/Ep/Fa/Sg/Spr/Sa del PRG.
E detta “immediata vicinanza”, come correttamente
rilevato dal Tar, non è riscontrabile nel caso di specie.
Il ricorrente,infatti, ha progettato l’impianto per cui è
causa su un terreno sito sul lato opposto rispetto alla zona
D5, e separato da quest’ultima da ben due strade (il
raccordo autostradale Perugia/Bettolle e la via “Trasimeno
ovest”), nonché da una diversa ed ulteriore fascia di
rispetto
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 07.10.2013 n. 4920 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Nella lettura ed accezione di una clausola dal
chiaro tenore letterale, di per sé sola idonea a palesare
l'intenzione delle parti, è sufficiente attenersi al
principio in claris non fit intepretatio, che costituisce la
regola interpretativa primaria e fondamentale, che esime il
giudice dal ricorso a quelle di interpretazione sistematica
ed ai criteri sussidiari dettati dagli articoli seguenti al
1362 c.c., in tutti i casi in cui le parole adoperate dai
contraenti denotino inequivocamente e con immediatezza il
contenuto della pattuizione.
---------------
La corte di merito, invero, nella lettura ed accezione di
una clausola dal chiaro tenore letterale, di per sé sola
idonea a palesare l'intenzione delle parti, si è attenuta al
principio in claris non fit intepretatio, che
costituisce la regola interpretativa primaria e
fondamentale, che esime il giudice dal ricorso a quelle di
interpretazione sistematica ed ai criteri sussidiari dettati
dagli articoli seguenti al 1362 c.c., in tutti i casi in cui
le parole adoperate dai contraenti denotino inequivocamente
e con immediatezza il contenuto della pattuizione (tra le
tante, v. Cass. nn. 3552/2012, 16298/2010, 9786/2010,
6852/2010, 11392/1995)
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 21.12.2012 n. 23828). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’art.
12 delle preleggi, laddove stabilisce che nell’applicare la
legge (criterio che va seguito anche nell’interpretazione
della sentenza) non si può attribuire altro senso che quello
fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la
connessione di esse e dall’intenzione del legislatore, non
privilegia il criterio interpretativo letterale, poiché
evidenzia, attraverso il riferimento “all’intenzione del
legislatore” un essenziale riferimento alla coerenza della
norma e del sistema (il dualismo, irrisolto dall’art. 12,
tra lettera «significato proprio delle parole secondo la
connessione di esse» e spirito o ratio «intenzione del
legislatore» è stato invero sciolto dalla dottrina e dalla
giurisprudenza dominanti attraverso la «svalutazione» del
primo criterio, rilevandosi la inadeguatezza della stessa
idea di interpretazione puramente letterale).
---------------
6.1 - Con il primo motivo d’appello, i ricorrenti censurano
la sentenza per aver dato una lettura erronea sul piano
grammaticale e sintattico della sentenza n. 182 del 1988 ed
al di fuori dei canoni ermeneutici di cui all’art. 12 delle
preleggi.
La censura non ha pregio.
L’art. 12 delle preleggi, laddove stabilisce che
nell’applicare la legge (criterio che va seguito anche
nell’interpretazione della sentenza) non si può attribuire
altro senso che quello fatto palese dal significato proprio
delle parole secondo la connessione di esse e
dall’intenzione del legislatore, non privilegia il criterio
interpretativo letterale, poiché evidenzia, attraverso il
riferimento “all’intenzione del legislatore” un
essenziale riferimento alla coerenza della norma e del
sistema (il dualismo, irrisolto dall’art. 12, tra lettera «significato
proprio delle parole secondo la connessione di esse» e
spirito o ratio «intenzione del legislatore» è
stato invero sciolto dalla dottrina e dalla giurisprudenza
dominanti attraverso la «svalutazione» del primo
criterio, rilevandosi la inadeguatezza della stessa idea di
interpretazione puramente letterale)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.12.2012 n. 6392 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: E'
fondamentale canone di ermeneutica, sancito dall'ad 12 delle
preleggi, che la norma giuridica deve essere interpretata,
innanzi tutto e principalmente, dal punto di vista
letterale, non potendosi al testo "attribuire altro senso se
non quello fatto palese dal significato proprio delle parole
secondo la connessione di esse".
Pertanto, nell'ipotesi in cui l'interpretazione letterale di
una norma di legge sia sufficiente ad individuarne, in modo
chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa
portata precettiva, l'interprete non deve ricorrere ai
criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca,
mercé l'esame complessivo del testo, della mens legis,
specie se, attraverso siffatto procedimento, possa
pervenirsi al risultato di modificare la volontà della
norma, così come inequivocabilmente espressa dal
legislatore.
Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti
ambigua (e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al
predetto criterio ermeneutico sussidiario), l'elemento
letterale e l'intento del legislatore, insufficienti in
quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo
paritetico in seno al procedimento ermeneutico, cosicché il
secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad
ovviare all'equivocità del testo da interpretare.
---------------
Secondo la giurisprudenza di questa Corte è fondamentale
canone di ermeneutica, sancito dall'art. 12 delle preleggi,
che la norma giuridica deve essere interpretata, innanzi
tutto e principalmente, dal punto di vista letterale, non
potendosi al testo "attribuire altro senso se non quello
fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la
connessione di esse"; pertanto, nell'ipotesi in cui
l'interpretazione letterale di una norma di legge sia
sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il
relativo significato e la connessa portata precettiva,
l'interprete non deve ricorrere ai criterio ermeneutico
sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame
complessivo del testo, della mens legis, specie se,
attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al
risultato di modificare la volontà della norma, così come
inequivocabilmente espressa dal legislatore; soltanto
qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e
si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto
criterio ermeneutico sussidiario), l'elemento letterale e
l'intento del legislatore, insufficienti in quanto
utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in
seno al procedimento ermeneutico, cosicché il secondo funge
da criterio comprimario e funzionale ad ovviare
all'equivocità del testo da interpretare (cfr., ex
plurimis, Cass., nn. 3359/1975; 2454/1983; 3495/1996;
5128/2001; nonché, in applicazione dei medesimi principi,
ex plurimis, Cass., nn. 12081/2003; 3382/2009;
12136/2011)
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 26.01.2012 n. 1111). |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI: Deve
intendersi per “eccezionale” ogni norma che non sia
riconducibile ai principi generali o fondamentali
dell’ordinamento giuridico, ma che anzi faccia eccezione ai
detti principi o sia in contrasto con essi.
Orbene, con riguardo alle norme eccezionali, la
giurisprudenza ha costantemente ritenuto che delle stesse
non sia consentita una “interpretazione analogica”, mentre
ammette che le medesime disposizioni possano essere
interpretate estensivamente.
Anche con riguardo alle norme penali, la giurisprudenza
opera la medesima distinzione, ritenendo non consentita
l’applicazione analogica, risolvendosi essa in una
interpretazione “in malam partem” (e, ragionevolmente, in
una violazione dell’art. 25 Cost.), mentre ammette
l’interpretazione estensiva.
Tale distinzione, tradizionalmente operata dalla
giurisprudenza, appare condivisibile (nei limiti in cui è
possibile affrontare nella presente sede un problema
plurisecolare di teoria dell’interpretazione giuridica),
posto che l’interpretazione analogica attiene ai metodi di
integrazione del diritto (ed è quindi, secondo talune
ricostruzioni, un atto di costruzione normativa), mentre
l’interpretazione estensiva rientra nei metodi
interpretativi propriamente detti.
Infatti, nel caso della cd. interpretazione analogica (art.
12, comma 2, preleggi), in realtà si applica una norma ad un
caso che si riconosce come escluso dal suo campo di
applicazione, ma che tuttavia abbisogna di una disciplina
che l’interprete deve rinvenire nell’ordinamento giuridico.
Nel caso, invece, dell’interpretazione estensiva si estende
il significato di un termine o di una locuzione oltre il suo
significato letterale più immediato, al fine di ricavare
dalla disposizione il contenuto normativo genuino che è in
essa presente.
Appare, dunque, del tutto ragionevole che la locuzione
“norma di stretta interpretazione”, tipicamente utilizzata
per le norme eccezionali, debba essere intesa come
escludente la interpretazione analogica (poiché
l’applicazione di una norma a casi ad essa certamente
estranei ne estende l’ambito di applicazione e quindi
infrange la barriera della “eccezionalità”), ma, al tempo
stesso, essa non è tale da impedire che l’interprete (e
comunque chi di essa debba fare applicazione) ricerchi il
più genuino e congruo significato normativo scaturente dalla
disposizione, anche attraverso il “significato proprio delle
parole secondo la connessione di esse” e “l’intenzione del
legislatore”.
Diversamente opinando, si perviene ad affermare che, a
fronte di norme eccezionali, l’interprete debba fermarsi ad
una interpretazione letterale, intendendo quest’ultima, per
di più, in una accezione che la lega meramente ed
esclusivamente al primo, più immediato significato
scaturente dalle parole, precludendosi in tal modo ogni
possibilità di comprensione del dettato normativo per come
esso effettivamente risulta dalla disposizione, dal
coordinamento della stessa con il (più ampio) testo
normativo, dalle finalità perseguite dal legislatore.
Paradossalmente, accedendo ad una tale “lettura” della
“stretta interpretazione” delle norme eccezionali,
occorrerebbe affermare l’impossibilità della stessa
interpretazione secondo Costituzione (o costituzionalmente
orientata) della norma, non rientrando certamente
quest’ultima nell’ambito della interpretazione letterale.
E’ del tutto evidente, in accordo con la costante
giurisprudenza, che la interpretazione delle norme
eccezionali non può essere di tipo strettamente letterale,
potendo quest’ultima pervenire a risultati insoddisfacenti,
se non paradossali, al punto da porre l’interprete, come nel
caso di specie, innanzi alla possibilità di altre, anche più
plausibili interpretazioni, che lo stesso interprete ritiene
tuttavia essergli precluse dal limite di stretta
interpretazione, inteso come interpretazione puramente
letterale.
---------------
Deve intendersi per “eccezionale” ogni norma che non sia
riconducibile ai principi generali o fondamentali
dell’ordinamento giuridico, ma che anzi faccia eccezione ai
detti principi o sia in contrasto con essi. In ragione di
ciò, l’art. 5 l. n. 225/1992 è senza dubbio definibile come
“norma eccezionale”, posto che, con lo stesso, si deroga al
principio di gerarchia delle fonti e, in aggiunta, con
l’attribuire efficacia derogatoria non già ad un atto-fonte,
ma ad un atto amministrativo, sia pure di “alta
amministrazione”. Allo stesso modo, devono essere definite
“eccezionali” le concrete previsioni di deroga a norme di
legge contenute nelle ordinanze.
Orbene, con riguardo alle norme eccezionali, la
giurisprudenza ha costantemente ritenuto che delle stesse
non sia consentita una “interpretazione analogica” (da
ultimo, Cass., sez. lav., 24.05.2011 n. 11359; Cass.
Civ., sez. III, 29.09.2009 n. 20744), mentre ammette
che le medesime disposizioni possano essere interpretate
estensivamente (da ultimo, Cass. Civ., sez. III, 16.07.2010 n. 16647; sez. II, 13.04.2010 n. 8778; sez. I,
05.03.2009 n. 5297).
Anche con riguardo alle norme penali, la giurisprudenza
opera la medesima distinzione, ritenendo non consentita
l’applicazione analogica, risolvendosi essa in una
interpretazione “in malam partem” (e, ragionevolmente, in
una violazione dell’art. 25 Cost.), mentre ammette
l’interpretazione estensiva (Cass. Pen., sez. un., 25.06.2009 n. 38691; sez. III, 22.10.2009 n. 43385 e 13.07.2009 n. 39078).
Tale distinzione, tradizionalmente operata dalla
giurisprudenza, appare condivisibile (nei limiti in cui è
possibile affrontare nella presente sede un problema
plurisecolare di teoria dell’interpretazione giuridica),
posto che l’interpretazione analogica attiene ai metodi di
integrazione del diritto (ed è quindi, secondo talune
ricostruzioni, un atto di costruzione normativa), mentre
l’interpretazione estensiva rientra nei metodi
interpretativi propriamente detti.
Infatti, nel caso della cd. interpretazione analogica (art.
12, comma 2, preleggi), in realtà si applica una norma ad un
caso che si riconosce come escluso dal suo campo di
applicazione, ma che tuttavia abbisogna di una disciplina
che l’interprete deve rinvenire nell’ordinamento giuridico.
Nel caso, invece, dell’interpretazione estensiva si estende
il significato di un termine o di una locuzione oltre il suo
significato letterale più immediato, al fine di ricavare
dalla disposizione il contenuto normativo genuino che è in
essa presente.
Appare, dunque, del tutto ragionevole che la locuzione
“norma di stretta interpretazione”, tipicamente utilizzata
per le norme eccezionali, debba essere intesa come
escludente la interpretazione analogica (poiché
l’applicazione di una norma a casi ad essa certamente
estranei ne estende l’ambito di applicazione e quindi
infrange la barriera della “eccezionalità”), ma, al tempo
stesso, essa non è tale da impedire che l’interprete (e
comunque chi di essa debba fare applicazione) ricerchi il
più genuino e congruo significato normativo scaturente dalla
disposizione, anche attraverso il “significato proprio delle
parole secondo la connessione di esse” e “l’intenzione del
legislatore”.
Diversamente opinando, si perviene ad affermare che, a
fronte di norme eccezionali, l’interprete debba fermarsi ad
una interpretazione letterale, intendendo quest’ultima, per
di più, in una accezione che la lega meramente ed
esclusivamente al primo, più immediato significato
scaturente dalle parole, precludendosi in tal modo ogni
possibilità di comprensione del dettato normativo per come
esso effettivamente risulta dalla disposizione, dal
coordinamento della stessa con il (più ampio) testo
normativo, dalle finalità perseguite dal legislatore.
Paradossalmente, accedendo ad una tale “lettura” della
“stretta interpretazione” delle norme eccezionali,
occorrerebbe affermare l’impossibilità della stessa
interpretazione secondo Costituzione (o costituzionalmente
orientata) della norma, non rientrando certamente
quest’ultima nell’ambito della interpretazione letterale.
E’ del tutto evidente, in accordo con la costante
giurisprudenza, che la interpretazione delle norme
eccezionali non può essere di tipo strettamente letterale,
potendo quest’ultima pervenire a risultati insoddisfacenti,
se non paradossali, al punto da porre l’interprete, come nel
caso di specie, innanzi alla possibilità di altre, anche più
plausibili interpretazioni, che lo stesso interprete ritiene
tuttavia essergli precluse dal limite di stretta
interpretazione, inteso come interpretazione puramente
letterale.
Proprio in virtù di tale non idonea conclusione, la sentenza
appellata, pur prendendo atto dell’esistenza di altre
“prospettazioni plausibili”, ha non condivisibilmente
concluso negando ogni possibilità di interpretazione
estensiva “quantunque quest’ultima sia basata (nel caso di
specie) su plausibili argomenti ermeneutici”
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.10.2011 n. 5799 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
ULTERIORI NOVITA’ PER TRATTENUTA DEL 2,5% SULLA RETRIBUZIONE
DEL PERSONALE IN REGIME DI TFR (CSA di Milano,
05.06.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Guida alle pensioni 2017 - QUELLO CHE DEVI SAPERE SU:
Lavoratori precoci | Ape Social | Ape Volontaria | RITA
(INCA-CGIL, maggio 2017). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
ENTI LOCALI - VARI:
Oggetto: Direttiva per garantire un'azione coordinata
delle Forze di Polizia per la prevenzione e il contrasto ai
comportamenti che sono le principali cause di incidenti
stradali
(Ministero dell'Interno,
direttiva
21.07.2017 n. 300/A/5620/17/144/5/20/3 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Legge regionale 10.03.2017, n. 7 (BURL n. 11 del
13 marzo) – Recupero dei vani e locali seminterrati
esistenti – Indicazioni per l’individuazione degli ambiti di
esclusione di cui all’art. 4 (Regione Lombardia,
Direzione Generale Welfare,
nota 19.07.2017 n. 23689 di prot.) |
APPALTI:
Oggetto: Conversione della manovra correttiva (D.L.
50/2017) principali misure di natura fiscale (ANCE di
Bergamo,
circolare 14.07.2017 n. 127). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Distributori di carburante ad uso privato e
trasporto di carburanti in recipienti mobili: nuova
normativa regionale (ANCE di Bergamo,
circolare 30.06.2017 n. 121). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Manifestazioni pubbliche. Indicazioni di
carattere tecnico in merito a misure di safety
(Ministero dell'Interno, Dipartimento dei Vigili del Fuoco,
del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile,
nota 19.06.2017 n. 11464 di prot.). |
URBANISTICA:
NOTA DI LETTURA L.R. 16/2017 - Modifiche all’art. 5 della
L.R. 28.11.2014 n. 31 (Disposizioni per la riduzione del
consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo
degradato) (ANCI Lombardia,
nota 14.06.2017 n. 4165 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
NOTA DI LETTURA DELLE NORME URBANISTICHE CONTENUTE NELLA
L.R. 15/2017 - (art. 26 - modifiche alla L.R. 12/2005)
(ANCI Lombardia,
nota 14.06.2017 n. 4165 di prot.). |
APPALTI - INCARICHI PROGETTUALI:
Oggetto: Informativa sul "Decreto Correttivo" (D.Lgs.
19.04.2017, n. 56) contenete disposizioni integrative e
correttive al D.Lgs. 18.04.2016, n. 50 (Consiglio
Nazionale degli Ingegneri,
circolare 29.05.2017 n. 71). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Oggetto: Accatastamento dei fabbricati rurali
(Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati,
nota 04.11.2016 n. 15086). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 29.07.2017, "Modulistica
edilizia unificata e standardizzata: adeguamento alle
normative specifiche e di settore di Regione Lombardia dei
contenuti informativi dei moduli nazionali per la
presentazione delle segnalazioni, comunicazioni e istanze in
materia di attività edilizia" (deliberazione
G.R. 17.07.2017 n. 6894). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 25.07.2017, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei
provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in
acustica ambientale alla data del 30.06.2017, in attuazione
dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447
e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935"
(comunicato
regionale 20.07.2017 n. 119). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 24.07.2017, "Modulistica
edilizia unificata e profili applicativi della disciplina
edilizia" (circolare
regionale 20.07.2017 n. 10). |
ENTI LOCALI - VARI: G.U.
21.07.2017 n. 169 "Disposizioni in ordine alla sicurezza
ed alla tutela dell’incolumità pubblica in occasione
dell’accensione di fuochi artificiali autorizzata ai sensi
dell’art. 57 del T.U.L.P.S. - Fuochi acquatici - Emissioni
sonore" [Ministero dell'Interno,
circolare 13.07.2017 n. 557/PAS/U/010693/XV.A.MASS(1)]. |
AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 29 del 21.07.2017, "Gestione
faunistico - Venatoria del cinghiale e recupero degli
ungulati feriti" (L.R.
17.07.2017 n. 19). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 20.07.2017 "Quinto
aggiornamento 2017 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (deliberazione
G.R. 17.07.2017 n. 8674). |
ATTI AMMINISTRATIVI: G.U.
19.07.2017 n. 167 "Modalità di versamento del contributo
unificato per i ricorsi promossi dinanzi al giudice
amministrativo, per i ricorsi straordinari al Presidente
della Repubblica e per i ricorsi straordinari al Presidente
della Regione siciliana" (Ministero dell'Economia e
delle Finanze,
decreto 27.06.2017). |
ENTI LOCALI - VARI: G.U.
19.07.2017 n. 167 "Revisione della disciplina in materia
di impresa sociale, a norma dell’articolo 2, comma 2,
lettera c) della legge 06.06.2016, n. 106" (D.Lgs.
03.07.2017 n. 112). |
ENTI LOCALI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 17.07.2017, "Approvazione
dello schema d’intesa ANCI - Regione Lombardia «Intesa per
la distribuzione regionale della quota assegnata a Regione
Lombardia del fondo nazionale per l’associazionismo
comunale»" (deliberazione
G.R. 12.07.2017 n. 6849). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 17.07.2017, "Pubblicazione
dell’ elenco, istituito con d.d.u.o. 21.04.2017, n. 4578,
dei membri di indicazione regionale per le commissioni
d’esame dei corsi in acustica di cui al d.lgs. 17.02.2017,
n. 42, allegato 2, parte b, punto 2" (comunicato
regionale 05.07.2017 n. 112). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
17.07.2017 n. 165 "Indirizzi per l’attuazione dei commi 1
e 2, dell’articolo 14, della legge 07.08.2015, n. 124 e
linee guida contenenti regole inerenti all’organizzazione
del lavoro finalizzate a promuovere la conciliazione dei
tempi di vita e di lavoro dei dipendenti (Direttiva n.
3/2017)" (Presidente del Consiglio dei Ministri,
direttiva 01.06.2017 n. 3/2017). |
PATRIMONIO: G.U.
17.07.2017 n. 165 "Aggiornamento delle «Linee guida per
l’applicazione della legge n. 717 del 29.07.1949, recante
norme per l’arte negli edifici pubblici»" (Ministero
delle Infrastrutture e dei Trasporti,
decreto 15.05.2017).
---------------
G.U. 25.07.2017 n. 172 "Comunicato
relativo al decreto 15.05.2017, recante:
«Aggiornamento delle “Linee guida per l’applicazione della
legge n. 717 del 29.07.1949, recante norme per l’arte negli
edifici pubblici”»". |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ATTI AMMINISTRATIVI: C.
Zucchelli,
Il “provvedere” ai tempi della globalizzazione. Riflessi sul
rapporto autorità/libertà (Relazione tenuta al Convegno: “Il
provvedimento amministrativo tra forma e sostanza”)
(29.07.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: V.
Neri,
Danno ambientale: tutela civilistica versus tutela
amministrativa. La green economy e l’impatto sul
codice degli appalti
(28.07.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Dirigenti a contratto, staff e portavoce: meglio dire che si
tratta di finanziamento pubblico ai partiti (29.07.2017
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assunzioni nella PA bloccate ma non per tutte (29.07.2017
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Appalti semplificati sotto soglia: Oepv non obbligatoria
(28.07.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Nuove progressioni verticali: un intricato rebus procedurale
(22.07.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Appalti ed atti amministrativi: occorre ripristinare i
controlli preventivi (16.07.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Personale: le nuove maglie strette del piano triennale dei
fabbisogni (09.07.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Commissioni di gara: l’iperburocrazia di codice ed Anac
blocca l’efficienza (08.07.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La "rivolta" immaginaria dei "burocrati" contro la
pubblicazione delle retribuzioni (07.07.2017
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Produttività? Nella PA è solo un’illusione (02.07.2017
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Stop alle collaborazioni coordinate e continuative nella PA
(25.06.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Incarichi a contratto sempre più mostruosità giuridica
(17.06.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nuovi "voucher" nella PA - prestazioni occasionali da
motivare (16.06.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Lavoro pubblico, riforma Madia: materie di competenza della
contrattazione collettiva (15.06.2017 -
link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
SEGRETARI COMUNALI:
Segretario comunale: la distorta visione dei media su suoi
ruolo e funzioni (10.06.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
I Servizi di Ingegneria e Architettura alla luce del
Correttivo del Codice dei Contratti e degli atti attuativi
emanati dall’ANAC - D.Lgs. 50/2016 - D.Lgs. 56/2017 - Linee
Guida ANAC (Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
giugno 2017). |
ENTI LOCALI:
La nuova disciplina delle società partecipate dalle
Pubbliche Amministrazioni - IL D.LGS 19.08.2016,
N. 175 ALLA LUCE DELLE DISPOSIZIONI INTEGRATIVE E CORRETTIVE
APPORTATE DAL D.LGS. 16.06.2017, N. 100, PUBBLICATO IN G.U.
IL 26.06.2017 (ANCI, giugno 2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il D.P.R. 13.02.2017, n. 31 - La semplificazione dei
procedimenti di tutela paesaggistica - IL RACCORDO CON I
PROVVEDIMENTI EDILIZI (ANCI, aprile 2017). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: Osservatorio
Viminale/ Sui gruppi parla il regolamento.
Il regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale può disciplinare la
costituzione del gruppo misto nel senso di
prevedere che lo stesso sia composto da
almeno due consiglieri, impedendo, pertanto,
la formazione del gruppo misto monopersonale?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è
espressamente prevista dalla legge e la
relativa materia è regolata dalle norme
statutarie e regolamentari dei singoli enti
locali.
Nel caso di specie, il regolamento del
consiglio comunale vieta espressamente la
possibilità di costituire il gruppo misto
uni personale; pertanto, nonostante il
Ministero dell'interno abbia già in
precedenza espresso il proprio orientamento
-evidenziando che, «in assenza di
disposizioni che escludano espressamente la
possibilità di istituire il gruppo misto
anche con la partecipazione di un unico
componente, si potrebbe accedere ad
un'interpretazione delle fonti di autonomia
locale orientata alla valorizzazione dei
diritti dei singoli di poter aderire a un
gruppo consiliare»- va da sé che tale
avviso non possa essere adattato al diverso
contesto normativo in vigore nel comune in
esame.
A tal proposito il Consiglio di stato, con
sentenza n. 3357 del 2010, ha affermato che,
una volta adottato il regolamento recante le
norme sul funzionamento del consiglio
comunale, queste ultime non possono essere
disapplicate se non previo ritiro.
Conseguentemente, poiché la materia dei «gruppi
consiliari» è interamente demandata alla
competenza delle fonti di autonomia locale,
è in tale ambito che potrà essere valutata
l'opportunità di adottare apposite modifiche
alla normativa in questione
(articolo ItaliaOggi del
07.07.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Consiglieri, accessi online.
Possono visionare il protocollo informatico.
Non è ammissibile opporre il segreto né
chiedere di specificare l'oggetto.
Un consigliere comunale può chiedere
l'accesso al sistema informatico interno,
anche contabile, dell'ente?
Secondo il consolidato orientamento del
ministero dell'interno, «non paiono
sussistere elementi ostativi
all'accoglimento della richiesta»,
sebbene la materia dovrebbe trovare apposita
disciplina nel regolamento dell'ente. Al
riguardo il Tar Sardegna, con sentenza n.
29/2007, ha affermato che è consentito
prendere visione del protocollo generale
senza alcuna esclusione di oggetti e notizie
riservate e di materie coperte da segreto,
posto che i consiglieri comunali sono tenuti
al segreto ai sensi dell'art. 43 del decreto
legislativo n. 267/2000.
Il Tar Lombardia, Brescia, con sentenza
01.03.2004, n. 163, ha ritenuto non
ammissibile imporre ai consiglieri l'onere
di specificare in anticipo l'oggetto degli
atti che intendono visionare poiché trattasi
di informazioni di cui gli stessi possono
disporre solo in conseguenza dell'accesso.
La previa visione dei vari protocolli (dei
quali il protocollo informatico rappresenta
una innovazione tecnologica prevista, tra
l'altro, dall'art. 17 del decreto
legislativo n. 82/2005 e successive
modificazioni - codice dell'amministrazione
digitale) è, pertanto, necessaria per poter
individuare gli estremi degli atti sui quali
si andrà ad esercitare l'accesso vero e
proprio.
In merito, anche la Commissione per
l'accesso ai documenti amministrativi, con
parere del 22.02.2011, ha osservato che, ai
sensi della vigente normativa (dpr
20.10.1998, n. 428, dpcm 31.10.2000, dpr
28.12.2000 n. 445, dpcm 14.10.2003) ogni
comune deve provvedere a realizzare il
protocollo informatico, a cui possono
liberamente accedere i consiglieri comunali,
i quali, pertanto, possono prendere visione
in via informatica di tutte le
determinazioni e le delibere adottate
dall'ente; ciò in ottemperanza al principio
generale di economicità dell'azione
amministrativa, che riduce allo stretto
necessario la redazione in forma cartacea
dei documenti amministrativi.
I successivi pareri espressi dalla
commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi rafforzano l'orientamento
favorevole già manifestato. In particolare
la Commissione, con il parere del
03.02.2009, ha precisato che «il ricorso
a supporti magnetici o l'accesso al sistema
informatico interno dell'ente, ove operante,
sono strumenti di accesso certamente
consentiti al consigliere comunale che
favorirebbero la tempestiva acquisizione
delle informazioni richieste senza aggravare
l'ordinaria attività amministrativa».
Con il parere del 16.03.2010, ha ribadito
l'accessibilità del consigliere comunale al
sistema informatico dell'ente tramite
utilizzo di apposita password, ove operante,
ferma restando la responsabilità della
segretezza della password di cui il
consigliere è stato messo a conoscenza a
tali fini (art. 43, comma 2, Tuel); infine,
con il parere del 25.05.2010, ha rimarcato
il diritto del consigliere di accedere anche
al protocollo informatico
(articolo ItaliaOggi del
30.06.2017). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Statuto, il
sindaco vota. Va ricompreso nel quorum per le modifiche.
Il primo cittadino è componente del consiglio a tutti gli
effetti.
Può considerarsi legittima la deliberazione consiliare con la quale è stata
approvata una modifica allo statuto dell'ente, considerando anche il voto
del sindaco nel computo del quorum funzionale previsto dall'art. 6, comma 4,
del decreto legislativo n. 267/2000?
Sulla questione l'orientamento del giudice amministrativo non è univoco
(cfr. Tar Puglia sent. 1301/2004, Tar Lazio, sez. II ter, sentenza n.
497/2011 e Tar Lombardia sentenza n. 1604/2011).
Il legislatore, con l'art. 6, comma 4 del Tuel, nel disporre che «gli
statuti sono deliberati dai rispettivi consigli con il voto favorevole dei
due terzi dei consiglieri assegnati, le disposizioni di cui al presente
comma si applicano anche alle modifiche statutarie», prevede un
«procedimento aggravato» per l'approvazione delle norme statutarie, nonché
delle relative modifiche; ciò, sia disponendo che, in caso di mancata
approvazione dei due terzi dell'assemblea, si debba ripetere la votazione
entro 30 giorni, sia prescrivendo che lo statuto sia approvato se ottiene
per due volte, in sedute successive, il voto favorevole della maggioranza
assoluta dei membri assegnati al collegio.
L'approvazione dello statuto, pertanto, attesa la natura di atto normativo
«fondamentale» sua propria (comma 2, art. 6 cit.), comporta che su di esso
converga il più elevato numero di consensi attraverso un'ampia discussione e
comparazione d'interessi da parte della maggioranza e dell'opposizione
consiliare.
Tale esigenza ha determinato, conseguentemente, la previsione di maggioranze
speciali disponendo che i quorum, rispettivamente della prima e delle altre
votazioni, siano ragguagliati ai due terzi o alla maggioranza assoluta non
dei votanti, ma dei consiglieri assegnati.
Pertanto, l'iter deliberativo di approvazione dello statuto e delle sue
modifiche comporta che in sede di prima votazione la delibera sia approvata
con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati ivi compreso
il sindaco, che è componente del consiglio comunale ai sensi dell'art. 37
del citato Testo unico.
Infatti, nelle ipotesi in cui l'ordinamento non ha inteso computare il
sindaco, o il presidente della provincia, nel quorum richiesto per la
validità di una seduta, lo ha indicato espressamente usando la formula «senza
computare a tal fine il sindaco ed il presidente della provincia» (articolo ItaliaOggi del
23.06.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Commissioni, esterni out. Esclusa
la presenza di chi non è consigliere. Gli
organi devono rispecchiare la composizione
del consiglio.
Ai sensi dell'art. 38, comma 6, del decreto
legislativo n. 267/2000, in materia di
composizione delle commissioni comunali, è
legittimo il regolamento del consiglio
comunale di un ente locale che prevede la
presenza, nelle commissioni consiliari
permanenti, di membri esterni al consiglio
nominati dalla giunta comunale?
Secondo il citato art. 38, comma 6, lo
statuto può prevedere la costituzione di
commissioni consiliari, istituite dal
consiglio «nel proprio seno». Quando
sono istituite, le suddette commissioni sono
disciplinate dal regolamento comunale con
l'unico limite, posto dal legislatore,
riguardante il rispetto del criterio
proporzionale. Ciò significa che le forze
politiche presenti in consiglio debbono
essere il più possibile rispecchiate anche
nelle commissioni, in modo che in ciascuna
di esse sia riprodotto il loro peso numerico
e di voto.
Nel caso di specie, lo statuto del Comune ha
stabilito che il consiglio costituisce, nel
proprio seno, le commissioni consiliari
permanenti; il regolamento sul funzionamento
del consiglio comunale prevede, invece, che
la composizione delle stesse commissioni
consiliari possa essere integrata dalla
presenza di membri non consiglieri nominati
dalla giunta.
Tale previsione sarebbe espressione
dell'intento della amministrazione di dare
attuazione ai principi della partecipazione
popolare di cui all'art. 8 del Tuel.
In merito, la formulazione della norma
regolamentare non appare coerente con la
disciplina dettata dal legislatore, e
ribadita dallo statuto dell'ente, circa la
indefettibilità dello status di consigliere
comunale in capo ai componenti delle
commissioni consiliari ex art. 38, comma 6,
del decreto legislativo n. 267/2000. Ai
sensi della norma statale citata, infatti, «il
consiglio si avvale di commissioni
costituite nel proprio seno con criterio
proporzionale» ed è, quindi, preclusiva
della possibilità che soggetti estranei al
consiglio possano farne parte a titolo di
veri e propri componenti.
Tale impostazione risulta confermata anche
dalla dottrina, che sostiene che la
composizione delle commissioni deve
rispecchiare con criterio proporzionale le
forze politiche presenti in consiglio, «con
esclusione di componenti non facenti parte
del consiglio stesso». L'ente, pertanto,
dovrà valutare l'opportunità di pervenire ad
una modifica della normativa regolamentare
(articolo ItaliaOggi del
16.06.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Quorum, vince lo statuto. In caso
di contrasto con il regolamento. Cosa
succede quando c'è discrasia sul numero
minimo di consiglieri.
Qual è il quorum strutturale per la validità
delle sedute del consiglio comunale
convocate in seconda convocazione?
Nella fattispecie in esame, il regolamento
di organizzazione e funzionamento del
consiglio comunale prevede, per la validità
delle sedute del consiglio comunale
convocate in seconda convocazione, la
presenza di almeno 14 consiglieri. Lo
statuto comunale, invece, dispone che le
medesime sedute siano valide con la presenza
di almeno un terzo dei consiglieri
assegnati, escluso il sindaco.
La discrasia tra le norme richiamate deve
ricondursi alla modifica, introdotta dalla
legge n. 148/2011, che ha inciso sulla
composizione dei consigli operando una
riduzione del numero dei consiglieri
rientranti nella fascia demografica
dell'ente locale di cui trattasi.
In merito all'individuazione della
disposizione normativa che deve essere
applicata, al fine di computare il numero di
consiglieri necessario per la validità delle
sedute del consiglio riunito in seconda
convocazione, l'art. 38, comma 2, del
decreto legislativo n. 267/00, demanda al
regolamento comunale, «nel quadro dei
principi stabiliti dallo statuto» la
determinazione del «numero dei consiglieri
necessario per la validità delle sedute»,
con il limite che detto numero non può, in
ogni caso, scendere sotto la soglia del
«terzo dei consiglieri assegnati per legge
all'ente, senza computare a tale fine il
sindaco e il presidente della provincia».
Quest'ultimo assunto deve essere inteso nel
senso che, limitatamente al computo del
«terzo» dei consiglieri, il sindaco deve
essere escluso.
Nel caso di specie, la disposizione
regolamentare deve essere disapplicata,
prevalendo la norma statutaria in ossequio
al principio della gerarchia delle fonti e
conformemente anche all'articolo 7 del
citato decreto legislativo n. 267/2000 che
disciplina l'adozione dei regolamenti
comunali «nel rispetto dei principi fissati
dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza
Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011).
Deve, tuttavia, considerarsi opportuno un
intervento correttivo volto ad armonizzare
le previsioni recate dalle citate fonti di
autonomia locale
(articolo ItaliaOggi del
09.06.2017). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: L’ipotesi
in cui, nel corso dell’esercizio in essere,
l’amministrazione non abbia né costituito il fondo né
provveduto a sottoscrivere il contratto decentrato trova
espressa disciplina nel punto 5.2 del principio contabile,
alla stregua del quale: “in caso di mancata costituzione del
Fondo nell’anno di riferimento, le economie di bilancio
confluiscono nel risultato di amministrazione, vincolato per
la sola quota del fondo obbligatoriamente prevista dalla
contrattazione collettiva nazionale”, con la conseguenza che
tutte le risorse di natura variabile ivi incluse quelle da
“riportare a nuovo” vanno a costituire vere e proprie
economie di spesa.
Peraltro, la quota variabile del “Fondo per le politiche di
sviluppo delle risorse umane e della produttività” comprende
voci che, avendo carattere occasionale o essendo soggette a
variazioni anno per anno, non possono consolidarsi nei
fondi, ma devono e possono trovare applicazione solo
nell’anno in cui sono state discrezionalmente previste e
alle rigide condizioni, da riscontrarsi anno per anno,
indicate nei CCNL di riferimento: “quello che emerge dalla
lettura della norma è l’esigenza di un momento ricognitivo
sulla consistenza del ‘Fondo’, nelle sue componenti stabile
e variabile, che intervenga entro l’esercizio di
riferimento. Momento ricognitivo la cui mancanza si pone
come elemento in grado di impedire che le risorse non
riferibili alla ‘…quota del fondo obbligatoriamente prevista
dalla contrattazione collettiva nazionale…’ possano
confluire nell’avanzo vincolato”.
Del resto, già in precedenza sono state manifestate riserve
sulla liceità di contratti collettivi integrativi che non
solo siano conclusi dopo la scadenza del periodo di
riferimento ma che individuino criteri predeterminati e
processi di verifica, di fatto impossibili, proprio a causa
della mancanza dei criteri preliminari).
Pertanto, non appaiono meritevoli di accoglimento le
argomentazioni avanzate dall’ente al fine di prospettare la
possibilità di procedere al riparto delle risorse di natura
variabile dei fondi 2013-2015 dopo la fine dell’esercizio
d’attinenza, anche in assenza della costituzione del fondo e
della stipula del CCDI negli anni di riferimento (cfr., con
particolare riferimento alla natura vincolata delle risorse
che alimentano anche la parte variabile del Fondo,
ARAN-Orientamenti applicativi delle Regioni-Autonome locali
n. 482 del 02.11.2012).
Del resto, non possono costituire un valido fondamento
normativo le affermazioni, anch’esse richiamate dall’ente,
contenute nella circolare n. 19 del 27.04.2017 del Ministero
dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento della
Ragioneria Generale dello Stato, stante l’efficacia
meramente interna e la pacifica assenza di valore normativo
dell’atto, essendo lo stesso privo del potere di innovare
l’ordinamento giuridico.
---------------
Il Sindaco del Comune di Campobasso, con nota prot.
n. 22427 del 29.05.2017, assunta al protocollo di questa
Sezione n. 1385 del 06.06.2017, sulla scorta di quanto
indicato da questa Sezione con la Deliberazione n.
218/2015/PAR (“in caso di mancata costituzione del fondo
nell’anno di riferimento le economie di bilancio
confluiscono nel risultato di amministrazione, vincolato per
la sola quota del fondo obbligatoriamente prevista dalla
contrattazione collettiva nazionale”) ha chiesto di
esprimere motivato parere in merito al concetto di quota del
fondo obbligatoriamente prevista dalla contrattazione
collettiva nazionale.
Più precisamente l’ente chiede se la quota del fondo
obbligatoriamente prevista coincida con le risorse stabili
del fondo ovvero se includa anche quelle risorse variabili
specificatamente disciplinate dalla contrattazione
collettiva nazionale (ad es. la quota del 1,2% del monte
salari della dirigenza 1997 prevista dall’art. 26, comma 2,
del CCNL del 23.12.1999 – l’incentivo per il dirigente
avvocato in relazione alle sentenze favorevoli all’ente
previsto dal CCNL del 23.12.1999 – l’incentivo per la
progettazione di opere pubbliche previsto dall’art. 92, co.
5 e 6, del D.lgs. n. 163/2006).
...
In via preliminare, per una migliore analisi della questione
sottoposta all’esame di questa Sezione, si richiama in
sintesi quanto esposto dal Comune istante.
In particolare, si ricorda che con delibera di Giunta n. 2
dell’11.01.2013 è stata approvata la piattaforma per il
rinnovo del Contratto collettivo decentrato integrativo (CCDI)
normativo del personale dirigente per il triennio 2013-2015
ed è stata avviata la trattativa con le organizzazioni
sindacali, raggiungendo l’accordo solo in data 20/10/2016.
Pertanto, si è in seguito provveduto alla stipula della
preintesa, certificata dal Collegio dei Revisori dell’ente
in data 03.11.2016, ed in data 20.12.2016 è intervenuta la
stipula definitiva del CCDI normativo 2013-2015 del
personale dirigente.
Si rende inoltre noto che l’ente, nelle more della stipula
del CCDI ed in assenza dello stesso, non ha provveduto,
entro la fine dei rispettivi anni, alla formale costituzione
dei fondi, né ha provveduto alla contrattazione per il
riparto dei fondi per la retribuzione di posizione e di
risultato. Ciò nonostante, le risorse sono state previste
nei documenti di programmazione finanziaria riferiti agli
esercizi 2013-2014-2015.
Successivamente alla stipula del CCDI normativo, con
delibera di Giunta n. 290 del 21.12.2016, l’ente ha infine
emanato le direttive per la costituzione e il riparto dei
fondi per la retribuzione di posizione e di risultato del
personale dirigente. In data 27.12.2016 sono state peraltro
sottoscritte le ipotesi di CCDI per il riparto dei fondi
2013-2014-2015, successivamente sottoposte al Collegio dei
revisori dei conti per la certificazione di competenza.
In tale occasione il Collegio dei revisori ha in primo luogo
certificato la compatibilità dei costi della contrattazione
collettiva decentrata di cui alle ipotesi del CCDI con i
vincoli di bilancio e con quelli risultanti
dall’applicazione di norme di legge limitatamente alla parte
stabile ovvero alla sola quota del fondo obbligatoriamente
prevista dalla Contrattazione Collettiva Nazionale.
D’altro canto, relativamente alle risorse di natura
variabile dei fondi dal 2013 al 2015, il Collegio ha
ritenuto che, in assenza della costituzione del fondo e
della approvazione della contrattazione decentrata negli
anni di riferimento, queste debbano costituire economie di
spesa e, pertanto, non possano essere oggetto di riparto.
Tanto esposto il Comune, tenendo in considerazione quanto
indicato da questa Sezione con la deliberazione n.
218/2015/PAR, secondo cui “in caso di mancata
costituzione del fondo nell’anno di riferimento le economie
di bilancio confluiscono nel risultato di amministrazione,
vincolato per la sola quota del fondo obbligatoriamente
prevista dalla contrattazione collettiva nazionale”, ha
chiesto di esprimere motivato parere in merito al concetto
di quota del fondo obbligatoriamente prevista dalla
contrattazione collettiva nazionale.
Più precisamente, l’ente chiede se la quota del fondo
obbligatoriamente prevista coincida con le risorse stabili
del fondo ovvero se includa anche quelle risorse variabili
specificatamente disciplinate dalla contrattazione
collettiva nazionale. A tale ultimo riguardo, si citano, a
titolo esemplificativo, la quota del 1,2% del monte salari
della dirigenza 1997 prevista dall’art. 26, comma 2, del
CCNL del 23.12.1999, l’incentivo per il dirigente avvocato
in relazione alle sentenze favorevoli all’ente previsto dal
CCNL del 23.12.1999 e l’incentivo per la progettazione di
opere pubbliche previsto dall’art. 92, co. 5 e 6, del D.lgs.
n. 163/2006.
Al fine di fornire risposta al suddetto quesito, la Sezione,
richiamando quanto già dalla stessa espresso nella citata
deliberazione n. 218/2015/PAR, intende fornire ulteriori
specificazioni, aderendo al riguardo alle indicazioni
contenute nella deliberazione della Sezione di Controllo del
Veneto n. 263/2016/PAR.
Invero, la Sezione di Controllo del Veneto, analizzando una
fattispecie sovrapponibile a quella esposta dal Comune di
Campobasso e partendo dall’orientamento espresso dalla
Sezione di Controllo per il Molise nella deliberazione n.
218/2015/PAR, stabilisce che l’ipotesi in
cui nel corso dell’esercizio in essere l’amministrazione non
abbia né costituito il fondo né provveduto a sottoscrivere
il contratto decentrato trova espressa disciplina nel punto
5.2 del principio contabile, alla stregua del quale: “in
caso di mancata costituzione del Fondo nell’anno di
riferimento, le economie di bilancio confluiscono nel
risultato di amministrazione, vincolato per la sola quota
del fondo obbligatoriamente prevista dalla contrattazione
collettiva nazionale”
(cfr. sul punto anche la Sezione regionale di Controllo per
il Molise deliberazione n. 218/2015/PAR).
La Sezione conclude pertanto ritenendo che “l’effetto,
dunque, della mancata costituzione del Fondo è quella di far
confluire nel risultato di amministrazione, vincolato, la
sola quota del fondo obbligatoriamente prevista dalla
contrattazione collettiva nazionale, ovvero la parte
stabile: con la conseguenza che tutte le risorse di natura
variabile ivi incluse quelle da “riportare a nuovo” vanno a
costituire vere e proprie economie di spesa”.
Peraltro, la Sezione regionale di controllo del Veneto nella
medesima deliberazione, ai fini della determinazione delle
modalità per la costituzione del “Fondo per le politiche
di sviluppo delle risorse umane e della produttività”
(successivamente denominato “Fondo”) e, in
particolare, con l’obiettivo di definire l’ambito della
determinazione della quota variabile di detto “Fondo”,
precisa altresì che: “tale quota
comprende, infatti, voci che, avendo carattere occasionale o
essendo soggette a variazioni anno per anno, non possono
consolidarsi nei fondi, ma devono e possono trovare
applicazione solo nell’anno in cui sono state
discrezionalmente previste e alle rigide condizioni, da
riscontrarsi anno per anno, indicate nei CCNL di riferimento”.
Meritevole di segnalazione è inoltre quanto statuito dalla
Sezione regionale di controllo per il Veneto in ordine ad
ulteriori aspetti normativi che avevano già creato rilevanti
dubbi interpretativi.
In particolare, si afferma che: “come
emerge chiaramente dal dettato normativo e come anche
rilevato in precedenza, è la formale deliberazione di
costituzione del “Fondo” che assume rilievo quale atto
costitutivo finalizzato ad attribuire il vincolo contabile
alle risorse atteso che la disposizione prevede come:
“…nelle more della sottoscrizione della contrattazione
integrativa, sulla base della formale delibera di
costituzione del fondo, vista la certificazione dei
revisori, le risorse destinate al finanziamento del fondo
risultano definitivamente vincolate”.
La Sezione chiarisce inoltre che “quello
che emerge dalla lettura della norma è l’esigenza di un
momento ricognitivo sulla consistenza del ‘Fondo’,
nelle sue componenti stabile e variabile, che intervenga
entro l’esercizio di riferimento. Momento ricognitivo la cui
mancanza si pone come elemento in grado di impedire che le
risorse non riferibili alla ‘…quota del fondo
obbligatoriamente prevista dalla contrattazione collettiva
nazionale…’ possano confluire nell’avanzo vincolato”.
Infine, la Sezione “fugando i dubbi
interpretativi che emergono dalla richiamata formulazione
del testo normativo (delibera di costituzione), ritiene che
la costituzione del “Fondo” sia atto da ricondurre alla
competenza della dirigenza atteso che lo stesso deve essere
non solo ricognitivo della presenza di sufficienti risorse
in bilancio ma ben si colloca nell’ambito delle attribuzioni
della stessa dirigenza in ordine alla verifica: della
correttezza della quantificazione delle risorse iscritte in
bilancio destinate alla contrattazione decentrata e del
rispetto dei vincoli di finanza pubblica che ne influenzano
la modalità di determinazione”.
Del resto, la giurisprudenza contabile già
in precedenza aveva manifestato delle riserve sulla diffusa
prassi, invalsa prima dell’entrata in vigore del nuovo
sistema di contabilità armonizzata, della cosiddetta
contrattazione tardiva, così definita in quanto
interveniente nell’esercizio successivo a quello di
riferimento.
Al riguardo, basti citare la deliberazione n. 287/2011 della
Sezione regionale di controllo della Lombardia secondo cui:
“sussistono forti dubbi sulla liceità di
contratti collettivi integrativi che non solo siano conclusi
dopo la scadenza del periodo di riferimento ma che
individuino criteri predeterminati prima dell’inizio del
periodo di riferimento che di qualsivoglia processo di
verifica, di fatto impossibile, proprio a causa della
mancanza dei criteri preliminari”.
Da ultimo, tornando alla richiesta di parere avanzata dal
Comune di Campobasso, va peraltro evidenziato che
non appaiono meritevoli di accoglimento le
argomentazioni avanzate dall’ente al fine di prospettare la
possibilità di procedere al riparto delle risorse di natura
variabile dei fondi 2013-2015 dopo la fine dell’esercizio
d’attinenza, anche in assenza della costituzione del fondo e
della stipula del CCDI negli anni di riferimento.
Si ha riguardo, in primo luogo, all’affermazione secondo cui
gli incentivi per le sentenze favorevoli e per la
progettazione interna hanno specifiche fonti di
finanziamento che alimentano il fondo per la contrattazione
decentrata e le relative risorse non possono essere
distratte dalle finalità incentivanti cui sono destinate.
Al riguardo, con particolare riferimento alla natura
vincolata delle risorse che alimentano anche la parte
variabile del Fondo, appare utile richiamare l’elaborazione
effettuata dall’ARAN, che la Sezione intende in questa sede
condividere.
In particolare, secondo l’ARAN: “le fonti di
alimentazione di tale tipologia di risorse sono
espressamente indicate nell’art. 31, co. 3, del CCNL del
22.01.2004, che le finalizzano a specifici obiettivi a tal
fine individuati (v. ad esempio, art. 15, co. 1 e 2, del CCNL
dell’01.04.1999; risorse destinate alla progettazione;
ecc.).
Sulla base delle fonti legittimanti, ogni determinazione in
materia, comunque, è demandata alle autonome valutazioni dei
singoli enti, sia all’an che sul quantum. Conseguentemente,
in virtù della specifica finalizzazione annuale e della loro
natura variabile (sia il loro stanziamento che l’entità
delle stesse possono variare da un anno all’altro), le
risorse di cui si tratta non possono né essere utilizzate
per altri scopi, diversi da quelli prefissati, né, a maggior
ragione, essere trasportate sull’esercizio successivo in
caso di non utilizzo nell’anno di riferimento. Diversamente
ritenendo, esse finirebbero sostanzialmente per
“stabilizzarsi” nel tempo, in contrasto con la ratio della
previsione del CCNL e con la specifica finalizzazione delle
risorse stesse, che è alla base del loro stanziamento
annuale.
Pertanto, si ritiene che le risorse di cui si tratta, ove
non utilizzate per le specifiche finalità cui sono destinate
nell’anno nel quale sono stanziate (per il mancato o solo
parziale raggiungimento degli obiettivi stabiliti ed in
relazione ai quali si è proceduto all’incremento delle
risorse variabili), nello stesso anno diventano economie di
bilancio e tornano nella disponibilità dell’ente. In questo
caso, quindi, in considerazione della particolare natura
delle risorse variabili e della loro specifica
finalizzazione nell’anno di riferimento, non può trovare
applicazione la previsione dell’art. 17, co. 5, del CCNL
dell’01.04.1999” (ARAN-Orientamenti applicativi delle
Regioni-Autonome locali n. 482 del 02.11.2012).
Del resto, non possono costituire un valido fondamento
normativo le affermazioni, anch’esse richiamate dall’ente,
contenute nella circolare n. 19 del 27.04.2017 del Ministero
dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento della
Ragioneria Generale dello Stato, stante l’efficacia
meramente interna e la pacifica assenza di valore normativo
dell’atto, essendo lo stesso privo del potere di innovare
l’ordinamento giuridico (cfr. Corte di Cassazione, sentenza
09.10.2007, n. 23031 e sentenza 09.01.2009, n. 237) (Corte
dei Conti, Sez. controllo Molise,
parere 21.07.2017 n. 161). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA: Recupero
sottotetti, Scia o Pc. Lombardia.
Recupero abitativo dei sottotetti in
Lombardia: regime giuridico da individuare
di volta per volta sulla base degli elementi
progettuali. In quanto essendo considerata
«ristrutturazione edilizia», la disciplina
applicabile non è più quello della denuncia
di inizio attività. Potrà essere una Scia o
un permesso di costruire per la
ristrutturazione c.d. «leggera» e permesso
di costruire o Scia alternativa per la
ristrutturazione c.d. «pesante».
Questi i chiarimenti contenuti nella
circolare 20.07.2017 n. 10
della Regione Lombardia.
Le novità introdotte dai decreti legislativi
n. 126 e n. 222 del 2016 -ricorda la
circolare- hanno reso necessario
l'adeguamento della modulistica per i titoli
edilizi (si veda ItaliaOggi del 17.05.2017).
Tutti i nuovi moduli edilizi unificati e
standardizzati, approvati il 4 maggio e il 6
luglio scorsi in conferenza unificata, con
accordo tra il governo, le regioni e gli
enti locali, sono stati adeguati alle
normative regionali e approvati, in un unico
provvedimento, con la deliberazione della
Giunta regionale Lombarda del 17.07.2017, n.
6894.
Nelle more di un aggiornamento e
riallineamento della normativa regionale, i
tecnici lombardi forniscono alcune
considerazioni in merito ad aspetti della
disciplina edilizia di più frequente
ricorrenza: come noto, infatti, il dpr
06.06.2001, n. 380 (Testo unico
dell'edilizia) è stato interessato negli
ultimi tempi da ripetuti interventi di
modifica. I funzionari Lombardi inoltre
sottolineano che a fronte di una
giurisprudenza costituzionale consolidata in
questi anni, si è affermato espressamente
che «la definizione delle diverse
categorie di interventi edilizi spetta allo
Stato».
Pertanto la disciplina degli interventi
edilizi dettata all'articolo 27 della legge
regionale n. 12/2005 è da considerarsi
superata, dovendosi ormai fare riferimento
alle definizioni di cui all'articolo 3 del
dpr 380/2001, in quanto disposizioni
espressamente qualificate dalla corte
costituzionale come «principi
fondamentali della materia»
(articolo ItaliaOggi del
28.07.2017). |
ENTI LOCALI - VARI:
Autovelox: addio cartelli con l’avviso se non c’è alcun
controllo. Fuorilegge i cartelli che avvisano della presenza
di un autovelox che poi non c’è o se il box ai margini della
strada è vuoto.
Da oggi in poi, se troveremo un cartello con su scritto «controllo
elettronico della velocità» vorrà dire che, molto
probabilmente, l’autovelox c’è davvero. Non potranno più
esistere –e se ci sono andranno rimossi– gli avvisi posti in
quei luoghi ove la polizia non fa più le multe con i
dispositivi di controllo a distanza come tutor, autovelox e
telelaser.
A stabilirlo è il Ministero degli Interni che, due giorni
fa, ha diramato una importante direttiva (direttiva
21.07.2017 n. 300/A/5620/17/144/5/20/3 di prot.
- che probabilmente, da oggi in poi, sarà meglio nota come
circolare Minniti) e che aggiorna le regole stabilite dalla
altrettanto famosa direttiva Maroni del 2009 in tema di
prevenzione degli incidenti stradali e di contrasto alle
violazioni del codice della strada. Tra i tanti aspetti
trattati dal documento ministeriale vi è la messa la bando
dei segnali permanenti che evidenziano l’accertamento
elettronico della velocità se il tratto stradale non viene
utilizzato sistematicamente per l’attività di controllo.
Addio quindi a tutta quell’infinita serie di segnali di
avviso di controllo elettronico della velocità, disseminati
qua e là sulle nostre autostrade, figli di epoche in cui
l’utilizzo degli autovelox era selvaggio e massiccio.
Dopo i numerosi ricorsi da parte degli automobilisti, i
Comuni hanno compreso che non basta più mettere un cartello
con scritto «controllo elettronico della velocità»
per poter fotografare un automobilista e poi inviargli la
multa a casa. Ci sono distanze da rispettare, autorizzazioni
Prefettizie da chiedere e segnaletiche da apporre. In tutto
questo, anche se l’uso degli autovelox continua ad essere il
principale spauracchio per molti automobilisti, di certo la
tecnica del tranello si è dovuta raffinare rispettando le
numerose (e spesso confuse) regole.
Ora, dopo otto anni dalla famosa circolare Maroni che aveva
tentato di disciplinare l’utilizzo degli autovelox, la
circolare Minniti chiede quantomeno un po’ di ordine: che si
tolgano dai lati delle strade gli avvisi di controllo della
velocità che non fanno altro che rallentare il traffico sul
più bello anche laddove non ve n’è bisogno.
Diventano così fuori legge i segnali che avvertono della
presenza di un controllore elettronico senza alcuna
strumentazione nei paraggi.
Riportiamo il testo della circolare che qui interessa di
più: «Per le postazioni temporanee possono essere
utilizzati segnali collocati in modo permanente sulla strada
solo quando la posizione dei dispositivi di rilevamento sia
stata oggetto di preventiva pianificazione coordinata ed i
loro impiego in quel tratto di strada non sia occasionale,
ma, per la frequenza dei controlli, assuma il carattere di
sistematicità.
Per «pianificazione del servizio di attività di controllo
con misuratori di velocità» si intende quella possibilmente
definita in seno alla conferenza provinciale permanente.
L’attività pianificata, se programmata con carattere
sistematico, dovrà necessariamente assumere una natura non
occasionale (esempio almeno X giorni la settimana per X mesi
o con altra cadenza) assumendo a tal fine importanza
prioritaria non tanto la determinazione di un numero X di
controlli, ma la indicazione dell’intervallo temporale in
cui viene effettuata l’attività di controllo stesso.
Pertanto l’effettuazione di un numero X di periodi di
controlli ripetuti, in un arco temporale definito, fa
assumere all’attività di controllo il carattere di
sistematicità. Ovvio che più è frequente l’attività meglio
credibile risulta anche il segnalamento.
Salvo i caso sopracitati, infatti, l’utilizzazione di
segnaletica permanente per segnalare postazioni temporanee,
se pur non vietate dalle disposizioni vigenti, risulta non
coerente con la tipologia utilizzata e con l’esigenza di
credibilità che il messaggio segnaletico deve fornire.
Pertanto, salvo i casi sopraindicati, le postazioni
temporanee dovrebbero essere segnalate con segnali stradali
temporanei» (23.07.2017 - link a
www.laleggepertutti.it). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI: Nel
caso di accesso ad atti di origine extraprocessuale che non
risultano coperti da segreto o dal vincolo del sequestro,
non ricorrendo alcuna ipotesi di esclusione normativamente
prevista, deve essere riconosciuto il diritto
all’ostensione.
L'esistenza di un'indagine penale non
implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o
provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare
connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per
i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da
segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso.
Soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla
polizia giudiziaria sono coperti dall’obbligo di segreto nei
procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché
gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione
nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti
amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di
attività di vigilanza, controllo e di accertamento di
illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia
all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella
disponibilità dell'amministrazione fintanto che non
intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte
dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei
loro confronti, l'accesso garantito all'interessato
dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna
delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990.
In effetti l’art. 24 della legge n. 241 del 1990 al comma 6,
lettera d), nell’elencare i casi di possibile esclusione del
diritto di accesso fa riferimento ai documenti che
riguardano “l’attività di polizia giudiziaria e di
conduzione delle indagini”, ipotesi che sicuramente non
ricorre nella fattispecie trattandosi di attività
amministrativa, e non di attività di polizia giudiziaria,
per la quale allo stato non risultano essere stati adottati
specifici provvedimenti da parte della magistratura penale.
In termini analoghi si era già espresso in precedenza TAR
Campania-Napoli: "La circostanza dell'avvenuta trasmissione
degli atti, oggetto della domanda di accesso, al vaglio
della magistratura penale, peraltro senza un provvedimento
di sequestro, non giustifica il rifiuto o il differimento
dell'accesso, né comporta uno specifico obbligo di
segretezza che escluda o limiti la facoltà per i soggetti
interessati di prendere conoscenza degli atti, anche alla
luce della previsione dell'art. 258 c.p.p.".
Anche la Corte di Cassazione penale, nell’individuare gli
atti e i documenti coperti dal segreto ex art. 329 c.p.p.,
per i quali vige il divieto di pubblicazione di cui all’art.
114 c.p.p., ha puntualizzato che non rientrano nel divieto
in oggetto i documenti di origine extraprocessuale acquisiti
al procedimento e non compiuti dal P.M. o dalla polizia
giudiziaria (“Se per gli atti di indagine in senso stretto
formati dal P.M. o dalla p.g. (esami di persone informate,
interrogatori di indagati, confronti, ricognizioni, ecc.)
nessun problema -a questi fini- si pone, atteso che si
tratta di necessità, sempre e comunque, di atti ricadenti
nel primo comma dell'art. 329 c.p.p., diverso -e
differenziato- non può non essere il discorso per la
categoria dei documenti che pur siano entrati nel
contenitore processuale. Essi, invero, ai fini del segreto,
rientrano nella previsione di legge ove abbiano origine
nell'azione diretta o nell'iniziativa del P.M. o della p.g.,
e dunque quando il loro momento genetico, e la strutturale
ragion d'essere, sia in tali organi. Ma tale conclusione di
certo non può valere ove si tratti di documenti aventi
origine autonoma, privata o pubblica che essa sia, non
processuale, generati non da iniziativa degli organi delle
indagini, ma da diversa fonte soggettiva e secondo linee
giustificative a sé stanti. Non possono, dunque, rientrare
nella categoria del segreto, ai fini in esame, i documenti
che non siano stati compiuti dal P.M. o dalla p.g., come
recita l'art. 329 c.p.p., comma 1, ma siano entrati nel
procedimento per disposta acquisizione”).
Invero, se il segreto istruttorio fosse riferibile anche
agli atti amministrativi semplicemente connessi a denunce
effettuate all’A.G., sarebbe sufficiente per
l’amministrazione presentare una denuncia agli organi
giudiziari per sottrarre in modo del tutto arbitrario intere
categorie di documenti dal diritto di accesso agli atti; ma
un’interpretazione del genere sarebbe in completa distonia
con le norme di rango primario dettate in materia.
Va, quindi, pienamente condivisa la Giurisprudenza secondo
la quale <<deve trovare applicazione l’insegnamento della
più recente giurisprudenza, secondo cui non ogni denuncia di
reato presentata dalla P.A. all’Autorità giudiziaria
costituisce atto coperto da segreto istruttorio e –come
tale– è sottratta all’accesso. Infatti, qualora la denuncia
sia presentata dalla P.A. nell’esercizio delle sue
istituzionali funzioni amministrative, non si ricade
nell’ambito applicativo dell’art. 329 c.p.p.; se, invece, la
P.A. che trasmette all’Autorità giudiziaria una notizia di
reato non lo fa nell’esercizio di tali funzioni, ma
nell’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria ad essa
specificamente attribuite dall’ordinamento, si è in presenza
di atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria che,
come tali, sono sottoposti al segreto istruttorio ex art.
329 c.p.p. e, per conseguenza, sono sottratti all’accesso ai
sensi dell’art. 24 della l. n. 241/1990.
Ne discende che, ai fini della valutazione
dell’ammissibilità o meno dell’istanza ostensiva, debbono
distinguersi tre ipotesi:
a) quella in cui gli atti siano stati delegati dall’Autorità
giudiziaria, nel qual caso l’ostensione non sarà possibile;
b) quella in cui gli atti coincidano con le notitiae criminis poste
in essere dagli organi comunali nell’esercizio delle
funzioni di polizia giudiziaria ad essi attribuite
specificamente dall’ordinamento, nel qual caso, parimenti,
l’ostensione non è possibile;
c) quella in cui, infine, ci si trovi dinanzi ad atti di indagine e
di accertamento, se del caso tradottisi in denunce
all’Autorità giudiziaria, non compiuti dagli organi comunali
nell’esercizio di funzioni di P.G., bensì nell’esercizio
delle proprie istituzionali funzioni amministrative, nel
qual caso non sussistono, per la giurisprudenza in esame,
impedimenti ad ammettere l’accesso su tali atti>>.
----------------
Il ricorrente, titolare dell’“Oa.Ci.” che svolge
attività di rifugio sanitario per il ricovero di cani
randagi, ha impugnato il silenzio serbato dal comune in
intestazione sull’istanza, avanzata il 09.11.2016, di
accesso agli atti posti a base della esclusione dell’Oasi
Cisternazza dalla gara indetta nel 2016 dal Comune di
Catania per l’affidamento del servizio di “… cattura,
ricovero, adozione e mantenimento in vita di cani randagi
anche traumatizzati catturati nel territorio comunale per un
periodo di 32 giorni”.
Alla gara predetta ha partecipato soltanto la parte
ricorrente, che dal verbale del 23.08.2016 risulta essere
stata esclusa in quanto “dalla documentazione esistente
agli atti d’ufficio che riguardano l’affidamento degli
stessi servizi alla stessa Società Oa.Ci. di Ro.Da. & C. sas,
negli anni 2014/2015, si rilevano gravi inadempienze della
società nella gestione del servizio affidatogli…” .
L’esclusione della ricorrente dalla gara è stata poi
formalizzata con determina dirigenziale n. 13/694 del
01.09.2016.
Il ricorrente, con istanza del 09.11.2016, ha chiesto di
accedere a tutti gli atti richiamati nella predetta
determinazione dirigenziale, ed in particolare alla nota del
Direttore della Direzione Ecologia e Ambiente prot. N. 23202
del 22.01.2015 indirizzata alla Procura della Repubblica di
Catania e alla comunicazione fatta pervenire al Comune di
Catania dall'ENPA in esito ai sopralluoghi effettuati presso
la struttura del ricorrente.
Con il ricorso in esame, parte ricorrente chiede pertanto
l’accertamento del proprio diritto di accedere alla
documentazione richiesta, con la conseguente condanna
dell’amministrazione comunale a consentire l’accesso, e
l’ulteriore condanna del Comune al risarcimento dei danni
conseguenti alla mancata aggiudicazione dell’appalto.
Si è costituito per resistere al ricorso il Comune di
Catania, sostenendo che gli atti richiesti dal ricorrente
non sarebbero accessibili perché oggetto di una procedura di
indagine in corso, e opponendosi all’istanza risarcitoria.
La prospettazione del Comune resistente, quanto all’accesso
agli atti, non può essere condivisa.
La giurisprudenza di questa Sezione (cfr. TAR Catania, sez.
III, 02.02.2017, n. 229) ha chiarito che l'esistenza di
un'indagine penale non implica, di per sé, la non
ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in
qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti
oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato
disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono
risultare sottratti al diritto di accesso (cfr. altresì TAR
Puglia, Lecce, n. 2331/2014).
Soltanto gli atti di indagine compiuti dal P.M. e dalla
polizia giudiziaria sono coperti dall’obbligo di segreto nei
procedimenti penali ai sensi dell'art. 329 c.p.p., di talché
gli atti posti in essere da una pubblica amministrazione
nell'ambito della sua attività istituzionale sono atti
amministrativi, anche se riguardanti lo svolgimento di
attività di vigilanza, controllo e di accertamento di
illeciti e rimangono tali pur dopo l'inoltro di una denunzia
all'autorità giudiziaria; tali atti, dunque, restano nella
disponibilità dell'amministrazione fintanto che non
intervenga uno specifico provvedimento di sequestro da parte
dell'A.G., cosicché non può legittimamente impedirsi, nei
loro confronti, l'accesso garantito all'interessato
dall'art. 22, l. 07.08.1990 n. 241, non ricorrendo alcuna
delle ipotesi di cui all'art. 24, l. n. 241 del 1990.
In effetti l’art. 24 della legge n. 241 del 1990 al comma 6,
lettera d), nell’elencare i casi di possibile esclusione del
diritto di accesso fa riferimento ai documenti che
riguardano “l’attività di polizia giudiziaria e di
conduzione delle indagini”, ipotesi che sicuramente non
ricorre nella fattispecie trattandosi di attività
amministrativa, e non di attività di polizia giudiziaria,
per la quale allo stato non risultano essere stati adottati
specifici provvedimenti da parte della magistratura penale.
In termini analoghi si era già espresso in precedenza TAR
Campania Napoli, Sez. I, 23.02.1995, n. 38: "La
circostanza dell'avvenuta trasmissione degli atti, oggetto
della domanda di accesso, al vaglio della magistratura
penale, peraltro senza un provvedimento di sequestro, non
giustifica il rifiuto o il differimento dell'accesso, né
comporta uno specifico obbligo di segretezza che escluda o
limiti la facoltà per i soggetti interessati di prendere
conoscenza degli atti, anche alla luce della previsione
dell'art. 258 c.p.p." (conformi anche Cons. Stato, Sez.
IV, 28.10.1996, n. 1170, TAR Bari, sentenza n. 287/2011).
Anche la Corte di Cassazione, V Sezione Penale, sentenza
09.03.2011, n. 13494, nell’individuare gli atti e i
documenti coperti dal segreto ex art. 329 c.p.p., per i
quali vige il divieto di pubblicazione di cui all’art. 114
c.p.p., ha puntualizzato che non rientrano nel divieto in
oggetto i documenti di origine extraprocessuale acquisiti al
procedimento e non compiuti dal P.M. o dalla polizia
giudiziaria (“Se per gli atti di indagine in senso
stretto formati dal P.M. o dalla p.g. (esami di persone
informate, interrogatori di indagati, confronti,
ricognizioni, ecc.) nessun problema -a questi fini- si pone,
atteso che si tratta di necessità, sempre e comunque, di
atti ricadenti nel primo comma dell'art. 329 c.p.p., diverso
-e differenziato- non può non essere il discorso per la
categoria dei documenti che pur siano entrati nel
contenitore processuale. Essi, invero, ai fini del segreto,
rientrano nella previsione di legge ove abbiano origine
nell'azione diretta o nell'iniziativa del P.M. o della p.g.,
e dunque quando il loro momento genetico, e la strutturale
ragion d'essere, sia in tali organi. Ma tale conclusione di
certo non può valere ove si tratti di documenti aventi
origine autonoma, privata o pubblica che essa sia, non
processuale, generati non da iniziativa degli organi delle
indagini, ma da diversa fonte soggettiva e secondo linee
giustificative a sé stanti. Non possono, dunque, rientrare
nella categoria del segreto, ai fini in esame, i documenti
che non siano stati compiuti dal P.M. o dalla p.g., come
recita l'art. 329 c.p.p., comma 1, ma siano entrati nel
procedimento per disposta acquisizione”).
Invero, se il segreto istruttorio fosse riferibile anche
agli atti amministrativi semplicemente connessi a denunce
effettuate all’A.G., sarebbe sufficiente per
l’amministrazione presentare una denuncia agli organi
giudiziari per sottrarre in modo del tutto arbitrario intere
categorie di documenti dal diritto di accesso agli atti; ma
un’interpretazione del genere sarebbe in completa distonia
con le norme di rango primario dettate in materia.
Va, quindi, pienamente condivisa la Giurisprudenza secondo
la quale (cfr. TAR Lazio Latina, Sez. I, 16.01.2014, n. 17)
<<deve trovare applicazione l’insegnamento della più
recente giurisprudenza (cfr. C.d.S., Sez. VI, 29.01.2013, n.
547), secondo cui non ogni denuncia di reato presentata
dalla P.A. all’Autorità giudiziaria costituisce atto coperto
da segreto istruttorio e –come tale– è sottratta
all’accesso. Infatti, qualora la denuncia sia presentata
dalla P.A. nell’esercizio delle sue istituzionali funzioni
amministrative, non si ricade nell’ambito applicativo
dell’art. 329 c.p.p.; se, invece, la P.A. che trasmette
all’Autorità giudiziaria una notizia di reato non lo fa
nell’esercizio di tali funzioni, ma nell’esercizio di
funzioni di polizia giudiziaria ad essa specificamente
attribuite dall’ordinamento, si è in presenza di atti di
indagine compiuti dalla polizia giudiziaria che, come tali,
sono sottoposti al segreto istruttorio ex art. 329 c.p.p. e,
per conseguenza, sono sottratti all’accesso ai sensi
dell’art. 24 della l. n. 241/1990 (C.d.S., Sez. VI,
09.12.2008, n. 6117).
Ne discende che, ai fini della valutazione
dell’ammissibilità o meno dell’istanza ostensiva, debbono
distinguersi tre ipotesi:
a) quella in cui gli atti siano stati delegati dall’Autorità
giudiziaria, nel qual caso l’ostensione non sarà possibile;
b) quella in cui gli atti coincidano con le notitiae criminis poste
in essere dagli organi comunali nell’esercizio delle
funzioni di polizia giudiziaria ad essi attribuite
specificamente dall’ordinamento, nel qual caso, parimenti,
l’ostensione non è possibile;
c) quella in cui, infine, ci si trovi dinanzi ad atti di indagine e
di accertamento, se del caso tradottisi in denunce
all’Autorità giudiziaria, non compiuti dagli organi comunali
nell’esercizio di funzioni di P.G., bensì nell’esercizio
delle proprie istituzionali funzioni amministrative, nel
qual caso non sussistono, per la giurisprudenza in esame,
impedimenti ad ammettere l’accesso su tali atti>>.
Nel caso di specie l’accesso è stato richiesto in relazione
ad atti di origine extraprocessuale che non risultano
coperti da segreto o dal vincolo del sequestro, sicché in
definitiva, non ricorrendo alcuna ipotesi di esclusione
normativamente prevista, deve essere riconosciuto al
ricorrente il diritto all’ostensione, per effetto del quale
il Comune resistente dovrà consentire l’accesso.
Non può invece trovare accoglimento la domanda di
risarcimento del danno, in quanto non risulta che il
ricorrente abbia impugnato la propria esclusione ovvero la
mancata aggiudicazione della gara
(TAR Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 25.07.2017 n. 1943 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Legittimato passivo della pretesa risarcitoria da
occupazione illegittima nel caso di successione a titolo
particolare tra enti.
---------------
•
Espropriazione per pubblica utilità – Indennità di esproprio
– Creazione nuovo ente locale per effetto di distacco di una
parte del territorio di un altro preesistente – Transito
debito indennitario – Esclusione.
•
Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione
illegittima – Risarcimento danni - Conseguente rinuncia alla
proprietà del bene.
•
In tema di procedure ablative, nel caso di
creazione di un ulteriore ente locale mediante distacco di
una parte del territorio di un altro preesistente, non è
possibile far transitare nel patrimonio del nuovo il debito
indennitario già sorto a carico del vecchio per effetto di
un decreto di esproprio emesso prima della sua istituzione;
invece, il debito maturato successivamente alla creazione
dell’ente grava su quest’ultimo, in quanto titolare dei
relativi poteri, oltre che soggetto beneficiario
dell’espropriazione, la quale non può che avvenire in suo
favore, una volta che il bene è entrato a far parte del
territorio del nuovo ente (1).
•
Il privato, che abbia subito un’occupazione illegittima,
fermo restando il diritto alla restituzione del bene, può
chiedere il solo risarcimento del danno subito, rinunciando
in tal modo alla proprietà del bene ed alla sua restituzione
(in quanto non interessato a quest’ultima) (2).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che occorre, al fine di accertare quale
sia il soggetto legittimato passivo della pretesa
risarcitoria da occupazione illegittima nel caso di
successione a titolo particolare tra enti, indagare sul
momento in cui è sorto il debito risarcitorio.
Quanto alla questione della decorrenza del termine
prescrizionale a fronte dell’illecito da occupazione
illegittima, specificando che: appare palese la natura
permanente dell'illecito della P.A. finché dura
l’illegittima occupazione del bene in assenza di un valido
titolo che determini il trasferimento della proprietà in
capo ad essa, onde non si configura alcuna prescrizione del
relativo diritto al risarcimento; il termine quinquennale di
detta prescrizione non decorre finché v’è tal illecito ed al
più esso inizia a farlo solo dalla proposizione della
domanda per quanto riguarda la reintegrazione per
equivalente o dalle singole annualità relativamente alla
domanda risarcitoria sul mancato godimento del bene (Cons.
St., sez. IV, n. 4636 del 2016; id.
n. 5364 del 2016); la domanda a cui si fa riferimento,
ai fini della cessazione dell’illecito e quindi della
decorrenza della detta prescrizione, non può certo essere
una generica domanda di pagamento di indennità di esproprio,
sulla quale, peraltro, l’amministrazione nega la propria
legittimazione passiva, occorrendo, piuttosto, una rinuncia
abdicativa (implicita alla richiesta di risarcimento dei
danni per equivalente), capace di determinare la cessazione
dell’illecito ed in cui la liquidazione del danno da parte
dell’amministrazione rappresenta il mancato inveramento
della condizione risolutiva implicitamente apposta al
proprietario al proprio atto abdicativo, che di esso
rappresenta il presupposto; il che comporta la sussistenza
di elementi nel caso non riscontrati.
(2)
Cons. St., sez. IV, 30.06.2017, n. 3234.
Ha chiarito il Tar che la rinuncia alla proprietà del bene
ha carattere meramente abdicativo e non traslativo, con la
conseguenza che da essa non può conseguire, quale effetto
automatico, l’acquisto della proprietà del fondo da parte
dell’Amministrazione; in tale ipotesi il provvedimento con
il quale l’amministrazione procede alla effettiva
liquidazione del danno, rappresentando il mancato
inveramento della condizione risolutiva implicitamente
apposta dal proprietario al proprio atto abdicativo, che di
esso rappresenta il presupposto, costituisce atto da
trascriversi ai sensi degli artt. 2643, comma 1, n. 5 e 2645
cod. civ., anche al fine di conseguire gli effetti
dell’acquisizione del diritto di proprietà in capo
all’amministrazione, a far data dal negozio unilaterale di
rinuncia (Cons.
St., sez. IV, n. 4636 del 2016) (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 20.07.2017 n. 1170
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
1.1. Va premesso che, contrariamente a quanto ritenuto da
parte ricorrente, l’eccezione sollevata dalla Provincia di
Catanzaro non è tardiva, atteso che il difetto di
legittimazione passiva può essere dedotto in ogni stato e
grado del processo, senza limiti di decadenza; essa, però,
parimenti a quella sollevata dalla Provincia di Vibo
Valentia, è infondata.
1.2. A questo riguardo, conviene innanzitutto ricordare che,
proprio in tema di procedure ablative, la Suprema Corte ha
in più occasioni affermato (v. C. Cass. 1999/398, 2001/7258
e 2002/11045) che, nel caso di creazione di un ulteriore
ente locale mediante distacco di una parte del territorio di
un altro preesistente, non è possibile far transitare nel
patrimonio del nuovo il debito indennitario già sorto a
carico del vecchio per effetto di un decreto di esproprio
emesso prima della sua istituzione (v., negli stessi
termini, anche C. Cass. 1983/6106, peraltro pronunciata in
un'ipotesi di accessione invertita); nel caso, invece, di
debito maturato successivamente alla creazione dell’ente,
esso grava su quest’ultimo, in quanto titolare dei relativi
poteri, oltre che soggetto beneficiario dell’espropriazione,
la quale non può che avvenire in suo favore, una volta che
il bene è entrato a far parte del territorio del nuovo ente.
Occorre, quindi, al fine di accertare quale sia il soggetto
legittimato passivo della pretesa risarcitoria in questione
(essendo quella indennitaria, giova ricordare, stata rimessa
alla giurisdizione del giudice ordinario, per come esposto
in fatto), indagare sul momento in cui è sorto il debito
risarcitorio, ossia se in epoca anteriore o successiva alla
costituzione della Provincia di Vibo Valentia.
...
2. Va rigettata, poi, l’eccezione di prescrizione sollevata
dalla Provincia di Catanzaro nei propri confronti, a fronte
di un illecito permanente, qual è quello in questione, con
le dovute conseguenze sul piano della prescrizione, come
meglio specificate al successivo punto 3.
Nel caso, comunque, innanzi ai detti decreti di occupazione
(del 17/02/1986 e del 20/03/1990), come prorogati in forza
dell’art. 14, comma 2, d.l. n. 534/1987 e art. 22 L.
n. 158/1991, è incontestato che i ricorrenti hanno richiesto
all’amministrazione provinciale (con note del 19.01.2000 e del
02.04.2001) il pagamento della somma dovuta e
che, con atto di citazione, notificato il 15/12/2005, hanno
intrapreso nei suoi confronti la causa innanzi al giudice
ordinario, di modo che la relativa eccezione non appare in
alcun modo fondata.
3. Anche la Provincia di Vibo Valentia solleva eccezione di
prescrizione.
Sostiene la Provincia che, ai sensi della sentenza 09.02.2016, n. 2, dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato, il termine di prescrizione quinquennale decorrerebbe
dalla proposizione della domanda basata sull’occupazione
contra ius ovvero dalle singole annualità per quella
basata sul mancato godimento del bene, con la conseguenza
che, avendo parte ricorrente presentato la domanda
risarcitoria all’amministrazione provinciale di Vibo
Valentia in data 19.01.2000 (come allegato nel
fascicolo principale di parte ricorrente), sarebbero venuti
meno gli effetti permanenti dell’illecito e,
conseguentemente, l’atto di integrazione del contraddittorio
sarebbe stato notificato (il 20.06.2017) quando oramai
il relativo diritto si era prescritto.
3.1. Il Collegio ritiene che anche questa eccezione sia
infondata.
La questione è quella di stabilire quando decorra il termine
prescrizionale a fronte dell’illecito permanente in
questione e se, nel caso, possa dirsi il diritto
risarcitorio prescritto, potendo decorrere il termine
quinquennale dalla nota indicata dalla Provincia di Vibo
Valentia (del 19.01.2000), con la quale la parte
ricorrente chiede alla stessa, per quanto di spettanza, il
pagamento delle indennità di esproprio in questione.
3.1.1. Secondo la sentenza n. 2 del 2016 Ad, Pl. cit,.
in
linea generale, quale che sia la sua forma di manifestazione
(vie di fatto, occupazione usurpativa, occupazione
acquisitiva), la condotta illecita della P.A. incidente sul
diritto di proprietà non può comportare l’acquisizione del
fondo e configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c. –con la conseguente decorrenza del termine di prescrizione
quinquennale dalla proposizione della domanda basata
sull’occupazione contra ius, ovvero, dalle singole annualità
per quella basata sul mancato godimento del bene– che viene
a cessare solo in conseguenza:
a) della restituzione del
fondo;
b) di un accordo transattivo;
c) della rinunzia abdicativa (e non traslativa, secondo una certa
prospettazione delle SS.UU.) da parte del proprietario
implicita nella richiesta di risarcimento del danno per
equivalente monetario a fronte della irreversibile
trasformazione del fondo;
d) di una compiuta usucapione, ma
solo nei ristretti limiti perspicuamente individuati dal
Consiglio di Stato allo scopo di evitare che sotto mentite
spoglie (i.e. alleviare gli oneri finanziari altrimenti
gravanti sull’Amministrazione responsabile), si reintroduca
una forma surrettizia di espropriazione indiretta in
violazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale della Cedu;
e) di un provvedimento emanato ex art. 42-bis del D.P.R. 08.06.2001, n. 327 (T.U. espropriazione per p.u.).
3.2. Orbene, ritiene il Collegio che:
- appare palese la natura permanente dell'illecito della
P.A. finché dura l’illegittima occupazione del bene in
assenza di un valido titolo che determini il trasferimento
della proprietà in capo ad essa, onde non si configura
alcuna prescrizione del relativo diritto al risarcimento;
- il termine quinquennale di detta prescrizione non decorre
finché v’è tal illecito ed al più esso inizia a farlo solo
dalla proposizione della domanda per quanto riguarda la
reintegrazione per equivalente o dalle singole annualità
relativamente alla domanda risarcitoria sul mancato
godimento del bene (cfr. Cons. St., IV, n. 4636 del 2016; IV,
n. 5364 del 2016);
- la domanda a cui si fa riferimento, ai fini della
cessazione dell’illecito e quindi della decorrenza della
detta prescrizione, non può certo essere una generica
domanda di pagamento di indennità di esproprio, sulla quale,
peraltro, l’amministrazione nega la propria legittimazione
passiva, occorrendo, piuttosto, una rinuncia abdicativa
(implicita alla richiesta di risarcimento dei danni per
equivalente), capace di determinare la cessazione
dell’illecito ed in cui la liquidazione del danno da parte
dell’amministrazione rappresenta il mancato inveramento
della condizione risolutiva implicitamente apposta al
proprietario al proprio atto abdicativo, che di esso
rappresenta il presupposto; il che comporta la sussistenza
di elementi nel caso non riscontrati.
Alla luce di tali principi, la domanda risarcitoria non può
dirsi prescritta nemmeno nei confronti della Provincia di
Vibo Valentia.
4. Nel merito il ricorso è fondato nei termini che seguono.
A fronte di un’occupazione illegittima e della mancanza di
un legittimo atto di acquisizione (come nel caso ove a
seguito della dichiarazione di p.u. non ha fatto seguito il
decreto di espropriazione nei termini), il proprietario,
fermo restando il diritto alla restituzione del bene
occupato, può formulare una domanda di mero risarcimento del
danno per equivalente a fronte dell’irreversibile
trasformazione del fondo.
Ritiene, infatti, il Collegio, aderendo ai recenti e oramai
consolidati approdi giurisprudenziali (confermati da ultimo
con la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 30.06.2017 n. 3234),
che il privato, che abbia subito
un’occupazione illegittima, fermo restando il diritto alla
restituzione del bene, non costituendo la realizzazione
dell’opera pubblica un impedimento alla possibilità di
restituire l’area illegittimamente appresa (cfr. C. Cost.
04.10.2010 n. 293; Cons. Stato, Sez. V, 02.11.2011 n.
5844), ben può chiedere il solo risarcimento del danno
subito, rinunciando in tal modo alla proprietà del bene ed
alla sua restituzione (in quanto non interessato a
quest’ultima).
Va specificato che la rinuncia abdicativa su suolo
irreversibilmente trasformato, che muove la presente
richiesta risarcitoria, ha carattere meramente abdicativo
(Cass. S.U. 19.01.2015, n. 735, Cons. St. Ad. Pl.
n. 2/2016) e non traslativo, donde da essa non può
conseguire, quale effetto automatico, l’acquisto della
proprietà del fondo da parte dell’Amministrazione; in tale
ipotesi il provvedimento con il quale l’amministrazione
procede alla effettiva liquidazione del danno, come sopra
detto, rappresentando il mancato inveramento della
condizione risolutiva implicitamente apposta dal
proprietario al proprio atto abdicativo, che di esso
rappresenta il presupposto, costituisce atto da trascriversi
ai sensi degli artt. 2643, primo comma, n. 5 e 2645 cod. civ.,
anche al fine di conseguire gli effetti dell’acquisizione
del diritto di proprietà in capo all’amministrazione, a far
data dal negozio unilaterale di rinuncia (Cons. St. sez. IV,
4636 del 2016).
4.1. Risulta agli atti che, permanendo l’occupazione anche
in data successiva alla scadenza dell’efficacia dei
provvedimenti legittimanti l’immissione in possesso,
l’occupazione dei terreni di proprietà di parte ricorrente
si sia protratta illegittimamente, con efficacia lesiva
della situazione giuridica fatta valere in questa sede; deve
pertanto riconoscersi alla parte ricorrente il risarcimento
del danno per la mancata disponibilità del bene per tutto il
periodo di occupazione sine titulo oltre che il danno per
equivalente per la perdita del bene, cui parte ricorrente ha
implicitamente rinunciato, da calcolarsi secondo i criteri
che di seguito vengono indicati ex art. 34, co. 4, c.p.a.
(condivisi dalla recente giurisprudenza in tema: cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 07.11.2016 n. 4636; TAR
Lazio Roma, sez. II, 12.06.2017 n. 6894):
a) in ordine alla determinazione del quantum del
risarcimento, questo va commisurato al valore venale del
bene al momento in cui si perfeziona la rinuncia abdicativa
del proprietario al proprio diritto reale, e, trattandosi di
debito di valore, con rivalutazione ed interessi al tasso
legale, da calcolarsi fino al momento dell’effettivo
soddisfo, tenendo presente che in materia di occupazione
acquisitiva di un terreno, il risarcimento del danno è
calcolato esclusivamente sul suo valore al momento in cui si
è verificata la perdita del diritto di proprietà e
l’ammontare del danno deve poi essere rivalutato e devono
essere corrisposti gli interessi legali semplici applicati
al capitale progressivamente rivalutato, non potendo essere
riconosciute ulteriori ragioni di danno (cfr. Corte europea
diritti dell’uomo, 22.12.2009, Guiso–Gallisay c.
Italia; successivamente Cass. civ., sez. I, 09.07.2014,
n. 14604);
b) quanto alla determinazione del risarcimento del danno per
mancato godimento del bene a cagione dell’occupazione
illegittima (per il periodo antecedente al momento abdicativo del diritto di proprietà), questo può essere
calcolato –ai sensi dell’art. 34, co. 4, c.p.a., in assenza
di opposizione delle parti e in difetto della prova rigorosa
di diversi ulteriori profili di danno– facendo
applicazione, in via equitativa, dei criteri risarcitori
dettati dall’art. 42-bisu. espr. (cfr. da ultimo sul punto
Cons. Stato, sez. IV, 23.09.2016 n. 3929; 28.01.2016 n. 329;
02.11.2011 n. 5844), e dunque in una somma
pari al 5% annuo del valore del terreno;
c) non spetta, invece, in difetto di prova specifica, alcuna
liquidazione in misura forfettaria del danno non
patrimoniale sia in quanto ciò è previsto, dall’art. 42-bis, co. 1 e 5, t.u. espr. solo per il caso di correlativa
acquisizione del bene con decreto della pubblica
amministrazione (e non già in presenza di un negozio
abdicativo del privato), sia in quanto –con riferimento non
già alla perdita del diritto di proprietà ma solo con
riferimento alla compressione delle facoltà di godimento–
la misura del risarcimento disposta in via equitativa è da
ritenersi omnicomprensiva di ogni ulteriore posta, ivi
compresi gli accessori (interessi legali e rivalutazione
monetaria);
d) quanto alla prescrizione del diritto al risarcimento del
danno da mancato godimento, occorre precisare che esso
cessa, come è evidente, nel momento stesso in cui si
verifichi la perdita del diritto di proprietà e dunque, nel
caso di specie, nel momento in cui risulta perfezionata la
rinuncia a tale diritto, implicita nella proposizione della
domanda di risarcimento del danno in sede giudiziaria;
pertanto, la prescrizione quinquennale ex art. 2947, co. 1,
c.c. (trattandosi di illecito extracontrattuale), avuto
riguardo al mancato godimento del bene (e cioè alla mancata
percezione di un reddito annuo derivante dall’utilizzazione
giuridicamente legittima del terreno occupato), decorre
dalle singole annualità e fino al momento di perdita del
diritto di proprietà. |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI
LOCALI:
Allegazione del Piano degli indicatori e dei risultati al
bilancio di previsione e al bilancio consuntivo.
---------------
Enti locali – Bilancio - Piano degli indicatori e dei
risultati attesi di bilancio – Allegazione al bilancio di
previsione e al bilancio consuntivo – Necessità.
Il Piano degli indicatori e dei
risultati attesi di bilancio al bilancio di previsione e al
bilancio consuntivo, di cui all’art. 18-bis, d.lgs.
23.06.2011, n. 118, deve essere allegato da enti locali ed i
loro enti e organismi strumentali al bilancio di previsione
e al bilancio consuntivo e ne deve seguire deve seguire
tutto l’iter, dal deposito del progetto sino
all’approvazione (1).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che se il piano degli indicatori è uno
strumento per rendere comparabili, agli occhi della
generalità dei consociati, i bilanci degli Enti locali,
mercé la sua pubblicazione sul sito Internet istituzionale
dell’Ente, a maggior ragione tale strumento deve essere
messo a disposizione dei consiglieri comunali, chiamati dare
o negare approvazione al bilancio reso comparabile del piano
degli indicatori.
Dunque, se il piano deve essere allegato al bilancio di
previsione e al bilancio consuntivo, ne deve seguire tutto
l’iter, dal deposito del progetto sino all’approvazione.
Né si potrebbe affermare che esso debba essere allegato solo
dopo l’approvazione del bilancio cui è accessorio, allo
scopo di tener conto di eventuali emendamenti. Al contrario,
gli emendamenti al bilancio eventualmente approvati s
riverbereranno anche in una modifica del Piano. Una conferma
a tale indicazione è data dal punto 4.2., lett. d),
dell’allegato 4/1 al d.lgs. 23.06.2011, n. 118, recante
il principio contabile applicato concernente la
programmazione di bilancio. In tale allegato, infatti, si
legge che il piano degli indicatori di bilancio, presentato
al Consiglio unitamente al bilancio di previsione e al
rendiconto, rappresenta uno strumento della programmazione
degli Enti locali.
Deve dunque essere annullato il bilancio di previsione di un
Comune nel caso in cui il Piano degli indicatori e dei
risultati attesi di bilancio non sia stato depositato, nei
termini previsti dal regolamento di contabilità, insieme al
progetto di bilancio e agli altri documenti contabili
obbligatori (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 20.07.2017 n. 1156
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
1. - I ricorrenti, consiglieri comunale del Comune di
Montepaone, impugnano la convocazione del Consiglio comunale
per la data del 30.03.2017 e le delibere assunte in tale
seduta, in quanto:
a) non sarebbe stato rispettato quanto previsto dall’art.
29 del regolamento di contabilità, secondo il quale i
documenti di contabilità debbono essere depositati per dieci
giorni consecutivi presso l’Ufficio ragioneria, onde
consentire ai consiglieri il deposito di emendamenti;
b) il deposito sarebbe incompleto, non essendo stato reso
disponibile, unitamente allo schema di bilancio, il Piano
degli indicatori e dei risultati attesi di bilancio,
obbligatorio ai sensi dell’art. 18-bis d.lgs. 23.06.2011, n. 118, e del d.m. Interno 22.12.2015;
c) non sarebbe stato rispettato quanto previsto dall’art.
14 del regolamento per il funzionamento del Consiglio, per
il quale tra la data di convocazione e la data di
svolgimento del Consiglio comunale debbono intercorrere 5
giorni;
Tali violazioni avrebbero leso le prerogative dei
ricorrenti, non consentendo una consapevole partecipazione
all’adunanza consiliare, nel corso della quale, comunque,
essi non avevano partecipato ai lavori o avevano votato
contro le delibere assunte.
2. - Il Comune di Montepaone si è costituito e ha resistito
all’avversa azione.
3. - Alla Camera di Consiglio del 19.07.2017 il ricorso,
sussistendone i presupposti e previo avviso alle parti, è
stato trattato nel merito e spedito in decisione.
4. –
Deve innanzitutto escludersi in via generale, benché
l’amministrazione resistente opini diversamente, che vi
siano controinteressati al ricorso proposto da alcuni
consiglieri comunali per lesione dello ius in officium, che
abbia per oggetto l’avviso di convocazione del Consiglio
comunale e le delibere approvate dall’adunanza, alle quali
si estenderebbe l’illegittimità della convocazione (cfr.,
sia pure in termini dubitativi, Cons. Stato, Sez. V, 14.09.2012, n. 4892).
In ogni caso, si osserva che le deliberazioni approvate in
data 30.03.2017 hanno tutte portata generale, sicché non
è possibile individuare chi abbia interesse alla
conservazione dei provvedimenti impugnati.
5. – Va quindi premesso che i motivi di ricorso saranno
esaminati con un approccio sostanzialistico, per cui
rimangono irrilevanti le violazione formali delle regole
poste a presidio delle prerogative dei consiglieri comunali
allorché essi siano stati comunque posti nelle condizioni di
esercitare adeguatamente e consapevolmente il proprio munus
(cfr., nella giurisprudenza di questo Tribunale, le sentenze
della Sezione II, 30.07.2015, n. 1319, e 20.12.2016, n. 2535; cfr. anche Cons. Stato, Sez. V, ord. 27.08.2014, n. 3824; TAR Molise, 12.05.2010, n. 207;
TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, 23.05.2012, n. 1029.
6. – Ciò posto, il terzo motivo va esaminato
prioritariamente, avendo riflessi su tutte le deliberazioni
assunte all’adunanza del 30 marzo 2017.
6.1. – Il funzionamento dei consigli comunali è disciplinato
dal regolamento nel quadro dei principi stabiliti dallo
Statuto (art. 38, d.lgs. 18.08.2000, n. 267); tale
regolamento deve prevedere, tra l'altro, le modalità per la
convocazione dell'assemblea nonché il numero dei consiglieri
necessario per la validità delle sedute; la materia è stata,
dunque, delegificata, sicché
spetta ai singoli comuni,
dotati di autonomia normativa e funzionale, regolamentare il
funzionamento dei propri organi più rappresentativi con
l'unico limite del rispetto dei principi statutari nonché ordinamentali e delle norme costituzionali, come anche
sancito nel novellato Titolo V della Costituzione (TAR Lazio–Latina, 24.04.2007,
n. 296).
L’art. 14 del regolamento relativo all’organizzazione e al
funzionamento del Consiglio comunale, in accordo con l’art.
12 dello Statuto, stabilisce che gli avvisi di convocazione
debbono essere consegnati ai consiglieri cinque giorni prima
per le convocazione in seduta ordinaria.
6.2. – Tale regolamentazione, dettata in autonomia dal
Comune di Montepaone, ricalca quella già contenuta nell’art.
125 r.d. 04.02.1915, n. 148, sicché essa può essere
interpretata allo stesso modo in cui veniva interpretata
quella. In particolare,
si riteneva (e deve quindi
ritenersi) che, da una interpretazione letterale e
logico-sistematica della disposizione citata, si evince che
il periodo di tempo tra convocazione e adunanza non possa
comprendere né il giorno della consegna dell'avviso di
convocazione né quello della adunanza (Cons. Stato, Sez. I,
parere 07.02.2014, n. 461; Cons. Stato, Sez. I, parere
22.01.2010, n. 228).
Infatti,
il termine previsto è costituito da giorni liberi e
interi che devono interamente decorrere prima dello
svolgimento dell’attività cui sono preordinati, in quanto il
consigliere comunale deve essere messo nelle condizioni di
svolgere con pienezza di funzioni il proprio ruolo elettivo
e quindi ha diritto ad una piena e fattiva partecipazione ad
ogni attività del Consiglio Comunale con cognizione di
causa.
6.3. – Nel caso di specie, dunque, l’avviso di convocazione
è stato recapitato ai consiglieri ricorrenti in ritardo,
rispetto a quanto stabilito nel regolamento relativo
all’organizzazione e al funzionamento del Consiglio
comunale.
Vi è, però, che gli odierni ricorrenti, come risulta dai
verbali dedotti in giudizio, hanno potuto partecipare alla
seduta del Consiglio comunale, sebbene alcuni di essi ne
abbiano abbandonato i lavori.
In ogni caso, essi non hanno specificato se, e in che
misura, essi non abbiano avuto modo di approfondire
adeguatamente gli argomenti posti all’ordine del giorno.
6.4. – Per tali ragioni, il motivo non può essere accolto.
7. - Può quindi essere scrutinato il primo motivo di
ricorso.
7.1. – L’art. 29 del regolamento di contabilità stabilisce
che i documenti contabili debbano essere depositati per
dieci giorni consecutivi presso l’Ufficio ragioneria; nel
medesimo termine, i consiglieri possono proporvi
emendamenti, dei quali deve essere data notizia nell’avviso
di convocazione.
Dalla lettura della normativa è evidente che l’avviso di
convocazione del Consiglio comunale debba seguire allo
spirare del termine per la proposizione degli emendamenti,
che è di dieci giorni dal deposito dei documenti contabili.
7.2. – Ebbene, l’avviso di deposito degli atti di bilancio è
stato dato il giorno 15.03.2017, per cui gli atti
avrebbero dovuto rimanere depositati sino al 25.03.2017.
L’avviso di convocazione del Consiglio comunale, con la
notizia degli emendamenti presentati, avrebbe potuto essere
notificato solo in data successiva.
Invece, come si è detto, la convocazione del Consiglio
comunale è stata notificata già il 25 marzo, sicché –ancora
una volta– vi è una violazione formale delle regole di
funzionamento degli organi comunali.
7.3. – Vi è però che i ricorrenti non hanno dedotto di
essere stati in concreto privati della possibilità di
presentare degli emendamenti al bilancio, sicché non vi è
stata alcuna lesione attuale delle loro prerogative.
7.4. – Anche tale motivo di censura non può essere accolto.
8. - Coglie invece nel segno il secondo motivo di censura,
relativo al mancato deposito del Piano degli indicatori e
dei risultati attesi di bilancio.
8.1. –
L’art. 18-bis d.lgs. 23.06.2011, n. 118,
stabilisce che gli enti locali allegano il Piano degli
indicatori e dei risultati attesi di bilancio al bilancio di
previsione e al bilancio consuntivo.
Il d.m. Interno 22.12.2015, emanato allo scopo di
fornire gli schemi unitari per la redazione del piano,
specifica che, a partire dall’esercizio 2016 gli enti locali
ed i loro enti e organismi strumentali allegano il Piano al
bilancio di previsione e al bilancio consuntivo.
8.2. –
Dunque, se il piano deve essere allegato al bilancio
di previsione e al bilancio consuntivo, ne deve seguire
tutto l’iter, dal deposito del progetto sino
all’approvazione.
Non si può, al contrario, affermare –come fa la difesa del
Comune di Montepaone–
che esso debba essere allegato solo
dopo l’approvazione del bilancio cui è accessorio, allo
scopo di tener conto di eventuali emendamenti. Al contrario,
gli emendamenti al bilancio eventualmente approvati s
riverbereranno anche in una modifica del Piano.
8.3. –
Una conferma a tale indicazione è data dal punto
4.2., lett. d), dell’allegato 4/1 al d.lgs. 23.06.2011,
n. 118, recante il principio contabile applicato concernente
la programmazione di bilancio.
In tale allegato, infatti, si legge che il piano degli
indicatori di bilancio, presentato al Consiglio unitamente
al bilancio di previsione e al rendiconto, rappresenta uno
strumento della programmazione degli Enti locali.
8.4. – D’altro canto,
se il piano degli indicatori è uno
strumento per rendere comparabili, agli occhi della
generalità dei consociati, i bilanci degli Enti locali,
mercé la sua pubblicazione sul sito Internet istituzionale
dell’Ente, a maggior ragione tale strumento deve essere
messo a disposizione dei consiglieri comunali, chiamati dare
o negare approvazione al bilancio reso comparabile del piano
degli indicatori.
8.5. – Ne deriva che, alla luce dell’art. 29 del regolamento
di contabilità, il Piano di cui si discute avrebbe dovuto
essere depositato insieme al progetto di bilancio
preventivo.
In mancanza, la delibera (e solo essa) di approvazione del
bilancio di previsione per gli anni 2017-2019 deve essere
annullata.
9. – Il ricorso deve essere accolto, dunque, nei limiti di
cui in motivazione. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L'illeggibilità della sottoscrizione della
procura alle liti e la mancata indicazione del nome del
Sindaco che l'ha conferita non rendono nulla la procura e
inammissibile l'atto, giacché l'identità della persona che
riveste pro tempore la qualità di Sindaco di un determinato
Comune è un dato di pubblico dominio, spettando alla
controparte l'onere di contestare specificamente che la
firma di mandato provenga dal Sindaco in carica.
---------------
... quanto a b), l'illeggibilità della sottoscrizione della
procura alle liti e la mancata indicazione del nome del
Sindaco che l'ha conferita non rendono nulla la procura e
inammissibile l'atto, giacché l'identità della persona che
riveste pro tempore la qualità di Sindaco di un determinato
Comune è un dato di pubblico dominio, spettando alla
controparte l'onere di contestare specificamente che la
firma di mandato provenga dal Sindaco in carica (Cass.
03.05.2004, n. 8320, Rv. 572529; Cass. 17.07.02014, n.
16366, Rv. 632130)
(Corte di Cassazione, Sez. V civile,
ordinanza 19.07.2017 n. 17843). |
APPALTI SERVIZI:
Sulla natura ordinaria e non eccezionale
dell'affidamento in house.
Stante l'abrogazione referendaria dell'art. 23-bis d.l. n.
112/2008 e la declaratoria di incostituzionalità dell'art. 4
d.l. n. 238/2011 "[…] è venuto meno il principio, con
tali disposizioni perseguito, della eccezionalità del
modello in house per la gestione dei servizi pubblici locali
di rilevanza economica"; ancora, con l'art. 34 del d.l.
18.10.2012, n. 197, sono venute meno le ulteriori
limitazioni all'affidamento in house, contenute nell'art. 4,
comma 8 del predetto d.l. n. 238 del 2011.
Più di recente, la giurisprudenza ha non solo ribadito la
natura ordinaria e non eccezionale dell'affidamento in
house, ricorrendone i presupposti, ma ha pure rilevato come
la relativa decisione dell'amministrazione, ove motivata,
sfugge al sindacato di legittimità del giudice
amministrativo, salva l'ipotesi di macroscopico travisamento
dei fatti o di illogicità manifesta; motivazione che, nel
caso di specie, è stata fornita anche a mezzo della citata
relazione allegata alla deliberazione consiliare n. 61 del
2012.
A ciò aggiungasi la chiara dizione del quinto Considerando
della direttiva 2014/24/UE, laddove si ricorda che "nessuna
disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati
membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione
di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare
con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della
presente direttiva".
Nel caso di affidamento in house, conseguente
all'istituzione da parte di più enti locali di una società
di capitali da essi interamente partecipata […] il requisito
del controllo analogo deve essere verificato secondo un
criterio sintetico e non atomistico, sicché è sufficiente
che il controllo della mano pubblica sull'ente affidatario,
purché effettivo e reale, sia esercitato dagli enti
partecipanti nella loro totalità, senza che necessiti una
verifica della posizione di ogni singolo ente .
L'art. 202, c. 6, del Dlgs. 152/2006, prevede che vi sia un
passaggio diretto e immediato al nuovo gestore del servizio
integrato dei rifiuti del personale impiegato a una certa
data presso il gestore uscente. La norma si applica
espressamente anche nel caso in cui il gestore uscente sia
un'impresa privata.
Nel caso di specie, non sussiste la presunta violazione del
cit. art. 202 del d.lgs. n. 152/2006, in ordine
all'obbligatorio passaggio del personale dal precedente
gestore al nuovo, infatti, non si è in presenza di una
società terza che subentra ad un'altra (di analoga natura)
nell'esecuzione di un contratto, bensì nella riassunzione,
da parte della stazione appaltante, della diretta gestione
di determinati servizi, sia pure per il tramite di una
società operativa.
In ogni caso "la c.d. clausola sociale […] non comporta
invece alcun obbligo per l'impresa aggiudicataria di un
appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in
forma automatica e generalizzata il personale già utilizzato
dalla precedente impresa o società affidataria. Pertanto,
non sussistono i presupposti fondanti il predetto subentro"
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 18.07.2017 n. 3554 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
motivazione di un atto amministrativo deve essere tale da
consentire di ricostruirne il percorso logico che ha
condotto ad emanarlo.
Ciò è di importanza ancora maggiore nei casi come il
presente, in cui si controverte di un atto di diniego,
perché è solo in base alla motivazione di esso che il
privato destinatario può capire eventualmente quali
modifiche apportare alla propria domanda, per ottenere in un
secondo tempo un risultato comunque a lui favorevole.
---------------
2. Il primo motivo è fondato e va accolto.
E’ principio pacifico, e come tale non richiede puntuali
citazioni di giurisprudenza, che la motivazione di un atto
amministrativo deve essere tale da consentire di
ricostruirne il percorso logico che ha condotto ad emanarlo.
Ciò è di importanza ancora maggiore nei casi come il
presente, in cui si controverte di un atto di diniego,
perché è solo in base alla motivazione di esso che il
privato destinatario può capire eventualmente quali
modifiche apportare alla propria domanda, per ottenere in un
secondo tempo un risultato comunque a lui favorevole.
Nel caso di specie, la motivazione del diniego, così come
riportata in premesse, non soddisfa questi requisiti.
E’ di tutta evidenza infatti che la seconda parte di essa,
in cui l’ufficio esprime il timore che l’intervento possa
essere replicato sui piani superiori dell’edificio, non è
pertinente, perché anche secondo la comune logica consentire
una data trasformazione di una parte di un edificio nulla
dice sulla possibilità di consentirla o negarla per altre
parti di esso.
La prima parte della motivazione stessa è poi generica,
perché a rigore qualsiasi intervento modifica l’integrità
dell’esistente: occorre spiegare per quali concrete
caratteristiche esso si risolve in un peggioramento e non in
un miglioramento della qualità architettonica
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.07.2017 n. 3529 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Allorché
nelle more del giudizio di impugnazione di una prescrizione
urbanistica intervenga altro strumento, completamente
sostitutivo del precedente, più nessun interesse a discutere
sul precedente strumento urbanistico può residuare, e ciò
anche quando il nuovo abbia riprodotto la prescrizione
impugnata, palesandosi altrimenti un'eventuale pronuncia sul
primo atto "inutiliter data".
---------------
Come dato atto dalle parti, il ricorso è improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse in conseguenza
dell’espropriazione di una parte dell’area di proprietà del
ricorrente e dell’approvazione della variante generale al
piano di governo del territorio, con deliberazione del
Consiglio Comunale n. 20 del 28.03.2014.
Invero, allorché nelle more del giudizio di impugnazione di
una prescrizione urbanistica intervenga altro strumento,
completamente sostitutivo del precedente, più nessun
interesse a discutere sul precedente strumento urbanistico
può residuare, e ciò anche quando il nuovo abbia riprodotto
la prescrizione impugnata, palesandosi altrimenti
un'eventuale pronuncia sul primo atto "inutiliter data"
(cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 03.06.2010, n. 3538; TAR
Milano Lombardia, sez. II, 21.07.2004, n. 3160)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 17.07.2017 n. 1625 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ordine di demolizione dell'opera abusiva -
Efficacia anche nei confronti dell'erede o dante causa del
condannato - Natura di sanzione amministrativa di carattere
reale a contenuto ripristinatorio - Giurisprudenza - Art. 31
D.P.R. n. 380/2001.
L'ordine di demolizione dell'opera abusiva, avendo natura di
sanzione amministrativa di carattere reale a contenuto
ripristinatorio, conserva la sua efficacia anche nei
confronti dell'erede o dante causa del condannato o di
chiunque vanti su di esso un diritto reale o personale di
godimento, potendo essere revocato solo nel caso in cui
siano emanati, dall'ente pubblico cui è affidato il governo
del territorio, provvedimenti amministrativi con esso
assolutamente incompatibili (Sez. 3, n. 42699 del
07/07/2015, Curcio); (sulla natura di sanzione
amministrativa a contenuto ripristinatorio, priva di
finalità punitive e con effetti che ricadono sul soggetto
che è in rapporto col bene, indipendentemente dal fatto che
questi sia l'autore dell'abuso, Cass. Sez. 3, n. 49331 del
10/11/2015, Delorier) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.07.2017 n. 34550
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Va
qualificata come attività edilizia libera la
realizzazione di una "fitta staccionata in pali di legno di
castagno, di lunghezza ml 19,50 circa, d'altezza media m.
1,50 circa con sovrastante passamano in pali in legno di
castagno, d'altezza m. 1,10 circa".
L’intervento edilizio contestato è costituito dalla
realizzazione di una "fitta staccionata in pali di legno di
castagno, di lunghezza ml 19,50 circa, d'altezza media m.
1,50 circa con sovrastante passamano in pali in legno di
castagno, d'altezza m. 1,10 circa".
Dalla relazione del tecnico comunale traspare in modo
evidente l'urgente necessità di tale opera, allorché si
legge che essa "insiste in una scarpata naturale" ed è "a
contenimento di terreno vegetale del retrostante terrapieno
di una piccola area del fondo agricolo coperta da
vegetazione spontanea ad inclinazione notevole".
È evidente, pertanto, che l’intervento in questione non può
essere qualificato come intervento di nuova costruzione, non
rientrando in nessuna delle definizioni di cui all’art. 3,
comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 380/2001; né può essere
qualificato come un intervento di cd. “ristrutturazione
pesante” di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), non potendo
essere qualificato come un intervento rivolto “a trasformare
gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di
opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto
o in parte diverso dal precedente. Tali interventi
comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni
elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la
modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”.
Tale intervento, piuttosto, va qualificato come un
intervento di pratica agro-silvo-pastorale, di cui all’art.
6, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001: la
staccionata, oltre a non comportare una trasformazione
irreversibile del territorio, è palesemente funzionale al
contenimento del terreno. Dunque, va qualificata come
un’attività edilizia libera ai sensi dell’art. 6, comma 1
(allora vigente) del d.P.R. n. 380/2001.
---------------
FATTO
Con ricorso iscritto al n. 5571 dell’anno 2016, la parte
ricorrente impugnava i provvedimenti indicati in epigrafe. A
sostegno delle sue doglianze, premetteva:
- di essere proprietario di un compendio immobiliare ubicato in
località Santa Maria della Neve del Comune di Massa Lubrense,
frazione Sant'Agata sui Due Golfi, censito al Foglio della
planimetria catastale del medesimo Comune, particelle n.
1479, n. 1213 ed altre (particelle 404, 406, 403 e 402), a
queste ultime limitrofe, e che si estendono a quota ancora
più bassa, degradando a terrazzamenti verso il golfo di
Salerno;
- che sulla prima delle due particelle —ubicata nella parte di
monte– sorge l'unità immobiliare con l'abitazione del
proprietario, mentre tutte le rimanenti sono destinate a
fondo agricolo. Essa si sviluppa a valle della via dei
Campi, dalla quale, in corrispondenza del civico n. 49,
parte la stradina privata che -correndo in ripida discesa
pressappoco ortogonalmente alle curve di livello– la
delimita su due lati e dà accesso, oltre che alla stessa, a
diversi altri fondi situati sullo stesso versante;
- che, ad eccezione della zona più prossima all'abitazione, in
particolare occupata dal giardino, e, quindi, costantemente
manutenuta, il fondo agricolo -una volta gestito da un
colono- era rimasto da molti anni praticamente abbandonato,
divenendo col tempo praticamente inaccessibile a causa della
gran quantità di vegetazione cresciuta spontaneamente fino a
ricoprire completamente le scalette di pietra e le rampe di
terreno che collegano a più livelli i diversi terrazzamenti;
- di aver pertanto deciso di provvedere alla pulizia del terreno,
dandone comunicazione al Sindaco di Massa Lubrense con nota
18.07.2014 acquisita in pari data al protocollo comunale;
- che, durante l'esecuzione di tale intervento di pulizia del
terreno, con rimozione di arbusti, rovi, erbacce e potatura
di alberi, veniva alla luce che una parte di terreno
notevolmente acclive, posta immediatamente a monte del
rivolo che funge da confine con una proprietà aliena, era
interessata da uno smottamento, probabilmente causato, oltre
che dal cedimento del muretto di pietrame posto al piede
della scarpata, dalla perdita di coerenza del terreno
medesimo non più trattenuto dalle radici delle piante
selvatiche rimosse: e pertanto si rendeva oltremodo
necessario provvedere urgentemente ad arrestare il fenomeno,
per evitare che la frana invadesse il rivolo e si estendesse
oltre il confine;
- che tale intervento -così come rilevato e descritto dal Tecnico
Comunale nella relazione del 17/11/2015 prot. 25028, redatta
all'esito dell'accertamento in loco eseguito il 16/11/2016-
è costituito dalla realizzazione di una "fitta
staccionata in pali di legno di castagno, di lunghezza ml
19,50 circa, d'altezza media m.1,50 circa con sovrastante
passamano in pali in legno di castagno, d'altezza m. 1,10
circa". Da tale Relazione traspare in modo evidente la
urgente necessità di tale opera, allorché si legge che essa
"insiste in una scarpata naturale" ed è "a contenimento
di terreno vegetale del retrostante terrapieno di una
piccola area del fondo agricolo coperta da vegetazione
spontanea ad inclinazione notevole";
- che, pertanto, si tratta –con tutta evidenza– di attività
puramente manutentiva;
- che, ciò nonostante, il Comune di Massa Lubrense ha dapprima
ordinato la sospensione dei lavori con ordinanza emessa in
data 12/01/2016, allorquando tuttavia l'attività manutentiva
risultata già effettuata (come risulta dalla stessa
relazione del tecnico comunale del 17/11/2015), e per di più
notificata solo in data 08.06.2016 (a distanza di sei mesi,
allorquando l'ordine di sospensione aveva perduto di
efficacia e comunque non aveva più alcuna ragione la sua
stessa notificazione);
- di aver ribadito la natura delle opere effettuate; che, tuttavia,
il Comune adottava gli atti impugnati.
Instava quindi per l’annullamento degli atti impugnati con
vittoria di spese processuali.
L’Amministrazione non si costituiva.
All’udienza camerale del 07.02.2017, con ordinanza n.
201/2017, veniva fissata l’udienza di merito ai sensi
dell’art. 55, comma 10, c.p.a..
All’udienza del 27.06.2017, il ricorso è stato assunto in
decisione.
DIRITTO
La parte ricorrente impugnava i provvedimenti in epigrafe
per i seguenti motivi:
1) il provvedimento impugnato è illegittimo perché esso qualifica
l'intervento eseguito dal ricorrente, e costituito da una
staccionata in legno a contenimento di una scarpata
naturale, come opera soggetta al regime edilizio del
permesso di costruire, senza null'altro aggiungere in
proposito ed in palese contrasto con le risultanze delle
operazioni di accertamento eseguite in loco dal Tecnico
Comunale in data 16/11/2015, e riportate nella relazione del
17/11/2015, come già precisato in punto di fatto e nella
perizia tecnica a firma dell'Ing. Di.Ad., ed in modo ancor
più illegittimo ne dispone la rimozione;
2) violazione dell’art. 7 l. n. 241/1990, attesa l’omessa
comunicazione di avvio del procedimento;
3) eccesso di potere per difetto di istruttoria, atteso che
l’Amministrazione ha utilizzato un modulo prestampato senza
alcun effettivo accertamento dello stato dei luoghi.
Il ricorso è fondato e va accolto per i motivi di seguito
precisati.
Risultano infatti fondate la prima e la terza
censura.
Come si evince dalla relazione del Tecnico Comunale del
17/11/2015 prot. 25028, redatta all'esito dell'accertamento
in loco eseguito il 16/11/2016, l’intervento edilizio
contestato è costituito dalla realizzazione di una "fitta
staccionata in pali di legno di castagno, di lunghezza ml
19,50 circa, d'altezza media m. 1,50 circa con sovrastante
passamano in pali in legno di castagno, d'altezza m. 1,10
circa". Da tale Relazione traspare in modo evidente la
urgente necessità di tale opera, allorché si legge che essa
"insiste in una scarpata naturale" ed è "a
contenimento di terreno vegetale del retrostante terrapieno
di una piccola area del fondo agricolo coperta da
vegetazione spontanea ad inclinazione notevole".
È evidente, pertanto, che l’intervento in questione non può
essere qualificato come intervento di nuova costruzione, non
rientrando in nessuna delle definizioni di cui all’art. 3,
comma 1, lett. e), del d.P.R. n. 380/2001; né può essere
qualificato come un intervento di cd. “ristrutturazione
pesante” di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), non
potendo essere qualificato come un intervento rivolto “a
trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme
sistematico di opere che possono portare ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali
interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di
alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione,
la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”.
Tale intervento, piuttosto, va qualificato come un
intervento di pratica agro-silvo-pastorale, di cui all’art.
6, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380/2001: la
staccionata, oltre a non comportare una trasformazione
irreversibile del territorio, è palesemente funzionale al
contenimento del terreno. Dunque, va qualificata come
un’attività edilizia libera ai sensi dell’art. 6, comma 1
(allora vigente) del d.P.R. n. 380/2001.
Appare fondata anche la terza censura. Nell’ordinanza
di demolizione, infatti, non è riportata neanche la
descrizione dell’abuso contestato; ciò che rende verosimile
la sussistenza del vizio di eccesso di potere per difetto di
istruttoria.
D’altronde, l’intervento contestato è molto diverso dagli
abusi edilizi per i quali è prevista la sanzione della
demolizione; ed anche tale assunto rende ragionevole la
sussistenza del censurato difetto di istruttoria
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 13.07.2017 n. 3749 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
La Corte di giustizia UE si pronuncia su responsabilità
solidale tra autore dell’illecito, e proprietario dei
terreni in caso di inquinamento.
---------------
•
Ambiente – Inquinamento
– Responsabilità – Proprietario dei fondi – Ammissibilità-
Condizioni.
•
Ambiente – Inquinamento
– Sanzioni – Proprietario dei fondi – Condizioni.
•
Le disposizioni della direttiva 2004/35/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 21.04.2004, sulla
responsabilità ambientale in materia di prevenzione e
riparazione del danno ambientale, lette alla luce degli
articoli 191 e 193 TFUE devono essere interpretate nel senso
che, sempre che la controversia di cui al procedimento
principale rientri nel campo di applicazione della direttiva
2004/35, circostanza che spetta al giudice del rinvio
verificare, esse non ostano a una normativa nazionale che
identifica, oltre agli utilizzatori dei fondi su cui è stato
generato l’inquinamento illecito, un’altra categoria di
persone solidamente responsabili di un tale danno
ambientale, ossia i proprietari di detti fondi, senza che
occorra accertare l’esistenza di un nesso di causalità tra
la condotta dei proprietari e il danno constatato, a
condizione che tale normativa sia conforme ai principi
generali di diritto dell’Unione, nonché ad ogni disposizione
pertinente dei Trattati UE e FUE e degli atti di diritto
derivato dell’Unione. (1)
•
L’articolo 16 della direttiva 2004/35 e
l’articolo 193 TFUE devono essere interpretati nel senso
che, sempre che la controversia di cui al procedimento
principale rientri nel campo di applicazione della direttiva
2004/35, essi non ostano a una normativa nazionale, come
quella controversa nel procedimento principale, ai sensi
della quale non solo i proprietari di fondi sui quali è
stato generato un inquinamento illecito rispondono in
solido, con gli utilizzatori di tali fondi, di tale danno
ambientale, ma nei loro confronti può anche essere inflitta
un’ammenda dall’autorità nazionale competente, purché una
normativa siffatta sia idonea a contribuire alla
realizzazione dell’obiettivo di protezione rafforzata e le
modalità di determinazione dell’ammenda non eccedano la
misura necessaria per raggiungere tale obiettivo,
circostanza che spetta al giudice nazionale verificare. (2)
---------------
(1-2) I.- Con la
sentenza in epigrafe, la Corte del Lussemburgo ritorna sul
delicato tema dell’estensione della responsabilità da
inquinamento nei confronti dei proprietari dei fondi
interessati. Nella difficile opera di coordinamento fra i
diversi ordinamenti nazionali e quello europeo, la Corte
tenta una complicata opera di mediazione, partendo dalla
disciplina europea e dai relativi principi. Nel caso de
quo pare legittimare una disciplina nazionale (quella
ungherese) che presenta aspetti di notevole divergenza da
quella italiana (ormai consolidatasi nel senso della
mancanza di responsabilità in capo al proprietario
incolpevole).
In particolare, la fattispecie rimessa alla Corte origina
dall’impugnativa proposta da una impresa avverso un’ammenda
inflitta a seguito dell’incenerimento illegale di rifiuti,
avvenuto su un terreno di proprietà della stessa impresa,
che aveva causato un inquinamento dell’aria.
In sede contenziosa il giudice ungherese, dubitando della
conformità alla disciplina sovranazionale dell’ordinamento
nazionale che estende la sanzione al proprietario del
terreno interessato, ha rimesso la relativa questione
pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del Trattato.
II.- La decisione della Corte europea, riassunta nelle due
massime di cui in epigrafe, prende le mosse dalla
ricostruzione della disciplina europea e di quella statale
interessata.
In via preliminare la Corte:
a) inquadra i principi del trattato evidenziando come, da un lato,
l’articolo 191 -secondo cui la politica dell’Unione in
materia ambientale mira a un elevato livello di tutela e si
basa sul principio «chi inquina paga»- si limita a
definire gli obiettivi generali dell’Unione in materia
ambientale; dall’altro lato l’articolo 192 che affida al
Parlamento europeo e al Consiglio, quindi secondo la
procedura legislativa ordinaria, il compito di decidere le
azioni da intraprendere per raggiungere detti obiettivi;
alla stregua di tale inquadramento, pertanto, esclude che il
principio “chi inquina paga” possa ex se
giustificare l’inapplicabilità della disciplina nazionale
che punisce il proprietario incolpevole;
b) formula un’ulteriore importante precisazione per delimitare
l’operatività delle regole europee: l’inquinamento dell’aria
non costituisce di per sé un danno ambientale contemplato
dalla direttiva 2004/35, salvo che la lesione all’ambiente
includa altresì il danno cagionato da elementi aerodispersi
(nella misura in cui possono causare danni all’acqua, al
terreno o alle specie e agli habitat naturali protetti,
costituenti oggetto diretto della disciplina invocata).
Sulla scorta di tali precisazioni preliminari, la Corte
precisa che il regime di responsabilità ambientale previsto
dalla direttiva richiede che sia accertato dall’autorità
competente un nesso causale tra l’azione di uno o più
operatori individuabili e il danno ambientale o la minaccia
imminente di tale danno. In definitiva, il regime di
responsabilità istituito dalla direttiva 2004/35 si fonda
sul principio di precauzione e sul principio «chi inquina
paga»; a questo fine, tale direttiva impone agli
operatori obblighi sia di prevenzione sia di riparazione.
Secondo la Corte, le regole europee prevedono la facoltà per
gli Stati membri di mantenere o adottare disposizioni più
severe in materia di prevenzione e riparazione del danno
ambientale, compresa l’individuazione di altre attività da
assoggettare ai precitati obblighi di prevenzione e di
riparazione nonché l’individuazione di altri soggetti
responsabili.
È in tale ottica che –nei termini riassunti nella prima
massima- viene quindi scrutinata la più severa disciplina
nazionale ungherese la quale, secondo la Corte, senza
compromettere il principio della responsabilità ricadente in
primo luogo sull’utilizzatore, ha la finalità di evitare una
carenza di diligenza da parte del proprietario e di
incoraggiare lo stesso ad adottare misure e a sviluppare
pratiche idonee a minimizzare i rischi di danni ambientali;
in tal modo essa contribuisce a prevenire il danno
ambientale e conseguentemente a realizzare gli obiettivi
della direttiva stessa.
Analoghe considerazioni sono svolte dalla Corte in merito
alla sanzione amministrativa, nei termini riassunti nella
seconda massima. In particolare, secondo la sentenza
un’ammenda amministrativa inflitta al proprietario di un
fondo a causa di un inquinamento illecito da lui non
impedito e di cui non indica l’autore, può rientrare nel
regime di responsabilità, purché la normativa che prevede
un’ammenda simile, in conformità al principio di
proporzionalità, sia idonea a contribuire alla realizzazione
dell’obiettivo di protezione rafforzata perseguito dalla
normativa che istituisce la responsabilità solidale, e le
modalità di determinazione dell’ammenda non eccedano la
misura necessaria per raggiungere tale obiettivo.
III.- Per completezza si segnala:
c) per la più recente dottrina in materia di danno e ripristino
ambientale alla luce dei principi europei, v. LEONARDI, La
responsabilità in tema di bonifica dei siti inquinati: dal
criterio soggettivo del “chi inquina paga” al
criterio oggettivo del “chi è proprietario paga”? in
Foro amm., 2015, 1; GRASSI, Bonifica ambientale di siti
contaminati, in Diritto dell'ambiente, a cura di G. Rossi,
Torino, 2015, 424 ss.; FERRARA - SANDULLI, in Trattato di
diritto dell'ambiente, Milano, 2014; R. INVERNIZZI,
Inquinamenti risalenti, ordini di bonifica e principio di
legalità CEDU: tutto per l'“ambiente”, in Urbanistica
e appalti, 2014, 8-9; AMOROSO, Nuovi rilievi sull'attività
volta all'accertamento della responsabilità
dell'inquinamento del sito, in Riv. giur. amb., 2006, 6; DE
LEONARDIS, Il principio di precauzione nell'amministrazione
del rischio, Milano, 2005; GOISIS, La natura dell'ordine di
bonifica e ripristino ambientale ex art. 17 d.lgs. n. 22 del
1997: la sua retroattività e la posizione del proprietario
non responsabile della contaminazione, in Foro amm. -
C.d.S., 2004, n. 2; R. LOMBARDI, Il problema
dell'individuazione dei soggetti coinvolti nell'attività di
bonifica dei siti contaminati, in P.M. VIPIANA PERPETUA (a
cura di), La bonifica dei siti inquinati: aspetti
problematici, Padova, 2002, 111 ss.;
d) sul principio “chi inquina paga”, cfr. Corte giustizia
UE, sez. III, 04.03.2015, n. 534, in Foro it., 2015, IV,
293; Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario 2015,
3-4, 946, con nota di ANTONIOLI; Urbanistica e appalti,
2015, 635, con nota di CARRERA, secondo cui “La direttiva
2004/35/Ce del parlamento europeo e del consiglio, del
21.04.2004, sulla responsabilità ambientale in materia di
prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere
interpretata nel senso che non osta a una normativa
nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento
principale, la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile
individuare il responsabile della contaminazione di un sito
o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non
consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione
delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario
di tale sito, non responsabile della contaminazione, il
quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative
agli interventi effettuati dall’autorità competente nel
limite del valore di mercato del sito, determinato dopo
l’esecuzione di tali interventi”;
e) sulla natura e consistenza del danno ambientale cfr.
Corte cost., 01.06.2016, n. 126 in Foro it. 2016,
11, I, 3409, (oggetto della
News US 06.06.2016 ai cui riferimenti si rinvia),
secondo cui “E’ infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 311, comma 1, d.lgs. 03.04.2006, n.
152 (Norme in materia ambientale), sollevata, in riferimento
agli artt. 2, 3, 9, 24 e 32 Cost., nonché al principio di
ragionevolezza, dal Tribunale ordinario di Lanusei”;
f) sul riparto di responsabilità da inquinamento nell’ordinamento
italiano cfr. Cons. Stato, Ad. plen., ordinanza 25.09.2013
n. 21 in Giornale dir. amm., 2014, 365 con nota di SABATO, e
13.11.2013 n. 25, in Corriere giur., 2013, 514, con nota di
CARBONE; Giornale dir. amm., 2013, 729, con nota di BASSI;
Urbanistica e appalti, 2013, 696, con nota di BECCARIA; Giur.
it., 2014, 947 con nota di VIPIANA;
g) per la applicazione concreta dei principi elaborati dalle
decisioni della Corte di giustizia e dall’Adunanza plenaria,
in relazione ai principi generali del diritto ambientale
europeo (“chi inquina paga” e del “precauzione”),
cfr. Cons. Stato, sez. V, 25.02.2015, n. 933 e 27.12.2013,
n. 6250; da ultimo, sez. V, 08.03.2017, n. 1089 secondo cui
“Ai sensi degli artt. 242, comma 1, e 244, comma 2,
d.lgs. 03.04.2006, n. 152, una volta riscontrato un fenomeno
di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di
caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o
definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono
essere imposti dalla Pubblica amministrazione solamente ai
soggetti responsabili dell'inquinamento, e cioè quelli che
abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione
tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo,
legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità,
non essendo configurabile una responsabilità di mera
posizione del proprietario del sito inquinato; d'altra parte
se è vero, per un verso, che l'Amministrazione non può
imporre, ai privati che non abbiano alcuna responsabilità
diretta sull'origine del fenomeno contestato, lo svolgimento
di attività di recupero e di risanamento, secondo il
principio cui si ispira anche la normativa comunitaria -la
quale impone al soggetto, che fa correre un rischio di
inquinamento, di sostenere i costi della prevenzione o della
riparazione- per altro verso la messa in sicurezza del sito
costituisce una misura di prevenzione dei danni e rientra,
pertanto, nel genus delle precauzioni, unitamente al
principio di precauzione vero e proprio e al principio
dell'azione preventiva, che gravano sul proprietario o
detentore del sito da cui possano scaturire i danni
all'ambiente e, non avendo finalità sanzionatoria o
ripristinatoria, non presuppone affatto l'accertamento del
dolo o della colpa”;
h) in sede legislativa, il recente decreto legislativo 16.06.2017,
n. 104 recante attuazione della direttiva 2014/52/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 16.04.2014, che
modifica la direttiva 2011/92/UE, concernente la valutazione
dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e
privati, ai sensi degli articoli 1 e 14 della legge
09.07.2015, n. 114;
i) sul riparto di competenze legislative in materia di tutela
dell’ambiente cfr. da ultimo l’ordinanza
del Tar per la Calabria-Catanzaro 07.10.2016 n. 1943
(oggetto della
News US in data 12.10.2016), secondo cui “Non
è manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 1 della Legge Regionale n. 8/2016
con riferimento all’art. 117, co. 2, lett. s), Costituzione
in quanto tale norma –che ha sospeso, nelle more
dell’approvazione del nuovo piano regionale di gestione dei
rifiuti, i procedimenti in corso per il rilascio delle
valutazioni di impatto ambientale e delle autorizzazioni
integrate ambientali per la realizzazione e gestione di
nuovi impianti di smaltimento o recupero rifiuti sul o nel
suolo- si pone in diretta violazione della disciplina
nazionale, con cui il legislatore statale ha esercitato la
propria competenza esclusiva; con gli artt. 11, comma 5, 13,
commi 1 e 3, e 208 del decreto legislativo 03.04.2006, n.
152 (Norme in materia ambientale) che stabiliscono termini
certi per l’istruttoria e la definizione dei procedimenti
autorizzatori, nonché con gli artt. 11, 19, 25 26, 29-bis,
29-ter, 29-quater del medesimo Decreto Legislativo n. 152
nei quali si prevedono termini endoprocedimentali e di
definizione del procedimento certi, dettati dal legislatore
statale nell’esercizio del monopolio normativo che gli è
riconosciuto”; Corte cost. 12.12.2012, n. 278, in Foro
it., 2013, I, 412 (cui si rinvia per ogni ulteriore
riferimento); Diritto e giurisprudenza agraria, 2013, 2, 92
con nota di GORLANI, secondo cui “l'attribuzione
esclusiva dello Stato in materia di ambiente ed ecosistema,
di cui all'art. 117, comma 2, lett. s), cost., si riferisce
all'"ambiente" in termini generali ed onnicomprensivi e
premesso altresì che, in caso di sovrapposizione ad altri
ambiti competenziali, la legislazione statale prevale
rispetto a quella dettata dalle regioni o dalle province
autonome, in materie di competenza propria, in
considerazione della disciplina unitaria e complessiva del
bene ambiente, che inerisce ad un interesse pubblico di
valore costituzionale primario ed assoluto, configurandosi,
quindi, la normativa statale come limite alla
discrezionalità legislativa che le regioni e le province
autonome hanno nelle materie di loro competenza”;
j) Corte cost., 17.03.2015, n. 38, in Foro it. 2015, I, 1889 (cui
si rinvia per ogni ulteriore approfondimento di dottrina e
giurisprudenza), secondo cui:
I) È incostituzionale l’art. 65 l.reg. Veneto 02.04.2014 n.
11, nella parte in cui prevede che la giunta regionale, con
apposite linee guida, escluda determinati interventi a
tutela della rete ecologica regionale «Natura 2000»
dalla valutazione di incidenza ambientale (Vinca)”;
II) “È infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 19 l.reg. Veneto 02.04.2014 n. 11,
nella parte in cui autorizza la giunta regionale a
prevedere, nel rapporto con gli appaltatori, la
compensazione dell’onere per la realizzazione dei lavori di
manutenzione dei corsi d’acqua con il valore del materiale
litoide estratto riutilizzabile, in riferimento all’art.
117, 2º comma, lett. s), cost.”;
III) “È infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 56, 1º e 4º comma, l.reg. Veneto
02.04.2014 n. 11, nella parte in cui consente la combustione
controllata di materiali agricoli e vegetali sul luogo di
produzione, effettuata secondo le normali pratiche e
consuetudini, escludendo che essa costituisca attività di
gestione dei rifiuti o di combustione illecita, in
riferimento all’art. 117, 1º e 2º comma, lett. s), cost.”
(Corte di
giustizia dell’Unione europea, Sez. II,
sentenza 13.07.2017 - C-129/16
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La dichiarazione di inizio attività (segnalazione
certificata di inizio attività) costituisce un atto
soggettivamente e oggettivamente privato con cui
l'interessato esercita la sua legittimazione ex lege
all'esercizio di attività liberalizzate.
Tale strumento di semplificazione dei rapporti tra cittadino
e PP.AA. può essere utilizzato anche ai fini del mutamento
di destinazione d’uso degli immobili, ove ricorrano talune
condizioni: “il mutamento di destinazione d'uso è
assoggettato solo a Dia (ora Scia), purché però intervenga
nell'ambito della stessa categoria urbanistica.
Di recente, anche il Consiglio di Stato ha affermato che “Se
è vero che un mutamento di destinazione d’uso è sempre
consentito, a condizione che, prima e dopo il mutamento, si
rimanga all’interno della stessa categoria funzionale,
ulteriormente coordinando sul piano ermeneutico la portata
dei segmenti dispositivi degli artt. 22 e 23-ter D.P.R. n.
380/2001 (T.U. Edilizia) si giunge alla conclusione che,
purché si rimanga nella stessa categoria funzionale, è
possibile il cambio di destinazione d’uso attraverso una
SCIA”.
---------------
...
per l'annullamento della nota prot. 22195 del 09.08.2016 con la quale è
stata comunicata l'inefficacia della SCIA inerente il cambio
di destinazione d'uso da “artigianale” a “commerciale”,
senza esecuzione di opere, dell'immobile sito a Scicli in C.da C..., da destinare a MSV (Media Struttura di
Vendita) assieme al contiguo locale commerciale;
...
Il ricorrente Lo.An. espone di aver presentato in data
03.05.2016 al Comune di Scicli una segnalazione
certificata di inizio attività (SCIA) con la quale segnalava
l’avvio del cambio di destinazione d’uso -da “artigianale”
a “commerciale”- senza realizzazione di opere, di un
immobile sito in Scicli, C.da ..., da destinare a
Media Struttura di Vendita.
Dopo il completamento dei lavori, con nota del 09.08.2016
(comunicata all’interessato il successivo giorno 16 agosto),
lo Sportello unico per le attività produttive del Comune di
Scicli ha rilevato che l’intervento proposto non sarebbe
ammissibile dal punto di vista della conformità urbanistica,
in quanto la destinazione d’uso “commerciale” richiesta confligge con la condizione riportata nella concessione
edilizia in sanatoria n. 79/S022182 N del 21/06/2002
rilasciata per l’immobile in questione, che imponeva il
mantenimento della destinazione d’uso specificata nel
progetto allegato.
In conclusione, l’amministrazione comunale ha ritenuto che
la SCIA non abbia prodotto effetti abilitativi e che la
destinazione dell’immobile è da intendersi “artigianale”.
...
Il Collegio ritiene di dover confermare la valutazione di
fondatezza del ricorso già resa, sulla scorta di un primo
esame, nella fase cautelare del giudizio.
In particolare,
risulta in via documentale che la nota adottata dal SUAP del
Comune di Scicli in data 09.08.2016 -della cui natura provvedimentale deve peraltro dubitarsi, alla luce del fatto
che essa contiene l’invito rivolto al destinatario a
presentare osservazioni/controdeduzioni, e fissa altresì un
termine di conclusione del procedimento decorrente dalla
data di notifica della nota stessa; anche se poi,
contraddittoriamente, dichiara impugnabile il
“provvedimento” innanzi al Tar- sia intervenuta oltre 90
giorni dalla presentazione della SCIA effettuata dal
ricorrente.
Risulta, quindi, violato il termine di trenta giorni –quale
emerge dal combinato disposto dei commi 3 e 6-bis dell’art.
19 della L. 241/1990 (cd. SCIA in materia edilizia)- entro il
quale l’amministrazione può “in caso di accertata carenza
dei requisiti e dei presupposti di cui al comma 1, (…),
adotta[re] motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione
dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi
di essa” (art. 19, co. 3, cit.).
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che “La
dichiarazione di inizio attività (segnalazione certificata
di inizio attività) costituisce un atto soggettivamente e
oggettivamente privato con cui l'interessato esercita la sua
legittimazione ex lege all'esercizio di attività
liberalizzate” (Cons. Stato, A.P. n. 15/2011). Tale
strumento di semplificazione dei rapporti tra cittadino e PP.AA. può essere utilizzato anche ai fini del mutamento di
destinazione d’uso degli immobili, ove ricorrano talune
condizioni: “il mutamento di destinazione d'uso è
assoggettato solo a Dia (ora Scia), purché però intervenga
nell'ambito della stessa categoria urbanistica” (ex multis,
Cass. Pen., III, 26455/2016, Id. 31465/2014).
Di recente,
anche il Consiglio di Stato ha affermato che “Se è vero che
un mutamento di destinazione d’uso è sempre consentito, a
condizione che, prima e dopo il mutamento, si rimanga
all’interno della stessa categoria funzionale, ulteriormente
coordinando sul piano ermeneutico la portata dei segmenti
dispositivi degli artt. 22 e 23-ter D.P.R. n. 380/2001 (T.U.
Edilizia) si giunge alla conclusione che, purché si rimanga
nella stessa categoria funzionale, è possibile il cambio di
destinazione d’uso attraverso una SCIA” (Cons. Stato, VI,
2295/2017).
In conclusione, assorbite le ulteriori censure dedotte, il
ricorso va accolto in ragione del ritardo con il quale
l’amministrazione comunale è intervenuta per modificare gli
effetti prodotti dalla SCIA. Rimane comunque salva, come già
indicato nell’ordinanza cautelare, la facoltà per
l’amministrazione di esercitare i poteri di vigilanza e di
autotutela previsti nell’art. 19, commi 4 e 6-bis, della L.
241/1990
(TAR Sicilia-Catania, Sez. IV,
sentenza 12.07.2017 n. 1773 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'installazione
di tende parasole sul terrazzo pertinenziale non comporta la
realizzazione di un volume urbanistico e, pertanto, non
rientra nell'alveo applicativo del permesso di costruire.
Sono soggetti al rilascio del permesso
di costruire gli interventi di nuova costruzione, categoria
nella quale rientrano quelli che realizzano una
trasformazione edilizia e urbanistica del territorio. Una
struttura in alluminio anodizzato destinata ad ospitare
tende retrattili in materiale plastico non integra tali
caratteristiche.
In particolare, in tali casi l'opera principale non è la
struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione
dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una
migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità
abitativa. E considerata in tale contesto, la struttura in
alluminio anodizzato si qualifica in termini di mero
elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione
della tenda.
---------------
Con ricorso notificato in data 04.04.2016 e ritualmente
depositato il 26 aprile successivo, la Sig.ra An.Sc. impugna
l'ordinanza dirigenziale n. 30 del 04.02.2016, notificata il
05.02.2016, con la quale il dirigente del settore
Pianificazione e Uso del Territorio le ha ingiunto la
rimozione della tenda parasole installata sul terrazzo
pertinenziale dell'unità immobiliare sita in via ... n. 2/C
nel termine di giorni 90 perché non conforme alla delibera
condominiale presentata ai fini del rilascio di permesso di
costruire per la installazione di tende aggettanti sulla
facciata del fabbricato.
...
Il ricorso è fondato.
Dagli atti di causa risulta che l’intervento in oggetto
consiste nell’installazione di tende parasole sia sul lato
nord/est del fabbricato che su quello ovest dello stesso, ed
in particolare quella posizionato sul primo di detti lati “avrà
dimensioni di ml. 10,00 per 4,40, inoltre sarà del tipo “a
cappotto”…motorizzata di colore a strisce gialle e avorio,
inoltre la struttura sarà costituita da una struttura in
alluminio anodizzato di color avorio, mentre le tende
posizionate sul lato ovest del fabbricato sono del tipo a
caduta sempre di colore a strisce gialle e avorio, saranno
sempre dotate di un sistema motorizzato ed avranno una
lunghezza lineare di m 9,00”.
Tale intervento, come dedotto con l’assorbente primo
motivo di ricorso, non comporta la realizzazione di un
volume urbanistico e pertanto non rientra nell’alveo
applicativo del permesso di costruire.
In un caso analogo, il Massimo Organo di GA ha affermato che
“Sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli
interventi di nuova costruzione, categoria nella quale
rientrano quelli che realizzano una trasformazione edilizia
e urbanistica del territorio. Una struttura in alluminio
anodizzato destinata ad ospitare tende retrattili in
materiale plastico non integra tali caratteristiche. In
particolare, in tali casi l'opera principale non è la
struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione
dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una
migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità
abitativa. E considerata in tale contesto, la struttura in
alluminio anodizzato si qualifica in termini di mero
elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione
della tenda” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI,
27.04.2016, n. 1619).
Della riconducibilità dell’intervento al più favorevole
regime della Dia/Scia mostra di avere consapevolezza lo
stesso redattore del provvedimento impugnato, avendo
richiamato l’art. 27 del d.p.r. n. 380/2001, che prevede la
sola sanzione pecuniaria in caso di abuso. Inoltre, il
ricorrente ha dato corso all’esecuzione delle opere dopo la
presentazione della d.i.a. prot. n. 66058/2010 e la mera
violazione di prescrizioni condominiali non può trasfigurare
la consistenza dell’intervento in modo da renderlo soggetto
al più gravoso permesso di costruire. Esse, infatti
sottendono interessi di natura privatistica, che nulla hanno
a che vedere con la rilevanza pubblicistica della disciplina
urbanistica, fermo restando che alcuni elementi di origine
civilistica possono assumere “una rilevanza qualificata
nel procedimento di rilascio della concessione edilizia”
(questa Sezione prima, 17.04.2014 n. 740).
Va quindi conclusivamente rilevata la fondatezza del
ricorso, laddove, con effetto assorbente di ogni altra
censura, si lamenta la inapplicabilità della sanzione
ripristinatoria per la stessa consistenza dell’intervento,
priva di rilievo plano-volumetrico.
Tanto premesso, il ricorso è fondato a va accolto, con
conseguente annullamento dell’atto impugnato
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 12.07.2017 n. 1170 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
poter edificare in zona vincolata occorre ottenere due
titoli abilitativi: quello concessorio e l’autorizzazione
paesaggistica.
I due titoli, permesso di costruire e nulla osta
paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue
relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona
paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue
i titoli. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica
rende non eseguibile le opere in questione e ben giustifica,
in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e
sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di
riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che
la concessione edilizia può essere rilasciata anche in
mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che
è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché
non interviene il nulla osta paesaggistico.
La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che
l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i
provvedimenti.
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso
da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi
di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità
giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione
del necessario nulla osta paesaggistico.
---------------
Se può dubitarsi che con l’introduzione
del codice Urbani (d.lgs. n. 42/2004) l’autorizzazione
paesaggistica sia divenuta condizione di validità del
permesso di costruire, altrettanto non può dirsi per il
passato; la concessione edilizia di cui è causa è stata
rilasciata nel vigore della precedente disciplina,
allorquando il nulla osta paesaggistico era pacificamente da
considerare condizione di efficacia del titolo edilizio.
---------------
Per poter edificare in zona vincolata occorre ottenere due
titoli abilitativi: quello concessorio e l’autorizzazione
paesaggistica. I due titoli (TAR Campania, sez. VIII n.
2652/2012), permesso di costruire e nulla osta
paesaggistico, hanno contenuti differenti, seppure ambedue
relazionati al territorio, e l'inizio dei lavori in zona
paesaggisticamente vincolata richiede il rilascio di ambedue
i titoli. La mancanza di un'autorizzazione paesaggistica
rende non eseguibile le opere in questione e ben giustifica,
in caso di loro realizzazione, provvedimenti inibitori, e
sanzionatorio-ripristinatori, quale un'ordinanza di
riduzione in pristino.
Più volte la giurisprudenza amministrativa ha affermato che
la concessione edilizia può essere rilasciata anche in
mancanza di autorizzazione paesaggistica, fermo restando che
è inefficace, e i lavori non possono essere iniziati, finché
non interviene il nulla osta paesaggistico.
La giurisprudenza è inoltre costante nel ritenere che
l'inizio dei lavori è subordinato all'adozione di entrambi i
provvedimenti (in termini v. Cons. Stato, sez. VI,
02.05.2005, n. 2073; Cons. Stato, sez. V, 11.03.1995, n.
376; Cons. Stato, sez. V, 01.02.1990, n. 61; Cons. Stato,
sez. II, 10.09.1997, n. 468; Consiglio di Stato sez. VI n.
547 del 10.02.2006).
La garanzia, quindi, che il territorio non venga compromesso
da interventi assentiti con permesso di costruire ma privi
di nulla osta paesaggistico, è data dall'impossibilità
giuridica di intraprendere i lavori prima dell'acquisizione
del necessario nulla osta paesaggistico.
Nella fattispecie, come visto, l’autorizzazione
paesaggistica non è stata mai richiesta né tanto meno
acquisita, legittimamente, pertanto, l’amministrazione ha
ingiunto il ripristino dello stato dei luoghi senza dover
ricorrere (come in effetti non ha fatto) al potere di
autotutela (id est senza dover passare per
l’annullamento della concessione edilizia n. 15/1982).
Se, infatti, può dubitarsi che con l’introduzione del codice
Urbani (d.lgs. n. 42/2004) l’autorizzazione paesaggistica
sia divenuta condizione di validità del permesso di
costruire, altrettanto non può dirsi per il passato; la
concessione edilizia di cui è causa è stata rilasciata nel
vigore della precedente disciplina, allorquando il nulla
osta paesaggistico era pacificamente da considerare
condizione di efficacia del titolo edilizio (cfr. in
argomento C.d.S. n. 547/2006).
In conclusione sul punto, in difetto dell’autorizzazione
paesaggistica i danti causa della ricorrente non avrebbero
mai dovuto intraprendere i lavori sulla base di una
concessione edilizia inefficace
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 11.07.2017 n. 3731 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sul conflitto di interessi del personale delle
stazioni appaltanti ex art. 42, c. 2, del d.lgs. n. 50/2016.
La fattispecie descritta dall'art. 42, c. 2, del d.lgs. n.
50/2016, sul conflitto di interesse del personale delle
stazioni appaltanti, ha portata generale, come emerge
dall'uso della locuzione "in particolare", riferita
alla casistica di cui al richiamato art. 7 d.P.R. n.
62/2013, avente dunque mero carattere esemplificativo.
Considerate anche le finalità generali di presidio della
trasparenza e dell'imparzialità dell'azione amministrativa,
l'espressione "personale" di cui alla norma in
questione va riferita non solo ai dipendenti in senso
stretto (ossia, i lavoratori subordinati) dei soggetti
giuridici ivi richiamati, ma anche a quanti, in base ad un
valido titolo giuridico (legislativo o contrattuale), siano
in grado di validamente impegnare, nei confronti dei terzi,
i propri danti causa o comunque rivestano, di fatto o di
diritto, un ruolo tale da poterne obiettivamente influenzare
l'attività esterna.
Pertanto, nel caso di specie, è legittima l'esclusione di
una società assicurativa da una gara per l'affidamento di
servizi assicurativi, disposta ex art. 42, c. 2, d.lgs. n.
50/2017, per i particolari rapporti (societari e personali)
tra la compagnia di assicurazione, il suo agente generale
territorialmente competente per l'esecuzione del servizio
oggetto della gara (in caso di aggiudicazione) ed una terza
società - di fatto posseduta da quest'ultimo - a suo tempo
incaricata di redigere i capitolati di gara.
Invero, se la norma sul conflitto di interessi si applica
sicuramente ai dipendenti "operativi", a maggior
ragione andrà applicata anche agli organi ed uffici
direttivi e di vertice (nonché ai dirigenti e amministratori
pubblici), come si evince proprio dal richiamo all'art. 7
del d.P.R. n. 62 del 2013, per indicare le ampie categorie
di soggetti cui fare riferimento (Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza 11.07.2017 n. 3415 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Situazioni di conflitto di interessi del personale delle
stazioni appaltanti.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Conflitto di
interesse – Art. 42, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016 – Ambito
di estensione – Individuazione – Fattispecie.
E’ legittima l’esclusione dalla gara
per l’affidamento di servizi assicurativi, disposta ai sensi
dell’art. 42, comma 2, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, per
conflitto di interesse nascente dai particolari rapporti
(societari e personali) tra l’operatore economico (in
particolare l’agente generale di una Compagnia di
assicurazione territorialmente competente per l’esecuzione
del servizio oggetto della gara) ed una terza società
incaricata di redigere i Capitolati di gara, avendo la norma
portata generale ed essendo la locuzione “personale”, in
essa contenuta, riferita non solo ai dipendenti in senso
stretto (ossia, i lavoratori subordinati) dei soggetti
giuridici ivi richiamati, ma anche a quanti, in base ad un
valido titolo giuridico (legislativo o contrattuale), siano
in grado di validamente impegnare, nei confronti dei terzi,
i propri danti causa o comunque rivestano, di fatto o di
diritto, un ruolo tale da poterne obiettivamente influenzare
l’attività esterna (1).
---------------
(1)
Ha chiarito la Sezione che l’espressione “personale”,
contenuta nel comma 2 dell’art. 42, d.lgs. 18.04.2016, n. 50
si riferisce non solo ai dipendenti in senso stretto (ossia,
i lavoratori subordinati) dei soggetti giuridici ivi
richiamati, ma anche a quanti, in base ad un valido titolo
giuridico (legislativo o contrattuale), siano in grado di
validamente impegnare, nei confronti dei terzi, i propri
danti causa o comunque rivestano, di fatto o di diritto, un
ruolo tale da poterne obiettivamente influenzare l’attività
esterna.
Diversamente, si entrerebbe nella contraddizione di
escludere dalla portata della norma –dalla manifesta
funzione preventiva– proprio quei soggetti che più di altri
sono in grado di condizionare l’operato dei vari operatori
del settore (pubblici e privati) e dunque si darebbe vita a
situazioni di conflitto che la norma vuol prevenire, ossia i
componenti degli organi di amministrazione e controllo.
Invero, se la norma sul conflitto di interessi si applica
sicuramente ai dipendenti “operativi”, a maggior
ragione andrà applicata anche agli organi ed uffici
direttivi e di vertice (nonché ai dirigenti e amministratori
pubblici), come si evince proprio dal richiamo all’art. 7,
d.P.R. 16.04.2013, n. 62 (Codice di comportamento dei
pubblici dipendenti), per indicare le ampie categorie di
soggetti cui fare riferimento.
La Sezione ha escluso che tale conclusione sia incompatibile
con la previsione dell’art. 67 (Partecipazione precedente di
candidati o offerenti) dello stesso Codice dei contratti
pubblici, stante la diversità di presupposti delle due norme
(l’art. 67, che recepisce l'art. 41 della direttiva
2014/24/UE, in materia di partecipazione precedente di
candidati o offerenti, andrebbe infatti letto in stretta
correlazione con il precedente art. 66, relativo alla
particolare ipotesi della consultazione di mercato per la
preparazione dell’appalto), non richiedendosi, in
particolare, il profilo di interesse che caratterizza la
fattispecie di cui all’art. 42.
Ha ancora ricordato il giudice di appello che le ipotesi
previste nel comma 2 dell’art. 42, d.lgs. n. 56 del 2016 (in
termini generali ed astratti) si riferiscono a situazioni in
grado di compromettere, anche solo potenzialmente,
l’imparzialità richiesta nell’esercizio del potere
decisionale. Si verificano quando il “dipendente”
pubblico (ad esempio, il Rup ed i titolari degli uffici
competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche,
gli atti endoprocedimentali ed il provvedimento finale,
esecuzione contratto e collaudi) ovvero colui (anche un
soggetto privato) che sia chiamato a svolgere una funzione
strumentale alla conduzione della gara d’appalto, è
portatore di interessi della propria o dell’altrui sfera
privata, che potrebbero influenzare negativamente
l’esercizio imparziale ed obiettivo delle sue funzioni.
La definizione normativa, del resto, appare coerente con lo
ius receptum per cui le regole sull’incompatibilità,
oltre ad assicurare l’imparzialità dell’azione
amministrativa, sono rivolte ad assicurare il prestigio
della Pubblica amministrazione, ponendola al di sopra di
ogni sospetto, indipendentemente dal fatto che la situazione
incompatibile abbia in concreto creato o meno un risultato
illegittimo (Cons.
St., sez. VI, 13.02.2004, n. 563) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 11.07.2017 n. 3415
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Per
“danno ingiusto” risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c. si
intende non qualsiasi perdita economica, ma solo la perdita
economica ingiusta, ovvero verificatasi con modalità
contrarie al diritto.
Conseguenza logica della regola è quindi la necessità, per
chiunque pretenda un risarcimento, di dimostrare la cd.
spettanza del bene della vita, ovvero la necessità di
allegare e provare di essere titolare, in base ad una norma
giuridica, del bene della vita che ha perduto e di cui
attraverso la domanda giudiziale vorrebbe ottenere
l’equivalente economico.
Nel caso particolare che qui rileva, della domanda di
risarcimento proposta contro la pubblica amministrazione in
dipendenza da un atto amministrativo illegittimo, la
giurisprudenza ha allora affermato che il mero annullamento
giurisdizionale dell’atto, di per sé, non consente di
riconoscere un risarcimento.
E’ infatti necessario che il giudicato di annullamento
relativo abbia riconosciuto all’interessato, appunto, la
spettanza del bene della vita, il che non si verifica quando
l’annullamento avvenga per vizi formali, ovvero
principalmente per violazione delle norme sul procedimento
ovvero per difetto di motivazione.
In tali casi, infatti, l’annullamento non vincola senz’altro
l’amministrazione a riconoscere all’interessato quanto da
lui richiesto, e quindi non si può dire che un danno
ingiusto per non averlo ottenuto esista.
-----------------
- i primi due motivi di appello sono all’evidenza connessi,
vanno esaminati congiuntamente e risultano fondati, nei
termini che seguono. Per chiarezza, però, va resa esplicita
l’argomentazione giuridica che essi sottintendono;
- in termini generali, è del tutto nota, e non necessita
quindi di puntuali citazioni giurisprudenziali, la regola
del nostro ordinamento secondo la quale per “danno
ingiusto” risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c. si
intende non qualsiasi perdita economica, ma solo la perdita
economica ingiusta, ovvero verificatasi con modalità
contrarie al diritto. Conseguenza logica della regola è
quindi la necessità, per chiunque pretenda un risarcimento,
di dimostrare la cd. spettanza del bene della vita, ovvero
la necessità di allegare e provare di essere titolare, in
base ad una norma giuridica, del bene della vita che ha
perduto e di cui attraverso la domanda giudiziale vorrebbe
ottenere l’equivalente economico.
Nel caso particolare che qui rileva, della domanda di
risarcimento proposta contro la pubblica amministrazione in
dipendenza da un atto amministrativo illegittimo, la
giurisprudenza ha allora affermato -da ultimo, C.d.S. sez.
IV 30.01.2017 n. 361- che il mero annullamento
giurisdizionale dell’atto, di per sé, non consente di
riconoscere un risarcimento.
E’ infatti necessario che il
giudicato di annullamento relativo abbia riconosciuto
all’interessato, appunto, la spettanza del bene della vita,
il che non si verifica quando l’annullamento avvenga per
vizi formali, ovvero principalmente per violazione delle
norme sul procedimento ovvero per difetto di motivazione.
In
tali casi, infatti, l’annullamento non vincola senz’altro
l’amministrazione a riconoscere all’interessato quanto da
lui richiesto, e quindi non si può dire che un danno
ingiusto per non averlo ottenuto esista: così, fra le molte,
C.d.S. sez. V 06.03.2017 n. 1037 e 10.02.2015 n. 675, ove
ampie ulteriori citazioni
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.07.2017 n. 3392 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
dichiarazione di inizio attività non dà vita ad una
fattispecie provvedimentale di assenso tacito, bensì
riflette un atto del privato volto a comunicare l'intenzione
di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla
legge.
Con riferimento sia alle d.i.a. di cui alla normativa di
settore (con particolare riferimento all'edilizia) sia al
modello generale di cui all'art. 19, l. n. 241 del 1990,
presupposti indefettibili perché la d.i.a. possa essere
produttiva di effetti sono la completezza e la veridicità
delle dichiarazioni contenute nell'autocertificazione.
Infatti, il decorso del termine di trenta giorni non può
avere alcun effetto di legittimazione dell'intervento,
rispetto ad una dichiarazione inesatta o incompleta, con la
conseguenza che l'Amministrazione ha la facoltà e il potere
di inibire l'attività o di sospendere i lavori.
---------------
La DIA della ricorrente, riguardante, come evidenziato
dall'Amministrazione Comunale e come emergente dagli atti,
un intervento di sopraelevazione, anche se di modesta
entità, avrebbe dovuto, in verità, essere soggetta alla
verifica antisismica ai sensi dell'art. 2 del Regolamento
Regionale n. 2/2012, documento, invece, assente nel progetto
presentato.
In mancanza di tale accertamento, la DIA presentata dalla
ricorrente non poteva, dunque, neppure dirsi integrata e
legittimare le opere realizzate.
“La dichiarazione di inizio attività … ( infatti) non dà
vita ad una fattispecie provvedimentale di assenso tacito,
bensì riflette un atto del privato volto a comunicare
l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente
ammessa dalla legge. Con riferimento sia alle d.i.a. di cui
alla normativa di settore (con particolare riferimento
all'edilizia) sia al modello generale di cui all'art. 19, l.
n. 241 del 1990, presupposti indefettibili perché la d.i.a.
possa essere produttiva di effetti sono la completezza e la
veridicità delle dichiarazioni contenute
nell'autocertificazione. Infatti, il decorso del termine di
trenta giorni non può avere alcun effetto di legittimazione
dell'intervento, rispetto ad una dichiarazione inesatta o
incompleta, con la conseguenza che l'Amministrazione ha la
facoltà e il potere di inibire l'attività o di sospendere i
lavori" (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. I, 05.04.2013 n.
3506; TAR Campania, Napoli, Sez. II, 25.07.2016 n. 3869).
Da qui la legittimità dell'intervento di Roma Capitale di “reiezione
della DIA" e di comunicazione alla ricorrente della
mancanza di titolo in relazione ai lavori de quibus e
della perseguibilità degli stessi ai sensi di legge, effetti
vincolati della violazione del Regolamento Regionale posto a
tutela della stabilità e della sicurezza delle costruzioni,
con espressa previsione, però, della “facoltà di
ripresentare nuova DIA con le modifiche o le integrazioni
necessarie per renderla conforme alla normativa vigente".
Per le argomentazioni che precedono, il ricorso deve essere,
in conclusione, integralmente rigettato
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 05.07.2017 n. 7858 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Al G.O. la giurisdizione sulla azione
risarcitoria da parte dalla stazione appaltante nei
confronti delle imprese appaltatrici per condotte
fraudolente durante la procedura di scelta del contraente.
---------------
Giurisdizione e competenza – Appalti pubblici – Azione di
risarcimento danni proposta dalla stazione appaltante contro
le imprese aggiudicatarie per condotte scorrette poste in
essere nella fase di affidamento dei lavori – Giurisdizione
dell’A.G.O.
Rientra nella giurisdizione dell’A.G.O.
l’azione di risarcimento danni, a titolo di responsabilità
precontrattuale, proposta dalla stazione appaltante nei
confronti delle imprese aggiudicatarie per condotte
asseritamente fraudolente realizzatesi nella fase di
affidamento dei lavori e per il conseguente ritardo
nell’esecuzione dei lavori (1)
---------------
(1) I. - La pronuncia è stata resa dalle Sezioni unite della
Corte di cassazione in sede di regolamento preventivo di
giurisdizione proposto da un’impresa convenuta dinanzi al
giudice ordinario, adito da un’azienda regionale per
l’edilizia residenziale pubblica che aveva chiesto la
condanna al risarcimento del danno -a titolo di
responsabilità precontrattuale e contrattuale- per condotte
asseritamente fraudolente tenute da alcune ditte
appaltatrici di lavori edili, durante la procedura di gara,
che avevano comportato un grave ritardo nell'affidamento
definitivo e nell'esecuzione dei predetti lavori.
La Corte, rilevata l’assenza di precedenti di legittimità e
la sussistenza di un contrasto nella giurisprudenza dei TAR,
attribuisce, lapidariamente, al giudice ordinario la
cognizione della domanda risarcitoria attraverso un percorso
argomentativo che oblitera l’art. 133, comma 1, lett. e)
c.p.a. (che riserva alla giurisdizione esclusiva del G.A.
tutte le controversie in tema di “procedure di
affidamento di lavori pubblici, ivi incluse quelle
risarcitorie"), sebbene espressamente invocato dalla
impresa ricorrente per giustificare la devoluzione della
cognizione della controversia al giudice amministrativo.
Il ragionamento della Corte lascia sullo sfondo le
circostanze di fatto relative alla materia del contendere,
anche in ordine alla loro collocazione temporale rispetto al
provvedimento di aggiudicazione ed alla stipula del
contratto, e si incentra sulle seguenti motivazioni:
a) premette la peculiarità del caso concreto ravvisata nella
circostanza che parte attrice è una pubblica amministrazione
(si veda tuttavia
Corte cost. 15.07.2016, n. 179, in Foro it.,
2016, I, 3407, con nota di TRAVI e oggetto della
News US in data 20.07.2016, che ha sancito il
divieto di “giurisdizione frazionata” e
conseguentemente ha ammesso la proponibilità, nei casi di
giurisdizione esclusiva, della domanda da parte della P.A.
nei confronti del privato, conformandosi per altro ad un
consolidato indirizzo della giurisprudenza civile ed
amministrativa, tra cui si richiama
Cass. civ., sez. un., 09.03.2015, n. 4683 che ha
confermato
Cons. Stato, Ad. plen., 20.07.2012, n. 28 e
Cons. Stato, Sez. IV, 11.12.2007 n. 6358 in Dir.
e pratica amm., 2008, fasc. 2, 15 (m), con nota di DI
BENEDETTO in materia di concessioni ex art. 5, l. Tar);
b) rammenta che, in situazioni perfettamente speculari -allorquando
cioè è il privato ad invocare la tutela risarcitoria
precontrattuale nei confronti della P.A.- non si è mai
dubitato della competenza giurisdizionale del G.O.,
trattandosi di domanda risarcitoria afferente non alla fase
pubblicistica della gara, ma a quella prodromica nella quale
si lamenta la violazione degli obblighi di buona fede e
correttezza, con conseguente rilevanza del criterio di
riparto di giurisdizione fondato sulla natura e sulla
consistenza della situazione soggettiva dedotta in giudizio
(la giurisdizione esclusiva del G.A. in materia di
responsabilità precontrattuale è però stata affermata
–almeno nei casi di annullamento e revoca
dell’aggiudicazione- a partire da
Cons. Stato, Ad. Plen., 05.09.2005, n. 6, in Foro
it., 2009, III, 124, con nota di A. TRAVI, e successivamente
ribadita dal giudice amministrativo –cfr. tra le tante
Cons. Stato, sez. IV, 15.09.2014, n. 4674, in
Foro it., 2015, III, 106 con nota da di G. GALLI cui si
rinvia per ogni approfondimento di dottrina e
giurisprudenza– con l’avallo della medesima Corte
regolatrice della giurisdizione, cfr. Cass. civ., sez. un.,
30.07.2008, n. 20596);
c) evidenzia che il giudice ordinario è chiamato a decidere ogni
controversia avente ad oggetto un diritto soggettivo la cui
lesione sia stata non conseguente, bensì soltanto
occasionata –come nel caso di specie-, da un procedimento
amministrativo di affidamento di lavori o servizi;
d) esistono orientamenti contrastanti nella giurisprudenza
amministrativa di primo grado; sul punto deve tuttavia
evidenziarsi che
Cons. Stato, sez. V, 21.12.2014, n. 6455 ha
ammesso la domanda riconvenzionale a titolo di
responsabilità precontrattuale proposta dalla stazione
appaltante nei confronti dell’impresa; inoltre
Cons. Stato, sez. III, 31.08.2016, n. 3755, in Guida al
dir., 2016, fasc. 40, 84, con nota di MEZZACAPO, ha
affermato che <<La controversia instaurata da una
stazione appaltante contro un soggetto privato per il
risarcimento del danno derivante dalla mancata stipula, in
difetto di idonea giustificazione, del contratto da parte
del privato aggiudicatario rientra nella giurisdizione del
giudice amministrativo>> (nella specie, si trattava di
gara finalizzata alla stipula di contratto di mutuo).
II. - Sulla giurisdizione esclusiva del g.a. in materia di
procedure di affidamento di contratti pubblici si segnalano
in dottrina e giurisprudenza:
e) nel senso dell’ampia portata della clausola sulla giurisdizione
esclusiva del g.a., R. DE NICTOLIS, in Codice del processo
amministrativo commentato, 2017, IV ed., Milano, 1998 ss.;
della stessa autrice, Il riparto di giurisdizione, in
CARINGELLA - DE NICTOLIS – GAROFOLI - POLI, Milano, II ed.,
2008, 531 ss.; per una ricostruzione delle posizioni di
dottrina e giurisprudenza in punto di ammissibilità
dell’ampliamento dell’ambito della giurisdizione esclusiva
del g.a. fino a comprendere le cause introdotte dalla P.A.,
cfr. V. POLI, ibidem, 371 ss.;
f) la posizione assunta dalla recente pronuncia della
Adunanza plenaria 12.05.2017, n. 2, oggetto della
News US in data 16.05.2017, circa l’estensione e
i limiti della giurisdizione del G.A. in materia
risarcitoria relativamente alle procedure di affidamento di
appalti;
g) sui criteri generali di riparto della giurisdizione in materia
di contratti della P.A.,
Cass. civ, sez. un., ordinanza 10.04.2017, n. 9149,
secondo cui appartiene alla giurisdizione del giudice
ordinario «la cognizione delle domande di risoluzione o
di nullità di un contratto d'appalto pubblico (Cass.,
sez. un., 31/01/2017, n. 2482,
Cass., sez. un., 14/05/2015, n. 9861), perché
"rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario le
controversie aventi ad oggetto tutti gli atti della serie
negoziale successiva alla stipulazione del contratto, cioè
non solo quelle che attengono al suo adempimento e quindi
concernenti l'interpretazione dei diritti e degli obblighi
delle parti, ma anche quelle volte ad accertare le
condizioni di validità, efficacia, nullità o annullabilità
del contratto, siano esse inerenti o estranee o sopravvenute
alla struttura del contratto, comprese quelle derivanti da
irregolarità o illegittimità della procedura amministrativa
a monte e le fattispecie di radicale mancanza del
procedimento di evidenza pubblica o sussistenza di vizi che
ne affliggono singoli atti, accertabili incidentalmente da
detto giudice, al quale le parti possono rivolgersi senza
necessità del previo annullamento da parte del giudice
amministrativo" (Cass.,
sez. un., 05/04/2012, n. 5446,
Cass., sez. un., 31/05/2016, n. 11366).
Anche "la controversia in tema di appalto pubblico, avente
ad oggetto la valutazione di una clausola penale, la quale
si configura come strumento di commisurazione del danno,
comunque riducibile ove ecceda in misura palese dalla
concreta entità del pregiudizio, e che presuppone
l'esistenza dell'inadempimento, appartiene alla
giurisdizione del giudice ordinario, in quanto inerente ai
diritti derivanti dal predetto contratto" (Cass., sez. un.,
22/12/2011, n. 28342), come la controversia "relativa
all'inadempimento degli obblighi di collaborazione nascenti
dal contratto d'appalto" (Cass.,
sez. un., 03/05/2013, n. 10301)»;
h) sulla giurisdizione in materia di esecuzione del contratto,
Cass. civ., sez. un., ordinanza 18.11.2016 n. 23468
(oggetto della
News US 29.11.2016), secondo cui «Successivamente
alla stipula del contratto, conseguente ad un procedimento
di evidenza pubblica, tutte le controversie insorte durante
la fase di esecuzione del contratto, rientrano, di regola,
nella giurisdizione del giudice ordinario, tenuto conto
della condizione di parità tra le parti e, dunque, della
natura di diritto soggettivo che qualifica la posizione del
contraente privato, a meno che l’Amministrazione committente
non eserciti poteri autoritativi attraverso provvedimenti
espressione di discrezionalità valutativa, a fronte dei
quali la posizione soggettiva del privato si atteggia a
interesse legittimo. La controversia promossa dalla
cessionaria del ramo di azienda per ottenere l’annullamento
del provvedimento con cui la stazione appaltante ha respinto
la richiesta di sostituzione della mandataria del
raggruppamento temporaneo di imprese affidatario
dell’appalto, è devoluta alla cognizione del giudice
ordinario. Collocandosi nella fase esecutiva del contratto,
tale controversia esula dalla giurisdizione esclusiva
riconosciuta al giudice amministrativo in materia di
procedure di affidamento di appalti pubblici, ai sensi
dell’art. 133, comma 1, lettera e), numero 1), cod. proc.
amm., non venendo, inoltre, in rilievo l’esercizio di poteri
discrezionali» (Corte
di Cassazione, Sezz. unite civili,
ordinanza 04.07.2017 n. 16419 - commento tratto da e
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
valutare se un’opera ha effettivamente carattere precario
non basta accertare che questa sia costruita con materiali
facilmente rimovibili, ma è necessario dimostrare che essa
sia funzionalmente deputata al soddisfacimento di esigenze
oggettivamente temporanee, destinata quindi ad essere
smantellata non appena tali esigenze siano venute meno.
---------------
6. Con il primo motivo, la parte deduce la violazione
dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001 in quanto, la
struttura oggetto dell’atto impugnato sarebbe da considerare
alla stregua di un’opera precaria, realizzabile, in base
alla suddetta norme, in assenza di titolo edilizio.
7. Ritiene il Collegio che la censura sia del tutto
infondata.
8. Per valutare se un’opera ha effettivamente carattere
precario, non basta accertare che questa sia costruita con
materiali facilmente rimovibili, ma è necessario dimostrare
che essa sia funzionalmente deputata al soddisfacimento di
esigenze oggettivamente temporanee, destinata quindi ad
essere smantellata non appena tali esigenze siano venute
meno.
9. Nel caso concreto, le ricorrenti riferiscono che la
struttura di cui è causa avrebbe carattere precario in
quanto destinata ad essere smantellata una volta che verrà
realizzato l’ampliamento del magazzino ove una delle
ricorrenti svolge la sua attività di impresa.
10. Ciò tuttavia, contrariamente da quanto sostenuto dalle
interessate, non dimostra la precarietà dell’opera in
quanto, da un lato, l’esigenza di disporre di maggiori spazi
destinati a magazzino, per stessa ammissione delle
ricorrenti, non è affatto temporanea; ed in quanto, da altro
lato, neppure è stata allegata la sussistenza di elementi
che dimostrino l’effettiva, concreta ed attuale intenzione
di procedere all’ampliamento del magazzino esistente. Lo
smantellamento della struttura di cui è causa costituisce
dunque, per ora, oggetto di una mera intenzione futura per
la quale non sono stati neppure ipotizzati i termini di
esecuzione.
11. Si deve pertanto escludere che la stessa struttura possa
essere qualificata come opera precaria.
12. Per queste ragioni va ribadita l’infondatezza della
censura
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. II,
sentenza 04.07.2017 n. 1507 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Stabilisce l’art. 31, secondo comma, del d.P.R.
n. 380 del 2001 che il responsabile del competente ufficio
comunale, una volta <<…accertata l’esecuzione di interventi
in assenza di permesso […] ingiunge al proprietario e al
responsabile dell’abuso la demolizione, indicando nel
provvedimento l’area che verrà acquisita di diritto, ai
sensi del comma 3>>.
Il successivo comma 3, stabilisce a sua volta che <<Se il
responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e al
rispristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta
giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime […] sono
acquisiti di diritto al patrimonio del comune>>.
Queste norme dettano disposizioni estremamente puntuali che
non lasciano alcuna discrezionalità all’autorità
amministrativa. Pertanto, una volta accertata la
realizzazione di un’opera in assenza di titolo edilizio,
l’amministrazione deve senz’altro ordinarne la demolizione,
indicando l’area che verrà acquisita al patrimonio comunale
in caso di inottemperanza; e una volta accertata,
l’inottemperanza, l’area passa di diritto al patrimonio
comunale.
Sicché, in applicazione delle norme illustrate, il Comune
non poteva far altro che ingiungerne la demolizione, senza
obbligo di effettuare alcuna comparazione degli interessi
coinvolti, né alcuna valutazione circa la sanzione
appropriata da applicare.
---------------
13. Con il secondo motivo, viene dedotta la
violazione dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, in
quanto, a dire delle ricorrenti, l’Amministrazione, prima di
applicare la sanzione demolitoria, prevista da tale norma,
avrebbe dovuto avrebbe dovuto valutare la gravità
dell’illecito ed avrebbe dovuto dar conto delle risultanze
di tale valutazione nel corpo motivazionale del
provvedimento.
14. Con il terzo motivo, viene dedotta la violazione
dell’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 giacché,
secondo le interessate, l’Amministrazione avrebbe dovuto
illustrare nell’atto impugnato le ragioni di interesse
pubblico che l’hanno indotta a prevedere l’acquisizione
gratuita al patrimonio comunale dell’area di sedime in caso
di inottemperanza all’ordine di demolizione.
15. Infine con il quarto motivo, viene dedotto il
vizio di eccesso di potere per violazione dei principi di
legalità, imparzialità, trasparenza e ragionevolezza non
avendo l’Amministrazione effettuato una corretta
comparazione degli interessi coinvolti.
16. Anche queste censure sono infondate per le ragioni di
seguito esposte.
17. Stabilisce l’art. 31, secondo comma, del d.P.R. n. 380
del 2001 che il responsabile del competente ufficio
comunale, una volta <<…accertata l’esecuzione di
interventi in assenza di permesso […] ingiunge al
proprietario e al responsabile dell’abuso la demolizione,
indicando nel provvedimento l’area che verrà acquisita di
diritto, ai sensi del comma 3>>.
18. Il successivo comma 3, stabilisce a sua volta che <<Se
il responsabile dell’abuso non provvede alla demolizione e
al rispristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta
giorni dall’ingiunzione, il bene e l’area di sedime […] sono
acquisiti di diritto al patrimonio del comune>>.
19. Queste norme dettano disposizioni estremamente puntuali
che non lasciano alcuna discrezionalità all’autorità
amministrativa. Pertanto, una volta accertata la
realizzazione di un’opera in assenza di titolo edilizio,
l’amministrazione deve senz’altro ordinarne la demolizione,
indicando l’area che verrà acquisita al patrimonio comunale
in caso di inottemperanza; e una volta accertata,
l’inottemperanza, l’area passa di diritto al patrimonio
comunale.
20. Ciò premesso che, nel caso di specie, come visto, è
stata realizzata un’opera senza titolo (peraltro di non
trascurabili dimensioni); sicché, in applicazione delle
norme illustrate, il Comune di Uboldo non poteva far altro
che ingiungerne la demolizione, senza obbligo di effettuare
alcuna comparazione degli interessi coinvolti, né alcuna
valutazione circa la sanzione appropriata da applicare.
21. Ne consegue, che come anticipato, tutte le censure in
esame non possono essere condivise.
22. Per queste ragioni il ricorso va respinto
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. II,
sentenza 04.07.2017 n. 1507 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
9, comma 1, L. n. 122 del 1989 -secondo cui i proprietari di
immobili possono realizzare, nel sottosuolo o al pian
terreno degli stessi immobili, parcheggi da destinare a
pertinenza delle singole unità immobiliari anche in deroga
agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi
vigenti- è norma che non legittima qualsiasi operazione di
edificazione di parcheggi anche quando siano scollegata
ab origine dalla fruizione di unità immobiliare
residenziali.
Ai sensi dell'articolo 9 della legge n.
122/1989 i parcheggi pertinenziali possono essere realizzati
“anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai
regolamenti edilizi vigenti”, fatta eccezione per “i vincoli
previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed
ambientale”.
Si tratta di un beneficio concesso ai soggetti contemplati
dalle due disposizioni normative in esame al fine della
realizzazione del superiore interesse pubblico collegato
all'esigenza di decongestionare i centri abitati dalle auto
in sosta e di rendere più agevole la circolazione stradale
(con innegabili vantaggi per la collettività anche in
termini di riduzione dell'inquinamento atmosferico).
In sede di esame di un progetto concernente la richiesta di
realizzazione di parcheggi pertinenziali, l'amministrazione
comunale non può, pertanto, opporre un diniego fondato sul
mero contrasto con la normativa urbanistica, se non
incorrendo della violazione delle citate disposizioni
legislative.
---------------
Nel caso di specie, tuttavia, l’amministrazione comunale ha
opposto il contrasto non con la disciplina urbanistica ed
edilizia di riferimento della zona, ma, specificamente, la
normativa del piano urbanistico relativa proprio alla
edificazione di parcheggi pertinenziali interrati.
Non può essere contestato che, nonostante la deroga agli
strumenti urbanistici prevista dalla legge, rimanga in capo
all’amministrazione comunale il potere di regolamentare le
condizioni ed i presupposti per la realizzabilità
dell’intervento, tenuto anche conto che la stessa normativa
primaria prevede il rispetto, oltre che dei vincoli
ambientali e paesaggistici, anche delle prescrizioni
adottate dall’amministrazione comunale.
Ed invero i parcheggi possono essere realizzati “ad uso
esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree
pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto
con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della
superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei
corpi idrici”.
---------------
Quanto all’invocata illegittimità del regolamento comunale,
occorre evidenziare che le prescrizioni adottate
dall’amministrazione comunale -in primis quella che richiede
che il parcheggio sia realizzato in area di pertinenza delle
residenze servite specificandone le condizioni- non
travalicano nel loro complesso il limite della
ragionevolezza e della proporzionalità, atteso che esse sono
state correttamente poste in attuazione della normativa
statale e regionale.
In particolare legittimamente l’amministrazione, con il
limite della superficie occupabile, la indicazione di un
numero massimo di piani interrati e la proporzione fra
parcheggio ed aree servite, ha definito un congruo rapporto
di pertinenzialità fra le abitazioni ed il parcheggio,
nonché le dimensioni massime entro cui l’opera deve essere
contenuta.
---------------
Com'è noto, l'art. 9, c. 1, della L. 122/1989 stabilisce che
i proprietari di immobili possono realizzare, nel sottosuolo
o al pian terreno degli stessi immobili, parcheggi da
destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari anche
in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti.
Tale disposizione, che introduce un regime edilizio di
favore per la realizzazione dei parcheggi urbani, si
riferisce, oltre che ai parcheggi edificati nel medesimo
fabbricato, ai parcheggi in aree “pertinenziali” e va
interpretata rigorosamente in considerazione delle finalità
della legge nel cui contesto risulta inserita.
In particolare occorre interpretare la nozione di
“pertinenzialità” in misura tale da non legittimare
qualsiasi operazione di edificazione di parcheggi anche
quando siano scollegata ab origine dalla fruizione di unità
immobiliare residenziali (cfr. Cass. pen 26327/2009 e Cass.
pen. 45068/2011 secondo cui la realizzazione di parcheggi in
forza del regime agevolato previsto dalla L. n. 122 del
1989, art. 9 può avvenire ad opera di terzi e in aree anche
non limitrofe a quelle ove insistono gli immobili “a
condizione che detti immobili siano individuati al momento
di presentazione della d.i.a. così da assicurare in concreto
l'esistenza di una relazione pertinenziale tra i parcheggi e
le singole unità e da escludere che si versi in ipotesi di
iniziativa speculativa, ipotesi soggetta all'ordinaria
disciplina urbanistica ed edilizia”).
Ebbene, secondo l’orientamento giurisprudenziale, a cui il
Collegio ritiene di dover aderire, condizione essenziale per
l'applicazione della normativa ex art. 9, c. 1 (cfr. in
termini Cons. Stato da ultimo n. 2116/2016) è che si tratti
di parcheggi "pertinenziali", nel senso che devono essere al
servizio di "singole unità immobiliari".
In tal caso, si deve trattare di parcheggi fruibili solo da
chi si trova in un determinato rapporto con tali unità
immobiliari. Quest'ultimo presuppone una relazione di
“pertinenzialità materiale” tale, cioè, da evocare un
rapporto d'immediata contiguità fisica tra il fabbricato
principale e l'area asservita (che sia sottostante, interna
o esterna) escludendo dunque che l’area a parcheggio possa
liberamente individuarsi sul territorio comunale.
---------------
1. Il ricorso è infondato.
1.2. Con il presente gravame il ricorrente impugna,
chiedendone l’annullamento, la disposizione dirigenziale n.
372 del 12.05.2016, con cui il Comune di Napoli ha respinto
la richiesta di permesso di costruire inoltrata dal
ricorrente per la realizzazione di un parcheggio multipiano
meccanizzato interrato su suolo sito in Napoli alla via
Mariano D’Amelio n. 78, in area classificata come zona A,
quale unità di spazio scoperto concluse – giardini, orti e
spazi pavimentati pertinenti a unità edilizie di base
(regolato dall’art. 114 della variante generale approvata
con D.P.R.G.C. n. 323 dell’11.06.2004).
A seguito del preavviso di rigetto, fondato su una pluralità
di motivazioni, l’istante ha proceduto ad apportare
modifiche ed integrazioni, anche documentali, al progetto
originario.
Ciò nonostante, l’amministrazione ha continuato ad opporre,
a sostegno del rigetto della istanza, le seguenti ragioni:
- la mancata documentazione della legittimità dello stato dei
luoghi;
- la non assentibilità dell’intervento ai sensi dell’art. 17 delle
n.t.a. non rientrando l’intervento nella tipologia di
parcheggio interrato come ivi definito (mancato rispetto del
vincolo di proiezione delle opere edilizie del 60% del lotto
fino a 500 mq e del rapporto di 1 mq di parcheggio per ogni
3 mq di abitazione cui è asservito);
- la mancata documentazione dell’identificazione puntuale delle
abitazioni di cui il parcheggio costituirebbe pertinenza;
- il contrasto del progetto (che prevede cinque piani interrati)
con il medesimo art. 17, che ne consente fino a quattro.
2. Giova preliminarmente rammentare che, ai sensi
dell'articolo 9 della legge n. 122/1989 e dell'articolo 6
della legge della Regione Campania n. 19/2001, i parcheggi
pertinenziali possono essere realizzati “anche in deroga
agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti”,
fatta eccezione per “i vincoli previsti dalla
legislazione in materia paesaggistica ed ambientale”.
Si tratta di un beneficio concesso ai soggetti contemplati
dalle due disposizioni normative in esame al fine della
realizzazione del superiore interesse pubblico collegato
all'esigenza di decongestionare i centri abitati dalle auto
in sosta e di rendere più agevole la circolazione stradale
(con innegabili vantaggi per la collettività anche in
termini di riduzione dell'inquinamento atmosferico).
2.1. In sede di esame di un progetto concernente la
richiesta di realizzazione di parcheggi pertinenziali,
l'amministrazione comunale non può pertanto opporre un
diniego fondato sul mero contrasto con la normativa
urbanistica, se non incorrendo della violazione delle citate
disposizioni legislative.
3. Nel caso di specie, tuttavia, l’amministrazione comunale
ha opposto il contrasto non con la disciplina urbanistica ed
edilizia di riferimento della zona, ma, specificamente, la
normativa del piano urbanistico relativa proprio alla
edificazione di parcheggi pertinenziali interrati.
Non può essere contestato che, nonostante la deroga agli
strumenti urbanistici prevista dalla legge, rimanga in capo
all’amministrazione comunale il potere di regolamentare le
condizioni ed i presupposti per la realizzabilità
dell’intervento, tenuto anche conto che la stessa normativa
primaria prevede il rispetto, oltre che dei vincoli
ambientali e paesaggistici, anche delle prescrizioni
adottate dall’amministrazione comunale.
Ed invero i parcheggi possono essere realizzati “ad uso
esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree
pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto
con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della
superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei
corpi idrici”.
3.1. Ciò posto, correttamente il Comune ha opposto la non
assentibilità dell’intervento ai sensi dell’art. 17 n.t.a..
Ed infatti, dalla semplice visione dei grafici allegati al
progetto si può chiaramente arguire come l’intervento non
risponde alle caratteristiche richieste dalla normativa
tecnica di attuazione laddove il manufatto non presenta un
contenimento della superficie occupata entro il 60% del
lotto (di superficie inferiore ai 500 mq), né risulta la
sussistenza di un valido titolo edilizio in relazione
all’impermeabilizzazione dell’area (connotata da unità di
spazio scoperto concluse – giardini, orti e spazi
pavimentati pertinenti a unità edilizie di base di cui al
citato art. 114). Analogamente va esclusa la assentibilità
dell’intervento in virtù della previsione di cinque piani
interrati, in contrasto con il medesimo art. 17 che ne
consente un massimo di quattro.
3.2. Quanto all’invocata illegittimità del regolamento
comunale, occorre evidenziare che le prescrizioni adottate
dall’amministrazione comunale -in primis quella che
richiede che il parcheggio sia realizzato in area di
pertinenza delle residenze servite specificandone le
condizioni- non travalicano nel loro complesso il limite
della ragionevolezza e della proporzionalità, atteso che
esse sono state correttamente poste in attuazione della
normativa statale e regionale.
In particolare legittimamente l’amministrazione, con il
limite della superficie occupabile, la indicazione di un
numero massimo di piani interrati e la proporzione fra
parcheggio ed aree servite, ha definito un congruo rapporto
di pertinenzialità fra le abitazioni ed il parcheggio,
nonché le dimensioni massime entro cui l’opera deve essere
contenuta.
4. A prescindere peraltro dalla regolamentazione comunale,
l’iniziativa non appare conforme alle disposizioni
legislative invocate nell’istanza stessa.
Il Comune fonda il rigetto sulla constatazione che
l’iniziativa prospettata non rientra nella fattispecie di
favore in quanto l’area non può essere qualificata come
pertinenziale in quanto non conforme ai criteri normativi
per qualificarla come tale.
Com'è noto infatti, l'art. 9, c. 1, della L. 122/1989
stabilisce che i proprietari di immobili possono realizzare,
nel sottosuolo o al pian terreno degli stessi immobili,
parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità
immobiliari anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai
regolamenti edilizi vigenti.
4.1. Tale disposizione, che introduce un regime edilizio di
favore per la realizzazione dei parcheggi urbani, si
riferisce, oltre che ai parcheggi edificati nel medesimo
fabbricato, ai parcheggi in aree “pertinenziali” e va
interpretata rigorosamente in considerazione delle finalità
della legge nel cui contesto risulta inserita.
In particolare occorre interpretare la nozione di “pertinenzialità”
in misura tale da non legittimare qualsiasi operazione di
edificazione di parcheggi anche quando siano scollegata
ab origine dalla fruizione di unità immobiliare
residenziali (cfr. Cass. pen 26327/2009 e Cass. pen.
45068/2011 secondo cui la realizzazione di parcheggi in
forza del regime agevolato previsto dalla L. n. 122 del
1989, art. 9 può avvenire ad opera di terzi e in aree anche
non limitrofe a quelle ove insistono gli immobili “a
condizione che detti immobili siano individuati al momento
di presentazione della d.i.a. così da assicurare in concreto
l'esistenza di una relazione pertinenziale tra i parcheggi e
le singole unità e da escludere che si versi in ipotesi di
iniziativa speculativa, ipotesi soggetta all'ordinaria
disciplina urbanistica ed edilizia”).
4.2. Ebbene, secondo l’orientamento giurisprudenziale, a cui
il Collegio ritiene di dover aderire, condizione essenziale
per l'applicazione della normativa ex art. 9, c. 1 (cfr. in
termini Cons. Stato da ultimo n. 2116/2016) è che si tratti
di parcheggi "pertinenziali", nel senso che devono
essere al servizio di "singole unità immobiliari".
In tal caso, si deve trattare di parcheggi fruibili solo da
chi si trova in un determinato rapporto con tali unità
immobiliari. Quest'ultimo presuppone una relazione di “pertinenzialità
materiale” tale, cioè, da evocare un rapporto
d'immediata contiguità fisica tra il fabbricato principale e
l'area asservita (che sia sottostante, interna o esterna)
escludendo dunque che l’area a parcheggio possa liberamente
individuarsi sul territorio comunale.
4.3. Nel caso di specie, di tale nesso di corrispondenza il
ricorrente non fornisce alcuna dimostrazione, né in sede
procedimentale né in sede giudiziale, rimanendo dunque
assolutamente incerta la riconducibilità del progetto
all’art. 9 L. 122/1989, invocato dallo stesso per ottenere
l’autorizzazione edilizia. In questa prospettiva appare
legittimo il diniego opposto dagli uffici del Comune,
diniego peraltro poi motivato anche alla luce della
regolamentazione comunale che specifica i requisiti dei
parcheggi da realizzarsi.
4.4. Anche a livello di regolamentazione locale appare
peraltro incontestato –in quanto oggetto di censure
circostanziate- che i criteri fissati dalla citata delibera
n. 129/2012 per la realizzazione del progetto in questione
-ovvero una più stringente nozione di pertinenzialità che si
manifesta nel rapporto di 1 mq di superficie a parcheggio
ogni 3 mq di superficie servita- non sono rispettati dal
progetto presentato dai ricorrenti.
5. Correttamente dunque gli uffici comunali, in conformità
alla normativa primaria e secondaria applicabile alla
suddetta fattispecie, come vigente al momento dell’adozione
del provvedimento, hanno rigettato la richiesta di permesso
edilizio con motivazione ampia ed esaustiva da cui risultano
chiaramente le ragioni del diniego e le norme violate
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 27.06.2017 n. 3505 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costruzioni da eseguirsi nelle zone sismiche -
Violazioni della disciplina antisismica - Inefficacia della
sanatoria - Ultimazione dei lavori - Criteri -
Giurisprudenza - Artt. 36, 65-72, 93-95 del D.P.R. n.
380/2001.
Il conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai
sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, comporta
l'estinzione dei soli reati contravvenzionali previsti dalle
norme urbanistiche vigenti, nella cui nozione non rientra la
disciplina per le costruzioni da eseguirsi nelle zone
sismiche, che ha una oggettività giuridica diversa da quella
riguardante il corretto assetto del territorio.
Inoltre, l'ultimazione dei lavori, coincide con la
conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni,
quali gli intonaci e gli infissi (Sez. 3, n. 39733 del
18/10/2011, Ventura), di modo che anche il suo utilizzo
effettivo, ancorché accompagnato dall'attivazione delle
utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è
sufficiente per ritenere sussistente l'ultimazione
dell'immobile abusivamente realizzato (Sez. 3, n. 48002 del
17/09/2014, Surano) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.06.2017 n. 30654
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono
sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la
posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle
determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di
merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che
non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle
esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi
derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di
affidamento qualificato del privato a una specifica
destinazione del suolo, nel caso non sussistenti.
Va altresì evidenziato che nemmeno può trovare tutela in
sede giurisdizionale una aspettativa non giuridicamente
qualificata in relazione ad una migliore collocazione o
destinazione della propria area.
Ad abundantiam, va richiamato il consolidato orientamento
giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, secondo il quale
“le osservazioni presentate in occasione dell’adozione di un
nuovo strumento di pianificazione del territorio
costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento
di formazione dello strumento medesimo, con conseguente
assenza in capo all’Amministrazione a ciò competente di un
obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile
dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano
stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte
per la destinazione delle singole aree; pertanto, seppure
l’Amministrazione è tenuta ad esaminare le osservazioni
pervenute, non può però essere obbligata ad una analitica
confutazione di ciascuna di esse, essendo sufficiente per la
loro reiezione il mero contrasto con i principi ispiratori
del piano”.
---------------
La più recente evoluzione giurisprudenziale ha evidenziato
che “all’interno della pianificazione urbanistica possano
trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed
ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di
evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un
equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi”.
E ciò in quanto l’urbanistica, ed il correlativo esercizio
del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul
piano giuridico, solo come un coordinamento delle
potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà,
così offrendone una visione affatto minimale, ma devono
essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali
sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo
complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio
dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere
conto delle esigenze legate alla tutela di interessi
costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli
contemplati dall’articolo 9 della Costituzione; in tale
contesto spetta all’Ente esponenziale effettuare una
mediazione tra i predetti valori e gli altri interessi
coinvolti, quali quelli della produzione o delle attività
antropiche più in generale, che comunque non possono
ritenersi equiordinati in via assoluta.
In tale prospettiva, deve pure sottolinearsi che, per
costante giurisprudenza, la destinazione di un’area a verde
agricolo non implica necessariamente che la stessa soddisfi
in modo diretto e immediato interessi agricoli, ben potendo
giustificarsi con le esigenze dell’ordinato governo del
territorio, quale la necessità di impedire ulteriori
edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle
condizioni di vivibilità, assicurando la quota di valori
naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli
effetti dell’espansione dell’aggregato urbano, come accade
nella fattispecie de qua.
A questo proposito, è poi utile aggiungere che, anche
laddove si fosse al cospetto di aree ampiamente urbanizzate,
non per questo se ne può escludere la rilevanza dal punto di
vista ambientale, poiché tali dati di fatto si prestano anzi
a far emergere un interesse alla conservazione del suolo
inedificato, per ragioni di compensazione ambientale.
---------------
L’implementazione introdotta nella fase di approvazione
–ossia la previsione della rete ecologica regionale– è il
risultato della necessità di recepire le indicazioni
contenute in provvedimenti di Autorità sovraordinate e che
per legge integrano il P.G.T., come le prescrizioni di
provenienza regionale.
In tali casi trova applicazione l’art. 13, comma 9, della
legge regionale n. 12 del 2005 che esclude la necessità di
nuova pubblicazione in caso di approvazione di “…
controdeduzioni alle osservazioni e di recepimento delle
prescrizioni provinciali e regionali …”.
Del resto, nessuna disposizione impone di concedere nuovi
termini per la presentazione di ulteriori osservazioni,
laddove non sia stato dimostrato, come nella controversia de
qua, che fra la fase di adozione e quella di approvazione
siano intervenuti mutamenti tali da determinare un
cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del
piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione.
---------------
Del resto, le scelte riguardanti la classificazione dei
suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale
ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto
alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte
di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo
che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle
esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi
derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di
affidamento qualificato del privato a una specifica
destinazione del suolo, nel caso non sussistenti (Consiglio
di Stato, IV, 12.05.2016, n. 1907; TAR Lombardia, Milano, II,
27.02.2017, n. 451).
Va altresì evidenziato che nemmeno può trovare tutela in
sede giurisdizionale una aspettativa non giuridicamente
qualificata in relazione ad una migliore collocazione o
destinazione della propria area (TAR Lombardia, Milano, II,
30.03.2017, n. 761).
Infine, gli specifici rilievi formulati dalla parte
ricorrente, oltre ad impingere nel merito delle scelte
dell’Amministrazione, non si fondano su elementi obiettivi
in grado di dimostrare l’abnormità o l’evidente
irragionevolezza delle determinazioni dell’Amministrazione
in relazione ai dati fattuali posti alla base delle stesse,
soprattutto avuto riguardo alla decisione di salvaguardare
al massimo livello l’area in questione; in assenza,
peraltro, di un affidamento tutelato al cambio di
destinazione dell’area in capo alla ricorrente, la scelta
dell’Amministrazione non può essere ritenuta illegittima
(cfr., in tal senso, TAR Lombardia, Milano, II, 25.05.2017,
n. 1166; 30.11.2016, n. 2271).
3.2. Ad abundantiam, va richiamato il consolidato
orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio,
secondo il quale “le osservazioni presentate in occasione
dell’adozione di un nuovo strumento di pianificazione del
territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel
procedimento di formazione dello strumento medesimo, con
conseguente assenza in capo all’Amministrazione a ciò
competente di un obbligo puntuale di motivazione oltre a
quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione
illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte
discrezionali assunte per la destinazione delle singole
aree; pertanto, seppure l’Amministrazione è tenuta ad
esaminare le osservazioni pervenute, non può però essere
obbligata ad una analitica confutazione di ciascuna di esse,
essendo sufficiente per la loro reiezione il mero contrasto
con i principi ispiratori del piano” (TAR Lombardia,
Milano, II, 30.03.2017, n. 761; 30.11.2016, n. 2271;
altresì, TAR Toscana, I, 06.09.2016, n. 1317; TAR Lombardia,
Milano, II, 26.07.2016, n. 1505).
...
La più recente evoluzione giurisprudenziale ha evidenziato
che “all’interno della pianificazione urbanistica possano
trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed
ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di
evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un
equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi”
(così, Consiglio di Stato, IV, 21.12.2012, n. 6656). E ciò
in quanto l’urbanistica, ed il correlativo esercizio del
potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul
piano giuridico, solo come un coordinamento delle
potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà,
così offrendone una visione affatto minimale, ma devono
essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali
sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo
complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio
dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere
conto delle esigenze legate alla tutela di interessi
costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli
contemplati dall’articolo 9 della Costituzione; in tale
contesto spetta all’Ente esponenziale effettuare una
mediazione tra i predetti valori e gli altri interessi
coinvolti, quali quelli della produzione o delle attività
antropiche più in generale, che comunque non possono
ritenersi equiordinati in via assoluta (cfr. Consiglio di
Stato, IV, 10.05.2012, n. 2710; altresì, 22.02.2017, n. 821;
13.10.2015, n. 4716).
In tale prospettiva, deve pure sottolinearsi che, per
costante giurisprudenza, la destinazione di un’area a verde
agricolo non implica necessariamente che la stessa soddisfi
in modo diretto e immediato interessi agricoli, ben potendo
giustificarsi con le esigenze dell’ordinato governo del
territorio, quale la necessità di impedire ulteriori
edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle
condizioni di vivibilità, assicurando la quota di valori
naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli
effetti dell’espansione dell’aggregato urbano, come accade
nella fattispecie de qua (cfr., ex multis,
Consiglio di Stato, IV, 12.02.2013, n. 830; 16.11.2011, n.
6049; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2017, n. 451).
A questo proposito, è poi utile aggiungere che, anche
laddove si fosse al cospetto di aree ampiamente urbanizzate,
non per questo se ne può escludere la rilevanza dal punto di
vista ambientale, poiché tali dati di fatto si prestano anzi
a far emergere un interesse alla conservazione del suolo
inedificato, per ragioni di compensazione ambientale (TAR
Lombardia, Milano, II, 21.02.2017, n. 434).
...
L’implementazione
introdotta nella fase di approvazione –ossia la previsione
della rete ecologica regionale (cfr. all. 11 al ricorso)– è
il risultato della necessità di recepire le indicazioni
contenute in provvedimenti di Autorità sovraordinate e che
per legge integrano il P.G.T., come le prescrizioni di
provenienza regionale. In tali casi trova applicazione
l’art. 13, comma 9, della legge regionale n. 12 del 2005 che
esclude la necessità di nuova pubblicazione in caso di
approvazione di “… controdeduzioni alle osservazioni e di
recepimento delle prescrizioni provinciali e regionali …”.
Del resto, nessuna disposizione impone di concedere nuovi
termini per la presentazione di ulteriori osservazioni,
laddove non sia stato dimostrato, come nella controversia
de qua, che fra la fase di adozione e quella di
approvazione siano intervenuti mutamenti tali da determinare
un cambiamento radicale delle caratteristiche essenziali del
piano e dei criteri che presiedono alla sua impostazione
(cfr., in tal senso, TAR Lombardia, Milano, II, 05.04.2017,
n. 798) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 20.06.2017 n. 1371 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di bellezze paesaggistiche - Luogo
soggetto a vincolo paesaggistico - Configurabilità del reato
di cui all'articolo 734 cod. pen. - Elementi - Alterate o
turbate le visioni di bellezza estetica e panoramica - Artt.
181, co. 1-bis, d.lgs. n. 42/2004 e 734 cod. pen..
Le bellezze paesaggistiche sono il risultato di componenti
varie (la conformazione del terreno, la vegetazione
naturale, la distribuzione, il tipo e l'ubicazione dei
fabbricati esistenti, il paesaggio e la cornice
complessiva), per cui anche il semplice spianamento del
terreno e la distruzione della vegetazione integrano il
reato di cui all'articolo 734 cod. pen. (Cass. Sez. 3, n.
1803 del 02/12/1981 - dep. 19/02/1982, Marcon).
Inoltre, per la realizzazione del reato previsto dall'art.
734 cod. pen., non è necessaria l'irreparabile distruzione o
alterazione della bellezza naturale di un determinato luogo
soggetto a vincolo paesaggistico, essendo sufficiente che, a
causa delle nuove opere edilizie, siano in qualsiasi modo
alterate o turbate le visioni di bellezza estetica e
panoramica offerte dalla natura (Cass. Sez. 6, n. 11929 del
21/03/1977 - dep. 29/09/1977, Oricchio) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.06.2017 n. 30157 -
tratto da e link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione urbanistica di "costruzione" - Interventi
di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio -
Permesso di costruire - Artt. 10, 44, 53, 54, 62, 64, 65,
71, 72 e 75, 93, 94 e 95, d.P.R. n. 380/2001.
Costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di
costruire gli interventi di nuova costruzione. In tema di
tutela del territorio, costituisce "costruzione" in
senso tecnico-giuridico qualsiasi manufatto tridimensionale,
comunque realizzato, che comporti una ben definita
occupazione del terreno e dello spazio aereo (Sez. 3, n.
5624 del 17/11/2011 - dep. 14/02/2012, Trovato) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.06.2017 n. 30157 -
tratto da e link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati urbanistici - Opere abusive -
Responsabilità del proprietario non committente - Onere
della prova - Elementi indiziari - Compartecipazione morale.
In tema di reati urbanistici, la prova della responsabilità
del proprietario non committente delle opere abusive non può
essere desunta esclusivamente dalla piena disponibilità
giuridica e di fatto del suolo e dall'interesse specifico ad
edificare la nuova costruzione, ma necessita di ulteriori
elementi, sintomatici della sua compartecipazione, anche
morale, alla realizzazione del manufatto (quali la
presentazione della domanda di condono edilizio, i rapporti
di parentela o affinità tra esecutore materiale dell'opera e
proprietario, la presenza di quest'ultimo "in loco" e
lo svolgimento di attività di vigilanza nell'esecuzione dei
lavori o il regime patrimoniale dei coniugi), è altrettanto
vero, nel caso di specie, vi erano alcuni degli elementi
sopra indicati (rapporti di parentela o affinità tra
esecutore materiale dell'opera e proprietario; regime
patrimoniale dei coniugi) che, aggiunti alla piena
disponibilità giuridica e di fatto del suolo ed
all'interesse specifico (e comune al coniuge dichiaratosi in
via esclusiva committente) ad edificare la nuova
costruzione, consentivano di ritenere provata detta
compartecipazione morale (Cass. Sez. 3, n. 38492 del
16/09/2016, Avanzato) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.06.2017 n. 30157 -
tratto da e link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Tettoia di copertura su un terrazzo di un
immobile - Necessità del preventivo rilascio del permesso di
costruire - Presupposti - Art. 44, c. 1, lett. b), d.P.R. n.
380/2001.
Integra il reato previsto dall'art. 44, lett. b), del d.P.R.
n. 380 del 2001 la realizzazione, senza il preventivo
rilascio del permesso di costruire, di una tettoia di
copertura che, non rientrando nella nozione
tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una
propria individualità fisica e strutturale, costituisce
parte integrante dell'edificio sul quale viene realizzata
(Sez. 3, n. 42330 del 26/06/2013, Salanitro e altro, Rv.
257290).
Tettoia di copertura di un terrazzo -
Pertinenza - Requisito della individualità fisica e
strutturale - Nozione tecnico-giuridica di pertinenza in
urbanistica.
La costruzione di una tettoia di copertura di un terrazzo di
un immobile non può infatti qualificarsi come pertinenza, in
quanto si tratta di un'opera priva del requisito della
individualità fisica e strutturale propria della pertinenza,
costituendo parte integrante dell'edificio sul quale viene
realizzata, rappresentandone un ampliamento. Essa pertanto,
in difetto del preventivo rilascio del permesso di
costruire, integra il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n.
380 del 2001 (Sez. 3, n. 40843 del 11/10/2005, Daniele).
Infatti, deve ritenersi che la tettoia di un edificio non
rientra nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza, ma
costituisce piuttosto parte dell'edificio cui aderisce: ciò
in quanto in urbanistica il concetto di pertinenza ha
caratteristiche sue proprie, diverse da quelle definite dal
codice civile, riferendosi ad un'opera autonoma dotata di
una propria individualità, in rapporto funzionale con
l'edificio principale, laddove la parte dell'edificio
appartiene senza autonomia alla sua struttura (Sez. 3, n.
17083 del 07/04/2006, Miranda e altro).
Costituisce quindi nuova costruzione ai sensi del d.P.R. n.
380 del 2001 qualsiasi manufatto edilizio fuori terra o
interrato. Né può farsi ricorso alla nozione di ampliamento
dell'edificio preesistente, trattandosi di nuova
costruzione, sia pure accessoria a detto edificio (così,
complessivamente, Sez. 3, n. 21351 del 06/05/2010, Savino).
Natura precaria delle opere di chiusura
e di copertura di spazi e superfici - Esclusione di
concessione e/o autorizzazione - Criterio strutturale e non
funzionale - Facile rimovibilità dell'opera - Presupposti e
limiti - Art. 20 L.R. Sicilia n. 4/2003 - Giurisprudenza.
La natura precaria delle opere di chiusura e di copertura di
spazi e superfici, per le quali l'art. 20 della legge
Regione Sicilia n. 4 del 2003 non richiede concessione e/o
autorizzazione, va intesa secondo un criterio strutturale,
ovvero nel senso della facile rimovibilità dell'opera, e non
funzionale, ossia con riferimento alla temporaneità e
provvisorietà dell'uso, sicché tale disposizione, di
carattere eccezionale, non può essere applicata al di fuori
dei casi ivi espressamente previsti (Sez. 3, n. 48005 del
17/09/2014, Gulizzi; conf. Sez. 3, n. 16492 del 16/03/2010,
Pennisi; Sez. 3, n. 35011 del 26/04/2007, Camarda).
Ed in specie, proprio per le accertate dimensioni non
trascurabili del manufatto posto alla sommità dell'edificio,
la normativa regionale non deve ritenersi applicabile (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.06.2017 n. 30121 - tratto da e
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 133, c. 1, lett. b) ed f), c.p.a. ha
espressamente salvaguardato la giurisdizione del T.s.a.p.,
regolata dalla previgente normativa, di cui al R.D. n.
1775/1933, estesa anche ai provvedimenti che, pur se
promananti da autorità diverse da quelle specificamente
preposte alla tutela delle acque, siano caratterizzati
dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche,
concorrendo, in concreto, a disciplinare la realizzazione,
la localizzazione, la gestione, e l'esercizio delle opere
idrauliche.
In particolare, la cognizione del T.S.A.P. si estende anche
ai casi in cui il provvedimento amministrativo, pur
incidendo su interessi più generali e diversi rispetto a
quelli specifici relativi alla demanialità delle acque, ed
ai rapporti dei concessionari dei beni del demanio idrico,
attiene comunque all'utilizzazione degli stessi,
interferendo, immediatamente e direttamente, su opere
destinate a tale utilizzazione, comprendendo quindi i
ricorsi proposti avverso i provvedimenti che, come quello
per cui è causa, hanno un'incidenza diretta sulla materia
delle acque pubbliche, e che concorrono, in concreto, a
disciplinare la realizzazione, la localizzazione, la
gestione e l'esercizio delle opere idrauliche, restando
invece escluse da tale giurisdizione solo le controversie in
cui tale incidenza si manifesta in via del tutto marginale o
riflessa.
---------------
In via preliminare, il Collegio deve scrutinare l’eccezione
di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, in
favore di quella del Tribunale Superiore delle Acque
Pubbliche, sollevata dalla difesa regionale, e su cui la
ricorrente non ha replicato alcunché, che risulta fondata.
L'art. 133, c. 1, lett. b) ed f), c.p.a. ha infatti
espressamente salvaguardato la giurisdizione del T.s.a.p.,
regolata dalla previgente normativa, di cui al R.D. n.
1775/1933, estesa anche ai provvedimenti che, pur se
promananti da autorità diverse da quelle specificamente
preposte alla tutela delle acque, come nella fattispecie per
cui è causa, siano caratterizzati dall'incidenza diretta
sulla materia delle acque pubbliche, concorrendo, in
concreto, a disciplinare la realizzazione, la
localizzazione, la gestione, e l'esercizio delle opere
idrauliche (TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 27.12.2011,
n. 854).
In particolare, la cognizione del T.S.A.P. si estende anche
ai casi in cui il provvedimento amministrativo, pur
incidendo su interessi più generali e diversi rispetto a
quelli specifici relativi alla demanialità delle acque, ed
ai rapporti dei concessionari dei beni del demanio idrico,
attiene comunque all'utilizzazione degli stessi,
interferendo, immediatamente e direttamente, su opere
destinate a tale utilizzazione, comprendendo quindi i
ricorsi proposti avverso i provvedimenti che, come quello
per cui è causa, hanno un'incidenza diretta sulla materia
delle acque pubbliche, e che concorrono, in concreto, a
disciplinare la realizzazione, la localizzazione, la
gestione e l'esercizio delle opere idrauliche, restando
invece escluse da tale giurisdizione solo le controversie in
cui tale incidenza si manifesta in via del tutto marginale o
riflessa (TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, 09.06.2015, n. 235,
Cass. Civ., Sez. Un., 25.10.2013, n. 24154).
In conclusione, il presente ricorso va dichiarato
inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo, in favore del Tribunale Superiore delle
Acque, presso il quale il presente giudizio potrà essere
riproposto, entro il termine di cui all’art. 11, c. 2,
c.p.a.
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.06.2017 n. 1232 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
danno da perdita di chance (che è da intendersi quale
lesione della concreta occasione favorevole di conseguire un
determinato bene, che non è mera aspettativa di fatto, ma
entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed
economicamente suscettibile di autonoma valutazione) può
essere in concreto ravvisato e risarcito solo con specifico
riguardo al grado di probabilità che in concreto il
richiedente avrebbe avuto di conseguire il bene della vita
e, cioè, in ragione della maggiore o minore probabilità
dell'occasione perduta, con conseguente necessità di
distinguere, fra probabilità di riuscita, che va considerata
quale “chance risarcibile” e mera possibilità di conseguire
l'utilità sperata, da ritenersi “chance irrisarcibile”.
Il risarcimento del danno da perdita di chance richiede
infatti l'accertamento di indefettibili presupposti di
certezza dello stesso danno, dovendo viceversa escludersi
tale risarcimento nel caso in cui l'atto, ancorché
illegittimo, abbia determinato solo la perdita di una
"eventualità" di conseguimento del bene della vita.
Comunque è da rilevare che, in caso di domanda di
risarcimento danni per perdita di chance, incombe sulla
parte ricorrente l'onere di provare, anche facendo ricorso a
presunzioni ed al calcolo delle probabilità, l'esistenza
della richiamata probabilità di conseguimento del risultato
sperato.
Non sono dovuti neppure i danni, pure richiesti, connessi ai
costi per la partecipazione alla selezione, in quanto, per
consolidato indirizzo giurisprudenziale, tali costi
costituiscono una voce di spesa che resta comunque a carico
del partecipante.
---------------
E. – Deve, comunque, essere esaminata la domanda
risarcitoria, sulla quale fa leva parte ricorrente al fine
di mantenere integra la sua posizione di interesse.
La predetta ha chiesto il risarcimento dei danni da perdita
di chance per l’ipotesi in cui non riesca ad ottenere
l’aggiudicazione del servizio (avente durata annuale), a
causa del mancato espletamento della procedura; circostanza
ormai verificatasi.
La domanda risarcitoria non può trovare accoglimento.
Invero, sebbene deve darsi atto che il Comune, un volta
pubblicato l’avviso –e, quindi, ritenuto di avviare una
procedura trasparente per l’individuazione dei destinatari
dell’incarico- ha poi deviato da tale paradigma, affidando
l’incarico al precedente difensore senza dare adeguata
contezza delle ragioni, né indicare una minima attività
valutativa dei curricula di tutti gli aspiranti, deve
tuttavia rilevarsi la carenza di prova di taluni degli
elementi costitutivi dell’illecito aquiliano (danno; nesso
di causalità).
E’ stato rilevato che “il danno da perdita di chance (che è
da intendersi quale lesione della concreta occasione
favorevole di conseguire un determinato bene, che non è mera
aspettativa di fatto, ma entità patrimoniale a sé stante,
giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma
valutazione) può essere in concreto ravvisato e risarcito
solo con specifico riguardo al grado di probabilità che in
concreto il richiedente avrebbe avuto di conseguire il bene
della vita e, cioè, in ragione della maggiore o minore
probabilità dell'occasione perduta (Consiglio di Stato, sez.
V, 30.06.2015, n. 3249), con conseguente necessità di
distinguere, fra probabilità di riuscita, che va considerata
quale “chance risarcibile” e mera possibilità di conseguire
l'utilità sperata, da ritenersi “chance irrisarcibile”
(Consiglio di Stato, sez. IV, 23.06.2015, n. 3147).
Il
risarcimento del danno da perdita di chance richiede infatti
l'accertamento di indefettibili presupposti di certezza
dello stesso danno, dovendo viceversa escludersi tale
risarcimento nel caso in cui l'atto, ancorché illegittimo,
abbia determinato solo la perdita di una "eventualità" di
conseguimento del bene della vita (Consiglio di Stato, sez. IV, 20.01.2015, n. 131).
Comunque è da rilevare che, in caso di domanda di
risarcimento danni per perdita di chance, incombe sulla
parte ricorrente l'onere di provare, anche facendo ricorso a
presunzioni ed al calcolo delle probabilità, l'esistenza
della richiamata probabilità di conseguimento del risultato
sperato (Consiglio di Stato, sez. IV, 23.06.2015, n.
3147)” (Consiglio di Stato, Sez. V, 22.09.2015, n.
4431; nello stesso senso: Consiglio di Stato, Sez. IV, 07.01.2013, n. 23).
Nel caso in esame la ricorrente non ha prospettato alcun
elemento, né ha allegato alcuna circostanza dalla quale far
discendere un giudizio probabilistico e comparativo nei
confronti dei partecipanti alla procedura: si presenta,
pertanto, debole la prova della stessa probabilità (meno che
mai rilevante) di conseguimento del bene della vita, di cui
la predetta non fornisce alcun dato, venendo dunque in
rilievo una “mera eventualità di conseguimento dello stesso
bene della vita” (v. Consiglio di Stato n. 23/2013 cit.;
TAR Emilia Romagna, Parma, Sez. I, 06.02. 2017, n.
40).
Deve, inoltre, rilevarsi che la mancata impugnazione degli
atti di affidamento dell’incarico in interesse all’avv.
An. –su cui ci si è soffermati nel superiore punto D)- ha quantomeno contribuito ad elidere il nesso di causalità
tra la condotta tenuta dall’ente locale e il danno asseritamente subito dalla ricorrente.
Non sono dovuti neppure i danni, pure richiesti, connessi ai
costi per la partecipazione alla selezione, in quanto, per
consolidato indirizzo giurisprudenziale, tali costi
costituiscono una voce di spesa che resta comunque a carico
del partecipante (v. Consiglio di Stato, Sez. VI, 17.02.2017, n. 731).
La domanda risarcitoria deve, quindi, essere respinta
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 15.05.2017 n. 1316 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Alla
luce di un consolidato orientamento giurisprudenziale, nel
caso di impugnazione di un’ordinanza di demolizione non sono
configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia
necessario instaurare un contradditorio, atteso che la
qualifica di controinteressato va riconosciuta non già a chi
abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il
provvedimento impugnato (e tanto meno a chi ne subisca
conseguenze soltanto indirette o riflesse), ma solo a coloro
i quali dal provvedimento stesso ricevano un vantaggio
diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della
propria sfera giuridica.
---------------
Al fine di individuare i soggetti potenziali destinatari
della sanzione demolitoria e, più in generale, dell’ordine
di ripristino dello stato dei luoghi, l’art. 31, comma 2,
del D.P.R. 380/2001 non opera alcuna distinzione fra
proprietario e responsabile dell’abuso: in materia edilizia,
la misura dell’ordine di rimessione in pristino dello stato
dei luoghi, che consegue all’accertamento del carattere
illegittimo di un manufatto realizzato senza titolo o in sua
difformità, ha carattere reale, in quanto è volta non già a
sanzionare il comportamento ma principalmente a ripristinare
l’ordine materiale (prima ancora che giuridico), alterato a
mezzo della sopravvenienza oggettiva del manufatto privo di
un giusto titolo.
In altri termini, siccome non si tratta di punire una
condotta ma di adottare una misura di ricomposizione
dell’ordine urbanistico –che ha di mira l’eliminazione degli
effetti materiali dell’avvenuta sua ingiustificata
alterazione– la misura demolitoria è opponibile anche a
soggetti estranei al comportamento illecito.
---------------
In linea generale, la repressione degli illeciti
urbanistico-edilizi costituisce attività strettamente
vincolata e non soggetta nemmeno a termini di decadenza o di
prescrizione, potendo la misura demolitoria intervenire in
ogni tempo, anche a notevole distanza dall'epoca della
commissione dell'abuso: infatti, l'illecito edilizio ha
carattere permanente e si protrae, conservandosi nel tempo
l'interesse pubblico al ripristino dell'ordine violato, il
quale è sempre prevalente sull’aspirazione del privato al
mantenimento dell'opera.
I provvedimenti sanzionatori sono dunque sufficientemente
motivati con riferimento all’oggettivo riscontro
dell’abusività degli interventi ed alla sicura
assoggettabilità di questi al regime dei titoli abilitativi,
e l’ordine di demolizione di opere edilizie illecitamente
eseguite è atto dovuto e rigorosamente vincolato, in ordine
al quale non sono neppure richiesti apporti partecipativi
del destinatario.
Infine, colui che realizza un abuso edilizio non può dolersi
del fatto che l'amministrazione lo abbia inizialmente
avvantaggiato, non esercitando il potere sanzionatorio di
cui è titolare o esercitandolo in misura meno afflittiva di
quanto avrebbe dovuto, poiché l'ordinamento tutela
l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la
realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una
volontaria attività del costruttore “contra legem”.
In definitiva, non si rivela necessario specificare
ulteriori ragioni giustificatrici, salvo lo specifico caso
di un lungo lasso di tempo trascorso dalla conoscenza
dell’abuso edilizio da parte dell’Ente locale preposto alla
vigilanza e del protrarsi della sua inerzia, tali da
evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo
affidamento del privato.
--------------
La società ricorrente censura il provvedimento
del Responsabile del Servizio in data 17/05/2010, recante
l’intimazione a demolire opere edilizie abusive e a
ripristinare lo stato dei luoghi.
0. Deve essere rigettata l’eccezione, sollevata dal Comune,
di inammissibilità del ricorso per omessa notifica a uno dei
controinteressati (proprietario confinante, ovvero
qualsivoglia Associazione portatrice di interessi collettivi
a salvaguardia del patrimonio paesaggistico).
Alla luce di
un consolidato orientamento giurisprudenziale, nel caso di
impugnazione di un’ordinanza di demolizione non sono
configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia
necessario instaurare un contradditorio, atteso che la
qualifica di controinteressato va riconosciuta non già a chi
abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il
provvedimento impugnato (e tanto meno a chi ne subisca
conseguenze soltanto indirette o riflesse), ma solo a coloro
i quali dal provvedimento stesso ricevano un vantaggio
diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della
propria sfera giuridica (cfr. TAR Lazio Roma, sez. I-quater –
0903/2017 n. 3273; TAR Calabria Catanzaro, sez. II – 30/12/2016 n. 2561; Consiglio di Stato, sez. VI –
19/01/2016 n. 168).
Nel merito il gravame è parzialmente fondato, per le ragioni
di seguito precisate.
0.1 Va premesso anzitutto che, al fine di individuare i
soggetti potenziali destinatari della sanzione demolitoria
e, più in generale, dell’ordine di ripristino dello stato
dei luoghi, l’art. 31, comma 2, del D.P.R. 380/2001 non opera
alcuna distinzione fra proprietario e responsabile
dell’abuso: in materia edilizia, la misura dell’ordine di
rimessione in pristino dello stato dei luoghi, che consegue
all’accertamento del carattere illegittimo di un manufatto
realizzato senza titolo o in sua difformità, ha carattere
reale, in quanto è volta non già a sanzionare il
comportamento ma principalmente a ripristinare l’ordine
materiale (prima ancora che giuridico), alterato a mezzo
della sopravvenienza oggettiva del manufatto privo di un
giusto titolo (Consiglio di Stato, sez. VI – 15/04/2015 n.
1927).
In altri termini, siccome non si tratta di punire una
condotta ma di adottare una misura di ricomposizione
dell’ordine urbanistico –che ha di mira l’eliminazione
degli effetti materiali dell’avvenuta sua ingiustificata
alterazione– la misura demolitoria è opponibile anche a
soggetti estranei al comportamento illecito (TAR Puglia
Lecce, sez. III – 20/06/2016 n. 995 che richiama la pronuncia
del Consiglio di Stato appena citata; TAR Calabria Reggio
Calabria – 20/01/2017 n. 47).
1. Il primo motivo è privo di pregio giuridico.
1.1 Oltre a quanto appena illustrato, osserva il Collegio
che, in linea generale, la repressione degli illeciti
urbanistico-edilizi costituisce attività strettamente
vincolata e non soggetta nemmeno a termini di decadenza o di
prescrizione, potendo la misura demolitoria intervenire in
ogni tempo, anche a notevole distanza dall'epoca della
commissione dell'abuso (Consiglio di Stato, sez. VI –
05/05/2016 n. 1774): infatti, l'illecito edilizio ha carattere
permanente e si protrae, conservandosi nel tempo l'interesse
pubblico al ripristino dell'ordine violato, il quale è
sempre prevalente sull’aspirazione del privato al
mantenimento dell'opera.
1.2 I provvedimenti sanzionatori sono dunque
sufficientemente motivati con riferimento all’oggettivo
riscontro dell’abusività degli interventi ed alla sicura
assoggettabilità di questi al regime dei titoli abilitativi,
e l’ordine di demolizione di opere edilizie illecitamente
eseguite è atto dovuto e rigorosamente vincolato, in ordine
al quale non sono neppure richiesti apporti partecipativi
del destinatario (Consiglio di Stato, sez. IV – 12/10/2016
n. 4205).
Infine, colui che realizza un abuso edilizio non
può dolersi del fatto che l'amministrazione lo abbia
inizialmente avvantaggiato, non esercitando il potere
sanzionatorio di cui è titolare o esercitandolo in misura
meno afflittiva di quanto avrebbe dovuto, poiché
l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia
incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si
concretizza in una volontaria attività del costruttore
“contra legem” (Consiglio di Stato, sez. VI – 13/12/2016 n.
5256; si veda anche sentenza Sez. I di questo TAR
21/11/2014 n. 1282, che risulta appellata ma la domanda
cautelare è stata motivatamente respinta dal Consiglio di
Stato con ordinanza della sez. VI – 15/07/2015 n. 3163).
1.3 In definitiva, non si rivela necessario specificare
ulteriori ragioni giustificatrici, salvo lo specifico caso
di un lungo lasso di tempo trascorso dalla conoscenza
dell’abuso edilizio da parte dell’Ente locale preposto alla
vigilanza e del protrarsi della sua inerzia, tali da
evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo
affidamento del privato (cfr. TAR Campania Napoli, sez. II
– 09/01/2017 n. 201; sentenza sez. I – 27/03/2017 n. 425).
Nella fattispecie, tuttavia, non è configurabile la deroga
appena citata, dato che l’abuso risulta accertato
dall’autorità comunale, nella sua effettiva consistenza, in
occasione del sopralluogo effettuato dall’Ufficio tecnico il
03/11/2009, poco tempo prima dell’emanazione del
provvedimento impugnato
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 26.04.2017 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ assolutamente pacifico in giurisprudenza che
l’onere di provare la preesistenza rispetto ad una data di
riferimento (con “ragionevole certezza”) incombe
esclusivamente all’interessato, unico ad averne la
disponibilità: è dunque il proprietario (o il responsabile
dell'abuso) assoggettato a ingiunzione di demolizione che ha
l’onere di dimostrare il carattere risalente del manufatto
della cui demolizione si tratta con riferimento a epoca
anteriore alla c.d. Legge "ponte" n. 765 del 1967, con la
quale l'obbligo di previa licenza edilizia venne esteso alle
costruzioni realizzate al di fuori del perimetro del centro
urbano.
E’ stato tuttavia introdotto un temperamento secondo
ragionevolezza nel caso in cui, il privato da un lato porti
a sostegno della propria tesi sulla realizzazione
dell’intervento prima del 1967 elementi non implausibili e,
dall’altro, il Comune fornisca elementi incerti in ordine
alla presumibile data della realizzazione del manufatto
privo di titolo edilizio, o con variazioni essenziali sulla
base del combinato disposto di cui agli articoli 32 e 10 del
D.P.R. 327 del 2001.
Il Collegio ritiene di valorizzare la dichiarazione
dell’attuale proprietario dei manufatti, il quale dal
07/06/2005 ha la disponibilità dei manufatti e ha fornito
puntuali chiarimenti innanzi agli agenti di polizia
giudiziaria. Contrariamente a quanto sostiene parte
ricorrente nella memoria di replica sull’utilizzabilità
delle suddette dichiarazioni nel processo, questo TAR
(pronunciandosi in materia di legalizzazione del rapporto di
lavoro irregolare dei cittadini stranieri) ha ripetutamente
affermato che le dichiarazioni rese in sede di
interrogatorio alla polizia giudiziaria fanno fede in ordine
agli elementi di fatto rilevanti nel procedimento.
In materia, i giudici d’appello hanno sottolineato che “le
dichiarazioni rilasciate dal datore di lavoro agli ufficiali
di polizia giudiziaria, ancorché non rese nella forma
dell’interrogatorio, sono assistite da una fede privilegiata
ed hanno una valenza probatoria particolarmente forte, in
quanto esse, per l’immediatezza della forma orale e per
l’autorevolezza del destinatario qualificato, assicurano una
genuinità ben maggiore di eventuali successive dichiarazioni
di parte, scritte a freddo e in funzione eventualmente
difensiva, anche in sede procedimentale o in prospettiva di
un eventuale contenzioso”.
--------------
2. Il secondo motivo è parzialmente fondato. Esso in
particolare investe i 2 box in lamiera, il manufatto adibito
a bagno, la struttura con copertura in lamiera, il deposito
in muratura e il barbecue in muratura, i quali sarebbero
stati realizzati da tempo immemorabile e comunque in data
anteriore all’01/09/1967, potendo così essere ricondotti alla
cosiddetta attività edilizia libera.
2.1 E’ assolutamente pacifico in giurisprudenza (TAR
Veneto, sez. II – 02/02/2017 n. 121 e l’ampia giurisprudenza
citata, tra cui Consiglio di Stato, sez. V – 20/08/2013 n.
4182) che l’onere di provare la preesistenza rispetto ad una
data di riferimento (con “ragionevole certezza”) incombe
esclusivamente all’interessato, unico ad averne la
disponibilità: è dunque il proprietario (o il responsabile
dell'abuso) assoggettato a ingiunzione di demolizione che ha
l’onere di dimostrare il carattere risalente del manufatto
della cui demolizione si tratta con riferimento a epoca
anteriore alla c.d. Legge "ponte" n. 765 del 1967, con la
quale l'obbligo di previa licenza edilizia venne esteso alle
costruzioni realizzate al di fuori del perimetro del centro
urbano.
2.2 E’ stato tuttavia introdotto un temperamento secondo
ragionevolezza nel caso in cui, il privato da un lato porti
a sostegno della propria tesi sulla realizzazione
dell’intervento prima del 1967 elementi non implausibili e,
dall’altro, il Comune fornisca elementi incerti in ordine
alla presumibile data della realizzazione del manufatto
privo di titolo edilizio, o con variazioni essenziali sulla
base del combinato disposto di cui agli articoli 32 e 10 del
D.P.R. 327 del 2001 (Consiglio di Stato, sez. VI – 18/07/2016
n. 3177).
2.3 Il Collegio ritiene di valorizzare la dichiarazione
dell’attuale proprietario dei manufatti -OMISSIS- -OMISSIS-,
il quale dal 07/06/2005 ha la disponibilità dei manufatti e ha
fornito puntuali chiarimenti innanzi agli agenti di polizia
giudiziaria. Contrariamente a quanto sostiene parte
ricorrente nella memoria di replica sull’utilizzabilità
delle suddette dichiarazioni nel processo, questo TAR
(pronunciandosi in materia di legalizzazione del rapporto di
lavoro irregolare dei cittadini stranieri) ha ripetutamente
affermato –richiamandosi all’avviso manifestato dal
Consiglio di Giustizia Amministrativa della Sicilia (cfr. 08/10/2013 n. 753)– che le dichiarazioni rese in sede di
interrogatorio alla polizia giudiziaria fanno fede in ordine
agli elementi di fatto rilevanti nel procedimento (in quel
caso, regolarizzazione ex lege 102/2009: sentenze brevi sez.
II – 11/02/2014 n. 142; 14/04/2014 n. 384; 29/05/2014 n. 579;
29/07/2014 n. 858; 29/10/2016 n. 1417).
In materia, i giudici
d’appello hanno sottolineato che “le dichiarazioni
rilasciate dal datore di lavoro agli ufficiali di polizia
giudiziaria, ancorché non rese nella forma
dell’interrogatorio, sono assistite da una fede privilegiata
ed hanno una valenza probatoria particolarmente forte, in
quanto esse, per l’immediatezza della forma orale e per
l’autorevolezza del destinatario qualificato, assicurano una
genuinità ben maggiore di eventuali successive dichiarazioni
di parte, scritte a freddo e in funzione eventualmente
difensiva, anche in sede procedimentale o in prospettiva di
un eventuale contenzioso” (cfr. Consiglio di Stato, sez. III
– 21/08/2015 n. 3976).
Nella fattispecie, la credibilità
delle dichiarazioni è rafforzata dalla provenienza dal
proprietario attuale e dalla loro acquisizione
nell’imminenza della scoperta dei fatti: il Sig. -OMISSIS-
ha dal giugno 2005 la disponibilità dei beni ed è in grado
di ricostruirne le dinamiche. Peraltro, l’opposta versione
proveniente dalla difesa di parte ricorrente è suffragata da
una generica dichiarazione a sommarie informazioni del
precedente titolare Gi.Fr., il quale fa
riferimento a “manufatti esistenti da tempo” senza ulteriori
specificazioni, con la sola eccezione del “casotto” che
avrebbe ospitato un incontro di Benito Mussolini. Le 3
dichiarazioni di atto notorio affermano che i manufatti
elencati risalgono a data anteriore al 1967, e tuttavia
(rispetto alle precedenti) non sono assistite da fede
privilegiata.
2.4 Peraltro, il Collegio ritiene che l’esaustiva
ricostruzione del Sig. -OMISSIS- permetta di addivenire a
conclusioni differenziate. In particolare, l’interessato
ammette lo spostamento del box in lamiera già esistente nel
2007, la ristrutturazione del bagno in muratura nello stesso
anno, la modifica della copertura in lamiera nel 2006 (da
plastica in lamiera coibentata) e ristrutturazione del box
(in muratura) adibito a cantina nel 2007. La provenienza
delle affermazioni dal proprietario e la forma delle stesse
(sono state rese innanzi agli agenti di p.g.) le rende
sufficientemente attendibili, come già argomentato al
precedente paragrafo 2.3.
Dunque, per tali 4 manufatti la
natura risalente è smentita dalla testuali asserzioni
dell’acquirente, il quale ha eseguito interventi
significativi (di traslazione, ristrutturazione, rifacimento
dei connotati essenziali) che precludono la loro
sottoposizione al regime anteriore al 1967: si tratta, ad
avviso del Collegio, di modifiche sensibili che connotano di
novità le opere, per cui l’interessato non può
avvantaggiarsi della normativa vigente molti anni orsono.
2.5 Un ragionamento differente deve essere condotto per il
box in lamiera contenente un tavolo, 4 sedie, una credenza
un frigorifero e un lavandino, la struttura in ferro (4
tubolari adibiti a supporto per piante rampicanti) e il
barbecue in mattoni, che l’attuale proprietario riferisce
essere stati già presenti al momento dell’acquisto. A fronte
di tali affermazioni, e delle concordanti dichiarazioni
sostitutive di atto notorio depositate dalla parte
ricorrente, si può ritenere che tali univoci elementi
rendano plausibile (o comunque suscettibile di ulteriori
approfondimenti) l’esecuzione delle opere prima del 1967.
Rispetto a tali manufatti, dunque, la pretesa di parte
ricorrente merita accoglimento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 26.04.2017 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza è concorde che per individuare
la natura precaria di un'opera si debba seguire non il
criterio strutturale (che apprezza la stabilità
dell’ancoraggio al suolo), ma il criterio funzionale, per
cui per cui se un intervento è realizzato per soddisfare
esigenze che non sono temporanee non può beneficiare del
regime proprio delle opere precarie anche quando queste sono
state realizzate con materiali facilmente amovibili: la
possibilità di prescindere da un titolo edilizio ricorre
unicamente in presenza di manufatti destinati a soddisfare
necessità contingenti e che si prestino ad essere
prontamente rimossi al loro cessare.
In buona sostanza si è chiarito che “La ‘precarietà’
dell’opera, che esonera dall'obbligo del possesso del
permesso di costruire (ai sensi dell’art. 3, comma 1,
lettera e.5, D.P.R. n. 380 del 2001), postula infatti un uso
specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette
che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di
esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel
tempo. Non possono, infatti, essere considerati manufatti
destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli
destinati a un'utilizzazione perdurante nel tempo, di talché
l'alterazione del territorio non può essere considerata
temporanea, precaria o irrilevante ….”.
La stalletta per le capre è un manufatto permanente, a
prescindere dall’ancoraggio al suolo e dunque necessita del
permesso di costruire (e alle stesse conclusioni si deve
pervenire per quanto concerne i muri di contenimento).
--------------
3. Per l’ulteriore profilo, (e posto che è stata già
esaminata al paragrafo precedente la struttura a sostegno
dei rampicanti), la stalletta per le capre è di recente
realizzazione (come da dichiarazione del Sig. -OMISSIS-),
così come la recinzione metallica (per la quale tuttavia si
rinvia al paragrafo successivo), il muro di contenimento in
cemento e il muro di contenimento in traversine di legno. Ad
avviso dell’esponente, le opere descritte non sarebbero
qualificabili come costruzioni, avendo caratteristiche non
particolarmente importanti che le rendono assoggettabili a
DIA e non a permesso di costruire.
Detta impostazione non è condivisibile.
3.1 In linea generale, la giurisprudenza è concorde nel
senso che per individuare la natura precaria di un'opera si
debba seguire non il criterio strutturale (che apprezza la
stabilità dell’ancoraggio al suolo), ma il criterio
funzionale, per cui per cui se un intervento è realizzato
per soddisfare esigenze che non sono temporanee non può
beneficiare del regime proprio delle opere precarie anche
quando queste sono state realizzate con materiali facilmente
amovibili (cfr. ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. VI –
21/02/2017 n. 795): la possibilità di prescindere da un
titolo edilizio ricorre unicamente in presenza di manufatti
destinati a soddisfare necessità contingenti e che si
prestino ad essere prontamente rimossi al loro cessare
(TAR Emilia Romagna Parma – 29/12/2016 n. 384).
In buona
sostanza si è chiarito che “La ‘precarietà’ dell’opera, che
esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire
(ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera e.5, D.P.R. n. 380
del 2001), postula infatti un uso specifico e temporalmente
delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere
finalizzato al soddisfacimento di esigenze (non eccezionali
e contingenti, ma) permanenti nel tempo. Non possono,
infatti, essere considerati manufatti destinati a soddisfare
esigenze meramente temporanee quelli destinati a
un'utilizzazione perdurante nel tempo, di talché
l'alterazione del territorio non può essere considerata
temporanea, precaria o irrilevante ….” (TAR Lombardia
Milano, sez. II – 04/08/2016 n. 1567 e la giurisprudenza ivi
citata).
La stalletta per le capre è un manufatto permanente, a
prescindere dall’ancoraggio al suolo e dunque necessita del
permesso di costruire (e alle stesse conclusioni si deve
pervenire per quanto concerne i muri di contenimento) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 26.04.2017 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In via generale, la posa di una recinzione
–manufatto essenzialmente destinato a delimitare una
determinata proprietà allo scopo di separarla dalle altre,
di custodirla e difenderla da intrusioni– è solo diretta a
far valere lo ius excludendi alios che costituisce il
contenuto tipico del diritto dominicale, e per pacifica
giurisprudenza persino la presenza di un vincolo dello
strumento pianificatorio non può incidere (di per sé)
negativamente sulla potestà del dominus di chiudere in
qualunque tempo il proprio fondo ai sensi dell’art. 841 del
c.c..
E’ stato osservato che il titolo abilitativo edilizio non è
necessario per modeste recinzioni di fondi rustici senza
opere murarie, e cioè per la mera recinzione con rete
metallica sorretta da paletti di ferro o di legno (senza
muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti il
manufatto rientra appunto tra le manifestazioni del diritto
di proprietà che comprende lo "jus excludendi alios".
Solamente la recinzione che presenti un elevato impatto
urbanistico deve essere preceduta da un titolo abilitativo
del Comune, mentre tale atto non risulta necessario in
presenza di trasformazioni che –per l'utilizzo di materiale
di scarso impatto visivo e per le dimensioni
dell'intervento– non comportino un'apprezzabile alterazione
ambientale, estetica e funzionale: la distinzione tra
esercizio dello jus aedificandi e dello jus excludendi alios
va rintracciata quindi nella verifica concreta delle
caratteristiche del manufatto..
È quindi al tipo di recinzione in concreto che occorre
guardare per stabilire se si tratti dell’uno o dell’altro
tipo di manufatto: un esempio del secondo tipo è la modesta
recinzione di fondo rustico senza opere murarie, con rete
metallica sorretta da paletti di ferro o di legno; occorre,
invece, la concessione, quando la recinzione è costituita da
un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete
metallica.
Nella fattispecie esaminata, il posizionamento di una
semplice rete metallica priva di basamento in calcestruzzo
la rende (potenzialmente) legittima anche in assenza di
titolo abilitativo, per cui si rivela fondato il quarto
motivo di ricorso, con le precisazioni che seguono. In
proposito, il Comune è tenuto ad avviare un approfondimento
istruttorio (coinvolgendo l’autorità preposta alla tutela
del vincolo) per apprezzare in concreto le caratteristiche
della recinzione.
--------------
4. Sotto altro punto vista invece, in via generale, la posa
di una recinzione –manufatto essenzialmente destinato a
delimitare una determinata proprietà allo scopo di separarla
dalle altre, di custodirla e difenderla da intrusioni– è
solo diretta a far valere lo ius excludendi alios che
costituisce il contenuto tipico del diritto dominicale, e
per pacifica giurisprudenza persino la presenza di un
vincolo dello strumento pianificatorio non può incidere (di
per sé) negativamente sulla potestà del dominus di chiudere
in qualunque tempo il proprio fondo ai sensi dell’art. 841
del c.c. (TAR Campania Napoli, sez. II – 04/02/2005 n. 803;
TAR Lombardia Milano, sez. II – 11/02/2005 n. 367).
E’
stato osservato che il titolo abilitativo edilizio non è
necessario per modeste recinzioni di fondi rustici senza
opere murarie, e cioè per la mera recinzione con rete
metallica sorretta da paletti di ferro o di legno (senza
muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti il
manufatto rientra appunto tra le manifestazioni del diritto
di proprietà che comprende lo "jus excludendi alios" (C.G.A.
Sicilia, sez. consultive – 18/12/2013 n. 1548; TAR
Campania Salerno, sez. II – 11/09/2015 n. 1902; TAR Umbria
– 18/08/2016 n. 571 e la citata giurisprudenza).
4.1 Solamente la recinzione che presenti un elevato impatto
urbanistico deve essere preceduta da un titolo abilitativo
del Comune, mentre tale atto non risulta necessario in
presenza di trasformazioni che –per l'utilizzo di materiale
di scarso impatto visivo e per le dimensioni dell'intervento– non comportino un'apprezzabile alterazione ambientale,
estetica e funzionale: la distinzione tra esercizio dello jus aedificandi e dello
jus excludendi alios va rintracciata
quindi nella verifica concreta delle caratteristiche del
manufatto (cfr. TAR Campania Napoli, sez. III – 06/02/2015
n. 938, che risulta appellata e che richiama Consiglio di
Stato, sez. V – 09/04/2013 n. 922).
È quindi al tipo di
recinzione in concreto che occorre guardare per stabilire se
si tratti dell’uno o dell’altro tipo di manufatto: un
esempio del secondo tipo è la modesta recinzione di fondo
rustico senza opere murarie, con rete metallica sorretta da
paletti di ferro o di legno; occorre, invece, la
concessione, quando la recinzione è costituita da un muretto
di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica
(TAR Toscana, sez. III – 27/02/2015 n. 320, che risulta
appellata).
Nella fattispecie esaminata, il posizionamento di una
semplice rete metallica priva di basamento in calcestruzzo
la rende (potenzialmente) legittima anche in assenza di
titolo abilitativo, per cui si rivela fondato il quarto
motivo di ricorso, con le precisazioni che seguono. In
proposito, il Comune è tenuto ad avviare un approfondimento
istruttorio (coinvolgendo l’autorità preposta alla tutela
del vincolo) per apprezzare in concreto le caratteristiche
della recinzione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 26.04.2017 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa l’acquisizione
dell’area di sedime (prevista dal legislatore nel caso di
manufatti abusivi, decorsi 90 giorni dall’ordine di
demolizione senza che il provvedimento sia stato eseguito)
la giurisprudenza è costante nell’escludere ciò solo nel
caso in cui le opere non appartengano al proprietario
dell’area, il quale non possa procedere alla loro
demolizione.
Viceversa, constatata l’esistenza di un abuso edilizio,
l’ordine di demolizione (e, in caso d’inottemperanza,
l’acquisizione al patrimonio del Comune) è atto vincolato
che non richiede alcuna specifica valutazione di ragioni
d’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi,
né comparazione con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, non essendo configurabile alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione d’illecito
permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto:
la sanzione della demolizione (cfr. artt. 31 ss. D.P.R. n.
380/2001) ha carattere reale, ossia colpisce la res abusiva,
a prescindere dall’attuale titolarità del diritto di
proprietà in capo a chi non sia autore dell’abuso.
D’altro canto, la giurisprudenza afferma che il proprietario
non possessore può “evitare” gli effetti della eventuale
inottemperanza all’ordine di demolizione da parte del
possessore, dimostrando in sede procedimentale di non avere
avuto (o di aver perduto) la concreta disponibilità
dell’immobile, e di essere stato, pertanto, impossibilitato
ad eseguire l’ingiunzione di demolizione.
--------------
5. La quinta censura non è passibile di positivo scrutinio.
Secondo l’esponente, l’acquisizione dell’area di sedime
(prevista dal legislatore nel caso di manufatti abusivi,
decorsi 90 giorni dall’ordine di demolizione senza che il
provvedimento sia stato eseguito) non sarebbe configurabile
dal momento che la Società “Il Bo. sas” è divenuta
proprietaria molto tempo dopo la realizzazione delle opere,
per cui non può essere ritenuta responsabile dell’abuso e di
conseguenza assoggettata alle previsioni di cui ai commi 3,
4 e 5 dell’art. 31.
Detto ordine di idee non merita
condivisione.
5.1 La giurisprudenza è costante nell’escludere l’effetto di
cui si discorre solo nel caso in cui le opere non
appartengano al proprietario dell’area, il quale non possa
procedere alla loro demolizione (cfr. sentenza Sezione
26/11/2015 n. 1593 e il precedente ivi citato).
Viceversa
(come già osservato) constatata l’esistenza di un abuso
edilizio, l’ordine di demolizione (e, in caso
d’inottemperanza, l’acquisizione al patrimonio del Comune) è
atto vincolato che non richiede alcuna specifica valutazione
di ragioni d’interesse pubblico al ripristino dello stato
dei luoghi, né comparazione con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, non essendo configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
d’illecito permanente che il tempo non può legittimare in
via di fatto: la sanzione della demolizione (cfr. artt. 31
ss. D.P.R. n. 380/2001) ha carattere reale, ossia colpisce
la res abusiva, a prescindere dall’attuale titolarità del
diritto di proprietà in capo a chi non sia autore dell’abuso
(Consiglio di Stato, sez. VI – 06/03/2017 n. 1060).
5.2 D’altro canto, la giurisprudenza afferma che il
proprietario non possessore può “evitare” gli effetti della
eventuale inottemperanza all’ordine di demolizione da parte
del possessore, dimostrando in sede procedimentale di non
avere avuto (o di aver perduto) la concreta disponibilità
dell’immobile, e di essere stato, pertanto, impossibilitato
ad eseguire l’ingiunzione di demolizione (cfr. TAR Molise
– 306/2016, che richiama TAR Sicilia, sez. II, 01/04/2015
n. 808).
Dette circostanze esulano, evidentemente, dalla
situazione in esame.
6. La censura sull’erronea applicazione dell’art. 167 del D.Lgs.
42/2004 non interferisce con le conclusioni si qui
raggiunte, alla luce del tempo di realizzazione delle opere.
Per quelle più recenti, il profilo dell’esistenza del
vincolo ambientale introduce un ulteriore dato ostativo al
mantenimento del manufatto, mentre per quelle realizzate in
epoca risalente (ove la circostanza sia confermata dal
supplemento istruttorio demandato all’amministrazione) dovrà
trovare applicazione il regime per tempo vigente
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 26.04.2017 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L’obbligo della motivazione del provvedimento può
ritenersi assolto quando la stessa risulti idonea a
disvelare l’iter logico e procedimentale che consenta di
inquadrare la fattispecie nell’ipotesi astratta considerata
dalla legge.
Circa gli specifici rilievi che sarebbero stati trascurati,
va sottolineato come non sia indispensabile sottoporre in
via immediata a puntuale confutazione ciascuna obiezione
mossa in sede procedimentale, purché dagli atti emerga
un’istruttoria esaustiva su tutte le principali questioni
tecnico-giuridiche sollevate.
Per giurisprudenza consolidata, “l’obbligo, ex art. 10 della
legge n. 241/1990, di esame delle memorie e dei documenti
difensivi presentati dagli interessati nel corso dell’iter
procedimentale, non impone all’amministrazione una formale
ed analitica confutazione di ogni argomento utilizzato dagli
stessi, essendo sufficiente, alla luce dell’art. 3 della
legge medesima, un’esternazione motivazionale che renda
nella sostanza percepibile la ragione del mancato
adeguamento dell’azione amministrativa alle deduzioni
partecipative dei privati”.
--------------
7. Non è meritevole di apprezzamento la doglianza afferente
all’inosservanza degli artt. 3 e 10-bis della L. 241/1990.
L’obbligo della motivazione del provvedimento può ritenersi
assolto quando, come nella specie, la stessa risulti idonea
a disvelare l’iter logico e procedimentale che consenta di
inquadrare la fattispecie nell’ipotesi astratta considerata
dalla legge (peraltro, si richiamano le argomentazioni
sviluppate al precedente paragrafo 1.2).
Circa gli specifici
rilievi che sarebbero stati trascurati, va sottolineato come
non sia indispensabile sottoporre in via immediata a
puntuale confutazione ciascuna obiezione mossa in sede
procedimentale, purché dagli atti emerga un’istruttoria
esaustiva su tutte le principali questioni
tecnico-giuridiche sollevate.
Per giurisprudenza
consolidata, “l’obbligo, ex art. 10 della legge n. 241/1990,
di esame delle memorie e dei documenti difensivi presentati
dagli interessati nel corso dell’iter procedimentale, non
impone all’amministrazione una formale ed analitica
confutazione di ogni argomento utilizzato dagli stessi,
essendo sufficiente, alla luce dell’art. 3 della legge
medesima, un’esternazione motivazionale che renda nella
sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento
dell’azione amministrativa alle deduzioni partecipative dei
privati” (TAR Campania Salerno, sez. II – 23/03/2017 n.
607).
Così è avvenuto nel caso affrontato, ove sono stati
applicati principi pacifici in giurisprudenza
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 26.04.2017 n. 553 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ogni
sanzione amministrativa, anche in materia edilizia, va
comminata nei confronti del responsabile dell’abuso
edilizio contestato, che ai sensi dell’art. 29 T.U.
Edilizia non è soltanto il costruttore, ma anche il
committente, mentre il proprietario non autore
dell’abuso e non committente delle opere può ritenersi
responsabile soltanto ove emerga un suo coinvolgimento
doloso o colposo nella realizzazione dei lavori.
Ne discende, per tale profilo, l’illegittimità
dell’ingiunzione di pagamento disposta nei confronti dei
ricorrenti, che sono rimasti estranei alla commissione
dell’abuso edilizio e non sono riconducibili ad alcuna delle
figure tassativamente indicate dalla legge, non essendo
titolari della concessione edilizia per la costruzione
dell’immobile, né committenti, né costruttori, né direttori
dei lavori.
---------------
5. Il ricorso è fondato e va accolto, e viene definito con
sentenza in forma semplificata alla luce di recenti
decisioni della Sezione che si sono pronunciate su
fattispecie analoghe a quella qui in esame in senso conforme
alla tesi sostenuta dai ricorrenti con il secondo motivo di
ricorso, che assume valore assorbente.
5.1. Si tratta delle sentenze n. 1204/2013 del 15.11.2013 e
n. 500/17 del 13.04.2017. Ha osservato la Sezione che “Il
secondo comma dell’art. 34 prevede, come è noto,
l’applicazione della sanzione pecuniaria pari al doppio del
costo di costruzione e non specifica espressamente in capo a
quali soggetti la sanzione debba essere applicata.
La questione è tuttavia risolta in termini inequivoci
dall’art. 29 del T.U. Edilizia, ai cui sensi possono essere
sanzionati il titolare del permesso di costruire, il
committente, il costruttore ed il direttore dei lavori, che
sono responsabili “ai fini e per gli effetti delle norme
contenute nel presente capo”. L’ultimo periodo del primo
comma dell’art. 29 specifica, poi, che essi soltanto sono
“tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e
solidalmente alle spese per l’esecuzione in danno, in caso
di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo
che dimostrino di non essere responsabili dell’abuso”.
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha affermato
che ogni sanzione amministrativa, anche in materia edilizia,
va comminata nei confronti del responsabile dell’abuso
edilizio contestato, che ai sensi dell’art. 29 T.U.
Edilizia non è soltanto il costruttore, ma anche il
committente, mentre il proprietario non autore
dell’abuso e non committente delle opere può ritenersi
responsabile soltanto ove emerga un suo coinvolgimento
doloso o colposo nella realizzazione dei lavori (cfr. TAR
Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 26.09.2007 n. 2205; TAR
Lazio, Sez. I-quater, 10.05.2010 n. 10469).
Ne discende, per tale profilo, l’illegittimità
dell’ingiunzione di pagamento disposta nei confronti dei
ricorrenti, che sono rimasti estranei alla commissione
dell’abuso edilizio e non sono riconducibili ad alcuna delle
figure tassativamente indicate dalla legge, non essendo
titolari della concessione edilizia per la costruzione
dell’immobile, né committenti, né costruttori, né direttori
dei lavori”.
5.2. In senso analogo si è pronunciato anche TAR Liguria,
sez. I, 05.07.2011, n. 1051 (in aggiunta ai precedenti già
citati).
5.3. Tali principi, da cui il collegio non ha motivi per
discostarsi, si attagliano perfettamente al caso qui in
esame. Nel caso di specie, infatti, è pacifico che i
ricorrenti non sono i soggetti responsabili dell’abuso
accertato dall’amministrazione comunale, né rientrano tra i
soggetti di cui all’art. 29 del D.P.R. n. 380/2001 (titolare
del permesso di costruire, committente, costruttore,
direttore dei lavori).
Essi hanno acquistato la proprietà delle rispettive unità
immobiliari solo in anni recenti, tra il 1984 e il 2008,
mentre l’abuso edilizio è stato posto in essere all’epoca di
realizzazione dell’intero fabbricato, tra il 1973 e il 1974,
e comunque certamente prima del 1984, come dimostra il primo
atto pubblico di vendita posto in essere dai titolari della
concessione edilizia, sig.ri Gi. e Ru., (atto a rogito
Notaio Piacentino in data 28.06.1984, rep. n. 18858/7979,
docc. 3 e 3-bis), che già aveva ad oggetto due unità
immobiliari al piano terreno, in luogo dell’unica assentita
dall’amministrazione, e due unità immobiliari al primo
piano, nella stessa conformazione plano-volumetrica
accertata attualmente dal Comune di Sangano e fatta oggetto
del provvedimento sanzionatorio.
5.4. Da tali considerazioni discende, pertanto,
l’illegittimità del provvedimento impugnato, il quale è
stato adottato nei confronti di soggetti privi della
qualificazione soggettiva richiesta dall’art. 34, comma 2,
DPR 380/2001 ai fini dell’irrogazione della sanzione
pecuniaria ivi prevista.
6. In conclusione, in accoglimento del secondo motivo di
ricorso, va disposto l’annullamento del provvedimento
impugnato
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 21.04.2017 n. 540 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’accatastamento assume rilievo soltanto ai fini
fiscali, oltre ad essere rivolto all’Autorità Amministrativa
Statale e non può in alcun modo surrogare i titoli
abilitativi edilizi di spettanza dei Comuni (cfr. TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 20.03.2009, n. 1954, per cui
<<…l’accatastamento svolge una funzione di certificazione
dello stato di fatto, ma non produce alcun effetto di
regolarizzazione degli immobili>>).
---------------
Ciò premesso, non sembra che possa seriamente essere messo
in discussione il carattere abusivo delle modificazioni in
corso d’opera realizzate sul progetto originario assentito
nel 1952 a favore dei Fratelli Re., danti causa degli
attuali ricorrenti.
Questi ultimi ammettono anche nel gravame di avere
realizzato delle modifiche in corso d’opera, che qualificano
come “di modesta entità” (cfr. pag. 3 del ricorso), anche
se in realtà tali variazioni hanno determinato una modifica
della sagoma, della superficie lorda di pavimento (slp),
delle aperture in facciata ed un incremento della volumetria
oltre gli indici di zona (cfr. ancora la relazione tecnica
del 25.07.2012, doc. 2 del resistente).
Si tratta di interventi edilizi necessitanti di apposito
titolo e non può essere ritenuta equipollente a
quest’ultimo, come sembrano invece sostenere i ricorrenti,
la mera presentazione della documentazione catastale.
L’accatastamento, infatti, assume rilievo soltanto ai fini
fiscali, oltre ad essere rivolto all’Autorità Amministrativa
Statale e non può in alcun modo surrogare i titoli
abilitativi edilizi di spettanza dei Comuni (cfr. TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 20.03.2009, n. 1954, per cui
<<…l’accatastamento svolge una funzione di certificazione
dello stato di fatto, ma non produce alcun effetto di
regolarizzazione degli immobili>>).
La circostanza che le opere abusive fossero conformi alla
normativa urbanistica ed edilizia esistente, quand’anche
fosse veritiera, non esclude la necessità di un titolo
abilitativo a sanatoria, sempre da rilasciarsi da parte del
Comune
(TAR Lombardia, Sez. II,
sentenza 30.03.2017 n. 857 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In omaggio al consolidato
indirizzo giurisprudenziale, l’abuso edilizio costituisce
illecito permanente, senza che il decorso del tempo privi il
Comune del proprio potere/dovere di repressione dell’abuso,
soprattutto nel caso di specie in cui l’autore dell’abuso è
dante causa dei ricorrenti e le opere abusive –delle quali
gli esponenti hanno ampiamente beneficiato nel corso degli
anni- non appaiono certo, come già evidenziato, modeste o
minimali, visto l’aumento di slp e di volume dell’edificio.
Parimenti e contrariamente a quanto sostenuto in ricorso,
non vi è stata neppure prescrizione del potere di
irrogazione della sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 28
della legge 689/1981 (<<Il diritto a riscuotere le somme
dovute per le violazioni indicate dalla presente legge si
prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è
stata commessa la violazione>>).
L’applicazione di tale norma agli illeciti amministrativi
edilizi deve, infatti, tenere conto del carattere permanente
di questi ultimi, sicché la prescrizione quinquennale di cui
all’art. 28 decorre soltanto dalla cessazione della
permanenza, ad esempio in caso di ripristino dello stato dei
luoghi o dal momento di irrogazione della sanzione.
---------------
1.2 Nel secondo motivo di gravame, si sostiene in primo luogo che il
decorso del tempo dall’abuso (circa sessanta anni) avrebbe
ingenerato nel privato un affidamento meritevole di tutela.
La tesi non può trovare accoglimento, in omaggio al
consolidato indirizzo giurisprudenziale per il quale l’abuso
edilizio costituisce illecito permanente, senza che il
decorso del tempo privi il Comune del proprio potere/dovere
di repressione dell’abuso, soprattutto nel caso di specie in
cui l’autore dell’abuso è dante causa dei ricorrenti e le
opere abusive –delle quali gli esponenti hanno ampiamente
beneficiato nel corso degli anni- non appaiono certo, come
già evidenziato, modeste o minimali, visto l’aumento di slp
e di volume dell’edificio (cfr., fra le tante, Consiglio di
Stato, sez. V, 05.01.2015, n. 13; TAR Lazio, sez. I-quater,
27.05.2013, n. 5277 e TAR Lombardia, Milano, sez. II,
18.11.2011, n. 2786).
Parimenti e contrariamente a quanto sostenuto in ricorso,
non vi è stata neppure prescrizione del potere di
irrogazione della sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 28
della legge 689/1981 (<<Il diritto a riscuotere le somme
dovute per le violazioni indicate dalla presente legge si
prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è
stata commessa la violazione>>).
L’applicazione di tale norma agli illeciti amministrativi
edilizi deve, infatti, tenere conto del carattere permanente
di questi ultimi, sicché la prescrizione quinquennale di cui
all’art. 28 decorre soltanto dalla cessazione della
permanenza, ad esempio in caso di ripristino dello stato dei
luoghi o dal momento di irrogazione della sanzione (cfr.
Consiglio di Stato, sez. I, 12.07.2013, n. 3565 e TAR
Lombardia, Milano, sez. IV, 20.06.2013, n. 1593).
In conclusione, deve rigettarsi anche il secondo motivo di
ricorso
(TAR Lombardia, Sez. II,
sentenza 30.03.2017 n. 857 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente
all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce
l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e,
quindi, di far venir meno l’interesse alla sua impugnazione.
Invero, il riesame dell'abusività dell'opera provocato
dall’istanza di sanatoria, sia pure al fine di verificare
l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ex se comporta
la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di
accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal
momento che, in caso di diniego del richiesto accertamento
di conformità, l’amministrazione dovrebbe emettere una nuova
ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini
per ottemperarvi.
---------------
Ed infatti, come più sopra già si è accennato, la
presentazione dell'istanza di sanatoria successivamente
all'impugnazione dell'ordinanza di demolizione produce
l'effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e,
quindi, di far venir meno l’interesse alla sua impugnazione.
Come ritenuto da un consistente filone giurisprudenziale
(cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 5228 del
2011), già fatto proprio anche da questa Sezione (cfr. sentt.
n. 813 del 2012, n. 758 del 2013 e n. 457 del 2014), il
riesame dell'abusività dell'opera provocato dall’istanza di
sanatoria, sia pure al fine di verificare l'eventuale
sanabilità di quanto costruito, ex se comporta la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di
accoglimento o di rigetto) che vale comunque a superare il
provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa, dal
momento che, in caso di diniego del richiesto accertamento
di conformità, l’amministrazione dovrebbe emettere una nuova
ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini
per ottemperarvi (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 16.04.2015 n. 595 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 17.07.2017 |
ã |
Parco Adda Nord: NO COMMENT! |
ENTI LOCALI:
Parco Adda Nord, quell’intreccio di assunzioni e
consulenze. L’accordo per un neo dirigente e gli
incarichi per Purcaro, direttore generale di un ente
socio: la Provincia
(15.07.2017 - tratto da e link a http://bergamo.corriere.it).
«Ci si
chiede: ma l’incompatibilità è data dal pagamento
dell’incarico o dal doppio ruolo?». Con queste
parole la commissione regionale d’inchiesta sul
Parco Adda Nord, voluta dall’assessore regionale
Claudia Terzi, pone un interrogativo sulle posizioni
e sugli incarichi di consulenza di
Antonio Sebastiano Purcaro,
professionista stimato su più fronti nel mondo della
pubblica amministrazione bergamasca e lombarda, già
direttore generale del Comune di Treviglio e da
gennaio 2016 nello stesso ruolo per la Provincia di
Bergamo. Ma anche, almeno fino al 2016, consulente
di quel Parco di cui la Provincia è socia.
Gli architetti
La figura del direttore generale di Via Tasso è
citata più volte negli atti, visionati dal Corriere,
della commissione d’inchiesta coordinata da Maria
Pia Redaelli e in cui ha lavorato come commissario,
con un ruolo di primo piano, anche Giovanna
Ceribelli, la commercialista di Caprino Bergamasco
che è anche componente dell’Autorità
regionale anti corruzione.
Ma i protagonisti di questa vicenda, segnalati dalla
commissione alla procura della Repubblica di Milano,
sono anche altri. Ad esempio
Giuseppe Luigi Minei,
architetto e direttore generale del Parco Adda Nord
dal febbraio 2013, dopo 10 anni di lavoro
all’ufficio tecnico di Truccazzano. Oppure
Francesca Moroni,
di Cassano d’Adda, che nel 2014 vince con un
concorso il posto all’ufficio urbanistica dell’Adda
Nord: in passato era una sottoposta dello stesso
Minei
proprio a Truccazzano. Il direttore generale è nella
commissione che dà il via libera all’assunzione di
Moroni,
eppure, annota la commissione d’inchiesta, secondo
la legge chi giudica un profilo professionale e una
candidatura non dovrebbe aver avuto rapporti, né nel
presente e né in passato, con i partecipanti al
concorso.
La graduatoria
A fine 2015 lo stesso Minei,
dopo un bando andato deserto per un ruolo di «istruttore
direttivo tecnico», decide di ricorrere a una
graduatoria del Comune di Treviglio, dove due anni
prima c’era stato un bando per un ruolo della stessa
categoria. L’accordo per pescare da quella
classifica viene firmato da Minei,
da un lato, e da Purcaro
dall’altro, per conto del Comune di Treviglio. Il
primo classificato era stato assunto dall’ente della
Bassa, il secondo era l’architetto
Francesca Moroni,
che grazie alla graduatoria trevigliese sale così di
livello all’interno del Parco Adda Nord.
«Incompatibilità»
Ma è proprio su questi passaggi che si innesta il
lavoro d’inchiesta su Purcaro.
A marzo 2015 aveva ricevuto una consulenza dal Parco
«per attività di formazione e aggiornamento in
ambito formativo». Ma alla fine di quell’anno
firma l’accordo, per conto del Comune di Treviglio,
sull’utilizzo della graduatoria. Il 14.01.2016,
quindi poche settimane dopo, passa da Treviglio alla
segreteria generale della Provincia di Bergamo, dove
è tuttora: l’ente di Via Tasso è socio del Parco
Adda Nord, ma non risultano —alla commissione
d’inchiesta— rinunce agli incarichi di consulenza.
Anzi, il 29.01.2016, tutto nel giro di pochi giorni
e poche settimane, per Purcaro
arriva un’altra consulenza dal Parco, per il 2016,
con lo stesso oggetto: «formazione e
aggiornamento professionale».
C’è incompatibilità, secondo la commissione: non
puoi essere direttore generale di un ente che è
socio di un altro ente di cui sei consulente. Ma,
annotano gli «investigatori» della Regione,
solo a luglio Purcaro
rinuncia agli emolumenti del Parco per le consulenze
e, appunto, «ci si chiede —scrivono i
commissari—: l’incompatibilità è data dal pagamento
degli incarichi o dal doppio ruolo?».
Gli incarichi
Un’ultima contestazione riguarda invece proprio la
natura degli incarichi all’ex dg di Treviglio, poi
in Provincia. Sono «incarichi da 6.000 euro lordi
all’anno per formazione e aggiornamento
professionale», si legge nelle determine. «Ma
pensiamo che da questa documentazione —scrive la
commissione— risulti chiaro che il dottor
Purcaro
facesse attività di consulenza e non di formazione,
tanto che lo stesso presidente del Parco, il
bergamasco Agostino Agostinelli,
a febbraio 2016, lo definisce proprio “consulente”
durante il consiglio di gestione».
Attività che non sarebbe consentita per i dipendenti
di altri enti, a meno che non si chieda
l’autorizzazione al proprio datore di lavoro (in
questo caso il Comune di Treviglio).
Alla commissione non risulta che ci sia stata una
richiesta e, anzi, «l’emolumento
corrisposto o da corrispondere al dottor
Purcaro
va versato nelle casse del Comune».
I commenti
Per tutto il pomeriggio di ieri
Antonio Purcaro,
che è in un periodo di ferie, non è stato
raggiungibile telefonicamente. Ha invece rilasciato
le sue dichiarazioni l’ex presidente
Agostinelli,
bergamasco del Pd, che si era dimesso a ottobre
2016.
«Contesto
il fatto che Purcaro
avesse rinunciato agli emolumenti per le consulenze
a luglio, secondo me l’aveva fatto molto prima.
Comunque, provo una certa irritazione nel sapere
certe cose dal Corriere e non ufficialmente dalla
Regione Lombardia. Leggo di una serie di rilievi su
procedure amministrative che non riguardavano il mio
ruolo, ma i funzionari e i dirigenti. E anche dopo
aver letto non credo che avessero fatto tanto male
da meritarsi un tritacarne mediatico come quello in
corso. Minei
si era dimesso un anno prima di me e io, che avevo
già intenzione di lasciare, ero rimasto lì per non
abbandonare l’ente a se stesso.
Francesca Moroni,
inoltre, è stata ed è una funzionaria capace,
competente, che non tralascia nulla ed è in grado di
risolvere molte pratiche nel suo settore. Questo è
quel che posso dire. Quanto a
Purcaro,
un professionista davvero preparato, che costava al
Parco sei mila euro lordi all’anno. Se questi sono i
rilievi, ragazzi...». |
ENTI LOCALI: Incarichi
e promozioni in famiglia: la cricca del Parco Adda
Nord
(link a http://milano.corriere.it).
Mogli, amiche e parenti. Il caso dei
funzionari-consulenti. La commissione istituita
dalla Regione ha concluso le indagini e inviato gli
atti alla Procura di Milano.
La cricca del Parco Adda Nord lavora lì, nei
cinquemila650 ettari di verde lungo il fiume Adda,
da Lecco alle porte di Milano, tra gli scorci
paesaggistici in cui Alessandro Manzoni ambienta i
Promessi Sposi e i simboli dell’archeologia
industriale. L’architetto Giuseppe
Luigi Minei,
nato a Matera ma di casa a Cassano D’Adda, viene
nominato direttore del Parco Adda Nord il
15.02.2013, dopo avere lavorato dieci anni per il
Comune di Truccazzano, dov’è stato direttore del
servizio di gestione del territorio. Il primo
dicembre 2014 la giovane collega
Francesca Moroni,
di cui Minei
è stato superiore proprio a Truccazzano, vince un
posto all’ufficio urbanistica del Parco: nella
commissione d’esame che deve decidere a chi
assegnare l’incarico siede lui, anche se per obbligo
di legge non ci dev’essere nessun rapporto, passato
e presente, con i partecipanti al concorso.
Il 23.12.2015, lo stesso Minei
apre per soli 15 giorni (fino al 07.01.2016, contro
i 30 previsti dalle norme in materia) una procedura
di mobilità volontaria per un ruolo di istruttore
direttivo tecnico: il bando va deserto. La decisione
è di ricorrere alle graduatorie del Comune di
Treviglio, dove quasi due anni prima è stato indetto
un concorso per un posto da funzionario tecnico
della stessa categoria (la D). Al primo posto è
arrivato un certo Fabiano Rosa, poi assunto al
Comune di Treviglio; al secondo la stessa
Francesca Moroni,
che così, invece di un lavoro a Treviglio, a fare
data dal 15.02.2016 s’aggiudica il nuovo incarico al
Parco. Una promozione che dopo cinque anni permette
di diventare dirigente, con un salto in termini
economici.
L’accordo per potere utilizzare la graduatoria di
Treviglio viene firmato poche settimane prima della
nomina di Moroni,
il 29.01.2016, con il segretario generale del Comune
Antonio Sebastiano Purcaro
(oggi segretario generale della Provincia di
Bergamo). Sempre lui, il 18.03.2015, ha ricevuto una
consulenza da seimila euro dal Parco, rinnovata lo
stesso giorno della firma della convenzione, il 29
gennaio. Nel luglio 2016, Purcaro
rinuncia a sorpresa al compenso. Nel frattempo è
diventato segretario generale della Provincia di
Bergamo.
Consulente giuridico del Parco è l’avvocato
Paolo Moroni,
che ha ricevuto otto incarichi nel 2013, undici nel
2014, tre nel 2015 e quattro nel 2016. Per un totale
di 73.568,52 euro. Tutti a firma del direttore
Minei,
tutti scarsamente motivati. In una segnalazione
pervenuta alla commissione d’inchiesta aperta da
Regione Lombardia sul Parco Adda Nord (non
verificata, perché tutti i documenti ora sono al
vaglio della Procura) risulta che
Paolo Moroni
è cugino di Francesca Moroni.
Al Parco, sotto Minei,
lavora anche come vicedirettore l’ingegnere
Alex Giovanni Bani,
contemporaneamente responsabile del settore tecnico
del Comune di Trezzano Rosa. È sua la firma di una
delibera del 22.07.2015 per la progettazione e la
direzione lavori della ristrutturazione della scuola
intitolata alla giornalista Ilaria Alpi. L’incarico
è affidato all’architetto Tiziana
Di Zinno
di Cassano D’Adda, moglie di Minei.
È un’infilata di atti considerati irregolari, quella
che emerge dalle verifiche ispettive condotte al
Parco Adda Nord dalla commissione d’inchiesta
istituita da Regione Lombardia e coordinata da Maria
Pia Readelli degli Uffici regionali dei controlli.
Determinante per le indagini il lavoro dei due
componenti dell’Agenzia regionale
dell’Anticorruzione (Arac), Giovanna Ceribelli e
Sergio Arcuri.
Il Corriere ha visionato i documenti, tutti inviati
alla Procura di Milano, come annunciato lo scorso 27
giugno dall’assessore regionale all’Ambiente Claudia
Terzi (Lega). Le ispezioni si sono svolte tra il
19.10.2016 e il 21.06.2017. A ridosso dell’avvio
delle indagini, il 26.09.2016 il bergamasco
Agostino Agostinelli
(Pd) si è dimesso dalla carica di presidente del
Parco occupata da nove anni. Giovanna Ceribelli e
Sergio Arcuri dell’Arac non hanno dubbi: «L’assunzione
dell’architetto Francesca Moroni
effettuata con lo scorrimento della graduatoria (in
un momento oltretutto in cui era in vigore il blocco
delle assunzioni pubbliche) è illegittima e deve
essere revocata».
Del resto, anche per il ruolo all’ufficio
urbanistica assunto nel dicembre 2014, vengono
sollevate contestazioni: «Come poteva il
direttore del Parco —è la domanda— dichiarare di non
avere avuto rapporti con l’architetto
Moroni,
quando gli stessi lavoravano nel medesimo ufficio
tecnico al Comune di Truccazzano?».
Bocciato l’accordo firmato tra il dg
Minei
e il segretario comunale Antonio
Purcaro
per poter pescare l’architetto
Moroni
dalle graduatorie di Treviglio: «Purcaro,
in quanto consulente del Parco è incompatibile a
sottoscrivere accordi».
Contestate anche le consulenze legali affidate
all’avvocato Paolo Moroni:
«Gli atti di affidamento degli incarichi (...)
risultano scarsamente motivati (...) e realizzati
per di più in assenza di procedure comparative».
L’incarico di Minei
come dg del Parco finisce nel marzo 2016. Neppure
due mesi dopo, con una delibera del 23 maggio,
Minei
riceve dal Parco l’incarico di direttore lavori per
le «Opere di compensazione ambientale Autostrada
A4 Trezzo sull’Adda-Capriate San Gervasio». In
sintesi: «Minei
—sottolineano gli ispettori regionali— ha svolto un
ruolo di rilievo nella realizzazione di una gara per
lo svolgimento di lavori che oggi egli stesso dirige».
E non finisce qui (articolo
Corriere della Sera del 14.07.2017). |
|
|
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
i sindacati
scrivono al Legislatore perché modifichi la norma "capestro"... |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Oggetto: Invio proposta emendativa all’AS-2860
(Conversione in legge del decreto-legge 20.06.2017, n. 91,
recante disposizioni urgenti per la crescita economica nel
Mezzogiorno) (CGIL-CISL-UIL-FP,
nota 05.07.2017). |
Tuttavia, forse non ce ne sarà bisogno poiché
-giocando d'anticipo- si è mossa anche una sezione
regionale della Corte dei Conti che non è d'accordo
con quanto statuito dalla Sez. Autonomie nello
scorso aprile: |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: La
Sezione, considerata l’esigenza di un’interpretazione
uniforme della normativa disciplinante gli incentivi tecnici
di cui al comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016,
ai fini del rispetto dei limiti di spesa del personale,
sospende la decisione sul parere richiesto dal Comune di
Ceriale (SV) per sottoporre al Presidente della Corte dei
conti la seguente questione di massima:
- “se gli incentivi tecnici di cui al comma 2 dell’art. 113
del d.lgs. n. 50 del 2016, debbano essere ricompresi nel
computo della spesa rilevante ai fini del rispetto del tetto
di spesa previsto dall’art. 1, comma 557, della legge n. 296
del 2006, nonché ai fini del rispetto del tetto di spesa
previsto dall’art. 1, comma 236, della legge n. 208 del
2015.
---------------
... il Sindaco del Comune di Ceriale (SV) ha chiesto alla
Sezione di controllo un parere in materia di spesa del
personale.
In particolare, il Comune vuole sapere se l’ente, soggetto
al patto di stabilità (ora pareggio di bilancio), debba
inserire nel calcolo della spesa per il personale, ai fini
della verifica del rispetto del limite previsto dell'art. 1,
comma. 557, della legge n. 296 del 2006, rispetto alla media
del triennio 2011-2013, anche gli oneri derivanti
dall'erogazione degli incentivi per le funzioni tecniche di
cui all'art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016.
La norma richiamata prevede al comma 1 che ''Gli oneri
inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori
ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai
collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di
conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche
connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di
coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di
esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo
09.04.2005 n. 81, alle prestazioni professionali e
specialistiche, necessarie per la redazione di un progetto
esecutivo completo in ogni dettaglio, fanno carico agli
stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli
appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di
previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni
appaltanti".
Il successivo comma 2 stabilisce che, “a valere sugli
stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni
aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse
finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate
sull'incarico dei lavori, servizi e forniture, posti a base
di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle
stesse esclusivamente per le attività di programmazione
della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei
progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure
di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di
responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori
ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico
amministrativo ovvero di verifica di conformità, di
collaudatore statico ove necessario per consentire
l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base
di gara, dei progetti, dei tempi e costi prestabiliti”.
Le disposizioni citate prevedono la possibilità di
accantonamento delle risorse finanziarie da destinare al
fondo per lo svolgimento di funzioni tecniche da parte di
dipendenti pubblici nell'ambito di opere/lavori, servizi e
forniture. Condizione essenziale ai fini del riparto tra gli
aventi diritto alle risorse accantonate sul fondo è
l'adozione di apposito regolamento da parte dell'ente.
Da ciò sembra conseguire che la nuova disciplina degli
incentivi escluda i progettisti per indirizzarsi verso le
attività tecnico-burocratiche (programmazione, procedure di
gara, esecuzione dei contratti, verifica di conformità,
ecc.), estendendo anche agli appalti di forniture e di
servizi la possibilità di partecipare alla ripartizione
degli incentivi per funzioni tecniche.
Sulla base delle norme e pronunce intervenute, il Comune di
Ceriale intende approvare il regolamento degli incentivi per
le funzioni tecniche di cui all'art. 113 del d.lgs.
18.04.2016 n. 50, stabilendo che non concorrano ad
alimentare il fondo tutti i lavori, servizi o forniture di
importo inferiore ad euro 5.000,00.
Il Sindaco chiede di sapere se i compensi per le funzioni
tecniche previsti nel nuovo codice degli appalti,
apparentemente differenti dagli incentivi alla progettazione
(previsti dalla legge 109 del 1994 prima e dal d.lgs. 163
del 2006 poi) sfuggano, come questi ultimi, al limite della
spesa di personale previsto dall’art. 1, comma 557, della
legge 296 del 2006 (riduzione della spesa del personale
rispetto a quella sostenuta nella media del triennio
2011-2013) come stabilito dalla Sezione delle Autonomie con
deliberazione 13.11.2009 n. 16
(che, ai fini del computo delle voci di spesa da ridurre a
norma dell’art. 1, commi 557 e 562, della legge 27.12.2006,
n. 296, aveva escluso gli incentivi per la progettazione
interna di cui al previgente codice degli appalti a motivo
della loro riconosciuta natura “di spese di investimento”,
attinenti alla gestione in conto capitale, iscritte nel
titolo II della spesa, e finanziate nell’ambito dei fondi
stanziati per la realizzazione di un’opera pubblica, e non
di spese di funzionamento).
Inoltre, qualora la risposta al quesito dovesse essere
negativa, l’ente chiede di sapere se i predetti incentivi
siano o meno esclusi dal computo dei limiti del trattamento
accessorio disciplinato dall'art. 1, comma 236, della legge
n. 208 del 2015.
...
Nel merito il quesito riguarda i “nuovi” incentivi
tecnici previsti dall'art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016. In
particolare, il Comune chiede di sapere se tali incentivi
debbano essere inseriti nel calcolo della spesa per il
personale, ai fini della verifica del rispetto del limite
previsto dell'art. 1, comma. 557, della legge n. 296 del
2006 (limite rappresentato dalla spesa media del triennio
2011-2013).
Per individuare un percorso interpretativo idoneo a dare
soluzione al quesito all’esame di questo Collegio, occorre
ricordare quanto la normativa previgente disponeva e le
soluzioni al riguardo adottate dalle Sezioni di controllo di
questa Corte dei conti.
In proposito il d.lgs. 163 del 2006, all’art. 93,
disciplinava i cd. incentivi alla progettazione:
- Comma 7-bis. “A valere sugli stanziamenti di cui al comma 7
(stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli
lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci
delle stazioni appaltanti), le amministrazioni pubbliche
destinano ad un fondo per la progettazione e l’innovazione
risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento
degli importi posti a base di gara di un’opera o di un
lavoro; la percentuale effettiva è stabilita da un
regolamento adottato dall’amministrazione, in rapporto
all’entità e alla complessità dell’opera da realizzare”.
- Comma 7-ter. “L’80 per cento delle risorse finanziarie del
fondo per la progettazione e l’innovazione è ripartito, per
ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri
previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa
del personale e adottati nel regolamento di cui al comma
7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati
della redazione del progetto, del piano della sicurezza,
della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli
oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell’amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di
riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle
responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da
svolgere, con particolare riferimento a quelle
effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica
funzionale ricoperta, della complessità delle opere,
escludendo le attività manutentive, e dell’effettivo
rispetto, in fase di realizzazione dell’opera, dei tempi e
dei costi previsti dal quadro economico del progetto
esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì ……”.
Sulla rilevanza di tali incentivi, e del relativo fondo, ai
fini del computo della spesa del personale rilevante al fine
del rispetto del tetto di spesa complessivo di cui all’art.
1, comma 557, della legge n. 296 del 2006, nonché dei limiti
stabiliti per le risorse destinate annualmente al
trattamento accessorio del personale ex art. 9, comma 2-bis,
del d.l. n. 78/2010, previsto dalla normativa vigente, si
sono espresse tanto le Sezioni riunite, che la Sezione delle
Autonomie.
Quest’ultima, con la
deliberazione 13.11.2009 n. 16, aveva disposto, ai fini del
computo delle voci di spesa da ridurre a norma dell’art. 1,
commi 557 e 562, della legge 27.12.2006, n. 296,
l’esclusione degli incentivi per la progettazione interna a
motivo della loro riconosciuta natura “di spese di
investimento, attinenti alla gestione in conto capitale,
iscritte nel titolo II della spesa, e finanziate nell’ambito
dei fondi stanziati per la realizzazione di un’opera
pubblica, e non di spese di funzionamento”.
Le Sezioni Riunite, a loro volta, con la
deliberazione 04.10.2011 n. 51, avevano
escluso dal rispetto del limite di spesa posto dall’art. 9,
comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, tutti quei compensi per
prestazioni professionali specialistiche offerte da soggetti
qualificati, tra i quali l’incentivo per la progettazione ex
art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006.
La giurisprudenza contabile aveva, pertanto, escluso gli
incentivi previsti dal vecchio codice degli appalti dal
computo rilevante ai fini del rispetto di entrambi i tetti
di spesa sopra menzionati.
Se tale è il punto da cui partire per dare risposta al
quesito odierno, occorre ponderare se la nuova formulazione
normativa utilizzata in materia di incentivi “tecnici”,
nell’ambito del nuovo codice dei contratti, possa
giustificare una diversa soluzione rispetto a quanto già
statuito dai giudici contabili.
A parere di questa Sezione vi sono plurimi elementi
interpretativi che fanno propendere per una conferma
dell’orientamento giurisprudenziale formatosi sotto la
vigenza del precedente quadro normativo, escludendo gli
incentivi tecnici dal rispetto dei limiti di spesa sopra
richiamati e disciplinati dall’art. 1, comma 557, della
legge n. 296 del 2006 (come riformulato), nonché dall’art.
1, comma 236, della legge n. 208/2015, che riproduce,
sostanzialmente, il limite disposto dall’art. 9, comma 2-bis, fissando il tetto di spesa nell’ammontare del fondo per
il trattamento accessorio determinato nell’esercizio
finanziario 2015.
Il Collegio, infatti, ritiene si sia in presenza non tanto
di una nuova norma in materia di incentivi, bensì di una
diversa formulazione volta a regolare in modo differente e,
a tratti, più ampi, la materia degli incentivi previsti
nell’ambito dei contratti pubblici.
Al riguardo la Sezione prende atto che la Sezione delle
Autonomie, con la recente
deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha stabilito che gli incentivi per
le funzioni tecniche rientrano nel tetto del fondo per la
contrattazione decentrata (“Gli incentivi per funzioni
tecniche di cui all’articolo 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016
sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui
all’articolo 1, comma 236, legge n. 208/2015”)
e
dell’iter argomentativo che ha determinato la Sezione citata
ad esprimersi in tal senso, che si procede di seguito a
riportare:
a) “la incentivazione delle funzioni tecniche di cui
all’articolo 113 del d.lgs. n. 50/2016 non è sovrapponibile
all’incentivo per la progettazione di cui all’art. 93, comma
7-bis, del d.lgs. n. 163/2006, oggi abrogato, in quanto la
prima remunera specifiche e determinate attività di natura
tecnica svolte dai dipendenti pubblici, tra cui quelle della
programmazione, predisposizione e controllo delle procedure
di gara e dell’esecuzione del contratto escludendo
l’applicazione degli incentivi alla progettazione”;
b) “nei nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che
consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata
ad investimenti; il fatto che tali emolumenti siano
erogabili, con carattere di generalità, anche per gli
appalti di servizi e forniture comporta che gli stessi si
configurino, in maniera inequivocabile, come spese di
funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di
personale)”;
c) “non si ravvisano gli ulteriori presupposti delineati dalle
Sezioni Riunite (nella richiamata
deliberazione 04.10.2011 n. 51), per escludere gli incentivi di
cui trattasi dal limite del tetto di spesa per i trattamenti
accessori del personale dipendente in quanto essi non vanno
a remunerare prestazioni professionali tipiche di soggetti
individuati e individuabili acquisibili anche attraverso il
ricorso a personale esterno alla P.A.”;
d) “evidente l’intento del legislatore di ampliare il novero dei
beneficiari degli incentivi in esame, individuati nei
profili, tecnici e non, del personale pubblico coinvolto
nelle diverse fasi del procedimento di spesa, dalla
programmazione (che nel nuovo codice dei contratti pubblici,
all’art. 21, è resa obbligatoria anche per l’acquisto di
beni e servizi) all’esecuzione del contratto. Al contempo,
la citata disposizione richiama gli istituti della
contrattazione decentrata, il che può essere inteso come una
sottolineatura dell’applicazione dei limiti di spesa alle
risorse decentrate”.
Se questo Collegio ritenesse di condividere l’iter
argomentativo sopra illustrato la risposta da dare al
quesito posto dal Sindaco del Comune di Ceriale non potrebbe
che essere opposto alla conclusione attesa e suggerita
dall’ente, cosicché il fondo per gli incentivi tecnici di
cui al nuovo codice dei contratti, dovrebbe essere,
conseguentemente, ricompreso nel computo rilevante ai fini
del rispetto dei limiti indicati dall’art. 1, comma 557,
della legge n. 296 del 2006 (media del triennio 2011/2013).
Ritenere gli incentivi tecnici privi di una loro specificità
che li renda estranei alla disciplina generale concernente
il tetto alla spesa di personale, condurrebbe ad accettare
l’interpretazione sostenuta dalla Sezione delle Autonomie,
le cui conclusioni, pur riguardando il fondo per la
contrattazione decentrata, finirebbero per attagliarsi
perfettamente anche alla fattispecie in esame.
Questo Collegio ritiene, tuttavia, che la soluzione accolta
dalla suddetta Sezione centrale non sia sorretta da un
convincente iter motivazionale e, soprattutto, che possa dar
luogo ad incongruenze tali da determinare, da un lato,
l’inapplicabilità della norma in determinate fattispecie e,
dall’altro, un possibile aumento della spesa di personale,
realizzando, in tal modo, una finalità opposta rispetto a
quella perseguita dalla medesima Sezione.
Le motivazioni addotte da quest’ultima per ricomprendere gli
incentivi tecnici nel tetto di spesa non appaiono, in vero,
convincenti, sotto molteplici profili:
a1) il mancato riferimento della norma agli incentivi per la
progettazione dá conto esclusivamente della diversità della
norma attuale rispetto al quadro normativo precedente.
Diversità che, di per sé, non può fornire alcuna indicazione
circa l’inclusione o meno nel tetto di spesa degli incentivi
tecnici, ma che tutt’al più dimostra come i “nuovi”
incentivi vadano visti da una diversa angolazione, che si
allontana dalle motivazioni richiamate dalle precedenti
delibere tanto della Sezione delle Autonomie del 2009, che
delle Sezioni Riunite del 2011;
b1) è’ indubbio, infatti, che se pur con una formulazione normativa
infelice (nei primi due commi dell’art. 113 il riferimento è
esclusivamente ai “lavori”), l’attuale quadro normativo
determina l’applicazione degli incentivi tecnici anche ai
contratti riferiti a servizi e forniture, essendo in tal
senso esplicito il comma 3 dell’art. 113, il quale statuisce
che l'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo deve
essere ripartito, oltre che per ciascuna opera o lavoro,
anche per ciascun servizio e fornitura. Va, tuttavia,
evidenziato che, in realtà, anche nei primi due commi si
rinvengono espliciti riferimenti ai contratti diversi dai
lavori, atteso che in essi vi è un richiamo espresso alle
verifiche di conformità, ossia al “collaudo” delle forniture
e dei servizi.
Motivo per cui per gli incentivi previsti per tali contratti
non può parlarsi di spese riferite agli investimenti. Ma è
dubbio che di investimenti possa parlarsi anche con
riferimento ai precedenti incentivi alla progettazione. In
tal senso offrono supporto normativo tanto la legge n. 350
del 2003, che la
deliberazione
30.06.2010 n. 33
delle Sezioni Riunite.
Ed, infatti, la norma del 2003, all’art. 3, comma 16 e
ss.gg., fissa in modo univoco quali debbano essere
considerate spese di investimento e, nell’elenco non vi è
nulla di riconducibile agli incentivi alla progettazione
che, pertanto, sulla base del chiaro disposto normativo, non
possono considerarsi spese di investimento (o “attinenti”).
La delibera delle Sezioni Riunite, poi, prevede che nella
quantificazione dei fondi per l’incentivazione vadano
accantonate le somme che gravano sull’ente per oneri fiscali
a titolo di Irap. E tali oneri sono certamente incompatibili
con le spese di investimento;
c1) per la Sezione delle Autonomie, inoltre, gli incentivi in esame
non possono essere esclusi dal limite del tetto di spesa in
quanto essi non vanno a remunerare prestazioni professionali
tipiche di soggetti individuati e individuabili, acquisibili
anche attraverso il ricorso a personale esterno alla P.A.
Ma tale conclusione sembra, in vero, provare troppo, alla
luce del confronto tra le due norme, quella del d.lgs.
163/2006 e quella attuale: entrambe, ad esempio, riferiscono
gli incentivi alla direzione dei lavori ed al collaudo.
Inoltre, va evidenziato che la giurisprudenza contabile
aveva esteso l’incentivo alla progettazione anche ad altre
figure, oggi espressamente richiamate dall’art. 113 citato.
Al riguardo la Sezione delle Autonomie, con
deliberazione 13.05.2016 n. 18, aveva
riconosciuto esplicitamente l’incentivo alla progettazione
al responsabile unico del procedimento (figura professionale
oggi espressamente prevista dalla norma in esame). Aveva,
altresì, individuato una nozione di collaboratori,
riferendola “alle professionalità –di norma tecniche–
individuate in sede di costituzione dell’apposito staff, le
quali devono porsi in stretta correlazione funzionale e
teleologica rispetto alle attività da compiere per la
realizzazione dell’opera a regola d’arte e nei termini
preventivati”.
Quanto procede rende possibile affermare che
l’individuazione dei soggetti aventi diritto all’incentivo
non avviene più mediante il riferimento ad una figura
specifica, bensì attraverso le funzioni “tecniche”,
garantendo l’incentivo ai dipendenti pubblici che le
espletano.
È indubbio che la norma non preveda più la progettazione, ma
questo è un diverso aspetto che testimonia la novità della
novella legislativa e la necessità di leggere il nuovo
quadro normativo ricorrendo ad altre considerazioni che
consentano un’interpretazione conforme alla voluntas
legis. In disparte, poi, se la novella abbia realmente
escluso la possibilità di ricorrere alla progettazione
interna o di escludere la stessa da qualsiasi incentivo;
d1) quanto appena evidenziato, pone in dubbio anche l’ultimo
sostegno argomentativo utilizzato dalla Sezione delle
Autonomie per le quali è “evidente” l’intento del
legislatore di ampliare il novero dei beneficiari degli
incentivi in esame, individuati nei profili, tecnici e non,
del personale pubblico.
Come già osservato, le figure destinatarie degli incentivi
sono individuate mediante il ricorso alle funzioni tecniche.
Altre funzioni sono escluse e non sono ricompresi profili
“non tecnici”. Qualora detto riferimento riguardasse i
collaboratori, la stessa Sezione delle Autonomie ha
chiarito, nella
deliberazione 13.05.2016 n. 18
sopra richiamata, quale sia
la corretta individuazione di siffatta categoria.
Da ultimo, il richiamo agli istituti della contrattazione
decentrata non appare utile a sostenere un differente
orientamento interpretativo, in quanto anche la normativa
precedente richiedeva il ricorso allo strumento collettivo
per determinare ed erogare i compensi in esame.
Tanto detto,
se il percorso interpretativo utilizzato dalla
Sezione delle Autonomie non appare convincente, è necessario
pervenire ad una più corretta sistemazione giuridica
all’istituto degli incentivi tecnici di cui all’art. 113 del
nuovo codice degli appalti.
L’analisi svolta sinora sembra evidenziare che l’istituto in
esame abbia certamente un respiro differente rispetto a
quello del vecchio testo dell’art. 93 del d.lgs. 163 del
2006, ma che, tuttavia, ne rispetti le finalità.
La volontà del legislatore è volta ad ottenere il miglior
risultato possibile nell’esecuzione dei contratti pubblici.
L’importanza di questi nella realizzazione dell’interesse
pubblico, nonché la rilevanza della spesa impegnata sui
bilanci pubblici, ha spinto il medesimo a coinvolgere le
risorse interne degli enti al fine di ottenere la massima
soddisfazione dall’esecuzione del contratto (sia di lavori,
forniture o servizi), con il miglior coinvolgimento delle
risorse interne.
L’incentivo in esame mira a realizzare un siffatto scopo, al
di là del fatto che la prestazione sia annoverabile tra le
spese correnti o di investimento, o sia fungibile rispetto
al ricorso a personale esterno.
È evidente che, così concepita la norma, sia possibile
escludere gli incentivi in esame dal computo della spesa
rilevante ai fini del tetto di cui al comma 557 citato,
assumendo la fattispecie in esame un carattere di specialità
anche rispetto alle risorse accessorie che si rinvengono nel
fondo per la contrattazione decentrata.
Tale specialità non sarebbe, però, da sola sufficiente ad
escludere la rilevanza degli incentivi ai fini del computo
dei tetti di spesa, qualora il quadro normativo non
contenesse le regole che consentano di determinare e
contenere la spesa del personale, evitando che la stessa
assuma un carattere incontrollato.
Al riguardo va evidenziato che
la disciplina in esame, in
verità, fissa criteri e limiti che autolimitano la spesa per
incentivi. Criteri e limiti in numero rilevante che si
riportano di seguito:
1)
il fondo incentivante deve trovare copertura negli stanziamenti
previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati
di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni
appaltanti
(comma 2). Pertanto,
il quadro economico
determinato per il singolo lavoro (o fornitura/servizio)
costituisce il primo e più importante limite alla spesa per
gli incentivi tecnici, poiché il 2% richiamato dalla norma
viene calcolato sulle somme predeterminate per il contratto
da stipulare, non incidendo su ulteriori stanziamenti di
bilancio. Ed ancora,
tali risorse finanziarie non sono
prefissate nell’ammontare massimo, ma vanno modulate
sull'importo dei lavori posti a base di gara, potendo essere
calcolate in misura inferiore in base alla tipologia di
lavoro, servizio e fornitura da espletare;
2) altro limite individuato dalla norma, forse il più rilevante, è
disposto dal comma 3, che prescrive che
gli incentivi
complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo
dipendente (anche da diverse amministrazioni) non possano
superare l'importo del 50 per cento del trattamento
economico complessivo annuo lordo. Tale importo assume la
valenza di tetto di spesa individuale invalicabile a fronte
del quale nessun dipendente pubblico può percepire somme
superiori al limite indicato;
3) inoltre,
modalità e criteri di ripartizione del fondo sono
previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa
del personale, sulla base di apposito regolamento adottato
dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti.
Ebbene,
il regolamento è lo strumento utile al fine di
verificare, anche da parte dei giudici contabili,
che gli
incentivi non vengano distribuiti a pioggia ma realizzando
una finalità realmente incentivante che tenga conto delle
attività concretamente svolte. Tanto è vero che, sempre ai
sensi del terzo comma,
la corresponsione dell'incentivo “è
disposta dal dirigente o dal responsabile del servizio
preposto alla struttura competente, previo accertamento
delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”.
In conclusione,
specialità della norma e puntuali limiti di
spesa intrinseci al quadro normativo descritto fanno
propendere questo Collegio per la tesi dell’esclusione del
fondo del comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016
dal computo della spesa rilevante ai fini del rispetto del
tetto di spesa di cui al comma 557 dell’art. 1 della legge
n. 296 del 2006. E, a fortiori, anche dal limite disposto
dall’art. 1, comma 236, della legge n. 208/2015,
relativamente al fondo per il trattamento accessorio.
Preme in proposito evidenziare, aggiuntivamente, che,
diversamente argomentando, si potrebbero verificare taluni
effetti non in linea con la finalità perseguita dalla
interpretazione resa dalla Sezione delle Autonomie.
Gli incentivi alla progettazione, in vero, negli esercizi
2011/2013 non erano ricompresi nella base di calcolo per il
tetto di spesa di cui al comma 557 citato.
Così come non erano ricompresi nella base di calcolo del
limite del 2015 riferito alle risorse per il trattamento
accessorio.
Includere oggi gli incentivi tecnici nella base di calcolo
della spesa rilevante ai fini del computo della spesa
complessiva vorrebbe dire superare, con assoluta certezza,
il tetto di spesa di cui al comma 557 citato, senza che
l’ente abbia la possibilità di ridurre altre voci, in
considerazione della rigidità della spesa di personale
stretta, nell’ultimo decennio, tra numerosi vincoli.
Allo stesso modo, qualora tali incentivi rilevassero ai fini
del tetto di spesa per il trattamento accessorio, si
verificherebbe l’impossibilità di erogare gli stessi se non
a scapito del trattamento accessorio di altri dipendenti,
mediante riduzione di altre risorse, al fine di compensare
l’erogazione degli incentivi tecnici in discorso.
Con riferimento, inoltre, al limite di spesa di cui al comma
557, un’interpretazione “restrittiva” determinerebbe
la violazione del principio, affermato dalla giurisprudenza
contabile, di omogeneità tra i dati (e i tetti di spesa)
oggetto di comparazione. Non sarebbe logico, né legittimo,
contrapporre due limiti di spesa il cui ammontare sia
composto da voci differenti.
Se si ritenesse di adottare tale principio, legittimo e
coerente con il sistema dei tetti di spesa, si potrebbero,
tuttavia, verificare conseguenze non coerenti con le
esigenze di contenimento della spesa di personale, con
possibili effetti espansivi della stessa, oltre che un
fenomeno di casualità che potrebbe condurre alcuni enti a
realizzare una spesa rilevante, ed altri a non poter erogare
alcunché.
Per rendere omogeneo il dato si potrebbero osservare due
vie: ciascun ente dovrebbe ricomprendere nel tetto di spesa
tutti gli incentivi alla progettazione erogati nel triennio
2011/2013 (e nel corso del 2015 relativamente al limite per
il fondo del trattamento accessorio). Ma tale
interpretazione sarebbe ultra legem in quanto, con
espressa volontà legislativa, il nuovo codice dei contratti
ha escluso dal fondo di cui al comma 2 dell’art. 113 gli
incentivi alla progettazione.
In alternativa, ciascun ente dovrebbe individuare quelle
voci di spesa riferite ad incentivi che siano previsti
espressamente in entrambi i testi normativi (vecchio e nuovo
codice dei contratti) o che siano riconosciuti dalla
giurisprudenza contabile. Ma tale operazione risulta priva
di criteri univoci e sarebbe rimessa alla libera
disponibilità dell’ente.
Senza contare che, nel passato, tali incentivi erano
previsti solo per i contratti riferiti a lavori pubblici,
laddove il nuovo testo riferisce gli incentivi anche a
forniture e servizi, aumentando il fattore di difficoltà e
le iniquità che ne potrebbero conseguire.
In ogni caso, quale che sia l’operazione accolta per rendere
omogeneo il dato, si potrebbe verificare un effetto
paradossale ed ingiusto.
Potrebbero esservi enti locali che nel periodo 2011/2013 (o
nell’anno 2015 relativamente al trattamento accessorio)
hanno erogato incentivi “tecnici” in un ammontare
considerevole, in conseguenza di un piano di opere pubbliche
significativo. Gli stessi si troverebbero ad avere un tetto
di spesa rilevante, sia ai sensi del comma 557, sia ai sensi
del comma 236, lasciando ampio spazio alla spesa di
personale.
Di contro gli enti che in quei particolari esercizi non
avevano erogato incentivi, si troverebbero di fatto nelle
condizioni sopra descritte di inapplicabilità della norma di
cui all’art. 113 del d.lgs. 50 del 2016.
Ed ancora, una volta fissato il tetto di spesa, questo potrà
essere raggiunto anche con spese diverse dall’erogazione di
incentivi tecnici. Una volta fissato il tetto in questione
di cui al comma 557 in un determinato importo, tale somma
nell’esercizio 2017 (e successivi) potrà essere, difatti,
composta non necessariamente dagli incentivi tecnici, bensì
anche da altre tipologie di spese che, diversamente, l’ente
non avrebbe potuto sostenere (aumentando di fatto
l’aggregato relativo al personale).
Lo stesso dicasi per il limite alle risorse per la
contrattazione decentrata. Se l’ente calcola tali incentivi
nel corso del 2015, il limite di spesa aumenterà dello
stesso ammontare. Ma essendo il limite un valore assoluto
(non disaggregabile), l’ente, negli esercizi successivi, pur
in mancanza di contratti e, quindi, di incentivi tecnici,
potrà aumentare le risorse accessorie sino al raggiungimento
di tale nuovo limite. In tal senso la Sezione delle
Autonomie, con delibera n. 26 del 2014, ha riconosciuto che
il vincolo debba riferirsi all’ammontare complessivo del
trattamento accessorio e non alle sue singole componenti
(orientamento questo confermato anche dalla Sezione di
controllo dell’Emilia Romagna con deliberazione n. 100 del
2017, e dalla Sezione di controllo per il Piemonte con
deliberazione n. 135 del 2016).
Di contro, come già osservato, gli enti che invece non hanno
erogato incentivi nel corso del 2015, si troverebbero in una
situazione di inapplicabilità della norma di cui al comma 2
dell’art. 113 del nuovo codice dei contratti.
Le osservazioni sin qui svolte, e l’interpretazione del
quadro normativo offerta, rimangono valide anche alla luce
dell’art. 23 del d.lgs. 75 del 2017 che ha introdotto un
nuovo limite, statuendo che “Nelle more di quanto
previsto dal comma 1, al fine di assicurare la
semplificazione amministrativa, la valorizzazione del
merito, la qualità dei servizi e garantire adeguati livelli
di efficienza ed economicità dell'azione amministrativa,
assicurando al contempo l'invarianza della spesa, a
decorrere dal 01.01.2017, l'ammontare complessivo delle
risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del
personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle
amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2,
del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare
il corrispondente importo determinato per l'anno 2016. A
decorrere dalla predetta data l'articolo 1, comma 236, della
legge 28.12.2015, n. 208 è abrogato. Per gli enti locali che
non hanno potuto destinare nell'anno 2016 risorse aggiuntive
alla contrattazione integrativa a causa del mancato rispetto
del patto di stabilità interno del 2015, l'ammontare
complessivo delle risorse di cui al primo periodo del
presente comma non può superare il corrispondente importo
determinato per l'anno 2015, ridotto in misura proporzionale
alla riduzione del personale in servizio nell'anno 2016”.
Ciò che, di peculiare, traspare da tale più recente norma è
la mancanza del riferimento, per la materiale
quantificazione del tetto di spesa complessivo annuale per
il trattamento accessorio del personale, della riduzione
proporzionale del fondo riferita alle cessazioni del
personale in servizio.
Per tutto quanto sin qui esposto, il
Collegio ritiene che gli incentivi tecnici previsti dal
nuovo codice degli appalti debbano essere esclusi dal
computo della spesa rilevante ai fini del rispetto del tetto
di spesa complessivo per il personale
(art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006),
nonché dei limiti stabiliti per le risorse destinate
annualmente al trattamento accessorio del personale
(art. 1, comma 236, della legge n. 208 del 2015).
P.Q.M.
la Sezione,
considerata l’esigenza di un’interpretazione uniforme della
normativa disciplinante gli incentivi tecnici di cui al
comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, ai fini del
rispetto dei limiti di spesa del personale,
sospende la decisione sul parere richiesto dal
Comune di Ceriale (SV) per sottoporre al Presidente della
Corte dei conti,
ai sensi dell’art. 17, comma 31, del decreto-legge n. 78 del
2009, convertito dalla legge n. 102 del 2009, e dell’art. 6,
comma 4, del decreto-legge n. 174 del 2012, convertito dalla
legge n. 213 del 2012, sotto l’illustrata differente
prospettazione interpretativa, la seguente
questione di massima:
“se gli incentivi tecnici di cui al
comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, debbano
essere ricompresi nel computo della spesa rilevante ai fini
del rispetto del tetto di spesa previsto dall’art. 1, comma
557, della legge n. 296 del 2006, nonché ai fini del
rispetto del tetto di spesa previsto dall’art. 1, comma 236,
della legge n. 208 del 2015"
(Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
deliberazione 29.06.2017 n. 58). |
|
|
L'avevamo già evidenziato con l'AGGIORNAMENTO
AL 22.12.2014 ma lo ribadiamo ancora oggi
per i molti, troppi funzionari pubblici "refrattari" all'osservanza della
Legge:
per assumere
personale (dall'esterno) il bando deve
obbligatoriamente essere pubblicato sulla
GURI, pena l'invalidazione dell'intera procedura
concorsuale. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Concorsi: danno erariale per mancanza di
pubblicazione del bando sulla GURI.
La mancata pubblicazione del bando di concorso sulla GURI,
oltre a determinare l’annullamento della procedura
concorsuale, genera responsabilità amministrativa e danno
erariale.
Questo quanto evidenziato dalla Corte dei Conti, sez. giur.
Lombardia, con la
sentenza 04.07.2017 n. 102.
Nel caso di specie l’amministrazione, a cagione della
mancata pubblicazione del bando sulla GURI della Repubblica,
era stata chiamata in giudizio in ben due procedimenti
contenziosi, conclusosi definitivamente con l’annullamento
della procedura concorsuale.
Successivamente l’amministrazione aveva deciso di ricorrere
in Cassazione al fine di far accertare la validità ed
efficacia dei contratti stipulati dai vincitori del concorso
indetto con il bando annullato, conferendo l’incarico di
rappresentanza legale ad un legale esterno, nonostante il
cospicuo numero di avvocati dipendenti dell’ente, molti dei
quali abilitati al patrocinio presso le giurisdizioni
superiori.
Secondo l’indirizzo affermatosi in giurisprudenza, l’obbligo
di pubblicazione dei bandi per i concorsi a pubblico impiego
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana,
stabilito dall’art. 4 del d.p.r. 487/1994, costituisce una
regola generale attuativa dell’art. 51, primo comma, e
dell’art. 97, comma terzo, della Costituzione (Consiglio di
Stato, sent. n. 2801/2015 e n. 227/2016; Tar Campania,
Napoli, sent. n. 4074/2009).
Tale regola ha la finalità di consentire la concreta massima
conoscibilità della indizione di un concorso pubblico a
tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro residenza
sul territorio dello Stato e non è stata incisa, neanche per
incompatibilità, dall’art. 35, comma 3, lett. a), del d.lgs.
n. 165 del 2001, che si limita a prescrivere la “adeguata
pubblicità della selezione” senza specificare altro in
ordine alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Invero, le disposizioni di dettaglio contenute nella fonte
regolamentare servono a completare la norma di rango
legislativo, costituendone coerente e conforme
specificazione.
Come recentemente ribadito anche dal Tar Campania, con la
sentenza 23.06.2017 n. 3433, la pubblicazione di un bando di
concorso a pubblico impiego sulla Gazzetta ufficiale
rappresenta un obbligo formale che non può essere violato
dalla p.a.. La mancata pubblicazione comporta, infatti,
l’illegittimità dell’intero concorso (commento tratto da
www.self-entilocali.it).
---------------
MASSIMA
FATTO
Con atto di citazione depositato in data 30.09.2016, la
Procura regionale presso questa Sezione ha convenuto in
giudizio gli odierni convenuti per ivi sentirli condannare
al pagamento, in favore della Regione Lombardia, del
complessivo danno erariale, arrecato con condotte ritenute
gravemente colpose, pari ad euro 36.051,75 oltre
rivalutazione, interessi e spese di giudizio.
Dall’atto di citazione emerge quanto segue: in data
10.02.2010 la Procura, attraverso l’esposto a firma
dell’Ing. Gi. Di Do. (all. n. 1 del fascicolo della
Procura), apprendeva che “… l’allora Direzione
Organizzazione, Personale della Giunta regionale, nella
persona del suo Direttore centrale pro-tempore dott. En.PA.,
aveva indetto un bando di concorso pubblico per 20 posti di
dirigente presso la Giunta medesima,
pubblicandolo esclusivamente sul BURL
… n. 8 del 22.02.2006. Veniva invece omessa ogni forma di
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica
Italiana, nemmeno per estratto … L’emanazione del citato
decreto direttoriale … era avvenuta, tra l’altro, sulla
scorta della precedente delibera giuntale n. VIII/001476 del
22.12.2005 … approvata all’unanimità dai presenti … su
proposta del Presidente Roberto FORMIGONI e con la
partecipazione alla seduta anche … del Segretario generale
Ni.Ma.SA. …”
(all. n. 2 del fascicolo della Procura).
Tanto precisato, la Procura evidenzia poi che “… in
palese contraddizione con quanto stabilito, tra l’altro, con
gli stessi contenuti … della delibera giuntale n. VIII/1476
del 22.12.2005 … il conseguente provvedimento di indizione
della selezione del 21.02.2006, n. 1841, a firma del dott.
En.PA., al par. 6) del dispositivo, quanto alla
pubblicazione del bando stabiliva testualmente: “……..che il
presente provvedimento sarà pubblicato sul – Bollettino
Ufficiale della Regione Lombardia – Serie Inserzioni e
Concorsi – è sarà disponibile sia sul sito internet
www.regione.lombardia che sul portale internet della Giunta
regionale della Lombardia”,
omettendo qualsiasi riferimento ad altre forme di pubblicità
del medesimo”.
Ancora, precisano i Requirenti che “il
denunciante …, a cagione della mancata pubblicazione sulla
GURI, ne rimaneva escluso e, con istanza datata 04.04.2006,
chiedeva alla Regione Lombardia la riapertura dei termini di
presentazione delle domande con la contestuale
ripubblicazione del bando (o dell’estratto) sulla GURI”
(all. n. 3 al fascicolo della Procura).
Della vicenda veniva interessato anche il difensore civico
regionale (all. n. 4 del fascicolo della Procura) e comunque
“… in assenza di riscontri alla propria istanza, in data
23.05.2006 il denunciante proponeva pertanto ricorso avanti
al TAR Lombardia …” (all. n. 5 del fascicolo
processuale).
In ogni caso, prosegue la Procura, “le prove concorsuali
ebbero … inizio il giorno 11.05.2006 e si conclusero il
19.12.2006, … così come si evince dalla determinazione del
Direttore ... En.PA. - n. 15231 in data 22.12.2006, … con
cui veniva approvata la graduatoria di merito formatasi (32
unità), e la graduatoria finale dei vincitori (20 unità).
Ne veniva disposta la pubblicazione,
anche questa volta, sul solo BURL”
(all. n. 6 del fascicolo della Procura).
L’immissione in servizio dei candidati veniva autorizzata
nel corso dello svolgimento del processo amministrativo di
primo grado attraverso il “… decreto n. 6577/2007 del
18.06.2007, a firma del dott. Ni.SA.” (all. n. 7 del
fascicolo della Procura).
Successivamente, “il 17.01.2008 il TAR
Lombardia, con sentenza n. 53/2008 … decideva il ricorso
presentato dall’Ing. DI DO., accogliendolo in parte e, per
l’effetto, annullava il bando di concorso del 21.02.2006
condannando, di conseguenza, la Regione Lombardia, in solido
con le parti intimate costituite (idonei al concorso), alla
refusione delle spese di giudizio per complessivi € 4.000,00”
(all. n. 10 del fascicolo della Procura).
Ancora, prosegue la Procura precisando che “la Regione
Lombardia appellava la decisione di 1° grado avanti al
Consiglio di Stato, il quale, in sede cautelare, con
l’ordinanza 3006/2008 del 03.06.2008 … evidenziava che: “…
ferma restando la statuizione del
TAR in merito all’obbligo anche per le Regioni di pubblicare
i bandi di concorso sulla Gazzetta Ufficiale della
Repubblica Italiana
… l’efficacia della sentenza impugnata deve essere sospesa,
stante il pregiudizio grave ed irreparabile discendente
dall’esecuzione della medesima, sia per i controinteressati
dichiarati vincitori e assunti a seguito della procedura
concorsuale, che per l’Amministrazione che ha bandito il
concorso in questione, per la mancata copertura dei posti
dirigenziali in organico vacanti”. Nel dispositivo
l’Ordinanza stabiliva, altresì, “… l’obbligo per
l’Amministrazione di congelare un posto di dirigente di
ruolo da bandire e mettere a concorso, in modo da soddisfare
la pretesa dell’appellato a partecipare alla procedura
concorsuale”. In ottemperanza alla predetta Ordinanza la
Regione Lombardia, con decreto n. 7899 del 18.07.2008 del
Direttore centrale Organizzazione, Personale, Patrimonio e
Sistema informativo dott. Si.LA. …, bandiva un “nuovo
concorso” … per un posto da dirigente. All’esito del
medesimo, il Di Do. si collocava tra gli idonei del concorso
al 3° posto e in virtù dello scorrimento di graduatoria,
veniva assunto senza tuttavia essere mai ammesso a
partecipare alla procedura originaria ...”. Nel frattempo il
Consiglio di Stato, Sezione V, si pronunciava sulla
questione della legittimità della procedura concorsuale non
adeguatamente pubblicizzata, con Decisione depositata in
data 01.04.2009, n. 2077 … che respingeva gli appelli (tra
cui quello della Regione). Nella suddetta pronuncia il
Supremo Consesso ha evidenziato tra l’altro che: “… è
comunque certo che la situazione ricreata attraverso la
procedura selettiva ad un solo posto dirigenziale non
costituisce succedaneo idoneo e satisfattivo di procedura
con ben maggiori chances di collocazione in graduatoria …” …
In definitiva anche il Supremo giudice
amministrativo ha ritenuto “illecita” la condotta della
Regione volta a ridurre, attraverso una serie di azioni
specifiche ed apparentemente neutre, la platea dei possibili
partecipanti alla procedura concorsuale in discorso di
indubbia rilevanza “politica” per i vertici regionali”
(all.ti 11, 12 e 13 del fascicolo della Procura).
Sempre i Requirenti riferiscono poi che “nonostante le
due intervenute pronunce di merito sfavorevoli del Giudice
amministrativo, affermative di principi generali di
rilevanza costituzionale, la Regione ricorreva in Cassazione
invocando il difetto di giurisdizione del G.A. sulle vicende
concorsuali” (all.ti nn. 14 e 15 del fascicolo della
Procura) e che sempre il denunciante aveva poi interposto “…
in data 30.11.2009, dinnanzi al TAR Lombardia ricorso per
l’ottenimento dei danni economici da lui asseritamente
patiti in seguito alla mancata assunzione dall’01.01.2008
(data di assunzione degli altri dirigenti vincitori)
all’01.07.2009 (data di assunzione dello stesso, per
scorrimento graduatoria, all’ARIFL)”.
Ancora, l’Ufficio Requirente precisa che l’esponente
comunicava in seguito “… ulteriori fatti relativi alla
vicenda in discorso” (all. n. 19 del fascicolo della
Procura), ovvero che “… il ricorso per il preteso difetto
di giurisdizione presentato dalla Regione era stato nel
frattempo dichiarato inammissibile dalle Sezioni Unite della
Cassazione con sentenza n. 14495 ... Il giudice della
legittimità, pertanto, aveva condannato la Regione alla
refusione delle spese di lite, per € 6.440,00, pagate al Di
Domenico in data 05.08.2010” (all. n. 20 del fascicolo
della Procura) e che “per la relativa assistenza legale,
l’ente aveva conferito apposito incarico oltre che a 2
Avvocati della Regione ad un legale del Foro di Roma,
l’avvocato Fa.Ci., esperto di diritto amministrativo”.
Sul punto i Requirenti evidenziano anche che “nella
richiamata pronuncia …, la Corte regolatrice stabiliva che …
“non è dato cogliere nella sentenza impugnata alcuna
statuizione che travalichi l’ambito della giurisdizione AGA.
Il Consiglio di Stato non si è in alcun modo pronunciato
sulla validità ed efficacia dei contratti stipulati dai
vincitori del concorso indetto con il bando annullato, né ha
fornito l’interpretazione della clausola risolutiva in essi
contenuta. Al contrario, i riferimenti fatti alla posizione
di costoro sono, nella logica della sentenza, meramente
strumentali alla risoluzione della questione preliminare di
improcedibilità del ricorso proposto dal D.D. che la Regione
aveva sollevato, e cioè la sussistenza dell’obbligo, a suo
carico, di impugnare non solo il bando, ma anche ma anche la
graduatoria finale ed i provvedimenti di assunzione”,
ribadendo il principio di valenza generale per cui
l’annullamento del bando travolge tutti gli atti successivi
da esso dipendenti”.
Da ultimo, sempre il denunciante, riferiva anche che “…
l’avv.to Ci., era stato nominato, dalla Regione Lombardia,
con deliberazione giuntale 11123 del 03.02.2010, quale
difensore dell’ente nel “ricorso promosso avanti il TAR
Lombardia in materia di accesso al lavoro rubricato con R.G.
n. 2700/09” (quello con cui il Di Do. aveva richiesto il
risarcimento dei danni da lui subiti per perdita di chance).
La scelta del legale esterno era stata motivata dall’ente
regionale dal fatto che il medesimo legale “già segue,
nell’interesse dell’Ente, la vertenza da cui trae origine la
domanda risarcitoria”.
Sul complesso della vicenda i Requirenti hanno poi precisato
che la stessa è stata non solo oggetto, in data 14.06.2012,
di specifica interrogazione presentata al Presidente della
Regione Lombardia a firma del Consigliere regionale Za., ma
anche di ulteriore denuncia a firma dei Sig.ri De Al., Ca. e
Cr., nonché di attenzione mediatica (all.ti nn. 20, 21, 22 e
22-bis del fascicolo della Procura).
In sintesi per la Procura “risulta pertanto dalla
documentazione acquisita che, alla data del 20.12.2012,
l’amministrazione regionale lombarda, a cagione
della mancata pubblicazione del bando in questione sulla
GURI della Repubblica, era stata chiamata in giudizio in ben
due procedimenti contenziosi: uno, promosso dal Di Do. a
cagione della mancata partecipazione al bando per mancanza
di pubblicazione sulla GURI, appunto, conclusosi
definitivamente con l’annullamento della procedura
concorsuale, con l’appendice del giudizio di Cassazione
sulla giurisdizione ed un altro, quello sull’istanza di
risarcimento dello stesso Di Do. per il ‘danno ingiusto’
patito per la sua mancata partecipazione al concorso a causa
della mancata pubblicazione del bando sulla GURI, definito
allora, per la sola ‘perdita di chance’, in primo grado ma
impugnato dalla Regione Lombardia”.
Sulla base di tale ricostruzione dei fatti la Procura ha
individuato inizialmente tre poste di danno erariale.
In particolare, la prima ipotesi di danno pari ad €
45.286,31 consisterebbe nel costo sostenuto
dall’Amministrazione regionale “… per l’indizione del
concorso che, su statuizione del Supremo Consesso congelava
un posto di dirigente per l’Ing. Di Do. … posto che, qualora
si fosse quantomeno atteso l’esito del procedimento
giudiziario radicatosi dopo il ricorso del Di Do. o, ancora
prima, l’amministrazione avesse posto in essere iniziative
di annullamento, anche parziale, ovvero di rettifica o di
riapertura dei termini, in autotutela ... ovvero, ci si
fosse avvalsi della clausola risolutoria introdotta con il
citato decreto 6577/2007, certamente il costo del ridetto
secondo concorso, per € 45.286,31 … non sarebbe stato
verosimilmente sostenuto”. Tuttavia, proseguono i
Requirenti essendo “… il costo della procedura esperita …
sostenuto tra il 2008 ed il 2009 … l’azione di questa
Procura regionale risulta, ad oggi essere prescritta, non
essendo nel frattempo intervenuto, nei termini, alcun atto
interruttivo della medesima”.
Per quanto poi riguarda la seconda posta di danno, “costituita
dal costo, inutilmente sostenuto dall’amministrazione
regionale, per i due procedimenti contenziosi instaurati
contro l’Ente a cagione dell’inspiegabile rifiuto di
riaprire, in autotutela, i termini per la partecipazione
alla procedura del Di Do. …”, gli stessi Requirenti
precisano che per una parte di essa “… risulta essere
maturata la prescrizione dell’azione erariale in quanto dal
2008 non sono stati interposti atti interruttivi della
medesima”.
Diversamente, per la quota parte di danno conseguente alla
Deliberazione giuntale n. VIII/09432 del 20.05.2009 il danno
erariale risulterebbe ancora attuale.
In particolare, con tale provvedimento “… veniva
stabilito di proporre ricorso in Cassazione avverso la
pronuncia (anche questa volta sfavorevole alla Regione) del
Consiglio di Stato, con contestuale conferimento di
rappresentanza legale anche ad un legale esterno, nonostante
il cospicuo numero di avvocati – almeno 17 – dipendenti
dalla Regione, 7 dei quali abilitati al patrocinio presso le
giurisdizioni superiori. A seguito del rigetto del ricorso
la Cassazione condannava la Regione Lombardia alla rifusione
alla controparte delle spese legali per € 6.440,00 …, pagate
in data 05.08.2010, mentre, al legale esterno lo stesso
Ente, in data 02.08.2010, pagava gli onorari ammontanti a €
29.611,75 …. L’atto in questione, adottato su proposta del
Presidente Ro.FO., e del Direttore Centrale Affari
Istituzionali e Legali della Giunta regionale e del
Dirigente Avv.to Fr.ZU., con l’assistenza del Segretario
generale dott. Ni.SA. è stato approvato all’unanimità dai
presenti Assessori: Gi.RO., Da.BO., Gi.BO., Lu.BR., Ma.BU.,
Ra.CA., Ro.CO., Lu.Da.FE., Ro. LA RU., St.MA., Fr.NI.CR.,
Ma.PO., Pi.Gi.PR., Ma.SC., Do.ZA., Ma.ZA.. Per tale posta
dannosa, ammontante ad € 36.051,75, risulta essere stato
posto in essere atto interruttivo della prescrizione,
decorrente dal 29.07.2015 [data di spedizione all’ufficiale
giudiziario] con invito a fornire deduzioni di questa
Procura …”.
Secondo la Procura, “di tale danno devono essere chiamati
a rispondere i sopracitati soggetti nella seguente misura,
salvo diverso eventuale accertamento delle responsabilità da
parte del Collegio:
A) 80% di € 36.051,75, ovvero € 28.841,40, da addebitarsi, parti
uguali, alle condotte del Presidente Ro.FO., dell’Avvocato
Fr.ZU., del Segretario generale Ni.SA. e del dott. Lu.DA.
(ciascuno per € 7.210,35);
B) 20% di € 36.051,75, ovvero € 7.210,35, da addebitarsi, in parti
uguali, alle condotte degli Assessori Gi.RO., Da.BO., Gi.BO.,
Lu.BR., Ma.BU., Ra.CA., Ro.CO., Lu.Da.FE., Ro. LA RU.,
St.MA., Fr.NI.CR., Ma.PO., Pi.Gi.PR., Ma.SC., Do.ZA. e
Ma.ZA. (ciascuno per € 450,64)”.
Infine, in ordine alla terza posta di danno ipotizzata dai
Requirenti viene precisato che “… in data 30.11.2009 il
Di Do. proponeva ulteriore ricorso per ottenere il
risarcimento economico da ‘perdita di chance’ dopo
l’annullamento del concorso disposto dal G.A. Anche questa
volta la Regione Lombardia decideva la resistenza
processuale a tale pretesa …” e che “… la riforma
della sentenza del TAR Lombardia favorevole al Di Domenico a
seguito della pronuncia del Consiglio di Stato 25.02.2016,
n. 762 …, esclude la possibilità di qualificare la condotta
dei suddetti soggetti, pur produttiva di ‘deminutio’
patrimoniale, come gravemente colposa”.
Al termine della richiamata attività istruttoria la Procura
erariale, ritenendo sussistenti tutti gli elementi
costitutivi della responsabilità amministrativa, notificava
agli odierni convenuti specifico invito a dedurre (doc. n. 5
all. n. 25 del fascicolo della Procura).
Sempre la Procura riferisce poi che quasi tutti gli odierni
convenuti hanno presentato deduzioni difensive (all. n. 30
del fascicolo della Procura), chiedendo altresì di essere
anche sentiti personalmente, come da audizioni
sinteticamente riportate nell’atto di citazione (all. n. 31
del fascicolo della Procura).
Tanto precisato, non essendo le argomentazioni difensive
risultate idonee a superare l’addebito di responsabilità
sulla base delle evidenze istruttorie, anche in
considerazione del contrasto fra quanto dichiarato dai
convenuti e quanto invece affermato sul punto dal Dott. La.
nella propria audizione personale del 14.10.2015 (al tempo
dei fatti Direttore Centrale del Personale), la Procura
ritiene esser stata raggiunta la piena prova della
responsabilità amministrativa in capo ai convenuti.
Da ultimo, la Procura precisa che “a cagione della
complessità della valutazione delle singole posizioni da
esaminare alla luce delle deduzioni scritte ed orali
prodotte dai sunnominati soggetti, questa Procura, al fine
di meglio approfondirne gli aspetti colà emersi, formulava
due istanze di proroga del termine per l’emissione dell’atto
di citazione … entrambe autorizzate: la prima, con Ordinanza
della Sezione giurisdizionale lombarda numero 4/2016/PRO in
data 17.02.2016 – termine concesso sino al 01.06.2016 –, la
seconda, con Ordinanza della medesima Sezione n. 9/2016 in
data 08.06.2016 termine concesso sino al 30.09.2016–.
Entrambe le ordinanze venivano portate a conoscenza dei
destinatari dell’invito tramite apposita comunicazione”
(all.ti nn. 32 e 33 del fascicolo della Procura).
Tanto premesso, i Requirenti dopo aver evidenziato che “…
non c’è dubbio che i Consiglieri regionali –così come i
dirigenti regionali avvinti all’Ente territoriale da un
rapporto d’impiego– siano sottoposti alla giurisdizione
della Corte dei conti in virtù del rapporto di servizio con
la Regione Lombardia …”, hanno poi precisato con
riferimento all’antigiuridicità della condotta degli odierni
convenuti che “… in presenza di tali
sicuri riferimenti normativi i vertici politici ed
amministrativi della Regione avrebbero dovuto prudentemente
provvedere anche alla pubblicazione di un avviso nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica. Una siffatta cautela,
oltreché evidentemente rispettosa della legge statale,
avrebbe evitato le spese per l’imponente contenzioso che la
Regione Lombardia si è trovata ad affrontare”
e che “in ogni caso il TAR ed il
Consiglio di Stato hanno accertato l’illegittimità del
concorso con motivazioni diffuse e puntuali .... In
particolare il Supremo Consesso ha rilevato l’esegesi
strumentale (significativamente definita “confusione
logica”) da parte della Regione, delle richiamate norme sui
pubblici concorsi volte ad aggirare le forme di pubblicità
più ampia “sperimentate e costituzionalmente dovute (art. 97
c. 3 Cost.) di reclutamento del personale degli apparati
pubblici”.
In sostanza, per la Procura, “in
presenza di dette cristalline coordinate normative e
giurisprudenziali è certamente illecito e connotato da
«colpa grave», per non dire da «dolo», il comportamento del
Presidente Ro.FO., politico con una lunga esperienza di
amministratore che ha sempre tenuto saldamente in mano “la
regia dell’intera procedura concorsuale”
(significativa in proposito è la “Comunicazione del
Presidente alla Giunta nella seduta del 21.11.2007”, all.
35) e di coloro che, coadiuvandolo come
esperti nelle materie legali e specialmente nel diritto
amministrativo e nell’organizzazione degli uffici regionali
presso l’Ufficio di Presidenza della Giunta regionale, hanno
partecipato alle fasi procedimentali di formulazione e di
approvazione della proposta di delibera volta a consentire
la pubblicazione del bando esclusivamente nel Bollettino
Ufficiale della Regione Lombardia e cioè, i dottori Ni.SA.
ed En.PA., sottoscrivendo la relativa delibera, nonché i
componenti della giunta regionale che l’anno votata.
Non meno grave
–per quanto interessa specificamente la quota di danno
contestata– è la responsabilità del
Presidente FO., di coloro che l’hanno coadiuvato nelle fasi
procedimentali di elaborazione e di approvazione della
proposta di delibera giuntale volta ad autorizzare la
proposizione di un ricorso in Cassazione per regolamento di
giurisdizione, per di più attribuendo l’incarico ad un
legale esterno –nonostante il ruolo dell’Avvocatura
regionale annoverasse ben 7 avvocati abilitati al patrocinio
– su circa 17 avvocati in ruolo – in Cassazione ed
effettivamente patrocinati (all. 34)– dopo che il giudice
amministrativo si era pronunciato 2 volte in termini
inequivocabili sull’illegittimità della procedura
concorsuale, annullandola, nel pieno esercizio delle sue
attribuzioni giurisdizionali, del resto mai contestate dalla
stessa Regione, né in primo, né in secondo grado.
Rileva, in questo senso, oltre alla responsabilità dell’ex
Presidente FO. … quella del Direttore Centrale Affari
Istituzionali e Legali Lu.DA. e del Dirigente Avv.to Fr.ZU.,
che lo hanno assistito nella fase di approvazione della
delibera di Giunta 9432 del 20.05.2009, oltre a quella del
Segretario generale dott. Ni.SA. che ha assistito alla
seduta senza rappresentare la possibile «temerarietà» del
ricorso, atteso che la giurisdizione amministrativa non era
mai stata contestata”.
Per i Requirenti “la temerarietà di tale
ricorso emergeva già dal pretestuoso riferimento alla
volontà di contestare la pronuncia annullamento del bando
–“legittima”– per prevenirne gli effetti caducanti o
vizianti sui contratti di lavoro a valle. Ed invero la
Suprema Corte, nella sentenza 16.06.2010, n. 14495, ha
ribadito il principio generale dell’ “effetto caducante
dell’annullamento del bando, la cui eliminazione dal mondo
giuridico rende privi di giustificazione gli atti successivi
ed irradia i suoi effetti sullo status di dipendenti della
Regione dei soggetti contro-interessati” ha dichiarato il
ricorso “inammissibile”, non riuscendo a “cogliere nella
sentenza impugnata alcuna statuizione che travalichi
l’ambito della giurisdizione AGA”, condannando
conseguentemente la Regione ricorrente alle spese del
giudizio …”.
Ancora, con riferimento alla responsabilità del Segretario
Generale Sa., la Procura evidenzia che “…
secondo la pacifica giurisprudenza della Corte dei conti, il
Segretario Generale è chiamato ad assolvere attivamente il
proprio ruolo … Ed invero, in relazione all'applicazione di
norme giuridiche la colpa grave è sicuramente riscontrabile
in presenza di un'interpretazione o di una sequenza di
comportamenti in palese contrasto con la lettera della legge
ovvero con prassi interpretative e/o orientamenti
giurisprudenziali e dottrinari consolidati”.
Circa poi l’elemento soggettivo relativo alla condotta dei
componenti della Giunta viene affermato che “risulta
altresì affetto da colpa grave il comportamento dei
componenti della Giunta regionale che hanno votato
favorevolmente la deliberazione 20.05.2009, n. 9432 –senza
richiedere approfondimenti sul contenuto della stessa di cui
assumevano responsabilità politica ed amministrativa–, con
cui veniva stabilito di proporre un ricorso anomalo in
Cassazione per difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo a pronunciarsi su una materia –i pubblici
concorsi– pacificamente rientrante nella potestà decisoria
di quel giudice ai sensi dell’art. 63 del D.lgs. 165/2001,
comma 4”.
Pertanto, “attese le competenze dei
membri della Giunta regionale Lombarda il tentativo di
limitare la partecipazione al concorso per dirigenti
attraverso una pubblicazione solo locale –anziché nazionale–
è sintomo di grave negligenza o imprudenza se non di dolo”.
In definitiva, quindi, per i Requirenti “permane
… accertato e contestabile il danno di € 36.051,75, somma
pagata dalla Regione Lombardia per il palesemente infondato
e dilatorio ricorso per Cassazione avverso la sentenza del
Consiglio di Stato 2077/2009, da addebitarsi ai soggetti che
parteciparono, a vario titolo, all’adozione della relativa
delibera giuntale n. 9432 del 20.05.2009, causativa
dell’esborso dannoso”.
... (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia,
sentenza 04.07.2017 n. 102). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: E'
illegittimo il bando di concorso (e l'intera procedura
espletata) non pubblicato sulla GURI.
Come si è chiarito in giurisprudenza in tema di riparto
della giurisdizione, ai sensi dell'art. 63, comma 4, d.lgs.
30.03.2001, n. 165 (“Norme generali sull'ordinamento del
lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”), le
norme generali discendenti dal principio di cui al comma 3
dell'art. 97 Cost., che governano la gestione dei concorsi
pubblici, non hanno ragione di essere derogate per il solo
fatto che l'assunzione sia stata effettuata con contratti a
tempo determinato, come nella fattispecie all’esame.
---------------
L'obbligo di pubblicazione dei bandi per i concorsi a
pubblico impiego nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
Italiana –stabilito dall'art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994–
costituisce una regola generale attuativa dell'art. 51,
primo comma, e dell'art. 97, comma terzo, della
Costituzione.
Tale regola ha la finalità di consentire la concreta massima
conoscibilità della indizione di un concorso pubblico a
tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro residenza
sul territorio dello Stato e non è stata incisa –neanche per
incompatibilità– dall'art. 35, comma 3, lett. a), del d.lgs.
n. 165 del 2001, che ha fissato il criterio della "adeguata
pubblicità" in aggiunta e non in sostituzione della norma di
carattere generale.
Invero, le disposizioni di dettaglio contenute nella fonte
regolamentare servono a completare la norma di rango
legislativo, costituendone coerente e conforme
specificazione.
Va pertanto ribadito che le stesse non possono essere
disapplicate, in quanto conformi alla norma di rango
superiore ed allo stesso dettato degli articoli 51 e 97
della Costituzione, che garantiscono il diritto di accesso
agli impieghi pubblici di tutti i cittadini su di un piano
di parità, esercitabile solo attraverso un sistema di
pubblicità che favorisca la massima partecipazione.
Né rileva, in contrario, l'art. 32 della legge n. 69 del
2009, poiché il suo comma 7 ha ribadito il perdurante vigore
delle disposizioni –anche di rango secondario– che in
precedenza hanno disposto la pubblicazione di atti
amministrativi sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
In definitiva, la mancata pubblicazione, per estratto, del
bando di concorso de quo sulla Gazzetta Ufficiale della
Repubblica Italiana contrasta insanabilmente con l'art. 4
del D.P.R. n. 487/1994, che, per gli enti locali, prevede la
possibilità di sostituire la pubblicazione del bando
soltanto con l'avviso di concorso contenente gli estremi del
bando e l'indicazione della scadenza del termine per la
presentazione della domanda (comma 1-bis).
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia:
- della determina n. 27 del 31.07.2015 del responsabile dell’Area
amministrativa del Comune di Ceppaloni e dell'allegato
avviso di selezione pubblica per la copertura, tramite
contratto a tempo determinato della durata di 24 mesi e a
tempo parziale (18 ore settimanali), di un posto di “vice
segretario”, categoria D, posizione giuridica ed
economica D3;
- della deliberazione della Giunta del Comune di Ceppaloni n. 66
del 15.05.2015;
- dell’art. 13 del regolamento comunale sulle modalità di
assunzione, sui requisiti di partecipazione e sulle modalità
concorsuali (approvato con delibera di Giunta del 28.12.1999
n. 602);
- della determina n. 2 del 06.04.2016 del Segretario comunale di
Ceppaloni, con la quale sono stati approvati gli atti della
Commissione esaminatrice e la graduatoria del concorso in
questione;
...
Con l’atto introduttivo del giudizio, notificato
l’11.04.2016 e depositato il 5 maggio seguente, la
ricorrente ha premesso di aver avuto conoscenza solo nel
mese di marzo 2016, attraverso un quotidiano, di una
selezione pubblica in corso di svolgimento presso il Comune
di Ceppaloni –per la copertura, tramite contratto a tempo
determinato della durata di 24 mesi e a tempo parziale (18
ore settimanali), di un posto di “vice segretario”,
categoria D, posizione giuridica ed economica D3– alla
quale, tuttavia, non ha potuto partecipare, pur essendo in
possesso dei requisiti richiesti, in quanto a quella data
era ormai scaduto il termine di presentazione delle domande.
Ciò posto, lamentando la mancata pubblicazione del bando di
concorso in Gazzetta Ufficiale, l’instante ha impugnato
tutti gli atti della suddetta procedura, conclusa con
l’approvazione della graduatoria in data 06.04.2016, nonché
l’art. 13 del regolamento comunale sulle modalità di
assunzione, sui requisiti di partecipazione e sulle modalità
concorsuali (approvato con delibera di Giunta del
28.12.1999).
A sostegno della domanda di annullamento ha formulato un
articolato motivo di diritto così formulato in rubrica:
violazione, omessa e/o falsa applicazione dell’art. 4 d.P.R.
487/1994 e degli artt. 51 e 97 Cost.
...
1. Il ricorso è fondato.
2. Non può dubitarsi, anzitutto, della natura concorsuale
della procedura in contestazione, indetta dal Comune di
Ceppaloni per la copertura, tramite contratto a tempo
determinato della durata di 24 mesi e a tempo parziale (18
ore settimanali), di un posto di “vice segretario”,
categoria D, posizione giuridica ed economica D3. Ciò non
solo per l’espressa qualificazione in termini di concorso
conferita alla selezione dal bando e dal richiamo, ivi
contenuto, alle previsioni del d.P.R. 09.05.1994 n. 487,
ossia al Regolamento recante norme sull'accesso agli
impieghi nelle pubbliche amministrazioni, ma soprattutto per
la sussistenza di tutti gli indici rivelatori della natura
concorsuale della procedura assunzionale, così come
delineati dal consolidato orientamento giurisprudenziale
formatosi sul punto (cfr., tra le tante, Cassazione civile,
sez. un., n. 8799/2017 e n. 9281/2016; Consiglio di Stato,
sez. III, n. 1631/2016; n. 2790/2015; n. 4658/2014).
Invero, nel caso di specie, la stessa è, per l’appunto,
iniziata con l'emanazione del bando in discussione,
contenente l'indicazione del posto messo a concorso, e si è
articolata nella nomina della commissione esaminatrice,
nell’attribuzione del punteggio per i titoli posseduti e per
la prova scritta ed orale, sulla base della previa
fissazione dei criteri di valutazione, nella compilazione di
una graduatoria finale di merito, alla stregua dei punteggi
complessivi conseguiti dai candidati, e infine nella nomina
del primo classificato come vincitore.
Inoltre, come si è chiarito in giurisprudenza in tema di
riparto della giurisdizione, ai sensi dell'art. 63, comma 4,
d.lgs. 30.03.2001, n. 165 (“Norme generali
sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche”), le norme generali
discendenti dal principio di cui al comma 3 dell'art. 97
Cost., che governano la gestione dei concorsi pubblici, non
hanno ragione di essere derogate per il solo fatto che
l'assunzione sia stata effettuata con contratti a tempo
determinato, come nella fattispecie all’esame (cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI, 04/11/2014, n. 5431; Consiglio
di Stato, sez. III, 21.06.2011, n. 3704; Cassazione, SS.UU.,
15.01.2010, n. 529).
3. Premesso quanto sopra, ad avviso del Collegio si palesa
fondato il motivo con cui la ricorrente ha lamentato la
mancata pubblicazione del bando di concorso in Gazzetta
Ufficiale.
3.1. In punto di fatto ciò non è contestato
dall’Amministrazione comunale, avendo quest’ultima nelle
proprie difese confermato di essersi limitata a pubblicare
il bando sull’albo on-line dell’ente e di averne dato
comunicazione a quattro comuni viciniori ed alla Provincia
di Benevento, in ottemperanza a quanto disposto dal secondo
comma dell’art. 13 del già menzionato regolamento locale.
3.2. Ritiene il Collegio, conformemente all’indirizzo
affermatosi in giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato,
sez. V, 08.06.2015, n. 2801 e
25.01.2016, n. 227; TAR Campania, Napoli,
sezione V, n. 4074 del 2009), che l'obbligo di
pubblicazione dei bandi per i concorsi a pubblico impiego
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana
–stabilito dall'art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994–
costituisce una regola generale attuativa dell'art. 51,
primo comma, e dell'art. 97, comma terzo, della
Costituzione.
Tale regola ha la finalità di consentire la concreta massima
conoscibilità della indizione di un concorso pubblico a
tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro residenza
sul territorio dello Stato e non è stata incisa –neanche per
incompatibilità– dall'art. 35, comma 3, lett. a), del d.lgs.
n. 165 del 2001, che ha fissato il criterio della "adeguata
pubblicità" in aggiunta e non in sostituzione della
norma di carattere generale. Invero, le disposizioni di
dettaglio contenute nella fonte regolamentare servono a
completare la norma di rango legislativo, costituendone
coerente e conforme specificazione.
Va pertanto ribadito che le stesse non possono essere
disapplicate, in quanto conformi alla norma di rango
superiore ed allo stesso dettato degli articoli 51 e 97
della Costituzione, che garantiscono il diritto di accesso
agli impieghi pubblici di tutti i cittadini su di un piano
di parità, esercitabile solo attraverso un sistema di
pubblicità che favorisca la massima partecipazione.
Né rileva, in contrario, l'art. 32 della legge n. 69 del
2009, poiché il suo comma 7 ha ribadito il perdurante vigore
delle disposizioni –anche di rango secondario– che in
precedenza hanno disposto la pubblicazione di atti
amministrativi sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
3.3. In definitiva, la mancata pubblicazione, per estratto,
del bando di concorso de quo sulla Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana contrasta insanabilmente con
l'art. 4 del D.P.R. n. 487/1994, che, per gli enti locali,
prevede la possibilità di sostituire la pubblicazione del
bando soltanto con l'avviso di concorso contenente gli
estremi del bando e l'indicazione della scadenza del termine
per la presentazione della domanda (comma 1-bis).
3.4. Non giova all’Amministrazione resistente neanche al
richiamo al già citato art. 13 del regolamento comunale
sulle modalità di assunzione, sui requisiti di
partecipazione e sulle modalità concorsuali (approvato con
delibera di Giunta del 28.12.1999), il quale al primo comma
stabilisce che “Il bando, ovvero l’avviso di concorso,
sarà pubblicato nel rispetto delle norme vigenti alla data
di approvazione del bando” ed al secondo dispone che “Il
bando integrale deve essere pubblicato all’Albo Pretorio
comunale e dei comuni confinanti, nonché nei consueti luoghi
di affissione del Comune”.
Invero, la norma regolamentare comunale, nel prevedere la
pubblicazione del bando o dell'avviso "nel rispetto delle
norme vigenti alla data di approvazione del bando", non
esclude, ma anzi conferma l'applicazione dell'art. 4 del
D.P.R. n. 487. La previsione circa la pubblicazione del
bando all'Albo Pretorio comunale va in questo senso
considerata come necessaria integrazione, attesa la facoltà
del Comune di pubblicare in Gazzetta Ufficiale solo
l'estratto con gli estremi del bando e la data di scadenza
della domanda (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 08.06.2015,
n. 2801).
4. Per la stessa ragione, non può essere accolto il profilo
del primo motivo, nella parte in cui si prospetta
l’illegittimità del citato art. 13 per violazione dell'art.
4 del d.P.R. n. 487/1994, dovendosi ribadire che il
regolamento comunale non ammette forme di pubblicità ridotta
rispetto a quella imposta dalla normativa nazionale ma, al
contrario, ferma la regola generale, cui fa rinvio il primo
comma, prevede ulteriori modalità aggiuntive di pubblicità
dirette a rendere ancor più conoscibile alla collettività
l’indizione della procedura.
In tale parte, dunque, il gravame deve essere respinto.
5. In conclusione, il ricorso merita accoglimento nei limiti
sopra precisati, per cui s’impone l’annullamento degli atti
della suddetta procedura concorsuale, conclusa con
l’approvazione della graduatoria in data 06.04.2016
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 23.06.2017 n. 3433 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La mancata pubblicazione del bando di concorso sulla
Gazzetta Ufficiale comporta la legittimazione alla
sua impugnazione da parte di chi abbia interesse a
parteciparvi, senza bisogno ovviamente di proporre
la domanda di partecipazione, la cui mancanza è
dipesa proprio dalla mancata pubblicazione del
bando, in violazione della normativa vigente.
L'obbligo di pubblicazione dei bandi per concorso a
pubblico impiego nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica Italiana –previsto dall’art. 4 del d.P.R.
n. 487 del 1994- costituisce una regola generale
attuativa dell’art. 51, primo comma, e dell’art. 97,
comma terzo, della Costituzione.
Tale regola ha la finalità di consentire la concreta
massima conoscibilità della indizione di un concorso
pubblico a tutti i cittadini, indipendentemente
dalla loro residenza sul territorio dello Stato e
non è stata incisa –neanche per incompatibilità-
dall’art. 35, comma 3, lett. a), del d.lgs. n.
165-2001, che ha fissato il criterio della «adeguata
pubblicità» in aggiunta e non in sostituzione della
regola di carattere generale.
Neppure rileva in contrario l’art. 32 della legge n.
69 del 2009, poiché il suo comma 7 ha ribadito il
perdurante vigore delle disposizioni –anche di rango
secondario- che in precedenza hanno disposto la
pubblicazione di atti amministrativi sulla Gazzetta
Ufficiale della Repubblica.
-----------------
... per la riforma della
sentenza n. 1312/2015 del TAR Piemonte,
Sez. II, resa tra le parti, concernente la
graduatoria finale del concorso a un posto di
istruttore amministrativo contabile.
...
1. Con la sentenza impugnata, il TAR per il Piemonte
ha accolto il ricorso di primo grado n. 607 del 2015
ed ha annullato tutti gli atti del procedimento
concorsuale, indetto dal Comune di Gavi per la
copertura di un posto di istruttore amministrativo
contabile.
Il TAR ha ravvisato la fondatezza della censura con
cui il ricorrente in primo grado ha lamentato che il
bando di concorso non è stato pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
2. Con l’appello in esame, la vincitrice del
concorso ha impugnato la sentenza del TAR, chiedendo
che in sua riforma il ricorso di primo grado sia
respinto.
Ella ha dedotto che –contrariamente a quanto ha
ritenuto il TAR– la mancata pubblicazione del bando
sulla Gazzetta Ufficiale va considerata legittima, a
seguito della entrata in vigore dell’art. 32 della
legge n. 69 del 2009, che ha previsto l’obbligo
delle Amministrazioni di pubblicare i provvedimenti
sui propri siti informatici.
3. Ritiene la Sezione che le censure
dell’appellante, così riassunte, vadano respinte.
3.1. Come ha rilevato la Sezione (cfr. Consiglio di
Stato,
sez. V, 08.06.2015, n. 2801), l'obbligo di
pubblicazione dei bandi per concorso a pubblico
impiego nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
Italiana –previsto dall’art. 4 del d.P.R. n. 487 del
1994- costituisce una regola generale attuativa
dell’art. 51, primo comma, e dell’art. 97, comma
terzo, della Costituzione.
Tale regola ha la finalità di consentire la concreta
massima conoscibilità della indizione di un concorso
pubblico a tutti i cittadini, indipendentemente
dalla loro residenza sul territorio dello Stato e
non è stata incisa –neanche per incompatibilità-
dall’art. 35, comma 3, lett. a), del d.lgs. n.
165-2001, che ha fissato il criterio della «adeguata
pubblicità» in aggiunta e non in sostituzione
della regola di carattere generale.
Neppure rileva in contrario l’art. 32 della legge n.
69 del 2009, poiché il suo comma 7 ha ribadito il
perdurante vigore delle disposizioni –anche di rango
secondario- che in precedenza hanno disposto la
pubblicazione di atti amministrativi sulla Gazzetta
Ufficiale della Repubblica.
3.2. La mancata pubblicazione del bando di concorso
sulla Gazzetta Ufficiale comporta la legittimazione
alla sua impugnazione da parte di chi abbia
interesse a parteciparvi, senza bisogno ovviamente
di proporre la domanda di partecipazione, la cui
mancanza è dipesa proprio dalla mancata
pubblicazione del bando, in violazione della
normativa vigente.
4. Per le ragioni che precedono, l’appello va
respinto, con conferma della sentenza impugnata
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 25.01.2016 n. 227
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il ricorrente è legittimato ad impugnare
l’esito della procedura selettiva pur non avendovi
partecipato, in quanto:
- la regola processuale della obbligatoria
presentazione della domanda di ammissione subisce
un’eccezione proprio nel caso in cui l’interessato
non abbia avuto notizia tempestiva del bando di
concorso, per la mancata pubblicazione dello stesso,
quantomeno per estratto, sulla Gazzetta Ufficiale,
dovendo ritenersi senz’altro sussistente la
legittimazione all’impugnativa in capo a colui al
quale sia stata preclusa la conoscenza dell’avvio
della procedura concorsuale mediante lo strumento di
pubblicità normativamente prescritto;
- il ricorrente, laureato in Scienze dell’economia e
della gestione aziendale, ha dimostrato di possedere
un titolo di studio idoneo ai fini dell’ammissione
al concorso per il profilo di istruttore
amministrativo contabile, con ciò allegando un
interesse concreto e differenziato alla
partecipazione alla procedura concorsuale al fine di
collocarsi utilmente in graduatoria e di ottenere la
nomina;
- al riguardo, secondo il noto e generale principio
dell’assorbenza, la laurea in discipline economiche
implica il riconoscimento di competenze identiche ed
ulteriori rispetto a quelle ragionieristiche,
economiche e giuridiche discendenti dal possesso del
diploma quinquennale di ragioneria, che era
richiesto dal bando adottato dal Comune.
---------------
Il Comune non ha pubblicato il bando di concorso
sulla Gazzetta Ufficiale, neppure per estratto.
L’omessa pubblicazione del bando configura
l’insanabile violazione dell’art. 4 del d.P.R. n.
487 del 1994, che prevede, per gli enti locali, la
possibilità di sostituire la pubblicazione integrale
del bando con l’avviso di concorso contenente gli
estremi del bando e l’indicazione della scadenza del
termine per la presentazione della domanda.
La norma regolamentare è tuttora vigente ed integra
la previsione generale dell’art. 35, terzo comma,
del d.lgs. n. 165 del 2001, recante principi in
materia di procedure di reclutamento nelle pubbliche
amministrazioni, che si limita a prescrivere la
“adeguata pubblicità della selezione” senza
specificare altro in ordine alla pubblicazione in
Gazzetta Ufficiale.
A diversa conclusione non può giungersi sulla base
dell’art. 32 della legge n. 69 del 2009, come
vorrebbero le parti resistenti.
E’ vero che primo comma dell’art. 32 stabilisce che
gli obblighi di pubblicazione di atti e
provvedimenti amministrativi aventi effetto di
pubblicità legale si intendono assolti con la
pubblicazione nei siti informatici delle
amministrazioni e degli enti pubblici; ma, di
contro, il settimo comma dell’art. 32 prevede
espressamente che “è fatta salva la pubblicità nella
Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana e i
relativi effetti giuridici…”, in tal modo
confermando l’obbligatorietà della pubblicazione dei
bandi di concorso in Gazzetta Ufficiale e gli
effetti giuridici che a tale pubblicazione
conseguono.
Secondo l’interpretazione testuale e sistematica più
corretta del settimo comma dell’art. 32, la
“salvezza” dell’obbligatorietà e degli effetti della
pubblicità in Gazzetta Ufficiale non può essere
oggettivamente circoscritta oggettivamente alle sole
gare d’appalto disciplinate dal d.lgs. n. 163 del
2006. Il comma recita: “è fatta salva la pubblicità
nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea, nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e i
relativi effetti giuridici, nonché nel sito
informatico del Ministero delle infrastrutture e dei
trasporti di cui al decreto del Ministro dei lavori
pubblici 06.04.2001 (…), e nel sito informatico
presso l’Osservatorio dei contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture, prevista dal
codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n.
163”. L’ultimo inciso, ossia il riferimento all’art.
7 del Codice degli appalti pubblici, non può che
essere riferito alla pubblicità mediante
l’Osservatorio gestito dall’Autorità di vigilanza
(oggi Autorità nazionale anticorruzione).
Così interpretato il settimo comma dell’art. 32
della legge n. 69 del 2009, che conferma nei termini
descritti e senza limitazioni l’obbligo di
pubblicità nella Gazzetta Ufficiale, non si pone
alcuna questione di prevalenza della norma di rango
legislativo sulla norma anteriore di rango
regolamentare (l’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994),
come invece affermato dalla difesa del Comune.
---------------
... per l'annullamento:
- del bando di “concorso pubblico per esami per l'assunzione a
tempo indeterminato di n. 1 istruttore
amministrativo contabile - cat. C - posizione
economica C1, presso il Comune di Gavi (AL),
Servizio Finanziario" del 19.02.2015;
- della graduatoria finale di concorso del 30.03.2015, in cui
risultano classificati al primo posto El.Fi. ed al
secondo posto Gr.Po.Ma.;
- dell’atto di diniego di accesso civico prot. n. 3365 in data
08.05.2015, con cui il Comune di Gavi ha rigettato
l’istanza presentata dal ricorrente ai sensi
dell’art. 5 del d.lgs. n. 33 del 2013, avente ad
oggetto il regolamento comunale sull’ordinamento
degli uffici e dei servizi (ovvero altro regolamento
recante le norme sull’accesso all’impiego nel Comune
di Gavi), nonché l’estratto della pubblicazione del
bando sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica
Italiana o sugli altri mezzi di informazione o
portali telematici;
...
Il ricorrente, laureato in Scienze dell’economia e
della gestione aziendale, è attualmente dipendente a
tempo indeterminato del Comune di Jesi, con la
qualifica di istruttore direttivo amministrativo e
contabile.
Impugna gli atti in epigrafe, con i quali il Comune
di Gavi ha indetto un concorso per esami per
l’assunzione di un istruttore amministrativo
contabile e, all’esito delle prove scritte ed orali,
ha dichiarato vincitore la dott.ssa El.Fi.,
stipulando con quest’ultima il contratto individuale
di lavoro a tempo pieno ed indeterminato.
Deduce motivi così riassumibili:
1) violazione degli artt. 51 e 97 Cost., violazione dell’art. 35
del d.lgs. n. 165 del 2001, violazione dell’art. 4
del d.P.R. n. 487 del 1994: il Comune di Gavi
avrebbe illegittimamente omesso di pubblicare il
bando di concorso sulla Gazzetta Ufficiale della
Repubblica Italiana;
2) incompetenza, violazione dell’art. 107 del d.lgs. n. 267 del
2000: il bando di concorso sarebbe stato approvato
dalla Giunta comunale, anziché dal dirigente o dal
funzionario responsabile;
3) violazione dell’art. 5 del d.lgs. n. 33 del 2013: il Comune di
Gavi avrebbe illegittimamente impedito l’esercizio
del diritto di accesso civico ai regolamenti.
Il ricorrente chiede, inoltre, la condanna del
Comune al risarcimento del danno, in relazione alla
perdita della chance di partecipazione al concorso.
...
1. Sussistono, ai sensi dell’art. 74 cod. proc. amm.,
i presupposti per la decisione in forma
semplificata.
2. In rito, deve essere respinta l’eccezione di
inammissibilità sollevata dalla difesa delle
controinteressate. Non può esser dubbio, infatti,
che il ricorrente è legittimato ad impugnare l’esito
della procedura selettiva pur non avendovi
partecipato, in quanto:
- la regola processuale della obbligatoria presentazione della
domanda di ammissione subisce un’eccezione proprio
nel caso in cui l’interessato non abbia avuto
notizia tempestiva del bando di concorso, per la
mancata pubblicazione dello stesso, quantomeno per
estratto, sulla Gazzetta Ufficiale, dovendo
ritenersi senz’altro sussistente la legittimazione
all’impugnativa in capo a colui al quale sia stata
preclusa la conoscenza dell’avvio della procedura
concorsuale mediante lo strumento di pubblicità
normativamente prescritto (Cons. Stato, sez. V,
01.04.2009 n. 2077);
- il ricorrente, laureato in Scienze dell’economia e della gestione
aziendale, ha dimostrato di possedere un titolo di
studio idoneo ai fini dell’ammissione al concorso
per il profilo di istruttore amministrativo
contabile, con ciò allegando un interesse concreto e
differenziato alla partecipazione alla procedura
concorsuale al fine di collocarsi utilmente in
graduatoria e di ottenere la nomina;
- al riguardo, secondo il noto e generale principio dell’assorbenza
(tra le più recenti: TAR Sardegna, sez. I,
19.09.2014 n. 718; TAR Sicilia, Catania, sez. II,
24.05.2013 n. 1527; TAR Lazio, sez. I-ter,
04.04.2013 n. 3382; TAR Lombardia, Milano, sez. IV,
17.01.2012 n. 159), la laurea in discipline
economiche implica il riconoscimento di competenze
identiche ed ulteriori rispetto a quelle
ragionieristiche, economiche e giuridiche
discendenti dal possesso del diploma quinquennale di
ragioneria, che era richiesto dal bando adottato dal
Comune di Gavi.
3. Il secondo motivo, con cui il ricorrente
censura l’incompetenza della Giunta comunale ad
approvare il bando di concorso, deve essere
esaminato in via prioritaria (in tema di graduazione
dei motivi: Cons. Stato, ad. plen., 27.04.2015 n. 5)
ed è manifestamente infondato.
Il bando del 19.02.2015 reca la firma del dirigente
responsabile del servizio, dott.ssa Su. (doc. 1 di
parte ricorrente). Pertanto, non vi è stata alcuna
deviazione dalla ordinaria competenza dirigenziale.
4. Il primo motivo di ricorso è fondato.
Il Comune di Gavi non ha pubblicato il bando di
concorso sulla Gazzetta Ufficiale, neppure per
estratto.
L’omessa pubblicazione del bando configura
l’insanabile violazione dell’art. 4 del d.P.R. n.
487 del 1994, che prevede, per gli enti locali, la
possibilità di sostituire la pubblicazione integrale
del bando con l’avviso di concorso contenente gli
estremi del bando e l’indicazione della scadenza del
termine per la presentazione della domanda.
La norma regolamentare è tuttora vigente ed integra
la previsione generale dell’art. 35, terzo comma,
del d.lgs. n. 165 del 2001, recante principi in
materia di procedure di reclutamento nelle pubbliche
amministrazioni, che si limita a prescrivere la “adeguata
pubblicità della selezione” senza specificare
altro in ordine alla pubblicazione in Gazzetta
Ufficiale (cfr. Cons. Stato, sez. V, 16.02.2010 n.
871).
A diversa conclusione non può giungersi sulla base
dell’art. 32 della legge n. 69 del 2009, come
vorrebbero le parti resistenti.
E’ vero che primo comma dell’art. 32 stabilisce che
gli obblighi di pubblicazione di atti e
provvedimenti amministrativi aventi effetto di
pubblicità legale si intendono assolti con la
pubblicazione nei siti informatici delle
amministrazioni e degli enti pubblici; ma, di
contro, il settimo comma dell’art. 32 prevede
espressamente che “è fatta salva la pubblicità
nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana e i
relativi effetti giuridici…”, in tal modo
confermando l’obbligatorietà della pubblicazione dei
bandi di concorso in Gazzetta Ufficiale e gli
effetti giuridici che a tale pubblicazione
conseguono (in questo senso: Cons. Giust. Amm.
Sicilia, sez. giurisd.,
12.12.2013 n. 934; TAR
Lazio, sez. III-quater,
01.04.2014 n. 3554; TAR
Emilia Romagna, Bologna, sez. I,
22.02.2013 n. 145;
TAR Sicilia, Catania, Sez. II,
08.06.2012 n. 1474).
Secondo l’interpretazione testuale e sistematica più
corretta del settimo comma dell’art. 32, la “salvezza”
dell’obbligatorietà e degli effetti della pubblicità
in Gazzetta Ufficiale non può essere oggettivamente
circoscritta oggettivamente alle sole gare d’appalto
disciplinate dal d.lgs. n. 163 del 2006. Il comma
recita: “è fatta salva la pubblicità nella
Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea, nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e i
relativi effetti giuridici, nonché nel sito
informatico del Ministero delle infrastrutture e dei
trasporti di cui al decreto del Ministro dei lavori
pubblici 06.04.2001 (…), e nel sito informatico
presso l’Osservatorio dei contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture, prevista dal
codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n.
163”. L’ultimo inciso, ossia il riferimento
all’art. 7 del Codice degli appalti pubblici, non
può che essere riferito alla pubblicità mediante
l’Osservatorio gestito dall’Autorità di vigilanza
(oggi Autorità nazionale anticorruzione).
Così interpretato il settimo comma dell’art. 32
della legge n. 69 del 2009, che conferma nei termini
descritti e senza limitazioni l’obbligo di
pubblicità nella Gazzetta Ufficiale, non si pone
alcuna questione di prevalenza della norma di rango
legislativo sulla norma anteriore di rango
regolamentare (l’art. 4 del d.P.R. n. 487 del 1994),
come invece affermato dalla difesa del Comune di
Gavi.
Il motivo, pertanto, è fondato e comporta
l’annullamento del procedimento concorsuale e della
graduatoria finale.
5. E’ viceversa improcedibile, per difetto di
interesse, l’ultimo motivo di ricorso avente
ad oggetto l’accesso civico ai regolamenti comunali.
La domanda di risarcimento del danno è respinta,
poiché dall’annullamento dell’esito del concorso
discende la piena soddisfazione dell’interesse
azionato dal ricorrente (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 31.07.2015 n. 1312 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La controversia riguarda la legittimità di
un procedimento concorsuale, a partire da quella del
bando con cui esso è stato avviato.
Di talché, l’appartenenza della causa in esame alla
giurisdizione amministrativa riposa saldamente sulla
previsione del comma 4 dell’art. 63 del d.lgs. n.
165/2001, a norma del quale “Restano devolute alla
giurisdizione del giudice amministrativo le
controversie in materia di procedure concorsuali per
l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni” (per tali dovendosi intendere “le
controversie che … attengono alla fase del concorso,
dall'adozione del bando, con il quale
l'amministrazione manifesta all'esterno la decisione
di reclutare un certo numero di dipendenti, fino
all'approvazione della graduatoria definitiva con
cui si concludono le operazioni concorsuali, mentre
resta irrilevante, in presenza di una siffatta "res
litigiosa", che dall'annullamento dell'atto possa
derivare, in positivo, il diritto all'assunzione”).
---------------
Né può accedersi all’idea che una controversia
siffatta dovrebbe nondimeno reputarsi di pertinenza
dell’A.G.O. per la sola e mera ragione che al
momento della proposizione del ricorso introduttivo
l’iter concorsuale si fosse in concreto ormai
concluso, dando luogo alla nomina del vincitore.
La Sezione a questo proposito non può non
condividere l’osservazione del primo Giudice secondo
cui “la permanenza in capo al giudice amministrativo
della giurisdizione in tema di procedure concorsuali
non possa dipendere dalla mancata adozione di un
provvedimento di nomina del vincitore: se così
fosse, si consentirebbe alla pubblica
amministrazione di scegliere il giudice dei propri
atti. Sarebbe infatti sufficiente nominare il
vincitore del concorso con la massima sollecitudine
possibile per impedire che il giudice amministrativo
possa essere adito o possa pronunciarsi sulla
legittimità di una graduatoria.”
E’ indubbio che, “nel quadro della c.d.
privatizzazione dei rapporti di lavoro alle
dipendenze della pubblica amministrazione, la
devoluzione al giudice ordinario delle controversie
relative a tali rapporti comprende, come da espressa
previsione di legge, anche le controversie
concernenti l'assunzione al lavoro”; così come non è
meno vero che “La riserva di giurisdizione
amministrativa in materia di concorsi (art. 63 cit.,
comma 4) non estende la sua rilevanza alla fase
successiva all'approvazione della graduatoria e in
particolare alle controversie in merito alle pretese
all'assunzione basate sull'esito del concorso”.
La circostanza, tuttavia, che nella specie al
momento della domanda giudiziale il concorso fosse
già concluso non toglie che tale domanda riguardasse
proprio la legittimità del concorso stesso, e solo
in via meramente riflessa gli atti a valle della
relativa procedura, rientrandosi pertanto appieno
nel campo di applicazione dell‘art. 63, comma 4,
d.lgs. cit.. Vale allora nel caso concreto il
principio secondo cui “la giurisdizione sulla
legittimità di tutto quanto attiene al processo
selettivo va devoluta al giudice amministrativo, al
giudice cioè cui è istituzionalmente devoluto ogni
controllo sulla legittimità di ogni atto della
pubblica amministrazione”.
---------------
Ritiene il Collegio che la mancata pubblicazione, per estratto, del bando di concorso per la
copertura di un posto di Comandante del Corpo dei
Vigili Urbani, sulla Gazzetta Ufficiale della
Repubblica Italiana, contrasti insanabilmente con
l’art. 4 del D.P.R. n. 487/1994, che prescrive la
pubblicazione del bando di concorso per l’accesso
all’impiego nella Gazzetta Ufficiale ed in
particolare, per gli enti locali, prevede la
possibilità di sostituire la pubblicazione del bando
con l’avviso di concorso contenente gli estremi del
bando e l’indicazione della scadenza del termine per
la presentazione della domanda (comma 1-bis).
Né tale disposizione può considerarsi in contrasto
con l’art. 35, comma 3, lett. a), del D.Lgs. n.
165/2001, recante principi in materia di procedure
di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni, che
si limita a prescrivere “adeguata pubblicità della
selezione”, senza nulla specificare in ordine alla
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Invero, le
disposizioni di dettaglio contenute nella fonte
regolamentare servono a completare la norma di rango
legislativo, costituendone coerente e conforme
specificazione. Esse non possono, pertanto, essere
disapplicate, in quanto conformi alla norma di rango
superiore ed allo stesso dettato degli articoli 51 e
97 della Costituzione, che garantiscono il diritto
di accesso agli impieghi pubblici di tutti i
cittadini su di un piano di parità, esercitabile
solo attraverso un sistema di pubblicità che
favorisca la massima partecipazione.
Non può poi essere accolto il motivo, secondo cui il
Regolamento comunale sull’ordinamento generale degli
uffici e dei servizi approvato con delibera n. 648
del 24.9.1997 , ammette, all’art. 36, forme di
pubblicità ridotta rispetto a quella imposta dalla
normativa generale.
Invero, il Regolamento prevede la pubblicazione del
bando o dell’avviso “nel rispetto delle procedure
vigenti alla data di approvazione del bando”. Dunque
esso non esclude, ma anzi conferma l’applicazione
dell’art. 4 del D.P.R. n. 487. La previsione circa
la pubblicazione del bando all’Albo Pretorio
comunale va in questo senso considerata come
necessaria integrazione, attesa la facoltà del
Comune di pubblicare in Gazzetta Ufficiale solo
l’estratto con gli estremi del bando e la data di
scadenza della domanda.
Non assume in merito rilievo la questione circa la
possibilità riconosciuta ai Comuni di disciplinare,
con proprio regolamento, ai sensi dell’art. 89 D.Lgs.
n. 267/2000, l’ordinamento degli uffici e dei
servizi, poiché il Regolamento comunale , per quanto
detto, non autorizza affatto a ritenere superato il
precetto regolamentare costituito dall’art. 4 del
D.P.R. n. 487” (Sez. V, n. 871/2010 cit.;
un’impostazione simile è stata seguita dal C.G.A.R.S. con la sentenza 12.12.2013 n. 934,
che ha soggiunto che l’obbligatorietà della
pubblicazione dei bandi nella Gazzetta Ufficiale è
stata confermata anche dall’art. 32 della legge n.
69/2009).
---------------
... per la riforma della
sentenza 17.07.2009 n. 4074
del TAR CAMPANIA–Napoli, Sez. V, resa tra le parti,
concernente concorso per 1 posto di funzionario -
area economico-finanziaria - categoria D3.
...
Con ricorso al TAR per la Campania il sig.
Gi.Es., laureato in economia marittima e
dei trasporti e iscritto all’Ordine dei dottori
commercialisti di Napoli, impugnava gli atti del
Comune di Sant'Agata de’ Goti (BN) con i quali era
stato indetto il concorso pubblico, per titoli ed
esami, per la copertura di 1 posto a tempo
indeterminato (tempo pieno) nel profilo
professionale di funzionario – area
economico-finanziaria – categoria D3 (determinazione
dirigenziale n. 129 del 28.07.2008), il relativo
bando, tutte le operazioni della procedura e la
relativa graduatoria definitiva, pubblicata il
20.12.2008.
La censura di fondo del ricorso si basava sulla
circostanza che il bando di concorso non fosse mai
stato pubblicato, neppure per estratto, sulla
Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, né
tanto meno sul Bollettino Ufficiale della Regione
Campania, bensì esclusivamente sul sito web e
all’Albo pretorio del Comune, circostanza che aveva
impedito al ricorrente di venirne a conoscenza in
tempo utile ai fini della partecipazione alla
procedura.
...
L’appello è infondato.
1 L’appellante con il suo primo motivo ripropone la
propria eccezione di difetto di giurisdizione a
favore del Giudice ordinario, dolendosi del suo
rigetto da parte del primo Giudice.
L’eccezione è infondata.
L’appartenenza della causa in esame alla
giurisdizione amministrativa riposa saldamente sulla
previsione del comma 4 dell’art. 63 del d.lgs. n.
165/2001, a norma del quale “Restano devolute alla
giurisdizione del giudice amministrativo le
controversie in materia di procedure concorsuali per
l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni” (per tali dovendosi intendere,
secondo Cass. Civ. SS.UU., 27/10/2006, n. 23075, “le
controversie che … attengono alla fase del concorso,
dall'adozione del bando, con il quale
l'amministrazione manifesta all'esterno la decisione
di reclutare un certo numero di dipendenti, fino
all'approvazione della graduatoria definitiva con
cui si concludono le operazioni concorsuali, mentre
resta irrilevante, in presenza di una siffatta "res
litigiosa", che dall'annullamento dell'atto possa
derivare, in positivo, il diritto all'assunzione”).
La controversia riguarda, appunto, la legittimità di
un procedimento concorsuale, a partire da quella del
bando con cui esso è stato avviato.
L’impugnativa proposta in prime cure aveva lo scopo
di ottenere l’annullamento integrale del
procedimento espletato, affinché in luogo di esso
venisse indetto un nuovo concorso, mediante un bando
pubblicato a norma di legge, cui fosse posto in
grado di partecipare, quindi, chiunque disponeva dei
requisiti occorrenti. La posizione dedotta in
giudizio dall’originario ricorrente configurava
pertanto, senza possibilità di equivoci, un
interesse legittimo, e non certo un diritto
soggettivo.
La controversia concerne, inoltre, proprio il
concorso in sé stesso: tanto la causa petendi quanto
il petitum del relativo ricorso attengono, infatti,
alla materia del procedimento concorsuale (cfr.
Cassazione civile SS.UU. 16/11/2007, n. 23737).
Né può accedersi all’idea che una controversia
siffatta dovrebbe nondimeno reputarsi di pertinenza
dell’A.G.O. per la sola e mera ragione che al
momento della proposizione del ricorso introduttivo
l’iter concorsuale si fosse in concreto ormai
concluso, dando luogo alla nomina del vincitore.
La Sezione a questo proposito non può non
condividere l’osservazione del primo Giudice secondo
cui “la permanenza in capo al giudice amministrativo
della giurisdizione in tema di procedure concorsuali
non possa dipendere dalla mancata adozione di un
provvedimento di nomina del vincitore: se così
fosse, si consentirebbe alla pubblica
amministrazione di scegliere il giudice dei propri
atti. Sarebbe infatti sufficiente nominare il
vincitore del concorso con la massima sollecitudine
possibile per impedire che il giudice amministrativo
possa essere adito o possa pronunciarsi sulla
legittimità di una graduatoria.”
E’ indubbio che, “nel quadro della c.d.
privatizzazione dei rapporti di lavoro alle
dipendenze della pubblica amministrazione, la
devoluzione al giudice ordinario delle controversie
relative a tali rapporti comprende, come da espressa
previsione di legge, anche le controversie
concernenti l'assunzione al lavoro” (Cassazione
civile SS.UU. 28/05/2012, n. 8410); così come non è
meno vero che “La riserva di giurisdizione
amministrativa in materia di concorsi (art. 63 cit.,
comma 4) non estende la sua rilevanza alla fase
successiva all'approvazione della graduatoria e in
particolare alle controversie in merito alle pretese
all'assunzione basate sull'esito del concorso (cfr.
Cass., sez. un., 16.07.2008, n. 19510, 26.02.2010, n. 4648)” (SS.UU. n. 8410/2012 cit.).
La circostanza, tuttavia, che nella specie al
momento della domanda giudiziale il concorso fosse
già concluso non toglie che tale domanda riguardasse
proprio la legittimità del concorso stesso, e solo
in via meramente riflessa gli atti a valle della
relativa procedura, rientrandosi pertanto appieno
nel campo di applicazione dell‘art. 63, comma 4,
d.lgs. cit.. Vale allora nel caso concreto il
principio secondo cui “la giurisdizione sulla
legittimità di tutto quanto attiene al processo
selettivo va devoluta al giudice amministrativo, al
giudice cioè cui è istituzionalmente devoluto ogni
controllo sulla legittimità di ogni atto della
pubblica amministrazione” (Cassazione civile SS.UU.
16/07/2008, n. 19510).
Ne consegue la reiezione del primo motivo di
appello.
2a Con il secondo, articolato mezzo viene invece
trattato il merito della controversia, proponendo la
tesi di fondo che il bando di concorso oggetto di
causa non avrebbe necessitato di pubblicazione nella
Gazzetta Ufficiale, in quanto il Comune avrebbe
diversamente disposto nell’esercizio della propria
potestà normativa tanto mediante l’art. 70 del
proprio Statuto, quanto con l’art. 36 del proprio
Regolamento sull’ordinamento generale degli uffici e
dei servizi.
2b La Sezione in proposito deve però richiamarsi
alla contraria impostazione seguita, in una simile
vicenda riguardante lo stesso Ente locale, in
occasione della sentenza 16.02.2010 n. 871,
con la quale una prospettazione affine a quella
proposta dall’odierno appellante è stata appunto
disattesa.
2c Con tale pronuncia (confermativa del precedente
cui nel caso concreto si è uniformato il primo
Giudice) la Sezione ha sviluppato le seguenti
osservazioni.
“… ritiene il Collegio che la mancata pubblicazione, per estratto, del bando di concorso per la
copertura di un posto di Comandante del Corpo dei
Vigili Urbani, sulla Gazzetta Ufficiale della
Repubblica Italiana, contrasti insanabilmente con
l’art. 4 del D.P.R. n. 487/1994, che prescrive la
pubblicazione del bando di concorso per l’accesso
all’impiego nella Gazzetta Ufficiale ed in
particolare, per gli enti locali, prevede la
possibilità di sostituire la pubblicazione del bando
con l’avviso di concorso contenente gli estremi del
bando e l’indicazione della scadenza del termine per
la presentazione della domanda (comma 1-bis).
Né tale disposizione può considerarsi in contrasto
con l’art. 35, comma 3, lett. a), del D.Lgs. n.
165/2001, recante principi in materia di procedure
di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni, che
si limita a prescrivere “adeguata pubblicità della
selezione”, senza nulla specificare in ordine alla
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Invero, le
disposizioni di dettaglio contenute nella fonte
regolamentare servono a completare la norma di rango
legislativo, costituendone coerente e conforme
specificazione. Esse non possono, pertanto, essere
disapplicate, in quanto conformi alla norma di rango
superiore ed allo stesso dettato degli articoli 51 e
97 della Costituzione, che garantiscono il diritto
di accesso agli impieghi pubblici di tutti i
cittadini su di un piano di parità, esercitabile
solo attraverso un sistema di pubblicità che
favorisca la massima partecipazione.
Non può poi essere accolto il motivo, secondo cui il
Regolamento comunale sull’ordinamento generale degli
uffici e dei servizi approvato con delibera n. 648
del 24.9.1997 , ammette, all’art. 36, forme di
pubblicità ridotta rispetto a quella imposta dalla
normativa generale.
Invero, il Regolamento prevede la pubblicazione del
bando o dell’avviso “nel rispetto delle procedure
vigenti alla data di approvazione del bando”. Dunque
esso non esclude, ma anzi conferma l’applicazione
dell’art. 4 del D.P.R. n. 487. La previsione circa
la pubblicazione del bando all’Albo Pretorio
comunale va in questo senso considerata come
necessaria integrazione, attesa la facoltà del
Comune di pubblicare in Gazzetta Ufficiale solo
l’estratto con gli estremi del bando e la data di
scadenza della domanda.
Non assume in merito rilievo la questione circa la
possibilità riconosciuta ai Comuni di disciplinare,
con proprio regolamento, ai sensi dell’art. 89 D.Lgs.
n. 267/2000, l’ordinamento degli uffici e dei
servizi, poiché il Regolamento comunale , per quanto
detto, non autorizza affatto a ritenere superato il
precetto regolamentare costituito dall’art. 4 del
D.P.R. n. 487” (Sez. V, n. 871/2010 cit.;
un’impostazione simile è stata seguita dal C.G.A.R.S.
con la sentenza
sentenza 12.12.2013 n. 934,
che ha soggiunto che l’obbligatorietà della
pubblicazione dei bandi nella Gazzetta Ufficiale è
stata confermata anche dall’art. 32 della legge n.
69/2009).
2d La Sezione deve quindi senz’altro ribadire
l’infondatezza dell’assunto che l’art. 36 del
Regolamento comunale appena menzionato avesse
esonerato il Comune di Sant’Agata de’Goti dalla
pubblicazione del proprio bando concorsuale a norma
di legge.
2e Questa conclusione a più forte ragione s’impone
con riferimento alla previsione dell’art. 70 dello
Statuto comunale, anch’esso invocato dall’odierno
appellante.
Tale articolo -per quanto possa qui rilevare- si
limita invero a prevedere, in termini del tutto
generici, che “Nella sede comunale, in luogo
accessibile, è collocato l’Albo Pretorio per la
pubblicazione delle deliberazioni, delle ordinanze,
dei manifesti e di tutti gli atti che devono essere
portati a conoscenza del pubblico.” Nemmeno la norma
statutaria dà pertanto mostra in alcun modo di voler
innovare ai precetti, sopra menzionati, dell’art. 4
del d.P.R. n. 487/1994.
3 Per le ragioni esposte l’appello deve essere
respinto, meritando la sentenza impugnata piena
conferma (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.06.2015 n. 2801 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Questa sezione ritiene di non poter aderire agli
orientamenti espressi sia dal giudice di primo
grado, che dal giudice d’appello. Infatti
- il TAR si
appropria di una giurisdizione che non gli compete:
l’annullamento degli atti di nomina di un vincitore
di un concorso;
- il Consiglio di Stato abdica ad una
giurisdizione propria del giudice amministrativo: il
sindacato sulle procedure concorsuali per
l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni.
La sezione ritiene che la permanenza in capo al
giudice amministrativo della giurisdizione in tema
di procedure concorsuali non possa dipendere dalla
mancata adozione di un provvedimento di nomina del
vincitore: se così fosse, si consentirebbe alla
pubblica amministrazione di scegliere il giudice dei
propri atti. Sarebbe infatti sufficiente nominare il
vincitore del concorso con la massima sollecitudine
possibile per impedire che il giudice amministrativo
possa essere adito o possa pronunciarsi sulla
legittimità di una graduatoria.
La sezione ritiene,
al contrario, che l’identificazione del giudice
competente debba rispondere a criteri oggettivi che
si fondino sulla natura delle posizioni giuridiche e
sulla natura dei provvedimenti che si intende
sottoporre la vaglio giurisdizionale, con la
conseguenza che gli atti (nomina del vincitore)
adottati unilateralmente dall’amministrazione non
possono mutare il giudice competente a decidere
sugli atti presupposti (approvazione della
graduatoria).
---------------
Il profilo della legittimazione, in relazione al
carattere necessariamente differenziato della
situazione giuridica soggettiva azionata, non può
ritenersi inderogabilmente collegato alla
presentazione della domanda di partecipazione,
poiché un tale adempimento presuppone che
l’interessato abbia comunque avuto conoscenza
dell’indizione del concorso entro il termine di
scadenza indicato nel bando mentre non è
concretamente esigibile allorquando si agisca in
giudizio proprio per far accertare la violazione del
principio di pubblicità del bando di concorso da cui
l’onere in questione scaturisce.
Subordinare a pena di inammissibilità la
proponibilità del ricorso alla presentazione della
domanda darebbe adito ad una situazione di palese
contraddittorietà, in quanto l’interessato,
costretto a presentare la domanda di partecipazione
anche dopo la scadenza del termine all’uopo
previsto, rischierebbe di vedersi formalmente
escluso dal concorso per tardività della domanda
medesima e, successivamente, di vedersi opporre in
sede giurisdizionale la sopravvenuta acquiescenza
all’omessa rituale pubblicazione del bando a motivo
della presentazione (seppur tardiva) della domanda
di partecipazione.
L’art. 4, comma 1, del D.P.R. n. 487/1994, recante
disciplina delle modalità di accesso agli impieghi
nelle pubbliche amministrazioni, prevede che le
domande di ammissione ai concorsi devono essere
presentate <<entro il termine perentorio di trenta
giorni dalla data di pubblicazione del bando nella
Gazzetta Ufficiale>>; mentre il successivo comma 1-bis precisa che <<per gli enti locali territoriali
la pubblicazione del bando nella Gazzetta Ufficiale
di cui al comma 1 può essere sostituita dalla
pubblicazione di un avviso di concorso contenente
gli estremi del bando e l’indicazione della scadenza
del termine per la presentazione delle domande>>.
Una lettura piana del combinato disposto dei due
commi della citata disposizione emerge con chiarezza
la necessità della pubblicazione del bando di
concorso sulla Gazzetta Ufficiale, tant’è che la
data di pubblicazione viene espressamente assunta
quale dies a quo per la decorrenza del termine di
presentazione delle domande di partecipazione,
anche perché il carattere generale della
disposizione si desume a fortiori dal successivo
comma 1-bis che, nel prevedere una deroga per i soli
enti locali territoriali alla regola della
pubblicazione integrale del bando (consentendone la
pubblicazione in forma di avviso di concorso),
implicitamente conferma la cogenza della norma
generale (circa la necessità di una tale
pubblicazione in forma integrale) peraltro
richiamata dall’art. 70, comma 13, del DLGS n.
165/2001 secondo il quale <<in materia di
reclutamento, le pubbliche amministrazioni applicano
la disciplina prevista dal decreto del Presidente
della Repubblica 09.05.1994, n, 487 e successive
modificazioni e integrazioni, per le parti non
incompatibili con quanto previsto dagli a. 35 e 36,
salvo che la materia venga regolata, in coerenza con
i principi ivi previsti, nell’ambito dei rispettivi
ordinamenti>>.
Visto, altresì, il disposto dell’art. 35 del DLGS n.
165/2001 secondo cui <<le procedure di reclutamento
nelle pubbliche amministrazioni si conformano ai
seguenti principi: a) adeguata pubblicità della
selezione e modalità di svolgimento che garantiscano
l’imparzialità e assicurino economicità e celerità
di espletamento, ricorrendo, ove è opportuno,
all’ausilio di sistemi automatizzati, diretti anche
a realizzare forme di preselezione …>>.
La Sezione ritiene che l’art. 35, comma 3, lett. a),
del DLGS n. 165/2001, debba essere interpretato alla
luce dell’art. 4 del D.P.R. 487/1994, dal momento
che il richiamo al concetto giuridico indeterminato
di <<adeguata pubblicità>> della selezione trova un
primo momento di specificazione a livello normativo
proprio nell’art. 4 del DPR 487/1994 che indica
nella pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale il
requisito minimale per ritenere soddisfatta la
condizione di adeguatezza, ferma restando la
possibilità di ricorrere ad ulteriori forme di
pubblicità; in questo senso l’art. 4 non solo
precisa la portata irriducibile del principio di
pubblicità ma ne presidia il contenuto minimale,
ferma restando la possibilità di ricorrere ad
ulteriori forme idonee ad incrementare ulteriormente
la diffusione della notizia dell’indizione della
selezione.
Il principio di pubblicità opera con maggiore
intensità proprio nelle procedure di assunzione
mediante pubblico concorso, in quanto un regime di
pubblicità che non garantisse uno standard uniforme
di conoscibilità su tutto il territorio nazionale
delle procedure di assunzione nelle pubbliche
amministrazioni si porrebbe in contrasto con gli
artt. 51 e 97 Cost., ove si assicura a tutti i
cittadini dell’uno e dell’altro sesso la possibilità
di accedere agli uffici pubblici in condizioni di
eguaglianza e non v’è dubbio che una regola di
pubblicità valevole uniformemente su tutto il
territorio della Repubblica agevoli la conoscenza
dei bandi indetti dalle varie amministrazioni,
favorendo al contempo la massima partecipazione e
quindi un’effettiva possibilità di selezionare i
migliori in attuazione del concorrente precetto di
cui all’a. 97 della costituzione..
Nella fattispecie la condotta dell’amministrazione
deve essere censurata in quanto la forma di
pubblicità come sopra ritenuta necessaria non appare
neppure surrogabile mediante il ricorso alla
diffusione sul sito Internet dell’Ente, in quanto
l’utilizzo di un tale mezzo informativo non è
elevato dalla legge a strumento diretto ad
assicurare la conoscenza legale dei bandi, per cui
la pubblicazione secondo la predetta modalità ha
solo valore di pubblicità notizia.
---------------
Il controinteressato ha dedotto che: “Basta
considerare che lo stesso legislatore nazionale, con
la legge 06.08.2008, n. 133, all’articolo 27, ha
disposto l’abolizione della G.U. in forma cartacea
dal 01.01.2009 e ha ufficialmente precisato che
la pubblicazione di norme e di avvisi concorsuali
interverrà <<solo>> e esclusivamente on-line. (…).
La inefficienza pubblicistica, su carta stampata,
aveva determinato già da anni, per aspiranti
concorsuali o di altro tipo, il ricorso al solo WEB.
E sia pure con ritardo, anche il legislatore ha
raccolto questa indicazione e l’ha fatta propria.
Conseguentemente la pubblicizzazione WEB disposta
dal comune resistente è intervenuta in termini di
piena compatibilità con il menzionato decreto
legislativo (e viceversa) per cui nessuna censura
può muoversi in ordine a tanto”.
La norma invocata dal controinteressato, in realtà,
testualmente al comma 2, dispone: “Al fine di
ridurre i costi di produzione e distribuzione, a
decorrere dal 01.01.2009, la diffusione della
Gazzetta Ufficiale a tutti i soggetti in possesso di
un abbonamento a carico di amministrazioni o enti
pubblici o locali e' sostituita dall'abbonamento
telematico. Il costo degli abbonamenti è
conseguentemente rideterminato entro 60 giorni dalla
data di entrata in vigore della legge di conversione
del presente decreto”. Quindi il legislatore non ha
abolito in generale la pubblicazione cartacea della
gazzetta ufficiale.
Il richiamo alla norma non può condurre a
conclusioni diverse perché, in ogni caso, il bando
(del concorso su cui si controverte) non è stato
pubblicato su un presunto supporto telematico della
gazzetta ufficiale.
Se dovesse ritenersi sufficiente la pubblicazione
sul sito WEB di un’amministrazione comunale del
bando di concorso, ogni aspirante ad un impiego
dovrebbe consultare centinaia di siti, essendo
notorio che i comuni d’Italia sono più di ottomila.
La pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale è quindi
prevista per agevolare la consultazione su un solo
supporto di tutti i bandi adottati da pubbliche
amministrazioni.
La pubblicazione sul solo sito WEB di un comune
potrebbe ritenersi sufficiente se la residenza nel
comune, posseduta prima dell’emanazione del bando,
fosse prevista come requisito di ammissione al
concorso. Ma allo stato tutti i cittadini, ovunque
residenti, possono partecipare a tutti i concorsi
banditi dagli enti locali, cosicché si rende
indispensabile, proprio in applicazione
dell’articolo 97 della Costituzione, uno strumento
(la gazzetta ufficiale, anche in formato digitale)
unico di facile accesso per tutti gli aspiranti.
---------------
... per l'annullamento:
1) della determinazione dirigenziale n. 129 del 28.07.2008, con la
quale si è avviata la procedura per l'assunzione
mediante concorso pubblico per titoli ed esami di n.
1 posto a tempo indeterminato e a tempo pieno nel
profilo professionale di funzionario – area
economico-finanziaria – categoria D3 ed approvato il
relativo bando di concorso;
2) del bando di concorso approvato con la determinazione di cui
sopra e mai pubblicato, neppure per estratto, sulla
Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana;
3) della graduatoria provvisoria compilata all’esito della prova
del 19.12.2008;
4) della graduatoria definitiva pubblicata il 20.12.2008;
5) del relativo concorso, di tutte le operazioni concorsuali,
compresa la nomina della commissione, gli atti di
ammissione e di esclusione dei concorrenti, gli atti
di impulso della attività concorsuali,
l’approvazione degli atti e l’assunzione in servizio
degli eventuali aventi diritto, di estremi e data
sconosciuti e per i quali ci si riserva sin d’ora di
proporre motivi aggiunti;
6) di ogni altro atto presupposto, preparatorio, conseguente e
comunque connesso, lesivo degli interessi del
ricorrente.
...
Il ricorrente è laureato in economia marittima e dei
trasporti ed è iscritto al Consiglio dell’Ordine dei
Dottori Commercialisti di Napoli.
Il bando di concorso, meglio specificato in
epigrafe, non è mai stato pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale della Repubblica Italiana, né tanto meno
sul B.U.R.C. (Bollettino Ufficiale della Regione
Campania), bensì solo ed esclusivamente sul sito WEB
e all’Albo Pretorio del Comune di S. Agata dei Goti.
Il ricorrente ha chiesto l’annullamento degli atti
indicati in epigrafe.
...
La sezione ritiene il ricorso manifestamente
fondato, con la conseguenza che esso può essere
deciso con sentenza in forma semplificata (come
rappresentato, ai sensi del comma X dell’articolo 21
della legge 06.12.1971, n. 1034 nel testo
introdotto dall’art. 3 della legge 21.07.2000, n.
205, ai difensori delle parti costituite), in luogo
dell’ordinanza sull’istanza cautelare, così come
previsto dall’articolo 26, commi IV e V, della L.
1034 del 1971, nel testo introdotto dal c. 1
dell’articolo 9 della L. 205 del 2000.
Il controinteressato ha eccepito preliminarmente il
difetto di giurisdizione del giudice amministrativo
alla luce della decisione del Consiglio di Stato, V,
14.03.2007, n. 1133.
Con tale decisione il Consiglio di Stato annullava
la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale
per l’Abruzzo, Sezione Staccata di Pescara, n. 571
del 17.10.2005 e dichiarava il ricorso di primo
grado inammissibile, per difetto di giurisdizione
del giudice amministrativo.
Con il ricorso di primo grado venivano impugnate:
a) la determinazione del direttore generale
dell’azienda intimata n. 80 del 22.03.2005,
avente ad oggetto l’attuazione della deliberazione
n. 81 del 07.03.2005 del consiglio di
amministrazione;
b) la suddetta deliberazione del consiglio di
amministrazione n. 81 del 07.03.2005, con la quale
si è deliberato di procedere all’assunzione del
dottor xy;
c) la deliberazione del consiglio di amministrazione
n. 23 del 30.06.2003 di approvazione della
graduatoria del concorso pubblico per un posto di
dirigente.
Il TAR osservava che, nella specie, sì era in
presenza di una impugnativa che riguardava un
provvedimento di immissione in servizio che è
specificatamente rimesso alla competenza del giudice
ordinario.
<<Non vi è dubbio alcuno che tali provvedimenti sono
sottratti, di regola, alla giurisdizione del giudice
amministrativo, ma nel caso in esame, la censura che
investe l’atto di nomina del controinteressato
riguardava in particolare la sua posizione in
graduatoria, rectius la possibilità di essere
validamente inserito in questa, mancandogli un
titolo specifico per poter partecipare al concorso.
Tanto è vero che la ricorrente necessariamente
impugna anche la graduatoria del concorso rispetto
alla quale non si può revocare in dubbio che la
giurisdizione appartenga al giudice degli interessi.
Quindi, la censura rivolta all’atto di nomina
contiene certamente la denuncia dì un vizio di
illegittimità derivata il quale, se fondato,
provocherebbe la caducazione automatica del
provvedimento di nomina che non sarebbe, perciò,
necessario impugnare secondo il più accreditato
indirizzo giurisprudenziale.
D’altro canto, il vizio dedotto contro la nomina
dell’interessato è identico a quello rivolto alla
graduatoria che si ritiene illegittima in virtù
della non valida ammissione al concorso del
controinteressato.
Ne consegue che la giurisdizione nel presente
ricorso è certamente del giudice amministrativo>>.
Il Consiglio di Stato in contrario osservava che: “A
norma dell'articolo 68 del D.Lgs. n. 29/1993 e
successive modifiche, sono devolute al giudice
ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte
le controversie relative ai rapporti di lavoro alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni, incluse
le controversie concernenti l'assunzione al lavoro e
il conferimento o la revoca di incarichi
dirigenziali, ancorché vengano in questione atti
amministrativi presupposti, mentre continuano a
rientrare nella giurisdizione del giudice
amministrativo soltanto le controversie in materia
di procedure concorsuali per l'assunzione dei
dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
Il giudice di primo grado, pur riconoscendo che i
provvedimenti di assunzione all'impiego sono
sottratti alla giurisdizione del giudice
amministrativo, ha ritenuto di potere, nella specie,
ribaltare l'ordine delle attribuzioni
giurisdizionali, sulla considerazione che il ricorso
non ha proposto censure dirette contro l'atto di
assunzione in sé, bensì contro la graduatoria
concorsuale, viziata, in origine, dall'ammissione
alla procedura del controinteressato, collocatosi al
primo posto; da ciò conseguirebbe il vizio della
decisione dell'azienda di assumere il vincitore,
inficiata, dunque, dagli effetti riflessi dell'atto
illegittimo (graduatoria concorsuale) appartenente
alla cognizione del giudice amministrativo.
Siffatta impostazione non può essere condivisa.
La Corte regolatrice della giurisdizione é stata ben
chiara nel precisare che, nel sistema di riparto
della giurisdizione fra giudice amministrativo e
giudice ordinario, delineato dall'art. 68 D.Lgs. 03.02.1993 n. 29, nel testo sostituito dall'art.
29 del D.Lgs. 31.03.1998 n. 80 e ulteriormente
modificato dall'art. 18 del D.Lgs. 31.03.1998 n.
387, rientrano nell'ambito della giurisdizione del
giudice ordinario, per espressa disposizione del
citato primo comma dell'art. 68, le controversie
relative all'assunzione del lavoratore, ancorché
coinvolgano atti amministrativi presupposti, dal
momento che il secondo comma dello stesso art. 68
riserva al giudice ordinario le statuizioni sul
diritto all'assunzione, con effetti costitutivi del
rapporto di lavoro, senza che rilevi, ai fini della
giurisdizione, la circostanza che la decisione della
controversia coinvolga la verifica dei requisiti per
la partecipazione al concorso (Cass. Sez. Un., 13.07.2001, n. 9540).
Nello stesso senso é l'orientamento consolidato del
Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. VI, 11.03.2004, n. 1250; Sez. V, 13.10.2004 , n. 6650),
da cui la Sezione non ha ragione di discostarsi.
L'appello, pertanto, deve essere accolto sulla base
di tale prevalente ragione impugnatoria, restando
preclusa ogni ulteriore indagine di rito e di merito
in ordine alla graduatoria impugnata”.
Questa sezione ritiene di non poter aderire agli
orientamenti espressi sia dal giudice di primo
grado, che dal giudice d’appello. Infatti il TAR si
appropria di una giurisdizione che non gli compete:
l’annullamento degli atti di nomina di un vincitore
di un concorso; il Consiglio di Stato abdica ad una
giurisdizione propria del giudice amministrativo: il
sindacato sulle procedure concorsuali per
l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni.
La sezione ritiene che la permanenza in capo al
giudice amministrativo della giurisdizione in tema
di procedure concorsuali non possa dipendere dalla
mancata adozione di un provvedimento di nomina del
vincitore: se così fosse, si consentirebbe alla
pubblica amministrazione di scegliere il giudice dei
propri atti. Sarebbe infatti sufficiente nominare il
vincitore del concorso con la massima sollecitudine
possibile per impedire che il giudice amministrativo
possa essere adito o possa pronunciarsi sulla
legittimità di una graduatoria. La sezione ritiene,
al contrario, che l’identificazione del giudice
competente debba rispondere a criteri oggettivi che
si fondino sulla natura delle posizioni giuridiche e
sulla natura dei provvedimenti che si intende
sottoporre la vaglio giurisdizionale, con la
conseguenza che gli atti (nomina del vincitore)
adottati unilateralmente dall’amministrazione non
possono mutare il giudice competente a decidere
sugli atti presupposti (approvazione della
graduatoria).
Ritenuta la propria giurisdizione la sezione non può
che confermare quanto già deciso con la sentenza del
04.05.2009, n. 2269, emessa nei confronti della
medesima amministrazione in vicenda di contenuto
analogo.
“Il profilo della legittimazione, in relazione al
carattere necessariamente differenziato della
situazione giuridica soggettiva azionata, non può
ritenersi inderogabilmente collegato alla
presentazione della domanda di partecipazione,
poiché un tale adempimento presuppone che
l’interessato abbia comunque avuto conoscenza
dell’indizione del concorso entro il termine di
scadenza indicato nel bando mentre non è
concretamente esigibile allorquando si agisca in
giudizio proprio per far accertare la violazione del
principio di pubblicità del bando di concorso da cui
l’onere in questione scaturisce.
Subordinare a pena di inammissibilità la
proponibilità del ricorso alla presentazione della
domanda darebbe adito ad una situazione di palese
contraddittorietà, in quanto l’interessato,
costretto a presentare la domanda di partecipazione
anche dopo la scadenza del termine all’uopo
previsto, rischierebbe di vedersi formalmente
escluso dal concorso per tardività della domanda
medesima e, successivamente, di vedersi opporre in
sede giurisdizionale la sopravvenuta acquiescenza
all’omessa rituale pubblicazione del bando a motivo
della presentazione (seppur tardiva) della domanda
di partecipazione.
L’art. 4, comma 1, del D.P.R. n. 487/1994, recante
disciplina delle modalità di accesso agli impieghi
nelle pubbliche amministrazioni, prevede che le
domande di ammissione ai concorsi devono essere
presentate <<entro il termine perentorio di trenta
giorni dalla data di pubblicazione del bando nella
Gazzetta Ufficiale>>; mentre il successivo comma 1-bis precisa che <<per gli enti locali territoriali
la pubblicazione del bando nella Gazzetta Ufficiale
di cui al comma 1 può essere sostituita dalla
pubblicazione di un avviso di concorso contenente
gli estremi del bando e l’indicazione della scadenza
del termine per la presentazione delle domande>>.
Una lettura piana del combinato disposto dei due
commi della citata disposizione emerge con chiarezza
la necessità della pubblicazione del bando di
concorso sulla Gazzetta Ufficiale, tant’è che la
data di pubblicazione viene espressamente assunta
quale dies a quo per la decorrenza del termine di
presentazione delle domande di partecipazione
(TAR Lombardia, Milano, III, 17.01.2008, n. 53),
anche perché il carattere generale della
disposizione si desume a fortiori dal successivo
comma 1-bis che, nel prevedere una deroga per i soli
enti locali territoriali alla regola della
pubblicazione integrale del bando (consentendone la
pubblicazione in forma di avviso di concorso),
implicitamente conferma la cogenza della norma
generale (circa la necessità di una tale
pubblicazione in forma integrale) peraltro
richiamata dall’art. 70, comma 13, del DLGS n.
165/2001 secondo il quale <<in materia di
reclutamento, le pubbliche amministrazioni applicano
la disciplina prevista dal decreto del Presidente
della Repubblica 09.05.1994, n, 487 e successive
modificazioni e integrazioni, per le parti non
incompatibili con quanto previsto dagli a. 35 e 36,
salvo che la materia venga regolata, in coerenza con
i principi ivi previsti, nell’ambito dei rispettivi
ordinamenti>>.
Visto, altresì, il disposto dell’art. 35 del DLGS n.
165/2001 secondo cui <<le procedure di reclutamento
nelle pubbliche amministrazioni si conformano ai
seguenti principi: a) adeguata pubblicità della
selezione e modalità di svolgimento che garantiscano
l’imparzialità e assicurino economicità e celerità
di espletamento, ricorrendo, ove è opportuno,
all’ausilio di sistemi automatizzati, diretti anche
a realizzare forme di preselezione …>>.
La Sezione ritiene che l’art. 35, comma 3, lett. a),
del DLGS n. 165/2001, debba essere interpretato alla
luce dell’art. 4 del D.P.R. 487/1994, dal momento
che il richiamo al concetto giuridico indeterminato
di <<adeguata pubblicità>> della selezione trova un
primo momento di specificazione a livello normativo
proprio nell’art. 4 del DPR 487/1994 che indica
nella pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale il
requisito minimale per ritenere soddisfatta la
condizione di adeguatezza, ferma restando la
possibilità di ricorrere ad ulteriori forme di
pubblicità; in questo senso l’art. 4 non solo
precisa la portata irriducibile del principio di
pubblicità ma ne presidia il contenuto minimale,
ferma restando la possibilità di ricorrere ad
ulteriori forme idonee ad incrementare ulteriormente
la diffusione della notizia dell’indizione della
selezione.
Il principio di pubblicità opera con maggiore
intensità proprio nelle procedure di assunzione
mediante pubblico concorso, in quanto un regime di
pubblicità che non garantisse uno standard uniforme
di conoscibilità su tutto il territorio nazionale
delle procedure di assunzione nelle pubbliche
amministrazioni si porrebbe in contrasto con gli
artt. 51 e 97 Cost., ove si assicura a tutti i
cittadini dell’uno e dell’altro sesso la possibilità
di accedere agli uffici pubblici in condizioni di
eguaglianza e non v’è dubbio che una regola di
pubblicità valevole uniformemente su tutto il
territorio della Repubblica agevoli la conoscenza
dei bandi indetti dalle varie amministrazioni,
favorendo al contempo la massima partecipazione e
quindi un’effettiva possibilità di selezionare i
migliori in attuazione del concorrente precetto di
cui all’a. 97 della costituzione..
Nella fattispecie la condotta dell’amministrazione
deve essere censurata in quanto la forma di
pubblicità come sopra ritenuta necessaria non appare
neppure surrogabile mediante il ricorso alla
diffusione sul sito Internet dell’Ente, in quanto
l’utilizzo di un tale mezzo informativo non è
elevato dalla legge a strumento diretto ad
assicurare la conoscenza legale dei bandi, per cui
la pubblicazione secondo la predetta modalità ha
solo valore di pubblicità notizia (TAR Toscana,
I, 27.06.2005, n. 3103)”.
Il controinteressato, alla fine della propria
memoria difensiva, ha dedotto che: “Basta
considerare che lo stesso legislatore nazionale, con
la legge 06.08.2008, n. 133, all’articolo 27, ha
disposto l’abolizione della G.U. in forma cartacea
dal 01.01.2009 e ha ufficialmente precisato che
la pubblicazione di norme e di avvisi concorsuali
interverrà <<solo>> e esclusivamente on-line. (…).
La inefficienza pubblicistica, su carta stampata,
aveva determinato già da anni, per aspiranti
concorsuali o di altro tipo, il ricorso al solo WEB.
E sia pure con ritardo, anche il legislatore ha
raccolto questa indicazione e l’ha fatta propria.
Conseguentemente la pubblicizzazione WEB disposta
dal comune resistente è intervenuta in termini di
piena compatibilità con il menzionato decreto
legislativo (e viceversa) per cui nessuna censura
può muoversi in ordine a tanto”.
La norma invocata dal controinteressato, in realtà,
testualmente al comma 2, dispone: “Al fine di
ridurre i costi di produzione e distribuzione, a
decorrere dal 01.01.2009, la diffusione della
Gazzetta Ufficiale a tutti i soggetti in possesso di
un abbonamento a carico di amministrazioni o enti
pubblici o locali e' sostituita dall'abbonamento
telematico. Il costo degli abbonamenti è
conseguentemente rideterminato entro 60 giorni dalla
data di entrata in vigore della legge di conversione
del presente decreto”. Quindi il legislatore non ha
abolito in generale la pubblicazione cartacea della
gazzetta ufficiale.
Il richiamo alla norma non può condurre a
conclusioni diverse perché, in ogni caso, il bando
(del concorso su cui si controverte) non è stato
pubblicato su un presunto supporto telematico della
gazzetta ufficiale.
Se dovesse ritenersi sufficiente la pubblicazione
sul sito WEB di un’amministrazione comunale del
bando di concorso, ogni aspirante ad un impiego
dovrebbe consultare centinaia di siti, essendo
notorio che i comuni d’Italia sono più di ottomila.
La pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale è quindi
prevista per agevolare la consultazione su un solo
supporto di tutti i bandi adottati da pubbliche
amministrazioni.
La pubblicazione sul solo sito WEB di un comune
potrebbe ritenersi sufficiente se la residenza nel
comune, posseduta prima dell’emanazione del bando,
fosse prevista come requisito di ammissione al
concorso. Ma allo stato tutti i cittadini, ovunque
residenti, possono partecipare a tutti i concorsi
banditi dagli enti locali, cosicché si rende
indispensabile, proprio in applicazione
dell’articolo 97 della Costituzione, uno strumento
(la gazzetta ufficiale, anche in formato digitale)
unico di facile accesso per tutti gli aspiranti.
Il ricorso va pertanto accolto con conseguente
annullamento degli atti impugnati.
Il controinteressato ha dichiarato, ma non
dimostrato, di aver assunto servizio da lungo tempo.
Se tale circostanza dovesse dimostrarsi inesistente,
l’amministrazione, in seguito all’annullamento
dell’intera procedura, non potrà procedere
all’assunzione del medesimo.
Ove al contrario il controinteressato sia stato
effettivamente assunto, la sua nomina, sempre per
effetto dell’annullamento degli atti della procedura
concorsuale, diventa illecita sin dall’inizio perché
equiparabile ad una scelta effettuata “ad personam”
ossia senza lo svolgimento del procedimento (il
concorso) previsto dall’ordinamento.
Il giudice adito però, alla luce del riparto di
giurisdizione esistente in materia così come
delineato in precedenza, non può annullare il
contratto eventualmente stipulato
dall’amministrazione con il controinteressato.
Nel caso di specie, pertanto, la pronuncia del
giudice amministrativo, che è sentenza autoesecutiva
e quindi insuscettibile di essere portata ad
esecuzione con un giudizio di ottemperanza, non può
incidere sul contratto che lega il controinteressato
all’amministrazione.
Spetterà quindi solo al giudice ordinario, con
pronuncia dichiarativa o costitutiva, a seconda
della rilevanza che si voglia attribuire
all’annullamento degli atti presupposti sul
contratto, accertare il venire meno del rapporto
lavorativo del controinteressato con
l’amministrazione (TAR
Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 17.07.2009 n. 4074 - link a www.giustizia-amministrativa.it).). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Lavoro occasionale. Articolo 54-bis del decreto
legge 24.04.2017, n. 50, introdotto dalla Legge di
conversione 21.06.2017, n. 96. Libretto Famiglia e Contratto
di Prestazione Occasionale
(INPS,
circolare 05.07.2017 n. 107 - link a www.inps.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Quadro normativo - 2. Le prestazioni
di lavoro occasionali - 3. Le assicurazioni sociali
obbligatorie - 4. Preventiva registrazione sul sito Inps di
utilizzatori e prestatori - 5. Libretto Famiglia - 5.1
Regime generale - 5.2 Comunicazioni dell’utilizzatore del
Libretto Famiglia - 6. Contratto di Prestazione Occasionale
- 6.1 Regime generale - 6.2 Limiti all’utilizzo - 6.3
Comunicazioni dell’utilizzatore del Contratto di Prestazione
occasionale - 6.4 Il regime per le Pubbliche Amministrazioni
- 6.5 Il regime per l’agricoltura - 7. La gestione dei
pagamenti da parte degli utilizzatori - 8. La gestione
dell’erogazione dei compensi ai prestatori - 9. Profili
sanzionatori e regolarizzazioni - 10. Il bonus baby sitting
e gestione dell’utilizzo buoni di lavoro accessorio. |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Modificazione ed integrazione della Delibera 08.03.2017
n. 241 “Linee guida recanti indicazioni sull’attuazione
dell’art. 14 del d.lgs. 33/2013 «Obblighi di pubblicazione
concernenti i titolari di incarichi politici, di
amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di
incarichi dirigenziali» come modificato dall’art. 13 del
d.lgs. 97/2016” relativamente all’”Assemblea dei Sindaci” e
al “Consiglio provinciale” (delibera
14.06.2017 n. 641 - link a
www.anticorruzione.it).
---------------
Trasparenza
Obblighi degli organi delle Province – modifiche e
integrazioni alla determinazione ANAC n. 241/2017.
Con la delibera n. 641 del 14.06.2017, il Consiglio
dell’Autorità ha modificato la determinazione n. 241
dell’08.03.2017, relativamente agli obblighi di
pubblicazione ex art. 14, co. 1, lett. f), per i sindaci che
fanno parte dell’Assemblea delle province (art. 1, co. 56
della l. 56/2014).
In considerazione della partecipazione di diritto
all’Assemblea di tutti i sindaci dell’ambito provinciale,
anche di quelli dei comuni al di sotto di 15.000 abitanti
cui si applica per l’art. 14, co. 1, lett. f), una
trasparenza semplificata, resta ferma per questi ultimi la
disciplina specifica per essi prevista.
Diverso è il caso della partecipazione al Consiglio
provinciale che avviene per elezione e che presuppone una
candidatura da parte degli interessati (art. 1, commi 69 e
70 della legge 56/2014). Per i sindaci eletti, anche quelli
dei comuni con popolazione al di sotto dei 15.000 abitanti,
si applica in questi casi anche la trasparenza dell’art. 14,
co. 1, lett. f). |
APPALTI:
Determinazione 07.07.2011 n. 4 recante: Linee guida sulla
tracciabilità dei flussi finanziari ai sensi dell’articolo 3
della legge 13.08.2010, n. 136 - Aggiornata al decreto
legislativo 19.04.2017, n. 56 recante “Disposizioni
integrative e correttive al decreto legislativo 18.04.2016,
n. 50” (determinazione
31.05.2017 n. 556 - link a
www.anticorruzione.it).
---------------
Tracciabilità dei flussi finanziari -
Aggiornate le Linee guida
L'Autorità, con la Delibera n. 556 del 31.05.2017 ha
provveduto all'aggiornamento della determinazione n. 4 del
2011 recante "Linee guida sulla tracciabilità dei flussi
finanziari ai sensi dell'art. 3 della legge 13.08.2013, n.
136" alla luce delle novità introdotte con il decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50 e con il decreto legislativo
19.04.2017, n. 56 recante “Disposizioni integrative e
correttive al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50”. |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI LOCALI - VARI:
G.U. 15.07.2017 n. 164 "Proroga dell’ordinanza
13.06.2016, recante: «Norme sul divieto di utilizzo e di
detenzione di esche o di bocconi avvelenati»" (Ministero
della Salute,
ordinanza 21.06.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA:
G.U. 14.07.2017 n. 163 "Linee guida sulla consultazione
pubblica in Italia" (Dipartimento Funzione Pubblica,
direttiva 31.05.2017 n. 2/2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 14.07.2017 "Riconoscimento
dell’autonomia gestionale dei parchi locali di interesse
sovracomunale ai sensi dell’art. 5 della legge regionale
17.11.2016, n. 28 «Riorganizzazione del sistema lombardo
delle aree regionali protette e delle altre forme di tutela
presenti sul territorio»" (deliberazione
G.R. 19.06.2017 n. 6735). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
G.U. 13.07.2017 n. 162 "Attuazione delle nome
sull’accesso civico generalizzato (c.d. FOIA)" (Dipartimento
Funzione Pubblica,
circolare 30.05.2017 n. 2/2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 10.07.2017, "Modalità
per L’espletamento delle verifiche quindicennali sugli
impianti di distribuzione carburante ad uso pubblico e
privato ex d.g.r. 09.06.2017, n. 6698" (decreto
D.U.O. 06.07.2017 n. 8143). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 dell'08.07.2017, "Testo
coordinato del r.r. 05.08.2016, n. 7
«Definizione
dei servizi, degli standard qualitativi e delle dotazioni
minime obbligatorie degli ostelli per la gioventù, delle
case e appartamenti per vacanze, delle foresterie lombarde,
delle locande e dei bed and breakfast e requisiti
strutturali ed igienico-sanitari dei rifugi alpinistici ed
escursionistici in attuazione dell’art. 37 della legge
regionale 01.10.2015, n. 27 (Politiche regionali in materia
di turismo e attrattività del territorio lombardo)»”. |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 07.07.2017, "Aggiornamenti
degli allegati tecnici in attuazione dell’articolo 11, comma
6, del regolamento regionale n. 7 del 05.08.2016
«Definizione dei servizi, degli standard qualitativi e delle
dotazioni minime obbligatorie degli ostelli per la gioventù,
delle case e appartamenti per vacanze, delle foresterie
lombarde, delle locande e dei bed and breakfast e requisiti
strutturali ed igienico-sanitari dei rifugi alpinistici ed
escursionistici in attuazione dell’art. 37 della legge
regionale 01.10.2015, n. 27" (deliberazione
G.R. 30.06.2017 n. 6812). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 07.07.2017, "Supporto
agli Enti locali della Lombardia per l’adesione al Sistema
pubblico per l’identità digitale (SPID)" (deliberazione
G.R. 30.06.2017 n. 6788). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
G.U. 06.07.2017 n. 156 "Attuazione della direttiva
2014/52/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del
16.04.2014, che modifica la direttiva 2011/92/UE,
concernente la valutazione dell’impatto ambientale di
determinati progetti pubblici e privati, ai sensi degli
articoli 1 e 14 della legge 09.07.2015, n. 114" (D.Lgs.
16.06.2017 n. 104). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 03.07.2017 n. 153 "Designazione di 8 zone speciali
di conservazione (ZSC) della regione biogeografica alpina
insistenti nel territorio della Regione Lombardia" (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 14.06.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G.U. 03.07.2017 n. 153 "Modifiche al decreto n. 141 del
26.05.2016 recante criteri da tenere in conto nel
determinare l’importo delle garanzie finanziarie, di cui
all’articolo 29-sexies, comma 9-septies, del decreto
legislativo 03.04.2006, n. 152" (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 28.04.2017). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA: F.
Donegani,
Recupero dei vani e locali seminterrati esistenti (Legge
regione Lombardia 10.03.2017, n. 7)
(14.07.2017 - link a www.studiospallino.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L. Spallino,
Consumo di suolo: piani attuativi e questioni interpretative
a seguito delle modifiche alla l.r. n. 31/2014 (06.07.2017
- link a www.studiospallino.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
F. Anastasi,
LA GESTIONE DEI SITI INQUINATI: La responsabilità
dell’inquinamento nella sentenza del Tar Lombardia n.
1326/2017 (05.07.2017
- tratto da www.ambientediritto.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa 2. La bonifica dei siti
inquinati 3. La giurisprudenza sui criteri di imputazione
degli obblighi di bonifica 4. Il problema del soggetto
responsabile: la sentenza della Corte di Giustizia 5. La
pronuncia del TAR Lombardia-Milano n. 1326/2017. |
APPALTI:
M. Lipari,
La soppressione delle raccomandazioni vincolanti e la
legittimazione processuale speciale dell'Anac (05.07.2017
- tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SOMMARIO:
1. Il potere speciale dell'ANAC di adottare pareri motivati e di
impugnare i provvedimenti affetti da gravi violazioni del
codice. 1.1. L’art. 52-ter del decreto legge n. 50/2017:
dalle ceneri delle raccomandazioni vincolanti sorge il
potere di azione dell'ANAC. Il modello della legittimazione
processuale speciale dell’AGCM e la fun-zione di “advocacy”.
– 1.2. Il confronto con l’art. 21-bis del-la legge n.
287/1990. Le differenze dallo schema proposto dal Consiglio
di Stato. – 1.3. Il fondamento della legittima-zione
processuale dell’ANAC. Il carattere speciale o straordinario
del potere di azione e la giurisdizione di dirit-to
oggettivo. – 1.4. I dubbi di legittimità costituzionale del
potere di azione speciale dell'AGCM e dell'ANAC.
2. L'ambito di applicazione della nuova disciplina. 2.1. Lo spazio
oggettivo e soggettivo di operatività del nuovo istituto:
l'intento limitativo del legislatore. – 2.2. I contratti di
rilevante impatto. – 2.3. L’assenza di un potere di azione
relativo alla fase di esecuzione dei contratti. L’elenco
degli atti impugnabili. – 2.4. Gli appalti e gli altri tipi
contrattuali, le concessioni, i contratti esclusi. – 2.5. Il
parametro di legittimità delle censure deducibili dall’ANAC:
la disciplina dei contratti pubblici e le violazioni “del
presente codice”. La nozione di “grave” violazione del
codice. L’ANAC ha il potere di denunciare i vizi di
incompetenza e di eccesso di potere?
3. La fase preliminare alla proposizione del ricorso e l'emanazione
del parere motivato. – 3.1. Il procedimento preliminare
all’esercizio dell’azione. – 3.2. La fase preliminare è
sempre condizione di ammissibilità del ricor-so? – 3.3. Il
procedimento ha natura giuridica "privata" o amministrativa?
Il potere dell'ANAC è libero, discrezionale, doveroso, o
eventualmente autovincolato? - 3.4 Le conseguenze della
violazione del dovere di procedere dell’ANAC. – 3.5.
L’iniziativa di “denuncia” dei soggetti privati. Il
Considerando n. 122 e la tutela dei “cittadini-contribuenti”
imposta dal diritto UE. – 3.6. Le segnalazioni provenienti
da soggetti pubblici qualificati: un dovere di procedere
dell’ANAC? Le possibili sovrapposizioni con il potere di
azione dell’AGCM – 3.7. Gli atti di preiniziativa adottati
da soggetti privati o pubblici possono costituire un obbligo
di procedere in capo all’Autorità? – 3.8. Il termine per
l'emissione del parere motivato e la sua decorrenza. – 3.9.
L’art. 21-nonies della legge n. 241/1990: il parere motivato
è soggetto al limite temporale di diciotto mesi e al
principio del termine ragionevole? – 3.10. La partecipazione
della stazione appaltante e dei terzi al procedimento. –
3.11. La conclusione della prima fase del procedimento
preliminare: la natura giuridica del parere motivato e dei
suoi effetti – 3.12. Gli effetti sostanziali del parere
motiva-to: un dovere della stazione appaltante di attivare
l'autotu-tela? – 3.13. Il parere motivato è autonomamente e
imme-diatamente impugnabile? - 3.14 I provvedimenti adottati
dall’amministrazione in seguito alla pronuncia del parere. –
3.15. Il termine assegnato all’amministrazione per
l’adeguamento al parere motivato.
4. La fase processuale. 4.1. Dal parere motivato alla proposizione
del ricorso. L'oggetto del giudizio nel caso di conferma
espressa dell’originario provvedimento. – 4.2. L’ANAC deve
dimostrare la sussistenza di un concreto di-retto e attuale
interesse al ricorso? – 4.3. La competenza territoriale:
l’applicazione delle regole generali e la inope-ratività
della competenza funzionale del TAR Lazio. Il rito
applicabile e il rinvio all’art. 120 del CPA. – 4.4. Le
regole processuali: la compatibilità con il rito
superspeciale su ammissioni ed esclusioni. – 4.5. Il
giudizio cautelare. – 4.6. I motivi aggiunti e
l’impugnazione di provvedimenti connessi: è necessaria
l’emanazione di un nuovo parere motivato? – 4.7. Il
patrocino dell’Avvocatura dello Stato secondo le regole
generali. – 4.8. Le domande proponibili al giudice
amministrativo. L’azione di annullamento esau-risce la
legittimazione speciale dell’ANAC? La corrispon-denza tra i
vizi dedotti in giudizio e quelli enunciati nel parere
motivato. La proponibilità di questioni incidentali di
legittimità costituzionale o comunitaria – 4.9. L’appello e
le altre impugnazioni. – 4.10. La fase transitoria e il
regolamento attuativo di cui al comma 1-quater. |
APPALTI: R.
De Nictolis,
I poteri dell’ANAC dopo il correttivo
(01.07.2017 - tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario: 1. Quadro di sintesi. - 2. Le previsioni
della legge delega sull’ANAC. - 3. Confronto con la
disciplina previgente: i compiti nuovi. - 4. L’ANAC e il
decreto correttivo. - 5. I compiti di regolazione e di
partecipazione ai processi normativi. - 5.1. Compiti
“normativi” in senso lato. - 5.2. La natura giuridica delle
linee guida dell’ANAC. - 5.3. Il procedimento di formazione
e pubblicità delle LG. - 5.4. La giustiziabilità. - 5.5. I
comunicati del Presidente dell’ANAC. - 5.6. Le novità del
correttivo in ordine alle LG ANAC. - 6. I poteri di
organizzazione, di vigilanza e sanzionatori dell’ANAC. - 7.
Dalle raccomandazioni vincolanti alla legittimazione
straordinaria dell’ANAC. - 7.1. Introduzione. - 7.2. Le
previgenti raccomandazioni vincolanti e le criticità. - 8.
La nuova disciplina della vigilanza collaborativa. - 8.1.
Fonti e profili generali. - 8.2. La legittimazione ad agire
in giudizio dell’ANAC. - 8.2.a) Ambito oggettivo e
soggettivo. - 8.2.b) Rapporto tra legittimazione attiva e
impugnazione per gravi violazioni. - 9. Il parere motivato e
il ricorso dell’ANAC per gravi violazioni. - 9.1. L’ambito.
- 9.2. Il parere motivato. - 9.2.a) Profili generali. -
9.2.b) Il dies a quo per l’emissione del parere. - 9.2.c) La
motivazione del parere: i vizi di legittimità, il merito
amministrativo, la valutazione dell’interesse pubblico
concreto e attuale. - 9.2.d) L’interlocuzione precedente
l’emissione del parere. - 9.2.e) I destinatari del parere. -
9.3. Le attività della stazione appaltante destinataria del
parere. - 9.4. Il ricorso dell’ANAC. - 9.4.a) Profili
generali. - 9.4.b) Giurisdizione e competenza. - 9.4.c) Il
termine per l’azione. - 9.4.d) Il rito. Le questioni. -
9.4.e) L’impugnazione principale o incidentale del parere
dell’ANAC. - 9.4.f) L’intervento in giudizio. - 9.4.g) La
riunione dei giudizi. - 9.4.h) Il ricorso dell’ANAC e il
rito immediato contro ammissioni ed esclusioni. - 9.4.i) La
tutela cautelare. - 9.4.l) Il contributo unificato, le spese
di lite e la tutela risarcitoria. - 9.4.m) L’ambito della
controversia davanti al g.a. - 9.5. Rapporto tra
legittimazione straordinaria e parere precontenzioso. - 10.
Conclusioni. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
L. Spallino,
Consumo di suolo: le modifiche alla l.r. 31/2014
(17.06.2017 - link a www.studiospallino.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
F. Donegani,
Recupero dei vani e
locali seminterrati esistenti - Legge Regionale Lombardia
10.03.2017 n. 7 (20.05.2017 - tratto da
www.studiospallino.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Galbiati,
Autorizzazione
paesaggistica semplificata
(20.05.2017 - tratto da www.studiospallino.it). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI FORNITURE:
Acquisto autovettura in sostituzione di altra vetusta.
L'art. 1, c. 143, L. n. 228/2012, ha
stabilito il divieto di acquisto di autovetture, da ultimo
fino alla data del 31.12.2016; detto divieto non è
stato prorogato dal D.L. n. 244/2016 (decreto milleproroghe
2016).
Rimangono ferme, peraltro, le misure di contenimento della
spesa già previste dalle disposizioni vigenti richiamate dal
suddetto comma 143: e dunque, i tetti di spesa per
l'acquisto delle autovetture previsti dal D.L. n. 78/2010 e
dal D.L. n. 95/2012.
In proposito, la Corte dei conti, sulla scia della Corte
costituzionale, si è espressa nel senso che gli enti locali
possono considerare le norme finalizzate alla riduzione
delle spese per consumi intermedi in un'ottica complessiva,
con possibilità di compensazione tra le singole voci, nel
rispetto di un tetto massimo di spesa stanziabile a
bilancio.
Il Comune chiede se può sostituire una vetusta auto
utilizzata da un gruppo di volontari per effettuare un
servizio di trasporto di anziani e di persone limitate nella
mobilità presso i vicini ospedali e case di cura, avuto
riguardo alle vigenti norme di contenimento della spesa
pubblica. Il Comune specifica che il servizio di trasporto
di cui si tratta non rientra tra quelli demandabili
all'ambito distrettuale di appartenenza.
In via preliminare si precisa che l'interpretazione delle
norme statali spetta esclusivamente ai competenti Uffici
dello Stato. Per cui, sentito il Servizio finanza locale di
questa Direzione centrale, si esprime quanto segue, in via
meramente collaborativa.
L'art. 1, c. 143, L. n. 228/2012, ha stabilito per le
pubbliche amministrazioni, ferme restando le misure di
contenimento della spesa già previste dalle disposizioni
vigenti, il divieto di acquistare autovetture e di stipulare
contratti di locazione finanziaria aventi ad oggetto
autovetture, da ultimo, fino alla data del 31.12.2016
[1].
Peraltro, il richiamo contenuto nel comma 143 alle misure di
contenimento della spesa già previste dalle disposizioni
vigenti lascia tuttora in vigore i precedenti tetti di spesa
per l'acquisto delle autovetture previsti dal D.L. n.
78/2010 e dal D.L. n. 95/2012 [2].
L'art. 6, c. 14, D.L. n. 78/2010, prevede che le pp.aa. non
possono effettuare spese di ammontare superiore all'80%
della spesa sostenuta nell'anno 2009 per l'acquisto, la
manutenzione, il noleggio e l'esercizio di autovetture,
nonché per l'acquisto di buoni taxi.
L'art. 5, c. 2, D.L. n. 95/2012, come novellato dall'art.
15, c. 1, D.L. n. 66/2014, prevede che le pp.aa., a
decorrere dal 01.05.2014, non possono effettuare spese di
ammontare superiore al 30% della spesa sostenuta nell'anno
2011 per l'acquisto, la manutenzione, il noleggio e
l'esercizio di autovetture, nonché per l'acquisto di buoni
taxi.
Da tale limite di spesa, l'art. 5, c. 2, DL n. 95/2012,
esclude, tra l'altro, le spese per le autovetture utilizzate
per i servizi istituzionali di tutela dell'ordine e della
sicurezza pubblica e per i servizi sociali e sanitari svolti
per garantire i livelli essenziali di assistenza
[3].
Le Sezioni Riunite della Corte dei conti per la Regione
siciliana, chiamate a pronunciarsi sul contenuto dell'art.
6, c. 14, D.L. n. 78/2010, a seguito dell'entrata in vigore
dell'art. 5, c. 2, D.L. n. 95/2012, hanno affermato che il
limite di spesa posto per le autovetture dall'art. 5, c. 2,
D.L. n. 95/2012, deve essere interpretato alla stregua di
quanto chiarito dalla Corte costituzionale nella pronuncia
04.06.2012, n. 139, con possibilità di compensazioni
nell'ambito delle singole voci di spesa (in quel caso, la
richiesta di parere faceva riferimento alle tipologie di
spesa di cui all'art. 6, D.L. n. 78/2010), entro il limite
complessivo che è quello previsto dall'art. 6, c. 14, D.L.
n. 78/2010 (80% della spesa sostenuta nell'anno 2009), che
coesiste col limite previsto dal sopravvenuto art. 5, D.L.
n. 95/2012 [4].
Dette riflessioni sono state rese dalle Sezioni riunite per
la Regione siciliana sulla scia delle affermazioni della
Corte costituzionale con riferimento alle disposizioni di
contenimento della spesa di funzionamento amministrativo
contenute nell'art. 6, DL n. 78/2010. Per la Corte
costituzionale, il legislatore statale può legittimamente
imporre agli enti autonomi, per ragioni di coordinamento
finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati
anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di
bilancio. Questi vincoli possono considerarsi rispettosi
dell'autonomia delle Regioni e degli enti locali quando
stabiliscono un limite complessivo, che lascia agli enti
stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra le
varie voci di spesa incise dal legislatore
[5].
Diversamente, la Corte dei conti Lombardia ha affermato che
non risulta possibile compensare il limite di spesa per
autovetture, posto dall'art. 5, c. 2, D.L. n. 95/2012, con
quelli previsti da pregresse disposizioni di legge (e, in
particolare, dall'art. 6, D.L. n. 78/2010).
Sul contrasto di posizioni è intervenuta la Sezione delle
Autonomie [6]
che, con specifico riferimento all'art. 1, c. 141, L. n.
228/2012 [7],
in tema di limitazioni di acquisto di mobili e arredi, ha
osservato come il suo inciso iniziale 'Ferme restando le
misure di contenimento della spesa già previste dalle
vigenti disposizioni...', tende a considerare le norme
finalizzate alla riduzione delle spese per consumi intermedi
in un'ottica complessiva, con possibilità di compensazione
tra le singole voci, nel rispetto di un tetto massimo di
spesa stanziabile a bilancio.
Conseguentemente e venendo al quesito dell'Ente, nel
ribadire la competenza degli Uffici statali a pronunciarsi
sull'applicazione ed interpretazione delle norme statali di
cui si discute (art. 6, c. 14, D.L. n. 78/2010 e art. 5, c.
2, D.L. n. 95/2012), sembra potersi ritenere che i limiti di
spesa ivi previsti possano essere considerati dall'Ente alla
luce dei principi espressi dalla Corte dei conti, sulla scia
della Corte costituzionale: e dunque con riferimento ad un
limite complessivo derivante dalle diverse norme di
contenimento della spesa, nell'ambito del quale gli enti
locali restano liberi di allocare le risorse tra i diversi
ambiti o obiettivi di spesa [8].
---------------
[1] Il divieto, originariamente previsto dalla data di
entrata in vigore della L. n. 228/2012 (01.01.2013) fino al
31.12.2014, è stato dapprima prorogato fino al 31.12.2015
dall'art. 1, c. 1, primo periodo, D.L. n. 101/2013, e poi
fino al 31.12.2016 dall'art. 1, c. 636, L. 28.12.2015, n.
208. Il decreto legge 30.12.2016, n. 244 'Proroga e
definizione di termini' (c.d. Decreto milleproroghe 2016),
convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, c. 1,
L. 27.02.2017, n. 19, non ha prorogato il termine di cui
all'art. 1, c. 1, D.L. n. 101/2013.
[2] La Corte dei conti ha osservato che la L. n. 228/2012 ha
introdotto un divieto generale di acquisto di autovetture,
sebbene temporaneo, confermando la vigenza degli artt. 6, c.
14, D.L. n. 78/2010, e 5, c. 2, D.L. n. 95/2012, in materia
di contenimento del tetto complessivo della spesa
concernente le autovetture (Cfr. Corte dei conti, sez. reg.
contr. Veneto, 12.02.2016, n. 86. Conformi: Corte dei conti,
sez. reg. contr. Piemonte, 18.06.2015, n. 106; Corte dei
conti, sez. reg. contr. Umbria, 19.12.2014, n. 194).
[3] Nel caso di specie, l'acquisto del mezzo per il servizio
di trasporto di anziani e persone disabili si ritiene non
possa ricondursi alla deroga prevista specificamente per i
servizi comunali finalizzati a garantire i livelli
essenziali di assistenza.
[4] Corte dei conti Sez. riunite per la Regione siciliana,
parere n. 94 del 30.11.2012.
[5] Corte costituzionale, n. 139/2012, cit..
[6] Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, delibera
30.12.2013, n. 26.
[7] Norma non più in vigore, non essendone stato prorogato
il termine temporale di applicazione dal D.L. n. 244/2016
cit..
[8] Corte costituzionale, n. 139/2012, cit. (28.06.2017
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Incompatibilità/inconferibilità tra incarichi di posizione
organizzativa e cariche politiche.
1) È incompatibile un consigliere
comunale di un comune con popolazione superiore ai 15.000
abitanti, che sia, altresì, dipendente, titolare di
posizione organizzativa, presso un altro comune avente
popolazione inferiore a 15.000 abitanti se nell'atto
sindacale di affidamento dell'incarico di posizione
organizzativa siano a costui attribuite le funzioni
dirigenziali di cui all'articolo 107 del D.Lgs. 267/2000.
2) Si ritiene non venga in rilevo alcuna causa di
incompatibilità/inconferibilità per un sindaco di un comune
con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, che sia
dipendente, titolare di posizione organizzativa, presso un
altro comune avente popolazione superiore a 15.000 abitanti.
Il Comune chiede un parere circa la sussistenza di una
qualche causa di incompatibilità/inconferibilità per degli
amministratori locali. Più in particolare, prospetta due
casi:
1) quello di un consigliere comunale, di un comune con popolazione
superiore ai 15.000 abitanti, che è dipendente, titolare di
posizione organizzativa, presso un altro comune avente
popolazione inferiore a 15.000 abitanti;
2) quello di un sindaco di un comune con popolazione inferiore ai
15.000 abitanti, che è dipendente, titolare di posizione
organizzativa, presso un altro comune avente popolazione
superiore a 15.000 abitanti.
Precisa l'Ente che in entrambi i casi sopra riportati
risulta esistente una convenzione tra i comuni coinvolti
(rispettivamente, quello presso cui l'amministratore
esercita il proprio mandato e quello in cui svolge la
propria attività lavorativa) relativa a servizi differenti
rispetto a quelli in ordine ai quali il dipendente ha la
titolarità di una posizione organizzativa.
Sentito il Servizio Consiglio autonomie locali ed
elettorale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Con riferimento alla prima fattispecie descritta si ritiene
debba essere preso in considerazione l'articolo 12 del
decreto legislativo 08.04.2013, n. 39 il quale, al comma
4, recita: 'Gli incarichi dirigenziali, interni e
esterni, nelle pubbliche amministrazioni, negli enti
pubblici e negli enti di diritto privato in controllo
pubblico di livello provinciale o comunale sono
incompatibili:
a) omissis;
b) con la carica di componente della giunta o del consiglio di una
provincia, di un comune con popolazione superiore ai 15.000
abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la
medesima popolazione, ricompresi nella stessa regione
dell'amministrazione locale che ha conferito l'incarico;
c) omissis.'.
In via preliminare, si ricorda che, ai sensi dell'articolo
1, comma 2, lett. j), del D.Lgs. 39/2013 per 'incarichi
dirigenziali interni' si intendono 'gli incarichi di
funzione dirigenziale, comunque denominati, che comportano
l'esercizio in via esclusiva delle competenze di
amministrazione e gestione [.....] conferiti a dirigenti o
ad altri dipendenti [...] appartenenti ai ruoli
dell'amministrazione che conferisce l'incarico ovvero al
ruolo di altra pubblica amministrazione'.
L'articolo 2, comma 2, del decreto in oggetto, prevede, poi,
espressamente che, 'ai fini del presente decreto al
conferimento negli enti locali di incarichi dirigenziali è
assimilato quello di funzioni dirigenziali a personale non
dirigenziale [...]'.
L'Autorità nazionale anticorruzione (ANAC)
[1] ha rilevato
che 'il regime delle incompatibilità di cui al D.Lgs.
39/2013 fa esclusivo riferimento agli incarichi dirigenziali
e agli incarichi di funzioni dirigenziali, onde l'annoverabilità
tra i medesimi degli incarichi di posizione organizzativa va
valutata caso per caso in ragione delle funzioni
effettivamente svolte'. [2]
Segue che il presupposto rilevante al fine della sussistenza
dell'incompatibilità è che al responsabile delegato di
posizione organizzativa siano attribuite le funzioni
dirigenziali di cui all'articolo 107, commi 2 e 3, del
D.Lgs. 267/2000.
Ai sensi dell'articolo 107, commi 1-3, del D.Lgs. 267/2000,
infatti, spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei
servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e
dai regolamenti. In particolare, spettano ai dirigenti tutti
i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti
amministrativi che impegnano l'amministrazione verso
l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo
statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o
non rientranti tra le funzioni del segretario o del
direttore generale. A titolo esemplificativo, spettano ai
dirigenti la stipulazione dei contratti, gli atti di
gestione finanziaria, gli atti di amministrazione e gestione
del personale, le attestazioni, certificazioni, diffide,
verbali e ogni altro atto costituente manifestazione di
giudizio e di conoscenza, nonché i provvedimenti di
autorizzazione, concessione o analoghi.
Nel caso concreto, occorrerà pertanto accertare se nell'atto
sindacale di affidamento dell'incarico di posizione
organizzativa siano attribuite o meno al soggetto le
funzioni dirigenziali di cui all'articolo 107 del D.Lgs.
267/2000. In caso di risposta positiva, si deve concludere
per la sussistenza della causa di incompatibilità
disciplinata dall'articolo 12, comma 4, lettera b), del
D.Lgs. 39/2013.
Con riferimento alla seconda questione posta si ritiene non
venga in rilievo alcuna causa di incompatibilità/inconferibilità
prevista dalla legge. In particolare, si ritiene non
sussistano i presupposti per l'applicabilità della causa di
inconferibilità di cui all'articolo 7, comma 2, del D.Lgs.
39/2013 il quale recita: 'A coloro che nei due anni
precedenti siano stati componenti della giunta o del
consiglio della provincia, del comune o della forma
associativa tra comuni che conferisce l'incarico, ovvero a
coloro che nell'anno precedente abbiano fatto parte della
giunta o del consiglio di una provincia, di un comune con
popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma
associativa tra comuni avente la medesima popolazione, nella
stessa regione dell'amministrazione locale che conferisce
l'incarico, [...] non possono essere conferiti:
a) gli incarichi amministrativi di vertice nelle amministrazioni di
una provincia, di un comune con popolazione superiore ai
15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente
la medesima popolazione;
b) gli incarichi dirigenziali nelle medesime amministrazioni di cui
alla lettera a);
c) omissis;
d) omissis.'.
Benché la norma citata si applichi anche con riferimento
agli amministratori che attualmente ricoprono la carica
politica, e non solo a quelli che l'hanno ricoperta in
passato (due anni prima o nell'anno precedente)
[3], nel
caso in esame difetta il requisito della soglia abitativa
richiesta per il realizzarsi del presupposto soggettivo e
consistente nel fatto che si tratti di 'componente della
giunta o del consiglio di un comune con popolazione
superiore ai 15.000 abitanti'.
Né la disposizione citata rileva nella parte in cui fa
riferimento a colui che è componente della giunta o del
consiglio della 'forma associativa tra comuni',
atteso che, come rilevato dall'ANAC, 'il regime delle
inconferibilità e delle incompatibilità di cui al d.lgs. n.
39/2013 non opera con riferimento alle forme associative tra
comuni con popolazione complessiva superiore ai 15.000
abitanti che si sostanziano nella stipula di una
convenzione, ai sensi dell'art. 30 del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267, per lo svolgimento in modo coordinato di
funzioni e servizi determinati'. [4]
---------------
[1] Cfr. FAC 7.19 Il d.lgs. n. 39 del 2013 si applica ai
titolari di posizioni organizzative?
[2] La stessa ANAC, nell'orientamento n. 4 del 15.05.2014 ha
affermato che l'incarico di posizione organizzativa in un
ente locale, conferito ai sensi dell'art. 109, comma 2, del
d.lgs. 267/2000 è qualificabile come incarico di funzioni
dirigenziali a personale non dirigenziale, fatta salva
l'ipotesi che il conferimento dello stesso sia avvenuto
prima dell'entrata in vigore del citato decreto 39/2013,
secondo quanto stabilito dall'art. 29-ter del d.l. 69/2013.
[3] Si veda, al riguardo, l'orientamento n. 11/2015 espresso
dall'ANAC secondo cui: 'Le situazioni di inconferibilità
previste nell'art. 7 del d.lgs. 39/2013, nei confronti di
coloro che nell'anno o nei due anni precedenti hanno
ricoperto le cariche politiche e gli incarichi ivi indicati,
vanno equiparate, ai fini del d.lgs. 39/2013, a coloro che
attualmente ricoprono tali ruoli.'
[4] ANAC, orientamento n. 5 del 15.05.2014 (21.06.2017
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EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito alla possibilità di consentire
il trasferimento di diritti edificatori – Comune di Colonna (Regione
Lazio,
nota 15.06.2017 n. 305497 di
prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito all'interpretazione della
nozione di originaria destinazione d'uso di cui all'art. 3,
comma 1, lett. b), del d.P.R. 380/2001 – Comune di Tuscania
(Regione Lazio,
nota 15.06.2017 n.
305403 di prot.). |
PATRIMONIO:
Attribuzioni patrimoniali immobiliari in favore di soggetti
privati.
La gestione del patrimonio pubblico è
improntata al principio di redditività, la cui deroga è
subordinata dalla giurisprudenza contabile più recente
all'assenza dello scopo di lucro in capo al soggetto
beneficiario, fermo restando l'obbligo di un'esaustiva
motivazione della scelta dell'ente, in considerazione
dell'interesse pubblico perseguito, che risulti equivalente
o addirittura superiore rispetto a quello che viene
soddisfatto mediante lo sfruttamento economico dei beni,
secondo i principi giurisprudenziali già consolidati.
Inoltre, la Corte dei conti, chiamata a pronunciarsi in tema
di attribuzioni patrimoniali (attinenti al patrimonio
immobiliare) a terzi privati senza scopo di lucro, al fine
di svolgere attività di interesse per la comunità insediata
sul territorio locale, secondo i principi della
sussidiarietà orizzontale di cui all'art. 118, Cost., ha
affermato che l'ente locale che voglia procedere ad un tanto
deve farlo nel rispetto dell'art. 12, L. n. 241/1990, avendo
cura di predeterminare i casi, le condizioni e le modalità
per la concessione di simili utilità ed il confronto
concorrenziale tra gli aspiranti.
Il Comune pone un quesito in ordine alla riconducibilità di
attività di interesse generale svolta da soggetto
imprenditoriale alla finalità istituzionale della promozione
dello sviluppo economico del territorio e dunque alla
sussidiarietà orizzontale, ai sensi dell'art. 118 Cost..
In particolare, il Comune pone l'ipotesi dell'attribuzione
gratuita ad un operatore commerciale, selezionato nel
rispetto della normativa di settore, della disponibilità del
sito ove svolgere un concerto, al fine di agevolare e
mantenere detta manifestazione sul proprio territorio.
Si precisa che l'attività di questo Servizio consta nel
fornire un supporto giuridico generale di ausilio agli enti
per la soluzione dei casi concreti che si presentano. Si
esprimeranno dunque in questa sede considerazioni sulla
tematica delle gestione del patrimonio immobiliare comunale,
cui si riconduce il quesito posto, sulla scorta delle quali,
in via collaborativa, si formuleranno alcune osservazioni
relative al caso di specie, che l'Ente potrà valutare nella
sua autonomia.
L'atto di disposizione di un bene pubblico
[1] è improntato
al principio della gestione economica dei beni pubblici, in
modo da aumentarne la produttività in termini di entrate
finanziarie.
L'obbligo della gestione economica del bene pubblico
rappresenta attuazione del principio costituzionale di buon
andamento (art. 97 Cost.) del quale l'economicità della
gestione amministrativa costituisce il più significativo
corollario (art. 1, L. n. 241/1990) [2].
In ordine alla possibilità di derogare al principio della
redditività del patrimonio pubblico, la Corte dei conti si è
evoluta negli anni all'insegna del maggior rigore. E così,
la più recente giurisprudenza contabile -nel ribadire i
principi già consolidati, secondo cui le modalità di
gestione del patrimonio competono alla scelta autonoma
discrezionale dell'ente, che deve dare esaustiva motivazione
in ordine alle finalità di interesse pubblico perseguito
[3], che
risulti equivalente o addirittura superiore rispetto a
quello che viene perseguito mediante lo sfruttamento
economico dei beni [4]-
ha ritenuto necessaria l'assenza di fine di lucro in capo ai
soggetti possibili affidatari dei beni del patrimonio
locale, come condizione necessaria tanto per mitigare quanto
per escludere la redditività del patrimonio pubblico
[5].
Un tanto esposto in generale e venendo al caso di specie, si
osserva, in via collaborativa, che non si rinvengono in
proposito motivi per discostarsi dal principio della
redditività del patrimonio pubblico, ed in particolare dalla
posizione più recente della giurisprudenza che subordina la
deroga a detto principio all'assenza dello scopo di lucro in
capo ai soggetti possibili beneficiari.
Ed invero, in relazione all'ipotesi prospettata dall'Ente di
ricondurre l'attività di interesse generale del soggetto
imprenditore, cui valuterebbe di attribuire gratuitamente il
sito ove tenere un grande concerto, alle proprie finalità
istituzionali, nella specie dello sviluppo economico,
secondo i principi di sussidiarietà orizzontale di cui
all'art. 118 Cost., si ritengono utili le seguenti ulteriori
considerazioni sempre alla luce degli apporti
giurisprudenziali.
La Corte dei conti -chiamata a pronunciarsi sulla
possibilità di attribuire un diritto reale, a titolo
gratuito o dietro corrispettivo simbolico, ad
un'associazione senza fini di lucro operante sul territorio-
ha affrontato in termini generali la facoltà di un ente di
procedere ad attribuzioni patrimoniali attinenti al
patrimonio immobiliare a terzi soggetti, presenti sul
territorio comunale, al fine di consentire lo svolgimento di
attività che presentino interesse per l'amministrazione
locale o per la comunità insediata sul territorio locale.
Ebbene, il magistrato contabile ha affermato che nel momento
in cui l'ente locale ricorra a soggetti privati per
raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosce
loro benefici di natura patrimoniale, lo stesso deve
rispettare l'art. 12, L. n. 241/1990, avendo cura di
predeterminare i casi, le condizioni e le modalità per la
concessione di simili utilità ed il confronto concorrenziale
tra gli aspiranti [6].
Muovendo da quest'ultimo aspetto e tornando al caso di
specie, risulta sussistere un regolamento dell'Ente in tema
di concessione di contributi ed altre erogazioni economiche,
ai sensi dell'art. 12, L. n. 241/1990. Fermo restando che
l'interpretazione e l'applicazione di detto regolamento
competono esclusivamente all'Ente, si osserva in via
collaborativa, avuto riguardo alla natura imprenditoriale
del soggetto terzo riferita dall'Ente, che il regolamento in
parola prevede che la concessione di contributi ed altre
erogazioni economiche è rivolta a favore di persone fisiche
che non svolgono attività imprenditoriale e persone
giuridiche pubbliche o private che non hanno scopo di lucro.
---------------
[1] Provvedimento amministrativo se si tratta di bene
demaniale o appartenente al patrimonio indisponibile;
negozio di diritto privato se si tratta di bene patrimoniale
disponibile (cfr. Corte dei conti, sez. reg. contr. Veneto,
05.10.2012, n. 716).
[2] La giurisprudenza trae il principio di fruttuosità dei
beni pubblici dalla lettura combinata degli artt. 9, c. 3, L
n. 537/1993, e 32, c. 8, L. n. 724/1994, che impongono la
determinazione e l'aggiornamento dei canoni dei beni dati in
concessione a privati, sulla base dei prezzi praticati in
regime di libero mercato, e da cui deriva il principio della
gestione del patrimonio pubblico in modo da incrementare le
entrate patrimoniali dell'amministrazione (cfr. Corte dei
conti, sez. II, giurisdizionale d'appello, 22.04.2010, n.
149; Corte dei conti, sez. reg. contr. Puglia, 14.11.2013,
n. 170).
[3] V. Corte di conti, sez. reg. contr. Lombardia,
09.06.2011, n. 349 e 17.06.2010, n. 672.
[4] Corte dei conti Puglia, n. 170/2013 cit.; Corte dei
conti Veneto n. 716/2012 cit..
[5] Corte dei conti Veneto n. 716/2012 cit., richiamata
dalle Corti dei conti Puglia, 12.12.2014, n. 216; Lombardia,
06.05.2014, n. 216; Molise, 15.01.2015, n. 1.
In particolare, la Corte dei conti Veneto argomenta
l'assenza dello scopo di lucro dalla lettura degli artt. 32,
c. 8, L. n. 724/1994 -che prevede una deroga alla
determinazione dei canoni dai comuni secondo logiche di
mercato, in considerazione degli 'scopi sociali'- e 32, L.
n. 383/2000 -che consente agli enti locali di utilizzare il
comodato in favore di organizzazioni di volontariato ed
associazioni di promozione sociale-: norme da cui emerge,
osserva la Corte dei conti, il riferimento delle eccezioni
ivi previste a categorie ben individuate di beneficiari,
connotati dall'assenza dello scopo di lucro.
Sulla scorta di queste riflessioni, le deliberazioni
richiamate rimettono alla valutazione discrezionale
dell'ente interessato -in considerazione delle proprie
finalità istituzionali, attraverso un'attenta valutazione
comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, secondo i
principi già espressi negli anni precedenti dalla
magistratura contabile- la possibilità di prevedere tariffe
agevolate o la gratuità per l'utilizzo di beni pubblici in
favore di soggetti che sono pp.aa. o privati connotati
dall'assenza di scopo di lucro.
Per una disamina dell'evoluzione giurisprudenziale in tema
di gestione del patrimonio pubblico, v. note di questo
Servizio n. 11715/2016 e n. 7491/2015, all'indirizzo web
della Regione Friuli Venezia Giulia: http://autonomielocali.regione.fvg.it
[6] Corte dei conti, sez. reg. contr. Piemonte, 19.02.2014,
n. 36.
L'obbligo degli enti locali di predeterminare le condizioni
e le modalità per la concessione di vantaggi economici è
altresì posto, sul piano dell'ordinamento regionale, dal
combinato disposto degli artt. 2, c. 2-bis, e 30, L.R. n.
7/2000 (14.06.2017 -
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ENTI LOCALI:
Convenzione per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità
da parte di imputati in procedimenti penali. Organo comunale
competente all'approvazione della convenzione.
Si ritiene che la stipulazione della
convenzione tra il Comune e il Tribunale territorialmente
competente per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità
da parte di soggetti imputati in procedimenti penali
necessiti della previa delibera di giunta comunale.
Il Comune chiede un parere in materia di individuazione
dell'organo comunale competente ad approvare la convenzione
per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità, da parte
di soggetti imputati in procedimenti penali.
L'articolo 168-bis del codice penale, introdotto
dall'articolo 3 della legge 28.04.2014, n. 67, prevede che,
in determinati procedimenti penali, l'imputato possa
chiedere la sospensione del processo con messa alla prova,
la concessione della quale è subordinata alla prestazione di
attività di lavoro di pubblica utilità. Il terzo comma
dell'articolo 168-bis c.p. recita, in particolare, al
riguardo: 'La concessione della messa alla prova è
inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica
utilità. Il lavoro di pubblica utilità consiste in una
prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche
delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative
dell'imputato, di durata non inferiore a dieci giorni, anche
non continuativi, in favore della collettività, da svolgere
presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le
aziende sanitarie o presso enti o organizzazioni, anche
internazionali, che operano in Italia, di assistenza
sociale, sanitaria e di volontariato. La prestazione è
svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di
lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell'imputato e
la sua durata giornaliera non può superare le otto ore.'.
[1]
L'articolo 8 della legge 67/2014, prevede, poi, che: 'Ai
sensi dell'articolo 17, comma 3, della legge 23.08.1988, n.
400, il Ministro della giustizia, entro tre mesi dalla data
di entrata in vigore della presente legge, adotta un
regolamento allo scopo di disciplinare le convenzioni che il
Ministero della giustizia o, su delega di quest'ultimo, il
presidente del tribunale, può stipulare con gli enti o le
organizzazioni di cui al terzo comma dell'articolo 168-bis
del codice penale, introdotto dall'articolo 3, comma 1,
della presente legge. I testi delle convenzioni sono
pubblicati nel sito internet del Ministero della giustizia e
raggruppati per distretto di corte di appello.'.
In attuazione di tale previsione è stato emanato dal
Ministero della giustizia il decreto ministeriale
08.06.2015, n. 88 che detta i contenuti e la disciplina
delle indicate convenzioni.
Sulla base della normativa in essere è stato altresì
predisposto dal Tribunale con cui il Comune che ha posto il
quesito intende stipulare la convenzione in oggetto, uno
schema di convenzione da utilizzare da parte degli enti
interessati a collaborare con gli organi della Giustizia, al
fine di contribuire al pieno dispiegamento dei diritti degli
imputati per il tramite dello strumento giuridico loro
offerto dall'articolo 168-bis c.p..
Come rilevato dal Ministero della Giustizia,
[2] 'il
lavoro di pubblica è una sanzione penale consistente nella
prestazione di un'attività non retribuita a favore della
collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le
province, i comuni o presso enti e organizzazioni di
assistenza sociale o volontariato.'.
Con la convenzione in riferimento l'ente locale manifesta la
propria disponibilità ad acconsentire allo svolgimento di
determinate attività non retribuite in favore della
collettività da parte di imputati in un procedimento penale
per i quali è stata concessa la messa alla prova, la quale è
subordinata, ai sensi di legge, alla prestazione di lavoro
di pubblica utilità.
Ciò premesso, ed al fine di fornire risposta al quesito
posto, in ordine al riparto di competenze tra consiglio e
giunta comunale, si osserva quanto segue.
Il consiglio comunale è organo di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo dell'Ente (articolo 42, comma 1,
D.Lgs. 267/2000). Ad esso compete l'adozione degli atti
fondamentali elencati nell'articolo 42, comma 2, del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267 e di quelli ulteriori che
possono essergli attribuiti da leggi speciali.
Con riferimento, invece, alla competenza della giunta, si
rammenta che trattasi di organo con funzioni residuali nel
senso che essa 'compie tutti gli atti rientranti ai sensi
dell'articolo 107, commi 1 e 2, nelle funzioni degli organi
di governo, che non siano riservati dalla legge al consiglio
e che non ricadano nelle competenze, previste dalle leggi o
dallo statuto, del sindaco o del presidente della provincia'.
Come affermato dalla giurisprudenza 'il consiglio
comunale è chiamato ad esprimere gli indirizzi politici ed
amministrativi di rilievo generale che si traducono in atti
fondamentali di natura programmatoria o aventi elevato
contenuto di indirizzo politico, che risultano essere
tassativamente elencati dalla normativa di settore, mentre
la giunta ha una competenza residuale in quanto compie tutti
gli atti non riservati dalla legge al consiglio o non
ricadenti nelle competenze, previste dalle leggi o dallo
statuto, del Sindaco o di altri organi.'
[3].
Con riferimento alla fattispecie in esame, la stipulazione
della convenzione di cui trattasi pare non concretizzare
alcun atto rientrante nell'elenco di cui all'articolo 42
sopra citato. In particolare, si è dell'avviso che il caso
in argomento non rientri nella previsione di cui
all'articolo 42, comma 2, lett. e) concernente 'organizzazione
dei pubblici servizi, costituzione di istituzioni e aziende
speciali, concessione dei pubblici servizi, partecipazione
dell'ente locale a società di capitali, affidamento di
attività o servizi mediante convenzione'.
Nel caso in esame, infatti, la convenzione non pare che
abbia ad oggetto l'affidamento da parte del Comune di un
determinato servizio o attività, trattandosi di un atto in
cui l'Ente esprime la propria disponibilità a collaborare
con gli organi della giustizia consentendo a determinati
imputati di fornire attività di lavoro di pubblica utilità
come strumento preordinato alla sospensione del processo in
corso.
Segue che la stipulazione della convenzione di che trattasi
rientra nelle competenze della giunta comunale quale organo
politico, con competenza residuale, competente, in questo
caso, a esprimersi circa la volontà dell'ente locale di far
prestare, presso le strutture comunali, una certa attività
agli imputati in un processo penale, in attuazione del
disposto di cui all'articolo 168-bis c.p., alle condizioni e
con le modalità indicate dalla relativa normativa.
Come rilevato dalla dottrina 'il ruolo del consiglio
comunale va ragionevolmente riferito alle sole
determinazioni che comportano un'effettiva incidenza sulle
scelte fondamentali dell'ente, mentre la giunta resta
investita del compito di attuare gli indirizzi formulati
dall'organo elettivo, eventualmente anche svolgendo attività
sempre con finalità esecutive, ma che implichi una
valutazione di natura in qualche misura
politico-amministrativa e, come tale, non spettante alla
competenza della dirigenza'. [4]
---------------
[1] Per completezza espositiva si riportano, in questa sede,
i restanti commi dell'articolo 168-bis c.p.: 'Nei
procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale
pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore
nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa
alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal
comma 2 dell'articolo 550 del codice di procedura penale,
l'imputato può chiedere la sospensione del processo con
messa alla prova.
La messa alla prova comporta la prestazione di condotte
volte all'eliminazione delle conseguenze dannose o
pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il
risarcimento del danno dallo stesso cagionato. Comporta
altresì l'affidamento dell'imputato al servizio sociale, per
lo svolgimento di un programma che può implicare, tra
l'altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero
l'osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il
servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora,
alla libertà di movimento, al divieto di frequentare
determinati locali.
[...]
La sospensione del procedimento con messa alla prova
dell'imputato non può essere concessa più di una volta.
La sospensione del procedimento con messa alla prova non si
applica nei casi previsti dagli articoli 102, 103, 104, 105
e 108.'.
[2] Ministero della Giustizia. 'Lavoro di pubblica utilità',
aggiornamento del 26.02.2016, reperibile sul seguente sito
internet: www.giustizia.it
[3] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza dell'11.12.2007,
n. 6358. Nello stesso senso si veda Consiglio di Stato, sez.
V, sentenza del 06.10.2000, n. 5322
[4] G. Massimo, 'Il riparto di competenza tra consiglio e
giunta per l'affidamento dei servizi pubblici locali
mediante convenzione', 04.02.2010, in www.diritto.it (09.06.2017
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CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Amministratori locali e dipendenti rimborso spese legali in
caso di estinzione del reato per remissione di querela.
La normativa regionale in tema di
rimborso spese legali degli amministratori e dipendenti
locali non disciplina espressamente il caso della
conclusione del processo con sentenza di non doversi
procedere per estinzione del reato a seguito di remissione
della querela.
In generale, la giurisprudenza ha affermato che il rimborso
delle spese legali di dipendenti e amministratori postula
l'assenza del conflitto di interesse con l'amministrazione;
presupposto da valutarsi alla stregua della statuizione
definitiva che conclude il procedimento, sotto ogni profilo
di responsabilità, non solo penale, ma anche di tipo
disciplinare o amministrativo, per mancanze attinenti al
compimento dei doveri di ufficio.
Questi principi sono stati richiamati dalla Corte dei conti
Friuli Venezia Giulia in una vicenda attinente alla
rimborsabilità delle spese legali sostenute da dipendenti a
seguito di un procedimento penale conclusosi con formula di
rito (nella specie, sentenza declaratoria di estinzione del
reato per intervenuta prescrizione).
Stesse considerazioni sull'accertamento dell'assenza di ogni
responsabilità per il rimborso delle spese giudiziali si
ritengono valevoli per gli amministratori locali del Friuli
Venezia Giulia, muovendo da una lettura combinata del comma
1 e del comma 2-quinquies dell'art. 151 della L.R. n.
53/1981.
Il Comune riferisce che alcuni amministratori locali e un
dipendente sono stati citati in un giudizio penale e che nei
loro confronti è stato dichiarato di non doversi procedere
per essersi il reato ascritto estinto per remissione di
querela. Il Comune chiede dunque se spetti agli
amministratori e al dipendente il rimborso delle spese
legali sostenute.
Sentito, con riferimento alla situazione del dipendente, il
Servizio organizzazione, valutazione e relazioni sindacali
personale regionale della Direzione generale della Regione,
si esprime quanto segue.
Per quanto concerne gli amministratori locali, l'art. 151,
c. 1, L.R. n. 53/1981, n. 53, dispone che 'in caso di
instaurazione di giudizio civile, penale o amministrativo di
qualsiasi tipo a carico di componenti della Giunta
regionale, del Consiglio regionale, di organi collegiali di
enti regionali o di soggetti esterni incaricati di funzioni
regionali o inseriti in organismi regionali per attività
svolte nell'esercizio delle rispettive funzioni
istituzionali, a causa ovvero in occasione di queste, la
Regione provvede a rimborsare le spese sostenute per la
difesa in giudizio, previo parere di congruità da parte
dell'Ordine degli avvocati territorialmente competente, con
l'esclusione dei casi in cui il giudizio o una sua fase si
concluda con sentenza o decreto di condanna o pronuncia
equiparata; il rimborso non è tuttavia ammesso nei casi in
cui il giudizio si concluda con una sentenza dichiarativa di
estinzione del reato per prescrizione o per amnistia, a meno
che queste non siano dichiarate nel corso delle indagini
preliminari ovvero dopo una sentenza di assoluzione e
altresì non spetta nei casi riguardanti la definizione dei
procedimenti con il patteggiamento della pena'. Il comma
2-ter dell'art. 151 in commento estende le previsioni del
comma 1 richiamato anche agli amministratori degli enti
locali.
Per quanto concerne i dipendenti degli enti locali, l'art.
60, CCRL 01.08.2002, prevede che l'ente, anche a tutela dei
propri diritti ed interessi, ove si verifichi l'apertura di
un procedimento di responsabilità civile o penale nei
confronti di un suo dipendente per fatti o atti direttamente
connessi all'espletamento del servizio e all'adempimento dei
compiti d'ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione
che non sussista conflitto di interessi, ogni onere di
difesa sin dall'apertura del procedimento, facendo assistere
il dipendente da un legale di comune gradimento. In caso di
sentenza di condanna esecutiva per fatti commessi con dolo o
colpa grave, l'ente ripeterà dal dipendente tutti gli oneri
sostenuti per la sua difesa in ogni stato e grado del
giudizio.
Le disposizioni richiamate non contemplano espressamente, ma
nemmeno escludono, la sentenza di non doversi procedere per
estinzione del reato a seguito di remissione della querela
quale modalità di conclusione del processo idonea a
consentire il rimborso delle spese legali. Appaiono dunque
utili per la disamina della questione le considerazioni
espresse dalla giurisprudenza, in generale, in materia di
assunzione da parte della p.a. dell'onere della difesa
processuale sia dei dipendenti che degli amministratori.
Per quanto concerne i dipendenti, la Suprema Corte, muovendo
da un principio di rimborsabilità delle spese legali
sopportate dal dipendente -assolto da qualsiasi giudizio di
responsabilità occorsogli per causa di servizio- che la
giustizia amministrativa riconosce in via generale
nell'ordinamento, ne ha derivato che l'ente datore di lavoro
è chiamato a contribuire alla difesa del suo dipendente, sul
presupposto dell'effettiva mancanza di un qualsiasi
conflitto di interessi fra lo stesso e l'amministrazione;
presupposto da valutarsi alla stregua della statuizione
definitiva che conclude il procedimento, che esclude ogni
profilo di responsabilità, non solo penale ma anche
disciplinare, del soggetto interessato in ordine ai fatti
addebitatigli [1].
In questo senso, il Giudice amministrativo ha affermato che
l'assunzione dell'onere del patrocinio legale del dipendente
è subordinata all'insussistenza di conflitto di interesse
fra il dipendente medesimo e l'ente di appartenenza, da
valutarsi alla stregua della statuizione definitiva che
conclude il procedimento, sotto ogni profilo di
responsabilità, non solo penale, ma anche di tipo
disciplinare o amministrativo, per mancanze attinenti al
compimento dei doveri di ufficio [2].
Allo stesso modo, la Corte dei conti ha affermato che il
requisito dell'assenza del conflitto di interesse,
consistente nell'avvenuta prova dell'assenza di
responsabilità del dipendente, deve essere positivamente
verificato, con valutazione da effettuarsi ex post
nel caso di rimborso, sulla base del provvedimento
giudiziario conclusivo del procedimento che ha coinvolto il
dipendente [3].
Stesse considerazioni sull'accertamento dell'assenza di ogni
responsabilità per il rimborso delle spese giudiziali si
ritengono valevoli per gli amministratori locali del Friuli
Venezia Giulia: depongono in tal senso i contenuti della
normativa regionale in materia. Ed invero, una lettura
combinata del comma 1 dell'art. 151 e del comma 2-quinquies
del medesimo -che espressamente prevede il diritto dell'Ente
a ripetere le spese legali già rimborsate in caso di
successiva decisione giurisdizionale, passata in giudicato,
di condanna o equiparata modificativa del giudizio di
carenza di responsabilità- porterebbe ad affermare che per
procedere al rimborso delle spese legali sia necessaria una
pronuncia che accerti l'assenza di responsabilità in capo
all'amministratore, sulla cui base l'ente possa escludere il
conflitto di interesse [4].
Posta la sostanziale assimilazione tra dipendenti ed
amministratori sotto il profilo della responsabilità, ai
fini di valutare per entrambi, nella realtà regionale, il
diritto al rimborso delle spese legali nel caso (qui
ricorrente) di sentenza di non doversi procedere per
estinzione del reato per remissione della querela, si
ritiene utile riportare le considerazioni della Corte dei
conti Friuli Venezia Giulia [5]
in tema di rimborso delle spese legali sostenute da
dipendenti a seguito di un procedimento penale conclusosi
con sentenza declaratoria di estinzione del reato per
intervenuta prescrizione, avuto riguardo ai contenuti
dell'art. 60, CCRL 01.08.2002, citato. Si tratta di un caso
non sovrapponibile a quello in esame ma a questo accomunato
dall'essere ugualmente posta la domanda di rimborso delle
spese legali nel contesto di sentenze di proscioglimento con
formule cc.dd. di rito.
In particolare, avuto riguardo all'accertamento
dell'insussistenza dell'elemento soggettivo del dolo e della
colpa grave, la Corte dei conti friulana richiama i principi
già espressi in seno alla giurisprudenza amministrativa e
contabile, per cui è condizione necessaria, per ottenere il
rimborso delle spese legali, che il procedimento giudiziario
si concluda con una sentenza di assoluzione, con cui sia
stabilita l'insussistenza dell'elemento psicologico del dolo
o della colpa grave e che consenta di ritenere esclusa ogni
ipotesi di responsabilità del dipendente, non solo penale,
ma anche amministrativa e/o contabile [6].
L'esame della sentenza penale assolutoria è finalizzato
appunto a verificare se sussistano o meno tutte le
condizioni richieste dalla normativa per giustificare il
rimborso delle spese legali del dipendente assolto. E ciò
coerentemente con la ratio della normativa vigente
che vuole valorizzare la valutazione autonoma degli enti in
ordine alla sussistenza dei presupposti per poter assumere
l'onere delle spese legali, al di là di ogni automatismo
[7]. Così
argomentando, la Sezione friulana esprime l'avviso per cui,
in generale, non è da ritenersi ammessa la rimborsabilità ai
dipendenti delle spese di lite di procedimenti penali
conclusisi con formule diverse dall'assoluzione con formula
liberatoria, o comunque non idonee ad escludere la
ricorrenza di ipotesi di responsabilità per assenza di dolo
o colpa grave.
---------------
[1] Cass. civ., sez. lav., 19.11.2007, n. 23904. La
sentenza in commento richiama Cons. Stato, Comm. Spec.
06.05.1996, n. 4, e Sez. VI, 02.08.2004, n. 5367.
[2] TAR Emilia Romagna, 29.07.1998, n. 423.
[3] Cfr. Corte dei conti, sez. reg. contr., Emilia Romagna,
09.03.2009, n. 73, che condanna per danno erariale il
funzionario AUSL che aveva disposto il rimborso delle spese
legali in favore di medici prosciolti per remissione di
querela, ritenendo che non fosse stata raggiunta la positiva
prova dell'assenza del conflitto di interessi.
[4] Dello stesso tenore appaiono le riflessioni maturate in
passato dal Consiglio di Stato, in assenza di una
disposizione specifica regolante i rapporti patrimoniali tra
comune ed amministratori, con particolare riferimento al
rimborso delle spese legali. Ebbene, il Supremo Giudice
amministrativo ha affermato che il rimborso delle spese
legali postula l'accertamento dell'assenza di responsabilità
e ha escluso detto beneficio in favore di amministratori
coinvolti in un procedimento penale conclusosi con il loro
proscioglimento per essersi i reati ascritti estinti per
intervenuta oblazione. E ciò, sulla base del rilievo che il
proscioglimento con formula meramente processuale non
consente di appurare l'effettiva mancanza di colpa, né erano
emersi altri elementi, estranei al giudizio penale, a
dimostrare la mancanza di responsabilità (Consiglio di
Stato, sez. V, 14.04.2000, n. 2242).
E così anche la Corte
dei conti, in un giudizio promosso dal Procuratore generale,
sulla base dell'orientamento giurisprudenziale maturato a
fronte della suddetta lacuna normativa, ha ritenuto dannosa
la condotta degli organi comunali che avevano disposto il
rimborso delle spese legali sostenute dagli amministratori
locali prosciolti per intervenuta prescrizione del reato,
nonostante il Giudice penale dell'appello -invocato per
ottenere pronuncia di assoluzione-, avesse confermato la
dichiarazione dell'intervenuta prescrizione del Giudice di
primo grado, precisando di non poter dichiarare la mancanza
di responsabilità penale degli imputati (Corte dei conti,
sez. II appello, 16.02.2004, n. 49).
[5] Corte dei conti, sez. contr. reg. Friuli Venezia Giulia,
16.01.2014, n. 1.
[6] Corte dei conti Friuli Venezia Giulia n. 1/2014 cit.,
che richiama Corte dei conti, sez. giurisd. Abruzzo,
29.11.1999, n. 1122; conforme: Corte dei conti Lombardia
19.07.2010, n. 804.
[7] Corte dei conti Friuli Venezia Giulia n. 1/2014 cit.;
Corte dei conti Lombardia n. 804/2010 cit. (09.06.2017
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PATRIMONIO:
Cessione gratuita di immobile comunale.
La gestione del patrimonio pubblico è
improntata al principio di redditività, la cui deroga è
subordinata dalla giurisprudenza contabile più recente
all'assenza dello scopo di lucro in capo al soggetto
beneficiario, fermo l'obbligo di un'esaustiva motivazione in
considerazione dell'interesse pubblico perseguito, che
risulti equivalente o addirittura superiore rispetto a
quello che viene soddisfatto mediante lo sfruttamento
economico dei beni, secondo i principi giurisprudenziali già
consolidati.
La posizione della Corte dei conti assume toni ancor più
rigorosi con riferimento alla cessione gratuita di un
immobile, che si palesa in contrasto con l'interesse
primario alla conservazione e alla corretta gestione del
patrimonio pubblico. Nel contesto di questa posizione
restrittiva, solo in caso di mancato trasferimento di denaro
tra enti dello stesso ordinamento, la Corte dei conti ha
escluso la sussistenza di un illecito erariale.
In proposito, con riferimento al caso di specie, va detto
che il Comune è ente locale ricompreso tra le pp.aa. di cui
all'art. 1, c. 2, D.Lgs. n. 165/2001, mentre l'ATER è ente
pubblico economico assoggettato alla disciplina generale
delle persone giuridiche del libro V, titolo V, capo V, del
codice civile per quanto compatibile (art. 37, L.R. n.
1/2016).
Il Comune pone un quesito in merito alla possibilità di
cedere a titolo gratuito all'ATER un immobile comunale,
inserito nel piano delle valorizzazioni [1]
come immobile 'privo di valore' [2],
al fine della sua ristrutturazione e successiva costruzione
di alloggi popolari da concedere in locazione a canone
concordato.
Si premette che l'attività di consulenza di questo Servizio
consta nel fornire agli enti locali un supporto giuridico
generale sulle questioni poste, che possa essere utile come
cornice di legittimità della concreta attività
amministrativa, volta alla realizzazione dell'interesse
pubblico perseguito. Per cui, in questa sede, la questione
posta dall'Ente verrà trattata sotto il profilo generale
della legittima gestione del patrimonio pubblico, avuto
riguardo alle riflessioni elaborate dalla giurisprudenza sul
punto. Mentre, si precisa sin d'ora, per quanto concerne
l'aspetto dei rapporti tra Comune e ATER per la gestione
dell'immobile di cui si tratta, al fine della costruzione di
alloggi popolari da locare a canone concordato, e le
modalità attraverso cui un tanto possa avvenire, ulteriori
specifiche considerazioni potranno essere espresse, per
quanto di competenza, dalla Direzione centrale
infrastrutture e territorio, Area interventi a favore del
territorio, Servizio edilizia, in indirizzo.
L'atto di disposizione di un bene pubblico è improntato al
principio della gestione economica dei beni pubblici, in
modo da aumentarne la produttività in termini di entrate
finanziarie. L'obbligo della gestione economica del bene
pubblico rappresenta attuazione del principio costituzionale
di buon andamento (art. 97 Cost.) del quale l'economicità
della gestione amministrativa costituisce il più
significativo corollario (art. 1, L. n. 241/1990)
[3].
In ordine alla possibilità di derogare al principio della
redditività del patrimonio pubblico, la Corte dei conti si è
evoluta negli anni all'insegna del maggior rigore. E così,
la più recente giurisprudenza contabile -nel ribadire i
principi già consolidati, secondo cui le modalità di
gestione del patrimonio competono alla scelta autonoma
discrezionale dell'ente, che deve dare esaustiva motivazione
in ordine alle finalità di interesse pubblico perseguito
[4], che
risulti equivalente o addirittura superiore rispetto a
quello che viene perseguito mediante lo sfruttamento
economico dei beni [5]-
ha ritenuto necessaria l'assenza di fine di lucro in capo ai
soggetti possibili affidatari (in comodato) dei beni del
patrimonio locale, tanto per mitigare quanto per escludere
la redditività del patrimonio pubblico [6].
Queste considerazioni della Corte dei conti sulla deroga
alla redditività assumono un tono ancora più rigoroso con
specifico riferimento alla cessione gratuita dell'immobile.
Per la Corte dei conti, se lo scopo del patrimonio pubblico
è quello di produrre reddito, risulta evidente che una
cessione gratuita di un immobile non può considerarsi una
modalità tipica di valorizzazione del patrimonio in quanto
non solo non reca alcuna entrata all'ente, e dunque
costituisce un utilizzo non coerente con le finalità del
bene, ma addirittura può risultare fonte di depauperamento
-e dunque di danno- patrimoniale per l'ente, che è invece
tenuto ad improntare la gestione del proprio patrimonio a
criteri di economicità e di efficienza [7].
In particolare, per la Sezione Veneta 'non può negarsi
che un'eventuale scelta di dismissione a titolo gratuito
dovrebbe avvenire a seguito di un'attenta ponderazione
comparativa tra gli interessi pubblici in gioco, rimessa
esclusivamente alla sfera discrezionale dell'ente, in cui,
però, deve tenersi nella massima considerazione l'interesse
alla conservazione ed alla corretta gestione del patrimonio
pubblico, in ragione della tutela costituzionale di cui
questo gode (art. 119, comma 6 novellato), e della sempre
crescente attenzione postavi dal legislatore (tra cui,
appunto, l'art. 58 del D.L. n. 112/2008). L'interesse alla
conservazione e alla corretta gestione del patrimonio
pubblico è da considerarsi primario anche perché espressione
dei principi di buon andamento e di sana gestione, ed impone
all'ente di ricercare tutte le alternative possibili che
consentano un equo contemperamento degli interessi in gioco,
adottando la soluzione più idonea ed equilibrata, che
comporti il minor sacrificio possibile per gli interessi
compresenti' [8].
Ed ancora, per la Corte dei conti la perdita di un cespite
deve essere adeguatamente compensata da una partita di
carattere finanziario o con un''utilitas' di
carattere patrimoniale (in termini di uso, proprietà,
servizi). Tale utilitas, infatti, solo
eccezionalmente può trovare giustificazione in interessi di
carattere non patrimoniale, in base a precipue disposizioni
di legge che tipizzano l'interesse tra gli scopi
perseguibili dall'ente o che espressamente autorizzano
l'alienazione gratuita [9].
Nel contesto di questa posizione restrittiva, solo con
riferimento ad enti dello stesso ordinamento, specificamente
nel caso di mancato trasferimento di denaro nell'ambito di
enti facenti parte dello stesso settore, la Corte dei conti
ha escluso la sussistenza di un illecito erariale, giacché
prescindendo dall'indubbia differente personalità giuridica,
trattasi di una partita di giro nell'ambito di una finanza
sostanzialmente unitaria [10].
Ma in proposito e con riferimento al caso di specie va detto
che il Comune è ente locale ricompreso tra le
amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, c. 2, D.Lgs. n.
165/2001, mentre l'ATER è ente pubblico economico
assoggettato alla disciplina generale delle persone
giuridiche del libro V, titolo V, capo V, del codice civile
per quanto compatibile (art. 37, L.R. n. 1/2016).
Per completezza di esposizione, si osserva che la
giurisprudenza contabile, muovendo dal fatto che non è
rinvenibile alcuna disposizione che impedisca al comune di
effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, se necessarie
per raggiungere i fini che in base all'ordinamento deve
perseguire, ha affermato che l'attribuzione di beni, se
intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività
rientranti nelle finalità perseguite dal Comune, anche se
apparentemente a 'fondo perso', non può equivalere ad
un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione
dell'utilità che l'ente o la collettività ricevono dallo
svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico
effettuato dal soggetto che riceve il contributo
[11]. Si
tratta, tuttavia, di pronunce che non concernono
espressamente gli atti di gestione del patrimonio pubblico,
per i quali la Corte dei conti ha affermato gli specifici
principi sopra richiamati.
Un tanto esposto in generale, per la definizione più
opportuna dei rapporti tra Comune e ATER per la gestione
dell'immobile di cui si tratta, per le finalità indicate
della sua ristrutturazione e successiva costruzione di
alloggi popolari da concedere in locazione a canone
concordato, ci si rimette alle considerazioni che riterrà di
esprimere la Direzione centrale infrastrutture e territorio,
Area interventi a favore del territorio, Servizio edilizia,
ai sensi della L.R. n. 1/2016, per quanto di competenza in
materia.
---------------
[1] In tema di interventi di valorizzazione del
territorio, l'art. 58 del D.L. n. 112/2008, convertito in L.
n. 133/2008, ha imposto agli enti territoriali di redigere
annualmente un piano delle alienazioni e valorizzazioni
immobiliari, da allegare al bilancio di previsione, in cui
inserire i singoli beni immobili ricadenti nel territorio di
competenza, non ritenuti strumentali all'esercizio delle
proprie funzioni istituzionali, suscettibili di
valorizzazione ovvero di dismissione. L'inserimento degli
immobili nel piano ne determina la conseguente
classificazione come patrimonio disponibile, fatto salvo il
rispetto delle tutele di natura storico-artistica,
archeologica, architettonica e paesaggistico-ambientale.
[2] In tal modo si esprime l'Ente.
[3] Corte dei conti, sez. reg. contr. Veneto, deliberazione
02.10.2012, n. 716; Corte dei Conti, sez. reg. contr.
Puglia, deliberazione 14.11.2013, n. 170.
[4] V. Corte dei conti, sez. reg. contr., Lombardia,
deliberazioni 09.06.2011, n. 349 e 17.06.2010, n. 672.
[5] Corte dei conti Puglia, n. 170/2013, cit.; Corte dei
conti Veneto, n. 716/2012, cit..
[6] Corte dei conti Veneto, n. 716/2012, cit., richiamata
dalle Corti dei conti Puglia, deliberazione 12.12.2014, n.
216; Lombardia, deliberazione 06.05.2014, n. 216; Molise,
deliberazione 15.01.2015, n. 1.
[7] Corte dei Veneto, deliberazione 24.04.2009, n. 33 e n.
716/2012 cit.; conforme: Corte dei conti Puglia, n.
170/2013, cit..
[8] Corte dei conti Veneto n. 33/2009 cit. Le valutazioni
della Sezione veneta sono richiamate e condivise dalla Corte
dei conti Friuli Venezia Giulia, che, seppur in un caso non
sovrapponibile a quello in esame, per la differenza di
valore dell'immobile, ha ritenuto che 'la cessione
definitiva a titolo gratuito (donazione) non sia compatibile
con l'obbligo di valorizzazione contemplato dall'art. 58 del
D.L. 25.06.2008 n. 112' (Corte dei conti, sez. reg. contr.
Friuli Venezia Giulia, deliberazione 30.04.2014, n. 94).
[9] Corte dei conti, sez. reg. contr. Campania,
deliberazione 06.10.2014, n. 205.
[10] Corte dei conti, sez. giurisd., Sicilia, 02.07.2010, n.
1477; Corte dei conti, sez. giurisd. Trentino A. Adige,
16.03.2009, n. 18.
[11] Corte dei conti, sez. reg. contr., Lombardia,
29.05.2012, n. 262, con riferimento alla possibilità per un
comune di effettuare lavori di restauro di un bene immobile
non appartenente al patrimonio dell'ente locale, nello
specifico il campanile di una Chiesa, con entrate comunali;
Corte dei conti, sez. reg. contr., Piemonte, 12.02.2014, n.
36, con riferimento al diritto di superficie, su area
comunale, in favore di una locale associazione dedita alla
pubblica assistenza, senza fini di lucro (06.06.2017
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Diniego di aspettativa per l'espletamento della carica di
sindaco. Aspettativa non retribuita al sindaco. Articolo 81
TUEL.
Il lavoratore dipendente che sia stato
eletto sindaco ha diritto ad ottenere un'aspettativa non
retribuita, alla sola condizione che ne faccia domanda,
sicché non rientra nella discrezionalità del datore di
lavoro stabilire se il lavoratore possa o meno continuare a
rendere la prestazione durante l'adempimento dell'incarico
elettivo.
Quanto all'aspetto della durata dell'aspettativa si osserva
che l'indicazione relativa alla concessione della stessa
'per tutta la durata del mandato', contenuta all'articolo 81
TUEL, costituisce il limite massimo di cui l'amministratore
locale può usufruire ma non assume anche il significato di
unità temporale minima.
Di qui la possibilità da parte dello stesso di richiedere di
fruire dell'aspettativa per uno o più periodi inferiori alla
durata del mandato, entro il termine di conclusione dello
stesso.
Il Comune chiede un parere in materia di aspettativa
spettante al sindaco. In particolare, riferisce che il primo
cittadino, lavoratore dipendente presso un'azienda privata,
ha fatto richiesta di usufruire di un'aspettativa non
retribuita di un mese. A fronte dell'avvenuto diniego della
stessa da parte del datore di lavoro, chiede se un tale
comportamento sia legittimo e, in subordine, se possa
avanzare richiesta di aspettativa relativamente a tutto il
mandato residuo che lo stesso deve ancora svolgere.
Premesso che non compete a questo Ufficio esprimersi sulla
legittimità degli atti emessi dagli enti locali e, a maggior
ragione, di quelli espressi da altri soggetti giuridici, di
seguito si forniscono una serie di considerazioni giuridiche
generali sull'istituto dell'aspettativa spettante a
determinate categorie di amministratori locali.
L'articolo 81 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
recita: 'I sindaci, i presidenti delle province, i
presidenti dei consigli comunali e provinciali, i presidenti
dei consigli circoscrizionali dei comuni di cui all'
articolo 22, comma 1, i presidenti delle comunità montane e
delle unioni di comuni, nonché i membri delle giunte di
comuni e province che siano lavoratori dipendenti possono
essere collocati a richiesta in aspettativa non retribuita
per tutto il periodo di espletamento del mandato. Il periodo
di aspettativa è considerato come servizio effettivamente
prestato, nonché come legittimo impedimento per il
compimento del periodo di prova. I consiglieri di cui all'
articolo 77, comma 2, se a domanda collocati in aspettativa
non retribuita per il periodo di espletamento del mandato,
assumono a proprio carico l'intero pagamento degli oneri
previdenziali, assistenziali e di ogni altra natura previsti
dall'articolo 86.'.
Tale articolo deve essere letto in combinazione con
l'articolo 31 della legge 20.05.1970, n. 300 (Norme sulla
tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà
sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e
norme sul collocamento) il quale, al primo comma, recita: 'I
lavoratori che siano eletti membri del Parlamento nazionale
o del Parlamento europeo o di assemblee regionali ovvero
siano chiamati ad altre funzioni pubbliche elettive possono,
a richiesta, essere collocati in aspettativa non retribuita,
per tutta la durata del loro mandato'.
[1]
Le due norme citate costituiscono attuazione dell'articolo
51, terzo comma, della Costituzione il quale prevede che 'chi
è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di
disporre del tempo necessario al loro adempimento e di
conservare il suo posto di lavoro'.
Circa la natura giuridica di tale istituto la dottrina ha
chiarito che: 'La disposizione non prevede un obbligo per
il lavoratore di sospendere la prestazione lavorativa quando
versi in una delle situazioni suddette, né pone un divieto
per il datore di lavoro di adibire il proprio dipendente
allo svolgimento dell'attività, piuttosto riconosce in capo
al prestatore un diritto potestativo a sospendere
l'obbligazione lavorativa per il tempo del mandato e a veder
conservato il proprio posto di lavoro [...], perciò creando
una «situazione di inesigibilità della prestazione»
lavorativa [...], fondata sul riconoscimento della
prevalenza del diritto a svolgere il mandato elettorale
sull'interesse del datore a ricevere la prestazione'.
[2]
Anche la giurisprudenza, intervenuta sull'argomento ha
affermato che: 'Il lavoratore dipendente che sia stato
eletto ad una carica elettiva ha diritto ad ottenere
un'aspettativa non retribuita, alla sola condizione che ne
faccia domanda, sicché non rientra nella discrezionalità del
datore di lavoro stabilire se il lavoratore possa o meno
continuare a rendere la prestazione durante l'adempimento
dell'incarico elettivo'. [3]
Interessante anche la pronuncia della Cassazione civile del
05.10.2006, n. 21396 la quale recita: 'Il combinato
disposto degli artt. 1 e 2 della Legge 27.12.1985, n. 816
("Aspettative, permessi e indennità degli amministratori
locali") [4]
conferisce al lavoratore dipendente che sia stato eletto
alla carica, fra l'altro, di sindaco, un diritto ad ottenere
un'aspettativa non retribuita, alla sola condizione che ne
faccia domanda, secondo un principio già affermato
dall'articolo 31 della Legge 300/1970, al fine di rendere
compatibile, per i lavoratori chiamati a funzioni pubbliche
elettive, l'espletamento di tali funzioni con la condizione
di prestatore di lavoro subordinato. Esso costituisce una
coerente applicazione del principio di cui all'articolo 51,
comma 3, Costituzione secondo cui chi è chiamato a funzioni
pubbliche elettive ha il diritto di disporre del tempo
necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto
di lavoro'.
Quanto all'aspetto della durata dell'aspettativa si osserva
che l'indicazione relativa alla concessione della stessa 'per
tutta la durata del mandato', contenuta all'articolo 81
TUEL, costituisce il limite massimo di cui l'amministratore
locale può usufruire ma non assume anche il significato di
unità temporale minima. Di qui la possibilità da parte dello
stesso di richiedere di fruire dell'aspettativa per uno o
più periodi inferiori alla durata del mandato, entro il
termine di conclusione dello stesso.
Si veda, al riguardo, la sentenza della Cassazione civile
[5] la
quale recita: 'Il collocamento in aspettativa, previsto
dall'art. 31, l. 20.05.1970, n. 300, in favore dei
lavoratori chiamati a ricoprire funzioni pubbliche o cariche
sindacali provinciali e nazionali, non consiste
necessariamente in un unico periodo, senza soluzione di
continuità, coincidente con la durata del mandato (o
compreso in essa), ma può essere frazionato in distinti
periodi, di maggiore o minore durata, nel corso
dell'espletamento del mandato stesso, atteso che l'art. 31
cit. non pone alcuna limitazione di carattere temporale'.
Atteso quanto sopra, si ritiene che il lavoratore
dipendente, che sia altresì sindaco, abbia titolo per
inoltrare al proprio datore di lavoro una richiesta di
aspettativa per tutto il periodo che residua di svolgimento
del proprio mandato elettivo.
---------------
[1] Il secondo comma dispone, poi, che: 'La medesima
disposizione si applica ai lavoratori chiamati a ricoprire
cariche sindacali provinciali e nazionali'.
[2] M.L. Vallauri, 'Aspettativa del lavoratore', in Diritto
on-line, 2015.
[3] Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza del 29.10.2014,
n. 23013. Nello stesso senso si vedano, anche, le pronunce
del Tribunale di Milano del 28.04.2006 e della Cassazione
civile, del 07.02.1985, n. 953 le quali riconoscono
all'aspettativa spettante al lavoratore chiamato a svolgere
mansioni sindacali, 'natura di diritto potestativo cui
corrisponde una situazione di soggezione del datore di
lavoro.' Si rileva che la situazione del lavoratore chiamato
a ricoprire cariche sindacali è equiparabile, ai fini che
qui rilevano, a quella del lavoratore che svolge funzioni
pubbliche elettive, stante la previsione di cui all'articolo
31, primo e secondo comma, dello Statuto dei lavoratori.
[4] Tali articoli sono stati abrogati dall'articolo 274 del
D.Lgs. 267/2000. Si vedano, ora, i corrispondenti articoli
da 77 a 96 del T.U.E.L..
[5] Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza
dell'01.12.1986, n. 7097. Nello stesso senso si veda Corte
dei Conti, sez. controllo, sentenza del 15.12.1988, n. 2045
(01.06.2017 -
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CORTE DEI CONTI |
ENTI
LOCALI:
Trasporto scolastico gratis solo in via eccezionale e
nell’interesse pubblico.
L'erogazione gratuita di un servizio pubblico da parte
dell'ente locale è possibile in via eccezionale, ma deve
essere giustificata da una situazione concreta debitamente
motivata e sostenuta da adeguata copertura finanziaria.
La Sezione ritiene
che il servizio di trasporto scolastico sia pleno iure un
servizio pubblico di trasporto escluso dalla disciplina
normativa dei servizi pubblici a domanda individuale.
Cionondimeno, gli enti dovranno motivare, a pena di
illegittimità, l’eventuale gratuità del servizio che
costituisce una eccezione alla naturale commutatività dei
contratti con la pubblica amministrazione, tanto più se il
servizio assume carattere generalizzato; gli enti saranno
tenuti, in sede di copertura, alla stretta osservanza delle
disposizioni dell’art. 117 TUEL, in particolare il principio
dell’equilibrio ex ante tra costi e risorse a copertura,
principio che riguarda indistintamente tutti i servizi
pubblici erogati dall’ente locale, a prescindere dalla forma
contrattuale di affidamento del servizio.
---------------
Il Sindaco del Comune di Sessa Aurunca (CE) ha
posto alla Sezione un parere in materia di finanziamento dei
servizi pubblici a domanda individuale. Segnatamente
chiede se il servizio di trasporto scolastico possa essere
erogato in modo gratuito a tutti gli utenti che ne facciano
richiesta.
...
1. La definizione di servizio pubblico a domanda
individuale, oltre ad essere un concetto di economia della
finanza pubblica, è codificato in via normativa dal decreto
interministeriale 31.12.1983, emanato ai sensi dell’art. 6,
comma 3, del D.L. n. 55/1983, conv. L. n. 131/1983.
La disposizione primaria citata autorizzava il Ministro
dell'interno, di concerto con i Ministri del tesoro e delle
finanze, ad emanare entro il 31.12.1983 un decreto che
individuasse “esattamente” la categoria dei servizi
pubblici a domanda individuale.
Cosicché, il decreto, oltre a individuare espressamente un
elenco di tali servizi, contiene una definizione stipulativa
generale, considerando come tali «tutte quelle attività
gestite direttamente dall'ente, che siano poste in essere
non per obbligo istituzionale, che vengono utilizzate a
richiesta dell'utente e che non siano state dichiarate
gratuite per legge nazionale o regionale».
L’elenco, peraltro, non ricomprende espressamente il
servizio di trasporto scolastico, mentre, in materia di
istruzione, prevede i servizi di asilo nido e corsi
extrascolastici che non siano previsti come obbligatori
dalla legge (nn. 3 e 6).
2. Tanto premesso sul piano definitorio, in termini di
programmazione della spesa, la copertura dei servizi a
domanda individuale costituisce una delle fasi fondamentali
della predisposizione del bilancio e del rispetto degli
equilibri ai sensi degli artt. 81 Cost. e 9 L. n. 243/2012.
In primo luogo, in generale e per tutti servizi
pubblici, anche non definibili “a domanda individuale”,
l’art. 117 TUEL stabilisce che «1. Gli enti interessati
approvano le tariffe dei servizi pubblici in misura tale da
assicurare l'equilibrio economico-finanziario
dell'investimento e della connessa gestione. I criteri per
il calcolo della tariffa relativa ai servizi stessi sono i
seguenti:
a) la corrispondenza tra costi e ricavi in modo da assicurare la
integrale copertura dei costi, ivi compresi gli oneri di
ammortamento tecnico-finanziario;
b) l'equilibrato rapporto tra i finanziamenti raccolti ed il
capitale investito;
c) l'entità dei costi di gestione delle opere, tenendo conto anche
degli investimenti e della qualità del servizio;
d) l'adeguatezza della remunerazione del capitale investito,
coerente con le prevalenti condizioni di mercato.
2. La tariffa costituisce il corrispettivo dei servizi
pubblici; essa è determinata e adeguata ogni anno dai
soggetti proprietari, attraverso contratti di programma di
durata poliennale, nel rispetto del disciplinare e dello
statuto conseguenti ai modelli organizzativi prescelti.
3. Qualora i servizi siano gestiti da soggetti diversi
dall'ente pubblico per effetto di particolari convenzioni e
concessioni dell'ente o per effetto del modello
organizzativo di società mista, la tariffa è riscossa dal
soggetto che gestisce i servizi pubblici».
In secondo luogo, per quanto riguarda invece lo
specifico caso dei servizi pubblici “a domanda
individuale”, l’ancora vigente D.L. n. 55/1983, conv.
dalla legge 26.04.1983 n. 131, all'art. 6 stabilisce che: «1.
Le province, i comuni, i loro consorzi e le comunità montane
sono tenuti a definire, non oltre la data della
deliberazione del bilancio, la misura percentuale dei costi
complessivi di tutti i servizi pubblici a domanda
individuale […] che viene finanziata da tariffe o
contribuzioni ed entrate specificamente destinate. 2. Con lo
stesso atto vengono determinate le tariffe e le
contribuzioni».
Pertanto, fermo restando che l’erogazione del servizio
pubblico deve avvenire in equilibrio ai sensi dell’art. 117
TUEL (e che ciò presuppone una efficace rappresentazione dei
costi e una copertura nel rispetto dei criteri generali di
cui alla norma del Testo unico degli enti locali),
l’erogazione dello stesso non può essere gratuita per gli
utenti e la sua copertura deve avvenire, in parte, mediante
i corrispettivi versati dai richiedenti il servizio (cfr.
SRC Sicilia n. 115/2015/PAR, SRC Molise n. 80/2011, SRC
Campania n. 7/2010/PAR).
3. Ciò è stabilito espressamente da norme puntuali ancora
più risalenti.
Segnatamente, il legislatore evidenzia espressamente che «Per
i servizi pubblici a domanda individuale, le province, i
comuni, i loro consorzi e le comunità montane sono tenuti a
richiedere la contribuzione degli utenti, anche a carattere
non generalizzato» (art 3 D.L. n. 786/1981, conv. L. n.
51/1982).
Lo stesso articolo da ultimo citato si cura anche di
precisare la misura minima di tale contributo diretto da
parte degli utenti, segnatamente «Per i servizi già
erogati a titolo gratuito e per quelli di nuova istituzione,
i proventi relativi, da prevedere nel bilancio, nel loro
rispettivo complesso, debbono essere non inferiori al venti
per cento delle entrate della categoria prima del titolo
terzo - entrate extra tributarie - del bilancio, escluse
quelle derivanti dai servizi di carattere produttivo»
(enfasi aggiunta).
Per i servizi individuali già esistenti alla data del
decreto e per cui era prevista già una contribuzione, la
legge prevedeva l’incremento del contributo diretto “di
una aliquota non inferiore al venti per cento”.
La quota di finanziamento derivante da contributo diretto
minimo così complessivamente determinato, in caso di enti in
stato di conclamata “crisi”, si innalza a 36% del
costo complessivo del servizio (50% nel caso di servizi di
asilo nido, cfr. art. 243, comma 2, lett. a; art. 243-bis,
comma 8, lett. b; art. 251, comma 5 TUEL).
4. La ratio di tale disciplina è di tutta evidenza ed
è in linea con principi fondamentali della contabilità
pubblica. Si tratta di servizi che non costituiscono un “obbligo
istituzionale”, pertanto, nel rispetto dell’art. 3 R.D.
2440/1923, il contratto con l’utenza deve caratterizzarsi
per la bilateralità del sacrifico economico: a fronte di una
prestazione resa o ricevuta, il contratto, secondo una nota
bipartizione, può essere finanziariamente “attivo” o
“passivo” e deve quindi inserirsi in una logica
commutativa.
Non sembrano in linea generale trovare posto, in tale summa
divisio, contratti liberali o a titolo gratuito sganciati da
qualsiasi logica commutativa e che non rispondano,
patrimonialmente, ad un interesse pubblico, se non nei casi
previsti dalla legge (cfr. SRC Campania n. 205/2014/PAR).
L’erogazione gratuita di un servizio costituisce dunque una
extrema ratio che deve essere giustificata da una
situazione concreta che supera la stessa qualificazione
astratta del servizio quale “servizio pubblico a domanda
individuale”, in quanto tale erogazione è resa di fatto
“obbligatoria” in relazione ai compiti istituzionali
dell’ente (art. 112 TUEL).
5. Ed infatti costituisce eccezione “legislativa”
(art. 6, comma 7, del D.L. n. 55/1983) al concetto
normativamente determinato di “servizio pubblico a
domanda individuale” (D.M. 31.12.1983) il novero dei
servizi elencati all'art. 3 del D.L. n. 786/1981, vale a
dire, oltre ai già citati servizi gratuiti per legge statale
o regionale, quelli finalizzati all'inserimento sociale dei
portatori di handicaps nonché quelli per i quali le
vigenti norme prevedono la corresponsione di tasse, diritti
o di prezzi amministrati, nonché –fattispecie rilevante per
il caso oggetto della presente pronuncia consultiva– i
servizi di trasporto pubblico.
Ai sensi dell’articolo 1, comma 2, del D.lgs. n. 422/1997 «Sono
servizi pubblici di trasporto regionale e locale i servizi
di trasporto di persone e merci, che non rientrano tra
quelli di interesse nazionale tassativamente individuati
dall'articolo 3; essi comprendono l'insieme dei sistemi di
mobilità terrestri, marittimi, lagunari, lacuali, fluviali e
aerei che operano in modo continuativo o periodico con
itinerari, orari, frequenze e tariffe prestabilite, ad
accesso generalizzato, nell'ambito di un territorio di
dimensione normalmente regionale o infraregionale».
Per quanto concerne la Regione Campania, l’art. 3 della
Legge Regionale 28.03.2002, n. 3, a complemento del quadro
normativo statale, precisa che «il sistema dei servizi di
trasporto pubblico regionale e locale attiene all'insieme
delle reti e dei servizi di trasporto pubblico non riservati
alla competenza statale», il quale si articola in
servizi di linea (cioè secondo orari ed itinerari
prestabiliti) e non di linea.
I servizi “non di linea” provvedono al trasporto
collettivo o individuale di persone svolgendo una funzione
complementare e integrativa dei trasporti pubblici di linea,
ai sensi della legge 15.01.1992, n. 21 (art. 3, comma 3,
lett. b, L.R. n. 3/2002).
In merito al servizio di trasporto
scolastico, la giurisprudenza, pur rilevando che la
prestazione dello stesso si caratterizza per essere
riservato a categorie specifiche di utenti, ne ha confermato
il carattere di servizio pubblico locale e “non di linea”
(Consiglio di Stato, Sez. VI, 22.11.2004 n. 7636)
e ha sottolineato che lo stesso non è tra l’altro
incompatibile con lo svolgimento di servizi di linea
(TAR Campania-Napoli – Sez. I, 26.02.2010 n. 1191).
In proposito, «Ai sensi del decreto legislativo
22.09.1998, n. 345, e della legge 15.01.1992, n. 21, i
Comuni esercitano tutte le funzioni amministrative relative
ai servizi di trasporto pubblico non di linea di persone»
(art. 4 L.R. n. 3/2002).
Si deve pertanto ritenere che il servizio
di trasporto scolastico sia pleno iure un servizio
pubblico di trasporto, pertanto escluso dalla disciplina
normativa dei servizi pubblici a domanda individuale.
Cionondimeno, nell’erogazione del servizio,
gli enti:
- dovranno motivare, a pena di illegittimità, l’eventuale gratuità
del servizio in funzione di un interesse pubblico, tanto più
se il servizio assume carattere generalizzato;
- saranno tenuti, in sede di copertura, alla stretta osservanza
delle disposizioni dell’art. 117 TUEL, in particolare il
principio dell’equilibrio ex ante tra costi e risorse
a copertura, principio che riguarda indistintamente tutti i
servizi pubblici erogati dall’ente locale, a prescindere
dalla forma contrattuale di affidamento del servizio
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.05.2012 n. 2537)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Campania,
parere 21.06.2017 n. 222). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: L’adozione
di un Regolamento è fondamentale al fine di determinare la
percentuale effettiva (inferiore o uguale al 2% dell’importo
posto a base di gara) da destinare al fondo.
Considerato che la determinazione dell’aliquota effettiva da
destinare al fondo, secondo la complessità e l’entità
dell’opera, esprime la potestà normativa propria ed
esclusiva dell’ente, è da escludersi che il regolamento
possa avere efficacia retroattiva.
Diversamente, i criteri di assegnazione e di riparto del
fondo devono essere determinati in sede decentrata con
contrattazione integrativa per essere, poi, recepiti dal
Regolamento.
In definitiva, la disciplina che quantifica l’incentivo da
pagare ha, e conserva, natura sostanzialmente contrattuale.
Di conseguenza, l’accordo integrativo decentrato, regolante
i diritti patrimoniali dei lavoratori e recepito nel
regolamento, può disciplinare anche la ripartizione delle
risorse già accantonate tra gli aventi diritto, per le
attività da loro espletate prima della sua approvazione (ciò
non lede il principio della irretroattività del Regolamento,
inteso come fonte normativa).
---------------
1. Se sia possibile individuare le modalità e i criteri di
riparto mediante adeguamento e modifica del regolamento a
suo tempo adottato ai sensi della legge n. 109/1994, la risposta non può essere univoca.
Se il Regolamento, a suo tempo adottato ai sensi della legge
n. 109/1994, non aveva recepito alcun accordo integrativo
decentrato, oggi non appare strumento utilizzabile alla luce
di quanto sopra argomentato. L'atto normativa finalizzato a
disciplinare il trattamento economico del personale alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni, infatti,
violerebbe la prescrizione di cui all'art. 2, comma 3, del
TUIP. Peraltro, non ricorrerebbe neppure la condizione di
supplenza, per l'accordo non sottoscritto, eccezionalmente e
provvisoriamente ammesso dall'art. 40, comma 3-ter, del TUIP.
Se, poi, si intende modificare detto regolamento
uniformandolo alle nuove prescrizioni, è chiaro che si
tratterebbe di un nuovo regolamento.
2. Al quesito se il regolamento possa
considerarsi quale condizione sospensiva del diritto a
percepire l'incentivo maturato in capo agli aventi diritto,
deve darsi risposta negativa.
L'approvazione del regolamento non potrebbe,
infatti,
essere
valida condizione sospensiva perché meramente potestativa e,
come tale, nulla ai sensi dell'art. 1355 c.c., dovendo
invece considerarsi elemento che concorre al formarsi della
fattispecie complessa che dà luogo alla determinazione e
liquidazione dell'incentivo stesso.
Pertanto dalla sua
approvazione non può
discendere quell’effetto retroattivo che
l’art. 1360 c.c. riconduce all’avveramento della condizione.
In altre parole, la mera approvazione del Regolamento che
recepisca i criteri di riparto dell’incentivo, di per sé,
non fornisce argomenti per sostenerne l’applicazione
retroattiva, in quanto è al contenuto dell’accordo
integrativo decentrato che occorre porre riguardo, nei
termini appresso riportati.
3. Quanto al quesito se sia possibile
ripartire tra gli aventi diritto le risorse rivenienti dal
fondo costituito, prima, ai sensi del citato art. 93, D.Lgs.
n. 163/2006 e, poi, dall'art. 113, D.Lgs. n. 50/2016, la
risposta è che
non è precluso all'accordo integrativo decentrato, regolante
diritti patrimoniali dei lavoratori e recepito nel
Regolamento, di disciplinare anche la ripartizione delle
risorse già accantonate tra gli aventi diritto, per le
attività da loro espletate prima dell'accordo, purché in
conformità agli altri presupposti di legge.
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Il Sindaco del Comune di Matera espone che
nel periodo di vigenza del D.Lgs. n. 163/2006 (abrogato dal D.Lgs. n. 50/2016, in vigore dal 18.04.2016),
non era stato
adottato il Regolamento previsto dall'art. 93, comma 7-bis,
che era previsto come condizione per ripartire il fondo per
la progettazione e l'innovazione tra gli aventi diritto,
mentre era stato approvato, con delibera di Giunta n.
19/2002, il regolamento ex art. 18, L. n. 109/1994.
Non di meno, nei quadri economici delle opere nel frattempo
approvate, erano state previste le risorse (2%) da destinare
all'alimentazione del predetto fondo, somme poi confluite
nel Fondo Pluriennale Vincolato (F.P.V.).
Atteso che ad oggi l'Ente non ha ancora adottato neppure il
Regolamento prescritto dall'art. 113, comma 3, D.Lgs. n.
50/2016, l'istante chiede un chiarimento interpretativo sui
seguenti punti:
1) se sia possibile ripartire, tra gli aventi diritto, le
risorse accantonate nel F.P.V., e non impegnate, rivenienti
dal fondo per la progettazione
e l’innovazione, costituito ai sensi del citato art. 93,
D.Lgs. n. 163/2006, nel rispetto dei limiti percentuali
previsti da detta disposizione;
2) se sia possibile individuare le modalità e
i criteri di riparto mediante adeguamento e modifica del
regolamento a suo tempo adottato ai sensi
della legge n. 109/1994
considerando il regolamento quale condizione sospensiva del
diritto a percepire l'incentivo maturato in capo agli aventi
diritto, il cui avveramento (l'adozione del Regolamento)
avrebbe efficacia retroattiva ex art. 1360 c.c.;
3) se, analogamente, si possa procedere per
ripartire anche gli incentivi per funzioni tecniche,
previste dall'art. 113, D.Lgs. n. 50/2016, adottando un
ulteriore adeguamento del previgente regolamento.
3.1. Prima di passare all'esame del quesito,
è prioritario anteporre un breve richiamo alle norme che
compongono il quadro normativa di riferimento.
3.2. La materia degli incentivi alla progettazione interna
delle opere pubbliche è attualmente disciplinata dall'art.
113 del "Codice degli appalti pubblici" (D.Lgs. n.
50/2016), che ha solo in parte innovato a quanto era stato
previsto dall'art. 93, D.Lgs. n. 163/2006, destinando il
fondo alla remunerazione, ora, di "funzioni tecniche",
ma con modalità giuscontabili sostanzialmente analoghe a
quelle vigenti in costanza del citato art. 93.
In un precedente parere (parere
12.02.2015 n. 3), questa Sezione
aveva già ricostruito l'evoluzione del quadro normativa nel
tempo, e ad esso si rimanda per completezza e brevità. Qui è
sufficiente osservare che le disposizioni che interessano
(nell'ultima versione modificata dal D.L. n. 90/2014),
prevedevano:
i) che, a valere sugli stanziamenti previsti per la
realizzazione dei singoli lavori, le amministrazioni
pubbliche destinassero ad un fondo per la progettazione e
l'innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al
2% degli importi posti a base di gara e che la percentuale
effettiva fosse stabilita da un regolamento adottato
dall'amministrazione, in rapporto all'entità e alla
complessità dell'opera da realizzare (comma 7-bis);
ii) che solo l'80 per cento delle risorse finanziarie
affluite nel fondo per la progettazione e l'innovazione
fosse ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le
modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione
decentrata integrativa del personale;
iii) che detti criteri venissero adottati con il
regolamento di cui prima, essere oggetto di contrattazione
decentrata integrativa, per poi recepite nel "Regolamento"
con cui il comune avrebbe dovuto anche stabilire la
percentuale effettiva (inferiore o uguale al 2% dell'importo
posto a base di gara) da destinare al fondo.
In sostanza, la norma prevedeva -e analogamente prevede
l'art. 113, comma 3, del Codice degli appalti pubblici- di
demandare alla fonte contrattuale (contratto decentrato
integrativo), da recepire in un Regolamento, la definizione
dei criteri di riparto dell'80% del fondo. Lo stesso
regolamento avrebbe dovuto indicare anche l'aliquota "effettiva"
(2% dello stanziamento posto a base di gara) da imputare
al fondo.
4. In diritto
4.1. L'interesse che muove il comune istante a richiedere un
parere a questa Sezione di controllo è quello di
sapere se
sia possibile o meno ripartire le risorse accantonate negli
anni passati nel fondo per la progettazione e l'innovazione
(ex art. 93, D.Lgs. n. 163/2006) nonostante non sia ancora
stato adottato il Regolamento disciplinante i criteri di
riparto del fondo, ai sensi del citato art. 93 e dell'art.
113, D.Lgs. n. 50/2016 (in appresso "Codice degli appalti
pubblici").
4.2. Come già affermato da questa Sezione nel citato
parere 12.02.2015 n. 3, le disposizioni innanzi riportate sono
da considerare parte di un corpo normativo più ampio, che
comprende anche norme in materia di disciplina dei rapporti
di lavoro, oltre alle norme sulla programmazione e sulla
esecuzione delle opere e dei lavori pubblici, sul
reperimento delle relative risorse finanziarie, sulla
predisposizione degli strumenti di bilancio e sui principi
contabili che presiedono alla sua gestione.
Anche in questa
sede, quindi, l'approccio al quesito posto dall'Ente non
potrebbe prescindere dal raccordare la disciplina
finanziaria e contabile con quella programmatoria e
gestionale del personale.
4.3. Ciò posto, la questione di fondo, di cui qui si
discute, coinvolge anche, se non prima di tutto, diritti
patrimoniali dei lavoratori. A questo proposito mette conto
ricordare che l'art. 2, comma 3, del D.Lgs. n. 165/2001 (TUIP),
ha stabilito che "( ... ) L'attribuzione di trattamenti
economici può avvenire esclusivamente mediante contratti
collettivi e salvo i casi previsti dai commi 3-ter e
3-quater dell'articolo 40 ( ... )". L'art. 45 del citato
decreto legislativo, al comma 1, ribadisce che "Il
trattamento economico fondamentale ed accessorio fatto salvo
quanto previsto all'articolo 40, commi 3-ter e 3-quater, (
... ) è definito dai contratti collettivi".
In altre parole,
al di fuori della contrattazione non vi è
spazio per altre fonti di disciplina del trattamento
economico, anche del personale degli EE.LL.
(ex comma
3-quinquies dell'art. 40 del citato TUIP),
fatta eccezione
nella circostanza prevista dal comma 3-ter: "Al fine di
assicurare la continuità e il migliore svolgimento della
funzione pubblica, qualora non si raggiunga l'accordo per la
stipulazione di un contratto collettivo integrativo,
l'amministrazione interessata può provvedere, in via
provvisoria, sulle materie oggetto del mancato accordo, fino
alla successiva sottoscrizione. Agli atti adottati
unilateralmente si applicano le procedure di controllo di
compatibilità economico-finanziaria previste dall'articolo
40-bis".
Sul piano formale, il citato art. 2, comma 3, del TUIP, ha
prescritto che "Le disposizioni di legge, regolamenti o atti
amministrativi che attribuiscono incrementi retributivi non
previsti da contratti cessano di avere efficacia a far data
dall'entrata in vigore dal relativo rinnovo contrattuale",
mentre il comma 4 dell'art. 40, citato, conclude nel senso
che "Le pubbliche amministrazioni adempiono agli obblighi
assunti con i contratti collettivi nazionali o integrativi
dalla data della sottoscrizione definitiva e ne assicurano
l'osservanza nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti".
Con specifico riguardo alla materia degli incentivi per la
progettazione, è appena il caso ricordare che l'affidamento
al personale interno di uno degli incarichi previsti dalla
norma, non determina per costoro, in aggiunta alla normale
retribuzione, il diritto al corrispettivo per l'attività
professionale prestata, come spetterebbe al libero
professionista (esterno) per il medesimo incarico, ma
soltanto il diritto a percepire, a titolo di incentivo, una
somma da determinarsi in sede di riparto del fondo (in
questo senso si era già espressa, vigendo la legge n.
109/1994, l'Autorità di Vigilanza LL.PP. con l'Atto di
Regolazione 04.11.1999 n. 6, in G.U. 10.05.2000: "La circostanza che le prestazioni relative alla
progettazione attengono ad un'attività umana
prettamente intellettiva e di contenuto corrispondente a
quello proprio di una professione liberale, individualmente
esercitata, non (è) idonea a far ritenere che, nel nostro
ordinamento, i tecnici appartenenti ad ufficio pubblico
svolgano un’attività di libera professione in quanto
autori delle medesime elaborazioni intellettive proprie
delle professioni liberali. Quel che, invece, è vero, è che l'attività di progettazione svolta da
funzionari pubblici è attività professionalmente
qualificata, ma non di libera professione. ( ... ) Deriva da
tali premesse la conseguenza che, nel caso della
progettazione interna, come in precedenza individuata, la
relativa prestazione dei dipendenti, addetti ai competenti
uffici, per essere riferita direttamente alla
amministrazione di appartenenza, è da considerare svolta "ratione
offici" e non "intuitu personae" e si risolve "in
una modalità di svolgimento del rapporto di pubblico impiego"
(Cass. Civ. Sez. Un. 02.04.1998, n. 3386), nell'ambito della
cui disciplina normativa e sulla base della contrattazione
collettiva ed individuale vanno pertanto individuati i
termini della relativa retribuzione").
4.4. È chiaro, a questo punto, che la questione di quando
sorge il diritto al compenso e di quali sono i presupposti
perché tale diritto sorga, ha un suo peso nell'iter logico
nello svolgimento del quesito posto, sebbene non sia la
questione centrale su cui si incentra la richiesta del
Comune. È già stato detto nel precedente
parere 12.02.2015 n. 3
-e non si ravvedono motivi per discostarsene- che
il compimento dell'attività è requisito necessario ma non
sufficiente affinché maturi il diritto all'incentivo.
Occorre, anche, che il progetto sia stato formalmente
approvato e posto a base di gara. Se così non fosse l'Ente
si troverebbe a dover impegnare risorse ordinarie del
proprio bilancio per fronteggiare oneri che, invece, la
norma intende porre soltanto a carico degli stanziamenti
complessivi previsti per la realizzazione dell'opera o del
lavoro
(cfr. in tal senso, il c. 5 dell'art. 92, il comma 7-bis
dell'art. 93 del D.Lgs. n. 163/2006 e, ora, l'art. 113
del "Codice degli appalti pubblici").
Occorre, anche, che sia stato costituito il fondo,
destinando ad esso il 2% dell'importo di gara, ovvero la
minore aliquota stabilita con Regolamento, in relazione
all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare.
Affinché il fondo possa essere ripartito tra gli aventi
diritto, occorre, infine, che sia stato approvato il
Regolamento nel quale far confluire l'accordo decentrato
integrativo in ordine ai criteri di riparto del fondo
medesimo.
Ora, di tutte le possibili soluzioni (il cui scrutinio esula
dal thema
decidendum), maggiori profili di perplessità presenterebbe
quella che rinvenisse nel (previo) Regolamento la condizione
al cui verificarsi subordinare l’esigibilità della pretesa
economica maturata, se per regolamento si intende
l’espressione di un potere normativo autonomo dell’ente
locale.
Si potrebbe, in altre parole, pensare che in assenza di
Regolamento il diritto al compenso incentivante non potrebbe
essere pagato e, forse, neppure potrebbe sorgere tra gli
aventi diritto.
Come già rilevato nel precedente
parere 12.02.2015 n. 3, la giurisprudenza della Cassazione, con riferimento
a una vicenda sorta nel periodo in cui la norma da
applicarsi prevedeva l'emanazione di un previo Regolamento
che non era di recepimento di accordi contrattuali (art. 18,
L. n. 109/1994, come modificato dall'art. 6, comma 13, L. n.
127/1997), aveva escluso che l'emanazione del Regolamento
potesse configurarsi "come condizione di esistenza del
diritto, poiché una siffatta condizione null'altro sarebbe
che una condizione meramente potestativa, da ritenersi
invalida a norma dell'art. 1355 c.c." (Cass. Sez. Lavoro
sentenza 19.07.2004 n. 13384). Ciò in quanto, se l'adozione o meno del
Regolamento fosse rimessa alla piena potestà normativa
dell'Ente, ciò significherebbe rimettere alla esclusiva
volontà di una delle parti l'avveramento della condizione.
Posto, invece, che il regolamento di cui oggi si discute è
atto di recepimento di accordi contrattuali integrativi
decentrati, la natura meramente potestativa della condizione
sarebbe esclusa.
4.5. Tuttavia occorre chiedersi se sia corretto parlare del
Regolamento (nella parte in cui "determina" i criteri di
riparto del fondo) in termini di <condizione>. Ora, poiché
la condizione è un fatto, futuro e incerto, al cui
verificarsi le parti, o la legge, possono subordinare
l'efficacia o la risoluzione del contratto (già
perfezionatosi) o di un singolo patto (art. 1353 c.c.),
non
pare possibile attribuire al Regolamento di cui si discute
la natura di fatto <esterno> alla fattispecie, dal quale
poter far dipendere l'efficacia di una qualche pattuizione
e, ancor meno, subordinare l'adempimento (pagamento) di un
credito già sorto.
Non vi è alcun elemento accidentale che possa condizionare,
dall'esterno, il diritto al compenso incentivante, se è
maturato e se ricorrono i presupposti per il suo pagamento,
in particolare il "previo accertamento positivo delle
specifiche attività svolte dai predetti dipendenti" (art.
93, comma 7-ter).
Piuttosto
il diritto al compenso
incentivante è il risultato di una fattispecie complessa che
vede, tra i suoi elementi costitutivi, una fase
amministrativa -in parte autoritativa in parte
programmatoria- una fase negoziale, una fase esecutiva e di
controllo. Ciascuno di questi momenti è un elemento che
concorre al formarsi della fattispecie e il Regolamento,
considerato nel suo insieme, è uno di questi elementi.
In questo senso
il Regolamento è uno dei presupposti presi in
considerazione dalla legge affinché possa dirsi completata
una fattispecie produttiva di diritti patrimoniali.
Pertanto,
quando si afferma che il Regolamento è
<condizione> per poter ripartire il fondo, si vuole dire che
senza il Regolamento non si è completata la fattispecie che
dà luogo alla erogazione dell'incentivo o, in termini
speculari, può dirsi che, assente il Regolamento, il diritto
al corrispettivo, a valere sul fondo, non può essere
determinato e, conseguentemente, non può essere pagato
(non
rientra nel tema oggetto di esame l'eventuale ricorso alla
determinazione del corrispettivo ex art. 1657 c.c.).
4.6. Altra questione è il momento in cui, nel formarsi della
fattispecie, assume rilievo il Regolamento.
Ora, posto che la determinazione dell'aliquota effettiva da
destinare al fondo, secondo la complessità e l'entità
dell'opera, esprime la potestà normativa propria ed
esclusiva dell'Ente,
non è dubitabile che l'Ente possa con il Regolamento
determinare l'effettiva aliquota solo per le opere poste a
base d'asta successivamente alla sua adozione.
Ed infatti,
la natura normativa di questa parte di Regolamento
(cfr. Sezione regionale di controllo per il Veneto,
parere 07.09.2016 n. 353),
porta a escludere che
esso possa avere efficacia retroattiva, così da modificare a
posteriori l'aliquota effettiva di risorse già destinate al
fondo.
Diversamente opinando, in disparte la contraddizione con il
principio di irretroattività anche delle norme
regolamentari, si dovrebbe necessariamente ammettere che il
quadro economico, con cui sono state quantificate e reperite
le risorse da porre a base d'asta di lavori o opere
pubbliche, possa contenere voci di spesa successivamente
riducibili con atto unilaterale, a discrezione dell'Ente e a
beneficio del suo risultato di amministrazione che ne
risulterebbe, per pari importo, incrementato.
Altra cosa,
invece, è che la stessa norma primaria
(D.Lgs. n. 163/2006) abbia previsto che le quote parti
dell’incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai
medesimi dipendenti, ovvero prive dell’accertamento positivo
del loro svolgimento, costituiscono economie. In questo
caso, infatti, la minore spesa non dipende da un atto
discrezionale, volto a liberare una parte di risorse già
accantonate, ma è la conseguenza
dell'inadempimento della prestazione.
4.7.
Quanto sin qui detto non comporta che senza il Regolamento
l'Ente non possa determinare ugualmente, con atto
amministrativo, la costituzione e l'alimentazione del fondo
con riferimento alla singola opera. Del resto se, in
ipotesi, si escludesse tale opportunità, verrebbe meno la
stessa possibilità di alimentare il fondo e, dunque, non si
porrebbe neppure il problema del suo riparto.
Si deve, perciò, ammettere che anche senza il Regolamento
sia possibile costituire il fondo, alimentandolo per ogni
opera e lavoro con l'aliquota stabilita per legge (2%),
mentre solo con il Regolamento sarà possibile determinare
griglie di aliquote diverse e solo per le opere approvate
successivamente, in relazione alla loro complessità ed
entità.
4.8. A questo punto occorre affrontare il tema del rapporto
tra il Regolamento -nella parte che recepisce l'accordo
decentrato integrativo sulle modalità di riparto del fondo-
e la determinazione del quantum spetta a ogni avente diritto
all'incentivo, per ciascuna opera o lavoro (comma 7-ter,
primo periodo, art. 92. D.Lgs. n. 163/2006 e comma 3, primo
periodo, art. 113 "Codice degli appalti pubblici").
4.8.1. Procedendo per approssimazioni progressive, può
senz'altro qui richiamarsi quanto detto circa il fatto che,
nel caso della progettazione interna, la prestazione dei
dipendenti interessati si risolve "in una modalità di
svolgimento del rapporto di pubblico impiego"
(Cass., SS.UU. n. 3386/1998),
per cui la retribuzione relativa va individuata sulla base
della contrattazione
(§ 4.3).
Ne consegue che,
in assenza di accordo decentrato
integrativo, la possibilità che l'amministrazione possa
determinarsi esercitando la propria potestà regolamentare,
unilaterale e autoritativa, è ammessa solo nel caso di
mancato accordo per la stipulazione del contratto collettivo
integrativo: "Al fine di assicurare la continuità e il
migliore svolgimento della funzione pubblica, (...)
l'amministrazione interessata può provvedere, in via
provvisoria, sulle materie oggetto del mancato accordo, fino
alla successiva sottoscrizione"
(art. 40, c. 3-ter, TUIP).
Ciò perché la disciplina dei trattamenti economici da
attribuire al personale dipendente dell'Ente è, di
regola, rimessa unicamente agli
accordi contrattuali (art. 2, c. 3, del TUIP), per cui
non sarebbe consentito sostituire la fonte pattizia con una
fonte normativa.
4.8.2. Può, quindi, affermarsi che, in
assenza degli accordi decentrati integrativi recepiti nel
Regolamento, ciò che viene a mancare è il criterio di
assegnazione e riparto del fondo o, per meglio dire, non si è
completata la fattispecie che consente di determinare e
liquidare l'importo dell'incentivo spettante a ciascun
avente diritto (§ 4.5).
Pertanto,
il diritto all'incentivo maturato dagli aventi diritto per le
attività da loro effettivamente espletate per specifiche
opere e lavori, positivamente accertate dal responsabile del
servizio, potrà essere quantificato ed erogato solo dopo che
sia stato approvato il Regolamento di recepimento degli
accordi integrativi decentrati, ovvero, in caso di mancato
accordo, con esercizio della potestà regolamentare, in via
sostitutiva e provvisoria, fino al rinnovo o
all'approvazione del contratto.
4.8.3.
La conclusione che precede, tuttavia, non significa,
in ragione della ritenuta irretroattività degli atti
normativi (§ 4.6), che il Regolamento non possa disciplinare
anche il riparto delle risorse del fondo per prestazioni
rese precedentemente alla sua approvazione. Ed invero,
posto
che i criteri di assegnazione e di riparto del fondo devono,
di regola, essere determinati in sede decentrata con
contrattazione integrativa per essere, poi, recepiti dal
Regolamento, ne consegue che quest'ultimo è solo un
contenitore con cui dare forma all'accordo, mentre sul piano
sostanziale resta immutata la natura pattizia della
disposizione che regola l'incentivo.
Ed invero,
ferma restando la potestà del legislatore di
segnare i limiti esterni che circoscrivono il perimetro
entro il quale si esprime la capacità negoziale, la materia
<criteri di riparto del fondo> resta nella piena
disponibilità delle parti anche se trasfusa nel regolamento,
tanto che, a rigore, ben potrebbe essere oggetto di una
nuova e diversa negoziazione in sede di rinnovo dell'accordo
integrativo decentrato.
In questo senso, anche l'eventuale potere sostitutivo,
previsto in caso di mancato accordo dall'art. 40, comma
3-ter, del TUIP, non porta a soluzioni diverse, essendo suo
destino quello di cedere al contratto, una volta stipulato.
In definitiva
la disciplina che quantifica l'incentivo da pagare ha, e
conserva, natura sostanzialmente contrattuale, e pertanto
l'ammettere che la stessa possa regolare anche il riparto
del fondo per prestazioni rese prima della sua approvazione
non lede il principio della irretroattività del Regolamento,
inteso
come fonte normativa.
D’altra parte,
se l’assenza del regolamento non impedisce la costituzione
del fondo (§
4.7), impedirne, poi, il riparto tra gli aventi diritto
significherebbe privarlo della funzione per la quale è stato
costituito.
D’altra parte,
meno che mai le risorse accantonate nel
fondo potrebbero essere utilizzate dopo l'approvazione del
Regolamento per remunerare non già gli aventi diritto (cioè
coloro che avevano svolto le attività riferite ai lavori o
alle opere dalle quali erano state tratte le risorse), ma
per aumentare la quota di riparto dei beneficiari per lavori
e opere svolte successivamente.
5. - I quesiti
Possono ora essere esaminati i quesiti posti dal Comune
istante.
5.1. In primo luogo occorre scrutinare il quesito se sia
possibile individuare le modalità e i criteri di riparto
mediante adeguamento e modifica del regolamento a suo tempo
adottato ai sensi della legge n. 109/1994.
La risposta non può essere univoca.
Se il Regolamento, a suo tempo adottato ai sensi della legge
n. 109/1994, non aveva recepito alcun accordo integrativo
decentrato, oggi non appare strumento utilizzabile alla luce
di quanto sopra argomentato. L'atto normativa finalizzato a
disciplinare il trattamento economico del personale alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni, infatti,
violerebbe la prescrizione di cui all'art. 2, comma 3, del
TUIP. Peraltro, non ricorrerebbe neppure la condizione di
supplenza, per l'accordo non sottoscritto, eccezionalmente e
provvisoriamente ammesso dall'art. 40, comma 3-ter, del TUIP.
Se, poi, si intende modificare detto regolamento
uniformandolo alle nuove prescrizioni, è chiaro che si
tratterebbe di un nuovo regolamento.
5.2. Al quesito se il regolamento possa considerarsi quale
condizione sospensiva del diritto a percepire l'incentivo
maturato in capo agli aventi diritto, deve darsi risposta
negativa per le ragioni sopra esposte.
L'approvazione del regolamento non potrebbe,
infatti,
essere
valida condizione sospensiva perché meramente potestativa e,
come tale, nulla ai sensi dell'art. 1355 c.c., dovendo
invece considerarsi elemento che concorre al formarsi della
fattispecie complessa che dà luogo alla determinazione e
liquidazione dell'incentivo stesso.
Pertanto dalla sua
approvazione non può
discendere quell’effetto retroattivo che
l’art. 1360 c.c. riconduce all’avveramento della condizione.
In altre parole, la mera approvazione del Regolamento che
recepisca i criteri di riparto dell’incentivo, di per sé,
non fornisce argomenti per sostenerne l’applicazione
retroattiva, in quanto è al contenuto dell’accordo
integrativo decentrato che occorre porre riguardo, nei
termini appresso riportati.
5.3. Quanto al quesito se sia possibile
ripartire tra gli aventi diritto le risorse rivenienti dal
fondo costituito, prima, ai sensi del citato art. 93, D.Lgs.
n. 163/2006 e, poi, dall'art. 113, D.Lgs. n. 50/2016, la
risposta è nel senso, sopra illustrato, e cioè che
non è precluso all'accordo integrativo decentrato, regolante
diritti patrimoniali dei lavoratori e recepito nel
Regolamento, di disciplinare anche la ripartizione delle
risorse già accantonate tra gli aventi diritto, per le
attività da loro espletate prima dell'accordo, purché in
conformità agli altri presupposti di legge
(Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata,
parere 08.03.2017 n. 7). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
In merito alla legittimità di liquidare parcelle emesse da
un avvocato, relative a cause per le quali era stato
incaricato dall’ente tramite delibera di Giunta, senza avere
preventivamente acquisito il preventivo di spesa.
L'obbligo di preventivo per incarichi
legali salva l'ente da debiti fuori bilancio. L'ente locale
ha l'obbligo di richiedere un preventivo all'avvocato cui
conferisce un incarico di patrocinio, al fine di evitare la
formazione di debiti fuori bilancio.
La Corte dei
conti, sezione regionale di controllo del Veneto, con il
parere 29.11.2016 n. 375
ha evidenziato come la richiesta di esplicitazione dei
valori economici da parte dei professionisti incaricati di
difendere l'ente sia adempimento ineludibile.
La necessità di un preventivo di massima che indichi la
misura del compenso, oltre a essere oggetto di specifica
previsione da parte della normativa che ha abrogato le
tariffe professionali (l'articolo 9 del Dl 1/2012 convertito
dalla legge 27/2012) e che attualmente disciplina i
compensi, tra l'altro, degli avvocati, viene espressamente
contemplata dal principio contabile applicato concernente la
contabilità finanziaria (allegato n. 4/2 al Dlgs 118/2011).
Le regole contabili
La regola stabilita dal principio contabile, al paragrafo
5.2, lettera g), prevede due misure particolari, finalizzate
proprio a evitare la formazione di debiti fuori bilancio.
Anzitutto essa stabilisce, in deroga al principio della
competenza potenziata, l'imputabilità dell'impegno assunto
con il conferimento dell'incarico all'esercizio in cui il
contratto è firmato, garantendo, in tal modo, la copertura
della spesa.
Il principio impone all'ente anche di chiedere ogni anno al
legale di confermare o meno il preventivo di spesa sulla
scorta del quale è stato assunto l'impegno originario.
Secondo la Corte dei conti, la richiesta confermativa anno
per anno deve essere effettuata dovendo tener conto della
probabile reimputazione ad altro esercizio, ossia quello nel
quale l'obbligazione viene effettivamente a scadenza, del
residuo passivo formatosi proprio per effetto del meccanismo
di imputazione previsto dal principio suddetto.
Questi elementi e l'obbligo specifico di comunicazione per
ogni anno delle eventuali variazioni del preventivo devono
essere tradotti nel disciplinare d'incarico.
La delibera
Il parere dei magistrati contabili fa rilevare peraltro come
la carenza iniziale nella stima del costo della prestazione
da un lato espone l'ente al rischio (o anche certezza) della
formazione di oneri a carico del bilancio privi della
necessaria copertura, ma da un altro non può influire sulla
esistenza ed entità dell'obbligazione sorta per effetto
dell'espletamento dell'incarico, che deve trovare,
ovviamente nei limiti della effettiva spettanza e nel
rispetto delle norme e dei principi che regolano il
riconoscimento dei debiti fuori bilancio, la dovuta
rappresentazione contabile nelle scritture dell'ente, allo
scopo di consentirne il regolare adempimento.
Pertanto, qualora la stima non sia stata adeguata ed
effettivamente i compensi maturati dal legale eccedano
l'impegno assunto, l'alternativa è il riconoscimento del
debito, secondo la procedura disciplinata dall'articolo 194
del Tuel ovvero, nell'ipotesi di non riconoscibilità del
rapporto obbligatorio per la accertata assenza dei
presupposti ivi previsti, l'imputazione diretta del rapporto
medesimo all'amministratore, funzionario o dipendente che
abbiano consentito l'acquisizione della prestazione in
assenza dell'impegno e della necessaria copertura (articolo
191, comma 4, del Tuel) (articolo Quotidiano Enti Locali
& Pa del 21.12.2016).
---------------
MASSIMA
Nella richiesta di parere, il Sindaco del Comune di
Bussolengo (VR) chiede se sia legittimo “liquidare
parcelle di un avvocato relative a cause per le quali lo
stesso era stato incaricato con delibera di Giunta, senza
aver preventivamente acquisito preventivo di spesa” ed,
in caso di risposta affermativa, in che misura, tenuto conto
di quanto affermato, da un canto, dalla Suprema Corte in
merito alla sussistenza, in capo all’ente,
dell’obbligazione, esclusivamente per la somma impegnata in
bilancio e, dall’altro, dalla Corte dei conti (tra
l’altro, nel
parere 01.04.2015 n. 110 della Sezione regionale di
controllo per la Campania) in merito al
ricorso alla procedura del riconoscimento del debito fuori
bilancio, ex art. 194, comma 1, lett. e), del TUEL.
...
Nel merito, esso ha ad oggetto la possibilità di liquidare,
in favore di professionista formalmente incaricato dall’ente
(nella specie, avvocato) e per la prestazione resa, un
importo maggiore di quello impegnato, ove questo,
determinato in assenza di apposito preventivo di spesa,
risulti “significativamente inferiore rispetto all’attività
svolta e documentata da parcella professionale per la quale
sono stati applicati i tariffari previsti dai decreti
ministeriali in materia di onorari e diritti professionali”.
In sostanza, l’ente chiede a questa Sezione se l’assunzione
dell’impegno di spesa costituisca un limite rispetto
all’obbligazione civilistica sorta per effetto del
conferimento dell’incarico al professionista ed, in caso di
risposta negativa, quale sia la procedura corretta da
seguire sotto il profilo contabile ai fini della
liquidazione dell’importo eccedente la previsione.
Il problema ovviamente si pone nei casi in cui la “stima”
del valore della prestazione richiesta al professionista sia
inadeguata e determini, quindi, l’insufficienza dell’impegno
assunto al momento del conferimento.
Deve precisarsi, in merito, che
la necessità di un
preventivo di massima che indichi la misura del compenso,
oltre ad essere oggetto di specifica previsione da parte
della normativa che ha abrogato le tariffe professionali
(art. 9, D.L. n. 1/2012, convertito dalla L. n. 27/2012)
e
che attualmente disciplina i compensi, tra l’altro, degli
avvocati, viene espressamente contemplata dal Principio
contabile applicato concernente la contabilità finanziaria
(All. n. 4/2 al D.lgs. n. 118/2011),
il quale, al paragrafo
5.2, lett. g), proprio “al fine di evitare la formazione di
debiti fuori bilancio”, non solo prevede, in deroga al
principio della competenza potenziata, l’imputabilità
dell’impegno assunto con il conferimento dell’incarico
all’esercizio in cui il contratto è firmato, garantendo, in
tal modo, la copertura della spesa, ma impone, altresì,
all’ente di chiedere ogni anno al legale di confermare o
meno il preventivo di spesa sulla scorta del quale è stato
assunto l’impegno originario
(ciò in considerazione della
probabile reimputazione ad altro esercizio, ossia quello nel
quale l’obbligazione viene effettivamente a scadenza, del
residuo passivo formatosi proprio per effetto del meccanismo
di imputazione previsto dal principio suddetto).
Analogamente, prima della entrata in vigore della normativa
sull’armonizzazione dei sistemi contabili appena richiamata,
era previsto che i compensi per prestazioni professionali
dovessero trovare copertura in bilancio già dal momento del
conferimento, in base ad una stima del relativo costo, in
modo da evitare il più possibile la formazione di debiti
fuori bilancio (Principio contabile n. 2 per gli enti locali
formulato dall’Osservatorio per la finanza e la contabilità
degli Enti Locali).
Posto ciò,
la carenza iniziale nella stima del costo della
prestazione, che espone l’ente al rischio (o anche certezza)
della formazione di oneri a carico del bilancio privi della
necessaria copertura, in contrasto con i canoni della sana
gestione finanziaria, non può influire sulla esistenza ed
entità dell’obbligazione sorta per effetto dell’espletamento
dell’incarico, che deve trovare, ovviamente nei limiti della
effettiva spettanza e nel rispetto delle norme e dei
principi che regolano il riconoscimento dei debiti fuori
bilancio, la dovuta rappresentazione contabile nelle
scritture dell’ente, allo scopo di consentirne il regolare
adempimento.
Come correttamente rilevato dalla Sezione regionale di
controllo per la Campania nel
parere 01.04.2015 n. 110, richiamato nella richiesta di parere, infatti,
ove la stima non sia stata adeguata ed effettivamente i
compensi maturati dal legale eccedano l’impegno assunto,
l’alternativa è il riconoscimento del debito, secondo la
procedura disciplinata dall’art. 194 TUEL ovvero,
nell’ipotesi di non riconoscibilità del rapporto
obbligatorio per la accertata assenza dei presupposti ivi
previsti, l’imputazione diretta del rapporto medesimo
all’amministratore, funzionario o dipendente che abbiano
consentito l’acquisizione della prestazione in assenza
dell’impegno e della necessaria copertura (art. 191, 4°
comma, TUEL).
In quest’ottica, deve essere risolto il dubbio manifestato
dall’ente circa la possibilità di limitare il vincolo
derivante dal detto rapporto obbligatorio all’importo
dell’impegno di spesa originario.
In primo luogo, deve rilevarsi che la pronuncia della
Suprema Corte da ultimo richiamata nella richiesta di parere
(SS.UU., sentenza n. 10798/2015) non consente affatto di
ipotizzare, sic et simpliciter, “che sia sorta
un’obbligazione per l’ente solo ed esclusivamente per la
somma impegnata in bilancio”.
Oltre a ribadire il carattere di sussidiarietà dell’azione
di indebito arricchimento (art. 2042 c.c.), la sentenza si
limita ad affermare il principio secondo cui
il
riconoscimento, da parte della p.a., dell’utilità della
prestazione o dell’opera non costituisce un requisito
dell’azione di indebito arricchimento e rileva soltanto “in
funzione probatoria e, precisamente, ai soli fini del
riscontro dell’imputabilità dell’arricchimento all’ente
pubblico”, ma non esime la pubblica amministrazione
dall’attivazione della procedura di riconoscimento del
debito, “nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed
arricchimento”, atteso che la responsabilità diretta del o
dei dipendenti che hanno consentito la fornitura sorge
soltanto per la (e se vi sia una) ”parte non riconoscibile
ai sensi dell’articolo 194, 1° comma, lett. e)” del TUEL
(art. 191, 4° comma, cit.).
La sussidiarietà dell’azione di indebito arricchimento, che
comporta la non esperibilità dell’azione medesima
nell’ipotesi in cui il danneggiato disponga di un altro
rimedio per farsi indennizzare il pregiudizio subito (art.
2042 c.c.), infatti, oltre ad attenere ad un ambito
processuale e di tutela giurisdizionale
–del tutto diverso
da quello, di natura contabile, al quale è riconducibile la
problematica della gestione della spesa pubblica, oggetto di
esame–
comunque non esclude l’imputabilità dell’obbligazione
direttamente all’ente, qualora si sia verificato un
arricchimento, percepibile come tale e suscettibile di
riconoscimento.
Diversamente, si consentirebbe di riversare indebitamente
sui dipendenti che agiscono in nome e per conto dell’ente
anche il costo di prestazioni dalle quali quest’ultimo abbia
tratto un obiettivo (e consapevole) beneficio e di
arricchirsi, quindi, ingiustamente, a scapito di terzi
(professionista ovvero dipendenti), in violazione del
generale principio secondo cui nemo lucupletari potest
cum aliena iactura
(Corte dei Conti, Sez. controllo
Veneto,
parere 29.11.2016 n. 375). |
APPALTI -
ATTI AMMINISTRATIVI: Se
occorre, o meno, il parere preventivo del Revisore dei Conti
sull'atto di transazione.
L'art. 239 del d.Lgs. 267/2000 individua sette
materie nelle quali è obbligatoria la resa del parere
dell’Organo di revisione. Si tratta di materie che, in base
all’art. 42 ed all’art. 194 del TUEL, appartengono alla
competenza funzionale del Consiglio. Fra esse, al n. 6,
risulta obbligatorio il parere in relazione alle “proposte
di riconoscimento di debiti fuori bilancio e transazioni”.
Con specifico riferimento al parere in merito alle proposte
di transazione, l’elemento da considerare al fine di
individuare i casi nei quali l’Organo di revisione deve
esprimere il proprio avviso è la competenza consiliare a
deliberare in merito alla conclusione della transazione, e
non la natura di quest’ultima.
In altri termini,
non è rilevante se l’Ente intenda procedere alla
definizione di un contenzioso giudiziale o stragiudiziale,
quanto se, in ordine all’atto conclusivo del procedimento,
debba pronunciarsi o meno il Consiglio, considerato che,
come si è visto sopra, il parere deve essere reso all’Organo
consiliare, il quale è tenuto “ad adottare i
provvedimenti conseguenti o a motivare adeguatamente la
mancata adozione delle misure proposte dall’organo di
revisione”.
La natura del parere, funzionale allo
svolgimento delle competenze consiliari, evidenzia che
l’obbligo riguarda principalmente le proposte di transazione
riferite a:
- passività in relazione alle quali non è stato assunto uno
specifico impegno di spesa, vale a dire quelle che possono
generare un debito fuori bilancio nei casi previsti dalle
lettere a, d ed e dell’art. 194, comma 1, del TUEL;
- accordi che comportano variazioni di bilancio;
- accordi che comportano l’assunzione di impegni per gli esercizi
successivi (art. 42, comma 2, lett. i, del TUEL); accordi
che incidono su acquisti, alienazioni immobiliari e relative
permute (art. 42, comma 2, lett. l, del TUEL).
Da ultimo occorre osservare che il TUEL
all’art. 239, comma 6, prevede la possibilità che lo Statuto
dell’Ente possa prevedere “ampliamenti delle funzioni
affidate ai Revisori”. Ferma restando la specifica
funzione di ausilio al Consiglio che si estrinseca con la
resa dei pareri nelle materie indicate sopra, l’Ente può
ampliare le competenze dell’Organo di revisione, anche
prevedendo attività ulteriori, ivi compresa la resa di
pareri in altre materie.
In conclusione, i pareri dell’Organo di
revisione sono funzionali allo svolgimento dei compiti del
Consiglio e devono essere resi a quest’ultimo nelle materie
indicate nell’art. 239, comma 1, lett. b, del TUEL, fra le
quali è compresa quella riferita alle “proposte di
riconoscimento di debiti fuori bilancio e transazioni”
(n. 6).
Al fine di individuare, in concreto, se l’atto debba
essere preceduto dal parere dell’Organo di revisione, non è
rilevante la natura della transazione (giudiziale o
stragiudiziale) ma se si tratti di atto di procedimento che
deve concludersi con delibera del Consiglio, rientrando fra
le sue attribuzioni funzionali.
---------------
Il Sindaco del Comune di Rutigliano (BA) chiede a
questa Sezione “se il parere di competenza del
Collegio dei Revisori, ai sensi dell’art. 239, comma 1,
lett. b, punto 6, del D.lgs. n. 267/2000 debba essere
richiesto in ogni ipotesi di transazione <letteralmente
intesa> o piuttosto lo stesso debba essere limitatamente
reso in riferimento alle transazioni per la definizione di
un contenzioso giudiziario già formalmente instaurato”.
Espone, infatti, il Sindaco che l’Amministrazione sottopone
periodicamente al Collegio dei Revisori le proposte di
transazione che intende perfezionare ai sensi dell’art. 239,
comma 1, lett. b, del TUEL. In alcuni casi si tratta di
proposte di definizione di contenzioso giudiziario ed in
altri casi di transazioni di questioni non ancora sfociate
in un giudizio, riferite, principalmente, a piccoli danni
richiesti da terzi.
Il Sindaco evidenzia poi che, da un confronto con l’Organo
di revisione è emerso che, nei casi di transazione
extragiudiziale, il parere non dovrebbe essere reso, non
essendosi instaurato formalmente un contenzioso e non
costituendo l’accordo transattivo un debito fuori bilancio.
...
Prima di ogni considerazione, anche di carattere
preliminare, preme al Collegio rilevare che il parere
inviato dal Sindaco ricalca letteralmente ed in ogni singola
parte quello già proposto dal Sindaco del Comune di Chieri
alla Sezione regionale di controllo per il Piemonte,
questione sulla quale detta Sezione si è di recente
pronunciata con
parere 26.09.2013 n. 345.
L’interrogativo riguardava “se il parere di competenza
del Collegio dei Revisori, ai sensi dell’art. 239, comma 1,
lett. b), punto 6, del DLgs. 267/2000 debba essere richiesto
in ogni ipotesi di transazione <<letteralmente intesa>> o
piuttosto lo stesso debba essere limitatamente reso in
riferimento alle transazioni per la definizione di un
contenzioso giudiziario già formalmente instaurato”.
In tale ipotesi, come evidenziato dai giudici torinesi, “al
fine di meglio illustrare il quesito, il richiedente ha
evidenziato che l’Amministrazione sottopone periodicamente
al Collegio dei revisori le proposte di transazione che
intende perfezionare ai fini dell’acquisizione del parere
richiesto dall’art. 239, co. 1, lett. b, del TUEL. Ha
specificato che in alcuni casi si tratta di proposte di
definizione di un contenzioso giudiziario ed in altri di
transazione di questioni non ancora sfociate in un giudizio,
riferite, principalmente, a piccoli danni richiesti da
terzi. Richiamata la prassi illustrata sopra, il Sindaco del
Comune di Chieri ha precisato che è sorta una divergenza con
il Collegio dei revisori che in relazione ai casi di
transazione extragiudiziale non dovrebbe essere espresso
alcun parere da parte dell’Organo di revisione poiché “non
essendosi instaurato formalmente un contenzioso, il parere
non debba essere reso a garanzia dell’autonoma valutazione
dirigenziale di cui all’art. 107 del Dlgs 267/2000 ritenendo
che la ratio della riforma della norma abbia come obiettivo
di sottoporre al controllo gli accordi transattivi
intervenuti in corso di causa che per loro natura non
soggiacciono alla comunicazione successiva alla Corte dei
conti non costituendo debito fuori bilancio”.
...
Passando dunque ad analizzare il merito della richiesta,
come evidenziato nella citata delibera della Sezione
controllo Piemonte, il parere riguarda l’interpretazione
dell’art. 239, co. 1, lett. b), punto 6 del TUEL, e verte
sul quesito concernente l’individuazione dei casi in cui
l’Organo di revisione debba rendere il parere previsto dalla
disposizione sulle proposte di transazione che l’Ente
intende concludere.
La disciplina relativa alla composizione ed alle competenze
dell’Organo di revisione è contenuta nel Titolo VII, parte
seconda del TUEL (artt. 234-241). Nell’individuare le
funzioni dell’Organo di revisione, l’art. 239 del TUEL
rileva che è suo compito specifico la collaborazione con il
Consiglio dell’Ente nei limiti precisati dallo Statuto e dal
Regolamento dell’Ente stesso (comma 1, lett. a). In
concreto, l’attività di collaborazione si esplica attraverso
pareri, rilievi, osservazioni e proposte finalizzate a
conseguire una migliore efficienza, produttività ed
economicità della gestione. La lett. b del comma 1 dell’art.
239 specifica che, fra le funzioni obbligatorie dell’Organo
di revisione, è compresa quella della resa di pareri nelle
materie analiticamente indicate nella stessa disposizione,
da svolgersi secondo le modalità indicate nel Regolamento.
L’esame di casi nei quali è richiesto il parere del Collegio
conferma che si tratta di un’attività di collaborazione che
riguarda le attribuzioni consiliari nelle materie
economico–finanziarie, propedeutica all’assunzione delle
delibere di competenza del Consiglio e strumentale alla
funzione di vigilanza sull’andamento economico–finanziario,
propria dell’Organo di revisione. Il successivo comma 1-bis
dell’art. 239 precisa che i pareri sono espressi su proposte
di deliberazioni che dovranno essere sottoposte all’esame
del Con-siglio dell’Ente, il quale è tenuto “ad adottare
i provvedimenti conseguenti o a motivare adeguatamente la
mancata adozione delle misure proposte dall’organo di
revisione”.
La formulazione originaria dell’art. 239, comma 1, lett. b,
è stata integrata nel 2012 ad opera del D.L. 10.10.2012, n.
174, conv. dalla legge 07.12.2012, n. 213. Il comma 1-bis è
stato introdotto nel TUEL dall’art. 3, co. 1, lett. o, del
medesimo D.L., ed ora la disposizione individua sette
materie nelle quali è obbligatoria la resa del parere
dell’Organo di revisione. Si tratta di materie che, in base
all’art. 42 ed all’art. 194 del TUEL, appartengono alla
competenza funzionale del Consiglio. Fra esse, al n. 6,
risulta obbligatorio il parere in relazione alle “proposte
di riconoscimento di debiti fuori bilancio e transazioni”.
Con specifico riferimento al parere in merito alle proposte
di transazione, l’elemento da considerare al fine di
individuare i casi nei quali l’Organo di revisione deve
esprimere il proprio avviso è la competenza consiliare a
deliberare in merito alla conclusione della transazione, e
non la natura di quest’ultima.
In altri termini,
non è rilevante se l’Ente intenda procedere alla
definizione di un contenzioso giudiziale o stragiudiziale,
quanto se, in ordine all’atto conclusivo del procedimento,
debba pronunciarsi o meno il Consiglio, considerato che,
come si è visto sopra, il parere deve essere reso all’Organo
consiliare, il quale è tenuto “ad adottare i
provvedimenti conseguenti o a motivare adeguatamente la
mancata adozione delle misure proposte dall’organo di
revisione”.
La natura del parere, funzionale allo
svolgimento delle competenze consiliari, evidenzia che
l’obbligo riguarda principalmente le proposte di transazione
riferite a:
- passività in relazione alle quali non è stato assunto uno
specifico impegno di spesa, vale a dire quelle che possono
generare un debito fuori bilancio nei casi previsti dalle
lettere a, d ed e dell’art. 194, comma 1, del TUEL;
- accordi che comportano variazioni di bilancio;
- accordi che comportano l’assunzione di impegni per gli esercizi
successivi (art. 42, comma 2, lett. i, del TUEL); accordi
che incidono su acquisti, alienazioni immobiliari e relative
permute (art. 42, comma 2, lett. l, del TUEL).
Da ultimo occorre osservare che il TUEL
all’art. 239, comma 6, prevede la possibilità che lo Statuto
dell’Ente possa prevedere “ampliamenti delle funzioni
affidate ai Revisori”. Ferma restando la specifica
funzione di ausilio al Consiglio che si estrinseca con la
resa dei pareri nelle materie indicate sopra, l’Ente può
ampliare le competenze dell’Organo di revisione, anche
prevedendo attività ulteriori, ivi compresa la resa di
pareri in altre materie.
In conclusione, i pareri dell’Organo di
revisione sono funzionali allo svolgimento dei compiti del
Consiglio e devono essere resi a quest’ultimo nelle materie
indicate nell’art. 239, comma 1, lett. b, del TUEL, fra le
quali è compresa quella riferita alle “proposte di
riconoscimento di debiti fuori bilancio e transazioni”
(n. 6). Al fine di individuare, in concreto, se l’atto debba
essere preceduto dal parere dell’Organo di revisione, non è
rilevante la natura della transazione (giudiziale o
stragiudiziale) ma se si tratti di atto di procedimento che
deve concludersi con delibera del Consiglio, rientrando fra
le sue attribuzioni funzionali.
Con le esposte conclusioni, già espresse dalla Sezione
controllo Piemonte nel citato
parere 26.09.2013 n. 345, il Collegio ritiene di
concordare
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 28.11.2013 n. 181). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Sull'installazione
del motore di un impianto di condizionamento sul lastrico
solare dell'edificio di proprietà.
Integra il reato di cui all'art. 44, lett. a), del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 l'esecuzione di interventi edilizi
subordinati a denuncia di inizio attività (ora S.C.I.A.) in
difformità dalle previsioni degli strumenti urbanistici e
dei regolamenti edilizi, atteso che nel caso di interventi
eseguiti in assenza o difformità della DIA (ora S.C.I.A.),
ma in conformità alla citata disciplina, è applicabile
solamente la sanzione amministrativa prevista dall'art. 37
dello stesso d.P.R. n. 380 del 2001
---------------
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d'appello di
Lecce ha parzialmente riformato la sentenza del 09.04.2014
del Tribunale di Brindisi, con cui Fr.Pr. era stato
condannato alla pena di giorni venti di arresto ed euro
20.000,00 di ammenda, in relazione al reato di cui all'art.
44, lett. b), d.P.R. 380/2001, in relazione all'art. 181
d.lgs. 42/2004 (per avere installato in un immobile di sua
proprietà, senza presentare la necessaria S.C.I.A. e senza
l'autorizzazione paesaggistica, un condizionatore d'aria),
qualificando il fatto ai sensi dell'art. 44, lett. a),
d.P.R. 380/2001 e rideterminando la pena in giorni dodici di
arresto ed euro 19.500,00 di ammenda.
Avverso tale sentenza l'imputato ha proposto ricorso per
cassazione, affidato a otto motivi, enunciati come segue nei
limiti strettamente necessari ai fini della motivazione.
Con un primo motivo ha denunciato violazione
dell'art. 521 cod. proc. pen., per la mancanza di
correlazione tra accusa e sentenza, e violazione dell'art. 6
C.E.D.U., in quanto la contestazione era relativa alla
esecuzione di opere in assenza di permesso di costruire,
mentre la sua responsabilità era stata affermata da entrambi
i giudici di merito per avere realizzato la condotta
incriminata in assenza della preventiva segnalazione
certificata di inizio attività (S.C.I.A.); inoltre la
diversa qualificazione giuridica attribuita alla condotta
dalla Corte d'appello aveva impedito alla difesa di
interloquire a proposito della formazione del silenzio
assenso nel procedimento amministrativo e riguardo alle
modifiche normative intervenute, tra cui quella di cui alla
l. 164/2014.
Con un secondo motivo ha prospettato
contraddittorietà della motivazione della sentenza
impugnata, nella parte in cui, pur ritenendo che
l'installazione del condizionatore sul lastrico solare
dell'edificio di proprietà dell'imputato fosse assoggettata
solamente a segnalazione certificata di inizio attività, e
che quindi fosse onere del Comune, e in particolare
dell'Ufficio tecnico, acquisire il nulla osta paesaggistico,
non aveva ritenuto avente efficacia sanante la S.C.I.A.
successiva ai lavori.
Con un terzo motivo ha lamentato carenza di
motivazione in ordine alla sussistenza dei presupposti di
cui all'art. 37 d.P.R. 380/2001, e della conseguente
sanabilità dell'opera.
Con un quarto motivo ha prospettato violazione
dell'art. 45 d.P.R. 380/2001, non avendo la Corte
territoriale chiarito se il procedimento amministrativo
volto a ottenere l'accertamento di conformità si fosse
concluso o fosse ancora pendente, giacché in tale ultima
evenienza avrebbe dovuto disporre la sospensione del
procedimento.
Mediante un quinto e un sesto motivo ha
denunciato ulteriore vizio di motivazione a proposito della
disciplina regolamentare applicabile e riguardo alla
violazione della stessa, essendosi verificato nel corso del
giudizio un mutamento delle norme tecniche di attuazione e
non avendo la Corte territoriale indicato quale disciplina
fosse da considerare in relazione all'intervento eseguito.
Con un settimo motivo ha lamentato violazione degli
artt. 104 e 131-bis cod. pen., per l'indebita ed erronea
esclusione della applicabilità della causa di non punibilità
per particolare tenuità del fatto.
Con l'ottavo motivo ha prospettato violazione degli
artt. 132 e 133 cod. pen. per ingiustificata determinazione
della pena, in misura superiore al minimo edittale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il secondo, il terzo, il quinto e il
sesto motivo di ricorso non sono manifestamente
infondati e, consentendo la costituzione di un valido
rapporto di impugnazione, impongono il rilievo della
prescrizione del reato addebitato al ricorrente,
verificatasi il 09.11.2016.
Va premesso che integra il reato di cui
all'art. 44, lett. a), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380
l'esecuzione di interventi edilizi subordinati a denuncia di
inizio attività (ora S.C.I.A.) in difformità dalle
previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti
edilizi, atteso che nel caso di interventi eseguiti in
assenza o difformità della DIA (ora S.C.I.A.), ma in
conformità alla citata disciplina, è applicabile solamente
la sanzione amministrativa prevista dall'art. 37 dello
stesso d.P.R. n. 380 del 2001
(così Sez. 3, n. 952 del 07/10/2014, Parisi, Rv. 261783,
relativa a fattispecie di installazione, all'esterno di un
fabbricato, di un condizionatore d'aria in assenza di
segnalazione di inizio attività ed in violazione del
regolamento edilizio comunale; conf. Sez. 3, n. 41619 del
22/11/2006, Cariello, Rv. 235413; Sez. 3, n. 9894 del
20/01/2009, Tarallo, Rv. 243099).
Ora, nella fattispecie in esame, la Corte territoriale, pur
dando atto della sola necessità della presentazione di
segnalazione certificata di inizio attività (S.C.I.A.) per
poter realizzare le opere oggetto della contestazione (e
cioè l'installazione del motore di un impianto di
condizionamento sul lastrico solare dell'edificio di
proprietà dell'imputato), della presentazione da parte del
ricorrente di tale segnalazione, dei ritardi amministrativi
nella definizione del relativo procedimento amministrativo,
e di quanto prospettato dalla difesa dell'imputato circa la
conformità di tale opera agli strumenti urbanistici
esistenti (e, in particolare, all'art. 9 del regolamento
edilizio del Comune di Ostuni), sia al momento della
realizzazione dell'opera sia al momento della richiesta di
sanatoria amministrativa (mediante la presentazione della
suddetta S.C.I.A. in sanatoria), non ha adeguatamente
accertato la compatibilità o meno dell'intervento con gli
strumenti urbanistici, prospettata dall'imputato sulla base
di una relazione tecnica, che la Corte d'appello non ha
adeguatamente considerato.
Ciò determina la sussistenza di un vizio della motivazione
della sentenza impugnata, giacché avrebbero dovuto essere
verificati l'esito del procedimento amministrativo iniziato
dall'imputato mediante la presentazione della S.C.I.A. e la
compatibilità dell'opera con gli strumenti urbanistici; tale
accertamento è ora, però, precluso dal compimento del
termine massimo di prescrizione. Essendo il reato stato
accertato il 09.11.2011 e trattandosi di ipotesi
contravvenzionale, soggetta al termine massimo di
prescrizione di cinque anni, lo stesso risulta decorso il
09.11.2016.
La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata senza
rinvio per essere il reato estinto per prescrizione, con la
conseguente revoca dell'ordine di riduzione in pristino
(Corte di cassazione, Sez. VII penale,
sentenza 12.07.2017 n. 34078). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Diniego di trasferimento per assistenza familiare e
necessità di preavviso di rigetto.
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Pubblico impiego privatizzato – Trasferimento – Per
assistenza familiare – Art. 33, l. n. 104 del 1992 – Diniego
– Preavviso di rigetto – Necessità – mancanza –
Illegittimità.
E’ illegittimo il diniego di
trasferimento chiesto per assistenza a familiare ai sensi
dell’art. 33, l. 05.02.1992, n. 104, che non sia stato
preceduto dal preavviso di rigetto ex art. 10-bis, l.
07.08.1990, n. 241 (1).
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(1)
Ha ricordato il Tar che il dovere di attivare il
subprocedimento partecipativo di cui all’art. 10-bis, l.
07.08.1990, n. 241 appare tanto più pressante per le ipotesi
in cui vengono a confronto interessi di pari ma contrapposta
valenza, come quello alla solidarietà familiare attraverso
l’attività assistenziale domestica e al buon andamento degli
apparati ed uffici, la cui composizione deve passare
attraverso un ponderato bilanciamento delle esigenze
assistenziali ai parenti invalidi e di quelle tese ad
evitare che con l’abuso degli istituti di garanzia
individuale e familiare si pervenga allo svuotamento ed
inoperatività degli apparati pubblici: bilanciamento che
necessita delle acquisizioni conoscitive e ponderazioni
valutative che anche la partecipazione del privato fa
conseguire (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 11.07.2017 n. 926
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
5- Ai fini del decidere occorre precisare che il
ricorrente ha dedotto diversi profili di violazione
dell’art. 33 della L. n. 104 ed eccesso di potere per
difetto di istruttoria e di motivazione, sviamento di
potere, travisamento ed erronea valutazione dei fatti;
nonché dell’art. 10-bis della L. n. 241/1990.
In particolare, l’amministrazione, nel respingere la
richiesta di trasferimento, avrebbe valutato le esigenze
organiche della sede di servizio del ricorrente senza
considerare che il dipendente era distaccato da Agosto 2015
presso la Casa Circondariale di -OMISSIS- e che il distacco
era stato prorogato anche dopo il disposto diniego. Di qui,
il lamentato travisamento e l’asserita contraddittorietà
delle ragioni organizzative addotte a sostegno del
provvedimento negativo.
Infatti, se le carenze organiche della sede di provenienza
fossero state tali da impedire il trasferimento temporaneo
presso altra sede ex art. 33 L. 104/1992, avrebbero dovuto
altresì impedire la proroga di detto distacco. La
motivazione sarebbe altresì difettosa avendo omesso di
valutare il contemperamento dei rispettivi diritti ed
interessi.
5.1- L’interessato ha anche eccepito il mancato preavviso di
rigetto della propria domanda, osservando che il diniego
impugnato è tutt’altro che provvedimento a contenuto
vincolato (cui applicare il criterio sostanzialistico di cui
all’art. 21-nonies L. 241, dovendo esso tener conto di una
serie di elementi complessi e variabili, tra cui le gravi
condizioni di salute del genitore, le varie possibili
soluzioni prospettabili sia nell’interesse del disabile da
assistere, con possibilità di eventuale destinazione anche
presso una qualsiasi sede diversa da quella prescelta dal
dipendente, ecc..
6– La censura formale testé riportata è fondata.
L’art. 33, comma 5, L. n. 104/1992 prevede
che il lavoratore il quale debba assistere un familiare in
condizioni di grave invalidità ha “diritto” di
scegliere “ove possibile”, la sede di lavoro più
vicina al domicilio della persona da assistere e non può
essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede.
La norma, come ampiamente chiarito in giurisprudenza,
denomina “diritto” ciò che in realtà non lo è, in
quanto riconosciuto e tutelato soltanto “ove possibile”:
il che implica una serie di valutazioni di tipo
organizzativo funzionale da trasfondere in provvedimenti
adeguatamente motivati a carattere e contenuto discrezionale
e non vincolato.
In relazione alle caratteristiche del provvedimento che dia
riscontro all’istanza di trasferimento ex art. 33 citato, si
rivela, pertanto, fondata ed assorbente la censura di
violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990.
7- Questa Sezione, al riguardo, ha avuto modo più volte di
affermare –e proprio con riferimento alla fattispecie del
menzionato art. 33- che la comunicazione
disciplinata dall'art. 10-bis della L. n. 241 del 1990 ha la
funzione di sollecitare il leale contraddittorio fra
l'amministrazione e il privato istante nella fase
predecisionale del procedimento, e rappresenta un
arricchimento delle garanzie partecipative degli interessati
in chiave collaborativa e, per quanto possibile, deflattiva
del contenzioso giurisdizionale e giustiziale.
A corollario di tale principio si è giunti altresì a
precisare che affinché il preavviso di
rigetto dell’istanza possa adeguatamente svolgere il ruolo
che il legislatore le ha assegnato, non può ammettersi che
la motivazione del provvedimento finale negativo si fondi su
ragioni estranee a quelle già comunicate con il preavviso di
diniego; e la possibilità per l'amministrazione di riaprire
la fase istruttoria a seguito delle osservazioni ricevute,
ovvero di prendere in esame fatti nuovi sopravvenuti, deve
pur sempre reputarsi condizionata alla preventiva corretta
instaurazione del contraddittorio procedimentale con
l'interessato, comportante, se del caso, il rinnovo del
preavviso (per
tutte: TAR Toscana Sez. I, 22.11.2016, n. 1669).
8- Il dovere di attivare il subprocedimento
partecipativo di cui all’art. 10-bis L. n. 241 appare tanto
più pressante per le ipotesi in cui vengono a confronto
interessi di pari ma contrapposta valenza, come quello alla
solidarietà familiare attraverso l’attività assistenziale
domestica e al buon andamento degli apparati ed uffici, la
cui composizione deve passare attraverso un ponderato
bilanciamento delle esigenze assistenziali ai parenti
invalidi e di quelle tese ad evitare che con l’abuso degli
istituti di garanzia individuale e familiare (con la
riscoperta, talvolta, di improbabili legami affettivi e
parentali) si pervenga allo svuotamento ed inoperatività
degli apparati pubblici: bilanciamento che necessita delle
acquisizioni conoscitive e ponderazioni valutative che anche
la partecipazione del privato fa conseguire.
Partecipazione e adeguata e convincente
motivazione sono le armi più efficaci a disposizione delle
amministrazioni per contrastare adeguatamente le ricordate
forme abusive dell’esercizio di diritti pur fondamentali,
piuttosto che arroccamenti su indimostrate ed assertive “esigenze
organizzative” ostative all’accoglimento delle istanze
di trasferimento per motivi parentali. Il rispetto di tali
canoni comportamentali fondamentali eppur elementari
eviterebbe una gran quantità di contenzioso nella materia in
esame.
Nel caso di specie, poi, il rispetto dei principi di
partecipazione e di adeguata e convincente motivazione
appariva tanto più pressante a fronte del comportamento
invero perplesso e contradditorio dell’amministrazione, come
espressamente riportato nel relativo motivo di ricorso sopra
sintetizzato. |
LAVORI PUBBLICI:
Giurisdizione sulla gara di lavori affidati da una società
per azioni e incompatibilità dei progettisti.
---------------
•
Giurisdizione - Contratti della Pubblica amministrazione –
Appalto lavori – gara bandita da s.p.a. e disciplinata dal
nuovo Codice dei contratti – Giurisdizione giudice
amministrativo.
•
Contratti della
Pubblica amministrazione – Appalto lavori – Responsabile
team progettazione coincidente con professionista che ha
redatto il progetto per la stazione appaltante – Art. 24,
comma 7, d.lgs. n. 50 del 2016 - Illegittimità.
•
Rientra nella giurisdizione del giudice
amministrativo la controversia avente ad oggetto di
“lavori”, affidati da una società per azioni con procedura
ad evidenza pubblica, disciplinata dal d.lgs. 18.04.2016, n.
50, tramite risorse regionali, essendo l’attività ad
evidenza pubblica di tale società inquadrabile come
affidamento “svolto da soggetto <comunque tenuto> nella
scelta del contraente all’applicazione della normativa
comunitaria o al rispetto dei procedimenti di evidenza
pubblica”, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. e), punto
1, c.p.a. (1).
•
E’ illegittima, per violazione dell’art. 24,
comma 7, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, l’ammissione alla gara,
per l'affidamento di interventi di realizzazione di un’opera
finanziata dalla Regione, del concorrente il cui
responsabile del team di progettazione è il professionista
che ha redatto il progetto, su incarico della stazione
appaltante (2).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che per definire la sussistenza
dell’obbligo ex lege (e non per mera autodisciplina
facoltativa e volontaria) occorre considerare le norme del
(nuovo) Codice appalti 18.04.2016, n. 50, che definiscono
una pluralità di categorie tenute ad applicare la disciplina
ad evidenza pubblica.
In particolare l’art. 1 (nel vecchio Codice la disciplina
era contenuta nell’art. 32, in versione diversa), ove il
legislatore ha individuato, fra le diverse tipologie di “lavori”,
all’interno del comma 2: a) alla lett. a) una definizione
articolata riferita a lavori (determinati nell’oggetto)
conferiti da committenti non soggettivamente individuati, ma
i cui lavori risultano caratterizzati da due elementi
quantitativi economici (due soglie monetarie); alla lett. d)
lavori pubblici (indeterminati nell’oggetto) affidati da
soggetti soggettivamente individuati, “concessionari di
servizi”, ma solo qualora essi siano “strettamente
strumentali” alla gestione del servizio (e le opere
pubbliche diventino di proprietà dell’Amministrazione
aggiudicatrice).
Trattasi di due ipotesi “autonome” che vanno
interpretate in modo indipendente l’una dall’altra. Dunque
la prima ipotesi (lett. a) non deve subire condizionamenti
in riferimento al vincolo di strumentalità posto alla
successiva lett. d).
Il Tar ha ritenuto applicabile, al caso di specie, la lett.
a) punto 2 dell’art. 1 del Codice, che impone l’applicazione
delle norme pubblicistiche in caso di sussistenza di una
duplice condizione (che deve essere riscontrata in forma “abbinata”),
sussistente nel caso sottoposto al suo esame: appalti di
lavori che superino 1 milione di euro e che siano “sovvenzionati
direttamente in misura superiore al 50% da amministrazioni
aggiudicatrici”; ma solo qualora tali appalti si
riferiscano a lavori determinati in peculiari “settori”
(indicati sub nn. 1 e 2); il punto 1 contempla, rendendoli
rilevanti, i “lavori di Genio civile di cui all’Allegato
I” (il punto 2 si riferisce, invece, agli “edifici
destinati a funzioni pubbliche”) .
(2) Ha ricordato il Tar che l’art. 24, comma 7, d.lgs. 18.04.2016,
n. 50 impone che gli affidatari di incarichi di
progettazione per progetti posti a base di gara non possono
essere affidatari degli appalti per i quali abbiano svolto
la suddetta attività di progettazione (norma che estende il
principio, di terzietà, anche al soggetto controllato,
controllante o collegato all'affidatario di incarichi di
progettazione nonché ai dipendenti dell'affidatario
dell'incarico di progettazione, ai suoi collaboratori nello
svolgimento dell'incarico e ai loro dipendenti, nonché agli
affidatari di attività di supporto alla progettazione e ai
loro dipendenti).
Il conflitto di interesse può essere anche solo potenziale,
volendo la norma evitare in via preventiva situazioni di
contrasto eventuale, ma anche in considerazione della
posizione rilevante che il progettista avrebbe dovuto
assumere in sede di controllo della congruità e
corrispondenza dell’opera.
Unica possibilità di deroga è nel caso in cui si riesca a
dimostrare che l'esperienza acquisita nell'espletamento
degli incarichi di progettazione “non è tale da
determinare un vantaggio che possa falsare la concorrenza
con gli altri operatori” (TAR
Valle d’Aosta,
ordinanza 11.07.2017 n. 21
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ricostruzione
di edificio in zona con vincolo paesaggistico.
Non c'è dubbio che rientrino nella nozione di
ristrutturazione edilizia anche gli interventi di
demolizione e ricostruzione dell'organismo edilizio
preesistente purché con le medesime
"caratteristiche" (l'art. 3, comma 1, lett. d, d.P.R. 380 del
2001, nella formulazione precedente,
faceva riferimento alla "stessa volumetria e sagoma di
quello preesistente").
Ne consegue che,
ove il risultato finale dell'attività demolitoria-ricostruttiva non coincida con il manufatto
preesistente, l'intervento deve essere qualificato come
"nuova costruzione" e necessita del
permesso di costruire, non essendo sufficiente la semplice
denuncia di inizio attività.
---------------
L'art. 30 del di. 21/06/2013 n. 69, conv. dalla legge n. 98 del
09/08/2013 ha parzialmente
modificato la normativa precedente, essendo stata espunta
dalla definizione datane dall'art. 3,
comma 1, lett. d), la parola "sagoma" (vanno quindi ricompresi
negli interventi di ristrutturazione
edilizia quelli consistenti nella demolizione e
ricostruzione dell'edificio preesistente anche se
non con la stessa sagoma).
Inoltre, quanto ai ruderi, la
norma fa riferimento anche agli
interventi consistenti nel ripristino di edifici, o parti di
essi, eventualmente crollati o demoliti,
sempre che sia possibile accertarne la precedente
consistenza. In ogni caso, per gli immobili
sottoposti a vincoli ai sensi del D.L.vo n. 42/2004, gli
interventi di demolizione e ricostruzione e
gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti
costituiscono interventi di ristrutturazione
edilizia soltanto se sia rispettata la medesima sagoma
dell'edificio preesistente.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che, alla luce
dell'art. 30 cit., è possibile
qualificare come "ristrutturazione edilizia" l'intervento di
ripristino o di ricostruzione di un
edificio o di parte di esso, eventualmente crollato o
demolito, anche in caso di modifica della
sagoma dello stesso ove insistente su zona non vincolata, a
condizione, però, che sia possibile
accertarne, in base a riscontri documentali o altri elementi
certi e verificabili e non, quindi, ad
apprezzamenti meramente soggettivi, la preesistente
"consistenza", intesa come il complesso
di tutte le caratteristiche essenziali dell'edificio
(volumetria, altezza, struttura complessiva),
con la conseguenza che la mancanza anche uno solo di tali
elementi, necessari per la dovuta
attività ricognitiva, impedisce di ritenere sussistente il
requisito che la citata disposizione
richiede per escludere, in ragione della anzidetta
qualificazione, la necessità di preventivo
permesso di costruire.
---------------
Per quanto riguarda gli interventi eseguiti in zona
vincolata, perché possa applicarsi il
regime semplificato della s.c.i.a, oltre ad accertare
l'esistenza dei connotati essenziali dell'edificio preesistente (pareti, solai tetti) o, in
alternativa, la preesistente consistenza
dell'immobile in base a riscontri documentali, è necessario,
in ogni caso, verificare il rispetto
anche della sagoma della precedente struttura; sicché gli
interventi di demolizione e
ricostruzione o di ripristino di edifici o parti di essi
crollati o demoliti, debbono ritenersi
assoggettati a permesso di costruire ove non sia possibile
accertare la preesistente volumetria
delle opere che, qualora ricadano in zona paesaggisticamente
vincolata, hanno l'obbligo di
rispettare anche la precedente sagoma.
---------------
1. La Corte di Appello di Trento, con sentenza del
11/05/2016, confermava la sentenza del
G.u.p. del Tribunale di Trento, emessa in data 05/03/2015,
con la quale Pa.Vi.,
applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato,
era stato condannato alla pena di mesi
quattro di arresto ed euro 28.000,00 di ammenda per i reati
di cui agli artt. 44, lett. c), e 72 DPR
380/2001, per avere, in assenza di concessione edilizia, in
area soggetta a tutela paesaggistico
ambientale, proceduto alla demolizione completa
dell'edificio preesistente, ricostruendolo con
nuove fondazioni e sottostante intercapedine aerata, con
realizzazione di opere in cemento
armato in difetto di denuncia presso il competente ufficio;
pena sospesa e non menzione.
Rilevava la Corte territoriale che il solo intervento
consentito nella zona in cui ricadeva
l'edificio (E2) era quello di risanamento conservativo (come
risultante dalla d.i.a. iscritta al
protocollo del Comune di Lardaro come "risanamento
particella CC Lardaro", ma non
rinvenuta), mentre si era proceduto, come emergeva dagli
atti processuali alla realizzazione di
un diverso edificio, tra l'altro su diverso sedime.
Tale
intervento era, altresì, completamente
diverso dalle fattispecie prese in considerazione
dall'art. 99, lett. e), L.P. n. 1/2008 che,
comunque, prevede la conservazione dei muri perimetrali, o
dall'art. 32, comma 1, lett. d), del
DPR 380/2001, che disciplina le variazioni essenziali,
essendo stato realizzato un immobile
completamente diverso.
...
1. Il ricorso è manifestamente infondato e va, pertanto,
dichiarato inammissibile.
2. Non c'è dubbio che rientrino nella nozione di
ristrutturazione edilizia anche gli interventi di
demolizione e ricostruzione dell'organismo edilizio
preesistente purché con le medesime
"caratteristiche" [l'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 380 del
2001, nella formulazione precedente,
faceva riferimento alla "stessa volumetria e sagoma di
quello preesistente"]. Ne consegue che,
ove il risultato finale dell'attività demolitoria-ricostruttiva non coincida con il manufatto
preesistente, l'intervento deve essere qualificato come
"nuova costruzione" e necessita del
permesso di costruire, non essendo sufficiente la semplice
denuncia di inizio attività.
L'art. 30 del di. 21/06/2013 n. 69, conv. dalla legge n. 98 del
09/08/2013 ha parzialmente
modificato la normativa precedente, essendo stata espunta
dalla definizione datane dall'art. 3,
comma 1, lett. d), la parola "sagoma" (vanno quindi ricompresi
negli interventi di ristrutturazione
edilizia quelli consistenti nella demolizione e
ricostruzione dell'edificio preesistente anche se
non con la stessa sagoma).
Inoltre, quanto ai ruderi, la
norma fa riferimento anche agli
interventi consistenti nel ripristino di edifici, o parti di
essi, eventualmente crollati o demoliti,
sempre che sia possibile accertarne la precedente
consistenza. In ogni caso, per gli immobili
sottoposti a vincoli ai sensi del D.L.vo n. 42/2004, gli
interventi di demolizione e ricostruzione e
gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti
costituiscono interventi di ristrutturazione
edilizia soltanto se sia rispettata la medesima sagoma
dell'edificio preesistente.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che, alla luce
dell'art. 30 cit., è possibile
qualificare come "ristrutturazione edilizia" l'intervento di
ripristino o di ricostruzione di un
edificio o di parte di esso, eventualmente crollato o
demolito, anche in caso di modifica della
sagoma dello stesso ove insistente su zona non vincolata, a
condizione, però, che sia possibile
accertarne, in base a riscontri documentali o altri elementi
certi e verificabili e non, quindi, ad
apprezzamenti meramente soggettivi, la preesistente
"consistenza", intesa come il complesso
di tutte le caratteristiche essenziali dell'edificio
(volumetria, altezza, struttura complessiva),
con la conseguenza che la mancanza anche uno solo di tali
elementi, necessari per la dovuta
attività ricognitiva, impedisce di ritenere sussistente il
requisito che la citata disposizione
richiede per escludere, in ragione della anzidetta
qualificazione, la necessità di preventivo
permesso di costruire (Cass. pen. sez. 3 n. 45147 del
08/10/2015, Rv. 265444).
Per quanto riguarda gli interventi eseguiti in zona
vincolata, perché possa applicarsi il
regime semplificato della s.c.i.a, oltre ad accertare
l'esistenza dei connotati essenziali dell'edificio preesistente (pareti, solai tetti) o, in
alternativa, la preesistente consistenza
dell'immobile in base a riscontri documentali, è necessario,
in ogni caso, verificare il rispetto
anche della sagoma della precedente struttura; sicché gli
interventi di demolizione e
ricostruzione o di ripristino di edifici o parti di essi
crollati o demoliti, debbono ritenersi
assoggettati a permesso di costruire ove non sia possibile
accertare la preesistente volumetria
delle opere che, qualora ricadano in zona paesaggisticamente
vincolata, hanno l'obbligo di
rispettare anche la precedente sagoma (Sez. 3 n. 40342 del
03/06/2014, Rv. 260552).
3. La Corte territoriale, con accertamento in fatto
adeguatamente e logicamente
argomentato, come tale non sindacabile in questa sede di
legittimità, ha ritenuto, innanzitutto,
sulla base di tutti gli atti di indagine, e, in particolare,
del verbale di accertamenti urgenti della
Polizia locale, che vi sia stata totale demolizione
dell'edificio preesistente con ricostruzione di
un nuovo edificio.
Risultando che l'intervento è stato eseguito in zona
sottoposta a tutela paesaggistico
ambientale, era consentita, come si è visto in precedenza,
la demolizione e ricostruzione a
condizione che venisse rispettata anche la sagoma del
preesistente edificio.
Ma, nel caso di specie, non solo non è stato possibile
accertare la "consistenza" e
"caratteristiche" dell'edificio preesistente, ma è risultato
anche il diverso sedime occupato
(pag. 8 sent.).
Il ricorrente, invero, non ha fornito alcuna prova in ordine
alla preesistente consistenza
dell'immobile ed al rispetto della sagoma della precedente
struttura, assumendo
assertivamente che l'intervento era consistito nel rinnovo
delle relative strutture murarie
perimetrali con la metodica del c.d."cuci e scuci" (pag. 13
ricorso), venendo smentito, peraltro,
dallo stesso verbale di accertamento urgente sui luoghi,
allegato al ricorso, in cui si dà atto
che "si è riscontrata la totale demolizione dell'edificio
preesistente con realizzazione di un
nuovo edificio con realizzazione di nuove fondazioni
continue e sottostante intercapedine
areata". E dall'ingiunzione di rimessa in pristino,
ugualmente allegata al ricorso, emerge
l'assenza di riscontri "relativi al profilo originario del
terreno naturale e della localizzazione
spaziale del sedime dell'edificio preesistente".
Per di più, come ha evidenziato la medesima Corte
territoriale, il solo intervento compatibile
con la zona in cui ricadeva l'edificio (E2) comportava la
conservazione delle strutture murarie
esterne (prevedendo anche l'art. 99, lett. e), della L.P.
n.1/2008 la conservazione di muri
perimetrali).
Correttamente, pertanto, la Corte territoriale ha ritenuto
che, per eseguire l'intervento di cui
alla contestazione, occorresse permesso di costruire.
Conseguentemente è del tutto fuor di luogo il richiamo del
disposto di cui all'art. 44, comma
2-bis, d.P.R. 380/2001
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.07.2017 n. 32899). |
PATRIMONIO - SICUREZZA LAVORO: Sicurezza
scuole: responsabile il sindaco o il dirigente?
Secondo la giurisprudenza di questa Corte,
in tema di tutela della sicurezza e salute dei
luoghi di lavoro negli enti locali, per datore di lavoro
deve intendersi il dirigente al quale spettano poteri di
gestione, ivi compresa la titolarità di autonomi poteri
decisori in materia di spesa.
E la condizione necessaria per riconoscere in capo
al dirigente la qualità di datore di lavoro è che questo sia
dotato di effettivi poteri gestionali, decisionali e di
spesa.
Più in particolare, si è affermato che il
dirigente del settore manutenzione del patrimonio edilizio
comunale, pur potendo assumere la qualità di datore di
lavoro ex art. 2, lettera b), del d.Lgs. n. 81 del 2008, non
è responsabile delle violazioni che sanzionano la mancata
esecuzione degli interventi di messa in sicurezza e
ristrutturazione degli edifici scolastici, qualora risulti
in concreto privo di autonomi poteri gestionali, decisionali
e di spesa.
Ne consegue che, qualora l'organo politico
dell'ente locale sia imputato di una violazione in materia
di sicurezza sul lavoro, incombe sullo stesso l'onere della
prova dell'esistenza di un soggetto dirigente dotato di
competenza nel settore, nonché dei mezzi per esercitare in
concreto detta competenza.
----------------
RITENUTO IN FATTO
1. - Con sentenza del 17.02.2015, il Tribunale di Vibo
Valentia ha condannato l'imputato alla pena dell'ammenda,
per il reato di cui agli artt. 46, comma 2, 55, comma 5,
lettera c), 64, comma 1, lettera c), 68, comma 1, lettera
b), del decreto legislativo n. 81 del 2008, per avere, nella
sua qualità di Sindaco di un Comune, quale datore di lavoro,
omesso di attuare le misure necessarie al fine di verificare
che i luoghi di lavoro (scuola materna comunale) venissero
sottoposti alla regolare manutenzione tecnica ed eliminare
quanto più rapidamente possibile i difetti rilevati, tali da
pregiudicare la sicurezza e la salute dei lavoratori.
2. - Avverso la sentenza l'imputato ha proposto, tramite il
difensore, ricorso per cassazione, deducendo, con unico
motivo di doglianza, la mancanza di motivazione in relazione
all'avvenuta individuazione, da parte del Comune, del
responsabile del servizio scuole, nella persona del
dirigente comunale Pi.Ra..
Tale soggetto sarebbe -ad avviso della difesa- l'unico
responsabile delle omissioni oggetto di contestazione, in
ossequio al principio generale della distinzione dei ruoli e
delle competenze degli organi politici e gli organi
amministrativi e di gestione, ai sensi dell'art. 107 del
d.lgs. n. 267 del 2000.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. - Il ricorso è infondato.
Il ricorrente non contesta il fatto nella sua materialità,
limitandosi ad affermare che la responsabilità penale
avrebbe dovuto essere ritenuta sussistente in capo al solo
soggetto dirigente del Servizio scuole comunale, Pi.Ra., per
il principio della distinzione tra ruolo politico e ruolo
amministrativo nell'ambito dell'ente locale.
3.1. - Non vi è dubbio che tale principio sia espressamente
affermato dall'art. 107 del d.lgs. n. 267 del 2000, perché
tale disposizione attribuisce «ai dirigenti la direzione
degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme
dettati dagli statuti e dai regolamenti» e stabilisce
che questi «si uniformano al principio per cui i poteri
di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano
agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa,
finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante
autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse
umane, strumentali e di controllo» (comma 1).
Ai sensi del successivo comma 2, spettano «ai dirigenti
tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e
provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione
verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o
dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o
non rientranti tra le funzioni del segretario o del
direttore generale, di cui rispettivamente agli articoli 97
e 108».
E a ciò deve aggiungersi, con specifico riferimento al
settore della sicurezza sul lavoro, che l'art. 2, comma 1,
lettera b), secondo periodo, del d.lgs. n. 81 del 2008,
prevede che «nelle pubbliche amministrazioni di cui
all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001,
n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al
quale spettano i poteri di gestione del rapporto di lavoro»
dovendosi considerare quali "poteri di gestione"
quelli conferiti con deliberazione dell'amministrazione di
appartenenza.
Da tale complesso normativo, deriva, secondo la
giurisprudenza di questa Corte, che, in
tema di tutela della sicurezza e salute dei luoghi di lavoro
negli enti locali, per datore di lavoro deve intendersi il
dirigente al quale spettano poteri di gestione, ivi compresa
la titolarità di autonomi poteri decisori in materia di
spesa (Sez. 3, n.
47249 del 30/11/2005, Rv. 233017). E la
condizione necessaria per riconoscere in capo al dirigente
la qualità di datore di lavoro è che questo sia dotato di
effettivi poteri gestionali, decisionali e di spesa
(Sez. 3, n. 2862 del 17/10/2013, dep. 22/01/2014, Rv.
258374; Sez. 4, n. 34804 del 02/07/2010, Rv. 248349).
Più in particolare, si è affermato che il
dirigente del settore manutenzione del patrimonio edilizio
comunale, pur potendo assumere la qualità di datore di
lavoro ex art. 2, lettera b), del d.Lgs. n. 81 del 2008, non
è responsabile delle violazioni che sanzionano la mancata
esecuzione degli interventi di messa in sicurezza e
ristrutturazione degli edifici scolastici, qualora risulti
in concreto privo di autonomi poteri gestionali, decisionali
e di spesa (Sez.
3, n. 6370 del 07/11/2013, dep. 11/02/2014, Rv. 258898).
Ne consegue che, qualora l'organo politico
dell'ente locale sia imputato di una violazione in materia
di sicurezza sul lavoro, incombe sullo stesso l'onere della
prova dell'esistenza di un soggetto dirigente dotato di
competenza nel settore, nonché dei mezzi per esercitare in
concreto detta competenza.
3.2. - Non vi è dubbio che tali principi si attaglino, in
astratto, anche alla fattispecie qui in esame.
Nondimeno, deve rilevarsi che la difesa non ha fornito in
concreto alcuna prova né dell'effettivo conferimento della
qualifica dirigenziale del servizio scuole comunale a Pi.Ra.,
né di quali siano l'oggetto e i limiti di tale eventuale
conferimento, né della disponibilità da parte del dirigente
di autonomi poteri ai fini della realizzazione della
regolare manutenzione tecnica e della tutela della sicurezza
e della salute dei lavoratori scolastici.
Ci si limita infatti ad asserire che il Tribunale non
avrebbe preso in considerazione tali circostanze, senza
richiamare gli atti dai quali le stesse sarebbero emerse.
Anzi, dalla lettura della sentenza impugnata, risulta che la
difesa ha espressamente rinunciato proprio all'audizione di
Pi.Ra., soggetto dalla stessa indicato quale dirigente
responsabile della sicurezza sul lavoro nel settore
scolastico e, di conseguenza, della contestata omissione.
La lamentata mancanza di motivazione della sentenza
impugnata risulta, dunque, insussistente
(Corte di Cassazione, Sez. II penale,
sentenza 05.07.2017 n. 32358). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
illegittima la proroga del termine di inizio e/o fine lavori
motivata per "sopravvenute difficoltà economiche
familiari non prevedibili al momento del rilascio del titolo
autorizzativo".
In base all'art. 15 del D.P.R. n. 380/2001, i termini entro
i quali i lavori si devono iniziare o concludere possono
esser prorogati con provvedimento motivato solo per fatti
sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso
di costruire o in considerazione della mole dell'opera da
realizzare o di particolari sue caratteristiche
tecnico-costruttive o di difficoltà tecnico-esecutive emerse
successivamente all'inizio dei lavori.
Nel caso di specie la proroga del permesso di costruire è
stata richiesta e concessa in relazione a "sopravvenute
difficoltà economiche familiari non prevedibili al momento
del rilascio del titolo autorizzativo".
Si tratta all'evidenza di fattispecie non prevista dal
citato articolo 15 del d.p.r. n. 380 del 2001, con
conseguente illegittimità del provvedimento impugnato.
--------------
... per l'annullamento, del permesso di costruire n. P12/14,
prot. n. 1331 del 26.03.2015, rilasciato dal Comune di
San Giorgio delle Pertiche alla signora Or.Pa., con
il quale è stato autorizzato un intervento di "ricostruzione
edificio parzialmente demolito in zona A sull'immobile
distinto al N.C.T. Foglio 17, mappale 1161"; del provvedimento prot. n. 3239 del 15.03.2016, con il quale il Comune di
San Giorgio delle Pertiche ha accordato alla signora Pa.
una proroga di due anni (fino al 26.03.2018) per l'inizio
dei lavori;
...
In base all'art. 15 del D.P.R. n. 380/2001, i termini entro
i quali i lavori si devono iniziare o concludere possono
esser prorogati con provvedimento motivato solo per fatti
sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso
di costruire o in considerazione della mole dell'opera da
realizzare o di particolari sue caratteristiche
tecnico-costruttive o di difficoltà tecnico-esecutive emerse
successivamente all'inizio dei lavori.
Nel caso di specie la proroga del permesso di costruire è
stata richiesta e concessa in relazione a "sopravvenute
difficoltà economiche familiari non prevedibili al momento
del rilascio del titolo autorizzativo".
Si tratta all'evidenza di fattispecie non prevista dal
citato articolo 15 del d.p.r. n. 380 del 2001, con
conseguente illegittimità del provvedimento impugnato (per
l'illegittimità di provvedimenti di proroga motivati in
relazione a situazioni di crisi economica vedasi Consiglio
di Stato IV n. 1520 del 2016).
L'annullamento, in accoglimento del ricorso, del
provvedimento con cui è stato prorogato il termine di inizio
dei lavori, determina l'improcedibilità del ricorso nella
parte in cui è stato impugnato il permesso di costruire,
rilasciato in data 26.03.2015, il cui termine di inizio
lavori è stato prorogato.
Infatti i lavori, non essendo stati iniziati entro l'anno
dal rilascio del permesso di costruire originario ossia
entro l'anno a decorrere dal 26.03.2015, non possono più
essere eseguiti
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 05.07.2017 n. 652 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Persistenza dell’interesse ad impugnare l’ammissione di un
concorrente se sopraggiunge l’aggiudicazione della gara –
Specificazione delle parti del servizio in termini
percentuali di esecuzione ascritte a ciascuna impresa
raggruppanda.
---------------
•
Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione
concorrente in gara – Impugnazione ex art. 120, comma 2-bis,
c.p.a. – Aggiudicazione disposta in corso di causa –
Improcedibilità del ricorso avverso l’ammissione.
•
Contratti della
Pubblica amministrazione - Raggruppamento temporaneo di
imprese – Indicazione parti che ciascun operatore eseguirà –
Art. 48, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016 – Obbligo – Modalità
– Individuazione.
•
L’avvenuta aggiudicazione in favore di un
concorrente viene ad incidere sulla persistenza
dell’interesse a ricorrere avverso le ammissioni altrui;
pertanto, è improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse il ricorso proposto ex art. 120, comma 2-bis,
c.p.a. avverso gli atti di ammissione dei concorrenti alla
gara da parte di un operatore che, all’esito
dell’espletamento della gara stessa, risulta nel frattempo
collocato in seconda posizione (1).
•
L’operatore economico che partecipa alla gara in
R.T.I. deve indicare la parte dei servizi che eseguirà ai
sensi dell’art. 48, comma 4, d.lgs. 18.04.2016, n. 50,
obbligo da ritenersi assolto sia in caso di indicazione, in
termini schiettamente descrittivi, delle singole parti del
servizio da cui sia evincibile il riparto di esecuzione tra
le imprese associate, sia, in caso di indicazione
quantitativa, in termini percentuali (2).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che anche a ritenere ininfluente, sotto
il profilo della permanenza del particolare interesse al
ricorso ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a., la circostanza
dell’intervenuta aggiudicazione, essendo tale relativo rito
specialissimo finalizzato a definire in modo definitivo la
platea dei soggetti ammessi alla gara, cristallizzandone la
situazione al fine della rapida costituzione di certezze
giuridiche poi incontestabili sui protagonisti della gara (Cons.
St., sez. V, ord., 14.03.2017, n. 1059), pur
tuttavia detto particolare interesse al ricorso non può,
anche durante il processo, essere valutato in modo avulso
dalla realtà storica costituita dalla graduatoria formulata,
e dunque nell’indifferenza della posizione ivi conseguita
dalle singole imprese partecipanti alla gara.
Ciò in quanto la distinzione e la separatezza del giudizio
ex art. 120, commi 2-bis e 6-bis, rispetto a quello
ordinario del medesimo art. 120 non contempla per il giudice
del primo un divieto di prendere in considerazione i fatti
storici medio tempore verificatisi e risultanti dai suoi
atti processuali, come, appunto, l’avvenuta aggiudicazione
della gara e gli effetti di eventuali impugnazioni di
quest’ultima. Ne consegue che detti atti, pur non formanti
oggetto del medesimo rito specialissimo, si riflettono
parzialmente sulla persistenza dell’interesse a ricorrere in
quest’ultimo.
(2)
Cons. St., A.P., 05.07.2012, n. 26 (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 04.07.2017 n. 3257
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Illegittimità del diniego di accesso agli esposti.
---------------
Accesso ai documenti – Diritto – Esposto – Diniego –
Illegittimità.
E’ illegittimo il diniego di accesso
ad un esposto a seguito del quale è stato attivato un
procedimento di verifica o ispettivo, e ciò in quanto colui
il quale subisce tale procedimento ha un interesse
qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti
amministrativi utilizzati nell'esercizio del potere di
vigilanza, a cominciare dagli atti di iniziativa e di
preiniziativa, quali, appunto, denunce, segnalazioni o
esposti (1).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che il privato, che subisce un
procedimento di controllo, vanta un interesse qualificato a
conoscere tutti i documenti utilizzati per l'esercizio del
potere -inclusi, di regola, gli esposti e le denunce che
hanno attivato l'azione dell'autorità- suscettibili per il
loro particolare contenuto probatorio di concorrere
all'accertamento di fatti pregiudizievoli per il denunciato.
Infatti, l'esposto, una volta pervenuto nella sfera di
conoscenza dell'amministrazione, costituisce un documento
che assume rilievo procedimentale come presupposto di
un'attività ispettiva o di un intervento in autotutela, e di
conseguenza il denunciante perde consapevolmente e
scientemente il “controllo” e la disponibilità sulla
propria segnalazione: quest’ultima, infatti, uscita dalla
sfera volitiva del suo autore diventa un elemento del
procedimento amministrativo, come tale nella disponibilità
dell'amministrazione.
La sua divulgazione, pertanto, non è preclusa da esigenze di
tutela della riservatezza, giacché il predetto diritto non
assume un'estensione tale da includere il diritto
all'anonimato di colui che rende una dichiarazione che
comunque va ad incidere nella sfera giuridica di terzi (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 03.07.2017 n. 898
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
Espone la ricorrente di essere venuta a conoscenza di
almeno due esposti inviati al Comune di Sorano da soggetti
privati e aventi ad oggetto fatti e contestazioni
riguardanti la propria attività.
Venivano perciò presentate al Comune due distinte richieste
di accesso agli atti, l’una in data 11/11/2016 e l’altra in
data 15/11/2016, al fine di prendere visione ed ottenere
copia di detti documenti onde, eventualmente, esercitare il
proprio diritto alla interlocuzione.
Con nota del 31.01.2017 l’amministrazione riscontrava
negativamente le suddette istanze di accesso in quanto i
sottoscrittori degli esposti, previamente informati,
avrebbero espresso la propria opposizione e tale diniego
veniva condiviso nella motivazione del provvedimento giacché
“il diritto di accesso si limita agli eventuali verbali
di accertamento conseguenti alle attività ispettive la cui
titolarità già appartiene alla P.A. e non agli
esposti–denunce, anche per l’evidente esigenza di tutela
della riservatezza dei soggetti interessati ”.
Avverso tali atti insorgeva la società in intestazione
chiedendone l’annullamento, oltre all’accertamento del
proprio diritto di prendere visione ed estrarre copia
integrale della documentazione richiesta con la
consequenziale condanna del Comune di Sorano all'ostensione
dei documenti.
L’accoglimento del ricorso veniva affidato ai motivi che
seguono:
- Violazione dei principi di imparzialità e di trasparenza
dell'attività amministrativa (articolo 97 della
Costituzione). Violazione degli articoli 22 e 24 della L. n.
241/1990.
Il Comune di Sorano non si costituiva in giudizio.
Nella camera di consiglio del 12.06.2017 il ricorso veniva
trattenuto per la decisione.
Il ricorso è fondato.
Va premesso che
il diritto di accesso agli
atti della P.A. non costituisce una pretesa meramente
strumentale alla difesa in giudizio, essendo in realtà
diretto al conseguimento di un autonomo bene della vita,
così che la domanda giudiziale tesa ad ottenere l'accesso ai
documenti è indipendente non solo dalla sorte del processo
principale nel quale venga fatta valere l'anzidetta
situazione, ma anche dall'eventuale infondatezza o
inammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente,
una volta conosciuti gli atti, potrebbe proporre
(Cfr. Cons. St., sez. V, 23.02.2010 n. 1067, id., sez. VI,
12.04.2005 n. 1680 ; id., sez. VI, 21.09.2006 n. 5569).
Invero, le disposizioni in materia di
diritto di accesso mirano a coniugare l'esigenza della
trasparenza e dell'imparzialità dell'Amministrazione -nei
termini di cui all'art. 22, l. n. 241 del 1990- con il
bilanciamento da effettuare rispetto ad interessi
contrapposti e fra questi -specificamente- quelli dei
soggetti "individuati o facilmente individuabili"-
che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il
loro diritto alla riservatezza.
Il successivo art. 24 della medesima legge,
che disciplina i casi di esclusione dal diritto in
questione, prevede al comma 6 i casi di possibile
sottrazione all'accesso in via regolamentare e fra questi
-al punto d)- quelli relativi a documenti che riguardino la
vita privata o la riservatezza di persone fisiche, di
persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con
particolare riferimento agli interessi epistolare,
sanitario, professionale, finanziario, industriale di cui
siano in concreto titolari.
Ne segue che la mera e non meglio motivata
espressione del diniego da parte dei controinteressati non
può costituire ostacolo all’esplicazione del diritto in
parola.
Per altro verso si è avuto modo di affermare che
in ragione dell'ampia nozione di “documento
amministrativo” di cui all'art. 22 l. n. 241 del 1990,
ben può l'accesso investire atti formati e provenienti da
soggetti privati, purché gli stessi siano detenuti
stabilmente dalla p.a. per l'espletamento delle proprie
attività istituzionali.
In particolare, il privato che subisce un procedimento di
controllo vanta un interesse qualificato a conoscere tutti i
documenti utilizzati per l'esercizio del potere —inclusi, di
regola, gli esposti e le denunce che hanno attivato l'azione
dell'autorità— suscettibili per il loro particolare
contenuto probatorio di concorrere all'accertamento di fatti
pregiudizievoli per il denunciato.
Infatti, l'esposto, una volta pervenuto nella sfera di
conoscenza dell'amministrazione, costituisce un documento
che assume rilievo procedimentale come presupposto di
un'attività ispettiva o di un intervento in autotutela, e di
conseguenza il denunciante perde consapevolmente e
scientemente il “controllo” e la disponibilità sulla
propria segnalazione: quest’ultima, infatti, uscita dalla
sfera volitiva del suo autore diventa un elemento del
procedimento amministrativo, come tale nella disponibilità
dell'amministrazione. La sua divulgazione, pertanto, non è
preclusa da esigenze di tutela della riservatezza, giacché
il predetto diritto non assume un'estensione tale da
includere il diritto all'anonimato di colui che rende una
dichiarazione che comunque va ad incidere nella sfera
giuridica di terzi
(Cons. St., sez. V, 19.05.2009 n. 3081; TAR Sicilia,
Catania, sez. III, 11.02.2016 n. 396).
Né il nostro ordinamento, ispirato a
principi democratici di trasparenza, imparzialità e
responsabilità ammette la possibilità di denunce segrete:
sicché colui il quale subisce un procedimento di controllo o
ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere
integralmente tutti i documenti amministrativi utilizzati
nell'esercizio del potere di vigilanza, a cominciare dagli
atti di iniziativa e di preiniziativa, quali, appunto,
denunce, segnalazioni o esposti
(TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 12.07.2016 n. 980, TAR
Campania, sez. VI, 04.02.2016 n. 639).
Ne segue, per le ragioni esposte, che il ricorso va accolto
annullando gli atti impugnati e, per l’effetto, condannando
il Comune di Sorano a consentire alla società ricorrente,
nel termine massimo di trenta giorni dalla notificazione
della sentenza, l’accesso e l’estrazione di copia dei
documenti richiesti. |
LAVORI PUBBLICI:
L’Adunanza plenaria si pronuncia sulla conservazione
dell’attestazione sull’attestazione Soa in caso di cessione
di ramo di azienda.
---------------
•
Processo amministrativo – Intervento – Ad adiuvandum -
Interventore parte in un giudizio in cui venga in rilievo
una quaestio iuris analoga – Inammissibilità.
•
Contratti della Pubblica amministrazione – Qualificazione –
Cessione di ramo di azienda – Perdita automatica della
qualificazione – Art. 76, comma 11, d.P.R. n. 207 del 2010 –
Esclusione.
•
Contratti della Pubblica amministrazione – Qualificazione –
Cessione di ramo di azienda – Mantenimento requisiti
qualificazione della cedente – Accertamento positivo della
SOA – Conseguenza - Conservazione dell’attestazione senza
soluzione di continuità
•
Non è sufficiente a consentire l’intervento ad adiuvandum la
sola circostanza per cui il proponente tale istanza sia
parte in un giudizio in cui venga in rilievo una quaestio
iuris analoga a quella divisata nell’ambito del giudizio
principale; laddove si ammettesse la possibilità di spiegare
l’intervento volontario a fronte della sola analogia fra le
quaestiones iuris controverse nei due giudizi, si finirebbe
per introdurre nel processo amministrativo una nozione di
‘interesse’ del tutto peculiare e svincolata dalla tipica
valenza endoprocessuale connessa a tale nozione e
potenzialmente foriera di iniziative anche emulative, in
toto scisse dall’oggetto specifico del giudizio cui
l’intervento si riferisce (1).
•
L’art. 76, comma 11, d.P.R. 05.10.2010, n. 207 deve essere
interpretato nel senso che la cessione del ramo d’azienda
non comporta automaticamente la perdita della
qualificazione, occorrendo procedere a una valutazione in
concreto dell’atto di cessione, da condursi sulla base degli
scopi perseguiti dalle parti e dell’oggetto del
trasferimento (2).
•
In ipotesi di cessione di un ramo d’azienda,
l’accertamento positivo effettuato dalla SOA, su richiesta o
in sede di verifica periodica, in ordine al mantenimento dei
requisiti di qualificazione da parte dell’impresa cedente,
comporta la conservazione dell’attestazione da parte della
stessa senza soluzione di continuità (3).
---------------
(1)
Cons. St., A.P., 04.11.2016, n. 23.
Ha aggiunto l’Alto Consesso che il vincolo nascente dalle
pronunce della Plenaria non è assoluto (art. 99, comma 3,
c.p.a.) e che, comunque, l’assenza di un meccanismo
procedurale che preveda la costituzione nei giudizi dinanzi
alla Plenaria per coloro i quali, coinvolti in controversie
analoghe, possano essere pregiudicati dalla decisione di
diritto, è il frutto di una scelta discrezionale del
legislatore, che tiene conto anche di esigenze di efficienza
processuale.
(2) Le questioni -rimesse all’Adunanza plenaria dalla
sez. III con ord. 13.03.2017, n. 1152– erano:
a) se, ai sensi dell’art. 76, comma 11, d.P.R. 05.10.2010,
n. 207 debba affermarsi il principio per il quale, in
mancanza di nuova richiesta di attestazione SOA, la cessione
del ramo d’azienda comporti sempre, in virtù dell’effetto
traslativo, il venir meno della qualificazione, o piuttosto,
se debba prevalere la tesi che, alla luce di una valutazione
in concreto, limita le fattispecie di cessione, contemplate
dalla disposizione, solo a quelle che, in quanto
suscettibili di da dar vita ad un nuovo soggetto e di
sostanziarne la sua qualificazione, presuppongono che il
cedente se ne sia definitivamente spogliato, ed invece
esclude le diverse fattispecie di cessione di parti del
compendio aziendale, le quali, ancorché qualificate dalle
parti come trasferimento di “rami aziendali”, si
riferiscano, in concreto, a porzioni prive di autonomia
funzionale e risultano pertanto inidonee a consentire al
soggetto cessionario di ottenere la qualificazione;
b) se l’accertamento effettuato dalla SOA, su richiesta o in
sede di verifica periodica, valga sempre e solo per il
futuro, oppure se, nei casi in cui l’organismo SOA accerti
ex post il mantenimento dei requisiti speciali in
capo al cedente, nonostante l’avvenuta cessione di una parte
del compendio aziendale, l’attestazione possa anche valere
ai fini della conservazione della qualificazione senza
soluzione di continuità.
Con riferimento alla prima questione l’Adunanza plenaria ha
ricordato i due diversi orientamenti della giurisprudenza
del giudice amministrativo.
Secondo un primo orientamento (c.d. tesi “formalistica”,
perché rigidamente ancorata al principio del consenso
traslativo ed alla concezione astratta della causa
contrattuale:
Cons. St., sez. IV, 29.02.2016, n. 811,
n. 812 e
n. 813; id.,
sez. III, 07.05.2015, n. 2296; id.
12.11.2014, n. 5573), nel caso di cessione di
ramo d’azienda il cedente perde automaticamente le
qualificazioni, ancorché resti “per avventura” in
dotazione di requisiti sufficienti per una determinata
qualificazione, poiché ciò non lo esonera dal chiedere a una
Società Organismo di Attestazione l’attestazione di
qualificazione che, a norma dell’art. 60, comma 2, d.P.R. n.
207 del 2010, costituisce condizione necessaria e
sufficiente per la dimostrazione dell’esistenza dei
requisiti di capacità tecnica e finanziaria ai fini
dell’affidamento di lavori pubblici.
Secondo questo orientamento non potrebbe darsi rilievo alla
conferma ex post dei requisiti operati dalla SOA in sede di
verifica triennale, poiché essa giammai potrebbe avere un
effetto sanante, stante l’effetto traslativo della cessione.
Al contempo l’importanza e l’entità del compendio ceduto non
potrebbe essere accertata mediante verifica ex post,
bensì dovrebbe essere necessariamente sottoposta a specifica
valutazione ex ante da parte della SOA a mezzo del
procedimento ex art. 76, comma 11, d.P.R. n. 207 del 2010.
Un secondo orientamento (c.d. tesi “sostanzialistico”
–alla quale aderisce l’ordinanza di rimessione all’Adunanza
plenaria– perché si fonda su un approccio concreto al
contenuto negoziale e sulla vincolatività della conferma
dell’attestazione SOA:
Cons. St., sez. III, 09.01.2017, n. 30; id.,
sez. V, 18.10.2016, n. 4347 e
n. 4348; id.
17.12.2015, n. 5706) ha invece affermato che
occorre escludere in linea di principio a danno del cedente
qualsiasi automatismo decadenziale conseguente alla cessione
d’azienda, occorrendo aver riguardo alla causa in concreto
del negozio di cessione e al sottostante regolamento di
interessi voluto dalle parti, in tutta la sua ampiezza,
complessità e particolarità, per determinare se la cessione
dei beni aziendali comporti, o meno, la perdita dei
requisiti di cui alle attestazioni SOA in capo alla cedente.
L’Adunanza Plenaria ha condiviso la tesi sostanzialistica,
ancorché per argomenti in parte diversi da quelli
richiamati.
Ha, in particolare, affermato che la facoltà, prevista
dall’art. 76, comma 11, secondo periodo, d.P.R. n. 207 del
2010, per l’impresa cedente di chiedere una nuova
attestazione SOA per i requisiti oggetto di trasferimento
non può essere trasformata nella previsione della automatica
decadenza all’atto della cessione, tanto più che essa non
sarebbe sufficiente ad evitare il venir meno della
qualificazione durante la gara, atteso che la richiesta di
nuova attestazione può avvenire “esclusivamente sulla
base dei requisiti acquisiti successivamente alla cessione
del complesso aziendale o del suo ramo”.
Ne discende che in caso di trasferimento del ramo d’azienda
non sono automaticamente trasferiti anche i requisiti di cui
all’art. 79, comma 1, d.P.R. n. 207 del 2010. In
particolare, è ben possibile che la cessione di parti
dell’azienda, ancorché qualificate come ramo aziendale, si
riferisca a porzioni prive di autonomia funzionale nel
contesto dell’impresa e comunque non significative, quindi
non sia tale da generare la perdita in capo al cedente (e il
correlato acquisto in capo al cessionario) dei requisiti di
qualificazione. Se non sono trasferiti i requisiti di
qualificazione, non possono esserlo le qualificazioni che ad
essi si riferiscono.
(3) Con riferimento alla seconda questione l’Adunanza plenaria ha
preliminarmente affermato che la soluzione del primo quesito
rende necessaria la riperimetrazione del secondo: se,
infatti, nessun automatismo decadenziale è previsto nel caso
di cessione del ramo d’azienda, il problema di stabilire
l’efficacia (ex nunc o ex tunc) della positiva
verifica posteriore operata dalla SOA assume diverso
significato.
Ha tra l’altro chiarito l’Alto Consesso che la verifica
operata dall’organismo attestatore ha un’efficacia
probatoria e non già sostanziale e che gli atti di
accertamento hanno intrinseca valenza retroattiva, perché
dichiarano una realtà giuridica preesistente. Ne discende
che postulare l’efficacia ex nunc della verifica
positiva da parte dell’organismo SOA sarebbe in contrasto
con la sua natura.
Essa, inoltre, darebbe luogo al paradosso di ritenere che
l’attestazione, pur valida, non sia utile a conservare senza
soluzione di continuità la qualificazione, ammettendosi
dunque una sorta di effetto intermittente, del tutto anomalo
(Consiglio
di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 03.07.2017 n. 3
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Anche gli interventi di ristrutturazione costituiscono
“nuova costruzione”.
Rientrano nella nozione di nuova costruzione, di
cui all'art. 41-sexies della legge 17.08.1942 n. 1150,
anche ai fini dell'applicabilità dell'articolo 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 per il computo delle distanze legali
dagli altri edifici, non solo l'edificazione di un manufatto
su un'area libera, ma anche gli interventi di
ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche
apportate al volume ed alla collocazione del fabbricato,
rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente
diversa da quella preesistente.
---------------
2. - Con il secondo motivo di ricorso si deduce la
violazione degli artt. 112 e segg. c.p.c.. in relazione
all'art. 360, comma 1, nn. 4 e 5.
Secondo parte ricorrente,
la Corte d'appello ha erroneamente indicato che le parti, in
primo grado, non avrebbero allegato che l'opera dei
convenuti integrasse gli estremi di una "nuova costruzione"
ma si sarebbero limitate a qualificare il fatto di causa
come "ampliamento e ristrutturazione", allegando la
circostanza della nuova costruzione per la prima volta
soltanto nel giudizio d'appello, risultando così preclusa in
quanto elemento nuovo.
Al contrario, si deduce che la
fattispecie della radicale trasformazione era stata già
indicata nell'atto di citazione, avendo il fabbricato della
controparte subito una modificazione nella volumetria, con
l'aumento della sagoma di ingombro, in modo da incidere
sulle distanze tra gli edifici esistenti.
3. - Con il terzo motivo di ricorso si prospetta la
violazione e/o falsa applicazione dell'art. 873 c.c.,
dell'art. 9 D.M. n. 1444/1968 e dell'art. 22 delle N.T.A.
del Piano Regolatore del Comune di Ghedi, in materia di
distanze tra edifici e tra pareti finestrate (art. 360,
comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c.).
In particolare, si deduce che le lamentate modificazioni
strutturali non potevano in alcun modo essere considerate
come una semplice ristrutturazione, bensì avrebbero dovuto
essere ritenute come nuova costruzione, con il conseguente
dovere di rispettare le distanze previste dal D.M. n.
1444/1968 per l'apertura delle vedute.
4. - Il secondo ed il terzo motivo, da
esaminare insieme e con priorità, sono fondati.
Infatti,
rientrano nella nozione di nuova costruzione, di
cui all'art. 41-sexies della legge 17.08.1942 n. 1150,
anche ai fini dell'applicabilità dell'articolo 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 per il computo delle distanze legali
dagli altri edifici, non solo l'edificazione di un manufatto
su un'area libera, ma anche gli interventi di
ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modifiche
apportate al volume ed alla collocazione del fabbricato,
rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente
diversa da quella preesistente
(così, Cass. n. 5741/2008, che
nella fattispecie al suo esame ha ritenuto legittima
l'applicazione delle distanze dettata dalla suddetta
disposizione ministeriale per i nuovi edifici, perché il
confinante fabbricato era stato oggetto oltre che di
concessione di ristrutturazione, anche di ampliamento, e
ricostruito in posizione diversa da quella preesistente; in
senso conforme v. Cass. nn. 9637/2006 e 14128/2000).
La Corte distrettuale non si è attenuta né a tale principio
di diritto, né alla corretta interpretazione del divieto del
novum in appello, lì dove non ha considerato che rispetto
alla radicale ristrutturazione dell'immobile di proprietà
Ar.-Pe., sin dall'inizio lamentata dall'attore (v.
pag. 3 della sentenza d'appello), l'affermazione che il
relativo manufatto edilizio costituisse una nuova
costruzione non introduce in causa un fatto storico nuovo e
diverso, ma qualifica giuridicamente quello originario ed
immutato ai tini dell'applicazione ad esso della disciplina
in materia di distanze.
E poiché la qualificazione giuridica
dei fatti tempestivamente allegati non soggiace a
preclusioni di sorta, perché esprime una difesa tecnica e
non una deduzione assertiva, la ritenuta tardività di tale
difesa costituisce falsa applicazione del divieto dei uova
in appello.
5. - L'accoglimento del secondo e del terzo motivo assorbe
l'esame del primo motivo, inerente al regolamento delle
spese (Corte di Cassazione,
Sez. II civile,
sentenza 30.06.2017 n. 16268). |
APPALTI:
Incompatibilità del Presidente della commissione di gara che
ha sottoscritto l’Avviso pubblico di indizione della
procedura.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Commissione di
gara – Incompatibilità – Presidente che ha approvato Avviso
pubblico di indizione della gara – E’ incompatibile.
E’ illegittima la composizione della
commissione di gara il cui presidente ha approvato e
sottoscritto l’Avviso pubblico di indizione della procedura,
ponendosi tale nomina in violazione dell’art. 77, comma 4,
d.lgs. 18.04.2016, n. 50, secondo cui i commissari
componenti la Commissione giudicatrice non devono aver
svolto né possono svolgere altra funzione o incarico tecnico
o amministrativo relativamente al contratto del cui
affidamento si tratta (1).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che la preventiva redazione dell’atto
inditivo della gara è tale da determinare la situazione di
incompatibilità che la norma sopra richiamata ha inteso
scongiurare. E’ infatti evidente la finalità, perseguita
dall’art. 77, comma 4, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, di evitare
che uno dei componenti della Commissione, proprio per il
fatto di avere svolto in precedenza attività strettamente
correlata al contratto del cui affidamento si tratta, non
sia in grado di esercitare la delicatissima funzione di
giudice della gara in condizione di effettiva imparzialità e
di terzietà rispetto agli operatori economici in
competizione tra di loro (TAR
Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 29.06.2017 n. 1074
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è meritevole di accoglimento con riferimento
alla censura di illegittima composizione della Commissione
di aggiudicazione della procedura ad evidenza pubblica in
esame.
Ed invero, malgrado sia stata prospettata una pluralità di
censure, rileva il Collegio che la mancata graduazione dei
motivi di ricorso determina la possibilità, per il
Giudicante, di accoglimento del gravame limitatamente ad un
profilo di criticità ritenuto assorbente per ragioni di
economia processuale (v. Ad. Plen. Cons. St. n. 5/2015)
Con la sopra citata pronuncia dell’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato si è, infatti, sancito il principio di
diritto in forza del quale <<nel giudizio impugnatorio di
legittimità in primo grado, non vale a graduare i motivi di
ricorso o le domande di annullamento il mero ordine di
prospettazione degli stessi>>; e, ancora, che <<nel
giudizio impugnatorio di legittimità in primo grado, in
mancanza di rituale graduazione dei motivi e delle domande
di annullamento, il giudice amministrativo, in base al
principio dispositivo e di corrispondenza fra chiesto e
pronunciato, è obbligato ad esaminarli tutti, salvo che non
ricorrano i presupposti per disporne l’assorbimento nei casi
ascrivibili alle tre tipologie precisate in motivazione
(assorbimento per legge, per pregiudizialità necessaria e
per ragioni di economia>>.
Passando dunque alla disamina in concreto della censura
concernente l’illegittima composizione della Commissione
giudicatrice, si osserva che
nella
fattispecie portata al vaglio del G.A. si è effettivamente
consumata la violazione dell’art. 77, comma 4, del D.Lgs.
18.04.2016, n. 50.
La disposizione richiamata stabilisce che “i
commissari non devono aver svolto né possono svolgere
alcun’altra funzione o incarico tecnico o amministrativo
relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”.
E’ invece emerso, come correttamente dedotto dalla difesa
dell’associazione, che il Presidente della Commissione,
dottor Ma., nominato in tale veste con determina
dirigenziale n. 642 del 15.09.2016 ha redatto, approvato e
sottoscritto l’Avviso Pubblico di indizione della gara, di
cui alla determina n. 423/2016 del 22.06.2016, e tanto nella
distinta veste di Dirigente al Patrimonio.
La preventiva redazione dell’atto inditivo
della gara controversa è tale da determinare la situazione
di incompatibilità che la norma sopra richiamata ha inteso
scongiurare.
E’ infatti evidente la finalità, perseguita
dall’art. 77, comma 4 citato, di evitare che uno dei
componenti della Commissione, proprio per il fatto di avere
svolto in precedenza attività strettamente correlata al
contratto del cui affidamento si tratta, non sia in grado di
esercitare la delicatissima funzione di giudice della gara
in condizione di effettiva imparzialità e di terzietà
rispetto agli operatori economici in competizione tra di
loro.
Ritiene il Collegio di dover precisare, sul punto, che
il principio di imparzialità dei componenti del
seggio di gara va declinato nel senso di garantire loro la
cd virgin mind, ossia la totale mancanza di un
pregiudizio nei riguardi dei partecipanti alla gara stessa.
Tale pregiudizio può essere agevolmente
rintracciato in un caso come quello qui in esame, posto che
la predisposizione, da parte del Presidente della
Commissione di gara, addirittura delle c.d. regole del gioco
può influenzare la successiva attività di arbitro della
gara.
Dall’accertamento del suddetto vizio di composizione della
gara deriva l’illegittimità dell’aggiudicazione definitiva,
atteso il nesso di consequenzialità che avvince gli atti
impugnati, per come sottoposti allo scrutinio del G.a..
Il ricorso è dunque accolto alla stregua delle suesposte
argomentazioni, con assorbimento delle ulteriori censure e
con conseguente obbligo di rinnovazione della gara a partire
dalla presentazione delle offerte (sul punto, Tar Lecce, II
Sezione, 1040/2016).
Va anche annullato il contratto nelle more eventualmente
stipulato tra l’Amministrazione e l’Ati aggiudicataria. |
ATTI AMMINISTRATIVI: Al
fine di ravvisare il silenzio-inadempimento
dell'amministrazione, deve essere riscontrato il duplice
presupposto dell’omessa conclusione del procedimento
amministrativo entro il termine astrattamente previsto per
il procedimento del tipo evocato con l'istanza, e
dell’inottemperanza a un preciso obbligo di provvedere
sull’istanza del privato.
---------------
Rilevato, sotto il profilo giuridico:
- che, al fine di ravvisare il silenzio-inadempimento
dell'amministrazione, deve essere riscontrato il duplice
presupposto dell’omessa conclusione del procedimento
amministrativo entro il termine astrattamente previsto per
il procedimento del tipo evocato con l'istanza, e
dell’inottemperanza a un preciso obbligo di provvedere
sull’istanza del privato (cfr. sentenza di questo TAR, sez.
II – 23/03/2016 n. 442)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 23.06.2017 n. 843 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTIAMMINISTRATIVI -
URBANISTICA: Per
consolidata opinione, il silenzio-rifiuto può formarsi
esclusivamente in ordine all’inerzia dell'amministrazione su
una domanda intesa ad ottenere l'adozione di un
provvedimento ad emanazione vincolata ma di contenuto
discrezionale e, quindi, necessariamente incidente su
posizioni di interesse legittimo, e non già nell'ipotesi in
cui viene chiesto il soddisfacimento di posizioni aventi
natura sostanziale di diritti.
---------------
La pretesa sostanziale avanzata nel presente giudizio ha per
oggetto posizioni sostanziali originate dalla convenzione,
il cui esercizio non può però essere utilmente imposto da un
terzo.
Sul punto, è meritevole di condivisione quanto affermato da
TAR Sardegna per cui “… l’ente pubblico è tenuto a tanto in
forza della convenzione di lottizzazione stipulata a suo
tempo con la lottizzante, nonché sulla base del “modello
urbanistico” prefigurato dall’art. 28 della legge della
legge 17.08.1942, n. 1150, per cui la pretesa in esame è a
tutti gli effetti ascrivibile ad un “rapporto di diritto
pubblico” e rientra così nella giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo prevista dall’art. 11 della legge
07.08.1990, n. 241.
In altri termini, la posizione del Comune nei confronti dei
terzi si traduce nel dovere di provvedere all’esercizio dei
diritti e poteri derivanti dalla convenzione urbanistica
finalizzati all’adempimento degli obblighi contrattuali,
anche in via coattiva, ovvero all’esercizio delle garanzie
fideiussorie previste e delle pretese risarcitorie per gli
inadempimenti accertati; posizione, in cui il dato centrale
è rappresentato dalla qualificazione in senso pubblicistico,
il che consente anche di identificare la situazione
giuridica dei ricorrenti in una correlativa posizione di
interesse legittimo.
---------------
E' vero che <<la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha
avuto modo di affermare che “l'obbligazione di provvedere
alla realizzazione delle opere di urbanizzazione assunta da
colui che stipula una convenzione edilizia è propter rem,
nel senso che essa va adempiuta non solo da colui che tale
convenzione ha stipulato, ma anche da colui, se soggetto
diverso, che richiede la concessione edilizia; ovvero nel
senso che colui che realizza opere di trasformazione
edilizia ed urbanistica, valendosi della concessione
edilizia rilasciata al suo dante causa, ha nei confronti del
Comune gli stessi obblighi che gravano sull'originario
concessionario, ed è con quest'ultimo solidalmente obbligato
per il pagamento degli oneri di urbanizzazione”.
Per questa via, la Suprema Corte è pervenuta alla
conclusione che “La natura reale dell'obbligazione in esame
riguarda, dunque, i soggetti che stipulano la convenzione,
quelli che richiedono la concessione, e quelli che
realizzano l'edificazione avvalendosi della concessione
rilasciata al loro dante causa” >>.
Sicché, tale impostazione non interferisce con la
qualificazione dei ricorrenti come “soggetti terzi”, in
posizione defilata rispetto alla convenzione di
lottizzazione e al deposito della garanzia fideiussoria.
Invero, il meccanismo dell’ambulatorietà passiva
dell’obbligazione non trasforma ex se gli aventi causa dei
lottizzanti in “parti” a pieno titolo del rapporto
convenzionale, ma li rende semplicemente corresponsabili
nell’esecuzione degli impegni presi.
In proposito, è stato anche puntualizzato che l’adempimento
dell'obbligazione di realizzare le opere di urbanizzazione
(primaria e secondaria), assunta dal privato nei confronti
del Comune con la convenzione di lottizzazione (ai sensi
della L. 765 del 1967), può essere preteso in via
giurisdizionale e coattiva dal Comune, non invece dagli
aventi causa dal lottizzatore resisi acquirenti di singoli
lotti di terreno edificati, stante la loro estraneità alla
convenzione.
In ogni caso e in presenza di indirizzi giurisprudenziali
non uniformi, l’art. 2 della convenzione urbanistica
sottoscritta il 07/09/2007 prevede espressamente che in caso
di trasferimento, parziale o totale, delle aree o degli
immobili oggetto della convenzione, “… le garanzie prestate
dagli attuatori privati non vengono meno e non possono
essere estinte o ridotte, se non dopo che il successivo
avente causa a qualsiasi titolo abbia prestato a sua volta
idonee garanzie in sostituzione od integrazione di quelle
precedenti”.
---------------
Ritenuto:
- che detto ordine di idee non merita condivisione;
- che il rito del silenzio, di cui all’art. 117 c.p.a., mira ad
apprestare una tutela rispetto al mancato esercizio di
potestà pubbliche e, quindi, al fine di tutelare situazioni
di interesse legittimo;
- che, per consolidata opinione, il silenzio-rifiuto può formarsi
esclusivamente in ordine all’inerzia dell'amministrazione su
una domanda intesa ad ottenere l'adozione di un
provvedimento ad emanazione vincolata ma di contenuto
discrezionale e, quindi, necessariamente incidente su
posizioni di interesse legittimo, e non già nell'ipotesi in
cui viene chiesto il soddisfacimento di posizioni aventi
natura sostanziale di diritti (TAR Puglia Bari, sez. II –
20/02/2017 n. 174, che richiama Consiglio di Stato, sez. V –
27/03/2013 n. 1754);
- che la pretesa sostanziale avanzata nel presente giudizio ha per
oggetto posizioni sostanziali originate dalla convenzione,
il cui esercizio non può però essere utilmente imposto da un
terzo;
- che i ricorrenti –seppure facendo riferimento alle previsioni di
una convenzione urbanistica sottoscritta nel 2007– non sono
parti contraenti dell’accordo, ma rivestono la qualità di
soggetti terzi che mirano a stimolare l’esercizio di poteri
(anche autoritativi) di attuazione della convenzione
urbanistica;
- che, rispetto ad essi, la situazione giuridica sottostante è
qualificabile come interesse legittimo;
- che, sul punto, è meritevole di condivisione quanto affermato da
TAR Sardegna, sez. II – 10/01/2017 n. 13, per cui “…
l’ente pubblico è tenuto a tanto in forza della convenzione
di lottizzazione stipulata a suo tempo con la lottizzante,
nonché sulla base del “modello urbanistico” prefigurato
dall’art. 28 della legge della legge 17.08.1942, n. 1150,
per cui la pretesa in esame è a tutti gli effetti
ascrivibile ad un “rapporto di diritto pubblico” e rientra
così nella giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo prevista dall’art. 11 della legge 07.08.1990,
n. 241» (TAR Sardegna, sez. II, 10.09.2013, n. 602).
In altri termini, la posizione del Comune nei confronti dei
terzi si traduce nel dovere di provvedere all’esercizio dei
diritti e poteri derivanti dalla convenzione urbanistica
finalizzati all’adempimento degli obblighi contrattuali,
anche in via coattiva, ovvero all’esercizio delle garanzie
fideiussorie previste e delle pretese risarcitorie per gli
inadempimenti accertati; posizione, in cui il dato centrale
è rappresentato dalla qualificazione in senso pubblicistico,
il che consente anche di identificare la situazione
giuridica dei ricorrenti in una correlativa posizione di
interesse legittimo”;
Evidenziato:
- che è vero che, come osservato di recente da TAR Lombardia
Milano, sez. II – 21/04/2017 n. 941 <<la giurisprudenza
della Corte di Cassazione ha avuto modo di affermare che
“l'obbligazione di provvedere alla realizzazione delle opere
di urbanizzazione assunta da colui che stipula una
convenzione edilizia è propter rem, nel senso che essa va
adempiuta non solo da colui che tale convenzione ha
stipulato, ma anche da colui, se soggetto diverso, che
richiede la concessione edilizia; ovvero nel senso che colui
che realizza opere di trasformazione edilizia ed
urbanistica, valendosi della concessione edilizia rilasciata
al suo dante causa, ha nei confronti del Comune gli stessi
obblighi che gravano sull'originario concessionario, ed è
con quest'ultimo solidalmente obbligato per il pagamento
degli oneri di urbanizzazione” (così Cass. civ., Sez. III,
20.08.2015, n. 16999; nello stesso senso Cass. civ., Sez. II,
27.08.2002, n. 12571).
Per questa via, la Suprema Corte è
pervenuta alla conclusione che “La natura reale
dell'obbligazione in esame riguarda, dunque, i soggetti che
stipulano la convenzione, quelli che richiedono la
concessione, e quelli che realizzano l'edificazione
avvalendosi della concessione rilasciata al loro dante
causa” (v. ancora le pronunce ora richiamate)>>;
- che a identiche conclusioni è pervenuto questo TAR con la
pronuncia della sez. I – 11/01/2010 n. 3, evocata dal legale
del Comune all’odierna Camera di consiglio;
- che tale impostazione non interferisce con la qualificazione dei
ricorrenti come “soggetti terzi”, in posizione
defilata rispetto alla convenzione di lottizzazione e al
deposito della garanzia fideiussoria;
- che il meccanismo dell’ambulatorietà passiva dell’obbligazione
non trasforma ex se gli aventi causa dei lottizzanti
in “parti” a pieno titolo del rapporto convenzionale,
ma li rende semplicemente corresponsabili nell’esecuzione
degli impegni presi;
- che, in proposito, è stato anche puntualizzato che l’adempimento
dell'obbligazione di realizzare le opere di urbanizzazione
(primaria e secondaria), assunta dal privato nei confronti
del Comune con la convenzione di lottizzazione (ai sensi
della L. 765 del 1967), può essere preteso in via
giurisdizionale e coattiva dal Comune, non invece dagli
aventi causa dal lottizzatore resisi acquirenti di singoli
lotti di terreno edificati, stante la loro estraneità alla
convenzione (cfr. TAR Toscana, sez. III – 16/05/2016 n.
852);
- che, in ogni caso e in presenza di indirizzi giurisprudenziali
non uniformi, l’art. 2 della convenzione urbanistica
sottoscritta il 07/09/2007 prevede espressamente che in caso
di trasferimento, parziale o totale, delle aree o degli
immobili oggetto della convenzione, “… le garanzie
prestate dagli attuatori privati non vengono meno e non
possono essere estinte o ridotte, se non dopo che il
successivo avente causa a qualsiasi titolo abbia prestato a
sua volta idonee garanzie in sostituzione od integrazione di
quelle precedenti”
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 23.06.2017 n. 843 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
abusività, o meno, della realizzata
tensostruttura (senza titolo abilitativo) collocata sul
terrazzo di proprietà del ricorrente, costituita da una
pergola in metallo corredata da tenda in PVC con movimento
elettrico per una superficie coperta pari a 32,76 metri
quadri.
La struttura in esame non configura né un aumento del volume
e della superficie coperta, né la creazione o modificazione
di un organismo edilizio, né l’alterazione del prospetto o
della sagoma dell’edificio cui è connessa, in ragione della
sua inidoneità a modificare la destinazione d’uso degli
spazi esterni interessati, della sua facile e completa
rimuovibilità, dell’assenza di tamponature verticale e della
facile rimuovibilità della copertura orizzontale
(addirittura retraibile a mezzo di motore elettrico).
La
stessa deve, invece, qualificarsi alla stregua di arredo
esterno, di riparo e protezione, funzionale alla migliore
fruizione temporanea dello spazio esterno all’appartamento
cui accede, in quanto tale riconducibile agli interventi
manutentivi non subordinati ad alcun titolo abilitativo ai
sensi dell’art. 6, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001.
---------------
... per la riforma della sentenza in forma semplificata del
Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione
I-quater n. 3097/2015, resa tra le parti, concernente la
demolizione di una tensostruttura.
...
1. Il sig. Ug.Ar. ha chiesto l’annullamento del
provvedimento del Comune di S. Marinella del 17.09.2014, n. 32, prot. 16214 che ha disposto la demolizione di
una tensostruttura collocata sul terrazzo di proprietà del
ricorrente, costituita da una pergola in metallo corredata
da tenda in PVC con movimento elettrico per una superficie
coperta pari a 32,76 metri quadri.
Con il ricorso di primo grado ha dedotto la violazione
dell’articolo 3, comma 1, lettera e) e dell’articolo 10 del
d.P.R. 380 del 2000, tenuto conto che l’opera non sarebbe
assoggettabile a rilascio di permesso di costruire in
ragione della sua effettiva consistenza ed amovibilità.
Ha dedotto, altresì, l’incompetenza del Comune ad adottare
il provvedimento ripristinatorio tenuto conto della
circostanza che l’area sarebbe assoggettata a vincolo.
Il Comune di Santa Marinella che ha chiesto il rigetto del
ricorso specificando che trattavasi di struttura fissata al
pavimento con funzioni di chiusura su tutti i lati.
2. La sentenza qui impugnata ha respinto il ricorso, atteso
che l’installazione di una tenda parasole medianti pali
infissi stabilmente al suolo del terrazzo costituisce
intervento edilizio in cui assume decisiva prevalenza il
momento trasformativo innovativo, ed in quanto tale
assoggettabile, secondo un costante insegnamento
giurisprudenziale, al preventivo rilascio del prescritto
titolo abilitativo.
3. Propone ricorso in appello l’interessato riproducendo i
motivi del ricorso di primo grado, così epigrafati:
1)
violazione di legge o comunque errata interpretazione del
combinato disposto dell’art. 3, comma 1, lett. e) e dell’art. 10 d.P.R. 380 del 2001 (d’ora in avanti TUE) e smi. Omesso
riferimento all’art. 6 del TUE o, comunque, agli artt. 22 e
37 del TUE e all’art. 19 L.R. Lazio 15 del 2008. Conseguente
errata applicazione degli artt. 27, 31 del TUE e degli artt.
9 e 15 L.R. Lazio 15 del 2008. Eccesso di potere per
travisamento: errata descrizione dell’opera.
2) Violazione
degli artt. 19 della L.R. Lazio n. 15 del 2008 e 167 d.lgs.
42 del 2004. Eccesso di potere per incompetenza.
4. Il ricorso in appello va accolto alla luce del precedente
della Sezione 11.04.2014, n. 1777.
La struttura in esame non configura né un aumento del volume
e della superficie coperta, né la creazione o modificazione
di un organismo edilizio, né l’alterazione del prospetto o
della sagoma dell’edificio cui è connessa, in ragione della
sua inidoneità a modificare la destinazione d’uso degli
spazi esterni interessati, della sua facile e completa
rimuovibilità, dell’assenza di tamponature verticale e della
facile rimuovibilità della copertura orizzontale
(addirittura retraibile a mezzo di motore elettrico).
La
stessa deve, invece, qualificarsi alla stregua di arredo
esterno, di riparo e protezione, funzionale alla migliore
fruizione temporanea dello spazio esterno all’appartamento
cui accede, in quanto tale riconducibile agli interventi
manutentivi non subordinati ad alcun titolo abilitativo ai
sensi dell’art. 6, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001.
In accoglimento dell’appello e in riforma dell’appellata
sentenza, s’impone l’accoglimento del ricorso di primo
grado, con sequela di annullamento dei gravati provvedimenti
ed assorbimento di ogni altra questione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 28.06.2017 n. 3172 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Residenza nel Comune dove si svolgerà l’attività oggetto del
concorso come requisito di partecipazione.
---------------
Concorso – Requisiti di partecipazione – Residenza nel
Comune dove si svolgerà l’attività – Illegittimità.
E’ illegittimo il bando per la
selezione per la formazione di una graduatoria relativa allo
svolgimento di lavoro occasionale presso la biblioteca
comunale, che richiede quale requisito di partecipazione la
residenza nel Comune (1).
---------------
(1)
Ha ricordato il Tar che la Corte costituzionale ha più volte
affermato che l'accesso in condizioni di parità ai pubblici
uffici può subire deroghe, con specifico riferimento al
luogo di residenza dei concorrenti, quando il requisito
medesimo sia ricollegabile, come mezzo al fine,
all'assolvimento di servizi altrimenti non attuabili o
almeno non attuabili con identico risultato (sent. n. 158
del 1969, n. 86 del 1963, n. 13 del 1961, n. 15 del 1960,
secondo la ricostruzione effettuata dall'ordinanza n. 33 del
1988).
Lo stesso giudice delle leggi ha avuto modo di statuire,
peraltro, anche che "non é razionale né corrisponde
propriamente al fine di una migliore organizzazione del
servizio, che sia data prevalenza assoluta, in materia di
assunzioni impiegatizie, a situazioni estrinseche di
residenza su situazioni intrinseche di merito", e che è
da considerarsi illegittima una norma che "escludendo la
possibilità di valutazione del merito comparativo, concede
un aprioristico titolo preferenziale ai soli residenti in
sede regionale" (sentenza n. 158 del 1969).
Sono, pertanto, ammesse ragionevoli discriminazioni fra
concorrenti basate sulla residenza purché queste siano
corrispondenti a situazioni connesse con l'esistenza di
particolari e razionali motivi di più idonea organizzazione
di servizi; inoltre, si riconduce una valutazione di
illegittimità alle norme che annettono all'elemento
residenza un "valore condizionante", tale da
conferire ad esso la priorità su ogni altra valutazione
comparativa di merito (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 27.06.2017 n. 891
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
L'articolo 51, comma primo, della Costituzione prevede
che tutti i cittadini possano accedere agli uffici pubblici
in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti
dalla legge; inoltre, l'articolo 117, comma 1, della
Costituzione, vuole che l'esercizio della potestà
legislativa sia rispettoso degli obblighi e dei principi
fondamentali derivanti dal diritto comunitario, tra i quali
ultimi vi è quello di libera circolazione dei lavoratori,
con i relativi corollari applicabili anche agli impieghi nel
settore pubblico (art. 39 Trattato).
Da sempre, secondo la giurisprudenza costituzionale,
"l'accesso in condizioni di parità ai pubblici uffici può
subire deroghe, con specifico riferimento al luogo di
residenza dei concorrenti, quando il requisito medesimo sia
ricollegabile, come mezzo al fine, all'assolvimento di
servizi altrimenti non attuabili o almeno non attuabili con
identico risultato" (sent. n. 158 del 1969, n. 86 del 1963,
n. 13 del 1961, n. 15 del 1960, secondo la ricostruzione
effettuata dall'ordinanza n. 33 del 1988).
La Corte costituzionale ha avuto modo di statuire, peraltro,
anche che "non é razionale né corrisponde propriamente al
fine di una migliore organizzazione del servizio, che sia
data prevalenza assoluta, in materia di assunzioni
impiegatizie, a situazioni estrinseche di residenza su
situazioni intrinseche di merito",
e che è da considerarsi illegittima una
norma che "escludendo la possibilità di valutazione del
merito comparativo, concede un aprioristico titolo
preferenziale ai soli residenti in sede regionale"
(vedi sentenza n. 158 del 1969).
Secondo la giurisprudenza costituzionale sono, pertanto,
ammesse ragionevoli discriminazioni fra concorrenti basate
sulla residenza purché queste siano corrispondenti a
situazioni connesse con l'esistenza di particolari e
razionali motivi di più idonea organizzazione di servizi;
inoltre, si riconduce una valutazione di illegittimità alle
norme che annettono all'elemento residenza un "valore
condizionante", tale da conferire ad esso la priorità su
ogni altra valutazione comparativa di merito.
D’altro canto l’articolo 39 del Trattato dell’Unione
assicura la libera circolazione dei lavoratori all’interno
della Comunità europea, intesa come abolizione di qualsiasi
discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori
degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la
retribuzione e le altre condizioni di lavoro, nonché come
diritto di spostarsi liberamente a scopi lavorativi nel
territorio degli Stati membri e di prendere dimora in uno di
questi al fine di svolgervi un’attività di lavoro.
In tale rigoroso contesto l’art. 35, comma 5-ter, del d.lgs.
n. 165/2001 statuisce che “il principio della parità di
condizioni per l'accesso ai pubblici uffici è garantito,
mediante specifiche disposizioni del bando, con riferimento
al luogo di residenza dei concorrenti, quando tale requisito
sia strumentale all'assolvimento di servizi altrimenti non
attuabili o almeno non attuabili con identico risultato”.
Orbene, secondo un’interpretazione costituzionalmente
orientata di tale norma, non è ammissibile qualificare il
requisito della residenza presso il Comune che ha indetto la
selezione come aprioristica condizione di partecipazione
alla procedura concorsuale (TAR Sicilia, Palermo, III,
31.05.2011, n. 1010) anziché, ad esempio, quale obbligo da
assolvere in caso di assunzione in servizio ad esito della
procedura stessa. Peraltro, gli atti impugnati non danno
contezza del fatto che il suddetto requisito sia
effettivamente strumentale all’assolvimento del servizio cui
è preordinata la selezione, talché non appare nemmeno
astrattamente ipotizzabile l’applicazione al caso di specie
del citato art. 35, comma 5-ter.
In conclusione il ricorso deve essere accolto. |
ATTI AMMINISTRATIVI: In
via generale, ai fini della sussistenza del presupposto
legittimamente per l’esercizio del diritto di accesso, deve
esistere un interesse giuridicamente rilevante del soggetto
che richiede l’accesso, non necessariamente consistente in
un interesse legittimo o in un diritto soggettivo, e un
rapporto di strumentalità tra tale interesse e la
documentazione di cui si chiede l’ostensione.
---------------
...
per l'annullamento
del provvedimento implicito di rigetto con cui il Comune di
Agropoli ha rifiutato l'ostensione degli atti richiesti con
istanza di accesso del 06.07.2016, relativa a copia conforme
di verbali di contestazione di norme del codice della strada
e relative relate di notifica, e per l’accertamento del
diritto di accesso agli atti richiesti.
...
-
Considerato che, a termini dell’art. 116 del Codice del
processo amministrativo, in materia di accesso, il giudice
decide con sentenza in forma semplificata;
-
Considerato che il ricorrente, con il ricorso all’esame,
proposto in riassunzione di analogo gravame già proposto
innanzi al TAR Campania, sede di Napoli, che con Ordinanza
presidenziale n. 1546/2017 ha declinato la propria
competenza, assegnando il ricorso alla sezione staccata di
Salerno, ha chiesto:
a) dichiararsi illegittimo l’implicito
diniego opposto dal Comune di Agropoli all’istanza di
accesso formulata in data 06.07.2016 (prot. n. 18382), avente
ad oggetto copia conforme all’originale dei verbali di
contestazione di violazione alle norme del codice della
strada, come analiticamente riportati nell’istanza, e relate
di notifica dei suddetti verbale, al dichiarato fine di
“verificare la propria posizione debitoria nei confronti del
Comune, ai fini di una eventuale ricorribilità dinanzi
all’A.G. competente”; e
b) conseguentemente accertarsi il
suo diritto all’accesso richiesto, con condanna
dell’Amministrazione all’esibizione degli atti de quibus;
-
Considerato che, più puntualmente, il ricorrente spiegava di
essere venuto a conoscenza, in via informale, dell’esistenza
di verbali di contestazione di violazione delle norme del
codice della strada emessi dal Comune di Agropoli a suo
carico, mai a lui notificati, e da qui l’esigenza di
accertare l’effettiva esistenza dei suddetti verbali e di
verificare la propria posizione debitoria; aggiungeva che il
ricorso poggiava, quindi, sul suo diritto all’accesso in
funzione di tutela giurisdizionale;
-
Considerato che il resistente Comune di Agropoli si
costituiva in giudizio (innanzi al TAR Campania, Napoli, non
riproponendo la sua costituzione nella presente sede),
assumendo, giusta quanto documentato dalla difesa ricorrente
che ha prodotto gli atti relativi, l’inammissibilità e
l’infondatezza del ricorso sul rilievo che gli atti
richiesti in ostensione (che, ad ogni buon conto venivano,
in copia, esibiti in giudizio) sarebbero stati già in
possesso del ricorrente, come dimostrato dalle relate di
notifica, con conseguente inammissibilità del ricorso per
difetto di interesse;
-
Considerato che a ciò la difesa ricorrente opponeva: a) che
la relate esibite nessun riferimento facevano agli atti
notificati; b) che comunque non erano stati esibiti i
verbali richiesti; c) che le stesse relate erano state
esibite in copia semplice e non conforme;
-
Ritenuto, in via generale, che, ai fini della sussistenza
del presupposto legittimamente per l’esercizio del diritto
di accesso, deve esistere un interesse giuridicamente
rilevante del soggetto che richiede l’accesso, non
necessariamente consistente in un interesse legittimo o in
un diritto soggettivo, e un rapporto di strumentalità tra
tale interesse e la documentazione di cui si chiede
l’ostensione;
-
Ritenuto che tale interesse, in astratto, deve riconoscersi
certamente in capo al ricorrente, destinatario degli atti
richiesti;
-
Ritenuto che la circostanza che detti atti (tutti o in
parte) siano stati notificati al ricorrente (del che invero
non vi è neppure prova, atteso che le relate, prodotte in
copia, non presentano apparentemente alcun collegamento con
i verbali di accertamento cui si riferiscono), non esclude,
né elide, il diritto di accesso, posto che, pacifico essendo
che gli atti de quibus sono tuttora nella disponibilità
dell’Amministrazione, il destinatario degli atti potrebbe
tuttora dover verificare le circostanze fattuali del
rapporto controverso (ad esempio, per l’esigenza di
preliminare verifica circa la possibilità stessa di opporsi
alla pretesa esecutiva, per accertare l’identità del
soggetto consegnatario della notifica a fini diversi o, più
banalmente, per aver smarrito gli atti, peraltro risalenti
nel tempo; cfr., in fattispecie analoga, Cons. di Stato, n.
4209/2014);
-
Ritenuto sotto diverso profilo, che in ogni caso
l’esibizione in copia, in giudizio, degli atti (o parte di
essi che sia), non è comunque satisfattiva del richiesto
accesso, che deve avvenire, salvo diversa determinazione
dell’interessato, in copia integrale e conforme
all’originale, allo scopo di consentire la piena conoscenza
del loro contenuto (cfr., per fattispecie analoga, TAR
Campania, Salerno, n. 1750/2013, ex pluris);
-
Ritenuto, per quanto precede, il ricorso fondato, con
conseguente affermazione del diritto del ricorrente di
accedere a –e di ottenere copia conforme di– tutti i
verbali di contestazione, ai quali lo stesso ha fatto
riferimento nella sua richiesta, e delle relative relate di
notifica; tanto nel termine di trenta giorni a decorrere
dalla comunicazione e/o notifica della presente Sentenza
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 26.06.2017 n. 1102 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' pacifico che la contravvenzione di cui all'art. 95
del DPR n. 380 del
2001 configura un reato formale che si consuma con la
realizzazione in zona
sismica di un intervento edilizio senza la preventiva
comunicazione ed
autorizzazione dell'ufficio tecnico regionale, e che
pertanto, anche accedendo alla
prima interpretazione (reato permanente), a determinare la cessazione della
consumazione occorre
la presentazione da parte del responsabile della relativa
denuncia con l'allegato
progetto.
---------------
In ogni caso l'unico documento che risulta essere stato prodotto in
dibattimento ricollegabile all'ufficio del Genio Civile è il
certificato di eseguito
collaudo statico dell'opera, consistita nella costruzione di
una scala in acciaio e
sostituzione della tettoia del locale adibito a "Sala
Bingo", depositato in data
12.02.2013 dal collaudatore presso il suddetto ufficio.
Quantunque in esso si
faccia menzione dei documenti relativi alla pratica non
meglio specificata se non
con l'indicazione della data di deposito presso lo stesso
ufficio risalente al 02.09.2011, in ogni caso l'eseguito collaudo, costituito da
un'asseverazione redatta
da un tecnico per conto del committente circa la conformità
dei lavori eseguiti
alla vigente normativa antisismica, nulla ha a che vedere
con l'omissione
contestata all'imputato che si colloca in una fase del tutto
antecedente allo
stesso inizio dei lavori di realizzazione dell'opera
collaudata.
Malgrado le
oscillazioni che si registrano in seno alla giurisprudenza
di questa Corte in
relazione alla natura del reato in contestazione,
alternativamente qualificato
come permanente (Sez. 3, n. 2209 del 03/06/2015 - dep.
20/01/2016, Russo,
Rv. 266224; Sez. 3, n. 29737 del 04/06/2013 - dep.
11/07/2013, Vella, Rv.
255823), ovvero istantaneo con effetti permanenti (Sez. 3,
n. 41858 del
08/10/2008 - dep. 07/11/2008, P.M. in proc. Gifuni e altro,
Rv. 241424; Sez. 3,
n. 23656 del 26/05/2011 - dep. 13/06/2011, Armatori, Rv.
250487), è
comunque pacifico che la contravvenzione di cui all'art. 95
del DPR n. 380 del
2001 configura un reato formale che si consuma con la
realizzazione in zona
sismica di un intervento edilizio senza la preventiva
comunicazione ed
autorizzazione dell'ufficio tecnico regionale, e che
pertanto, anche accedendo alla
prima interpretazione, a determinare la cessazione della
consumazione occorre
la presentazione da parte del responsabile della relativa
denuncia con l'allegato
progetto (Sez. 3, n. 12235 del 11/02/2014 - dep. 14/03/2014, Petrolo, Rv.
258738).
La finalità perseguita dal legislatore con la normativa in
esame è quindi
quella di salvaguardia dell'incolumità pubblica nelle zone
definite sismiche,
essendo volta a tutelare, al di là dell'osservanza degli
strumenti urbanistici e dei
regolamenti edilizi, demandata all'autorità comunale, la
sicurezza in termini di
impatto sul territorio non solo dell'opera realizzanda, ma
altresì delle costruzioni
limitrofe attraverso la prescritta autorizzazione preventiva
regionale.
E' dunque
evidente che si tratti di reato di mero pericolo in cui è
sanzionata la condotta
omissiva volta ad impedire l'anticipata valutazione da parte
della P.A. della
sicurezza statica dell'opera sin dalla fase di
progettazione, valutazione che si
sostanzia nella preventiva autorizzazione scritta del
competente ufficio tecnico
della Regione a seguito dell'adempimento all'obbligo di
denuncia e di denuncia e di presentazione dei progetti allo
sportello unico (Sez. 3, n. 30224 del
21/06/2011 - dep. 29/07/2011, Floridia, Rv. 251284) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.06.2017 n. 31365). |
APPALTI:
Art. 80, c. 5 d.lgs. n. 50/2016 - Gravi illeciti
professionali - Affidabilità dell’operatore economico.
L’art. 80, comma 5, lett. c), del D.Lgs. n. 50/2016 consente
alle stazioni appaltanti di escludere i concorrenti da una
procedura di affidamento di contratti pubblici in presenza
di «gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia
la sua integrità o affidabilità»: innovando rispetto al
previgente assetto normativo, la norma prevede che
l’esclusione del concorrente è condizionata al fatto che la
stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che
l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti
professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o
affidabilità.
La ratio risiede dunque nell’esigenza di verificare
l’affidabilità complessivamente considerata dell’operatore
economico che andrà a contrarre con la p.a. per evitare, a
tutela del buon andamento dell’azione amministrativa, che
quest’ultima entri in contatto con soggetti privi di
affidabilità morale e professionale.
Art. 80 d.lgs. n. 50/2016 -
Discrezionalità della stazione appaltante - Oggetto.
Il conferimento alle stazioni appaltanti, con l’art. 80 del
d.lgs. n. 50/2016, di un diaframma di discrezionalità in
sede applicativa –il quale attiene non alla individuazione
delle fattispecie espulsive, che senz’altro compete al
legislatore, in materia di requisiti generali, secondo una
elencazione da considerare tassativa, bensì alla
riconduzione della fattispecie concreta a quella astratta,
siccome descritta genericamente mediante l’uso di concetti
giuridici indeterminati- affiora, pur in mancanza di una
formulazione della norma di segno univoco come quella
contenuta nel previgente Codice Appalti (laddove si
discorreva di “motivata valutazione”), da quanto
statuito a proposito della consacrata necessità di dare “dimostrazione
con mezzi adeguati” della sussistenza della fattispecie
espulsiva, nonché dall’uso di locuzione generiche (“dubbia”,
“gravi”) e dalla omessa precisa elencazione di
ipotesi escludenti, che il legislatore infatti si limita ad
individuare a fini meramente esemplificativi.
Art. 36 d.lgs. n. 50/2016 - Procedure di
affidamento di servizi cd. semplificate - Motivazione -
Acquisizione di una pluralità di preventivi - Non è
richiesta - Modifiche apportate dal d.lgs. n. 56/2017.
L’obbligo di rispettare i principi definiti dall’art.30,
comma 1, del codice dei contratti (economicità, efficacia,
tempestività, correttezza, libera concorrenza, non
discriminazione, trasparenza, proporzionalità, pubblicità),
se da un lato esclude di riconnettere automaticamente la
possibilità per le pubbliche amministrazioni di contrarre
con uno specifico operatore economico senza procedure
specifiche al solo dato oggettivo dell’importo economico,
dall’altro implica che la motivazione può e deve essere
costruita anche senza ricorrere all'acquisizione di una
pluralità di preventivi atteso che la congruità di una
proposta contrattuale può ricostruirsi anche aliunde
(ad esempio, confrontandola con listini pubblici, quali i
prezzi del MePa, o, ancora, con affidamenti di prestazioni
analoghe di altre amministrazioni, dopo semplici ricerche in
rete).
Del resto, significative in tal senso appaiono le novità
apportate al riguardo dal D.lgs. 56/2017 recanti
integrazioni e correzioni al D.Lgs. 50/2016: in particolare
il nuovo testo della norma interviene esattamente sui
problemi operativi posti dalla combinazione della precedente
formulazione e dell’interpretazione rigorosa fornita dall’ANAC
e compie due operazioni: una chirurgica, eliminando il
riferimento all’adeguata motivazione; una additiva,
specificando che l’affidamento non deve necessariamente
avvenire a valle di una consultazione tra due o più
operatori economici.
Trova conferma quindi il dato ermeneutico per cui
l’ineliminabile obbligo motivazionale (ribadito, proprio per
gli affidamenti in esame ed alla correlata cd. “determina
a contrarre unificata e semplificata”, dal nuovo alinea
aggiunto dal D.lgs. 56/2017 all’art. 32, comma 2, del codice
dei contratti pubblici, a mente del quale nella procedura di
cui all'articolo 36, comma 2, lettera a), la stazione
appaltante può procedere ad affidamento diretto tramite
determina a contrarre, o atto equivalente, che contenga, in
modo semplificato, l'oggetto dell'affidamento, l'importo, il
fornitore, le ragioni della scelta del fornitore, il
possesso da parte sua dei requisiti di carattere generale,
nonché il possesso dei requisiti tecnico-professionali, ove
richiesti) non si esaurisce più nel necessario confronto tra
più preventivi (TAR Valle d'Aosta,
sentenza 23.06.2017 n. 36 - (link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Esecuzione di un'opera - Doveri e responsabilità
del committente e dell'esecutore - Artt. 29, 31 e 44 d.P.R.
380/2001.
Ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. 380/2001, vi è un dovere,
per chi si appresta ad eseguire un'opera, di osservare, non
solo quanto prescritto dal titolo abilitativo, ma anche
quanto stabilito dalla normativa urbanistica e di piano e
che detta norma ha posto delle specifiche posizioni di
garanzia, di cui ha precisato anche il contenuto.
Da ciò consegue, che il titolare del permesso di costruire,
il committente e l'esecutore non possono considerarsi esenti
da responsabilità per il semplice fatto di avere conseguito
il titolo abilitativo se questo è stato rilasciato in
contrasto con la legge o gli strumenti urbanistici, con
l'ulteriore precisazione che non ogni vizio dell'atto
amministrativo o civile potrà essere rilevato dal giudice
penale, ma soltanto quello la cui presenza contribuisca a
conferire al comportamento incriminato significato "lesivo"
del bene giuridico tutelato, ovviamente evitando di
costruire beni giuridici ad hoc al fine proprio di
scardinare il principio di tassatività (Sez. 3, n. 27261 del
08/06/2010, P.M. in proc. Caleprico e altri. Conf. Sez. 3,
n. 10106 del 21/01/2016, Terzini).
Concorso nel reato del progettista -
Presupposti - Mera redazione del progetto - Nesso di
causalità tra la redazione del progetto e l'attività di
attuazione dello stesso - Esclusione.
La sola veste di progettista non consente, di per se, di
ravvisare il concorso nel reato, in quanto la fase di
redazione di un progetto, anche se difforme dalla normativa
vigente, va tenuta distinta da quella di direzione dei
lavori, e non può configurarsi un nesso di causalità tra la
redazione del progetto e l'attività di attuazione dello
stesso, soltanto per la quale sussiste rilevanza penale, ed
alla quale il progettista deve avere fornito un apporto
concreto ed ulteriore rispetto alla mera redazione del
progetto (Sez. 3, n. 8420 del 12/12/2002, Ridolfi, Rv.
224166. Conf. Sez. 3, n. 47271 del 22/09/2016, Ayma, non
massimata) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.06.2017 n. 31282
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Bellezze
naturali e zone di "elevata naturalità" - Divieto di
distruzione o di alterazione mediante costruzioni,
demolizioni, o in qualsiasi altro modo - Riferimento alla
“speciale protezione dell’autorità” - Piano Territoriale
Paesistico Regionale - Natura dell’art. 734 c.p. - Artt. 157
e 181, c. 1-bis, lett. A) e B), D.Lgs. n. 42/2004.
L’art. 734 c.p. non è norma penale in bianco. Il riferimento
alla “speciale protezione dell’autorità” va
interpretata nel senso che la stessa può essere attribuita
attraverso un qualsiasi provvedimento che individui
compiutamente il bene del quale si vuole assicurare la
conservazione perché meritevole di tutela particolare e
specifica.
Tra detti provvedimenti può, dunque, rientrare anche il
Piano Territoriale Paesistico Regionale, che comprende sia
disposizioni di carattere generale ed astratte sia
provvedimentali. Nel caso di specie, è stata ritenuta l'area
sottoposta a particolare protezione in ragione
dell'inclusione tra le zone di "elevata naturalità"
di cui all'art. 17 delle Norme di Attuazione del PTPR (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.06.2017 n. 31282
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ordine
giudiziale di demolizione - Natura di sanzione
amministrativa di tipo ablatorio - Autonoma funzione
ripristinatoria del bene giuridico leso.
L'ordine giudiziale di demolizione ha natura di sanzione
amministrativa di tipo ablatorio, che costituisce
esplicitazione di un potere sanzionatorio autonomo e non
residuale o sostitutivo rispetto a quello dell'autorità
amministrativa, assolvendo ad una autonoma funzione
ripristinatoria del bene giuridico leso (Cass. Sez. 3, n.
37120 del 11/05/2005, Morelli).
TUTELA DELL'AMBIENTE - La materia
urbanistica rientra nella tutela dell'ambiente - Ordinato
sviluppo del territorio sotto il profilo urbanistico ed
edilizio - Responsabilità per il reato urbanistico e per la
contravvenzione di cui all'art. 734 cod. pen. -
LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE - Interessi delle associazioni di
tutela ambientale in relazione a violazione edilizia e abuso
di ufficio - Sussiste.
L’ordinato sviluppo del territorio sotto il profilo
urbanistico ed edilizio assume rilievo ai fini della tutela
dell’ambiente e rientra pertanto tra gli interessi delle
associazioni di tutela ambientale concretamente lesi da
attività illecita.
Sicché, il costante consumo di suolo, conseguenza di una non
corretta gestione del territorio (anche da parte di chi è
tenuto, per legge, a provvedervi), influisce negativamente
sulle diverse componenti ambientali, sottraendo risorse ed
agendo negativamente sulla fruibilità del bene nel suo
complesso, peggiorando la qualità della vita ed aumentando
rischi per la salute delle persone, poiché l'illecito
edilizio non comporta, quale conseguenza, la sola presenza
di nuovi volumi abusivamente realizzati, già di per se
rilevante, ma anche una incidenza sul carico urbanistico
produttiva di ulteriori effetti negativi.
A conclusioni analoghe deve pervenirsi per ciò che concerne
il reato di abuso d'ufficio, in quanto la legittimazione
alla costituzione di parte civile delle associazioni
ambientaliste deve riconoscersi anche con riferimento ai
reati commessi in occasione o con la finalità di violare
normative dirette alla tutela dell'ambiente e del territorio
(Sez. 5, n. 7015 del 17/11/2010 (dep. 2011), Associazione
Legambiente Onlus e altri) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.06.2017 n. 31282
- link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Non conformità dell'atto amministrativo alla
normativa o conseguenza di attività criminosa - Rilevabilità
- Giurisprudenza.
La non conformità dell'atto amministrativo alla normativa
che ne regola l'emanazione, alle disposizioni legislative
statali e regionali in materia urbanistico edilizia ed alle
previsioni degli strumenti urbanistici può essere rilevata
non soltanto se l'atto sia illecito e, cioè, frutto di
attività criminosa, ma anche nell'ipotesi in cui
l'emanazione dell'atto medesimo sia espressamente vietata in
mancanza delle condizioni previste dalla legge o nel caso di
mancato rispetto delle norme che regolano l'esercizio del
potere (Sez. 3, n. 37847 del 14/05/2013, Sorini; Sez. 3, n.
40425 del 28/09/2006, Consiglio).
Inoltre, è evidente che, nel caso in cui il provvedimento
amministrativo sia palesemente illegittimo, non può che
ritenersi sostanzialmente mancante, in quanto l'atto, in
tali casi, è emanato in totale assenza dei presupposti di
legge per la sua emissione. A maggior ragione, tale
situazione si verifica quando detto titolo abilitativo sia
conseguenza di attività criminosa da parte del soggetto
pubblico che lo ha adottato o di quello privato che lo ha
conseguito.
Automatismo tra mera illegittimità del
titolo abilitativo e sussistenza del reato urbanistico -
Esclusione.
In materia urbanistica, deve essere escluso ogni automatismo
tra mera illegittimità del titolo abilitativo e sussistenza
del reato urbanistico, eliminando così il rischio, paventato
nella prospettata questione di legittimità costituzionale,
di una irragionevole equiparazione interpretativa "in
malam partem" tra mancanza "ab origine" dell'atto
concessorio e illegittimità dello stesso accertata "ex
post", sia la violazione del principio della
responsabilità penale per fatto proprio colpevole (Cass.
sentenza 7423/2015).
Valutazione del giudice penale sulla
legittimità dell’atto amministrativo - Giudicato
amministrativo - Effetti - Limiti.
Non può ritenersi ostativo alla valutazione del giudice
penale sulla legittimità dell’atto amministrativo
presupposto del reato il giudicato amministrativo formatosi
all’esito di una controversia instaurata sulla base di
documentazione incompleta o che, comunque, si è fondata su
elementi di fatto rappresentati in modo parziale o,
addirittura, non rispondenti al vero.
Inoltre, non può spiegare alcun effetto nel procedimento
penale una valutazione effettuata dal giudice amministrativo
con riferimento a situazioni che, sebbene analoghe, abbiano
comunque riguardato soggetti e circostanze diverse (Sez. 3,
n. 30171 del 04/06/2015, P.M. in proc. Serafini) ovvero che
abbia riguardato la sospensione cautelare del provvedimento
presupposto del reato (Sez. 3, n. 3538 del 18/11/2015 (dep.
2016), Morra) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.06.2017 n. 31282
- link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Confermata la giurisdizione del G.O. per le domande
risarcitorie dei privati che hanno fatto affidamento su di
un provvedimento ampliativo successivamente dichiarato
illegittimo.
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Giurisdizione e
competenza – Responsabilità civile della P.A. – Annullamento
giurisdizionale di una procedura di gara – Lesione
dell’affidamento del contraente - Tutela risarcitoria -
Giurisdizione civile.
E’ devoluta alla giurisdizione del giudice
ordinario l’azione di risarcimento del danno proposta dal
privato che abbia fatto incolpevole affidamento su di un
provvedimento ampliativo successivamente dichiarato
illegittimo (1)
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(1) I.- La pronuncia è stata resa dalle Sezioni Unite della Corte
di cassazione in sede di regolamento preventivo di
giurisdizione nell’ambito di una controversia risarcitoria
proposta da una società per i danni asseritamente patiti in
conseguenza della mancata esecuzione di un contratto di
appalto in seguito all’annullamento in sede giurisdizionale
del procedimento di selezione del contraente.
La Corte conferma che in simili fattispecie la giurisdizione
sulla domanda risarcitoria spetta al giudice ordinario. A
tale conclusione la Corte giunge richiamando, con
motivazione essenziale, due specifici precedenti e
segnatamente:
a) Cass. civ., sez. I, 21.11.2011, n. 24438 secondo cui «l’erronea
scelta del contraente di un contratto di appalto, divenuto
inefficace e “tamquam non esset” per effetto
dell’annullamento dell’aggiudicazione da parte del giudice
amministrativo, espone la P.A. al risarcimento dei danni per
le perdite e i mancati guadagni subiti dal privato
aggiudicatario; tale responsabilità non è qualificabile né
come aquilana, né come contrattuale in senso proprio,
sebbene a questa si avvicini poiché consegue al “contatto”
tra le parti nella fase procedimentale anteriore alla
stipula del contratto, ed ha origine nella violazione del
dovere di buona fede e correttezza, avendo l’Amministrazione
indetto la gara e dato esecuzione ad un’aggiudicazione
apparentemente legittima che ha provocato la lesione
dell’interesse del privato, non qualificabile come interesse
legittimo, ma assimilabile a un diritto soggettivo, avente
ad oggetto l’affidamento incolpevole nella regolarità e
legittimità dell’aggiudicazione»;
b)
Cass. civ., sez. un., 04.09.2015, n. 17586
secondo cui «la controversia avente ad oggetto la domanda
autonoma di risarcimento danni proposta da colui che, avendo
ottenuto l’aggiudicazione in una gara per l’affidamento di
un pubblico servizio, successivamente annullata dal Tar
perché illegittima su ricorso di un altro concorrente,
deduca la lesione dell’affidamento ingenerato dal
provvedimento di aggiudicazione apparentemente legittimo,
rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, non
essendo chiesto in giudizio l’accertamento della
illegittimità dell’aggiudicazione (che, semmai, la parte
aveva interesse a contrastare nel giudizio amministrativo
promosso dal concorrente) e, quindi, non rimproverandosi
alla P.A. l’esercizio illegittimo di un potere consumato nei
suoi confronti, ma la colpa consistita nell’averlo indotto a
sostenere spese nel ragionevole convincimento della
prosecuzione del rapporto fino alla scadenza del termine
previsto dal contratto stipulato a seguito della gara»
(Cass., sez. un., 23/03/2011, n. 6596).
Come del resto si ritiene più in generale rientri nella
giurisdizione ordinaria «la domanda risarcitoria proposta
nei confronti della P.A. per i danni subiti dal privato che
abbia fatto incolpevole affidamento su un provvedimento
ampliativo illegittimo …, non trattandosi di una lesione
dell’interesse legittimi pretensivo del danneggiato
(interesse soddisfatto, seppur in modo illegittimo), ma di
una lesione della sua integrità patrimoniale ex art. 2043
c.c., rispetto alla quale l’esercizio del potere
amministrativo non rileva in sé, ma per l’efficacia causale
del danno–evento da affidamento incolpevole».
Tra le più recenti sentenze in tema si segnalano:
c)
Cons. Stato, Ad. plen., 12.05.2017 n. 2 (oggetto
della
News US in data 16.05.2017) circa la
giurisdizione del G.O. a conoscere della domanda proposta
nei confronti di impresa illegittima beneficiaria di un
appalto pubblico.
d)
Cons. Stato, sez. IV, 25.01.2017, n. 293 che
aderisce all’indirizzo espresso dalle Sezioni unite in
ordine alla giurisdizione del giudice ordinario in relazione
a controversie in cui venga proposta domanda di risarcimento
del danno da provvedimento favorevole poi annullato;
e)
Cass. civ., sez. un., ord., 04.09.2015, n. 17586
(citata in motivazione), in Riv. giur. edilizia, 2015, I,
1044, con nota di SINISI e Dir. proc. amm., 2016, 547, con
nota di GALLO.
f) Cass. civ., sez. un., ord., 23.03.2011, n. 6596 (citata in
motivazione) in Foro it., 2011, I, 2387, con nota di TRAVI;
Corriere giur., 2011, 933, con nota di DI MAJO; Urbanistica
e appalti, 2011, 915, con nota di MASERA; Giust. civ., 2011,
I, 1209, con nota di LAMORGESE; Resp. civ., 2011, 1749 (m),
con nota di SCOGNAMIGLIO; Giust. civ., 2011, I, 2315 (m),
con nota di D’ANGELO; Giur. it., 2012, 193, con nota di
COMPORTI, cui si rinvia per ogni ulteriore approfondimento;
g) sulla nozione di comportamento materiale v.
Cass. civ., sez. un., 16.12.2016, n. 25978
oggetto della
News US in data 09.01.2017 (cui si rinvia per una
ampia casistica in tema di comportamenti materiali), nonché
oggetto della nota di LUIGI VIOLA Una giurisdizione “a
macchia di leopardo” sui comportamenti materiali della
P.A.?, in Lexitalia n. 6/2017 (Corte
di Cassazione, S.U. civili,
ordinanza 22.06.2017 n. 15640
- commento tratto da e link a
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EDILIZIA PRIVATA: Sulla
inammissibilità della c.d. "sanatoria giurisprudenziale".
Il permesso in sanatoria ex art. 36 del
DPR 380/2001 è ottenibile solo alla condizione che
l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente al momento sia della realizzazione del
manufatto, sia della presentazione della domanda.
Diversamente opinando, verrebbe in questione, con la c.d. “sanatoria
giurisprudenziale”, un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem
e che si colloca fuori d’ogni previsione normativa e che,
pertanto, NON è ammessa nell’ordinamento positivo,
contrassegnato invece dal principio di legalità dell'azione
amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati
dalla P.A., alla stregua del principio di nominatività,
poteri, tutti questi, che non sono surrogabili da questo
Giudice, pena la violazione del principio di separazione dei
poteri e l'invasione di sfere proprie di attribuzioni
riservate alla P.A. stessa.
---------------
– in tal caso non è invocabile la c.d. “sanatoria
giurisprudenziale”, giacché il permesso in sanatoria ex art.
36 del DPR 380/2001 è ottenibile solo alla condizione che
l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente al momento sia della realizzazione del
manufatto, sia della presentazione della domanda, venendo
viceversa in questione, con la “sanatoria
giurisprudenziale”, un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem e che si colloca fuori
d’ogni previsione normativa e che, pertanto, NON è ammessa
nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dal
principio di legalità dell'azione amministrativa e dal
carattere tipico dei poteri esercitati dalla P.A., alla
stregua del principio di nominatività, poteri, tutti questi,
che non sono surrogabili da questo Giudice, pena la
violazione del principio di separazione dei poteri e
l'invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla
P.A. stessa (cfr., da ultimo, Cons. St., V, 27.05.2014
n. 2755; id., VI, 05.06.2015 n. 2784; id., 30.09.2015 n. 4552; id., 18.07.2016 n. 3194)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 21.06.2017 n. 3018 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il rilascio del titolo abilitativo (anche in sanatoria) fa
comunque salvi i diritti dei terzi e non interferisce,
pertanto, nell’assetto dei rapporti fra privati, ferma
restando la possibilità per l’Amministrazione di verificare
la sussistenza di limiti di matrice civilistica, per la
realizzazione dell’intervento edilizio da assentire.
La giurisprudenza di questo Consiglio di
Stato Consiglio di Stato è saldamente orientata nel
riconoscere, in relazione a lavori edilizi da eseguirsi su
parti comuni di un fabbricato e non concernenti opere
connesse all'uso normale della cosa comune, il dovere
dell'Amministrazione comunale —ai fini del rilascio della
relativa concessione— nel richiedere il consenso di tutti i
proprietari, salvo il caso che la realizzazione dell’opera
non sia concettualmente riconducibile a quell'utilizzo della
cosa comune che l'art. 1102 c.c. consente comunque al
partecipante alla comunione, indipendentemente
dall'ottenimento del consenso degli altri condomini, in
quanto non consente a questi ultimi il pari uso del bene e
ne altera la destinazione.
Ed ancora:
- “ai fini del rilascio d'una concessione edilizia, la
disponibilità dell'area oggetto d'intervento non è
circoscritta alla dimostrazione della proprietà di
quest'ultima, ma indica più propriamente l'esistenza d'una
situazione giuridica che abilita il titolare a sfruttare
pienamente la potenzialità edificatoria dell'immobile in
questione”;
- l'impulso ad effettuare la trasformazione edilizia deve
provenire da un soggetto che si trovi in posizione di
detenzione qualificata del bene e, in relazione alla
necessità del consenso del proprietario del bene oggetto di
trasformazione, “il rilascio del titolo abilitativo (anche
in sanatoria) fa comunque salvi i diritti dei terzi e non
interferisce, pertanto, nell'assetto dei rapporti fra
privati, ferma restando la possibilità per l'Amministrazione
di verificare la sussistenza di limiti di matrice
civilistica, per la realizzazione dell'intervento edilizio
da assentire”.
---------------
La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato Consiglio di
Stato, infatti, è saldamente orientata nel riconoscere, in
relazione a lavori edilizi da eseguirsi su parti comuni di
un fabbricato e non concernenti opere connesse all'uso
normale della cosa comune, il dovere dell'Amministrazione
comunale —ai fini del rilascio della relativa concessione—
nel richiedere il consenso di tutti i proprietari, salvo il
caso che la realizzazione dell’opera non sia concettualmente
riconducibile a quell'utilizzo della cosa comune che l'art.
1102 c.c. consente comunque al partecipante alla comunione,
indipendentemente dall'ottenimento del consenso degli altri
condomini, in quanto non consente a questi ultimi il pari
uso del bene e ne altera la destinazione (Consiglio di Stato
sez. IV, sentenza 11.04.2007, n. 1654).
Ed ancora: “Ai fini del rilascio d'una concessione
edilizia, la disponibilità dell'area oggetto d'intervento
non è circoscritta alla dimostrazione della proprietà di
quest'ultima, ma indica più propriamente l'esistenza d'una
situazione giuridica che abilita il titolare a sfruttare
pienamente la potenzialità edificatoria dell'immobile in
questione” (Consiglio di Stato, sez. V, sentenza
22.06.2000, n. 3525).
In tal senso anche Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza
26.01.2015, n. 316, secondo cui l'impulso ad effettuare la
trasformazione edilizia deve provenire da un soggetto che si
trovi in posizione di detenzione qualificata del bene e, in
relazione alla necessità del consenso del proprietario del
bene oggetto di trasformazione, “il rilascio del titolo
abilitativo (anche in sanatoria) fa comunque salvi i diritti
dei terzi e non interferisce, pertanto, nell'assetto dei
rapporti fra privati, ferma restando la possibilità per
l'Amministrazione di verificare la sussistenza di limiti di
matrice civilistica, per la realizzazione dell'intervento
edilizio da assentire” (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.06.2017 n. 2951 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: In
caso d’occupazione sine titulo originario
o sopravvenuto, la realizzazione dell’opera pubblica non fa
venire meno l’obbligo della P.A. di restituire al privato il
bene illegittimamente appreso. La realizzazione dell’opera
sul fondo illecitamente occupato è in sé, quindi, un mero
fatto, inidoneo a formare il titolo dell’acquisto e, perciò,
l’apprensione della altrui proprietà.
L’Amministrazione, in
effetti, può legittimamente apprendere il bene facendo uso
unicamente dei due strumenti tipici, ossia il contratto,
tramite l’acquisizione del consenso della controparte, o il
provvedimento, e quindi anche in assenza di consenso ma
tramite la riedizione del procedimento espropriativo con le
sue garanzie; a queste due opzioni va aggiunto il possibile
ricorso allo strumento di cui all’art. 42-bis del d.P.R. n.
327/2001.
Infatti, “è obbligo di ogni P.A., nell’attuale
quadro normativo in tema di espropriazione per p.u. e nella
vigenza del citato art. 42-bis del DPR 327/2001, di far
venir meno l’occupazione sine titulo di proprietà altrui e,
quindi, di adeguare comunque la situazione di fatto a quella
di diritto. Si
badi: l’obbligo de quo si sostanzia nel perseguire una tra
le varie e possibili alternative che l’ordinamento indica
per elidere in via definitiva l’occupazione illecita. Queste
ultime vanno dalla restituzione totale o parziale del bene
al suo titolare, previa riduzione in pristino, all’acquisto,
fino all’acquisizione sanante ex art. 42-bis”.
In definitiva, nel caso in esame, accertata l’assenza di un
valido titolo di esproprio e la modifica irreversibile del
bene immobile, va affermato l’obbligo dell’Amministrazione
di far venire meno l’occupazione senza titolo.
---------------
Il ricorso è fondato e merita di essere accolto
nei termini di seguito indicati.
Tra le parti non è contestato che, a seguito dei
provvedimenti in precedenza indicati, i terreni di proprietà
della società ricorrente sopra indicati siano stati occupati
al dichiarato fine di realizzare il raccordo autostradale
tra il casello di Ospitaletto (A4) e il nuovo casello di
Poncarale (A21) con l’aeroporto di Montichiari, con
irreversibile trasformazione del suolo, ma che la relativa
procedura di esproprio non sia stata portata a conclusione
con l’emissione del relativo decreto.
Tale circostanza esclude in radice la possibilità che si sia
verificato il passaggio di proprietà in favore dell’ente
pubblico, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza
oramai consolidata.
A tale proposito, è sufficiente ricordare che, anche di
recente, il Consiglio di Stato ha ribadito “l’ormai noto
principio (cfr., da ultimo, Cons. St., IV, 13.04.2016 n.
1466) per cui, in caso d’occupazione sine titulo originario
o sopravvenuto, la realizzazione dell’opera pubblica non fa
venire meno l’obbligo della P.A. di restituire al privato il
bene illegittimamente appreso. La realizzazione dell’opera
sul fondo illecitamente occupato è in sé, quindi, un mero
fatto, inidoneo a formare il titolo dell’acquisto e, perciò,
l’apprensione della altrui proprietà” (Consiglio di Stato,
sez. IV, 20.07.2016, n. 3255).
L’Amministrazione, in
effetti, può legittimamente apprendere il bene facendo uso
unicamente dei due strumenti tipici, ossia il contratto,
tramite l’acquisizione del consenso della controparte, o il
provvedimento, e quindi anche in assenza di consenso ma
tramite la riedizione del procedimento espropriativo con le
sue garanzie; a queste due opzioni va aggiunto il possibile
ricorso allo strumento di cui all’art. 42-bis del d.P.R. n.
327/2001; infatti, “è obbligo di ogni P.A., nell’attuale
quadro normativo in tema di espropriazione per p.u. e nella
vigenza del citato art. 42-bis del DPR 327/2001, di far
venir meno l’occupazione sine titulo di proprietà altrui e,
quindi, di adeguare comunque la situazione di fatto a quella
di diritto (cfr. Cons. St., IV, 09.02.2016 n. 537). Si
badi: l’obbligo de quo si sostanzia nel perseguire una tra
le varie e possibili alternative che l’ordinamento indica
per elidere in via definitiva l’occupazione illecita. Queste
ultime vanno dalla restituzione totale o parziale del bene
al suo titolare, previa riduzione in pristino, all’acquisto,
fino all’acquisizione sanante ex art. 42-bis (cfr., per
tutti, Cons. St., IV, 01.09.2015 n. 4096)” (in tal
senso, ancora Consiglio di Stato n. 3255/2016 cit.).
In definitiva, nel caso in esame, accertata l’assenza di un
valido titolo di esproprio e la modifica irreversibile del
bene immobile (circostanze non contestate dalle
Amministrazioni resistenti), va affermato l’obbligo
dell’Amministrazione di far venire meno l’occupazione senza
titolo
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 01.06.2017 n. 714 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Per
lo smaltimento di rifiuti contenenti amianto il legislatore
ha dettato un regime speciale (d.P.R. 08.08.1994),
derogativo delle norme ordinarie in materia di gestione dei
rifiuti, con la conseguenza che tale regime è rimasto in
vigore nelle sue componenti essenziali anche dopo la riforma
di cui al d.lgs. 05.02.1997 n. 22 e costituisce una
regolamentazione specifica della materia rispetto alla quale
non determinano modifiche o integrazioni le disposizioni di
carattere generale concernenti la competenza degli enti
territoriali in materia anche ambientale.
---------------
Ancora assai di recente la Corte Costituzionale ha avuto
modo di precisare che “la disciplina dei rifiuti è
riconducibile alla materia «tutela dell'ambiente e
dell'ecosistema», di competenza esclusiva statale ai sensi
dell'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., anche se
interferisce con altri interessi e competenze, di modo che
deve intendersi riservato allo Stato il potere di fissare
livelli di tutela uniforme sull'intero territorio nazionale,
ferma restando la competenza delle Regioni alla cura di
interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente
ambientali.
Pertanto, la disciplina statale «costituisce, anche in
attuazione degli obblighi comunitari, un livello di tutela
uniforme e si impone sull'intero territorio nazionale, come
un limite alla disciplina che le Regioni e le Province
autonome dettano in altre materie di loro competenza, per
evitare che esse deroghino al livello di tutela ambientale
stabilito dallo Stato, ovvero lo peggiorino".
---------------
4.1. Le riproposte censure sono condivisibili solo in parte.
4.1.1. Il Collegio non intende decampare dall’insegnamento
della giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. V,
11/05/2004, n. 2943) che, nell’esplorare i rapporti tra la
legge n. 257/1992, e l’antevigente legislazione in materia
ambientale con precipuo riferimento alla materia dello
smaltimento dei rifiuti (d.Lgs. 05.02.1997 n. 22) è
pervenuta al convincimento per cui “per lo smaltimento di
rifiuti contenenti amianto il legislatore ha dettato un
regime speciale (d.P.R. 08.08.1994), derogativo delle norme
ordinarie in materia di gestione dei rifiuti, con la
conseguenza che tale regime è rimasto in vigore nelle sue
componenti essenziali anche dopo la riforma di cui al d.lgs.
05.02.1997 n. 22 e costituisce una regolamentazione
specifica della materia rispetto alla quale non determinano
modifiche o integrazioni le disposizioni di carattere
generale concernenti la competenza degli enti territoriali
in materia anche ambientale. ”.
Detto insegnamento appare attuale anche alla luce della
vigente legislazione (d.Lgs. n. 152/2006) e dal combinato
disposto dell’art. 1 della citata Legge 27.03.1992, n. 257
(“1. La presente legge concerne l'estrazione,
l'importazione, la lavorazione, l'utilizzazione, la
commercializzazione, il trattamento e lo smaltimento, nel
territorio nazionale, nonché l'esportazione dell'amianto e
dei prodotti che lo contengono e detta norme per la
dismissione dalla produzione e dal commercio, per la
cessazione dell'estrazione, dell'importazione,
dell'esportazione e dell'utilizzazione dell'amianto e dei
prodotti che lo contengono, per la realizzazione di misure
di decontaminazione e di bonifica delle aree interessate
dall'inquinamento da amianto, per la ricerca finalizzata
alla individuazione di materiali sostitutivi e alla
riconversione produttiva e per il controllo
sull'inquinamento da amianto.
2. Sono vietate l'estrazione, l'importazione,
l'esportazione, la commercializzazione e la produzione di
amianto, di prodotti di amianto o di prodotti contenenti
amianto. Previa autorizzazione espressa d'intesa fra i
Ministri dell'ambiente, dell'industria, del commercio e
dell'artigianato e della sanità, è ammessa la deroga ai
divieti di cui al presente articolo per una quantità massima
di 800 chilogrammi e non oltre il 31.10.2000, per amianto
sotto forma di treccia o di materiale per guarnizioni non
sostituibile con prodotti equivalenti disponibili. Le
imprese interessate presentano istanza al Ministero
dell'industria, del commercio e dell'artigianato che
dispone, con proprio provvedimento, la ripartizione
pro-quota delle quantità sopra indicate, nonché determina le
modalità operative conformandosi alle indicazioni della
commissione di cui all'articolo 4”) e 10 comma 1 e 2
lett. d) della legge medesima (“1. Le regioni e le
province autonome di Trento e di Bolzano adottano, entro
centottanta giorni dalla data di emanazione del decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri di cui all'articolo 6,
comma 5, piani di protezione dell'ambiente, di
decontaminazione, di smaltimento e di bonifica ai fini della
difesa dai pericoli derivanti dall'amianto.
2. I piani di cui al comma 1 prevedono tra l'altro:
a) il censimento dei siti interessati da attività di estrazione
dell'amianto;
b) il censimento delle imprese che utilizzano o abbiano utilizzato
amianto nelle rispettive attività produttive, nonché delle
imprese che operano nelle attività di smaltimento o di
bonifica;
c) la predisposizione di programmi per dismettere l'attività
estrattiva dell'amianto e realizzare la relativa bonifica
dei siti;
d) l'individuazione dei siti che devono essere utilizzati per
l'attività di smaltimento dei rifiuti di amianto;
e) il controllo delle condizioni di salubrità ambientale e di
sicurezza del lavoro attraverso i presidi e i servizi di
prevenzione delle unità sanitarie locali competenti per
territorio;
f) la rilevazione sistematica delle situazioni di pericolo
derivanti dalla presenza di amianto;
g) il controllo delle attività di smaltimento e di bonifica
relative all'amianto;
h) la predisposizione di specifici corsi di formazione
professionale e il rilascio di titoli di abilitazione per
gli addetti alle attività di rimozione e di smaltimento
dell'amianto e di bonifica delle aree interessate, che è
condizionato alla frequenza di tali corsi;
i) l'assegnazione delle risorse finanziarie alle unità sanitarie
locali per la dotazione della strumentazione necessaria per
lo svolgimento delle attività di controllo previste dalla
presente legge;
l) il censimento degli edifici nei quali siano presenti materiali o
prodotti contenenti amianto libero o in matrice friabile,
con priorità per gli edifici pubblici, per i locali aperti
al pubblico o di utilizzazione collettiva e per i blocchi di
appartamenti.
3. I piani di cui al comma 1 devono armonizzarsi con i piani
di organizzazione dei servizi di smaltimento dei rifiuti di
cui al decreto del Presidente della Repubblica 10.09.1982,
n. 915, e successive modificazioni e integrazioni.
4. Qualora le regioni o le province autonome di Trento e di
Bolzano non adottino il piano ai sensi del comma 1, il
medesimo è adottato con decreto del Presidente del Consiglio
dei ministri su proposta del Ministro della sanità, di
concerto con il Ministro dell'industria, del commercio e
dell'artigianato e con il Ministro dell'ambiente, entro
novanta giorni dalla scadenza del termine di cui al medesimo
comma 1.”) dai quali si evince che la competenza in
materia di individuazione dei siti che devono essere
utilizzati per l'attività di smaltimento dei rifiuti di
amianto pertiene alle Regioni.
4.1.2. Alla stregua di tale punto fermo, la contestata
disposizione di cui all’art. 15 delle NTA del Piano
Regionale stabilisce che non sarebbero ammissibili nuove
volumetrie di discarica, ad eccezione dell’ipotesi in cui
siano presenti discariche per un raggio di 10 Km,
interpretata nel senso di ritenere che l’esistenza di
qualsiasi discarica per rifiuti non pericolosi impedisca la
realizzazione dell’impianto proposto da parte appellata non
può essere censurata di illegittimità in quanto:
a) la regione ha esercitato una potestà “propria”;
b) come ancora di recente stabilito da questa Sezione del Consiglio
di Stato (sentenza n. 5340 del 16.12.2016) “ancora assai
di recente (sentenza del 23/07/2015, n. 180) la Corte
Costituzionale ha avuto modo di precisare che “la disciplina
dei rifiuti è riconducibile alla materia «tutela
dell'ambiente e dell'ecosistema», di competenza esclusiva
statale ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera s),
Cost., anche se interferisce con altri interessi e
competenze, di modo che deve intendersi riservato allo Stato
il potere di fissare livelli di tutela uniforme sull'intero
territorio nazionale, ferma restando la competenza delle
Regioni alla cura di interessi funzionalmente collegati con
quelli propriamente ambientali (tra le molte, sentenze n. 67
del 2014, n. 285 del 2013, n. 54 del 2012, n. 244 del 2011,
n. 225 e n. 164 del 2009 e n. 437 del 2008).
Pertanto, la disciplina statale «costituisce, anche in
attuazione degli obblighi comunitari, un livello di tutela
uniforme e si impone sull'intero territorio nazionale, come
un limite alla disciplina che le Regioni e le Province
autonome dettano in altre materie di loro competenza, per
evitare che esse deroghino al livello di tutela ambientale
stabilito dallo Stato, ovvero lo peggiorino -sentenze n. 314
del 2009, n. 62 del 2008 e n. 378 del 2007-» (sentenza n. 58
del 2015)” (si veda, in passato, anche la ricostruzione
contenuta della condivisibile recente decisione del
Consiglio di Stato sez. V, 26/01/2015 n. 313 da intendersi
integralmente qui richiamata)”;
c) la norma impugnata non introduce certo una “soglia inferiore
di tutela” ma, semmai, persegue “livelli di tutela
più elevati” e detta prescrizione si lega ad una materia
a competenza concorrente (quella della tutela della salute
ai sensi dell’articolo 117, comma 3, della Costituzione- si
veda in proposito, tra le altre Corte Costituzionale
decisione n. 248 del 24.07.2009 considerando n. 2.1.), e la
significativa affermazione secondo cui l’eventuale esigenza
di contemperare la liberalizzazione del commercio con quelle
di una maggiore tutela della salute, del lavoro,
dell’ambiente e dei beni culturali deve essere intesa in
senso sistematico, complessivo e non frazionato, è stata a
più riprese ribadita dal Giudice delle leggi (si vedano le
sentenze della Corte Costituzionale nn. 85/2013 e 264/2012)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.05.2017 n. 2305 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il termine per la redazione della sentenza non è soggetto al
sospensione dei termini per ferie.
---------------
1.1. Il ricorrente denuncia la violazione di legge penale ed
il vizio di motivazione evidenziando come, a seguito delle
modifiche alla
legge 07.10.1969, n. 742 (apportate con d.l.
12.09.2014, n. 132, convertito con modificazioni nella legge
10.11.2014, n. 162), durante il periodo di trenta giorni di
ferie delle magistrature (dal 10 al 31 agosto), debba
ritenersi sospeso il decorso dei termini per il compimento
da parte del magistrato degli atti relativi all'esercizio
delle funzioni giudiziarie, con conseguente posticipazione
del termine per il deposito della sentenza, eventualmente
ricadente in periodo feriale, al periodo successivo.
2. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
3. Costituisce principio di diritto
acquisito, sancito da questa Corte anche a Sezioni Unite,
che il termine per la redazione della motivazione della
sentenza non è soggetto alla disciplina della sospensione
feriale dei termini, diversamente da quello assegnato per
l'impugnazione della sentenza depositata nel corso di tale
periodo, che inizia a decorrere una volta che questo si sia
concluso (Sez. U,
n. 7478 del 19/06/1996, Giacomini, Rv. 205335).
Principio di diritto che non può ritenersi
superato dalla mera riduzione del periodo ferie delle
magistrature da quarantacinque a trenta giorni disposto dal
legislatore con il sopra ricordato intervento riformatore
del 2014 (Sez. 4,
n. 15753 del 05/03/2015, Basile, Rv. 263144).
4. Della sopra delineata regula iuris ha fatto
ineccepibile applicazione il Collegio di merito, atteso che,
avendo riguardo alla scadenza del termine di deposito della
sentenza (09.08.2015), il termine per presentare l'appello
scadeva -a norma dell'art. 585 cod. proc. pen.-, il
15.10.2015 ed era, pertanto, ampiamente scaduto alla data di
presentazione dell'appello in data 22.10.2015 (Corte di
Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza
11.05.2017 n. 23054). |
VARI:
Commette il reato di minaccia chi invita un giornalista “a
stare attento professionalmente”.
Secondo il consolidato orientamento
esegetico di questa Corte —ai fini
dell'integrazione del reato di minaccia- non è necessario
che il soggetto passivo si sia sentito
effettivamente intimidito, essendo semplicemente sufficiente
che la condotta posta in essere
dall'agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla
libertà morale del soggetto passivo.
In realtà, il delitto di minaccia è reato di pericolo che
non presuppone la concreta intimidazione
della persona offesa, ma solo la comprovata idoneità della
condotta ad intimidirla.
Detto altrimenti, la norma
che incrimina la minaccia delinea un reato di pericolo, per
la cui integrazione non è richiesto
che il bene tutelato sia realmente leso mediante l'incussione
di timore nella vittima. È
sufficiente, invece, che il male prospettato sia idoneo a
incutere timore nel soggetto passivo,
menomandone, per ciò solo, la sfera della libertà morale.
Dunque, ritiene la Corte che il reato di minaccia richiede
il riferimento esplicito, chiaro ed
inequivocabile ad un male ingiusto, idoneo, in
considerazione delle concrete circostanze di
tempo e di luogo, ad ingenerare timore in chi risulti
esserne il destinatario).
Per la integrazione del reato di cui qui in
discussione, è sufficiente che il male prospettato sia
idoneo a incutere timore nel soggetto passivo, menomandone,
per ciò solo, la sfera della libertà morale.
Del resto, deve essere
ribadito ancora una volta il
principio secondo cui, verbatim, "Il reato di minaccia è un
reato formale di pericolo, per la cui
integrazione non è richiesto che il bene tutelato sia
realmente leso, bastando che il male
prospettato possa incutere timore nel soggetto passivo,
menomandone la sfera della libertà
morale; la valutazione dell'idoneità della minaccia a
realizzare tale finalità va fatta avendo di
mira un criterio di medialità che rispecchi le reazioni
dell'uomo comune".
---------------
2. Il ricorso è infondato.
2.1 La prima questione devoluta all'attenzione di questa
Corte involge il problema della
qualificazione giuridica delle condotte ascritte
all'imputato, giacché, secondo gli assunti
difensivi, le frasi pronunciate dall'imputato alla persona
offesa, e cioè "devi stare attento
professionalmente, anzi incontriamoci personalmente, da
soli", non integrerebbero il
presupposto oggettivo del reato di cui all'art. 612, cod. pen., non essendo, peraltro, idonee ad
intimorire, anche in ragione delle circostanze di luogo, di
tempo e di modalità di propalazione,
la persona offesa dal reato.
2.2 Il Collegio è invece di contrario avviso, ritenendo che le
condotte contestate nell'editto
accusatorio integrino il reato di minaccia.
2.2.1 Ed invero, secondo il consolidato orientamento
esegetico di questa Corte —ai fini
dell'integrazione del reato di minaccia- non è necessario
che il soggetto passivo si sia sentito
effettivamente intimidito, essendo semplicemente sufficiente
che la condotta posta in essere
dall'agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla
libertà morale del soggetto passivo
(Sez. 1, n. 44128 del 03/05/2016 - dep. 18/10/2016, Nino, Rv.
26828901; cfr., anche ex
plurimis, Sez. 5, n. 46528 del 02/12/2008 - dep. 17/12/2008,
Parlato e altri, Rv. 24260401:
fattispecie in cui in applicazione di questo principio la
S.C. ha censurato la decisione del giudice
di merito -che aveva escluso il contenuto intimidatorio
delle seguenti espressioni rivolte ad
alcuni giocatori di una squadra di calcio e contenute in una
lettera anonima, pubblicata su un
quotidiano sportivo: "ci hanno sempre dipinto come un gruppo
violento che negli ultimi anni è
maturato. Per l'amore della maglia ... siamo disposti a
tornare indietro. Non metteteci alla
prova. Fiduciosi nella vostra intelligenza, per l'ultima
volta vi salutiamo"- ritenendo che
fossero volte non tanto ad intimidire i calciatori, quanto
ad esternare il malcontento della
tifoseria nei confronti di alcuni di essi, adoperando il
linguaggio colorito che sarebbe "prassi
costante" nel mondo calcistico).
In realtà, il delitto di minaccia è reato di pericolo che
non presuppone la concreta intimidazione
della persona offesa, ma solo la comprovata idoneità della
condotta ad intimidirla (Sez. 1, n.
47739 del 06/11/2008 - dep. 23/12/2008, Giuliani, Rv.
24248401). Detto altrimenti, la norma
che incrimina la minaccia delinea un reato di pericolo, per
la cui integrazione non è richiesto
che il bene tutelato sia realmente leso mediante l'incussione
di timore nella vittima. È
sufficiente, invece, che il male prospettato sia idoneo a
incutere timore nel soggetto passivo,
menomandone, per ciò solo, la sfera della libertà morale
(Sez. 6, n. 14628 del 18/10/1999 -
dep. 23/12/1999, Cafagna G, Rv. 21632101).
Dunque, ritiene la Corte che il reato di minaccia richiede
il riferimento esplicito, chiaro ed
inequivocabile ad un male ingiusto, idoneo, in
considerazione delle concrete circostanze di
tempo e di luogo, ad ingenerare timore in chi risulti
esserne il destinatario (così, peraltro,
anche Sez. 5, n. 51246 del 30/09/2014 - dep. 10/12/2014,
Marotta, Rv. 26135701).
2.2.2 Ciò premesso, osserva la Corte come, nel caso di
specie, le due frasi pronunziate
dall'imputato, peraltro del tutto scollegate, per quanto
emerge dalla lettura degli atti da una
possibile rivendicazione —questa sì legittima— di tutela
dei propri diritti in relazione alla
pubblicazione del predetto articolo sulla Gazzetta del
Mezzogiorno attraverso il ricorso
all'autorità giudiziaria (si legga, in tal senso, la
possibile presentazione di una querela per
diffamazione a mezzo stampa al giornalista ritenuto
"incauto" della propalazione della notizia)
— rivestano effettiva valenza minacciosa proprio per il modo
in cui sono state pronunciate ed
anche per l'ulteriore avvertimento di risolvere la
"questione" in separata sede da soli, e dunque
senza la presenza di testimoni.
Peraltro, anche la frase dall'inequivoco contenuto
intimidatorio di "stare attento
professionalmente", per come pronunciata (unitamente
all'altra da ultimo ricordata), non può
essere letta, come vorrebbe la parte ricorrente, come un
semplice monito al giornalista di tenere un comportamento
più corretto nell'espletamento della professione svolta da
quest'ultimo, quanto piuttosto come la minaccia di possibili
ritorsioni nel campo lavoristico in
danno della persona offesa.
Ciò, secondo la giurisprudenza sopra richiamata (cui anche
questo Collegio intende fornire
continuità applicativa) e tenendo a mente il principio
secondo cui, per la integrazione del reato
di cui qui in discussione, è sufficiente che il male
prospettato sia idoneo a incutere timore nel
soggetto passivo, menomandone, per ciò solo, la sfera della
libertà morale, non può che far
concludere questa Corte nel ritenere che sia stata corretta
la qualificazione giuridica fornita dai
giudici di merito e che si sia, pertanto, integrato il
delitto di minacce.
Del resto, deve essere, anche in questo contesto decisorio,
ribadito ancora una volta il
principio secondo cui, verbatim, "Il reato di minaccia è un
reato formale di pericolo, per la cui
integrazione non è richiesto che il bene tutelato sia
realmente leso, bastando che il male
prospettato possa incutere timore nel soggetto passivo,
menomandone la sfera della libertà
morale; la valutazione dell'idoneità della minaccia a
realizzare tale finalità va fatta avendo di
mira un criterio di medialità che rispecchi le reazioni
dell'uomo comune" (Sez. 5, n. 8264 del
29/05/1992 - dep. 23/07/1992, Mascia, Rv. 19143301)
(Corte di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 10.05.2017 n. 22710). |
URBANISTICA: L’art.
9, primo comma, della l. 17.08.1942 n. 1150 (legge
urbanistica) prevede che “il progetto di piano regolatore
generale del Comune deve essere depositato nella Segreteria
comunale per la durata di 30 giorni consecutivi, durante i
quali chiunque ha facoltà di prendere visione. L'effettuato
deposito è reso noto al pubblico nei modi che saranno
stabiliti nel regolamento di esecuzione della presente
legge”.
L’obbligo di pubblicazione del piano regolatore risulta
strumentale alla migliore partecipazione e collaborazione
dei cittadini e di chiunque vi abbia interesse alla attività
di pianificazione del territorio comunale, anche attraverso,
in particolare, la presentazione delle previste
osservazioni. Tale pubblicazione, tuttavia, non deve essere
ripetuta laddove il Piano regolatore riceva modifiche in
dipendenza proprio dell’accoglimento di osservazioni
presentate, o anche per effetto di modifiche introdotte a
seguito di espressa richiesta rappresentata dalla Regione in
sede di approvazione.
Se ciò non fosse, si perverrebbe al paradossale risultato di
un appesantimento incongruo, se non ad un effetto
paralizzante, del procedimento amministrativo, rendendo la
partecipazione non più strumento di collaborazione e
funzionale alla migliore valutazione degli interessi
coinvolti, quanto elemento di defatigante gestione
procedimentale. Tale conclusione, del tutto ragionevole e
condivisibile, cui è già pervenuta la giurisprudenza di
questo Consiglio di Stato, incontra l'unica eccezione
dell'ipotesi in cui l'accoglimento delle osservazioni (o
comunque la modifica introdotta) abbia comportato una
profonda deviazione dai criteri posti a base del piano
stesso, nel qual caso occorre una nuova pubblicazione e la
conseguente raccolta delle nuove osservazioni.
---------------
Un obbligo di ripubblicazione è prospettabile solo quando le
modifiche introdotte superino il limite di rispetto dei
canoni guida del Piano adottato, in altre parole solo
nell’ipotesi in cui vi sia stata una rielaborazione
complessivamente innovativa del piano stesso e cioè un
mutamento delle sue caratteristiche essenziali e dei criteri
che alla sua impostazione rispettivamente hanno presieduto e
presiedono.
Viceversa detto obbligo non sussiste nel caso in cui le
modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento
adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi
criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio
che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario,
quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree.
---------------
4.1 La generale questione della necessità
di ripubblicare o meno lo strumento pianificatorio generale
(riflessione che può essere estesa alla fattispecie, pur
trattandosi di pianificazione di livello sovracomunale) è
stata risolta dalla giurisprudenza dei giudici d’appello
(cfr. Consiglio di Stato, sez. VI – 19/04/2017 n. 1829, che
ha richiamato il precedente della sez. IV – 08/06/2011 n.
3497) nel senso di seguito esposto: <<L’art. 9, primo comma,
della l. 17.08.1942 n. 1150 (legge urbanistica) prevede
che “il progetto di piano regolatore generale del Comune
deve essere depositato nella Segreteria comunale per la
durata di 30 giorni consecutivi, durante i quali chiunque ha
facoltà di prendere visione. L'effettuato deposito è reso
noto al pubblico nei modi che saranno stabiliti nel
regolamento di esecuzione della presente legge”.
L’obbligo
di pubblicazione del piano regolatore risulta strumentale
alla migliore partecipazione e collaborazione dei cittadini
e di chiunque vi abbia interesse alla attività di
pianificazione del territorio comunale, anche attraverso, in
particolare, la presentazione delle previste osservazioni.
Tale pubblicazione, tuttavia, non deve essere ripetuta
laddove il Piano regolatore riceva modifiche in dipendenza
proprio dell’accoglimento di osservazioni presentate, o
anche per effetto di modifiche introdotte a seguito di
espressa richiesta rappresentata dalla Regione in sede di
approvazione.
Se ciò non fosse, si perverrebbe al
paradossale risultato di un appesantimento incongruo, se non
ad un effetto paralizzante, del procedimento amministrativo,
rendendo la partecipazione non più strumento di
collaborazione e funzionale alla migliore valutazione degli
interessi coinvolti, quanto elemento di defatigante gestione
procedimentale. Tale conclusione, del tutto ragionevole e
condivisibile, cui è già pervenuta la giurisprudenza di
questo Consiglio di Stato (sez. IV, 11.10.2007 n.
5357), incontra l'unica eccezione dell'ipotesi in cui
l'accoglimento delle osservazioni (o comunque la modifica
introdotta) abbia comportato una profonda deviazione dai
criteri posti a base del piano stesso, nel qual caso occorre
una nuova pubblicazione e la conseguente raccolta delle
nuove osservazioni>>.
Recentemente, anche questa Sezione si
è pronunciata sulla questione (cfr. sez. I – 09/01/2017 n. 29
che ha richiamato TAR Campania Napoli, sez. I – 11/03/2015
n. 1510; sez. VIII – 07/03/2013 n. 1287 e Consiglio di Stato,
sez. IV – 04/12/2013 n. 5769), osservando che un obbligo di
ripubblicazione è prospettabile solo quando le modifiche
introdotte superino il limite di rispetto dei canoni guida
del Piano adottato, in altre parole solo nell’ipotesi in cui
vi sia stata una rielaborazione complessivamente innovativa
del piano stesso e cioè un mutamento delle sue
caratteristiche essenziali e dei criteri che alla sua
impostazione rispettivamente hanno presieduto e presiedono;
viceversa detto obbligo non sussiste nel caso in cui le
modifiche non comportino uno stravolgimento dello strumento
adottato ovvero un profondo mutamento dei suoi stessi
criteri ispiratori, ma consistano in variazioni di dettaglio
che comunque ne lascino inalterato l’impianto originario,
quand’anche queste siano numerose sul piano quantitativo
ovvero incidano in modo intenso sulla destinazione di
singole aree o gruppi di aree (si veda anche, nello stesso
senso, TAR Lombardia Milano, sez. II – 13/04/2017 n. 856,
che ha richiamato numerosi precedenti del Consiglio di
Stato) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 08.05.2017 n. 614 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le osservazioni dei privati agli strumenti
urbanistici adottati consistono in meri apporti
collaborativi: di conseguenza, il loro rigetto non richiede
una specifica motivazione, ma è sufficiente che i rilievi
siano stati affrontati e ritenuti in contrasto con gli
interessi e le considerazioni generali poste a base della
formazione del piano.
Alla luce di ciò, è certamente ammissibile il raggruppamento
dei suggerimenti provenienti dai soggetti privati secondo
parametri funzionali e il loro esame collettivo (anche per
macro-settori di interesse), e così pure l’individuazione di
un’unica proposta di controdeduzioni, alla luce delle
molteplici posizioni coinvolte e della necessità di non
paralizzare o prolungare eccessivamente l’iter di
approvazione del Piano.
---------------
5. Parimenti
infondata (a prescindere dall’eccezione in rito formulata) è
l’ulteriore censura (cfr. paragrafo D.XI), non essendo
ravvisabile alcuna violazione dei principi fondamentali in
materia di funzionamento degli organi collegiali.
Le
osservazioni, infatti, sono state raggruppate per gruppi di
tematiche (17, come rammenta la difesa provinciale), e in
proposito si sottolinea il consolidato e indiscusso approdo
per cui le osservazioni dei privati agli strumenti
urbanistici adottati consistono in meri apporti
collaborativi: di conseguenza, il loro rigetto non richiede
una specifica motivazione, ma è sufficiente che i rilievi
siano stati affrontati e ritenuti in contrasto con gli
interessi e le considerazioni generali poste a base della
formazione del piano (cfr. per tutte TAR Lombardia
Milano, sez. II – 29/11/2016 n. 2250).
Alla luce di ciò, è certamente ammissibile il raggruppamento
dei suggerimenti provenienti dai soggetti privati secondo
parametri funzionali e il loro esame collettivo (anche per
macro-settori di interesse), e così pure l’individuazione di
un’unica proposta di controdeduzioni, alla luce delle
molteplici posizioni coinvolte e della necessità di non
paralizzare o prolungare eccessivamente l’iter di
approvazione del Piano (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 08.05.2017 n. 614 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In materia di pianificazione, può ritenersi
sussistente un affidamento qualificato solo in presenza di
piani di lottizzazione già approvati, ovvero altri tipi di
accordi tra l’amministrazione ed il privato aventi ad
oggetto l’immobile che subisce la modifica di destinazione,
mentre non genera alcun affidamento qualificato il semplice
fatto che nella precedente pianificazione un immobile avesse
una diversa destinazione.
---------------
6.1 E’ pur
vero che, in materia di pianificazione, può ritenersi
sussistente un affidamento qualificato solo in presenza di
piani di lottizzazione già approvati, ovvero altri tipi di
accordi tra l’amministrazione ed il privato aventi ad
oggetto l’immobile che subisce la modifica di destinazione,
mentre non genera alcun affidamento qualificato il semplice
fatto che nella precedente pianificazione un immobile avesse
una diversa destinazione (cfr. TAR Sicilia Palermo, sez. III –
01/03/2016 n. 612).
Tuttavia, come correttamente
evidenziato dai ricorrenti, nel precedente progetto di PTCP
adottato nel 2009 le aree erano incluse entro la categoria
di “suolo urbanizzato o urbanizzabile” e in data 02/12/2008
la Provincia aveva espresso parere di compatibilità nel
procedimento SUAP attivato dal Comune di Ospitaletto.
In
proposito, le criticità evidenziate riguardavano la
viabilità, senza cenno alcuno alle caratteristiche
paesaggistiche ovvero “strategiche” delle aree aventi
destinazione agricola (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 08.05.2017 n. 614 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: • nella formazione dello strumento urbanistico e nelle
scelte che presiedono all’approvazione di varianti generali,
l’amministrazione vanta di regola un’ampia potestà
discrezionale per cui, salva l’esistenza di un piano
attuativo approvato e convenzionato, nessun affidamento
deriva dalla diversa destinazione pregressa della medesima
area: l’autorità pianificatoria può anche apportare
modificazioni «peggiorative» rispetto agli interessi del
proprietario, in capo al quale è configurabile nulla più che
una generica aspettativa al mantenimento della destinazione
urbanistica gradita, ovvero a una reformatio in melius,
analoga a quella di ogni altro proprietario di aree che
aspiri ad una utilizzazione comunque proficua dell'immobile;
• le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte
alla pianificazione territoriale attengono al merito
dell’azione amministrativa e non sono sindacabili, a meno
che risultino inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle
esigenze che si intendono nel concreto soddisfare.
E' vero
tuttavia, che “la verifica e la scelta della destinazione
edificatoria, pure riservate al potere discrezionale, devono
raccordarsi con la più generale disciplina urbanistica e
rivelarsi altresì satisfattive dell’interesse pubblico al
corretto ed armonico utilizzo del territorio, nel
contemperamento delle varie esigenze della popolazione che
su tale ambito insiste ed opera …”;
• costituisce approdo consolidato e indiscusso quello
secondo cui le osservazioni dei privati ai progetti di
strumenti urbanistici sono un mero apporto collaborativo e
non danno luogo ad affidamento, con la conseguenza che il
loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo
sufficiente che esse siano state esaminate e ritenute in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste alla base della formazione del Piano.
---------------
1. E’ utile anzitutto richiamare,
sinteticamente, alcuni consolidati principi
giurisprudenziali della materia oggetto del contendere:
• nella formazione dello strumento urbanistico e nelle
scelte che presiedono all’approvazione di varianti generali,
l’amministrazione vanta di regola un’ampia potestà
discrezionale per cui, salva l’esistenza di un piano
attuativo approvato e convenzionato, nessun affidamento
deriva dalla diversa destinazione pregressa della medesima
area: l’autorità pianificatoria può anche apportare
modificazioni «peggiorative» rispetto agli interessi del
proprietario, in capo al quale è configurabile nulla più che
una generica aspettativa al mantenimento della destinazione
urbanistica gradita, ovvero a una reformatio in melius,
analoga a quella di ogni altro proprietario di aree che
aspiri ad una utilizzazione comunque proficua dell'immobile
(TAR Toscana, sez. I – 16/01/2017 n. 38 e la propria
giurisprudenza menzionata; la sentenza evocata ha aggiunto
che “La mera adozione della variante non poteva perciò
produrre alcun effetto di affidamento dovendo tale atto
essere sottoposto all’esame del Consiglio comunale dopo la
presentazione delle osservazioni”);
• le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte
alla pianificazione territoriale attengono al merito
dell’azione amministrativa e non sono sindacabili, a meno
che risultino inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle
esigenze che si intendono nel concreto soddisfare; è vero
tuttavia, che “la verifica e la scelta della destinazione
edificatoria, pure riservate al potere discrezionale, devono
raccordarsi con la più generale disciplina urbanistica e
rivelarsi altresì satisfattive dell’interesse pubblico al
corretto ed armonico utilizzo del territorio, nel
contemperamento delle varie esigenze della popolazione che
su tale ambito insiste ed opera …” (TAR Lombardia Milano,
sez. II – 16/01/2017 n. 102 e giurisprudenza richiamata);
• costituisce approdo consolidato e indiscusso quello
secondo cui le osservazioni dei privati ai progetti di
strumenti urbanistici sono un mero apporto collaborativo e
non danno luogo ad affidamento, con la conseguenza che il
loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo
sufficiente che esse siano state esaminate e ritenute in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste alla base della formazione del Piano (Consiglio di
Stato, sez. I – 05/10/2016 n. 2050)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 20.02.2017 n. 249 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
climatizzatori o i condizionatori, per consolidata
giurisprudenza amministrativa, costituiscono impianti
tecnologici e pertanto se collocati, come nella specie,
all'esterno dei fabbricati, rientrano nel novero degli
interventi edilizi definiti dall'art. 3 d.P.R. n. 380 del
2001 sicché sono assoggettati alla relativa normativa di
settore, con la conseguenza che la loro realizzazione o
installazione, seppure non necessitante del permesso di
costruire, è tuttavia soggetta a segnalazione certificata di
inizio di attività (S.C.I.A.) ai sensi dell'art. 22 d.P.R.
n. 380 del 2001.
---------------
L'esecuzione in assenza o in difformità degli interventi
subordinati a denuncia di inizio attività (DIA) ex art. 22,
commi 1 e 2, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (ora S.C.I.A.),
allorché non conformi alle previsioni degli strumenti
urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina
urbanistico-edilizia in vigore, comporta l'applicazione
della sanzione penale prevista dall'art. 44 lett. a), del
citato d.P.R. n. 380, atteso che soltanto in caso di
interventi eseguiti in assenza o difformità dalla DIA (ora
S.C.I.A.), ma conformi alla citata disciplina, è applicabile
la sanzione amministrativa prevista dall'art. 37 dello
stesso decreto n. 380 del 2001.
Nel caso di specie, l'installazione del
condizionatore d'aria è stata eseguita in violazione
dell'art. 17 del regolamento edilizio comunale e senza la
segnalazione di inizio di attività, sicché correttamente è
stata ritenuta la violazione dell'art. 44, lett. a), d.P.R.
n. 380 del 2001.
---------------
L'opera installata dalla ricorrente non
rientrava, dunque, tra le attività edilizie libere ossia tra
gli interventi eseguibili senza alcun titolo abilitativo.
Va quindi ricordato che, anche con riferimento a tali ultimi
interventi, sono sempre fatte salve le prescrizioni degli
strumenti urbanistici comunali e comunque l'attività
edilizia cd. libera deve essere attuata nel rispetto delle
altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell'attività edilizia e, in particolare, delle norme
antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie,
di quelle relative all'efficienza energetica nonché delle
disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del
paesaggio, di cui al dlgs 22.01.2004, n. 42 (art. 6, comma
1, d.P.R. n. 380 del 2001).
Ne consegue che, essendo stato l'intervento
eseguito in zona nella quale era imposto il vincolo
paesaggistico, l'esecuzione dell'opera era condizionata al
rilascio del nulla osta da parte dell'autorità preposta alla
tutela del vincolo, derivando dal mancato rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica l'integrazione della
fattispecie di reato prevista dall'art. 181 d.lgs. n. 42 del
2004.
----------------
1. E' impugnata la sentenza con la quale la Corte di appello
di Lecce ha confermato la decisione resa dal Tribunale di
Brindisi, sezione distaccata di Ostuni, che aveva condannato
Ca.An.Pa. alla pena alla pena di gg. 15 di arresto e
23.000,000 euro di ammenda, sostituita la pena detentiva
nella corrispondente pena pecuniaria di 570,00 euro di
ammenda, rideterminando la pena complessivamente inflitta in
23.570,00 euro di ammenda per il reato (capo a) previsto
dagli artt. 81 cod. pen. e 44, lett. a), d.P.R. 06.06.2001,
n. 380 per avere, in qualità di committente, installato, in
area sottoposta a vincolo paesaggistico, un condizionatore
d'aria a servizio del proprio esercizio commerciale in
assenza di alcun titolo autorizzativo e del reato (capo b)
previsto dall'art. 181 d.lgs. 22.01.2004, n. 42 per aver
eseguito i lavori di cui al precedente capo a) in zona
sottoposta al vincolo paesaggistico in Ostuni il 14.10.2008.
2. Per l'annullamento dell'impugnata sentenza, ricorre per
cassazione, a mezzo del difensore, Ca.An.Pa. affidando il
gravame a quattro motivi.
2.1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia
l'erronea ed illegittima applicazione dell'art. 44, lett.
a), d.P.R. n. 380 del 2001 (art. 606, comma 1, lett. b),
cod. proc. pen.) sul rilievo che la micro e temporanea
apparecchiatura tecnologica allocata dalla ricorrente
all'esterno della sua micro attività non rientrava, in alcun
modo, nella previsione di cui all'art. 44, lett. a), del DPR
380 del 2001 non avendo la ricorrente ha posto in essere
alcuna attività urbanistica edilizia. Alla ricorrente si
contesta, infatti, la presunta violazione dell'art. 17 del
regolamento edilizio comunale che non ha natura normativa
e/o precettiva, ma meramente descrittiva di come vanno
allocati micro impianti tecnologici, come nel caso in esame.
Ne consegue che la predetta regolamentazione tecnica non
rientra e non può rientrare nella previsione dell'art. 44,
lett. a), del DPR 380 del 2001 atteso che la temporanea
installazione di un piccolo supporto tecnologico non può
configurare e/o costituire attività urbanistica-edilizia,
non incidendo minimamente sull'uso del territorio.
2.2. Con il secondo motivo, deduce la violazione
della legge penale in relazione all'art. 54 cod. pen. (art.
606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen.) per aver la Corte
territoriale ignorato il prospettato e documentato stato di
necessità in cui versava la ricorrente, dovendo il suo
operato essere inquadrato in una condizione di necessità non
altrimenti risolvibile.
2.3. Con il terzo motivo lamenta la violazione
dell'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004 (art. 606, comma 1,
lett. b), cod. proc. pen.) in quanto la contestazione mossa
alla ricorrente di presunta violazione della disciplina del
vincolo paesaggistico sarebbe del tutto illegittima posto
che l'ambiente in cui insisteva il manufatto tecnologico di
natura stagionale, precaria e rimovibile non aveva alcuna
incidenza sotto il profilo paesaggistico.
2.4. Con il quarto motivo si duole del vizio di falsa
applicazione della legge penale e del difetto di motivazione
(art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen.) in
ordine al diniego della concessione dei doppi benefici di
legge (sospensione condizionale della pena e non menzione
della condanna) per la violazione del principio di
proporzionalità atteso che la ritenuta e lieve entità
dell'intervento per cui è processo avrebbe dovuto indurre il
Giudice del merito a concedere gli invocati doppi benefici.
...
1. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza dei
motivi e per la proposizione di essi nei casi non
consentiti.
2. Quanto al primo motivo, è sufficiente osservare
come i climatizzatori o i condizionatori,
per consolidata giurisprudenza amministrativa
(ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI n. 4744 del
01/10/2008), costituiscono impianti
tecnologici e pertanto se collocati, come nella specie,
all'esterno dei fabbricati, rientrano nel novero degli
interventi edilizi definiti dall'art. 3 d.P.R. n. 380 del
2001 sicché sono assoggettati alla relativa normativa di
settore, con la conseguenza che la loro realizzazione o
installazione, seppure non necessitante del permesso di
costruire, è tuttavia soggetta a segnalazione certificata di
inizio di attività (S.C.I.A.) ai sensi dell'art. 22 d.P.R.
n. 380 del 2001.
L'articolo 3, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del
2001 (come modificato dall'art. 17, comma 1, decreto legge
12.09.2014, n. 133 convertito, nelle more tra la decisione e
la redazione della presente sentenza, nella legge
11.11.2014, n. 164) tuttora include tra gli interventi di
manutenzione straordinaria "le opere e le modifiche
necessarie per rinnovare e sostituire parti anche
strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed
integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre
che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e
non comportino modifiche delle destinazioni di uso", e
l'articolo 22, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001 richiede,
per tali interventi, una S.C.I.A., trattandosi
dell'istallazione di impianti che si pongano in rapporto di
strumentalità necessaria rispetto a edifici preesistenti.
Il cosiddetto decreto "Sblocca Italia" (decreto legge
12.09.2014, n. 133 convertito in legge 11.11.2014, n. 164)
ha introdotto modifiche alla nozione di "manutenzione
straordinaria", irrilevanti ai fini dello scrutinio
della questione sottoposta alla Corte, in quanto il
riferimento a "volumi e superfici delle singole unità
immobiliari" è stato modificato, come si è in precedenza
segnalato, nel concetto di "volumetria complessiva degli
edifici" ed inoltre rientrano, per quanto qui interessa,
nella categoria della manutenzione straordinaria anche gli
interventi di frazionamento o accorpamento delle unità
immobiliari con esecuzione di opere, anche se comportanti la
variazione delle superfici delle singole unità immobiliari
nonché del carico urbanistico, a condizione che non sia
modificata la volumetria complessiva degli edifici e si
mantenga l'originaria destinazione.
Ciò posto, questa Corte ha affermato che
l'esecuzione in assenza o in difformità degli interventi
subordinati a denuncia di inizio attività (DIA) ex art. 22,
commi 1 e 2, d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (ora S.C.I.A.),
allorché non conformi alle previsioni degli strumenti
urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina
urbanistico-edilizia in vigore, comporta l'applicazione
della sanzione penale prevista dall'art. 44 lett. a), del
citato d.P.R. n. 380, atteso che soltanto in caso di
interventi eseguiti in assenza o difformità dalla DIA (ora
S.C.I.A.), ma conformi alla citata disciplina, è applicabile
la sanzione amministrativa prevista dall'art. 37 dello
stesso decreto n. 380 del 2001
(Sez. 3, n. 41619 del 22/11/2006, Cariello, Rv. 235413; Sez.
3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 243099).
Nel caso di specie, l'installazione del
condizionatore d'aria è stata eseguita in violazione
dell'art. 17 del regolamento edilizio comunale e senza la
segnalazione di inizio di attività, sicché correttamente è
stata ritenuta la violazione dell'art. 44, lett. a), d.P.R.
n. 380 del 2001.
3. Il terzo ed il quarto motivo di gravame
attengono a questioni che sono state già proposte al giudice
d'appello e sono state motivatamente respinte.
L'opera installata dalla ricorrente non
rientrava, dunque, tra le attività edilizie libere ossia tra
gli interventi eseguibili senza alcun titolo abilitativo. Va
quindi ricordato che, anche con riferimento a tali ultimi
interventi, sono sempre fatte salve le prescrizioni degli
strumenti urbanistici comunali e comunque l'attività
edilizia cd. libera deve essere attuata nel rispetto delle
altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell'attività edilizia e, in particolare, delle norme
antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie,
di quelle relative all'efficienza energetica nonché delle
disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del
paesaggio, di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42
(art. 6, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001).
Ne consegue che, essendo stato l'intervento
eseguito in zona nella quale era imposto il vincolo
paesaggistico, l'esecuzione dell'opera era condizionata al
rilascio del nulla osta da parte dell'autorità preposta alla
tutela del vincolo, derivando dal mancato rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica l'integrazione della
fattispecie di reato prevista dall'art. 181 d.lgs. n. 42 del
2004 (manifesta
infondatezza del terzo motivo).
Quanto al diniego dei benefici di legge, la Corte
territoriale ha osservato, con congrua motivazione, che due
precedenti condanne riportate dalla ricorrente rendevano
infausta la prognosi relativa all'astensione dalla futura
commissione di ulteriori reati (manifesta infondatezza del
quarto motivo di gravame).
Va solo precisato come questa Corte abbia affermato il
principio secondo il quale è inammissibile il ricorso per
cassazione fondato, come nella specie, sugli stessi motivi
proposti con l'appello e motivatamente respinti in secondo
grado, sia per l'insindacabilità delle valutazioni di merito
adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità
delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente
denunciano un errore logico o giuridico determinato (Sez. 3,
n. 44882 del 18/07/2014, Cariolo ed altri, Rv. 260608)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.01.2015 n. 952). |
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Continuano imperterriti gli interrogativi in ordine
all'«elemosina
di Stato»,
ergo l'«incentivo
funzioni tecniche»: |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
1. Il legislatore del 2016 ha risolto le questioni di
diritto transitorio scegliendo l’opzione dell’ultrattività,
consentendo, così, che il regime previgente continui ad
operare in relazione “alle procedure e ai contratti per i
quali i bandi o avvisi siano stati pubblicati prima
dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016”.
Ne
deriva che l’istituto previsto dall’art. 113 non è
applicabile alle procedure bandite prima della data di
entrata in vigore del nuovo “Codice”; non può inoltre aversi
ripartizione del fondo agli aventi diritto se non dopo
l’adozione del regolamento di cui al comma 3 dell’art. 113.
2. La Sezione non può che rinviare a quanto disposto dal
comma 3 dell’articolo in esame in ordine al fatto che le
modalità e i criteri di ripartizione sono stabiliti in sede
di contrattazione decentrata integrativa del personale,
sulla base di apposito regolamento adottato dalle
amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti.
3. La
disposizione in esame non sembra delimitare in senso
escludente l’incentivabilità di dette funzioni in ragione
dell’oggetto del contratto; tale interpretazione è ormai
avvalorata dalla giurisprudenza della Corte in sede
consultiva che, da un lato, ammette che
gli incentivi siano da riconoscere anche per gli appalti di
servizi e forniture e, dall’altro, che tra i beneficiari
degli stessi non possano comprendersi coloro che svolgono
attività relative alla progettazione e al coordinamento
della sicurezza.
---------------
Il Sindaco del Comune di Besana in Brianza (MB) ha formulato
una richiesta di parere in merito al regolamento per la
ripartizione del fondo di cui all’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
In particolare, il rappresentante dell’Ente, dovendo
procedere alla redazione del regolamento di cui all'art. 113
del d.lgs. n. 50 del 2016, chiede un parere in merito ai
seguenti aspetti.
- “In primo luogo, sorge il dubbio in merito alla
possibilità di riconoscere al personale dipendente gli
incentivi per le opere effettivamente portate a termine nei
periodi da1 19.08.2014 al 18.04.2016 (periodo di vigenza del
citato art. 93, comma 7-bis, Divo 163/2006) e dal 19.04.2016
alla data di approvazione del predisponendo regolamento;
- In secondo luogo, qualora si configuri la possibilità di
procedere alla liquidazione; si devono stabilire le modalità
con le quali effettuare la ripartizione delle somme
destinate-agli incentivi;
- In terzo luogo, in merito alla tipologia delle attività
alle quali applicare il regolamento in parola si chiede se
le attività di manutenzione possano o meno essere
ricomprese.
Per quanto riguarda il primo ed il secondo punto, ci risulta
di difficile comprensione il
parere 07.09.2016 n. 353
reso dalla Corte dei Conti sezione regionale di
Controllo per il Veneto. Sinteticamente, la Corte rispondeva
affermando che non è possibile adottare un regolamento
avente efficacia retroattiva in quanto ciò è illegittimo a
meno di espressa disposizione di legge, ma che è invece
possibile accantonare delle somme per la successiva
liquidazione, concludendo che ove poi il regolamento
successivamente adottato dall'ente dovesse individuare una
percentuale inferiore a quella già stabilita dall'ente, la
parte dell'accantonamento non utilizzata concorrerà alla
determinazione del risultato di amministrazione.
A prima vista, la seconda risposta pare in contraddizione
con la prima, a meno di voler sviluppare la risposta nel
modo seguente:
• non è più possibile adottare un regolamento che disciplini
la fattispecie sulla base delle previsioni dì cui all'art. 93,
comma 7-bis, D.Lvo 163/2006, a seguito della sua abrogazione
da parte del successivo D.Lvo 50/2016;
• è invece possibile e anzi doveroso adottare un nuovo
regolamento in ossequio al D.Lvo 50/2016;
• le somme accantonate per opere effettivamente portate a
termine nel periodo dal 19.08.2014 alla data di adozione del
nuovo regolamento andranno ripartite e liquidate secondo i
criteri ivi previsti, informati al D.Lvo 50/2016.
Alternativamente, si chiede se è possibile ripartire e
liquidare le somme accantonate e calcolate tenendo conto dei
limiti massimi imposti dalla normativa vigente nel tempo
utilizzando i criteri di riparto previsti nel previgente
regolamento, e questo per le opere effettivamente realizzate
nel periodo dal 19.08.2014 alla data di adozione del nuovo
regolamento.
Per quanto riguarda il terzo punto, il 3° comma dell'art. 113
del D.Lvo 50/2016 testualmente recita: l'ottanta per cento
delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del
comma 2 è ripartito per ciascuna opera o lavoro, servizio,
fornitura con le modalità previste in sede di contrattazione
decentrata....
Precedentemente, il comma 7-ter dell'art. 93 D.Lvo 163/2006,
ora abrogato, prevedeva che il fondo per la ripartizione
degli incentivi di che trattasi doveva essere costituito
escludendo le attività manutentive. Tale precisazione non
compare nel disposto dell'art. 113 D.Lvo 50/2016.
Pertanto si chiede se, nel silenzio della nuova normativa,
si deve ritenere abrogata l'esclusione delle attività di
manutenzione o se, come ritiene la Corte dei Conti sezione
regionale di controllo per la Sardegna con
parere 18.10.2016 n. 122, deve ritenersi tutt'ora esclusa dalla
ripartizione delle risorse del fondo l'attività di
manutenzione sia ordinaria sia straordinaria”.
...
3. I quesiti posti dal Comune istante sono tre, tutti
riguardanti l’interpretazione dell’art. 113 del d.lgs. n. 50
del 2016.
L’articolo 113 del nuovo Codice dei contratti pubblici
approvato con decreto legislativo 18.04.2016, n. 50
introduce nuove forme di “Incentivi per funzioni tecniche”.
La nuova normativa del Codice dei contratti pubblici,
sostitutiva della precedente, ha abolito gli incentivi alla
progettazione previsti dal previgente articolo 93, comma
7-ter, del decreto legislativo n. 163 del 2006 e
ha introdotto nuove forme di incentivazione per le funzioni
tecniche svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per
le attività di programmazione della spesa per investimenti,
per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e
di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei
contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento,
di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e
di collaudo tecnico-amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico ove necessario per
consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei
documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi
prestabiliti.
Detto articolo recita testualmente:
“1. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione
dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla
vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle
verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e
alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di
sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della
sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del
decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni
professionali e specialistiche necessari per la redazione di
un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno
carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei
singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei
bilanci delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1 le
amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo
risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento
modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara per le
funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici
esclusivamente per le attività di programmazione della spesa
per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di
predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del
procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico ove
necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel
rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei
tempi e costi prestabiliti.
3. L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo
costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna
opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i
criteri previsti in sede di contrattazione decentrata
integrativa del personale, sulla base di apposito
regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i
rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del
procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche
indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori. Gli
importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e
assistenziali a carico dell'amministrazione.
L'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore
stabilisce i criteri e le modalità per la riduzione delle
risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a
fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi non
conformi alle norme del presente decreto. La corresponsione
dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile
di servizio preposto alla struttura competente, previo
accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti
dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel
corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse
amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per
cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le
quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non
svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a
personale esterno all'organico dell'amministrazione
medesima, ovvero prive del predetto accertamento,
incrementano la quota del fondo di cui al comma 2. Il
presente comma non si applica al personale con qualifica
dirigenziale.
4. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del
fondo di cui al comma 2 ad esclusione di risorse derivanti
da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a
destinazione vincolata è destinato all'acquisto da parte
dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a
progetti di innovazione anche per il progressivo uso di
metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione
elettronica informativa per l'edilizia e le infrastrutture,
di implementazione delle banche dati per il controllo e il
miglioramento della capacità di spesa e di efficientamento
informatico, con particolare riferimento alle metodologie e
strumentazioni elettroniche per i controlli. Una parte delle
risorse può essere utilizzata per l'attivazione presso le
amministrazioni aggiudicatrici di tirocini formativi e di
orientamento di cui all'articolo 18 della legge 24.06.1997, n. 196 o per lo svolgimento di dottorati di ricerca di
alta qualificazione nel settore dei contratti pubblici
previa sottoscrizione di apposite convenzioni con le
Università e gli istituti scolastici superiori.
5. Per i compiti svolti dal personale di una centrale unica
di committenza nell'espletamento di procedure di
acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di
altri enti, può essere riconosciuta, su richiesta della
centrale unica di committenza, una quota parte, non
superiore ad un quarto, dell'incentivo previsto dal comma
2.”
Al riguardo si rileva che, l’articolo 1, comma 1, lettera rr),
della legge delega 28.01. 2016, n. 11, ha previsto i
seguenti criteri: “al fine di incentivare l'efficienza e
l'efficacia nel perseguimento della realizzazione e
dell'esecuzione a regola d'arte, nei tempi previsti dal
progetto e senza alcun ricorso a varianti in corso d'opera,
è destinata una somma non superiore al 2 per cento
dell'importo posto a base di gara per le attività tecniche
svolte dai dipendenti pubblici relativamente alla
programmazione della spesa per investimenti, alla
predisposizione e controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di direzione dei lavori e
ai collaudi, con particolare riferimento al profilo dei
tempi e dei costi, escludendo l'applicazione degli incentivi
alla progettazione”.
Sulla materia si è espressa la Sezione delle Autonomie con
la
deliberazione 06.04.2017 n. 7, affermando che “gli
incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113,
comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei
trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l.
n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)”.
3.1 Il primo quesito verte sulla possibilità di riconoscere
al personale dipendente gli incentivi per le opere
effettivamente portate a termine nel periodi dal 19.08.2014 al 18.04.2016 e nel periodo dal 19.04.2016 alla
data di approvazione del regolamento di cui all’art. 113 d.lgs. n. 50 del 2016.
3.1.1 La risposta al quesito necessita, innanzitutto, di
chiarire un primo elemento temporale, relativo all’entrata
in vigore dell’istituto incentivante di cui all’art. 113
citato nell’ambito della complessiva disciplina introdotta
con il d.lgs. n. 50 del 2016.
In via generale l’introduzione di un nuovo assetto
normativo, quale quello contenuto nel d.lgs. n. 50 del 2016,
determina conseguenze in ordine all’avvicendamento temporale
del medesimo rispetto alla disciplina precedente.
Tali conseguenze possono trovare, almeno in astratto,
tre
possibili e differenti regolazioni: a) la normativa
anteriore continua ad applicarsi ai rapporti sorti prima
dell’entrata in vigore del nuovo atto normativo (principio
di ultrattività); b) la nuova normativa si applica anche ai
rapporti pendenti (principio di retroattività); c)
previsione di una regolazione autonoma provvisoria.
In mancanza di un’esplicita regolazione del regime
transitorio, soccorrono il principio del divieto di
retroattività (art. 11 delle preleggi: “la legge non dispone
che per l’avvenire”), che impedisce di ascrivere entro
l’ambito operativo di una disposizione legislativa nuova una
situazione sostanziale sorta prima, e, per quanto riguarda
le fattispecie sostanziali che constano di una sequenza di
atti, il principio del tempus regit actum, che impone di
giudicare ogni atto della procedura soggetto al regime
normativo vigente al momento della sua adozione.
Il legislatore del 2016 si è fatto carico delle questioni di
diritto transitorio e le ha risolte scegliendo l’opzione
dell’ultrattività, consentendo, così, che il regime
previgente continui ad operare in relazione “alle procedure
e ai contratti per i quali i bandi o avvisi siano stati
pubblicati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del
2016”. Ai sensi dell’art. 216, comma 1, infatti, le
disposizioni introdotte dal d.lgs. n.50 del 2016 si
applicano solo alle procedure bandite dopo la data
dell’entrata in vigore del nuovo “Codice”, fatto salve le
disposizioni speciali e testuali di diverso tenore.
Non ricorrendo tale ultima eventualità in relazione
all’istituto dell’incentivo di cui all’art. 113, la
disciplina intertemporale del medesimo non può che
rinvenirsi nella
regola posta in termini generali dall’art. 216, comma 1, del
d.lgs. n. 50 del 2016. Là dove, infatti, quest’ultima
previsione si riferisce “al presente Codice”,
si deve intendere che essa comprenda entro il proprio ambito
applicativo tutte le disposizioni del decreto legislativo
n. 50 del 2016.
Se il legislatore avesse voluto escludere dall’ambito
applicativo del regime transitorio la norma di cui all’art.
113, lo avrebbe dovuto esplicitare, come ha fatto per le
previsioni riportate nei commi dell’art. 216 successivi al
primo e come espressamente stabilito, quale criterio
esegetico generale della disciplina transitoria, nella
clausola di apertura del primo comma.
A fronte di una espressa regola intertemporale contenuta
nell’art. 216 e in difetto di univoci indici che rivelino
una chiara volontà di escludere dall’operatività del
principio di ultrattività le norme contenute nell’art. 113
del d.lgs. n. 50 del 2016, ogni opzione ermeneutica che
giunga alla conclusione di applicare a queste ultime il
principio della retroattività o, comunque, la regola del
tempus regit actum si rivela priva di fondamento positivo,
e, pertanto, foriera di incertezze interpretative e di
confusione applicativa.
Ne deriva che l’istituto previsto dall’art. 113 non è
applicabile alle procedure bandite prima della data di
entrata in vigore del nuovo “Codice”.
3.1.2 L’ulteriore corollario del primo quesito è relativo
all’applicabilità dell’incentivo disciplinato dall’art. 113
del d.lgs. n. 50 del 2016 nel periodo successivo all’entrata
in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici ma
antecedente all’introduzione del regolamento ivi richiamato.
Sul punto si è in parte pronunciata la Sezione Veneto con
parere 07.09.2016 n. 353, affermando che
l’adozione del
regolamento è “una condizione essenziale ai fini del
legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse
accantonate sul fondo.
Ciò, evidentemente, perché esso è destinato ad individuare
le modalità ed i criteri della ripartizione, oltre alla
percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo
fissato dalla legge”.
Ne deriva che non può aversi ripartizione del fondo agli
aventi diritto se non dopo l’adozione del regolamento di cui
al comma 3 dell’art. 113. Fermo restando che la ripartizione
è effettuata, come già sopra osservato, in relazione ad
attività riferite a procedure bandite a partire dalla data
di entrata in vigore del nuovo “Codice” e utilizzando le
somme accantonate nel quadro economico riguardante la
singola opera.
3.2 Il secondo quesito verte sulle modalità con le quali
effettuare la ripartizione delle somme destinate agli
incentivi.
Al riguardo la Sezione non può che rinviare a quanto
disposto dal comma 3 dell’articolo in esame in ordine al
fatto che le modalità e i criteri di ripartizione sono
stabiliti in sede di contrattazione decentrata integrativa
del personale, sulla base di apposito regolamento adottato
dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti.
3.3 Il terzo quesito verte sulla “tipologia delle attività
alle quali applicare il regolamento in parola”, chiedendo,
in particolare, “se le attività di manutenzione possano o
meno essere ricomprese”.
In primo luogo la Sezione rileva la tassatività –che deriva,
a tacer d’altro, dall’uso dell’avverbio “esclusivamente”-
dell’elenco delle varie funzioni svolte all’interno delle
fasi procedimentali che connotano gli affidamenti di
contratti pubblici (programmazione, progettazione, procedura
selettiva, stipulazione ed esecuzione). Con la conseguenza
che possono beneficiare dell’incentivo esclusivamente i
funzionari che hanno svolto i compiti espressamente indicati
al comma 2 dell’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del
2016 e che l’incentivo è causalmente collegato allo
svolgimento delle attività ivi indicate.
Segnatamente gli incentivi per funzioni tecniche previsti
dall’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016 possono
essere corrisposti solo in presenza di una delle attività
espressamente considerate dalla disposizione richiamata
(così Sezione delle Autonomie,
deliberazione 13.05.2016 n. 18;
Sezione regionale di controllo per la Puglia,
parere 13.12.2016 n. 204; Sezione regionale di controllo per il
Veneto,
parere 02.03.2017 n. 134; Sezione regionale di
controllo per la Regione siciliana,
parere 30.03.2017 n. 71).
La disposizione in esame non sembra, invece, delimitare in
senso escludente l’incentivabilità di dette funzioni in
ragione dell’oggetto del contratto a cui è finalizzato il
procedimento nell’ambito del quale si svolgono le medesime.
L’art. 113, infatti, utilizza a più riprese espressioni
riferibili alle procedure di affidamento di contratti aventi
ad oggetto servizi e forniture quali i richiami alle
“verifiche di conformità”.
La stessa Sezione delle autonomie, con
deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha accolto l’assunto secondo cui
il compenso
incentivante di cui all’art. 113, comma 2, del decreto
legislativo n. 50 del 2016 riguarda non soltanto i lavori,
ma anche i servizi e le forniture rientranti nell’ambito di
applicazione del Codice dei contratti pubblici ed ha al
contempo dato atto del fatto che tale interpretazione è
ormai avvalorata dalla giurisprudenza della Corte in sede
consultiva (cfr. Sezione di controllo Lombardia,
parere 16.11.2016 n. 333), che,
da un lato ammette che gli incentivi siano da
riconoscere anche per gli appalti di servizi e forniture e,
dall’altro, che tra i beneficiari degli stessi non
possano comprendersi coloro che svolgono attività relative
alla progettazione e al coordinamento della sicurezza
(cfr. anche la
deliberazione 13.05.2016 n. 18
della medesima Sezione).
Né può farsi discendere dalla formulazione dell’art. 3 del
d.lgs. n. 50 del 2016, in collegato disposto all’allegato I
(al quale fa rinvio l’articolo 3, comma 2, lett. ll, n. 1
per definire la nozione di “lavori”),
l’estromissione dei
contratti di manutenzione ordinaria e straordinaria
dall’ambito di applicabilità del Codice dei contratti
pubblici.
Da un lato, l’articolo 3, comma 2, lett. nn) ricomprende
espressamente fra i “lavori” di cui all’allegato I
l’attività di manutenzione di opere in quanto tale. Lo
stesso Allegato I è organizzato per specifiche attività che,
a seconda del complessivo lavoro affidato, possono assurgere
a tipiche attività manutentive o meno. Si pensi all’attività
di tinteggiatura di cui al punto 45.44 dell’Allegato I.
Si aggiunge che il Codice dei contratti pubblici definisce
espressamente le attività di manutenzione ordinaria e
straordinaria nelle lettere oo-quater e oo-quinquies
dell’articolo 3, comma 2, lettere che seguono la definizione
di “appalti pubblici di lavori” e precedono la delimitazione
della nozione di “appalti pubblici di servizi”.
Dall’altro lato, il contenuto residuale che il legislatore
imprime alla nozione di “servizi”, considerata la tecnica
utilizzata per la definizione della medesima nell’articolo
3, comma 2, lett. ss e lett. vv, comporta che l’eventuale
esclusione dei contratti manutentivi dalla nozione di
appalti di lavori abbia quale unica conseguenza la
ricomprensione dei medesimi fra gli appalti dei servizi,
senza che ciò possa incidere sulla riconduzione dei
contratti di manutenzione nell’ambito di applicabilità del
d.lgs. n. 50 del 2016 e sull’incentivabilità delle funzioni
indicate nell’art. 113.
Al riguardo si è già rilevato che la Sezione delle autonomie
ritiene incentivabili non soltanto i lavori, ma anche i
servizi e le forniture.
Da ultimo non può non richiamarsi il correttivo al Codice
dei contratti pubblici (decreto legislativo 19.04.2017,
n. 56, pubblicato nella G.U. in data 05.05.2017 e in
vigore a partire dal 20.05.2017), ai sensi del quale gli
appalti di servizi e forniture sono stati espressamente
citati nel comma 1 dell’art. 113. Si aggiunge che il comma 2
del medesimo articolo è stato sostituito, prevedendo in modo
espresso che il medesimo comma si applichi agli appalti
relativi a servizi o forniture, limitando, tuttavia, tale
eventualità al caso di nomina del direttore dell'esecuzione
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 12.06.2017 n. 191). |
INCENTIVO FUNZIONI PUBBLICHE:
1.
L’elenco delle
attività incentivabili di cui all’art. 113, comma 2, come
fatto palese dalla lettera della legge con l’utilizzo
dell’avverbio “esclusivamente”, deve ritenersi tassativo e
non suscettibile di interpretazione analogica.
Ne viene che gli incentivi in parola possono essere
corrisposti solo ed esclusivamente ai funzionari che hanno
svolto le funzioni espressamente indicate dalla disposizione
di legge sopra richiamata all’interno delle fasi
procedimentali che connotano gli affidamenti di contratti
pubblici (programmazione, progettazione, procedura
selettiva, stipulazione ed esecuzione).
La disposizione in esame non sembra, invece, delimitare in
senso escludente l’incentivabilità di dette funzioni in
ragione dell’oggetto del contratto a cui è finalizzato il
procedimento nell’ambito del quale si svolgono le medesime.
L’art. 113, infatti, utilizza a più riprese espressioni
riferibili alle procedure di affidamento di contratti aventi
ad oggetto servizi e forniture quali i richiami alle
“verifiche di conformità”.
La stessa Sezione delle
autonomie ha accolto
l’assunto secondo cui il compenso incentivante di cui
all’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del
2016 riguarda non soltanto i lavori, ma anche i servizi e le
forniture rientranti nell’ambito di applicazione del Codice
dei contratti pubblici ed ha al contempo dato atto del fatto
che tale interpretazione è ormai avvalorata dalla
giurisprudenza della Corte in sede consultiva, che,
da un lato ammette che gli incentivi siano da riconoscere
anche per gli appalti di servizi e forniture e, dall’altro,
che tra i beneficiari degli stessi non possano comprendersi
coloro che svolgono attività relative alla progettazione e
al coordinamento della sicurezza.
Né può farsi discendere dalla formulazione dell’art. 3 del
decreto legislativo n. 50 del 2016, in collegato disposto
all’allegato I (al quale fa rinvio l’articolo 3, comma 2,
lett. ll, n. 1 per definire la nozione di “lavori”),
l’estromissione dei contratti di manutenzione ordinaria e
straordinaria dall’ambito di applicabilità del Codice dei
contratti pubblici.
Da un lato, l’articolo 3, comma 2, lett. nn) ricomprende
espressamente fra i “lavori” di cui all’allegato I
l’attività di manutenzione di opere in quanto tale. Lo
stesso Allegato I è organizzato per specifiche attività che,
a seconda del complessivo lavoro affidato, possono assurgere
a tipiche attività manutentive o meno. Si pensi all’attività
di tinteggiatura di cui al punto 45.44 dell’Allegato I.
Si aggiunge che il Codice dei contratti pubblici definisce
espressamente le attività di manutenzione ordinaria e
straordinaria nelle lettere oo-quater e oo-quinquies
dell’articolo 3, comma 2, lettere che seguono la definizione
di “appalti pubblici di lavori” e precedono la delimitazione
della nozione di “appalti pubblici di servizi”.
Dall’altro lato, il contenuto residuale che il legislatore
imprime alla nozione di “servizi”, considerata la tecnica
utilizzata per la definizione della medesima nell’articolo
3, comma 2, lett. ss e lett. vv, comporta che l’eventuale
esclusione dei contratti manutentivi dalla nozione di
appalti di lavori abbia quale unica conseguenza la
ricomprensione dei medesimi fra gli appalti dei servizi,
senza che ciò possa incidere sulla riconduzione dei
contratti di manutenzione nell’ambito di applicabilità del
decreto legislativo n. 50 del 2016 e sull’incentivabilità
delle funzioni indicate nell’art. 113.
Al riguardo si è già rilevato che la Sezione delle autonomie
ritiene incentivabili non soltanto i lavori, ma anche i
servizi e le forniture.
Da ultimo non può non richiamarsi il correttivo al Codice
dei contratti pubblici (decreto legislativo 19.04.2017,
n. 56, pubblicato nella G.U. in data 05.05.2017 e in
vigore a partire dal 20.05.2017), ai sensi
del quale gli appalti di servizi e forniture sono stati
espressamente citati nel
comma 1 dell’art. 113.
---------------
2. Si chiede se gli incentivi per le
attività di cui all’art. 113, comma 2, possono essere
riconosciuti anche rispetto a contratti per l’affidamento
dei quali non si sia proceduto allo svolgimento di una gara
(come nel caso di affidamento diretto ai sensi dell’art. 36,
comma 2, lettera a), del decreto-legislativo n. 50/2016),
oppure debbano essere esclusi rispetto ai contratti al di
sotto di una soglia minima di importo o a bassa complessità.
La lettera della legge che, nel dettare i criteri per la
determinazione del fondo destinato a finanziare gli
incentivi, fa espresso riferimento all’“importo dei lavori
(servizi e forniture) posti a base di gara”, induce a
ritenere incentivabili le sole funzioni tecniche svolte
rispetto a contratti affidati mediante lo svolgimento di una
gara.
Si deve pertanto concludere che gli incentivi in questione
possano essere riconosciuti esclusivamente per le attività
riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che,
secondo la legge (comprese le direttive ANAC dalla stessa
richiamate) o il regolamento dell’ente, siano stati affidati
previo espletamento di una procedura comparativa.
Si segnala peraltro che il decreto legislativo 19.04.2017, n. 56,
in vigore dal 20.05.2017, nel riformulare l’art. 113,
comma 2, del codice dei contratti, ha stabilito che “la
disposizione di cui al presente comma si applica agli
appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è
nominato il direttore dell’esecuzione”.
---------------
3. Si chiede, infine, quale sia la disciplina normativa in
materia di incentivi applicabile per le attività avviate in
vigenza del decreto legislativo n. 163/2006 e ancora in
corso di svolgimento alla data di entrata in vigore del
nuovo codice dei contratti pubblici con il decreto
legislativo n. 50/2016.
Non essendo rintracciabili espresse disposizioni che
escludano la disciplina degli “incentivi tecnici” di cui
all’art. 113 del nuovo codice dal regime intertemporale
sopra riferito si deve pertanto ritenere che quest’ultima
possa essere applicata esclusivamente alle attività
riferibili a contratti banditi successivamente al 19.04.2015.
Rimangono di conseguenza incentivabili secondo la disciplina
previgente le attività riferite a contratti banditi
antecedentemente a tale data, quantunque ancora in corso di
svolgimento
---------------
Con la nota sopra citata il Presidente della Provincia di
Mantova formula una richiesta di parere riguardante la
corretta interpretazione della disciplina degli incentivi
per funzioni tecniche introdotta dall’art. 113 del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50 (c.d. nuovo codice degli
appalti), formulando i seguenti quesiti:
1. Se sia possibile riconoscere gli incentivi per funzioni
tecniche per le prestazioni indicate dall’art. 113, comma 2,
riferite ad appalti aventi ad oggetto lavori di manutenzione
ordinaria/straordinaria oppure servizi manutentivi,
considerato che la nuova disposizione non esclude
espressamente le attività manutentive e che alla luce degli
orientamenti ermeneutici espressi in materia dalle Sezioni
regionali di controllo, la stessa riconosce gli incentivi
anche agli appalti di servizi e forniture.
2. Se l'incentivazione sia applicabile anche agli appalti
per il cui affidamento non si proceda mediante svolgimento
di una gara (com'è il caso dell'affidamento diretto ex art.
36, comma 2, lettera a), del decreto legislativo n. 50/2016),
oppure se la regolamentazione interna da adottare ai sensi
dell’art. 113, comma 3, debba escludere dall'ambito di
applicazione dell'incentivo i contratti al di sotto di una
soglia minima di importo o di complessità.
3. Quale normativa in tema di incentivi debba applicarsi
alle prestazioni in corso di svolgimento nel periodo
transitorio di passaggio dall’abrogato decreto legislativo
n. 163/2006 al decreto legislativo n. 50/2016.
...
I quesiti formulati con la presente richiesta di parere
richiedono di stabilire la corretta interpretazione
dell’art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 in
materia di incentivi per funzioni tecniche che si riporta di
seguito:
“1. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione
dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla
vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle
verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e
alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di
sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della
sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del
decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni
professionali e specialistiche necessari per la redazione di
un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno
carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei
singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei
bilanci delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1 le
amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo
risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento
modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara per le
funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici
esclusivamente per le attività di programmazione della spesa
per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di
predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del
procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico ove
necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel
rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei
tempi e costi prestabiliti.
3. L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo
costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna
opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i
criteri previsti in sede di contrattazione decentrata
integrativa del personale, sulla base di apposito
regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i
rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del
procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche
indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori. Gli
importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e
assistenziali a carico dell'amministrazione.
L'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore
stabilisce i criteri e le modalità per la riduzione delle
risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a
fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi non
conformi alle norme del presente decreto. La corresponsione
dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile
di servizio preposto alla struttura competente, previo
accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti
dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel
corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse
amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per
cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le
quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non
svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a
personale esterno all'organico dell'amministrazione
medesima, ovvero prive del predetto accertamento,
incrementano la quota del fondo di cui al comma 2. Il
presente comma non si applica al personale con qualifica
dirigenziale.
4. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del
fondo di cui al comma 2 ad esclusione di risorse derivanti
da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a
destinazione vincolata è destinato all'acquisto da parte
dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a
progetti di innovazione anche per il progressivo uso di
metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione
elettronica informativa per l'edilizia e le infrastrutture,
di implementazione delle banche dati per il controllo e il
miglioramento della capacità di spesa e di efficientamento
informatico, con particolare riferimento alle metodologie e
strumentazioni elettroniche per i controlli. Una parte delle
risorse può essere utilizzato per l'attivazione presso le
amministrazioni aggiudicatrici di tirocini formativi e di
orientamento di cui all'articolo 18 della legge 24.06.1997, n. 196 o per lo svolgimento di dottorati di ricerca di
alta qualificazione nel settore dei contratti pubblici
previa sottoscrizione di apposite convenzioni con le
Università e gli istituti scolastici superiori.
5. Per i compiti svolti dal personale di una centrale unica
di committenza nell'espletamento di procedure di
acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di
altri enti, può essere riconosciuta, su richiesta della
centrale unica di committenza, una quota parte, non
superiore ad un quarto, dell'incentivo previsto dal comma
2.”
2. Con il
primo quesito si chiede se possano essere
riconosciuti incentivi per le funzioni tecniche previste
dalla disposizione sopra richiamata riferite ad appalti
aventi ad oggetto lavori di manutenzione
ordinaria/straordinaria oppure servizi manutentivi.
Si deve rilevare, in primo luogo, che l’elenco delle
attività incentivabili di cui all’art. 113, comma 2, come
fatto palese dalla lettera della legge con l’utilizzo
dell’avverbio “esclusivamente”, deve ritenersi tassativo e
non suscettibile di interpretazione analogica.
Ne viene che gli incentivi in parola possono essere
corrisposti solo ed esclusivamente ai funzionari che hanno
svolto le funzioni espressamente indicate dalla disposizione
di legge sopra richiamata all’interno delle fasi
procedimentali che connotano gli affidamenti di contratti
pubblici (programmazione, progettazione, procedura
selettiva, stipulazione ed esecuzione).
L’interpretazione riferita trova del resto conferma nella
giurisprudenza contabile, concorde nell’escludere
incentivabilità di funzioni o attività diverse da quelle
considerate dall’art. 113, comma 2, del decreto legislativo
n. 50/2016 (Sezione delle Autonomie,
deliberazione 13.05.2016 n. 18;
Sezione regionale di controllo per la Puglia,
parere 13.12.2016 n. 204; Sezione regionale di controllo per il
Veneto,
parere 02.03.2017 n. 134; Sezione regionale di
controllo per la Regione siciliana,
parere 30.03.2017 n. 71).
La disposizione in esame non sembra, invece, delimitare in
senso escludente l’incentivabilità di dette funzioni in
ragione dell’oggetto del contratto a cui è finalizzato il
procedimento nell’ambito del quale si svolgono le medesime.
L’art. 113, infatti, utilizza a più riprese espressioni
riferibili alle procedure di affidamento di contratti aventi
ad oggetto servizi e forniture quali i richiami alle
“verifiche di conformità”.
La stessa Sezione delle
autonomie, con
deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha accolto
l’assunto secondo cui il compenso incentivante di cui
all’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del
2016 riguarda non soltanto i lavori, ma anche i servizi e le
forniture rientranti nell’ambito di applicazione del Codice
dei contratti pubblici ed ha al contempo dato atto del fatto
che tale interpretazione è ormai avvalorata dalla
giurisprudenza della Corte in sede consultiva (cfr. Sezione
di controllo Lombardia,
parere 16.11.2016 n. 333), che,
da un lato ammette che gli incentivi siano da riconoscere
anche per gli appalti di servizi e forniture e, dall’altro,
che tra i beneficiari degli stessi non possano comprendersi
coloro che svolgono attività relative alla progettazione e
al coordinamento della sicurezza (cfr. anche la
deliberazione 13.05.2016 n. 18 della medesima
Sezione).
Né può farsi discendere dalla formulazione dell’art. 3 del
decreto legislativo n. 50 del 2016, in collegato disposto
all’allegato I (al quale fa rinvio l’articolo 3, comma 2,
lett. ll, n. 1 per definire la nozione di “lavori”),
l’estromissione dei contratti di manutenzione ordinaria e
straordinaria dall’ambito di applicabilità del Codice dei
contratti pubblici.
Da un lato, l’articolo 3, comma 2, lett. nn) ricomprende
espressamente fra i “lavori” di cui all’allegato I
l’attività di manutenzione di opere in quanto tale. Lo
stesso Allegato I è organizzato per specifiche attività che,
a seconda del complessivo lavoro affidato, possono assurgere
a tipiche attività manutentive o meno. Si pensi all’attività
di tinteggiatura di cui al punto 45.44 dell’Allegato I.
Si aggiunge che il Codice dei contratti pubblici definisce
espressamente le attività di manutenzione ordinaria e
straordinaria nelle lettere oo-quater e oo-quinquies
dell’articolo 3, comma 2, lettere che seguono la definizione
di “appalti pubblici di lavori” e precedono la delimitazione
della nozione di “appalti pubblici di servizi”.
Dall’altro lato, il contenuto residuale che il legislatore
imprime alla nozione di “servizi”, considerata la tecnica
utilizzata per la definizione della medesima nell’articolo
3, comma 2, lett. ss e lett. vv, comporta che l’eventuale
esclusione dei contratti manutentivi dalla nozione di
appalti di lavori abbia quale unica conseguenza la
ricomprensione dei medesimi fra gli appalti dei servizi,
senza che ciò possa incidere sulla riconduzione dei
contratti di manutenzione nell’ambito di applicabilità del
decreto legislativo n. 50 del 2016 e sull’incentivabilità
delle funzioni indicate nell’art. 113.
Al riguardo si è già rilevato che la Sezione delle autonomie
ritiene incentivabili non soltanto i lavori, ma anche i
servizi e le forniture.
Da ultimo non può non richiamarsi il correttivo al Codice
dei contratti pubblici (decreto legislativo 19.04.2017,
n. 56, pubblicato nella G.U. in data 05.05.2017 e in
vigore a partire dal 20.05.2017), ai sensi
del quale gli appalti di servizi e forniture sono stati
espressamente citati nel
comma 1 dell’art. 113.
3. Con il
secondo quesito formulato con la presente
richiesta di parere si chiede se gli incentivi per le
attività di cui all’art. 113, comma 2, possono essere
riconosciuti anche rispetto a contratti per l’affidamento
dei quali non si sia proceduto allo svolgimento di una gara
(come nel caso di affidamento diretto ai sensi dell’art. 36,
comma 2, lettera a), del decreto-legislativo n. 50/2016),
oppure debbano essere esclusi rispetto ai contratti al di
sotto di una soglia minima di importo o a bassa complessità.
La lettera della legge che, nel dettare i criteri per la
determinazione del fondo destinato a finanziare gli
incentivi, fa espresso riferimento all’“importo dei lavori
(servizi e forniture) posti a base di gara”, induce a
ritenere incentivabili le sole funzioni tecniche svolte
rispetto a contratti affidati mediante lo svolgimento di una
gara.
Si deve pertanto concludere che gli incentivi in questione
possano essere riconosciuti esclusivamente per le attività
riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che,
secondo la legge (comprese le direttive ANAC dalla stessa
richiamate) o il regolamento dell’ente, siano stati affidati
previo espletamento di una procedura comparativa.
Si segnala peraltro che il decreto legislativo 19.04.2017, n. 56, pubblicato nella G.U. in data
05.05.2017 e
in vigore dal 20.05.2017, nel riformulare l’art. 113,
comma 2, del codice dei contratti, ha stabilito che “la
disposizione di cui al presente comma si applica agli
appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è
nominato il direttore dell’esecuzione”.
4.
Si chiede, infine, quale sia la disciplina normativa in
materia di incentivi applicabile per le attività avviate in
vigenza del decreto legislativo n. 163/2006 e ancora in
corso di svolgimento alla data di entrata in vigore del
nuovo codice dei contratti pubblici con il decreto
legislativo n. 50/2016.
La risposta all’ultimo quesito formulato dall’ente istante
può essere fornita sulla base dell’art. 216, comma 1, dello
stesso decreto legislativo n. 50/2016 che, nell’affrontare
la questione del diritto transitorio conseguente
all’introduzione dello stesso, stabilisce che “fatto salvo
quanto previsto nel presente articolo ovvero nelle singole
disposizioni di cui al presente codice, lo stesso si applica
alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi
con cui si indice la procedura di scelta del contraente
siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata
in vigore nonché, in caso di contratti senza pubblicazione
di bandi o di avvisi, alle procedure e ai contratti in
relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del
presente codice, non siano ancora stati inviati gli inviti a
presentare le offerte”.
Non essendo rintracciabili espresse disposizioni che
escludano la disciplina degli “incentivi tecnici” di cui
all’art. 113 del nuovo codice dal regime intertemporale
sopra riferito si deve pertanto ritenere che quest’ultima
possa essere applicata esclusivamente alle attività
riferibili a contratti banditi successivamente al 19.04.2015.
Rimangono di conseguenza incentivabili secondo la disciplina
previgente le attività riferite a contratti banditi
antecedentemente a tale data, quantunque ancora in corso di
svolgimento
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 09.06.2017 n. 190). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: 1.-
Gli
incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113,
comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei
trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l.
n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)”; ciò sulla base di
un’ermeneusi del dato normativo che ha evidenziato la
peculiarità di tali incentivi.
Per converso, come rilevato in detta sede, va invece
ribadito che, nella riscrittura della materia ad opera del
nuovo codice degli appalti, risultano assolutamente
salvaguardati i beneficiari dei pregressi incentivi alla
progettazione i quali sono oggi remunerati con un meccanismo
diverso dalla ripartizione del fondo.
Infatti, come rilevato
dalla Sezione delle autonomie, per le spese di
progettazione, di direzione dei lavori o dell’esecuzione, di
vigilanza, per i collaudi tecnici e amministrativi, le
verifiche di conformità, i collaudi statici, gli
studi e le
ricerche connessi, la progettazione dei piani di sicurezza e
di coordinamento e il coordinamento della sicurezza in fase
di esecuzione ove previsti dalla legge, si provvede con gli
stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli
lavori, a norma dell’art. 113, comma 1, del decreto
legislativo n. 50 del 2016.
Con riferimento a tali emolumenti, resta dunque fermo il
principio di diritto già affermato dalle Sezioni riunite
della Corte dei conti le quali, avevano individuato e tipicizzato, come criterio generale di
esclusione dal limite di spesa posto allora dall’art. 9,
comma 2-bis, del decreto legge n. 78 del 2010 (disposizione
“sostanzialmente sovrapponibile”, secondo la Sezione delle
autonomie, a quella vigente), tutti quei compensi per
prestazioni professionali specialistiche offerte da soggetti
qualificati, tra cui l’incentivo per la progettazione
stabilito, nel quadro normativo ratione temporis vigente,
dall’art. 93, comma 7-ter, del decreto legislativo n. 163
del 2006.
---------------
2.- Il
quesito attiene alla disciplina specifica del fondo, in
punto di alimentazione e di gestione, e non alla dazione
delle somme ai beneficiari finali, aspetto questo che resta
estraneo al quesito così formulato e che viene analizzato in
altre pronunce di questa Corte. In tale ottica, deve essere in primis evidenziata l’irretroattività della fonte
regolamentare ivi disciplinata, sulla scorta di quanto già
deciso da questa Corte.
In particolare, tale profilo della questione si inquadra
nell’ambito della problematica, di per sé più ampia, della
irretroattività dei provvedimenti amministrativi.
Il
principio della irretroattività degli atti –in linea
generale immanente all’ordinamento giuridico, ma costituzionalizzato solo con riferimento all’irretroattività
della legge penale (art. 25, primo comma, Cost.)–
costituisce di per sé corollario dei più generali principi
della necessaria simultaneità tra fatto (atto) ed effetti
dallo stesso prodotti, nonché del principio della certezza
delle situazioni giuridiche e della tutela dell’affidamento
legittimo, con la sola eccezione dei casi in cui la
retroattività dell’atto sia prevista dalla legge (atteso che
la copertura costituzionale della irretroattività è appunto
prevista solo per la legge penale) o sia una caratteristica
“naturale” dell’atto stesso (es. annullamento che, de iure,
produce effetto ex tunc).
D’altro canto, per gli atti a contenuto normativo –come
appunto i regolamenti– la regola della naturale
irretroattività è affermata dal combinato disposto degli
artt. 3, comma 2, 4, comma 1, e 11, comma 1, delle
Disposizioni preliminari al Codice civile (cc.dd. Preleggi),
disposizioni aventi rango primario, secondo le quali il
regolamento, anche emanato da autorità diverse dal governo,
non può contenere norme contrarie alle disposizioni di legge
e, nella specie, al divieto di retroattività, stabilito dal
successivo art. 11 per il complesso degli atti normativi;
quest’ultima disposizione è dunque derogabile solo per il
tramite di una norma di legge equiordinata che abiliti
l’atto a produrre un tale effetto retroattivo (ad esclusione
dell’ambito oggetto di disciplina ad opera della legge
penale, per la quale la Costituzione, come s’è detto, pone
un divieto assoluto); nella specie, nella rilevata mancanza
di una norma che autorizzi l’amministrazione comunale ad
attribuire al regolamento in questione effetto retroattivo,
il regolamento medesimo, in ossequio all’art. 11 delle
cc.dd. preleggi, non potrà che disporre per l’avvenire.
Ciò posto, si deve al contempo ricordare, in punto di
modalità di alimentazione del fondo medesimo, che il
predetto
parere 07.09.2016 n. 353 della Sezione regionale di controllo per
il Veneto ha ritenuto che, nelle more della
determinazione, nell’apposito regolamento, della percentuale
entro la quale destinare le risorse e dei criteri di
assegnazione, è corretto accantonare le risorse medesime in
misura del 2% dell’importo a base di gara, senza tuttavia
provvedere alla ripartizione tra i beneficiari prima di aver
approvato il regolamento suddetto: ciò sulla base della
previsione, contenuta nell’art. 113, commi 2, 3 e 4, del
decreto legislativo n. 50 del 2016, della destinazione ad un
fondo apposito, in misura non superiore al 2%, delle risorse
finanziarie stanziate per la realizzazione dei singoli
lavori, di cui l’80% da ripartire tra il responsabile unico
del procedimento ed i soggetti che abbiamo svolto le ivi
previste “funzioni tecniche” ed i loro collaboratori, ed il
restante 20% da impiegare per l’acquisito di beni,
strumentazioni e tecnologie funzionali al miglioramento e
l’innovazione tecnologica.
In particolare, mentre l’“accantonamento ad apposito fondo”
di “risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per
cento, modulate sull'importo dei lavori posti a base di
gara”, è direttamente stabilito dal
secondo comma dell’art.
113, la ripartizione tra i dipendenti dell’ente viene
regolata nel comma successivo, il quale stabilisce che essa
deve avvenire “con le modalità ed i criteri previsti in sede
di contrattazione decentrata integrativa del personale,
sulla base di apposito regolamento adottato dalle
amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti”.
L’adozione del regolamento, dunque, continua ad essere una
condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli
aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo (pro
futuro), perché il regolamento –e solo il regolamento, nella
sistematica della legge– è destinato ad individuare le
modalità ed i criteri della ripartizione, oltre alla
percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo
fissato dalla legge.
In quella pronuncia, sulla base della struttura
dell’enunciato normativo, s’è ritenuto altresì che
il
semplice accantonamento delle risorse, in attesa della
disciplina regolamentare, può tuttavia essere disposto
dall’ente, su un capitolo o capitoli sui quali non è
possibile assumere impegni ed effettuare pagamenti, purché,
ovviamente, entro i limiti percentuali fissati dall’art.
113, secondo comma, del predetto decreto.
In tal caso, ove poi il regolamento successivamente adottato
dall’ente dovesse individuare una percentuale inferiore a
quella già applicata dall’ente medesimo, la parte
dell’accantonamento non utilizzata verrebbe a concorrere
alla determinazione del risultato di amministrazione. Nel
caso inverso, ovvero nel caso di accantonamento di una somma
inferiore a quella poi prevista nel regolamento, il mancato
accantonamento costituirebbe invece nella sostanza
“economia” dell’anno, concorrente alla determinazione del
risultato di amministrazione, e come tale dovrebbe essere
considerata; in altre parole, il fondo verrà comunque
costituito con la sola dotazione iniziale frutto del
prudenziale accantonamento dell’ente, fino all’entrata in
vigore del regolamento, fermo restando la ripartizione delle
somme solo successivamente a tale momento, conformemente
alla disciplina regolamentare medio termine approvata e
comunque nel rispetto della normativa vigente.
Va sottolineato che tale accantonamento, tuttavia, viene
disposto non sulla base del regolamento approvato
successivamente, che non è retroattivo, ma sulla base di una
scelta prudenziale dell’ente effettuata, nei limiti di
legge, ex ante.
---------------
3.- Sulla
base del tenore letterale del menzionato art. 113 dlgs
50/2016 –il quale
riconosce l’incentivo “esclusivamente” per le “attività di
programmazione della spesa per investimenti, per la verifica
preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo
delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti
pubblici, di responsabile unico del procedimento, di
direzione dei lavori ovvero direzione dell’esecuzione e di
collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico”-
l’avverbio
“esclusivamente” esprime con chiarezza l’intenzione del
legislatore di riconoscere il compenso incentivante
limitatamente alle attività espressamente previste, ove
effettivamente svolte dal dipendente pubblico, sicché
l’elencazione contenuta nella norma deve considerarsi
tassativa.
Dunque sotto questo specifico profilo, ossia sotto il
profilo della individuazione dei limiti entro i quali le
attività svolte dai pubblici dipendenti possono ricevere una
specifica remunerazione, la disciplina degli incentivi,
derogatoria rispetto al principio di onnicomprensività della
retribuzione, è da considerarsi di stretta interpretazione e
non suscettibile di estensione analogica.
Il punto, così correttamente ricostruita la ratio della
disposizione, diviene dunque non tanto quello
dell’individuazione di un meccanismo di approvigionamento,
effettivamente adottato dall’ente, quale presupposto per
l’erogazione dell’incentivo –nella specie, come da richiesta
del comune, il ricorso a Consip o Mepa, autonomamente di per
sé considerato–, ma quello dell’effettiva occorrenza,
secondo la specifica disciplina della procedura di e-procurement concretamente applicata, di una delle attività
incentivate, nel caso di specie concretamente accertata come
svolta (vale a dire attività di programmazione della spesa
per investimenti, di verifica preventiva dei progetti, di
predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del
procedimento, di direzione dei lavori ovvero di direzione
dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico). Spetta
all’ente tale valutazione, in concreto, nelle diverse
possibili evenienze.
Peraltro, al riguardo non sfugga nemmeno come la
disposizione presupponga esplicitamente –laddove richiede
l’accantonamento in un apposito fondo di “risorse
finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate
sull'importo dei lavori posti a base di gara”– che vi sia
una “gara”, sia pure semplificata; in mancanza di tale
requisito, l’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n.
50 del 2016 non prevede l’accantonamento delle risorse nel
fondo e, conseguentemente, la relativa distribuzione.
Al riguardo, l’ente, nel valutare concretamente le attività
incentivate e le modalità di rimodulazione dell’incentivo
nelle diverse evenienze, deve altresì considerare
correttamente il quadro normativo, sistematicamente
considerato, che prevede che per i compiti svolti dal
personale di una centrale unica di committenza,
nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori,
servizi e forniture per conto di altri enti, possa essere
riconosciuta, su richiesta della centrale unica di
committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto,
dell'incentivo (art. 113, comma 5).
Ciò posto, spetta all’ente la valutazione
nelle specifiche evenienze dell’occorrenza, in concreto, di
attività effettivamente incentivate in forza della ricordata
disposizione normativa.
---------------
4.-
In primo luogo questa Sezione ritiene tassativo l’elenco delle attività
incentivabili dalla normativa in esame e, quindi, non può
che confermare che gli incentivi per funzioni tecniche
riguardano, in via esclusiva, le attività indicate al
comma
2 dell’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016; e
ciò perché il suddetto emolumento, in virtù del principio di
onnicomprensività del trattamento economico, può essere
corrisposto solo in presenza di una espressa previsione
legislativa.
Sicché,
va confermato
che gli incentivi per funzioni tecniche previsti dall’art.
113 del decreto legislativo n. 50 del 2016 possono essere
corrisposti, di per sé, solo in presenza di una delle
attività espressamente considerate dalla disposizione
richiamata.
Inoltre decisivo al riguardo risulta il fatto che la Sezione
delle autonomie ha accolto l’assunto secondo cui
il
compenso incentivante di cui all’art. 113, comma 2, del
decreto legislativo n. 50 del 2016 riguarda non soltanto
lavori, ma anche servizi e forniture ed ha al contempo dato
atto del fatto che tale interpretazione è ormai avvalorata
dalla giurisprudenza della Corte in sede consultiva che, da un lato ammette che gli incentivi
siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e
forniture e, dall’altro, che tra i beneficiari degli stessi
non possano comprendersi coloro che svolgono attività
relative alla progettazione e al coordinamento della
sicurezza.
Tale è dunque il quadro delle attività incentivabili, la cui
individuazione, indipendentemente dallo specifico oggetto
del contratto pubblico messo a gara, in concreto spetta,
come s’è detto, all’Amministrazione, nel rispetto delle
indicazioni desumibili dalla pregressa giurisprudenza di
questa Corte.
---------------
5.- Va rilevato che il quadro normativo
prevede una sfera di discrezionalità normativa degli enti
locali, che devono comunque muoversi nell’ambito dei
principi e delle regole stabilite dalle vigenti prescrizioni
legislative. Al riguardo giova rilevare che
il decreto
legislativo n. 50 del 2006, in linea generale, prevede la
misura massima delle risorse destinabili al fondo e la
necessaria modulazione delle stesse in relazione all'importo
dei lavori o delle procedure di acquisizione di beni e
servizi concretamente espletate.
In tale contesto, spetta all’ente locale esercitare
correttamente la propria discrezionalità, che potrà anche
essere orientata dalle soglie indicate dall’art. 21 del
medesimo decreto legislativo per la programmazione biennale
per forniture e servizi e triennale per lavori, purché
nell’ambito di una disciplina coerente e conforme alle
specifiche previsioni stabilite dai commi 2, 3 e 4 del
decreto legislativo n. 50 del 2016.
Spetta al Comune richiedente, sulla base dei principi
così espressi, valutare attentamente le singole fattispecie
al fine di addivenire ad una corretta autodeterminazione
nell’esercizio del proprio potere, anche regolamentare, in
materia, nel rispetto del quadro legislativo vigente.
---------------
1.- Il Sindaco del Comune di Bollate (MI) –dando atto delle difficoltà
riscontrate dagli enti locali nell’interpretazione dell’art.
113 del decreto legislativo n. 50 del 2016 e nella
predisposizione dei regolamenti ivi previsti– pone alla
Sezione i seguenti cinque quesiti:
a) se le somme previste dall’art. 113 siano da considerare
afferenti al Fondo delle risorse decentrate (e soggiacenti
alla relativa disciplina) oppure no;
b) se il regolamento attuativo previsto dal terzo comma di
detta disposizione (il quale prevede che “l'ottanta per
cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai
sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro,
servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in
sede di contrattazione decentrata integrativa del personale,
sulla base di apposito regolamento adottato dalle
amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il
responsabile unico del procedimento e i soggetti che
svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra
i loro collaboratori”) possa disciplinare anche la
ripartizione e la liquidazione delle somme accantonate,
secondo i criteri stabiliti dalla Sezione regionale di
controllo per il Veneto di questa Corte nella deliberazione
n. 353/2016/PAR, con riferimento agli appalti di lavori,
servizi e forniture espletati fra l’entrata in vigore del
decreto legislativo n. 50 del 2016 e la data di approvazione
del regolamento, ad esempio con la previsione
dell’accantonamento, retroattivamente stabilito, di una
percentuale inferiore al due per cento, in linea con quella
prevista nell’approvato regolamento, anche in relazione a
detti appalti;
c) se sia legittimo comprendere fra gli acquisti oggetto
degli incentivi anche le adesioni alle convenzioni Consip e
gli acquisti tramite Mepa, “anche solo per alcune delle
attività previste dall’art. 113, secondo comma”, del
predetto decreto legislativo;
d) se sia legittimo –sulla base dell’art. 3, comma 1, lett. nn), di detto decreto legislativo, che considera anche la
“manutenzione di opere”– riconoscere l’incentivo “anche per
le manutenzioni ordinarie e straordinarie” (ciò a fronte di
pareri nel senso della soluzione negativa delle Sezioni
regionali di controllo per l’Emilia Romagna e per la Puglia, rispettivamente
parere 07.12.2016 n. 118 e
parere 24.01.2017 n. 5, conosciuti e
richiamati dall’ente istante);
e) se “le soglie per l’applicazione dell’incentivo possono
essere liberamente disciplinate all’interno del regolamento”
o se invece “devono prendere come riferimento le soglie
indicate dall’art. 21 [del medesimo decreto legislativo] per
la programmazione biennale per forniture e servizi e
triennale per lavori”.
...
4.- In via preliminare, la Sezione precisa che le decisioni
relative alla scelta del contenuto dell’approvando
regolamento, in quanto connesse all’attività di normazione
interna dell’ente, spettano agli enti coinvolti, che ne
assumono la relativa responsabilità.
In particolare, in materia occorre ribadire quanto già
affermato dalla
deliberazione 13.05.2016 n. 18
della Sezione delle Autonomie, secondo cui
la soluzione delle
questioni poste alla Corte dei conti, in ragione della
propria attività consultiva, «non può che rimanere definita
in un ambito di stretto principio, non potendo la Corte in
questa sede addentrarsi in aspetti di dettaglio della
disciplina, che attengono (…) alla potestà regolamentare
riconosciuta in capo agli enti locali»; ciò «anche in
considerazione di quanto precisato nella delibera n. 3/2014/QMIG,
in merito al fatto che “ausilio consultivo per quanto
possibile deve essere reso senza che esso costituisca
un’interferenza con le funzioni requirenti e giurisdizionali
e ponendo attenzione ad evitare che di fatto si traduca in
un’intrusione nei processi decisionali degli enti
territoriali”».
Chiarito, dunque, che
la Corte non può interferire con la potestà regolamentare
spettante all’ente locale, nei termini prima esposti,
si può procedere all’esame, nel merito, dei singoli quesiti
posti.
5.- Ciò presupposto, con il
primo quesito l’ente chiede se
le somme previste dall’art. 113 siano da considerare
afferenti al Fondo delle risorse decentrate (e soggiacenti
alla relativa disciplina), oppure no.
Al riguardo basti rilevare che la Sezione delle autonomie di
questa Corte, con la
deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha
affermato, nell’esercizio della propria funzione
nomofilattica, il principio di diritto secondo cui “(g)li
incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113,
comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei
trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l.
n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)”; ciò sulla base di
un’ermeneusi del dato normativo che ha evidenziato la
peculiarità di tali incentivi. Alla motivazione di tale
decisione si fa, in questa sede, espresso rinvio.
Per converso, come rilevato in detta sede, va invece
ribadito che, nella riscrittura della materia ad opera del
nuovo codice degli appalti, risultano assolutamente
salvaguardati i beneficiari dei pregressi incentivi alla
progettazione i quali sono oggi remunerati con un meccanismo
diverso dalla ripartizione del fondo.
Infatti, come rilevato
dalla Sezione delle autonomie, per le spese di
progettazione, di direzione dei lavori o dell’esecuzione, di
vigilanza, per i collaudi tecnici e amministrativi, le
verifiche di conformità, i collaudi statici, gli
studi e le
ricerche connessi, la progettazione dei piani di sicurezza e
di coordinamento e il coordinamento della sicurezza in fase
di esecuzione ove previsti dalla legge, si provvede con gli
stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli
lavori, a norma dell’art. 113, comma 1, del decreto
legislativo n. 50 del 2016.
Con riferimento a tali emolumenti, resta dunque fermo il
principio di diritto già affermato dalle Sezioni riunite
della Corte dei conti le quali, con la
deliberazione 04.10.2011 n. 51,
avevano individuato e tipicizzato, come criterio generale di
esclusione dal limite di spesa posto allora dall’art. 9,
comma 2-bis, del decreto legge n. 78 del 2010 (disposizione
“sostanzialmente sovrapponibile”, secondo la Sezione delle
autonomie, a quella vigente), tutti quei compensi per
prestazioni professionali specialistiche offerte da soggetti
qualificati, tra cui l’incentivo per la progettazione
stabilito, nel quadro normativo ratione temporis vigente,
dall’art. 93, comma 7-ter, del decreto legislativo n. 163
del 2006.
6.- Con il
secondo quesito, l’ente chiede se il regolamento
attuativo previsto dal terzo comma di detta disposizione –il
quale prevede che “l'ottanta per cento delle risorse
finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è
ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura
con le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla
base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni
secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico
del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni
tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro
collaboratori”– possa disciplinare anche la ripartizione e
la liquidazione delle somme accantonate, secondo i criteri
stabiliti dalla Sezione regionale di controllo per il Veneto
di questa Corte nella Veneto
parere 07.09.2016 n. 353, con
riferimento agli appalti di lavori, servizi e
forniture
espletati fra l’entrata in vigore del decreto legislativo n.
50 del 2016 e la data di approvazione del regolamento, ad
esempio con la previsione dell’accantonamento,
retroattivamente stabilito, di una percentuale inferiore al
due per cento, in linea con quella prevista nell’approvato
regolamento, anche in relazione a detti appalti.
Al riguardo, deve essere preliminarmente evidenziato che
il
quesito attiene alla disciplina specifica del fondo, in
punto di alimentazione e di gestione, e non alla dazione
delle somme ai beneficiari finali, aspetto questo che resta
estraneo al quesito così formulato e che viene analizzato in
altre pronunce di questa Corte. In tale ottica, deve essere
in primis evidenziata l’irretroattività della fonte
regolamentare ivi disciplinata, sulla scorta di quanto già
deciso da questa Corte (v. Sezione regionale di controllo
per la Regione Veneto,
parere 07.09.2016 n. 353).
In particolare, tale profilo della questione si inquadra
nell’ambito della problematica, di per sé più ampia, della
irretroattività dei provvedimenti amministrativi.
Il
principio della irretroattività degli atti –in linea
generale immanente all’ordinamento giuridico, ma costituzionalizzato solo con riferimento all’irretroattività
della legge penale (art. 25, primo comma, Cost.)–
costituisce di per sé corollario dei più generali principi
della necessaria simultaneità tra fatto (atto) ed effetti
dallo stesso prodotti, nonché del principio della certezza
delle situazioni giuridiche e della tutela dell’affidamento
legittimo, con la sola eccezione dei casi in cui la
retroattività dell’atto sia prevista dalla legge (atteso che
la copertura costituzionale della irretroattività è appunto
prevista solo per la legge penale) o sia una caratteristica
“naturale” dell’atto stesso (es. annullamento che, de iure,
produce effetto ex tunc).
D’altro canto, per gli atti a contenuto normativo –come
appunto i regolamenti– la regola della naturale
irretroattività è affermata dal combinato disposto degli
artt. 3, comma 2, 4, comma 1, e 11, comma 1, delle
Disposizioni preliminari al Codice civile (cc.dd. Preleggi),
disposizioni aventi rango primario, secondo le quali il
regolamento, anche emanato da autorità diverse dal governo,
non può contenere norme contrarie alle disposizioni di legge
e, nella specie, al divieto di retroattività, stabilito dal
successivo art. 11 per il complesso degli atti normativi;
quest’ultima disposizione è dunque derogabile solo per il
tramite di una norma di legge equiordinata che abiliti
l’atto a produrre un tale effetto retroattivo (ad esclusione
dell’ambito oggetto di disciplina ad opera della legge
penale, per la quale la Costituzione, come s’è detto, pone
un divieto assoluto); nella specie, nella rilevata mancanza
di una norma che autorizzi l’amministrazione comunale ad
attribuire al regolamento in questione effetto retroattivo,
il regolamento medesimo, in ossequio all’art. 11 delle
cc.dd. preleggi, non potrà che disporre per l’avvenire.
Ciò posto, si deve al contempo ricordare, in punto di
modalità di alimentazione del fondo medesimo, che il
predetto
parere 07.09.2016 n. 353 della Sezione regionale di controllo per
il Veneto ha ritenuto che, nelle more della
determinazione, nell’apposito regolamento, della percentuale
entro la quale destinare le risorse e dei criteri di
assegnazione, è corretto accantonare le risorse medesime in
misura del 2% dell’importo a base di gara, senza tuttavia
provvedere alla ripartizione tra i beneficiari prima di aver
approvato il regolamento suddetto: ciò sulla base della
previsione, contenuta nell’art. 113, commi 2, 3 e 4, del
decreto legislativo n. 50 del 2016, della destinazione ad un
fondo apposito, in misura non superiore al 2%, delle risorse
finanziarie stanziate per la realizzazione dei singoli
lavori, di cui l’80% da ripartire tra il responsabile unico
del procedimento ed i soggetti che abbiamo svolto le ivi
previste “funzioni tecniche” ed i loro collaboratori, ed il
restante 20% da impiegare per l’acquisito di beni,
strumentazioni e tecnologie funzionali al miglioramento e
l’innovazione tecnologica.
In particolare, mentre l’“accantonamento ad apposito fondo”
di “risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per
cento, modulate sull'importo dei lavori posti a base di
gara”, è direttamente stabilito dal
secondo comma dell’art.
113, la ripartizione tra i dipendenti dell’ente viene
regolata nel comma successivo, il quale stabilisce che essa
deve avvenire “con le modalità ed i criteri previsti in sede
di contrattazione decentrata integrativa del personale,
sulla base di apposito regolamento adottato dalle
amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti”.
L’adozione del regolamento, dunque, continua ad essere una
condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli
aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo (pro
futuro), perché il regolamento –e solo il regolamento, nella
sistematica della legge– è destinato ad individuare le
modalità ed i criteri della ripartizione, oltre alla
percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo
fissato dalla legge.
In quella pronuncia, sulla base della struttura
dell’enunciato normativo, s’è ritenuto altresì che
il
semplice accantonamento delle risorse, in attesa della
disciplina regolamentare, può tuttavia essere disposto
dall’ente, su un capitolo o capitoli sui quali non è
possibile assumere impegni ed effettuare pagamenti, purché,
ovviamente, entro i limiti percentuali fissati dall’art.
113, secondo comma, del predetto decreto.
In tal caso, ove poi il regolamento successivamente adottato
dall’ente dovesse individuare una percentuale inferiore a
quella già applicata dall’ente medesimo, la parte
dell’accantonamento non utilizzata verrebbe a concorrere
alla determinazione del risultato di amministrazione. Nel
caso inverso, ovvero nel caso di accantonamento di una somma
inferiore a quella poi prevista nel regolamento, il mancato
accantonamento costituirebbe invece nella sostanza
“economia” dell’anno, concorrente alla determinazione del
risultato di amministrazione, e come tale dovrebbe essere
considerata; in altre parole, il fondo verrà comunque
costituito con la sola dotazione iniziale frutto del
prudenziale accantonamento dell’ente, fino all’entrata in
vigore del regolamento, fermo restando la ripartizione delle
somme solo successivamente a tale momento, conformemente
alla disciplina regolamentare medio termine approvata e
comunque nel rispetto della normativa vigente.
Va sottolineato che tale accantonamento, tuttavia, viene
disposto non sulla base del regolamento approvato
successivamente, che non è retroattivo, ma sulla base di una
scelta prudenziale dell’ente effettuata, nei limiti di
legge, ex ante.
7.- Con il
terzo quesito, il Comune chiede se sia legittimo
comprendere fra gli acquisti oggetto degli incentivi anche
le adesioni alle convenzioni Consip e gli acquisti tramite
Mepa, “anche solo per alcune delle attività previste
dall’art. 113, secondo comma”, del predetto decreto
legislativo.
Il quesito, per come formulato, risulta invero mal posto.
Come la giurisprudenza di questa Corte ha già chiarito sulla
base del tenore letterale del menzionato art. 113 –il quale
riconosce l’incentivo “esclusivamente” per le “attività di
programmazione della spesa per investimenti, per la verifica
preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo
delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti
pubblici, di responsabile unico del procedimento, di
direzione dei lavori ovvero direzione dell’esecuzione e di
collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico”- l’avverbio
“esclusivamente” esprime con chiarezza l’intenzione del
legislatore di riconoscere il compenso incentivante
limitatamente alle attività espressamente previste, ove
effettivamente svolte dal dipendente pubblico, sicché
l’elencazione contenuta nella norma deve considerarsi
tassativa (così Sezione delle Autonomie,
deliberazione 13.05.2016 n. 18, laddove, in via incidentale, sottolinea
che la nuova disposizione ha abolito “gli incentivi alla
progettazione previsti dal previgente art. 93, comma 7-ter,
introducendo nuove forme di incentivazione per funzioni
tecniche (…) svolte dai dipendenti esclusivamente per le
attività di programmazione della spesa per investimenti e
per la verifica preventiva dei progetti e, più in generale,
per le attività tecnico-burocratiche, prima non
incentivate”; Sezione regionale di controllo per la Puglia,
parere 13.12.2016 n. 204; Sezione regionale di
controllo per il Veneto,
parere 02.03.2017 n. 134;
Sezione regionale di controllo per la Regione siciliana,
parere 30.03.2017 n. 71).
Dunque sotto questo specifico profilo, ossia sotto il
profilo della individuazione dei limiti entro i quali le
attività svolte dai pubblici dipendenti possono ricevere una
specifica remunerazione, la disciplina degli incentivi,
derogatoria rispetto al principio di onnicomprensività della
retribuzione, è da considerarsi di stretta interpretazione e
non suscettibile di estensione analogica.
Il punto, così correttamente ricostruita la ratio della
disposizione, diviene dunque non tanto quello
dell’individuazione di un meccanismo di approvigionamento,
effettivamente adottato dall’ente, quale presupposto per
l’erogazione dell’incentivo –nella specie, come da richiesta
del comune, il ricorso a Consip o Mepa, autonomamente di per
sé considerato–, ma quello dell’effettiva occorrenza,
secondo la specifica disciplina della procedura di
e-procurement concretamente applicata, di una delle attività
incentivate, nel caso di specie concretamente accertata come
svolta (vale a dire attività di programmazione della spesa
per investimenti, di verifica preventiva dei progetti, di
predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del
procedimento, di direzione dei lavori ovvero di direzione
dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico). Spetta
all’ente tale valutazione, in concreto, nelle diverse
possibili evenienze.
Peraltro, al riguardo non sfugga nemmeno come la
disposizione presupponga esplicitamente –laddove richiede
l’accantonamento in un apposito fondo di “risorse
finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate
sull'importo dei lavori posti a base di gara”– che vi sia
una “gara”, sia pure semplificata; in mancanza di tale
requisito, l’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n.
50 del 2016 non prevede l’accantonamento delle risorse nel
fondo e, conseguentemente, la relativa distribuzione.
Al riguardo, l’ente, nel valutare concretamente le attività
incentivate e le modalità di rimodulazione dell’incentivo
nelle diverse evenienze, deve altresì considerare
correttamente il quadro normativo, sistematicamente
considerato, che prevede che per i compiti svolti dal
personale di una centrale unica di committenza,
nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori,
servizi e forniture per conto di altri enti, possa essere
riconosciuta, su richiesta della centrale unica di
committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto,
dell'incentivo (art. 113, comma 5).
Ciò posto, spetta all’ente la valutazione
nelle specifiche evenienze dell’occorrenza, in concreto, di
attività effettivamente incentivate in forza della ricordata
disposizione normativa.
8.- Con il
quarto quesito, l’ente chiede se sia legittimo
–sulla base dell’art. 3, comma 1, lett. nn), di detto
decreto legislativo, che considera anche la “manutenzione di
opere”– riconoscere l’incentivo “anche per le manutenzioni
ordinarie e straordinarie” (ciò a fronte di pareri nel senso
della soluzione negativa delle Sezioni regionali di
controllo per l’Emilia Romagna e per la Puglia,
rispettivamente
parere 07.12.2016 n. 118 e
parere 24.01.2017 n. 5, conosciuti e
richiamati dall’ente istante).
Al riguardo, questa Sezione deve rilevare che il quesito,
anche in tal caso, risulta posto in termini che non tengono
conto della sostanza delle questioni evocate.
In primo luogo questa Sezione, come già rilevato in
precedenza, ritiene tassativo l’elenco delle attività
incentivabili dalla normativa in esame e, quindi, non può
che confermare che gli incentivi per funzioni tecniche
riguardano, in via esclusiva, le attività indicate al
comma
2 dell’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016; e
ciò perché il suddetto emolumento, in virtù del principio di
onnicomprensività del trattamento economico, può essere
corrisposto solo in presenza di una espressa previsione
legislativa.
In definitiva, alla luce di quanto riportato,
va confermato
che gli incentivi per funzioni tecniche previsti dall’art.
113 del decreto legislativo n. 50 del 2016 possono essere
corrisposti, di per sé, solo in presenza di una delle
attività espressamente considerate dalla disposizione
richiamata (così Sezione delle Autonomie,
deliberazione 13.05.2016 n. 18; Sezione regionale di controllo per la
Puglia,
parere 13.12.2016 n. 204; Sezione regionale di
controllo per il Veneto,
parere 02.03.2017 n. 134;
Sezione regionale di controllo per la Regione siciliana,
parere 30.03.2017 n. 71).
Inoltre decisivo al riguardo risulta il fatto che la Sezione
delle autonomie, nella già richiamata
deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha accolto l’assunto secondo cui
il
compenso incentivante di cui all’art. 113, comma 2, del
decreto legislativo n. 50 del 2016 riguarda non soltanto
lavori, ma anche servizi e forniture ed ha al contempo dato
atto del fatto che tale interpretazione è ormai avvalorata
dalla giurisprudenza della Corte in sede consultiva (cfr.
Sezione di controllo Lombardia,
parere 16.11.2016 n. 333) che, da un lato ammette che gli incentivi
siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e
forniture e, dall’altro, che tra i beneficiari degli stessi
non possano comprendersi coloro che svolgono attività
relative alla progettazione e al coordinamento della
sicurezza (cfr. anche la
deliberazione 13.05.2016 n. 18
della medesima Sezione).
Tale è dunque il quadro delle attività incentivabili, la cui
individuazione, indipendentemente dallo specifico oggetto
del contratto pubblico messo a gara, in concreto spetta,
come s’è detto, all’Amministrazione, nel rispetto delle
indicazioni desumibili dalla pregressa giurisprudenza di
questa Corte.
9.- Con il
quinto quesito, l’ente chiede infine se “le
soglie per l’applicazione dell’incentivo possono essere
liberamente disciplinate all’interno del regolamento” o se
invece “devono prendere come riferimento le soglie indicate
dall’art. 21 [del medesimo decreto legislativo] per la
programmazione biennale per forniture e servizi e triennale
per lavori”.
In realtà, al riguardo va rilevato che il quadro normativo
prevede una sfera di discrezionalità normativa degli enti
locali, che devono comunque muoversi nell’ambito dei
principi e delle regole stabilite dalle vigenti prescrizioni
legislative. Al riguardo giova rilevare che
il decreto
legislativo n. 50 del 2006, in linea generale, prevede la
misura massima delle risorse destinabili al fondo e la
necessaria modulazione delle stesse in relazione all'importo
dei lavori o delle procedure di acquisizione di beni e
servizi concretamente espletate.
In tale contesto, spetta all’ente locale esercitare
correttamente la propria discrezionalità, che potrà anche
essere orientata dalle soglie indicate dall’art. 21 del
medesimo decreto legislativo per la programmazione biennale
per forniture e servizi e triennale per lavori, purché
nell’ambito di una disciplina coerente e conforme alle
specifiche previsioni stabilite dai commi 2, 3 e 4 del
decreto legislativo n. 50 del 2016.
10.- Spetta al Comune richiedente, sulla base dei principi
così espressi, valutare attentamente le singole fattispecie
al fine di addivenire ad una corretta autodeterminazione
nell’esercizio del proprio potere, anche regolamentare, in
materia, nel rispetto del quadro legislativo vigente (Corte
dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 09.06.2017 n. 185). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli incentivi per le funzioni
tecniche di cui all’art. 113, comma 2 del d.lgs. 50/2016
sono da includersi nel tetto dei trattamenti accessori di
cui all’art. 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità
2016) in quanto il compenso incentivante previsto dalla
nuova disciplina non è sovrapponibile all’incentivo per la
progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n.
163/2006, oggi abrogato.
---------------
Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di
Moncalieri (TO), dopo aver richiamato il principio di
diritto enunciato dalla Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 06.04.2017 n. 7, secondo cui “gli
incentivi per le funzioni tecniche di cui all’art. 113,
comma 2, del d.lgs. 50/2016 sono da includersi nel tetto dei
trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma 236, l. n.
208/2015 (legge di stabilità 2016)” e dopo aver evidenziato
che la precedente deliberazione della Sezione delle
Autonomie n. 16 del 2009 aveva, invece, escluso dal calcolo
della spese di personale, ai fini del limite di cui all’art.
557 legge 296/2006, gli incentivi di progettazione previsti
dal previgente codice dei contratti pubblici (art. 93 d.lgs.
163/2006), chiede a questa Sezione di chiarire la portata
applicativa della deliberazione della Sezione delle
Autonomie con particolare riferimento alla possibilità di
individuare, fra i vari tipi di incentivi alle funzioni
tecniche, delle voci che si sottrarrebbero al principio di
diritto enunciato da ultimo e, dunque, al limite del salario
accessorio di cui all’art. 1, co. 236, della legge n.
208/2015.
Il Comune di Moncalieri formula, infatti, il seguente
quesito:
-
“se tutte le somme destinate ad incentivare le funzioni
tecniche ai sensi dell’art. 113 dlgs 50/2016 siano da
considerare comprese nel limite del salario accessorio ai
fini dell’applicazione dell’art. 1, comma 236, della legge n.
208/2015 (legge di stabilità 2016) e siano da considerare
incluse nella spesa di personale ai fini dell’applicazione
del comma 557 della legge 296/2006 oppure se debba essere
operata una distinzione, nell’ambito degli incentivi per le
funzioni tecniche disciplinati dall’art. 113 dlgs 50/2016,
tra gli incentivi relativi a prestazioni professionali
tipiche, acquisibili all’esterno della P.A. e qualificabili
come spesa di investimento (appalti di lavori e incentivi
per es. per la direzione lavori) e incentivi di altro tipo
(controllo delle procedure di bando e di esecuzione e in
particolare incentivi per gli appalti di forniture e
servizi), che risultino privi degli elementi indicati dalla
deliberazione
13.11.2009 n. 16 Sezioni Autonomie”.
...
Il quesito posto dall’ente locale attiene all’applicabilità,
ai compensi destinati a remunerare le funzioni tecniche di
cui all’art. 113, co. 2, d.lgs. 50/2016, del nuovo tetto al
salario accessorio introdotto dall’art. 1, comma 236, della
legge n. 208/2015. Su tale questione, in considerazione
della sua portata generale e dell’esistenza di un
preesistente intervento delle Sezioni Riunite (deliberazione
04.10.2011 n. 51), si è recentemente pronunciata la Sezione delle
Autonomie con la
deliberazione 06.04.2017 n. 7, che
lo stesso Comune istante cita ampiamente nella formulazione
del proprio quesito.
La Sezione delle Autonomie, nella richiamata deliberazione,
ha, infatti, evidenziato che “la questione di massima
oggetto di esame è incentrata sull’esclusione o meno dal
tetto di spesa per il salario accessorio dei dipendenti
pubblici –già previsto dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l.
n. 78/2010 e reiterato dall’art. 1, comma 236, della legge
n. 208/2015– dei compensi destinati a remunerare le
funzioni tecniche svolte ai sensi dell’art. 113, comma 2,
d.lgs. n. 50/2016. La questione, come sopra accennato, era
stata risolta in senso positivo dalla deliberazione delle
Sezioni riunite in sede di controllo n. 51/2011, con
riferimento, però, all’incentivo per la progettazione di cui
all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006”.
La Sezione delle Autonomie ha, in proposito, preliminarmente
rilevato “la sostanziale sovrapponibilità del provvedimento
di limitazione alla crescita delle risorse destinate al
trattamento accessorio del personale adottato con l’art. 9,
comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, rispetto alla previsione
della legge di stabilità 2016”, evidenziando come “gli
aspetti innovativi della nuova formulazione –essenzialmente
riferiti al richiamo alle perduranti esigenze di finanza
pubblica, alla prevista attuazione dei decreti legislativi
attuativi della riforma della pubblica amministrazione, alla
considerazione anche del personale assumibile e all’assenza
di una previsione intesa a consolidare nel tempo le
decurtazioni al trattamento accessorio– non incidono sulla
struttura del vincolo di spesa, come già evidenziato da
questa Sezione" (deliberazione
07.12.2016 n. 34).
La
norma si sostanzia in un vincolo alla crescita dei fondi
integrativi rispetto ad una annualità di riferimento e
nell’automatica riduzione del fondo in misura proporzionale
alla contrazione del personale in servizio. Le Sezioni
riunite, chiamate a pronunciarsi sulla soggezione di taluni
compensi ai tetti di spesa per i trattamenti accessori posti
dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, hanno
ritenuto la norma di stretta interpretazione, tenuto conto
dell’effetto di proliferazione della spesa per il personale
determinato dalla contrattazione integrativa, i cui
meccanismi hanno finito per vanificare l’efficacia delle
altre misure di contenimento della spesa (tra cui i vincoli assunzionali).
In tale contesto, l’Organo nomofilattico ha
individuato quale criterio discretivo la circostanza che
determinati compensi siano remunerativi di “prestazioni
tipiche di soggetti individuati e individuabili” le quali
“potrebbero essere acquisite anche attraverso il ricorso a
personale estraneo all’amministrazione pubblica con
possibili costi aggiuntivi”. Sussistendo queste condizioni,
gli incentivi per la progettazione di cui all’art. 93, comma
7-ter, d.lgs. n. 163/2006, sono stati esclusi dall’ambito
applicativo dell’art. 9, comma 2-bis, andando a compensare
prestazioni professionali afferenti ad “attività
sostanzialmente finalizzata ad investimenti”.
Peraltro, tale
orientamento si riporta alle affermazioni di questa Sezione
(deliberazione
13.11.2009 n. 16) che, ai fini del
computo delle voci di spesa da ridurre a norma dell’art. 1,
commi 557 e 562, l. 27.12.2006, n. 296, aveva escluso
gli incentivi per la progettazione interna di cui al
previgente codice degli appalti a motivo della loro
riconosciuta natura “di spese di investimento, attinenti
alla gestione in conto capitale, iscritte nel titolo II
della spesa, e finanziate nell’ambito dei fondi stanziati
per la realizzazione di un’opera pubblica, e non di spese di
funzionamento”.
Quanto allo specifico quesito se, ai fini del computo del
tetto di spesa, debbano o meno computarsi gli incentivi per
le funzioni tecniche svolte ai sensi dell’art. 113, comma 2,
del nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016),
la Sezione delle Autonomie ha espressamente escluso che il
compenso incentivante previsto dalla nuova disciplina sia
“sovrapponibile all’incentivo per la progettazione di cui
all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, oggi
abrogato”.
Secondo la
deliberazione 06.04.2017 n. 7, infatti,
“nei nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che
consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata
ad investimenti; il fatto che tali emolumenti siano
erogabili, con carattere di generalità, anche per gli
appalti di servizi e forniture comporta che gli stessi si
configurino, in maniera inequivocabile, come spese di
funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di
personale). Nel caso di specie, non si ravvisano poi, gli
ulteriori presupposti delineati dalle Sezioni riunite
(nella richiamata
deliberazione 04.10.2011 n. 51),
per escludere gli incentivi
di cui trattasi dal limite del tetto di spesa per i
trattamenti accessori del personale dipendente in quanto
essi non vanno a remunerare “prestazioni professionali
tipiche di soggetti individuati e individuabili” acquisibili
anche attraverso il ricorso a personale esterno alla P.A.,
come risulta anche dal chiaro disposto dell’art. 113, comma
3, d.lgs. n. 50/2016.
La citata norma, infatti –nel
disporre che la ripartizione della parte più consistente
delle risorse (l’80%) debba avvenire “per ciascuna opera o
lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri
previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa
del personale, sulla base di apposito regolamento adottato
dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra
il responsabile unico del procedimento e i soggetti che
svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra
i loro collaboratori” e che “gli importi sono comprensivi
anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell’amministrazione”– appare indicativa della diversa
connotazione degli incentivi in parola.
È infatti evidente
l’intento del legislatore di ampliare il novero dei
beneficiari degli incentivi in esame, individuati nei
profili, tecnici e non, del personale pubblico coinvolto
nelle diverse fasi del procedimento di spesa, dalla
programmazione (che nel nuovo codice dei contratti pubblici,
all’art. 21, è resa obbligatoria anche per l’acquisto di
beni e servizi) all’esecuzione del contratto. Al contempo,
la citata disposizione richiama gli istituti della
contrattazione decentrata, il che può essere inteso come una
sottolineatura dell’applicazione dei limiti di spesa alle
risorse decentrate”.
La Sezione, pertanto, non può che conformare il proprio
parere a quanto già stabilito dalla Sezione delle Autonomie,
la quale, nella deliberazione richiamata, ha inoltre
ribadito che “nella riscrittura della materia ad opera del
nuovo codice degli appalti, risultano assolutamente
salvaguardati i beneficiari dei pregressi incentivi alla
progettazione i quali sono oggi remunerati con un meccanismo
diverso dalla ripartizione del fondo. Infatti, per le spese
di progettazione, di direzione dei lavori o dell’esecuzione,
di vigilanza, per i collaudi tecnici e amministrativi, le
verifiche di conformità, i collaudi statici, gli studi e le
ricerche connessi, la progettazione dei piani di sicurezza e
di coordinamento e il coordinamento della sicurezza in fase
di esecuzione ove previsti dalla legge, si provvede con gli
stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli
lavori, a norma dell’art. 113, comma 1, d.lgs. n. 50/2016.
In tal senso, deve essere apprezzato l’intento
chiarificatore del legislatore delegato” (Corte dei Conti,
Sez. controllo Piemonte,
parere
09.06.2017 n. 113). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Agli incentivi per funzioni tecniche serve un tetto su
misura nel fondo accessorio.
L’inclusione dei compensi per le funzioni tecniche nel tetto
del fondo per la contrattazione decentrata solleva numerosi
problemi operativi: alcuni possono essere risolti in via
interpretativa, per altri è necessario un intervento
legislativo.
La posizione della Corte dei conti
Per tutte le amministrazioni, in premessa, è necessario che
queste somme siano inserite nel fondo delle risorse
decentrate e che siano calcolate in modo preciso. La
deliberazione 06.04.2017 n. 7 della sezione autonomie della Corte dei Conti (si veda il Quotidiano degli enti locali e della
Pa del 13.04.2017), con argomentazioni che devono essere
giudicate come ineccepibili soprattutto rispetto ai principi
affermati dalla
deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle sezioni
riunite di controllo della magistratura contabile, ha
stabilito che non ci sono più le condizioni per cui la
incentivazione delle funzioni tecniche debba essere esclusa
dal tetto del fondo per la contrattazione decentrata.
Il primo problema è che in questo modo si inseriscono nel
tetto del fondo delle somme relative ad attività che ne
erano escluse. Sembra abbastanza agevole sostenere, in virtù
del principio di carattere generale della omogeneità dei
dati messi a confronto, che si possa convenzionalmente
intervenire sul fondo del 2015 e su quello del 2016, che
rispettivamente sono attualmente e sulla base dell'emanando
schema di decreto legislativo attuativo della riforma del
testo unico del pubblico impiego, il tetto massimo del fondo
di questo e dei prossimi anni.
Le nuove regole
Ma ciò non è comunque sufficiente: le nuove regole sulla
incentivazione delle funzioni tecniche comprendono anche gli
appalti di servizi e forniture, mentre in precedenza era
prevista solamente la incentivazione dei lavori pubblici.
Essendo invariato il tetto delle risorse che possono essere
destinate a queste incentivazioni, cioè il 2% dell'importo
posto a base di gara, è assai probabile che si supereranno
le somme previste a questo titolo nel 2015. Il che si
realizzerà sicuramente nella gran parte delle realtà,
nonostante il “decreto correttivo” limita la erogazione di
questi compensi nel caso di forniture e servizi alla
presenza del direttore della esecuzione, il che determina
che in molti casi non si erogherà questo compenso.
Ed ancora, nonostante le amministrazioni si stanno
dimostrando molto restie a prevedere somme rilevanti per
questa incentivazione nel caso di appalti di forniture e
servizi, perché la erogazione di questi compensi determina
seccamente un aumento dei costi a carico dei bilanci degli
enti o, in numerosi casi, a carico degli utenti. Anche con
riferimento a questo elemento si ritiene che, sulla scorta
dei principi dettati dalle deliberazioni della magistratura
contabile, sia possibile determinare in questo l'anno zero
di tali costi a cui fare riferimento come tetto invalicabile
per il futuro, visto che esso è il primo in cui la norma è a
regime.
Un tetto per il fondo
Di difficile soluzione senza un intervento legislativo è il
possibile impatto con effetti stravolgenti di queste somme
sul fondo.
Siamo in presenza comunque di somme di grande rilievo: cosa
accade in un comune in un anno in cui si fanno molti e/o
molto rilevanti appalti di forniture e servizi e, quindi,
queste somme aumentano? Si deve tagliare la erogazione degli
altri istituti del fondo? E se il fondo ha un elevato grado
di rigidità, cosa avviene, visto che certo non si possono
tagliare compensi che hanno un carattere fisso (progressioni
economiche, comparto, eccetera) o sono legati allo
svolgimento di attività essenziali (turno, reperibilità)?
La soluzione, ma occorre un’indicazione legislativa, è che
si crei uno specifico tetto all'interno del fondo, per cui
queste somme non incidano sul complesso, ma vadano
confrontate con il dato omogeneo ovvero che il legislatore
stabilisca che queste somme vanno al di fuori del tetto del
fondo per la contrattazione decentrata, come si riteneva
comunemente fino a qualche settimana fa, cioè fino alla
deliberazione 06.04.2017 n. 7
della sezione autonomie della Corte
dei conti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
22.05.2017). |
Ma anche un recente nuovo (interessante) arresto circa il
defunto "incentivo alla progettazione":
nisba se manca il regolamento interno!! |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Niente incentivi alla progettazione se manca il
regolamento.
Innovativa la posizione assunta dalla Corte di cassazione
che, con la sentenza n. 13937/2017, non solo fornisce una
diversa interpretazione alla propria precedente pronuncia
(Cassazione, Sezione Lavoro, 19.07.2004 n. 13384), ma
precisa i seguenti presupposti per la legittima erogazione
degli incentivi tecnici:
a) l'attribuzione dell'incentivo deve essere prevista e regolata
dalla contrattazione collettiva decentrata;
b) il potere regolamentare della amministrazione, è limitato alla
specificazione dei criteri di ripartizione i cui criteri di
ripartizione devono coincidere con i criteri previsti dalla
contrattazione collettiva decentrata;
c) l'attività di progettazione può essere “premiata” dalla
contrattazione collettiva decentrata con l'attribuzione
degli incentivi se, e solo se, si risolva in una «effettiva
utilità per l'amministrazione come attività propedeutica
alla realizzazione dell'opera pubblica», quale può
essere l'approvazione di un progetto esecutivo dell'opera
pubblica;
d) a fronte della riserva alla contrattazione collettiva (articolo
45 del Dlgs n. 165 del 2001), in mancanza dell'accordo
decentrato è inibito al giudice ordinario procedere a
liquidare l'incentivo in via equitativa.
Le precedenti indicazioni
In merito all'interpretazione sul diritto soggettivo del
dipendente pubblico che effettui attività di progettazione,
si era spesa la Corte dei conti, Sezione delle Autonomie
(deliberazione n. 7/2009) la quale aveva avuto modo di
precisare quanto segue: «la Suprema Corte ha ritenuto che
il diritto all'incentivo di cui si sta trattando,
costituisce un vero e proprio diritto soggettivo di natura
retributiva (Cass. Sez. Lav., sent. n. 13384 del 19.07.2004)
che inerisce al rapporto di lavoro in corso, nel cui ambito
va individuato l'obbligo per l'Amministrazione di adempiere,
a prescindere dalle condizioni e dai presupposti per rendere
concreta l'erogazione del compenso», precisando
successivamente come «dal compimento dell'attività nasce
il diritto al compenso». Tali indicazioni della
nomofilachia contabile hanno da quel momento assunto un
risultato intangibile per le Corti territoriali.
Nel caso sottoposto all'attenzione della Suprema Corte anche
il ricorrente, cui la Corte di appello aveva negato
l'incentivo per mancata contrattazione dei criteri e in
assenza del relativo regolamento da parte
dell'amministrazione, precisa come si sia in presenza di un
vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva
spettante ai dipendenti, a nulla rilevando che detti diritti
risultino indeterminati quantitativamente fino alla
specificazione con regolamento delle modalità di
ripartizione del fondo.
L'interpretazione autentica
Gli Ermellini non condividono tale interpretazione,
nonostante le indicazioni della giurisprudenza contabile,
precisando, diversamente da quanto opina il ricorrente, come
i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 13384
del 2004 non offrono alcun supporto alle sue prospettazioni
difensive atteso che la necessità del regolamento per il
diritto agli incentivi è stata affermata anche nella citata
sentenza del 2004, la quale aveva modo di precisare come in
assenza di regolamento, essa non abbia affatto riconosciuto
il diritto all'incentivo, ma solo il risarcimento del danno
per inottemperanza all'obbligo di adozione del Regolamento
da parte della amministrazione.
Nel caso di specie, inoltre, il ricorrente non fornisce
alcuna prova circa l'esistenza di clausole della
contrattazione collettiva integrativa disciplinanti la
materia dell'incentivo, cui l'amministrazione avrebbe dovuto
adeguarsi in sede regolamentare. Infine, in merito a una
possibile liquidazione in via equitativa dell'incentivo da
parte del giudice adito reclamato dal ricorrente, secondo i
giudici di Palazzo Cavour, va escluso che, in difetto di
disposizioni di fonte pattizia collettiva, il giudice
avrebbe potuto liquidare in via equitativa il compenso
retributivo accessorio domandato, ostandovi il principio di
riserva alla contrattazione collettiva espresso nel comma 1
dell'articolo 49 del Dlgs n. 165 del 2001, riaffermato nel
comma 1 dell'articolo 45 del Dlgs n. 165 del 2001 (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.06.2017).
---------------
MASSIMA
1. Con la sentenza depositata il 01.02.2011, la Corte
d'Appello di L'Aquila, per quanto oggi rileva, in
accoglimento dell'appello incidentale proposto dal Consorzio
di Bonifica Sud - Bacino Moro Sangro Sinello e Trigno -, nei
confronti della sentenza del Tribunale di Vasto, ha respinto
la domanda proposta da Gi.Ce. volta alla condanna
del Consorzio al pagamento della somma di € 60.506,84 a
titolo di incentivo per la progettazione ex art. 18 della L.
n. 109 del 1994, in relazione alle attività espletate dal
1985 al 2001.
2. La statuizione è fondata sulle argomentazioni
motivazionali che seguono: l'art. 18 della legge n. 109 del
1990 rinvia la "ripartizione tra il responsabile unico
del procedimento e gli incaricati della redazione del
progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei
lavori, del collaudo nonché tra i loro collaboratori",
della quota percentuale (1,55) dell'importo posto a base di
gara di un'opera o di un lavoro, alle modalità ed ai criteri
previsti dalla contrattazione collettiva decentrata ed
assunti in un regolamento adottato dall'Amministrazione.
Ha rilevato che tanto la contrattazione collettiva
decentrata quanto il Regolamento del Consorzio erano
intervenuti in epoca successiva all'arco temporale cui era
riferita la rivendicazione economica. Ha ritenuto
inammissibile, perché proposta solo in grado di appello, la
domanda risarcitoria fondata sull'inadempimento del
Consorzio e sull'indebito arricchimento da questi
conseguito.
...
Esame dei motivi
12. Il primo motivo è infondato, pur dovendo correggersi
la motivazione della sentenza impugnata ai sensi dell'art.
384 c.p.c., nei termini di seguito esposti, essendo il
dispositivo conforme a diritto.
13. Reputa il Collegio indispensabile la ricostruzione, che
difetta nella sentenza impugnata, della disposizione
contenuta nell'art. 18 della legge 11.02.1994 n. 109 in
quanto, nell'arco temporale al quale è riferita la domanda
di pagamento dell'incentivo, tale disposizione è stata
oggetto di numerosi interventi del legislatore che ne hanno
riformulato il testo, riformandone l'ambito di operatività
oggettiva e soggettiva, i presupposti condizionanti
l'insorgenza del diritto, le modalità ed i criteri per la
sua liquidazione e le regole di contabilità.
14. L'iniziale formulazione dell'art. 18 della L.
11.02.1994, n. 109 così disponeva: "(Incentivi per la
progettazione).
1. In sede di contrattazione collettiva decentrata, ai sensi
del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive
modificazioni, e in un quadro di trattamento
complessivamente omogeneo delle diverse categorie
interessate, può essere individuata una quota non superiore
all'1 per cento del costo preventivato di un'opera o di un
lavoro, da destinare alla costituzione di un fondo interno e
da ripartire tra il personale dell'ufficio tecnico
dell'amministrazione aggiudicatrice, qualora esso abbia
redatto direttamente il progetto esecutivo della medesima
opera o lavoro.
2. Le somme occorrenti ai fini di cui al comma 1 sono
prelevate sulle quote degli stanziamenti annuali riservate a
spese di progettazione ai sensi dell'articolo 16, comma 8,
ed assegnate ad apposito capitolo dello stato di previsione
della spesa o ad apposita voce del bilancio delle
amministrazioni aggiudicatrici".
15. Successivamente il D.L. 03.04.1995 n. 101, convertito
con modificazioni dalla L. 02.06.1995 n. 216 ha modificato il
richiamato art. 18 della L. n. 109 del 1994 nei termini che
seguono: "1. In sede di contrattazione collettiva
decentrata, ai sensi del decreto legislativo 03.02.1993, n.
29, e successive modificazioni, è ripartita la quota dell'1
per cento del costo preventivato di un'opera o di un lavoro,
da destinare alla costituzione di un fondo interno e da
ripartire tra il personale dell'ufficio tecnico
dell'amministrazione aggiudicatrice, qualora esso abbia
redatto direttamente il progetto per l'appalto della
medesima opera o lavoro, e il coordinatore unico di cui
all'articolo 7 il responsabile del procedimento e i loro
collaboratori."
Il decreto legge innanzi richiamato ha anche fatto espresso
riferimento a progetti di cui era riscontrato il "perdurare
dell'interesse pubblico alla realizzazione dell'opera".
16. A seguito dell'entrata in vigore della legge 15.05.1997
n. 127 (l'art. 16, c. 3),
l'art. 18 è stato così riformulato "1. L'1 per cento del
costo preventivato di un'opera o
di un lavoro ovvero il 50 per cento della tariffa
professionale relativa a un atto di
pianificazione generale, particolareggiata o esecutiva sono
destinati alla costituzione di
un fondo interno da ripartire tra il personale degli uffici
tecnici dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare
dell'atto di pianificazione, qualora essi abbiano redatto
direttamente i progetti o i piani, il coordinatore unico di
cui all'articolo 7, il
responsabile del procedimento e i loro collaboratori.
1-bis.
Il fondo di cui al comma 1
è ripartito per ogni singola opera o atto di pianificazione,
sulla base di un regolamento
dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di
pianificazione".
17. La legge 16.06.1998 n. 191 (art. 2, c. 18) ha apportato
ulteriori innovazioni
all'art. 18 che per effetto delle modifiche recita: "L'1 per
cento del costo preventivato
di un'opera o di un lavoro ovvero il 50 per cento della
tariffa professionale relativa a
un atto di pianificazione generale, particolareggiata o
esecutiva sono destinati alla
costituzione di un fondo interno da ripartire tra il
personale degli uffici tecnici
dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di
pianificazione, qualora essi
abbiano redatto direttamente i progetti o i piani, il
coordinatore unico di cui all'articolo
7, il responsabile del procedimento e i loro collaboratori.
1-bis. Il fondo di cui al
comma 1 è ripartito per ogni singola opera o atto di
pianificazione, sulla base di un
regolamento dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare
dell'atto di pianificazione,
nel quale vengono indicati i criteri di ripartizione che
tengano conto delle
responsabilità professionali assunte dagli autori dei
progetti e dei piani, nonché dagli
incaricati della direzione dei lavori e del collaudo in
corso d'opera".
18. Infine, per quanto rileva temporalmente nella vicenda in
esame, la legge 17.05.1999 n. 140 ha disposto con l'art. 13,
c. 4, la modifica dell'art. 18, commi 1 e 1-bis che, per
effetto delle modifiche così recita: "Una somma non
superiore all' 1,5 per cento dell'importo posto a base di
gara di un'opera o di un lavoro, a valere direttamente sugli
stanziamenti di cui all'articolo 16, comma 7, è ripartita,
per ogni singola opera o lavoro, con le modalità ed i
criteri previsti in sede di contrattazione decentrata ed
assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra
il responsabile unico del procedimento e gli incaricati
della redazione del progetto, del piano della sicurezza,
della direzione dei lavori, del collaudo nonché tra i loro
collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo
dell'1,5 per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto
all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La
ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali
connesse alle specifiche prestazioni da svolgere Le quote
parti della predetta somma corrispondenti a prestazioni che
non sono svolte dai predetti dipendenti, in quanto affidate
a personale esterno all'organico dell'amministrazione
medesima, costituiscono economie. I commi quarto e quinto
dell'articolo 62 del regolamento approvato con regio decreto
23.10.1925, n. 2537, sono abrogati. I soggetti di cui
all'articolo 2, comma 2, lettera b), possono adottare con
proprio provvedimento analoghi criteri.
2. Il 30 per cento della tariffa professionale relativa alla
redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è
ripartito, con le modalità ed i criteri previsti nel
regolamento di cui al comma 1, tra i dipendenti
dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto".
19. In continuità con i principi già affermati da questa
Corte nella sentenza n. 8344 del 2011, deve ritenersi che
l'art. 18, nella formulazione originaria ed in quella
derivata dalle modifiche apportate dal D.L. n. 101 del 1995,
convertito con modificazioni dalla L. n. 216 del 1995 ha
attribuito alla contrattazione collettiva, decentrata, la
possibilità, di individuare la quota della percentuale del
costo preventivato di un'opera o di un lavoro da destinare
alla costituzione del Fondo interno da ripartire tra i
soggetti individuati dalla norma. Tanto in sintonia con
l'art. 49 del D.Lgs. n. 29 del 1993, che aveva demandato
alla contrattazione collettiva la regolamentazione del
trattamento retributivo, fondamentale ed accessorio, dei
pubblici dipendenti con rapporto di lavoro privatizzato. La
norma, infatti si era limitata a porre i limiti legali all'
intervento della contrattazione collettiva decentrata.
20. A seguito delle modifiche apportate dall'art. 16, c. 3,
della L. n. 127 del 1997, la individuazione dei criteri di
ripartizione del Fondo, destinato al pagamento
dell'incentivo, è stata attribuita alla potestà
regolamentare della Amministrazione aggiudicatrice o
titolare dell'atto di pianificazione, nel rispetto della
normativa primaria, regola, questa, confermata dalle
modifiche introdotte dall' art. 2, c. 18, della L. n. 191
del 1998, che ha dettato più precisi criteri per l'esercizio
della potestà regolamentare (responsabilità professionali
degli autori dei progetti e dei piani e degli incaricati
della direzione dei lavoro e dei collaudi in corso d'opera),
mentre la riformulazione dell'art. 18 della legge n. 109 del
1994 ad opera dell'art. 13, c. 4, della L. n. 144 del 1999,
ha previsto che la potestà regolamentare
dell'amministrazione aggiudicatrice debba in sostanza
compendiarsi nel recepimento dei criteri di ripartizione
stabiliti dalla contrattazione collettiva decentrata.
21. L'evoluzione del quadro normativo consente, in
conclusione di affermare, che l'attribuzione dell'incentivo
deve essere prevista e regolata dalla contrattazione
collettiva decentrata, che il potere regolamentare della
Amministrazione, introdotto dalla L. n. 127 del 1997 è
limitato alla specificazione dei criteri di ripartizione,
che tale specificazione, a far tempo dall'entrata in vigore
dell'art. 13, c. 4, della L. n. 140 del 1999, deve coincidere
con i criteri previsti dalla contrattazione collettiva
decentrata.
22. L'esame del dato testuale contenuto nelle formulazioni
dell'art. 18 della L. n. 109 del 1994 via via succedetesi
nel tempo, consente inoltre di affermare, in conformità ai
principi affermati da questa Corte territoriale nelle
sentenze n. 11022/2016, n. 16736 del 2013 e n. 8344 del 2011
che l'attività di progettazione può essere "premiata"
dalla contrattazione collettiva decentrata con
l'attribuzione degli incentivi dell'art. 18 se e solo se si
risolva in un'"effettiva utilità per l'amministrazione
come attività propedeutica alla realizzazione dell'opera
pubblica", quale può essere l'approvazione di un
progetto esecutivo dell'opera pubblica.
23. Le prospettazioni difensive formulate dal ricorrente nel
motivo in esame, e che invocando la sentenza di questa Corte
n. 13384 del 2004, muovono dall'assunto secondo cui la norma
di cui all'art. 18 citato, affermerebbe un vero e proprio
diritto soggettivo di natura retributiva spettante ai
dipendenti, a nulla rilevando che detti diritti risultino
indeterminati quantitativamente fino alla specificazione con
regolamento delle modalità di ripartizione del fondo,
svalutano i dati normativi richiamati nei punti da 13 a 18
di questa sentenza.
24. Come già rilevato nei punti da 19 a 22 di questa
sentenza, il dato letterale e sistematico
delle diverse formulazioni dell'art. 18 che si sono
succedute nel tempo, attesta che l'incentivo può essere
attribuito se previsto dalla contrattazione collettiva
decentrata e se sia stato adottato l'atto regolamentare
della Amministrazione aggiudicatrice volto alla precisazione
dei criteri di dettaglio per la ripartizione delle risorse
finanziarie confluite nel Fondo e solo a condizione che
l'attività di progettazione sia arrivata in una fase
avanzata, perché sono intervenuti un progetto esecutivo
approvato ed un'opera da realizzare.
25. Siffatti presupposti non ricorrono nella fattispecie
dedotta in giudizio atteso che non è stata oggetto di alcuna
censura l'affermazione della Corte territoriale secondo cui
il regolamento è stato adottato solo in data 27.06.2007 e
considerato che mai il Giuliani ha allegato l'esistenza di
clausole della contrattazione collettiva integrativa
disciplinanti la materia dell'incentivo previsto dall'art.
18 della L. n. 109 del 1994, come successivamente
modificata.
26. Deve, infine, affermarsi che diversamente da quanto
opina il ricorrente, i principi affermati
da questa Corte nella sentenza n. 13384 del 2004 non offrono
alcun supporto alle sue prospettazioni difensive atteso che,
come già osservato da questa Corte nella Ordinanza n. 3779
del 2012, la necessità del regolamento per il diritto agli
incentivi è stata affermata anche nella sentenza del 2004,
la quale in assenza di regolamento, non ha affatto
riconosciuto il diritto all'incentivo, ma solo il
risarcimento del danno per inottemperanza all'obbligo di
adozione del Regolamento da parte della Amministrazione
aggiudicatrice.
27. Deve, poi, escludersi che in difetto di disposizioni di
fonte pattizia collettiva, il giudice avrebbe potuto
liquidare in via equitativa il compenso retributivo
accessorio domandato, ostandovi il principio di riserva alla
contrattazione collettiva espresso nel richiamato c. 1
dell'art. 49 del D.Lgs. n. 165 del 2001, riaffermato nel c. 1
dell'art. 45 del D.Lgs. n. 165 del 2001.
28. Va, infine, rilevato, che il vizio in esame è
inammissibile nella parte in cui è denunciata la violazione
dell'art. 2126 c.c. in quanto, in difformità da quanto
prescritto dall'art. 366, primo comma, n. 3 c.p.c., il
ricorrente non ha svolto alcuna argomentazione volta a
dimostrare in qual modo la sentenza abbia violato la
disposizione codicistica ovvero l'interpretazione datane
dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 24298/2016,
87/2016, 3010/2012, 5353/2007; Ord. 187/2014, 16308/2013) (Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 05.06.2017 n. 13937). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Per il diritto all'incentivo
è indispensabile
la predisposizione di un regolamento per determinarne le
modalità di erogazione, perché così la legge prescrive.
Invero la necessità del regolamento per il diritto agli
incentivi è stata affermata anche da questa Corte perché,
nella fattispecie trattata, in assenza di regolamento
non è stato affatto riconosciuto il diritto all'incentivo,
ma solo il risarcimento del danno per inottemperanza
all'obbligo imposto dalla legge.
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Sono invece manifestamente fondati i primi tre motivi
in cui si contesta il diritto all'incentivo di cui all'art.
19 della legge 109/1994.
Ed infatti, per il diritto all'incentivo, era indispensabile
la predisposizione di un regolamento per determinarne le
modalità di erogazione, perché così la legge prescrive, e
nella specie il regolamento di cui alla delibera n. 1401 del
2003 era stato annullato. Né era passibile di sostituzione
con accordi di sorta.
Invero la necessità del regolamento per il diritto agli
incentivi è stata affermata anche da questa Corte con la
sentenza indicata dai Giudici di merito a supporto della
decisione, perché, in quel caso, in assenza di regolamento,
non è stato affatto riconosciuto il diritto all'incentivo,
ma solo il risarcimento del danno per inottemperanza
all'obbligo imposto dalla legge.
E' stato infatti affermato (Cass. n. 13384 del 19/07/2004)
che "Il disposto dei commi primo e primo-bis dell'art. 18
della legge n. 109 D.L. 1994 (nel testo vigente a seguito
delle modifiche di cui alla legge n. 127 del 1997 e prima
delle modificazioni successivamente introdotte dalla legge
n. 144 del 1999) nel prevedere l'obbligo delle
amministrazioni aggiudicatarie o titolari di atti di
pianificazione di costituire un fondo interno e di
ripartirlo tra il personale dei loro uffici tecnici, nonché
di emanare un regolamento per le relative modalità di
erogazione, correlava tali obblighi ai rapporti di lavoro in
corso attribuendo a detti dipendenti un vero e proprio
diritto soggettivo di natura retributiva, alla cui
configurabilità non era d'ostacolo la necessità di una
successiva determinazione nel quantum, dovendosi, del resto,
da un lato escludere che l'emanazione del regolamento
(peraltro non subordinata dal suddetto disposto alla
determinazione di criteri e modalità nella contrattazione
decentrata) potesse configurarsi come condizione di
esistenza di detto diritto, atteso che altrimenti si sarebbe
dovuta qualificare come condizione meramente potestativa e
perciò invalida, e, dall'altro, ritenere irrilevante
l'assenza di un termine per detta emanazione, in quanto
l'inerenza dell'obbligo ad un rapporto contrattuale
comportava per le amministrazioni il rispetto dei principi
di correttezza e buona fede e, quindi, il dovere di
procedere all'emanazione in tempi ragionevoli".
Sulla base di tali principi la S.C., dando atto che non
costituiva oggetto di impugnazione la statuizione del
giudice di merito sull'applicabilità alla vicenda giudicata
del sopra citato disposto normativo, ha riconosciuto fondata
la pretesa di un lavoratore dell'ANAS al "risarcimento
dei danni" a titolo di responsabilità ex art. 1218 cod.
civ., per la mancata corresponsione del premio incentivante
a seguito dell'omessa costituzione del fondo
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 09.03.2012 n. 3779). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
In assenza di regolamento, non si ha diritto al
riconoscimento dell'incentivo ma solo il risarcimento del
danno per inottemperanza all'obbligo di adozione del
Regolamento da parte della Amministrazione aggiudicatrice.
Il disposto dei commi 1 e 1-bis dell'art. 18
della legge n. 109 del 1994 (nel testo vigente a seguito
delle modifiche di cui alla legge n. 127 del 1997 e prima
delle modificazioni successivamente introdotte dalla legge
n. 144 del 1999) nel prevedere l'obbligo delle
amministrazioni aggiudicatarie o titolari di atti di
pianificazione di costituire un fondo interno e di
ripartirlo tra il personale dei loro uffici tecnici, nonché
di emanare un regolamento per le relative modalità di
erogazione, correlava tali obblighi ai rapporti di lavoro in
corso attribuendo a detti dipendenti un vero e proprio
diritto soggettivo di natura retributiva, alla cui
configurabilità non era d'ostacolo la necessità di una
successiva determinazione nel "quantum", dovendosi, del
resto, da un lato escludere che l'emanazione del
regolamento (peraltro non subordinata dal suddetto disposto
alla determinazione di criteri e modalità nella
contrattazione decentrata) potesse configurarsi come
condizione di esistenza di detto diritto, atteso che
altrimenti si sarebbe dovuta qualificare come condizione
meramente potestativa e perciò invalida, e, dall'altro,
ritenere irrilevante l'assenza di un termine per detta
emanazione, in quanto l'inerenza dell'obbligo ad un rapporto
contrattuale comportava per le amministrazioni il rispetto
dei principi di correttezza e buona fede e, quindi, il
dovere di procedere all'emanazione in tempi ragionevoli
(sulla base di tali principi la S.C., dando atto che non
costituiva oggetto di impugnazione la statuizione del
giudice di merito sull'applicabilità alla vicenda giudicata
del sopra citato disposto normativo, ha riconosciuto fondata
la pretesa di un lavoratore dell'A.N.A.S. al risarcimento
dei danni a titolo di responsabilità "ex" art. 1218 c.c.,
per la mancata corresponsione del premio incentivante a
seguito dell'omessa costituzione del fondo, escludendo che
-in ragione della loro applicabilità per un preciso ambito
temporale- potesse integrare causa di non imputabilità
dell'inadempimento dell'obbligo di costituzione la
successione di varie modifiche al testo dell'art. 18 legge
n. 109 del 1994).
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La norma di cui al comma 1-bis dell'art. 18 della legge n.
109 del 1994, aggiunto dall'art. 6, comma tredicesimo, della
legge n. 127 del 1997 (e, quindi, vigente anteriormente alla
modifica dello stesso art. 18 disposta dall'art. 13, comma
quarto, della legge n. 144 del 1999) imponeva alle
Amministrazioni che ne erano destinatarie l'obbligo di
emanare un regolamento per la determinazione delle modalità
di erogazione del fondo interno previsto dal comma primo,
senza che l'emanazione fosse subordinata alla preventiva
determinazione di criteri e modalità fissati dalla
contrattazione decentrata (essendo stato il riferimento a
tale contrattazione reintrodotto soltanto con la legge n.
144 del 1999).
---------------
Il primo motivo
di ricorso è infondato per le seguenti considerazioni.
La ricorrente non censura la sentenza impugnata nella parte
in cui ha ritenuto che alla fattispecie in esame non possa
applicarsi il disposto dell'art. 13, comma 4, della legge
17.05.1999 n. 144 (recante la formulazione attualmente
vigente dell'art. 18 della legge 109/1994), perché norma
priva di efficacia retroattiva e quindi non applicabile al
periodo di tempo (27.01.1994/16.07.1998) in cui si sarebbe
verificata la lesione per la quale il Ra. ha chiesto il
risarcimento del danno. Neppure è oggetto di specifica
censura il parametro legislativo di riferimento, individuato
dalla Corte torinese "ratione temporis" nella
versione del menzionato art. 18 legge 109/1994 introdotta
dall'art. 6, comma 13, della legge 15.05.1997 n. 127.
Quest'ultima norma così dispone. Comma 1: "L'1 per cento
del costo preventivato di un'opera o di un lavoro ovvero il
50 per cento della tariffa professionale relativa a un atto
di pianificazione generale, particolareggiata o esecutiva,
sono destinati alla costituzione di un fondo interno da
ripartire tra il personale degli uffici tecnici
dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di
pianificazione, qualora essi abbiano redatto direttamente i
progetti o i piani, il coordinatore unico di cui all'art. 7,
il responsabile del procedimento e i loro collaboratori".
Comma 1-bis: "Il fondo di cui al comma 1 è ripartito per
ogni singola opera o atto di pianificazione sulla base di un
regolamento dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare
dell'atto di pianificazione".
Dalla norma sopra trascritta si ricava:
a) l'obbligo dell'amministrazione di costituire un fondo interno
destinandovi l'1 per cento del costo preventivato dell'opera
da realizzare o il 50 per cento della tariffa professionale
relativa ad un atto di pianificazione;
b) l'obbligo di ripartire detto fondo tra il personale degli uffici
tecnici dell'amministrazione;
c) l'obbligo di emanare un regolamento per determinare le modalità
di erogazione del fondo.
Nella versione in esame della norma, applicabile ratione
temporis alla fattispecie in esame, l'emanazione del
regolamento non è subordinata alla preventiva determinazione
di criteri e modalità fissati dalla contrattazione
decentrata. Tale riferimento alla contrattazione decentrata
verrà reintrodotto solo con la legge 17.05.1999 n. 144, non
applicabile alla fattispecie in esame.
Dalla norma di legge sopra trascritta si ricava altresì che
tutti i predetti obblighi dell'amministrazione sono previsti
in relazione a rapporti di lavoro in corso con i propri
dipendenti; essi pertanto trovano la loro correlazione in un
vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva
spettante ai dipendenti specificamente indicati nella norma.
A nulla rileva che i predetti diritti siano
quantitativamente indeterminati fino alla specificazione con
regolamento delle modalità di ripartizione del fondo:
infatti non osta all'esistenza del diritto retributivo del
lavoratore la necessità di una successiva determinazione del
quantum.
D'altro canto l'emanazione del regolamento non può essere
configurata come condizione di esistenza del diritto, poiché
una siffatta condizione null'altro sarebbe che una
condizione meramente potestativa, da ritenersi invalida a
norma dell'art. 1355 c.c.. Neppure può essere rilevante in
senso contrario che la legge non ponga un termine
all'amministrazione per l'emanazione del regolamento:
l'inerenza dell'obbligo in questione ad un rapporto
contrattuale comporta infatti per l'amministrazione il
rispetto dei principi di correttezza (art. 1175 c.c.) e
buona fede (art. 1375 c.c.), per cui l'ANAS era comunque
tenuta ad emanare il regolamento entro termini ragionevoli.
Non avendo a ciò provveduto, l'ente si è reso certamente
inadempiente nei confronti dei dipendenti aventi diritto
alla liquidazione del fondo ed è tenuto a risarcire loro i
danni subiti, ai sensi dell'art. 1218 c.c. , non avendo il
debitore né allegato né provato l'impossibilità di tale
adempimento per cause a lui non imputabili. Non
costituiscono motivo di oggettiva impossibilità, infatti, le
varie modifiche legislative al testo dell'art. 18 cit.,
atteso che, non avendo le innovazioni effetti retroattivi,
ogni versione della norma aveva un suo preciso ambito di
applicazione temporale.
In definitiva la responsabilità dell'ANAS nei confronti del
Ra. non può essere messa in dubbio, avuto anche riguardo
alla natura di ente pubblico economico assunta dall'azienda
a partire dal 19.08.1995 ed alla conseguente
contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti.
La sentenza impugnata, pertanto, nella parte in cui afferma
la responsabilità dell'ANAS, deve trovare piena conferma,
sia pure con le doverose precisazioni in diritto sopra
specificate (Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 19.07.2004 n. 13384). |
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"Campo
minato" quello dell'incarico al legale: |
APPALTI - INCARICHI PROFESSIONALI: Sussiste
l'onere d’immediata impugnazione del bando di gara pubblica
per contestare clausole di loro impeditive dell'ammissione
dell'interessato alla gara, o anche solo impositive, ai fini
della partecipazione, di oneri manifestamente
incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso
rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, ovvero
che rendano ingiustificatamente più difficoltosa per i
concorrenti la partecipazione alla gara.
In siffatti casi già la pubblicazione del bando genera una
lesione della situazione giuridica per chi intenderebbe
partecipare alla competizione ma non può farlo a causa della
barriera all’ingresso a quello specifico mercato provocata
da clausole del bando per lui insuperabili perché
immediatamente escludenti o che assume irragionevoli o
sproporzionate per eccesso; il che comporta per lui un
arresto procedimentale perché gli si rendono inconfigurabili
successivi atti applicativi utili.
----------------
Il motivo, ritiene qui il Collegio, è infondato.
Vanno condivise le giuste considerazioni della sentenza di
prime cure sull’onere di immediata impugnazione del bando di
gara, che opera allorché –come nel caso presente- le
clausole della lex specialis prevedano requisiti di
partecipazione ex se ostativi all'ammissione
dell'interessato, vale a dire autonomamente ed
immediatamente escludenti.
La giurisprudenza da tempo assume che sussiste l'onere
d’immediata impugnazione del bando di gara pubblica per
contestare clausole di loro impeditive dell'ammissione
dell'interessato alla gara, o anche solo impositive, ai fini
della partecipazione, di oneri manifestamente
incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso
rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, ovvero
che rendano ingiustificatamente più difficoltosa per i
concorrenti la partecipazione alla gara. In siffatti casi
già la pubblicazione del bando genera una lesione della
situazione giuridica per chi intenderebbe partecipare alla
competizione ma non può farlo a causa della barriera
all’ingresso a quello specifico mercato provocata da
clausole del bando per lui insuperabili perché
immediatamente escludenti o che assume irragionevoli o
sproporzionate per eccesso; il che comporta per lui un
arresto procedimentale perché gli si rendono inconfigurabili
successivi atti applicativi utili (da ultimo Cons. Stato, V,
16.01.2015, n. 92; V, 20.11.2015, n. 5296; V, 06.06.2016 n.
2359).
Nella specie, una tale preclusione all’accesso alla contesa
è costituita, per un avvocato –vale a dire, per un esercente
la professione cui è per legge riservato il tipo giuridico
della prestazione in gara di consulenza legale e che dunque
è per ciò solo legittimato ad ambire all’aggiudicazione-
dalla richiesta del requisito di un fatturato globale di
ingenti entità, corrispondenti a non meno di € 20.000.000,
iva esclusa, per consulenze strategico-organizzative e un
fatturato per servizi legali nel diritto amministrativo non
inferiore a €. 2.000.000,00, iva esclusa, di cui almeno €.
1.000.000,00 conseguiti per prestazioni di assistenza e di
consulenza stragiudiziale legale in materia di contratti
pubblici all’interno di tre esercizi finanziari ed un
oggetto di gara.
Sulla base di siffatti livelli economici –di dimensioni tali
da superare una proporzione che sia indice di qualità
professionale- la sommatoria delle pregresse prestazioni
richieste restringe effettivamente la platea dei concorrenti
a un numero limitatissimo: sicché l’effetto di sbarramento
del mercato con conseguente onere di immediata impugnazione
diviene palese; la presentazione della domanda di
partecipazione avrebbe avuto solo un carattere formale e
dunque non necessario a radicare il bisogno di giustizia
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 26.06.2017 n. 3110 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Sulla
illegittimità di un appalto di servizi legali indetto da un
Comune secondo il criterio del prezzo più basso e sulle
modalità con cui l’amministrazione comunale ha determinato
l’importo dell’appalto.
Il D.Lgs. n. 50/2016 e, prima ancora, la direttiva
2014/24/UE, ha segnato una netta preferenza per
l’applicazione di criteri di aggiudicazione che si fondino
su un complessivo apprezzamento del miglior rapporto
qualità/prezzo, relegando il tradizionale criterio del
prezzo più basso ad ipotesi tassativamente individuate.
Conseguentemente, il criterio di aggiudicazione fondato sul
rapporto qualità/prezzo costituisce un principio immanente
al sistema che consente l’applicazione del prezzo più basso
solo nei casi espressamente previsti.
---------------
In tale prospettiva,
il criterio qualità/prezzo è certamente
più agevolmente coniugabile (rispetto al criterio del
massimo ribasso) con il disposto dell’art. 2233, 2° comma,
cod. civ., che –nel disciplinare il contratto d’opera
intellettuale, cui è pur sempre riconducibile l’attività
legale– dispone che “in ogni caso la misura del compenso
deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro
della professione”.
Le considerazioni innanzi svolte dimostrano
le ragioni dell’illegittimità
della scelta dell’amministrazione comunale di procedere con
il criterio del prezzo più basso, atteso che esso non è
compatibile con le disposizioni dell’art. 95 del codice
–come si è detto, per più motivi applicabile all’appalto per
cui è causa– poiché il legislatore ne ha reso possibile
l’applicazione solo in presenza di prestazioni ripetitive
ovvero standardizzate, connotati questi che certo non
possono ritenersi propri della attività legale che si
caratterizza, invece, proprio per la peculiarità e
specificità di ciascuna questione, sia essa contenziosa o
stragiudiziale.
---------------
I servizi esclusi dall’ambito oggettivo di applicazione del
Codice, quale quello in esame, sono comunque soggetti ai “principi
di economicità, efficacia, imparzialità, parità di
trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità,
tutela dell’ambiente ed efficienza energetica” ex art. 4
Codice.
L’applicazione dei principi di trasparenza e di pubblicità
richiedono che ogni potenziale offerente sia messo in
condizione di essere a conoscenza di tutte le informazioni
necessarie all’appalto in modo tale da consentire un’offerta
completa ed adeguata.
Nel caso in esame, l’amministrazione comunale ha omesso del
tutto l’applicazione di questi principi.
Infatti, nessuna motivazione è stata data in ordine alla
congruità del compenso posto a base di gara, e non è stata
effettuata alcuna istruttoria per determinare i parametri,
quali la tipologia o quantità del contenzioso anche
prendendo in considerazione gli anni precedenti, idonei per
determinare il prezzo posto a base di gara e per permettere
un’offerta consapevole.
Infatti, l’impossibilità di predeterminare il numero e gli
importi dei procedimenti contenziosi, nonché la qualità e
quantità dell’attività stragiudiziale, preclude qualsiasi
serio apprezzamento della congruità dell’importo a base
d’asta che, almeno teoricamente, l’amministrazione avrebbe
potuto confortare ove avesse fornito dati statistici desunti
dall’attività svolta negli anni precedenti.
---------------
FATTO
I ricorrenti hanno impugnato gli atti con cui il comune di
Racale ha indetto una gara, per l’affidamento della gestione
del contenzioso e del supporto giuridico-legale ai vari
uffici, e la successiva aggiudicazione provvisoria.
I ricorrenti hanno dedotto i seguenti motivi:
1. Violazione art. 7, comma 6, d.lgs. 165/2001; eccesso di
potere per falsa applicazione del d.lgs. 50/2016; eccesso di
potere per carenza di istruttoria.
2. Violazione e/o falsa applicazione del d.lgs. 50/2016;
eccesso di potere per irragionevolezza e illogicità
manifeste.
3. Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 95 e 83 del
d.lgs. 50/2016; eccesso di potere per illogicità e
irragionevolezza manifeste; carenza di istruttoria.
4. Violazione di legge; violazione d.lgs. 50/2016 e, in
particolare, degli artt. 3 e 95, comma 2; violazione del
d.m. 55/2014; violazione dell’art. 2233, comma 2, c.c.;
violazione dei principi i tema di appalto a corpo e di
indeterminatezza dell’oggetto.
5. Falsa ed erronea interpretazione ed applicazione degli
artt. 17, 4, 60 e 95, del d.lgs. 50/2016; violazione dei
principi generali in materia di organizzazione e struttura
dei servizi comunali, anche di cui al d.lgs. 267/2000;
violazione degli artt. 18, 19 e 23 della l. 247/2012;
violazione dei principi generali in tema di obbligo di
svolgimento del concorso pubblico; falsa ed erronea
interpretazione ed applicazione degli artt. 7, comma 6,
6-bis, 6-ter e 6-quater del d.lgs. 165/2001, dell’art. 110,
comma 6, del d.lgs. 267/2000, dell’art. 2222 e ss. c.c. e
dell’art., comma 56, della l. 244/2007, in considerazione
anche del d.l. 112/2008; assoluta carenza motivazionale;
violazione di legge; sviamento di potere.
Sostengono i ricorrenti:
- che la prestazione professionale prevista dal bando non
rientra nell’ambito di applicazione del d.lgs. 50/2016, ma
deve ritenersi regolata dagli artt. 7 e 8 del d.lgs.
165/2001;
- che la prestazione di rappresentanza legale non rientra
nell’ambito dell’appalto;
che comunque, anche a voler ammettere l’appalto di servizi
legali, non è possibile affidare questi servizi con il
criterio del massimo ribasso e senza idonei criteri di
selezione;
- che, in ragione dell’importo a base d’asta, l’affidamento
del servizio, essendo sottosoglia, risulta disciplinato
dall’art. 95 del Codice che ammette il criterio del minor
prezzo solo per i servizi con caratteristiche standardizzate
o le cui condizioni sono definite dal mercato; che non sono
stati indicati idonei criteri di selezione;
- che sussiste una carenza di istruttoria in ordine alla
determinazione dell’importo del prezzo base su cui operare
il ribasso;
- che si tratta di un contratto a misura e non a corpo;
- che il prezzo previsto è violativo dell’art. 2233, comma
2, c.c.;
- che, in ragione delle modalità di svolgimento del servizio
richiesto, si è, in sostanza, acquisita senza concorso la
disponibilità di prestazioni professionali assimilabili a
quelle del lavoro dipendente;
- che ciò integra una ulteriore illegittimità sotto il
profilo dell’incompatibilità con il regime proprio
dell’attività dell’avvocato esercente la libera professione.
I ricorrenti hanno poi chiesto il rinvio pregiudiziale alla
Corte di giustizia sulla questione se la direttiva
2014/24/UE osti a una disciplina nazionale che preveda la
possibilità di indire una procedura a evidenza pubblica per
l’affidamento di un appalto di servizi legali.
Il Comune, con memoria del 16.01.2017, ha eccepito
l’inammissibilità del ricorso collettivo per la
disomogeneità delle posizioni sostanziali vantate dai
ricorrenti, nonché per difetto di legittimazione a ricorrere
in capo alle varie categorie di ricorrenti, e l’irricevibilità
del ricorso.
Nel merito ha rilevato:
- che con l’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti
non si può più applicare l’art. 7, comma 6, d.lgs. 165/2001;
- che il nuovo codice chiarisce che lo svolgimento di
attività giuridico-legale in favore delle amministrazioni
configura un appalto di servizi;
- che le amministrazioni possono scegliere di avviare una
vera e propria procedura di gara;
- che nessuna norma preclude l’utilizzo del criterio del
massimo ribasso;
- che l’art. 95 del codice non può applicarsi al caso in
esame posto che è uno dei servizi per i quali trovano
applicazione solo gli artt. 140, 142, 143 e 144;
- che nessuna disposizione impone alla stazione appaltante
di prevedere speciali criteri di qualificazione;
- che alla procedura hanno partecipato 17 professionisti con
la conseguenza che il prezzo determinato non può ritenersi
incongruo;
- che le tariffe professionali sono state abrogate; che il
Comune non ha assunto alcun nuovo dipendente.
Con
ordinanza 19.01.2017 n. 21 è stata accolta la
richiesta misura cautelare.
Le parti hanno depositato ulteriori memorie.
Alla pubblica udienza del 29.03.2017 il ricorso è stato
trattenuto in decisione.
DIRITTO
...
2. Nel merito.
2.1. Infondato è il motivo di ricorso con cui si contesta
l’applicazione alla tipologia di servizi in questione della
disciplina del d.lgs. 50/2016.
Il nuovo codice dei contratti, che, per quanto qui
interessa, ha fedelmente recepito le direttive comunitarie,
ha mantenuto i servizi legali tra gli appalti elencati
nell’allegato IX, cui si applica il regime “alleggerito”
ex artt. 140 e ss., mentre all’art. 17 sono elencati tra gli
appalti esclusi dall’applicazione del codice quelli di
servizi concernenti cinque tipologie di servizi legali tra
cui, per quanto qui interessa, quelli di “rappresentanza
legale di un cliente da parte di un avvocato ai sensi
dell'articolo 1 della legge 09.02.1982, n. 31, e successive
modificazioni”.
Nel caso di specie, è pacifico che
il bando aveva ad oggetto
sia l’affidamento relativo all’attività contenziosa,
rientrante nel citato art. 17, sia l’affidamento di attività
stragiudiziale rientrante negli appalti di servizi di cui al
citato allegato IX.
Quest’ultima, soprattutto quando ha carattere generale, deve
essere affidata nel rispetto delle previsioni del codice dei
contratti.
Nel caso in esame non è possibile apprezzare se risulti
prevalente l’attività contenziosa (il cui affidamento
è sottratto al codice dei contratti) o quella
stragiudiziale (da affidare nel rispetto del codice dei
contratti e delle altre norme dell’ordinamento applicabili)
e, a ben vedere, non è neanche necessario tale accertamento
poiché l’amministrazione ha inteso operare un unico
affidamento sia per il contenzioso sia per l’attività
stragiudiziale, di talché una siffatta scelta non poteva che
comportare la necessità della procedura ad evidenza
pubblica, quale che fosse l’estensione e il “peso”
delle attività stragiudiziali, pena, altrimenti, la
violazione delle norme che ne regolano l’affidamento.
Peraltro, la ordinaria sottrazione dell’affidamento del
contenzioso alle procedure del codice dei contratti non
preclude certo all’amministrazione di far ricorso ad esse
per propria scelta, non risultando rinvenibile un divieto in
tal senso.
Va da sé che la decisione di operare un unico affidamento
–sia del contenzioso sia dell’attività stragiudiziale–
impone, come innanzi già esposto, il rispetto delle norme
del codice dei contratti pubblici e delle altre disposizioni
dell’ordinamento.
Di qui l’insussistenza dei presupposti per una rimessione
della questione alla Corte di Giustizia.
2.2. Ciò premesso, al fine di individuare, per quanto in
questa sede necessario, le disposizioni applicabili
all’affidamento dei servizi legali, occorre rammentare che,
oltre agli artt. 140, 142, 143 e 144, trova applicazione
all’appalto de quo anche l’art. 95 d.lgs. 50/2016
–concernente i criteri di aggiudicazione- come rilevato da
una condivisibile giurisprudenza, “in virtù
dell'esplicito rinvio operato, per tutti gli appalti dei
settori speciali, dall'art. 133, I comma, dello stesso
Codice (applicabile anche ai servizi specifici di cui
all'Allegato IX, per effetto della previsione dell'art. 114,
I comma, il quale estende in via generale l'applicabilità
della disciplina del Titolo VI - Capo I del Codice, ivi
compreso l'art. 133 e le norme da quest'ultimo richiamate,
anche ai servizi elencati nell'Allegato IX e menzionati
nell'art. 140, I comma)” (Tar Calabria, Reggio Calabria,
sez. I, 30.11.2016, n. 1186).
L’art. 95 codice dei contratti pubblici, prevede che “salve
le disposizioni legislative, regolamentari o amministrative
relative al prezzo di determinate forniture o alla
remunerazione di servizi specifici, le stazioni appaltanti,
nel rispetto dei principi di trasparenza, di non
discriminazione e di parità di trattamento, procedono
all'aggiudicazione degli appalti e all'affidamento dei
concorsi di progettazione e dei concorsi di idee, sulla base
del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa
individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo o
sulla base dell'elemento prezzo o del costo, seguendo un
criterio di comparazione costo/efficacia quale il costo del
ciclo di vita, conformemente all'articolo 96” (comma 2).
Per il comma 4 “Può essere utilizzato il criterio del
minor prezzo:
a) per i lavori di importo pari o inferiore a
1.000.000 di euro, tenuto conto che la rispondenza ai
requisiti di qualità è garantita dall'obbligo che la
procedura di gara avvenga sulla base del progetto esecutivo;
b) per i servizi e le forniture con caratteristiche
standardizzate o le cui condizioni sono definite dal
mercato;
c) per i servizi e le forniture di importo
inferiore alla soglia di cui all'articolo 35, caratterizzati
da elevata ripetitività, fatta eccezione per quelli di
notevole contenuto tecnologico o che hanno un carattere
innovativo”.
Il D.Lgs. n. 50/2016 e, prima ancora, la direttiva
2014/24/UE, ha segnato una netta preferenza per
l’applicazione di criteri di aggiudicazione che si fondino
su un complessivo apprezzamento del miglior rapporto
qualità/prezzo, relegando il tradizionale criterio del
prezzo più basso ad ipotesi tassativamente individuate.
Conseguentemente, il criterio di aggiudicazione fondato sul
rapporto qualità/prezzo costituisce un principio immanente
al sistema che consente l’applicazione del prezzo più basso
solo nei casi espressamente previsti.
In tale prospettiva, il criterio qualità/prezzo è certamente
più agevolmente coniugabile (rispetto al criterio del
massimo ribasso) con il disposto dell’art. 2233, 2° comma,
cod. civ., che –nel disciplinare il contratto d’opera
intellettuale, cui è pur sempre riconducibile l’attività
legale– dispone che “in ogni caso la misura del compenso
deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro
della professione”.
Le considerazioni innanzi svolte dimostrano –conformemente
alle deduzioni ricorsuali- le ragioni dell’illegittimità
della scelta dell’amministrazione comunale di procedere con
il criterio del prezzo più basso, atteso che esso non è
compatibile con le disposizioni dell’art. 95 del codice
–come si è detto, per più motivi applicabile all’appalto per
cui è causa– poiché il legislatore ne ha reso possibile
l’applicazione solo in presenza di prestazioni ripetitive
ovvero standardizzate, connotati questi che certo non
possono ritenersi propri della attività legale che si
caratterizza, invece, proprio per la peculiarità e
specificità di ciascuna questione, sia essa contenziosa o
stragiudiziale.
2.3. È inoltre fondato il motivo con cui si contestano le
modalità con cui l’amministrazione comunale ha determinato
l’importo dell’appalto.
I servizi esclusi dall’ambito oggettivo di applicazione del
Codice, quale quello in esame, sono comunque soggetti ai “principi
di economicità, efficacia, imparzialità, parità di
trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità,
tutela dell’ambiente ed efficienza energetica” ex art. 4
Codice.
L’applicazione dei principi di trasparenza e di pubblicità
richiedono che ogni potenziale offerente sia messo in
condizione di essere a conoscenza di tutte le informazioni
necessarie all’appalto in modo tale da consentire un’offerta
completa ed adeguata.
Nel caso in esame, l’amministrazione comunale ha omesso del
tutto l’applicazione di questi principi.
Infatti, nessuna motivazione è stata data in ordine alla
congruità del compenso posto a base di gara, e non è stata
effettuata alcuna istruttoria per determinare i parametri,
quali la tipologia o quantità del contenzioso anche
prendendo in considerazione gli anni precedenti, idonei per
determinare il prezzo posto a base di gara e per permettere
un’offerta consapevole.
Infatti, l’impossibilità di predeterminare il numero e gli
importi dei procedimenti contenziosi, nonché la qualità e
quantità dell’attività stragiudiziale, preclude qualsiasi
serio apprezzamento della congruità dell’importo a base
d’asta che, almeno teoricamente, l’amministrazione avrebbe
potuto confortare ove avesse fornito dati statistici desunti
dall’attività svolta negli anni precedenti.
3 In conclusione, il ricorso, previa dichiarazione di
inammissibilità dello stesso per difetto di legittimazione
attiva nei confronti dell’Ordine degli Avvocati, va accolto,
nei termini innanzi indicati, con assorbimento delle censure
non esaminate
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 31.05.2017 n. 875 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Illegittima la scelta fiduciaria del legale
esterno.
Con la
deliberazione 26.04.2017 n. 75
(Relazione sui servizi legali attribuiti nel 2015 -
Comune di Faenza (Ra). A seguito dell'entrata in vigore del
d.lgs. n. 50/2016, anche il singolo incarico di patrocinio
legale dev'essere inquadrato come appalto di servizi,
affidato nel rispetto dei principi di cui all'art. 4 del
citato d.lgs. E' legittima la redazione di elenchi di
operatori qualificati articolati in settori di
competenza. Criticità: mancato inserimento degli incarichi di
patrocinio in un atto di programmazione; mancata adozione di
un regolamento a disciplinare l'affidamento dei patrocini e
omesso accertamento dell'impossibilità di svolgere
l'incarico all'interno dell'ente; conferimento di un elevato
numero di patrocini in relazione al numero di legali in
forza all'Ufficio legale interno; ricorso all'affidamento
diretto; ricorso alla transazione senza previa acquisizione
del parere da parte dell'Organo di revisione contabile)
la Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, vaglia
l'operato di un Comune sotto il profilo dell'organizzazione
e del funzionamento dell'ufficio legale, ponendo in rilievo
una serie di criticità sia nella gestione dei servizi legali
e di patrocinio, sia nella scelta dei professionisti esterni
incaricati (si veda anche il Quotidiano degli enti locali e
della Pa del 03.05.2017).
Le censure della Corte
Dopo un'accurata analisi delle procedure dell'ente locale, i
giudici contabili formulano le seguenti censure:
a) mancato inserimento degli incarichi di patrocinio nel documento
unico di programmazione o in altro atto di programmazione;
b) mancata adozione di norme regolamentari finalizzate a
disciplinare l'affidamento dei patrocini legali e omesso
accertamento dell'impossibilità di svolgerli all'interno
dell'ente;
c) conferimento di un elevato numero di patrocini e di incarichi
esterni, anche in relazione al numero dei legali in forza
all'ufficio interno;
d) ricorso ingiustificato all'affidamento diretto degli incarichi,
in contrasto con la giurisprudenza consolidata della
magistratura contabile.
Tali conclusioni presuppongono una chiave di lettura
estremamente rigorosa, che si può rintracciare nel percorso
logico seguito dal collegio nell'affrontare la questione.
La disciplina sugli incarichi
La Sezione osserva che la disciplina da applicarsi agli
incarichi di patrocinio legale deve essere rivista alla luce
del Dlgs 18.04.2016 n. 50 (codice dei contratti), per il
fatto che quest'ultimo, in aderenza ai principi del diritto
comunitario, accoglie una nozione molto ampia dell'appalto
di servizi, entro cui non può che rientrare ogni incarico di
patrocinio legale.
Di conseguenza, l'affidamento di tali incarichi deve perciò
avvenire nel rispetto dei principi di economicità,
efficacia, trasparenza, imparzialità, parità di trattamento,
trasparenza, proporzionalità e pubblicità.
Questo assunto non era stato finora espresso in termini così
chiari dato che la giurisprudenza contabile, a partire dalla
deliberazione 03.04.2009 n. 19
della Sezione Basilicata, ha per anni considerato l'incarico
di patrocinio legale come un contratto d'opera intellettuale
regolato dall'articolo 2230 del codice civile, e nel
contempo non disciplinato al pari di un incarico esterno ex
articolo 7, comma 6 e seguenti, del Dlgs 165/2001, in quanto
conferito per adempimenti obbligatori ex lege.
Il cambio di rotta
Questo orientamento ha talora favorito la prassi di
scegliere legali esterni secondo ragioni di carattere
fiduciario, prassi che oggi non può trovare giustificazione,
se non in casi isolati.
La Sezione Emilia Romagna rileva sul punto che ove ricorrano
«ragioni di urgenza, dettagliatamente motivate e non
derivanti da un'inerzia dell'ente conferente, tali da non
consentire l'espletamento di una procedura comparativa, le
amministrazioni possono prevedere che si proceda
all'affidamento diretto degli incarichi, sulla base di un
criterio di rotazione».
In vista di tale evenienza, la Pa deve comunque istituire
elenchi di operatori qualificati, in modo che l'affidatario
venga individuato tra gli avvocati iscritti in detti
elenchi.
Si tratta, in ogni caso, della classica eccezione che
conferma la regola, da identificarsi nella necessità di
avviare una procedura comparativa per la scelta del legale
esterno.
A conferma di ciò, il collegio evoca la recente
sentenza 06.02.2017 n. 334
con cui il Tar Sicilia-Palermo, Sezione III, nel trattare
l'affidamento di un appalto di servizi legali alla luce del
nuovo codice dei contratti, ha rimarcato come per tale
appalto «debba essere assicurata la massima
partecipazione mediante una procedura di tipo comparativo
idonea a permettere a tutti gli aventi diritto di
partecipare, in condizioni di parità e uguaglianza, alla
selezione per la scelta del contraente».
Il collegio accoglie queste indicazioni, ritenendo che esse
rappresentino un passaggio obbligato per assicurare il
corretto utilizzo delle risorse pubbliche, con l'effetto che
deve ritenersi precluso agli enti locali qualsiasi margine
di discrezionalità in materia
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 08.05.2017). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Anche il patrocinio legale «singolo» è un appalto
di servizi.
Anche il singolo incarico di patrocinio legale deve essere
inquadrato come appalto di servizi, soggetto ai principi di
imparzialità, pubblicità e concorrenza, ed è vietato
procedere all'affidamento diretto sulla base del carattere
fiduciario della scelta.
Con la
deliberazione 26.04.2017 n. 73
(Relazione sui servizi legali attribuiti nel 2015
- Comune di Ravenna (FC). A seguito dell'entrata in vigore
del d.lgs. n. 50/2016, anche il singolo incarico di
patrocinio legale dev'essere inquadrato come appalto di
servizi, affidato nel rispetto dei principi di cui all'art.
4 del citato d.lgs. E' legittima la redazione di elenchi di
operatori qualificati articolati in settori di competenza.
Criticità: ricorso a domiciliazioni legali; violazione dei
principi sul rimborso delle spese legali),
deliberazione 26.04.2017 n. 74
(Relazione sui servizi legali attribuiti nel 2015 -
Comune di Cesena (FC). A seguito dell'entrata in vigore del
d.lgs. n. 50/2016, anche il singolo incarico di patrocinio
legale dev'essere inquadrato come appalto di servizi,
affidato nel rispetto dei principi di cui all'art. 4 del
citato d.lgs. E' legittima la redazione di elenchi di
operatori qualificati articolati in settori di
competenza.Criticità: mancato inserimento degli incarichi di
patrocinio in un atto di programmazione; mancata adozione di
un regolamento a disciplinare l'affidamento dei patrocini e
omesso accertamento dell'impossibilità di svolgere
l'incarico all'interno dell'ente; ricorso all'affidamento
diretto; mancata previa valutazione di congruità del
preventivo; avventato ricorso a domiciliazioni legali) e
deliberazione 26.04.2017 n. 75
(Relazione sui servizi legali attribuiti nel 2015 -
Comune di Faenza (Ra). A seguito dell'entrata in vigore del
d.lgs. n. 50/2016, anche il singolo incarico di patrocinio
legale dev'essere inquadrato come appalto di servizi,
affidato nel rispetto dei principi di cui all'art. 4 del
citato d.lgs. E' legittima la redazione di elenchi di
operatori qualificati articolati in settori di
competenza. Criticità: mancato inserimento degli incarichi di
patrocinio in un atto di programmazione; mancata adozione di
un regolamento a disciplinare l'affidamento dei patrocini e
omesso accertamento dell'impossibilità di svolgere
l'incarico all'interno dell'ente; conferimento di un elevato
numero di patrocini in relazione al numero di legali in
forza all'Ufficio legale interno; ricorso all'affidamento
diretto; ricorso alla transazione senza previa acquisizione
del parere da parte dell'Organo di revisione contabile)
-relative alle relazioni sui servizi legali di alcuni
capoluogo di provincia- la Sezione regionale di controllo
della Corte dei Conti per l'Emilia Romagna chiarisce le
corrette modalità per l'affidamento degli incarichi legali.
Tali indicazioni si aggiungono così a quelle proposte dall'Anac
con lo schema di atto di regolamento sull'affidamento dei
servizi legali, sottoposto a consultazione nei giorni
scorsi. L'analisi dei magistrati parte dalla considerazione
che con l'entrata in vigore del Dlgs 50/2016, anche il
singolo incarico di patrocinio legale appare dover essere
inquadrato come appalto di servizi, soggetto
all'applicazione del codice di contratti pubblici.
Ciò, sulla base del disposto di cui all'articolo 17, che
considera come contratto escluso la rappresentanza legale di
un cliente, da parte di un avvocato, in un procedimento
giudiziario dinanzi a organi giurisdizionali, nonché la
consulenza legale fornita in preparazione di detto
procedimento. L'applicazione, anche al singolo patrocinio,
della disciplina del codice dei contratti pubblici conferma
dunque l'impossibilità di considerare la scelta
dell'avvocato esterno all'ente come connotata da carattere
fiduciario.
L’elenco di operatori qualificati
Per la scelta del professionista, l'ente potrebbe avvalersi
di un elenco di operatori qualificati, da individuare con
procedura trasparente e aperta, oggetto di adeguata
pubblicità, dalla quale selezionare, su una base non
discriminatoria, gli operatori che saranno invitati a
presentare offerta. Quanto sopra deve avvenire sulla base di
un principio di rotazione, applicato tenendo conto
dell'importanza della causa e del compenso prevedibile.
È altresì utile precisare che detti elenchi di operatori
qualificati possono essere articolati in diversi settori di
competenza e che non sarebbe comunque legittimo prevedere un
numero massimo di iscritti. In quest'ultimo punto i giudici
contabili si discostano dall' Anac che sembra invece
ammettere la previsione di un numero massimo di iscritti.
Quando l’affidamento diretto
Qualora vi siano motivate ragioni di urgenza,
dettagliatamente giustificate e non derivanti da un'inerzia
dell'ente conferente, tali da non consentire l'espletamento
di una procedura comparativa, le amministrazioni possono
prevedere che si proceda all'affidamento diretto degli
incarichi, sulla base di un criterio di rotazione (ove siano
stati istituiti elenchi di operatori qualificati,
l'affidatario dev'essere individuato tra gli avvocati
iscritti in detti elenchi).
Inserimento nel Dup
L'adozione di criteri di buon andamento e corretta gestione
delle risorse pubbliche impone poi l'inserimento nel Dup, o
in altro atto di programmazione, degli incarichi di
patrocinio, la cui regolamentazione deve essere in ogni caso
prevista dall'ente. Secondo i magistrati l'affidamento degli
incarichi di patrocinio dovrebbe avvenire, in via
preferenziale, in favore degli avvocati interni all'ente.
Per questo, occorrerebbe procedimentalizzare l'accertamento,
preliminare rispetto all'affidamento di ciascun incarico,
dell'effettiva impossibilità per i legali dipendenti
dall'ente di assumere l'incarico.
In mancanza di una disciplina specifica, è comunque onere
dell'ente accertare, volta per volta, prima di affidare gli
incarichi di patrocinio all'esterno, l'impossibilità da
parte dei componenti dell'ufficio legale a svolgere tale
incarico, allo scopo di evitare una spesa inutile e, quindi,
un possibile danno all'erario. Un accertamento di tale tipo
è da considerarsi presupposto necessario per l'affidamento
legittimo all'esterno di un patrocinio ed è indispensabile
anche alla luce della nuova configurazione di tali incarichi
come appalti di servizi.
La mera indicazione, nella deliberazione di giunta «preso
atto della impossibilità da parte dell'avvocatura comunale
di assumere la difesa per effetto del pensionamento del Capo
Servizio contenzioso» non è infatti sufficiente ad
integrare detto accertamento. La presenza di un ufficio
legale interno all'ente cui sia istituzionalmente demandata
la competenza in materia di difesa in giudizio ed assistenza
giuridica, implica che l'affidamento delle summenzionate
attività a un soggetto esterno debba rappresentare
un'eccezione rispetto ad un ordinario assetto delle
attribuzioni.
Fra le criticità evidenziate, in tema di domiciliazione
legale, i giudici contabili asseriscono che in questo caso
l'intuitus personae non è di particolare rilevanza,
pertanto la scelta dell'affidatario non può ragionevolmente
fondarsi sull'aspetto prettamente fiduciario, ma deve
orientarsi sul costo più basso ottenibile tramite una
procedura comparativa. Risulta infatti meno rilevante,
grazie all'utilizzo della pec, la funzione di interlocuzione
diretta con le cancellerie da parte dei legali della
circoscrizione.
Il parere dell'organo di revisione sulle
delibere di giunta
Infine, la Corte affronta il tema del parere dell'organo di
revisione sulle delibere di giunta aventi ad oggetto
transazioni. Pur riconoscendo che la giurisprudenza
prevalente esclude il parere dell'organo di revisione
contabile sulle transazioni di competenza dell'organo
esecutivo, i magistrati ritengono comunque utile segnalare
l'opportunità, da parte dell'ente pubblico, di chiedere un
parere all'organo di revisione anche in riferimento a
transazioni non di competenza del consiglio, ove le stesse
siano di particolare rilievo, o relative a controversie di
notevole entità (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.05.2017). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
INCARICHI PROFESSIONALI:
Criticità rilevate nell'affidamento, all'esterno dell'ente,
di incarichi legali.
L’affidamento diretto di incarichi di
patrocinio legale, operati dall’ente, si pone in contrasto
con la giurisprudenza consolidata di questa Corte, che
esclude la possibilità di effettuare l’affidamento in via
fiduciaria di tali incarichi.
La mancanza di una procedura comparativa, infatti, viola i
principi di imparzialità, pubblicità e concorrenza.
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L’ente non ha inserito nel DUP o in altro atto di
programmazione gli incarichi di patrocinio che
prevedibilmente sarebbero stati conferiti nell’anno di
riferimento, specificandone tipologie e costi.
L’inclusione delle summenzionate previsioni
in un atto di programmazione, pur non rientrando nel
contenuto necessario del DUP,
come puntualizzato dal d.lgs. n. 118/2011, allegato n. 4/1,
risponderebbe ad un criterio di buon andamento e di
corretta gestione delle risorse pubbliche.
---------------
Pur costituendo la transazione uno strumento che si presta
ad abusi, la giurisprudenza della Corte dei conti è ormai
consolidata nel ritenere pienamente ammissibile il ricorso a
tale strumento, ove risulti conveniente per
l’Amministrazione, anche in riferimento a fattispecie
rispetto alle quali non sia legislativamente previsto il
tentativo obbligatorio di mediazione.
Occorre tuttavia la massima prudenza da parte dell’ente,
nonché una dettagliata motivazione che dia conto del
percorso logico seguito per giungere alla definizione
transattiva della controversia, anche sulla base di un
giudizio prognostico circa l’esito del contenzioso.
La deliberazione di Giunta di
autorizzazione alla conclusione della transazione, nella
fattispecie, non ha conseguito (richiesto) il parere
dell’Organo di revisione.
La Sezione è a conoscenza dei precedenti
giurisprudenziali che hanno ritenuto obbligatoria
l’acquisizione di detto parere solo nel caso in cui
costituisca atto di un procedimento che deve concludersi con
una delibera del Consiglio.
Si ritiene comunque utile segnalare
l’opportunità, da parte dell’ente pubblico, di chiedere un
parere all’Organo di revisione anche in riferimento a
transazioni non di competenza del Consiglio, ove le stesse
siano di particolare rilievo, o relative a controversie di
notevole entità.
Ovviamente in detti casi, qualora
non siano state previamente ampliate in via regolamentare le
funzioni dei revisori, ai sensi dell’art. 239, comma 6, del
tuel (ampliamento che è rimesso alla discrezionale potestà
dell’ente locale, ma che sarebbe utile) non vi è l’obbligo
da parte dell’Organo di controllo interno di rendere il
parere.
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testo
deliberazione
A partire dalla
deliberazione 03.04.2009 n. 19, della Sezione
regionale di controllo per la Basilicata,
la giurisprudenza di questa Corte si era progressivamente
consolidata nel considerare il singolo incarico di
patrocinio legale come non integrante un appalto di servizi,
bensì un contratto d’opera intellettuale, regolato dall’art.
2230 del codice civile.
In ogni caso, la magistratura contabile già
riteneva che detta tipologia d’incarico, pur non
riconducibile direttamente agli incarichi professionali
esterni disciplinati dall’art. 7, comma 6 e seguenti del
d.lgs. n. 165/2001, poiché conferito per adempimenti
obbligatori per legge (mancando, pertanto, in tali ipotesi,
qualsiasi facoltà discrezionale dell’amministrazione), non
potesse comunque essere oggetto di affidamento diretto,
dovendo essere attribuito a seguito di procedura
comparativa, aperta a tutti i possibili interessati.
Ciò, allo scopo di consentire il rispetto dei principi di
imparzialità, e trasparenza (in tal senso, da ultimo, questa
Sezione, in sede di giudizio di parificazione del rendiconto
generale della Regione Emilia-Romagna per l’esercizio
finanziario 2015, approvato con deliberazione n.
66/2016/PARI, del 15.07.2016).
La ricostruzione della disciplina
applicabile agli incarichi aventi a oggetto un singolo
patrocinio legale dev’essere, tuttavia, rivista, alla luce
dell’entrata in vigore, il 19.04.2016, del d.lgs.
18.04.2016, n. 50.
A decorrere da tale data anche il singolo
incarico di patrocinio legale appare dover essere inquadrato
come appalto di servizi; ciò, sulla base del disposto di cui
all’art. 17
(recante “Esclusioni specifiche per contratti di appalto
e concessione di servizi”), che
considera come contratto escluso la rappresentanza legale di
un cliente, da parte di un avvocato, in un procedimento
giudiziario dinanzi a organi giurisdizionali, nonché la
consulenza legale fornita in preparazione di detto
procedimento.
Tale interpretazione pare preferibile anche
tenuto conto di come l’art. 17 richiamato recepisca
direttive dell’Unione europea che, com’è noto, accoglie una
nozione di appalto molto più ampia di quella rinvenibile dal
nostro codice civile. In ogni caso, nel rispetto di quanto
previsto dall’art. 4 del citato decreto legislativo,
l’affidamento dello stesso deve avvenire nel rispetto dei
principi di economicità, efficacia, trasparenza,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità e pubblicità.
L’applicazione anche al singolo patrocinio
della disciplina del codice dei contratti pubblici conferma
l’orientamento consolidato di questa Corte in merito
all’impossibilità di considerare la scelta dell’avvocato
esterno all’ente come connotata da carattere fiduciario.
Anche dopo l’emanazione del nuovo codice dei contratti
pubblici, l’ente deve preliminarmente operare una
ricognizione interna finalizzata ad accertare
l’impossibilità, da parte del personale, a svolgere
l’incarico (così,
da ultima, questa Sezione con la citata deliberazione n.
66/2016).
Con la recente
sentenza 06.02.2017 n. 334, il TAR
Sicilia–Palermo, Sez. III, nel giudicare
l'affidamento di un appalto di servizi legali alla luce del
nuovo codice dei contratti pubblici, ha rimarcato come per
esso debba essere assicurata la massima partecipazione
mediante una procedura di tipo comparativo idonea a
permettere a tutti gli aventi diritto di partecipare, in
condizioni di parità e uguaglianza, alla selezione per la
scelta del contraente. Tali indicazioni sono pienamente
condivisibili, consentendo, inoltre, di assicurare il
migliore utilizzo delle risorse pubbliche.
Sulle richiamate novità normative l'Anac, con il
Parere sulla Normativa 09.11.2016 n. 1158 - rif. AG
45/2016/AP, ha evidenziato, operando una
specificazione condivisa da questa Sezione, che
nell'affidamento di un patrocinio legale le
amministrazioni possono attuare i principi di cui all’art. 4
del codice dei contratti pubblici applicando sistemi di
qualificazione, ovvero la redazione di un elenco di
operatori qualificati, mediante una procedura trasparente e
aperta, oggetto di adeguata pubblicità, dalla quale
selezionare, su una base non discriminatoria, gli operatori
che saranno invitati a presentare offerta.
Quanto sopra deve avvenire sulla base di un
principio di rotazione, applicato tenendo conto, nella
individuazione della “rosa” dei soggetti selezionati,
dell'importanza della causa e del compenso prevedibile. È
altresì utile precisare che detti elenchi di operatori
qualificati possono essere articolati in diversi settori di
competenza e che non sarebbe comunque legittimo prevedere un
numero massimo di iscritti.
Qualora vi siano motivate ragioni di
urgenza, dettagliatamente motivate e non derivanti da
un'inerzia dell'Ente conferente, tali da non consentire
l’espletamento di una procedura comparativa, le
amministrazioni possono prevedere che si proceda
all'affidamento diretto degli incarichi, sulla base di un
criterio di rotazione (ove siano stati istituiti elenchi di
operatori qualificati, l’affidatario dev’essere individuato
tra gli avvocati iscritti in detti elenchi).
Si precisa, altresì, che già prima che
entrasse in vigore il nuovo codice dei contratti pubblici si
riteneva, nell’ambito dei rapporti di collaborazione che
possono intercorrere tra enti pubblici e legali ad essi
esterni, che oltre all’affidamento di un singolo incarico di
patrocinio legale, fosse possibile l’affidamento di un
appalto di servizi, che tuttavia richiedeva “un quid
pluris per prestazione o modalità organizzativa rispetto al
semplice patrocinio legale”
(C. conti, Sez. controllo Basilicata,
deliberazione 03.04.2009 n. 19).
In tal senso anche la prevalente
giurisprudenza amministrativa, per la quale era
configurabile un appalto di servizi legali quando “l’affidamento
non si esaurisca nel patrocinio legale o episodico
dell’amministrazione, ma si configuri come modalità
organizzativa di un servizio, affidato a professionisti
esterni, più complesso e articolato, che può anche
comprendere la difesa giudiziale ma in essa non si esaurisca”
(ex multis, TAR Campania–Salerno, Sez. II,
sentenza 16.05.2016 n. 1197).
Come già evidenziato, la distinzione tra
affidamento di un singolo patrocinio legale e di un appalto
di servizi sembra essere stata superata dal disposto di cui
all’art. 17, del nuovo codice dei contratti pubblici.
Da ultimo, per completare il quadro delle forme di
collaborazione che possono intercorrere tra una pubblica
amministrazione e un legale a essa esterno, occorre tenere
presente che è tuttora possibile affidare a un legale un
incarico professionale esterno di cui all’art. 7, co. 6 del
t.u. sul pubblico impiego, quindi avente ad oggetto uno
studio, una ricerca o, più frequentemente, un
parere legale.
Ad esso si applicano tutti i presupposti di legittimità
degli incarichi professionali esterni individuati da questa
giurisprudenza (per un approfondimento dei vincoli posti al
conferimento degli incarichi professionali esterni, si
rimanda al capitolo 2.3 del “Monitoraggio degli atti di
spesa relativi a collaborazioni, consulenze, studi e
ricerche, relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità
e rappresentanza, posti in essere negli esercizi finanziari
2011 e 2012 dagli enti pubblici aventi sede
nell’Emilia-Romagna”, di questa Sezione, approvato con
deliberazione 15.10.2015 n. 135).
Tanto premesso, si segnalano i seguenti
specifici profili di criticità che sono emersi dall’esame
delle risposte fornite al questionario sui servizi legali e
dai dati relativi agli incarichi affidati da codesto ente
all’esterno.
Mancato inserimento degli incarichi di patrocinio nel
documento unico di programmazione o in altro atto di
programmazione
L’ente non ha inserito nel DUP o in altro
atto di programmazione gli incarichi di patrocinio che
prevedibilmente sarebbero stati conferiti nell’anno di
riferimento, specificandone tipologie e costi.
L’inclusione delle summenzionate previsioni
in un atto di programmazione, pur non rientrando nel
contenuto necessario del DUP,
come puntualizzato dal d.lgs. n. 118/2011, allegato n. 4/1,
risponderebbe ad un criterio di buon andamento e di
corretta gestione delle risorse pubbliche.
Mancata adozione di norme regolamentari finalizzate a
disciplinare l’affidamento dei patrocini legali e omesso
accertamento dell’impossibilità di svolgerli all’interno
dell’ente
L’ente
in analisi ha considerato gli incarichi di
patrocinio legale come esclusi dalla disciplina che ha
dettato per l’affidamento degli incarichi professionali
esterni. Tuttavia, non ha regolamentato in alcun modo
l’affidamento di patrocini legali all’esterno: una normativa
finalizzata a disciplinare la materia sarebbe in realtà
opportuna e dovrebbe tra l’altro prevedere che l’affidamento
degli incarichi di patrocinio avvenga, in via preferenziale,
in favore degli avvocati interni all’ente.
Essa dovrebbe, inoltre, procedimentalizzare
l’accertamento, preliminare rispetto all’affidamento di
ciascun incarico, dell’effettiva impossibilità per i legali
dipendenti dall’ente di assumere l’incarico. In mancanza di
una disciplina specifica, è comunque onere dell’ente
accertare, volta per volta, prima di affidare gli incarichi
di patrocinio all’esterno, l’impossibilità da parte dei
componenti dell’ufficio legale a svolgere gli stessi, allo
scopo di evitare una spesa inutile e, quindi, un possibile
danno all’erario.
Un accertamento di tale tipo è da
considerarsi presupposto necessario per l’affidamento
legittimo all’esterno di un incarico di patrocinio ed è
indispensabile anche alla luce della nuova configurazione di
tali incarichi come appalti di servizi. La mera indicazione,
nella deliberazione di Giunta “preso atto della
impossibilità da parte dell’avvocatura comunale di assumere
la difesa per effetto del pensionamento del Capo Servizio
contenzioso” non è sufficiente a integrare detto
accertamento, soprattutto se si considera che solo 5
patrocini sono stati affidati nel corso dell’anno
all’Ufficio legale.
Conferimento di un elevato numero di patrocini e di
incarichi esterni, anche in relazione al numero dei legali
in forza all’Ufficio interno
La presenza di un ufficio legale interno
all’ente cui sia istituzionalmente demandata la competenza
in materia di difesa in giudizio ed assistenza giuridica,
implica che l’affidamento delle summenzionate attività a un
soggetto esterno debba rappresentare un’eccezione rispetto
ad un ordinario assetto delle attribuzioni e, anche in
ragione del principio di buon andamento ed economicità dell’agere
pubblico, debba rispondere ad un criterio di stretta
necessità congruamente motivata.
Si ritiene che il Comune debba valutare l’opportunità di
effettuare uno studio, allo scopo di verificare la
possibilità di economicizzare la propria azione, utilizzando
meglio i propri legali.
Ricorso all’affidamento diretto
L’affidamento diretto di incarichi di
patrocinio legale, operati dall’ente in analisi, si pone in
contrasto con la giurisprudenza consolidata di questa Corte,
che esclude la possibilità di effettuare l’affidamento in
via fiduciaria di tali incarichi.
La mancanza di una procedura comparativa, infatti, viola i
principi di imparzialità, pubblicità e concorrenza.
Ricorso alla transazione
Pur costituendo la transazione uno
strumento che si presta ad abusi, la giurisprudenza della
Corte dei conti è ormai consolidata nel ritenere pienamente
ammissibile il ricorso a tale strumento, ove risulti
conveniente per l’Amministrazione, anche in riferimento a
fattispecie rispetto alle quali non sia legislativamente
previsto il tentativo obbligatorio di mediazione.
Occorre tuttavia la massima prudenza da parte dell’ente,
nonché una dettagliata motivazione che dia conto del
percorso logico seguito per giungere alla definizione
transattiva della controversia, anche sulla base di un
giudizio prognostico circa l’esito del contenzioso.
La deliberazione di Giunta di
autorizzazione alla conclusione della transazione
descritta nella parte in fatto della presente deliberazione,
reca il parere dell’avvocatura interna, che è integrato nel
parere di regolarità tecnica. Tuttavia, non
è stato richiesto il parere dell’Organo di revisione.
La Sezione è a conoscenza dei precedenti
giurisprudenziali che hanno ritenuto obbligatoria
l’acquisizione di detto parere solo nel caso in cui
costituisca atto di un procedimento che deve concludersi con
una delibera del Consiglio
(Sez. regionale di controllo per il Piemonte,
parere 26.09.2013 n. 345 e Sez. regionale di
controllo per la Puglia,
parere 28.11.2013
n. 181), pertanto tale mancata richiesta non
sembra viziare l’atto.
Si ritiene comunque utile segnalare
l’opportunità, da parte dell’ente pubblico, di chiedere un
parere all’Organo di revisione anche in riferimento a
transazioni non di competenza del Consiglio, ove le stesse
siano di particolare rilievo, o relative a controversie di
notevole entità.
Ovviamente in detti casi, qualora non siano
state previamente ampliate in via regolamentare le funzioni
dei revisori, ai sensi dell’art. 239, comma 6, del tuel
(ampliamento che è rimesso alla discrezionale potestà
dell’ente locale, ma che sarebbe utile) non vi è l’obbligo
da parte dell’Organo di controllo interno di rendere il
parere (Corte dei
Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
deliberazione 26.04.2017 n. 75). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Criticità
rilevate nell'affidamento, all'esterno dell'ente, di
incarichi legali.
L’affidamento diretto di un incarico di
patrocinio legale,
operato dall’ente, si pone in
contrasto con la giurisprudenza consolidata di questa Corte,
che esclude la possibilità di effettuare l’affidamento in
via fiduciaria di tali incarichi.
La mancanza di una procedura comparativa, infatti, viola i
principi di imparzialità, pubblicità e concorrenza.
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L’ente non ha inserito nel DUP o in altro atto di
programmazione gli incarichi di patrocinio che
prevedibilmente sarebbero stati conferiti nell’anno di
riferimento, specificandone tipologie e costi.
L’inclusione delle summenzionate previsioni in un atto di
programmazione, pur non rientrando nel contenuto necessario
del DUP,
come puntualizzato dal d.lgs. n. 118/2011, allegato n. 4/1,
risponderebbe ad un criterio di buon
andamento e di corretta gestione delle risorse pubbliche.
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L’ente, prima di procedere all’affidamento dell’incarico non
ha accertato la congruità del preventivo, il quale, a tal
fine, dovrebbe essere adeguatamente dettagliato anche sulla
base degli eventuali scostamenti dai valori medi tabellari
di cui al D.M. n. 55/2014.
A tal fine in ragione del principio di buon andamento ed
economicità dell’azione pubblica, sarebbe
altresì opportuno che i preventivi accolti presentassero
decurtazioni rispetto al richiamato valore medio.
Detta valutazione è necessaria per
garantire un’attenta e prudente gestione della spesa
pubblica e deve avere ad oggetto anche il rapporto tra il
preventivo e l’importanza, nonché la delicatezza della
causa. Il responsabile del procedimento, successivamente,
ogni anno deve chiedere al legale di confermare o meno il
preventivo di spesa sulla scorta del quale è stato assunto
l’impegno originario, in modo da assicurare la copertura
della spesa.
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testo deliberazione
A partire dalla
deliberazione 03.04.2009 n. 19,
della Sezione regionale di controllo per la Basilicata,
la giurisprudenza di questa Corte si era
progressivamente consolidata nel considerare il singolo
incarico di patrocinio legale come non integrante un appalto
di servizi, bensì un contratto d’opera intellettuale,
regolato dall’art. 2230 del codice civile.
In ogni caso, la magistratura contabile già
riteneva che detta tipologia d’incarico, pur non
riconducibile direttamente agli incarichi professionali
esterni disciplinati dall’art. 7, comma 6 e seguenti del
d.lgs. n. 165/2001, poiché conferito per adempimenti
obbligatori per legge (mancando, pertanto, in tali ipotesi,
qualsiasi facoltà discrezionale dell’amministrazione), non
potesse comunque essere oggetto di affidamento diretto,
dovendo essere attribuito a seguito di procedura
comparativa, aperta a tutti i possibili interessati. Ciò,
allo scopo di consentire il rispetto dei principi di
imparzialità e trasparenza
(in tal senso, da ultimo, questa Sezione, in sede di
giudizio di parificazione del rendiconto generale della
Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2015,
approvato con deliberazione n. 66/2016/PARI, del
15.07.2016).
La ricostruzione della disciplina
applicabile agli incarichi aventi a oggetto un singolo
patrocinio legale dev’essere, tuttavia, rivista, alla luce
dell’entrata in vigore, il 19.04.2016, del d.lgs.
18.04.2016, n. 50.
A decorrere da tale data anche il singolo
incarico di patrocinio legale sembra dover essere inquadrato
come appalto di servizi; ciò, sulla base del disposto di cui
all’art. 17
(recante “Esclusioni specifiche per contratti di appalto
e concessione di servizi”), che
considera come contratto escluso la rappresentanza legale di
un cliente da parte di un avvocato in un procedimento
giudiziario dinanzi a organi giurisdizionali, nonché la
consulenza legale fornita in preparazione di detto
procedimento.
Tale interpretazione pare preferibile anche
tenuto conto di come l’art. 17 richiamato recepisca
direttive dell’Unione europea che, com’è noto, accoglie una
nozione di appalto molto più ampia di quella rinvenibile dal
nostro codice civile. In ogni caso, nel rispetto di quanto
previsto dall’art. 4 del citato decreto legislativo,
l’affidamento dello stesso deve avvenire nel rispetto dei
principi di economicità, efficacia, trasparenza,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità e pubblicità .
L’applicazione anche al singolo patrocinio
della disciplina del codice dei contratti pubblici conferma
l’orientamento consolidato di questa Corte in merito
all’impossibilità di considerare la scelta dell’avvocato
esterno all’ente come connotata da carattere fiduciario.
Anche dopo l’emanazione del nuovo codice dei contratti
pubblici, l’ente deve preliminarmente operare una
ricognizione interna finalizzata ad accertare
l’impossibilità, da parte del personale, a svolgere
l’incarico (così,
da ultima, questa Sezione con la citata deliberazione n.
66/2016).
Con la recente
sentenza 06.02.2017 n. 334,
il TAR Sicilia–Palermo, Sez. III, nel
giudicare l'affidamento di un appalto di servizi legali alla
luce del nuovo codice dei contratti pubblici, ha rimarcato
come per esso debba essere assicurata la massima
partecipazione mediante una procedura di tipo comparativo
idonea a permettere a tutti gli aventi diritto di
partecipare, in condizioni di parità e uguaglianza, alla
selezione per la scelta del contraente. Tali indicazioni
sono pienamente condivisibili, consentendo, inoltre, di
assicurare il migliore utilizzo delle risorse pubbliche.
Sulle richiamate novità normative l'Anac, con
Parere sulla Normativa 09.11.2016 n. 1158 - rif. AG
45/2016/AP,
ha evidenziato, operando una specificazione condivisa da
questa Sezione, che nell'affidamento di un
patrocinio legale le amministrazioni possono attuare i
principi di cui all’art. 4 del codice dei contratti pubblici
applicando sistemi di qualificazione, ovvero la redazione di
un elenco di operatori qualificati, mediante una procedura
trasparente e aperta, oggetto di adeguata pubblicità, dalla
quale selezionare, su una base non discriminatoria, gli
operatori che saranno invitati a presentare offerta.
Quanto sopra deve avvenire sulla base di un principio di
rotazione, applicato tenendo conto, nella individuazione
della “rosa” dei soggetti selezionati,
dell'importanza della causa e del compenso prevedibile. È
altresì utile precisare che detti elenchi di operatori
qualificati possono essere articolati in diversi settori di
competenza, e che non sarebbe comunque legittimo prevedere
un numero massimo di iscritti.
Qualora vi siano motivate ragioni di urgenza,
dettagliatamente motivate e non derivanti da un'inerzia
dell'Ente conferente, tali da non consentire l’espletamento
di una procedura comparativa, le amministrazioni possono
prevedere che si proceda all'affidamento diretto degli
incarichi, sulla base di un criterio di rotazione (ove siano
stati istituiti elenchi di operatori qualificati,
l’affidatario dev’essere individuato tra gli avvocati
iscritti in detti elenchi).
Si precisa, altresì, che già prima che entrasse in vigore il
nuovo codice dei contratti pubblici si riteneva, nell’ambito
dei rapporti di collaborazione che possono intercorrere tra
enti pubblici e legali ad essi esterni, che oltre
all’affidamento di un singolo incarico di patrocinio legale,
fosse possibile l’affidamento di un appalto di servizi, che
tuttavia richiedeva “un quid pluris per prestazione o
modalità organizzativa rispetto al semplice patrocinio
legale” (C.
conti, Sez. controllo Basilicata,
deliberazione 03.04.2009 n. 19).
In tal senso anche la prevalente
giurisprudenza amministrativa, per la quale era
configurabile un appalto di servizi legali quando “l’affidamento
non si esaurisca nel patrocinio legale o episodico
dell’amministrazione, ma si configuri come modalità
organizzativa di un servizio, affidato a professionisti
esterni, più complesso e articolato, che può anche
comprendere la difesa giudiziale ma in essa non si esaurisca”
(ex multis, TAR Campania–Salerno, Sez. II,
sentenza 16.05.2016 n. 1197).
Come già evidenziato, la distinzione tra
affidamento di un singolo patrocinio legale e di un appalto
di servizi sembra essere stata superata dal disposto di cui
all’art. 17, del nuovo codice dei contratti pubblici.
Da ultimo, per completare il quadro delle forme di
collaborazione che possono intercorrere tra una pubblica
amministrazione e un legale a essa esterno, occorre tenere
presente che è tuttora possibile affidare a un legale un
incarico professionale esterno di cui all’art. 7, co. 6 del
t.u. sul pubblico impiego, quindi avente ad oggetto uno
studio, una ricerca o, più frequentemente, un parere legale.
A esso si applicano tutti i presupposti di legittimità degli
incarichi professionali esterni individuati da questa
giurisprudenza (per un approfondimento dei vincoli posti al
conferimento degli incarichi professionali esterni, si
rimanda al capitolo 2.3 del “Monitoraggio degli atti di
spesa relativi a collaborazioni, consulenze, studi e
ricerche, relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità
e rappresentanza, posti in essere negli esercizi finanziari
2011 e 2012 dagli enti pubblici aventi sede
nell’Emilia-Romagna”, di questa Sezione, approvato con
deliberazione 15.10.2015 n. 135).
Tanto premesso, si segnalano i seguenti
specifici profili di criticità che sono emersi dall’esame
delle risposte fornite al questionario sui servizi legali e
dai dati relativi agli incarichi affidati da codesto ente
all’esterno.
Mancato inserimento degli incarichi di patrocinio nel
documento unico di programmazione o in altro atto di
programmazione
L’ente non ha inserito nel DUP o in altro
atto di programmazione gli incarichi di patrocinio che
prevedibilmente sarebbero stati conferiti nell’anno di
riferimento, specificandone tipologie e costi.
L’inclusione delle summenzionate previsioni in un atto di
programmazione, pur non rientrando nel contenuto necessario
del DUP, come
puntualizzato dal d.lgs. n. 118/2011, allegato n. 4/1,
risponderebbe ad un criterio di buon andamento e di
corretta gestione delle risorse pubbliche.
Mancata adozione di norme regolamentari finalizzate a
disciplinare l’affidamento dei patrocini legali ed omesso
accertamento dell’impossibilità di svolgere l’incarico
all’interno dell’ente
Il Comune
di Cesena ha considerato gli incarichi di
patrocinio legale come esclusi dalla disciplina che ha
dettato per l’affidamento degli incarichi professionali
esterni. Tuttavia, non ha regolamentato l’affidamento di
patrocini legali all’esterno: una normativa finalizzata a
disciplinare la materia sarebbe in realtà opportuna e
dovrebbe tra l’altro prevedere che l’affidamento degli
incarichi di patrocinio avvenga, in via preferenziale, in
favore degli avvocati interni all’ente. Essa dovrebbe,
inoltre, procedimentalizzare l’accertamento, preliminare
rispetto all’affidamento di ciascun incarico, dell’effettiva
impossibilità per i legali dipendenti dall’ente di assumere
l’incarico .
In mancanza di una disciplina specifica,
sarebbe stato comunque onere dell’ente accertare, volta per
volta, prima di affidare gli incarichi di patrocinio
all’esterno, l’impossibilità da parte dei componenti
dell’ufficio legale a svolgere gli stessi, allo scopo di
evitare una spesa inutile e, quindi, un possibile danno
all’erario. Un accertamento di tale tipo sarebbe da
considerarsi presupposto necessario per l’affidamento
legittimo all’esterno di un incarico di patrocinio, anche
qualora si considerasse la scelta del libero professionista
esterna come a carattere fiduciario, ed è indispensabile
anche alla luce della nuova configurazione di tali incarichi
come appalti di servizi.
Ricorso all’affidamento diretto
L’affidamento diretto di un incarico di
patrocinio legale,
operato dall’ente in analisi, si pone in
contrasto con la giurisprudenza consolidata di questa Corte,
che esclude la possibilità di effettuare l’affidamento in
via fiduciaria di tali incarichi.
La mancanza di una procedura comparativa, infatti, viola i
principi di imparzialità, pubblicità e concorrenza.
Mancanza di una previa valutazione di congruità del
preventivo
L’ente, prima di procedere all’affidamento
dell’incarico non ha accertato la congruità del preventivo,
il quale, a tal fine, dovrebbe essere adeguatamente
dettagliato anche sulla base degli eventuali scostamenti dai
valori medi tabellari di cui al D.M. n. 55/2014.
A tal fine in ragione del principio di buon andamento ed
economicità dell’azione pubblica, sarebbe
altresì opportuno che i preventivi accolti presentassero
decurtazioni rispetto al richiamato valore medio.
Detta valutazione è necessaria per
garantire un’attenta e prudente gestione della spesa
pubblica e deve avere ad oggetto anche il rapporto tra il
preventivo e l’importanza, nonché la delicatezza della
causa. Il responsabile del procedimento, successivamente,
ogni anno deve chiedere al legale di confermare o meno il
preventivo di spesa sulla scorta del quale è stato assunto
l’impegno originario, in modo da assicurare la copertura
della spesa.
Peraltro, il generale principio di economicità dell’azione
amministrativa è ora esplicitamente richiamato dall’art. 4
del d.lgs. n. 50/2016.
Ricorso a domiciliazioni legali
Pur avendo l’ente fatto ricorso ad una sola domiciliazione
legale, peraltro per un importo ragionevole, è utile
evidenziare che, poiché la domiciliazione è un incarico in
cui il requisito dell’intuitus personae non è di
particolare rilevanza, la scelta dell’affidatario non può
ragionevolmente fondarsi sull’aspetto prettamente
fiduciario, ma deve orientarsi su un altro criterio di
selezione, in particolare il costo più basso ottenibile
tramite una procedura comparativa.
Non è poi da sottovalutare che, in ragione del fatto che le
comunicazioni da parte delle cancellerie dei tribunali a
mezzo di posta elettronica certificata possono intervenire
presso i difensori legali su tutto il territorio nazionale,
la funzione di interlocuzione diretta con le cancellerie da
parte dei legali della circoscrizione risulta meno
rilevante. Pertanto, l’ente è invitato, per il futuro, a
valutare con la massima attenzione la convenienza di
ricorrere a domiciliazioni legali.
A seguito di istruttoria è pertanto emerso come il Comune di
Cesena abbia proceduto all’affidamento diretto all’esterno
degli incarichi di patrocinio legale, peraltro senza di
volta in volta avere previamente accertato l’impossibilità,
da parte dell’ufficio interno, a svolgere detti incarichi.
Non ci si può esimere dal rilevare, inoltre, come nell’anno
2015 un unico avvocato sia risultato affidatario diretto di
due incarichi di patrocinio su cinque, dell’unico incarico
di domiciliazione e sia stato selezionato a seguito di
comparazione di curricula per uno dei due appalti di
servizi legali; ciò, per un importo totale pari ad euro
45.948,14. Lo stesso avvocato, inoltre, nei due anni
precedenti, quindi tra il 2013 e il 2014, è stato
affidatario di ulteriori 5 incarichi di patrocinio legale e
di 3 appalti di servizi legali, per un importo totale di
euro 86.467,65
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
deliberazione 26.04.2017 n. 74). |
CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO
IMPIEGO: Criticità
rilevate nell'affidamento, all'esterno dell'ente, di
incarichi legali e sul rimborso delle spese legali ad
amministratori e dipendenti.
Il rimborso delle spese legali in favore
dei dipendenti e degli amministratori pubblici, assolti per
non avere commesso il fatto nell’ambito di un procedimento
connesso con l’espletamento del servizio, deriva dal
principio per il quale non solo nei rapporti privati, ma
anche in quelli pubblici, chi agisce per un interesse altrui
non deve sopportare nella sua sfera personale gli effetti
svantaggiosi di questa attività, bensì deve essere tenuto
indenne sia dalle spese sostenute, sia dai danni subiti per
la fedele esecuzione del suo compito.
Il rimborso in favore dei dipendenti degli
enti locali è attualmente disciplinato dall’art. 12 del CCNL
del 12.12.2002 per l’area della dirigenza, e dall’art. 28
del CCNL del 14.09.2000, per il restante personale; dette
norme lo subordinano alle circostanze che i fatti o gli atti
siano direttamente connessi all’espletamento del servizio e
all’adempimento dei compiti d’ufficio, all’insussistenza del
conflitto d’interessi e all’assenza di dolo o di colpa
grave.
Solo recentemente il legislatore statale ha
riconosciuto, con
l’art. 7-bis del d.l. 19.06.2015, n. 78, convertito con
modificazioni dalla legge 06.08.2015, n. 125,
detto diritto anche in favore degli
amministratori locali; ciò, “nel caso di conclusione del
procedimento con sentenza di assoluzione o di emanazione di
un provvedimento di archiviazione, in presenza dei seguenti
requisiti: a) assenza di conflitto di interessi con l'ente
amministrato; b) presenza di nesso causale tra funzioni
esercitate e fatti giuridicamente rilevanti; c) assenza di
dolo o colpa grave”.
L’assenza di conflitto d’interessi
con l’ente, condicio sine qua non della risarcibilità delle
spese in argomento, richiede in generale l’accertamento che
i beneficiari del rimborso non abbiano tenuto comportamenti
contrari ai doveri d’ufficio.
Solo le pronunce di assoluzione
motivate per insussistenza del fatto o perché l’imputato non
lo ha commesso, consentono di escludere in radice il
conflitto d’interessi. Qualora, invece, siano motivate ai
sensi del comma 2, dell’art. 530, del c.p.p., che ricorre
qualora “manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova
che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il
fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da
persona imputabile”, occorrerà altresì verificare l’assenza
del conflitto d’interessi con l’ente pubblico; sarà pertanto
onere dell’ente, prima di rimborsare le spese legali,
effettuare un accertamento interno che, qualora venga aperto
un fascicolo disciplinare, sarà coincidente con le
risultanze di quest’ultimo.
Nello specifico, invece, il Comune ha deliberato il rimborso
delle spese legali sulla mera base di un provvedimento di
archiviazione che si è limitato ad escludere la sussistenza
degli elementi costitutivi del delitto, nonché di un
ulteriore provvedimento di archiviazione relativo a un
procedimento penale connesso al primo, il quale ha
dichiarato l’estinzione del reato per intervenuta remissione
di querela nei confronti di un dipendente e l’infondatezza
della notizia di reato rispetto ad altro dipendente.
Tali circostanze, in assenza di un
accertamento interno, non escludono che i comportamenti in
argomento possano essere stati contrari a doveri d’ufficio.
---------------
testo
deliberazione
A partire dalla
deliberazione 03.04.2009 n. 19,
della Sezione regionale di controllo per la Basilicata,
la giurisprudenza di questa Corte si era
progressivamente consolidata nel considerare il singolo
incarico di patrocinio legale come non integrante un appalto
di servizi, bensì un contratto d’opera intellettuale,
regolato dall’art. 2230 del codice civile.
In ogni caso, la magistratura contabile già
riteneva che detta tipologia d’incarico, pur non
riconducibile direttamente agli incarichi professionali
esterni disciplinati dall’art. 7, comma 6 e seguenti del
d.lgs. n. 165/2001, poiché conferito per adempimenti
obbligatori per legge
(mancando, pertanto, in tali ipotesi, qualsiasi facoltà
discrezionale dell’amministrazione), non
potesse comunque essere oggetto di affidamento diretto,
dovendo essere attribuito a seguito di procedura
comparativa, aperta a tutti i possibili interessati. Ciò,
allo scopo di consentire il rispetto dei principi di
imparzialità e trasparenza
(in tal senso, da ultimo, questa Sezione, in sede di
giudizio di parificazione del rendiconto generale della
Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2015,
approvato con deliberazione n. 66/2016/PARI, del
15.07.2016).
La ricostruzione della disciplina
applicabile agli incarichi aventi a oggetto un singolo
patrocinio legale dev’essere, tuttavia, rivista, alla luce
dell’entrata in vigore, il 19.04.2016, del d.lgs.
18.04.2016, n. 50.
A decorrere da tale data anche il singolo incarico di
patrocinio legale appare dover essere inquadrato come
appalto di servizi; ciò, sulla base del disposto di cui
all’art. 17
(recante “Esclusioni specifiche per contratti di appalto
e concessione di servizi”), che
considera come contratto escluso la rappresentanza legale di
un cliente, da parte di un avvocato, in un procedimento
giudiziario dinanzi a organi giurisdizionali, nonché la
consulenza legale fornita in preparazione di detto
procedimento.
Tale interpretazione pare preferibile anche tenuto conto di
come l’art. 17 richiamato recepisca direttive dell’Unione
europea che, com’è noto, accoglie una nozione di appalto
molto più ampia di quella rinvenibile dal nostro codice
civile. In ogni caso, nel rispetto di quanto previsto
dall’art. 4 del citato decreto legislativo, l’affidamento
dello stesso deve avvenire nel rispetto dei principi di
economicità, efficacia, trasparenza, imparzialità, parità di
trattamento, trasparenza, proporzionalità e pubblicità.
L’applicazione anche al singolo patrocinio della disciplina
del codice dei contratti pubblici conferma l’orientamento
consolidato di questa Corte in merito all’impossibilità di
considerare la scelta dell’avvocato esterno all’ente come
connotata da carattere fiduciario.
Anche dopo l’emanazione del nuovo codice dei contratti
pubblici, l’ente deve preliminarmente operare una
ricognizione interna finalizzata ad accertare
l’impossibilità, da parte del personale, a svolgere
l’incarico (così,
da ultima, questa Sezione con la citata deliberazione n.
66/2016).
Con la recente
sentenza 06.02.2017 n. 334,
il TAR Sicilia–Palermo, Sez. III, nel
giudicare l'affidamento di un appalto di servizi legali alla
luce del nuovo codice dei contratti pubblici, ha rimarcato
come per esso debba essere assicurata la massima
partecipazione mediante una procedura di tipo comparativo
idonea a permettere a tutti gli aventi diritto di
partecipare, in condizioni di parità e uguaglianza, alla
selezione per la scelta del contraente. Tali indicazioni
sono pienamente condivisibili, consentendo, inoltre, di
assicurare il migliore utilizzo delle risorse pubbliche.
Sulle richiamate novità normative l'Anac, con
Parere sulla Normativa 09.11.2016 n. 1158 - rif. AG
45/2016/AP,
ha evidenziato, operando una specificazione condivisa da
questa Sezione, che nell'affidamento di un
patrocinio legale le amministrazioni possono attuare i
principi di cui all’art. 4 del codice dei contratti pubblici
applicando sistemi di qualificazione, ovvero la redazione di
un elenco di operatori qualificati, mediante una procedura
trasparente e aperta, oggetto di adeguata pubblicità, dalla
quale selezionare, su una base non discriminatoria, gli
operatori che saranno invitati a presentare offerta.
Quanto sopra deve avvenire sulla base di un principio di
rotazione, applicato tenendo conto, nell’individuazione
della rosa dei soggetti selezionati, dell'importanza della
causa e del compenso prevedibile. È altresì utile precisare
che detti elenchi di operatori qualificati possono essere
articolati in diversi settori di competenza, e che non
sarebbe comunque legittimo prevedere un numero massimo di
iscritti.
Qualora vi siano motivate ragioni di urgenza,
dettagliatamente motivate e non derivanti da un'inerzia
dell'Ente conferente, tali da non consentire l’espletamento
di una procedura comparativa, le amministrazioni possono
prevedere che si proceda all'affidamento diretto degli
incarichi, sulla base di un criterio di rotazione (ove siano
stati istituiti elenchi di operatori qualificati,
l’affidatario dev’essere individuato tra gli avvocati
iscritti in detti elenchi).
Si precisa, altresì, che già prima che
entrasse in vigore il nuovo codice dei contratti pubblici si
riteneva, nell’ambito dei rapporti di collaborazione che
possono intercorrere tra enti pubblici e legali ad essi
esterni, che oltre all’affidamento di un singolo incarico di
patrocinio legale, fosse possibile l’affidamento di un
appalto di servizi, che tuttavia richiedeva “un quid
pluris per prestazione o modalità organizzativa rispetto al
semplice patrocinio legale”
(C. conti, Sez. controllo Basilicata,
deliberazione 03.04.2009 n. 19).
In tal senso anche la prevalente
giurisprudenza amministrativa, per la quale era
configurabile un appalto di servizi legali quando “l’affidamento
non si esaurisca nel patrocinio legale o episodico
dell’amministrazione, ma si configuri come modalità
organizzativa di un servizio, affidato a professionisti
esterni, più complesso e articolato, che può anche
comprendere la difesa giudiziale ma in essa non si esaurisca”
(ex multis, TAR Campania–Salerno, Sez. II,
sentenza 16.05.2016 n. 1197).
Come già evidenziato, la distinzione tra
affidamento di un singolo patrocinio legale e di un appalto
di servizi sembra essere stata superata dal disposto di cui
all’art. 17, del nuovo codice dei contratti pubblici.
Da ultimo, per completare il quadro delle forme di
collaborazione che possono intercorrere tra una pubblica
amministrazione e un legale a essa esterno, occorre tenere
presente che è tuttora possibile affidare a un legale un
incarico professionale esterno di cui all’art. 7, co. 6 del
t.u. sul pubblico impiego, quindi avente ad oggetto uno
studio, una ricerca o, più frequentemente, un
parere legale. Ad esso si applicano tutti i presupposti
di legittimità degli incarichi professionali esterni
individuati da questa giurisprudenza (per un approfondimento
dei vincoli posti al conferimento degli incarichi
professionali esterni, si rimanda al capitolo 2.3 del “Monitoraggio
degli atti di spesa relativi a collaborazioni, consulenze,
studi e ricerche, relazioni pubbliche, convegni, mostre,
pubblicità e rappresentanza, posti in essere negli esercizi
finanziari 2011 e 2012 dagli enti pubblici aventi sede
nell’Emilia-Romagna”, di questa Sezione, approvato con
deliberazione 15.10.2015 n. 135).
Tanto premesso, si segnalano i seguenti
specifici profili di criticità che sono emersi dall’esame
delle risposte fornite al questionario sui servizi legali e
dai dati relativi agli incarichi affidati da codesto ente
all’esterno.
Ricorso a domiciliazioni legali
Pur apparendo l’importo complessivamente corrisposto dal
Comune di Ravenna per incarichi di domiciliazione legale
giustificato, poiché sono stati affidati 23 incarichi di
detta tipologia a fronte di una spesa complessiva lorda di
11.712,22 euro, è comunque utile ricordare che, in ragione
della circostanza che le comunicazioni da parte delle
cancellerie dei tribunali, a mezzo di posta elettronica
certificata, possono intervenire presso i difensori legali
su tutto il territorio nazionale, la funzione di
interlocuzione diretta con le cancellerie da parte dei
legali della circoscrizione risulta meno rilevante.
Pertanto, l’ente in analisi è invitato, per il futuro, a
valutare con attenzione la convenienza di ricorrere a
domiciliazioni legali.
Violazione dei principi sul rimborso delle spese legali
Il rimborso delle spese legali in favore
dei dipendenti e degli amministratori pubblici, assolti per
non avere commesso il fatto nell’ambito di un procedimento
connesso con l’espletamento del servizio, deriva dal
principio per il quale non solo nei rapporti privati, ma
anche in quelli pubblici, chi agisce per un interesse altrui
non deve sopportare nella sua sfera personale gli effetti
svantaggiosi di questa attività, bensì deve essere tenuto
indenne sia dalle spese sostenute, sia dai danni subiti per
la fedele esecuzione del suo compito
(C. conti, S.r. n. 707/1991).
Il rimborso in favore dei dipendenti degli
enti locali è attualmente disciplinato dall’art. 12 del CCNL
del 12.12.2002 per l’area della dirigenza, e dall’art. 28
del CCNL del 14.09.2000, per il restante personale; dette
norme lo subordinano alle circostanze che i fatti o gli atti
siano direttamente connessi all’espletamento del servizio e
all’adempimento dei compiti d’ufficio, all’insussistenza del
conflitto d’interessi e all’assenza di dolo o di colpa
grave.
Solo recentemente il legislatore statale ha
riconosciuto, con
l’art. 7-bis del d.l. 19.06.2015, n. 78, convertito con
modificazioni dalla legge 06.08.2015, n. 125,
detto diritto anche in favore degli amministratori
locali; ciò, “nel caso di conclusione del procedimento
con sentenza di assoluzione o di emanazione di un
provvedimento di archiviazione, in presenza dei seguenti
requisiti: a) assenza di conflitto di interessi con l'ente
amministrato; b) presenza di nesso causale tra funzioni
esercitate e fatti giuridicamente rilevanti; c) assenza di
dolo o colpa grave”.
L’assenza di conflitto d’interessi con
l’ente, condicio sine qua non della risarcibilità
delle spese in argomento, richiede in generale
l’accertamento che i beneficiari del rimborso non abbiano
tenuto comportamenti contrari ai doveri d’ufficio.
Solo le pronunce di assoluzione motivate
per insussistenza del fatto o perché l’imputato non lo ha
commesso, consentono di escludere in radice il conflitto
d’interessi. Qualora, invece, siano motivate ai sensi del
comma 2, dell’art. 530, del c.p.p., che ricorre qualora “manca,
è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto
sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto
costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona
imputabile”, occorrerà altresì verificare l’assenza del
conflitto d’interessi con l’ente pubblico; sarà pertanto
onere dell’ente, prima di rimborsare le spese legali,
effettuare un accertamento interno che, qualora venga aperto
un fascicolo disciplinare, sarà coincidente con le
risultanze di quest’ultimo.
Nello specifico, invece, il Comune di Ravenna ha deliberato
il rimborso delle spese legali sulla mera base di un
provvedimento di archiviazione che si è limitato ad
escludere la sussistenza degli elementi costitutivi del
delitto, nonché di un ulteriore provvedimento di
archiviazione relativo a un procedimento penale connesso al
primo, il quale ha dichiarato l’estinzione del reato per
intervenuta remissione di querela nei confronti di un
dipendente e l’infondatezza della notizia di reato rispetto
ad altro dipendente.
Tali circostanze, in assenza di un
accertamento interno, non escludono che i comportamenti in
argomento possano essere stati contrari a doveri d’ufficio
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
deliberazione 26.04.2017 n. 73). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati,
ribassi banditi. Il legale non può chiedere
compensi irrisori. Tar Lombardia sulle gare
per affidare la difesa in giudizio dei
comuni.
Nelle gare per affidare la difesa in
giudizio di un comune, l'avvocato non può
proporre un compenso irrisorio. Ad esempio
chiedere solo le spese vive in caso di
soccombenza, contando di vedersi riconoscere
un compenso a carico di controparte in caso
di vittoria, equivale proporre di lavorare
gratis. E questa offerta è inammissibile per
contrasto con il dm sui parametri dei
compensi forensi, che impongono compensi
proporzionati all'attività svolta.
È quanto ha deciso il TAR Lombardia-Milano,
Sez. IV, con la
sentenza
19.04.2017 n. 902, che
interviene in materia di affidamento con
gara degli incarichi giudiziali agli
avvocati. Tra l'altro, la questione in sé
tutt'altro che pacifica, anche avendo
riguardo al Codice dei contratti pubblici,
in cui gli incarichi ai legali sono inseriti
tra i contratti esclusi, e ritenendosi da
alcuni che questo implichi l'applicazione
delle regole generali, relativi a procedure
selettive, con esclusione degli incarichi
diretti su base fiduciaria.
Tornando al caso lombardo, un comune ha
iniziato una procedura negoziata per
l'affidamento del servizio di rappresentanza
legale dell'ente in un procedimento
giurisdizionale di recupero di un credito
dell'ente nei confronti della società
telefonica. La procedura di gara si è svolta
per via telematica avvalendosi di una
piattaforma regionale e il criterio di
aggiudicazione è stato quello del prezzo più
basso.
Al termine del procedura, il servizio è
stato affidato a uno studio legale. Un altro
avvocato, partecipante alla gara, ha
presentato ricorso al Tar e ha avuto torto.
I fatti rilevanti sono stati i seguenti. Il
criterio di aggiudicazione era quello del
prezzo più basso. E l'avvocato arrivato
secondo ha offerto il prezzo di euro 550,00,
molto inferiore a quello degli altri
partecipanti.
Il funzionario del comune responsabile del
procedimento (Rup) ha chiesto chiarimenti,
invitando a dettagliare l'offerta sulla base
dei compensi da richiedersi a fronte di un
ricorso per decreto ingiuntivo finalizzato
al recupero del credito
dell'amministrazione.
Alla richiesta di chiarimenti, l'avvocato
arrivato secondo ha risposto con una nota,
nella quale, quanto al compenso indicato
nell'offerta (euro 550), l'avvocato
specificava che la stessa corrispondeva
soltanto alle spese «vive» dell'attività
giurisdizionale, in quanto il vero e proprio
compenso professionale sarebbe stato
costituito dal compenso liquidato dal
giudice a proprio favore e posto a carico
della parte perdente, vista la «certezza
della vittoria processuale pronosticata».
Per l'ipotesi di sconfitta l'avvocato non
avrebbe chiesto nulla, se non di trattenere
le 550 euro di spese vive.
Il Tar ha dato torto all'avvocato, per una
serie di ragioni.
Innanzi tutto è contrario alla comune
esperienza affermare che sicuramente si
vincerà la causa, essendo noto ad ogni
operatore del diritto (giudice o avvocato),
che ogni azione giurisdizionale porta in sé
inevitabilmente un margine più o meno ampio
di incertezza.
Inoltre, anche se si vince, non sempre il
giudice liquida le spese a favore
dell'avvocato che difende la parte
vittoriosa.
L'offerta è stata, quindi, ritenuta
indeterminata e condizionata, notando che
nel caso di eventuale soccombenza, l'offerta
del ricorrente finirebbe per essere
un'offerta pari a zero.
E un'offerta pari a zero appare non
legittima in quanto, oltre che non essere
seria e affidabile, non sono emersi ragioni
particolari per le quali la prestazione del
professionista intellettuale debba essere di
fatto gratuita. D'altra parte il decreto
ministeriale sui parametri del compenso
dell'avvocato prescrive che il compenso sia
«proporzionato all'importanza dell'opera» e,
rileva il Tar, un'offerta a compenso zero
appare in evidente contrasto con tale
previsione normativa.
Il giudice ha quindi confermato l'incarico
conferito allo studio legale che ha chiesto
un compenso e ha condannato l'avvocato
arrivato secondo a pagare le spese del
giudizio al Tar.
Dunque questo legale proponeva di fare
attività a compenso zero e si trova ora a
dover pagare oltre 3 mila euro di spese di
soccombenza, da dividere in parti uguali a
favore del Comune e del collega che si è
aggiudicato l'incarico
(articolo ItaliaOggi
Sette dell'08.05.2017). |
Sono da qualificarsi come "interventi di nuova
costruzione"
[ex art. 3, comma 1,
lett. e), DPR n. 380/2001]
i lavori di riporto/livellamento di terreno di vasta
entità. |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere di scavo, sbancamento e livellamento: quando occorre
il titolo abilitativo edilizio?
Cassazione: “Solo una migliore
sistemazione di un terreno per uso agricolo al fine di una
più adeguata coltivazione esula dalla norma urbanistica”
(14.05.2015 - link a www.casaeclima.com).
--------------
“Come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza di
questa Corte Suprema, le opere di scavo, di sbancamento e di
livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da
quelli agricoli, in quanto incidenti sul tessuto urbanistico
del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo
edilizio”.
Lo ha ricordato la Cassazione penale, Sezione III , con la
sentenza n. 17114/2015 depositata il 24 aprile.
(...continua).
---------------
MASSIMA
3. Di più agevole soluzione la questione posta dal
ricorrente in merito alla asserita inosservanza della legge
penale (art. 44, lett. c), D.P.R. 380/2001 e 181 D.Lgs.
42/2004) oggetto del secondo motivo. Anzitutto va osservato
che, una volta sgombrato il campo dalla possibilità di
escludere dalla categoria di rifiuto il materiale non
litoide contenuto nella parte dell'area adibita a piazzale,
è logico concludere che si è trattato di materiale di vario
genere adoperato (unitamente a quello consentito) per la
realizzazione di un'opera nuova diversa, però, dalla
situazione originaria del terreno e non limitata -come
preteso dalla difesa del ricorrente- all'elisione di alcuni
avvallamenti del terreno.
3.1 Come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza di
questa Corte Suprema, le opere di scavo, di
sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad
usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidenti sul
tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a
titolo abilitativo edilizio
(Sez. 3^ 13.01.2011 n. 4916, Agostini, Rv. 262475; idem
22.02.2012 n. 29466, Batteta, Rv. 253154; idem 11.07.1991 n.
9978, Laviano e altro, Rv. 188229).
Ciò che connota l'attività di spianamento
libera da quella vincolata ad una preventiva autorizzazione
è, dunque, la finalità dell'opera, nel senso che solo una
migliore sistemazione di un terreno per uso agricolo al fine
di una più adeguata coltivazione esula dalla norma
urbanistica (in
termini Sez. 3^ 09.03.1994 n. 4722, Gianni, Rv. 198730)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.04.2015 n. 17114). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere di scavo ad uso diverso dall'agricolo, necessario il
titolo abilitativo edilizio.
Cassazione: incidono sul tessuto
urbanistico del territorio le opere di scavo, di sbancamento
e di livellamento del terreno finalizzate ad usi diversi da
quelli agricoli
(24.02.2015 - link a http://www.casaeclima.com).
---------------
Con la sentenza n. 4916/2015 depositata il 3 febbraio, la
terza sezione penale della Cassazione ha ribadito che “le
opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del
terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in
quanto incidono sul tessuto urbanistico del territorio, sono
assoggettate a titolo abilitativo edilizio” (cfr., Sez.3, n.
8064 del 02/12/2008, P.G. in proc. Dominelli ed altro, Rv.242741).
(...continua).
---------------
MASSIMA
7. Il secondo ed il quarto motivo, tra loro
sostanzialmente collegati perché basati sul medesimo
presupposto, sono infondati.
Va ribadito che, come già più volte
affermato da questa Corte, le opere di scavo, di sbancamento
e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da
quelli agricoli, in quanto incidono sul tessuto urbanistico
del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo
edilizio (cfr.,
Sez. 3, n. 8064 del 02/12/2008, P.G. in proc. Dominelli ed
altro, Rv. 242741).
Nella specie, la sentenza ha correttamente argomentato,
traendone logica conferma dall'avvenuta presentazione, con
esito negativo, di richiesta di permesso a costruire un
manufatto, come si versi in presenza di lavori di scavo e di
sbancamento finalizzati ad edificazione di annesso agricolo
e dunque, appunto, di manufatto, e non, invece, ad attività
di coltivazione (la cui natura non è stata neppure
specificata dal ricorrente), stante anche la conformazione
del terreno.
Correttamente, inoltre, la sentenza impugnata ha richiamato,
con riguardo alla pretesa mancata considerazione
dell'ordinanza comunale secondo cui, come affermato in
ricorso, sarebbe stata necessaria una mera richiesta di
inizio attività, il principio di autonomia delle valutazioni
adottate in sede giurisdizionale rispetto a quelle
dell'autorità amministrativa con le sole previsioni
derogatorie tassativamente previste dalla legge (cfr.,
Sez. 3, n. 22823 del 26/02/2003, Barbieri, Rv. 225293).
Va aggiunto che, proprio in ragione della finalizzazione
dello scavo ad usi diversi da quelli agricoli, deve
ritenersi che la Corte abbia poi correttamente escluso, con
riguardo a quanto lamentato con il quarto motivo di ricorso,
l'applicabilità del disposto dell'art. 149, comma 1, lett.
b), del d.Lgs. n. 42 del 2004 che proprio l'essenziale
presupposto di attività agro-silvo-pastorale implica.
Va considerato, per di più, che anche gli
interventi inerenti l'esercizio dell'attività
agro-silvo-pastorale, laddove comportano un'alterazione
permanente dell'assetto territoriale, richiedono la
preventiva autorizzazione di legge, atteso che gli stessi
assumono, in forza di ciò, la natura di opera civile
(cfr., Sez. 3, n. 2950 del 12/11/2003, Pizzolato ed altro,
Rv. 227395) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.02.2015 n. 4916 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di trasformazione dei suoli la giurisprudenza della
S.C. è stata sempre costante nel ritenere che, versandosi
nella materia urbanistica, le opere di scavo, di sbancamento
e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da
quelli agricoli, in quanto incidenti sul tessuto urbanistico
del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo
edilizio.
Siffatto orientamento muove dalla rilevava profonda
differenza tra la materia urbanista considerata nel suo
significato globale e la materia urbanistica circoscritta ad
interventi edilizi, dalla quale deriva la reale finalità
della materia urbanistica mirante ad una generale disciplina
dell'uso del territorio con specifico riguardo a tutti gli
aspetti conoscitivi, normativi e gestionali di salvaguardia
e di trasformazione del suolo, nonché alla protezione
dell'ambiente.
E proprio per tali ragioni qualsiasi trasformazione
rilevante del terreno comporta la necessità di una
preventiva concessione urbanistica e non di una semplice
autorizzazione.
---------------
BA.Pa., imputato del reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001,
art. 44, lett. b) "per avere realizzato senza concessione
opere di trasformazione edilizia de territorio, consistenti
in spianamento e riporto di terreno con stoccaggio di
attrezzature per l'attività edilizia", veniva dichiarato
colpevole del detto reato dal Tribunale di Cagliari che con
sentenza del 13.07.2010, lo condannava alla pena di giorni
venti di arresto ed Euro 10.400,00 di ammenda.
La Corte di Appello di Cagliari, a seguito di impugnazione
proposta dell'imputato, confermava la sentenza suddetta in
data 16.11.2011.
...
Il ricorso è infondato.
La Corte di appello dopo aver passato in rassegna tutti gli
elementi di prova raccolti nel corso del giudizio di primo
grado (prove dichiarative e documentali; rilievi
fotografici) ha correttamente concluso per la sussistenza
del reato in esame in relazione all'intervenuto spianamento
del terreno nonostante l'assenza di qualsivoglia
autorizzazione ritenendo che in ipotesi quale quella
sottoposta al suo esame fosse necessario il permesso di
costruire e non la semplice autorizzazione, peraltro mai
richiesta.
Nell'affermare ciò la Corte territoriale ha anche
sottolineato che, rispetto al rifacimento di una recinzione
con paletti e rete metallica lungo il confine del terreno
(recinzione a sua volta difforme rispetto all'autorizzazione
concessa e poi adeguata a seguito di controlli successivi),
lo spianamento del terreno adiacente non riguardava solo una
porzione di superficie ristretta e funzionale all'esecuzione
dei lavori di rifacimento della recinzione ma copriva la
quasi totalità del terreno ("giungendo ad interessare
gran parte del fondo ed anche le aree non confinanti con la
recinzione" - così, testualmente pag. 4 della sentenza
impugnata).
Proprio per tale ragione la Corte aveva ritenuta corretta la
decisione del primo giudice individuando nella esistenza di
lavori di scavo e spianamento ed ancora nella collocazione
di un container di grandi dimensioni oltre a materiale edile
una serie di opere incompatibili sia con la costruzione
della recinzione in quanto di gran lunga sottodimensionata,
sia con la destinazione agricola del terreno (nonostante
l'attivazione di una porzione a piccolo orto).
In tema di trasformazione dei suoli la giurisprudenza di
questa Corte è stata sempre costante nel ritenere che,
versandosi nella materia urbanistica, le opere di scavo, di
sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad
usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidenti sul
tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a
titolo abilitativo edilizio (Cass. Sez. 3^ 02.12.2008 n.
8064, P.G. in proc. Dominelli ed altri, Rv. 242741; nello
stesso senso, Cass. Sez. 3^ 22.12.1999 n, 3107, Alliate ed
altro, Rv. 216521).
Siffatto orientamento muove dalla rilevava profonda
differenza tra la materia urbanista considerata nel suo
significato globale e la materia urbanistica circoscritta ad
interventi edilizi, dalla quale deriva la reale finalità
della materia urbanistica mirante ad una generale disciplina
dell'uso del territorio con specifico riguardo a tutti gli
aspetti conoscitivi, normativi e gestionali di salvaguardia
e di trasformazione del suolo, nonché alla protezione
dell'ambiente. E proprio per tali ragioni qualsiasi
trasformazione rilevante del terreno comporta la necessità
di una preventiva concessione urbanistica e non di una
semplice autorizzazione.
L'infondatezza del motivo refluisce sulla inaccoglibilità
anche del secondo motivo legato stavolta ad una errata
applicazione della legge urbanistica rispetto alla legge
regionale a statuto speciale che secondo quanto sostenuto
dal ricorrente escluderebbe che l'attività posta in essere
dall'imputato fosse assoggettata.
Si tratta di una censura già prospettata in grado di appello
e ritenuta infondata dalla Corte territoriale posto che in
materia di legislazione edilizia nelle regioni a statuto
speciale, pur spettando alla Regione una competenza
legislativa esclusiva in materia, la relativa legislazione
deve non solo rispettare i principi fondamentali stabiliti
dalla legislazione statale, ma deve anche essere
interpretata in modo da non collidere con i medesimi (Cass.
Sez. 3^ 25.10.2007 n. 2017, Giangrasso, Rv. 238555).
Ne deriva che l'interpretazione della norma regionale deve
essere conforme alla normativa statale per evitare il
rischio di sconfinamenti nella riserva in materia penale
della legge statale valida per l'intero territorio
nazionale..
Il richiamo alla norma regionale citata in ricorso (art. 11,
comma 1, riguardante i mutamenti di destinazione d'uso
soggetti a semplice autorizzazione) è inconferente in quanto
nel caso di specie non si trattava di mutamento di
destinazione d'uso del terreno da agricolo ad edilizio, ma
di trasformazione consistente dell'assetto territoriale di.
un fondo tale da comportare una trasformazione urbanistica
permanente, così come rettamente intesa dalla Corte (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.07.2012 n. 29466). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
qualificazione (ex art. 3 DPR n. 380/2001) dei
lavori consistenti in deposito di terreno ove insiste una
depressione naturale di vaste dimensioni.
Nel caso di specie si è in presenza di
lavori (abusivi)
consistenti “in deposito di terreno ove
insiste una depressione naturale che si sviluppa su un’area
di 11.000 mq. c.ca determinando una variazione dello stato
dei luoghi da ml. 1,00 nell’area Sud-Ovest a ml. 5,00 c.ca
per il versante Ovest”.
Orbene, appare incontestabile che
l’intervento de quo –caratterizzato da dimensioni che non
possono certo qualificarsi di “modesta entità”, investendo
un’area di 11.000 mq. circa– ha attuato una trasformazione
urbanistica del territorio e, perciò, rappresenta un
“intervento di nuova costruzione”, assoggettato al
previo rilascio del permesso di costruire, ai sensi del
combinato disposto degli artt. 3, comma 1, lett. e), e 10
del D.P.R. n. 380/2001.
Di conseguenza, è da ritenere che il Comune –applicando la
sanzione ripristinatoria della demolizione, ai sensi
dell’art. 31 del medesimo decreto– abbia correttamente
operato.
In altri termini, va rilevato che il
provvedimento adottato si profila coerente con il
consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui:
- la trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio comprende non le sole attività di edificazione,
ma anche quelle consistenti nella modificazione rilevante e
duratura dello stato del territorio e nell’alterazione della
conformazione del suolo;
- non abbisognano del previo rilascio di un titolo
edilizio le sole costruzioni aventi intrinseche
caratteristiche di precarietà strutturale e funzionale, cioè
destinate dall’origine a soddisfare esigenze contingibili e
circoscritte nel tempo, mentre un titolo è sempre richiesto
ogni volta che si sia in presenza di un intervento che attui
una trasformazione del territorio, con perdurante modifica
dello stato dei luoghi.
---------------
In ragione di quanto rilevato, e
cioè della accertata riconducibilità dei lavori di cui
trattasi nell’elenco di cui all’art. 10 del D.P.R. n.
380/2001, è chiaro che gli stessi lavori non possono essere
ritenuti soggetti a mera denuncia di attività.
Come già detto, detti lavori
–considerate l’entità e la consistenza da cui sono
caratterizzati– determinano una trasformazione urbanistica
del territorio e, dunque, concretizzano un intervento di
nuova costruzione.
---------------
... per l’annullamento, previa sospensione, dell’ordinanza
del Dirigente V Settore Urbanistica n. 617 del 13.10.2003,
notificata a mezzo del servizio postale il 18.10.2003,
portante ingiunzione di ripristino dello stato dei luoghi
entro novanta giorni dalla notifica dell’atto medesimo con
comminatoria, in difetto, dell’acquisizione al patrimonio
del Comune delle opere pretesamene abusive e dell’area di
sedime, nonché di ogni altro atto coordinato o comunque
connesso, ancorché sconosciuto;
...
Attraverso il ricorso in epigrafe, notificato in data
17.12.2003 e depositato il successivo 15.01.2004, la
ricorrente impugna l’ordinanza n. 617 del 13.10.2003, con la
quale il Comune di Marino –accertata la realizzazione di
lavori in assenza di titolo abilitativo, “consistenti in
deposito di terreno ove insiste una depressione naturale che
si sviluppa su un’area di 11.000 mq. c.ca. determinando una
variazione dello stato dei luoghi da ml. 1,00 nell’area
Sud-Ovest a ml. 5,00 c.ca per il versante Ovest”- le ha
ingiunto il ripristino del precedente stato dei luoghi.
In particolare, espone:
- che, con comunicazione del 22.03.2001, dichiarava al Comune di
Marino che avrebbe provveduto ad opere di rimodellamento e
riporto di terra su parte di un terreno di sua proprietà
(ca. 11.000 mq.), ai fini del miglioramento delle
coltivazioni e per esigenze di sicurezza;
- di aver provveduto all’esecuzione delle opere, quotidianamente
visionata dai tecnici comunali;
- che, trascorsi due anni, l’area veniva sottoposta a sequestro
penale da parte della Polizia Municipale (cfr. verbale del
22.07.2003);
- che il sequestro non veniva convalidato dall’autorità giudiziaria
“sul rilievo del non assoggettamento dell’intervento in
questione al regime della concessione edilizia, trattandosi
di semplici opere di reinterro” e, dunque, l’area veniva
dissequestrata;
- che, nonostante la vicenda sembrasse chiusa, il Comune di Marino
adottava l’ordinanza impugnata.
...
1. Il ricorso è infondato e, pertanto, va respinto.
1.1. Come esposto nella narrativa che precede, la ricorrente
incardina le proprie censure essenzialmente sulla
impossibilità di ricondurre le opere realizzate nell’ambito
di quelle soggette al previo rilascio del permesso di
costruire e, dunque, di quelle sanzionabili –in caso di
inosservanza delle disposizioni che regolamentano la
materia– mediante l’adozione di misure ripristinatorie.
In particolare, sostiene che l’intervento edilizio
contestato rientra tra quelli “che possono essere
eseguiti liberamente” o, al più, tra quelli assoggettati
a denuncia di inizio attività, perseguibili –in caso di
mancato rispetto della disciplina prescritta- mediante
l’applicazione della sola sanzione pecuniaria, ai sensi
dell’art. 37 del D.P.R. n. 380/2001.
1.2. Il Collegio –valutata meglio la questione- ritiene che
la ricostruzione giuridica della fattispecie prospettata
dalla ricorrente non sia condivisibile.
Nel caso di specie, si è, infatti, in
presenza di lavori
–la cui realizzazione non è affatto contestata–
consistenti “in deposito di terreno ove insiste
una depressione naturale che si sviluppa su un’area di
11.000 mq. c.ca determinando una variazione dello stato dei
luoghi da ml. 1,00 nell’area Sud-Ovest a ml. 5,00 c.ca per
il versante Ovest”.
Orbene, appare incontestabile che
l’intervento de quo –caratterizzato da dimensioni che
non possono certo qualificarsi di “modesta entità”,
investendo un’area di 11.000 mq. circa– ha attuato una
trasformazione urbanistica del territorio e, perciò,
rappresenta un “intervento di nuova costruzione”,
assoggettato al previo rilascio del permesso di costruire,
ai sensi del combinato disposto degli artt. 3, comma 1,
lett. e), e 10 del D.P.R. n. 380/2001.
Di conseguenza, è da ritenere che il Comune –applicando la
sanzione ripristinatoria della demolizione, ai sensi
dell’art. 31 del medesimo decreto– abbia correttamente
operato.
In altri termini, va rilevato che il
provvedimento adottato si profila coerente con il
consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui:
- la trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio comprende non le sole attività di edificazione,
ma anche quelle consistenti nella modificazione rilevante e
duratura dello stato del territorio e nell’alterazione della
conformazione del suolo
(cfr., tra le altre,
TAR Lombardia, Milano, n. 5452/2007;
TAR Veneto, n. 449/2006;
TAR Sezione Autonoma per la Provincia di Bolzano, n.
278/2000);
- non abbisognano del previo rilascio di un titolo
edilizio le sole costruzioni aventi intrinseche
caratteristiche di precarietà strutturale e funzionale, cioè
destinate dall’origine a soddisfare esigenze contingibili e
circoscritte nel tempo, mentre un titolo è sempre richiesto
ogni volta che si sia in presenza di un intervento che attui
una trasformazione del territorio, con perdurante modifica
dello stato dei luoghi
(cfr., tra le altre, TAR Lombardia, Milano, n. 438/2008).
1.3. Al fine di supportare la natura “libera” –ossia
non soggetta ad alcun titolo abilitativo edilizio-
dell’intervento realizzato, la ricorrente invoca l’art. 6,
comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001.
In verità, il Collegio ritiene che la richiamata
disposizione sia confermativa della prospettazione giuridica
di cui è stata data evidenza.
Tale disposizione prevede, infatti, che possono essere
eseguite senza titolo opere caratterizzate –appunto- dalla “temporaneità”,
dirette all’“attività di ricerca nel sottosuolo”.
Appare, pertanto, evidente che si tratta di una previsione
che non sconfessa ma, anzi, è pienamente in linea con
l’orientamento giurisprudenziale sopra ricordato.
Sotto il profilo sostanziale, non è, poi, possibile esimersi
dal precisare che –a differenza di quanto asserito dalla
ricorrente– le opere indicate al citato art. 6, proprio in
quanto “temporanee”, hanno un impatto sicuramente
minore sul territorio di quello dei lavori contestati nel
provvedimento impugnato, la cui connotazione permanente
appare “in re ipsa” e, comunque, non è in alcun modo
negata.
In definitiva, i lavori descritti nel provvedimento
impugnato sono ben diversi da quelli contemplati all’art. 6
in argomento né possono essere ricondotti nell’ambito di
quest’ultimi in ragione di una minore rilevanza urbanistica
ed edilizia, la quale è del tutto insussistente.
1.4. In ragione di quanto rilevato, e cioè
della già accertata riconducibilità dei lavori di cui
trattasi nell’elenco di cui all’art. 10 del D.P.R. n.
380/2001, è, altresì, chiaro che gli stessi lavori non
possono essere ritenuti soggetti a mera denuncia di
attività.
Come già detto, detti lavori –considerate
l’entità e la consistenza da cui sono caratterizzati–
determinano una trasformazione urbanistica del territorio e,
dunque, concretizzano un intervento di nuova costruzione.
Ciò trova conferma anche nell’impossibilità di identificare
gli stessi lavori –oltre che con gli interventi di cui
all’art. 3, comma 1, lett. a e d, del D.P.R. n. 380/2001-
con la tipologia di opere contemplate all’art. 3, comma 1,
lett. b e c, del medesimo D.P.R., sicuramente soggette –in
base al criterio della residualità, sancito all’art. 22,
comma 1, del medesimo D.P.R.- a mera denuncia di inizio
attività.
In termini più generali, va, poi, rilevato che
nessuna previsione normativa prevede deroghe e/o
esoneri rispetto al regime dei titoli abilitativi edilizi
sulla base di meri fini di utilizzazione agricola dei
terreni (i quali, tra l’altro, non appaiono –nel caso di
specie- adeguatamente comprovati).
1.5. Stante quanto in precedenza rappresentato, è da
rilevare che non emergono ragioni cui sia riconducibile un
diverso contenuto del provvedimento impugnato.
A ciò consegue l’inidoneità dei vizi di procedura –quale è
la denunciata violazione degli artt. 7 e ss. della legge n.
241/1990– o di forma a determinare l’annullamento del
provvedimento stesso, a norma dell’art. 21-octies della già
richiamata legge n. 241/1990, nel testo innovato dalla legge
n. 15/2005, da ricondurre nell’ambito delle norme di
carattere processuale o procedurale, le quali sono di
immediata applicazione (cfr., tra le altre, TAR Sardegna, n.
483 del 2005; TAR Campania, Napoli, n. 3780 del 2005).
2. Per le ragioni sopra illustrate, il ricorso deve essere
respinto
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 20.01.2009 n. 394 - tratta da
www.studiovandelli.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione
di un terrapieno - Di rilevanti dimensioni - Reato di
esecuzione di lavori in assenza di permesso di costruire -
Configurabilità - Fondamento.
Integra il reato di costruzione edilizia
abusiva la realizzazione di un terrapieno di rilevanti
dimensioni sia in ampiezza che in altezza, non potendosi
inquadrare tale intervento tra quelli per i quali non è
richiesto il permesso di costruire. (fattispecie nella quale
l'intervento eseguito presentava un'estensione pari a 3000
mq. per 2 metri di altezza).
---------------
Con sentenza del 13.12.2005, il Tribunale di Catania aveva
condannato F.C., riconosciute le attenuanti generiche, alla
pena di mesi cinque di arresto ed Euro 6.000,00 di ammenda,
pena sospesa e la confisca dell'immobile in sequestro,
avendola ritenuta colpevole del reato di cui all'art. 81
cpv. c.p., della L. 28.02.1985, n. 47, art. 20, comma 1,
lett. b), del D.Lgs. 05.02.1997, n. 22, art. 51, comma 3,
della L. 05.11.1971, n. 1986, art. 2, commi 1 e 2, art. 13,
art. 4, comma 1 e art. 14, della L. 02.02.1974, n. 64, artt.
17, 18 e 20 [come accertato in (OMISSIS) il (OMISSIS)].
Si era trattato della realizzazione di un terrapieno di
circa 3000 mq di area e dell'altezza di mt. 2,00 e della
costruzione di una recinzione in muratura con pilastri e
travi in cemento armato, senza concessione edilizia e in
violazione delle disposizioni in materia di costruzioni in
cemento armato e in zona sismica.
...
Il ricorso è manifestamente infondato.
Per quanto concerne il reato edilizio e quelli connessi, se
corrisponde a verità che la L.R. Sicilia 10.08.1985, n. 37,
art. 6 esclude dalla necessità di concessione edilizia la "recinzione
di fondi rustici", nel caso di specie trattavasi,
secondo i Giudici di merito, di un'opera ben più complessa,
comportante la realizzazione di un terrapieno di rilevanti
dimensioni sia in ampiezza che in altezza, quindi recintato
e all'interno del quale era depositato il materiale che ha
dato luogo alla contestazione di cui al D.Lgs. n. 22 del
1997, art. 51, comma 3.
Poiché siffatta opera non rientra tra quelle non subordinate
a concessione edilizia secondo la legislazione statale
(cfr., per un caso analogo, Cass. 29.09.1999 n. 11126) e
secondo l'analoga normativa regionale, le censure svolte al
riguardo appaiono manifestamente infondate (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.09.2007 n. 35629). |
EDILIZIA PRIVATA: Sui
lavori di sbancamento e riporto di terreno.
La trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio non comprende le sole attività di
edificazione, ma tutte quelle consistenti nella
modificazione dello stato materiale e della conformazione
del suolo per adattarlo ad un impiego diverso.
---------------
Con verbale di constatazione n. 55/87 dd. 06.04.1987 il
Servizio controllo Costruzioni del Comune di Bolzano
accertava l’esecuzione sulla p.f. 988 c.c. Gries, di
proprietà del sig. Ha., lavori di sbancamento e riporto di
terreno senza il necessario permesso edilizio, oltre ad un
cambio di coltura da bosco ad area di equitazione.
Con ordinanza n. 6/87 dd. 04.05.1987 l’Assessore
all’urbanistica ingiungeva il ripristino dello stato dei
luoghi in conformità alla destinazione prevista dal Piano
Urbanistico comunale.
...
Il ricorso è infondato.
Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e
falsa applicazione dell’art. 4 nn. 3 e 4 della legge
provinciale 21.01.1987 n. 4 per insussistenza del
presupposto della inottemperanza al cambio di coltura ed
eccesso di potere per travisamento, contraddittorietà in
relazione alla preesistenza dello spianamento e della
destinazione dell’area a campo di pattinaggio.
Lo spianamento con modesti sbancamenti sarebbe stato
effettuato nel 1965 dall’affittuario del suo predecessore,
che realizzò un campo di pattinaggio, successivamente
abbandonato, e nel 1987 riassettato e destinato a piccolo
campo di maneggio. Comunque l’odierno ricorrente avrebbe
proceduto a dar ottemperanza all’ordinanza nei limiti di
quanto da lui stesso operato, non ritenendo di essere
obbligato all’impianto di alberi di alto fusto abbattuti
ancora nel 1965 con autorizzazione forestale.
Orbene, come rileva la difesa del Comune di Bolzano, dal
verbale del servizio Controllo Costruzioni n. 176/1993
risulta il mancato ripristino d’uso dei terreni che in
effetti hanno continuato ad essere utilizzati come area di
equitazione. La trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio non comprende le sole attività di edificazione,
ma tutte quelle consistenti nella modificazione dello stato
materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad
un impiego diverso, così come ribadito dalla richiamata
sentenza del Consiglio di Stato sez. V n. 319 dd. 22.02.1991
(TRGA Trentino Alto Adige,
sentenza 30.09.2000 n. 278 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
La ricostruzione (ancorché fedele, quindi quale
ristrutturazione edilizia) di un edificio,
distrutto per incendio fortuito, soggiace al
versamento del contributo di costruzione. |
EDILIZIA PRIVATA: E'
oneroso l'intervento edilizio di
ricostruzione di una porzione di un edificio condominiale
andata distrutta a seguito di incendio.
L’intervento di ricostruzione, di una
porzione di edificio andata distrutta a seguito di incendio,
è stato qualificato, sia dai ricorrenti che dal comune, come
intervento di ristrutturazione edilizia.
Ciò premesso, si deve osservare che, ai sensi dell’art. 43,
primo comma, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005,
n. 12 (Legge per il governo del territorio), gli interventi
di ristrutturazione edilizia sono espressamente assoggettati
al pagamento del contributo di costruzione, sia con
riferimento agli oneri di urbanizzazione che con riferimento
al costo di costruzione.
A fronte del chiaro dettato normativo, all’interprete sembra
sottratta la possibilità di effettuare specifiche
valutazioni atte a rilevare se il singolo intervento di
ristrutturazione abbia o meno comportato un aumento del
carico urbanistico o possa essere considerato alla stregua
di un indice di capacità contributiva.
Né a diverse conclusioni può portare la circostanza che, nel
caso specifico, l’intervento di ricostruzione è stato reso
necessario a causa dell’incendio che in precedenza aveva
distrutto il bene, atteso che l’art. 17, terzo comma, del
d.P.R. n. 380 del 2001 -nel disciplinare le ipotesi di
esenzione dall’obbligo di versamento del contributo di
costruzione- prende in considerazione, alla lett. d), anche
le cause di forma maggiore, circoscrivendo tuttavia
l’esenzione ai soli casi di interventi realizzati in
attuazione di norme o provvedimenti emanati a seguito di
pubbliche calamità.
In tale quadro, si deve anche escludere che il Comune di
Milano fosse tenuto a fornire una specifica motivazione,
posto che, come visto, nella fattispecie, l’obbligo di
versamento del contributo di costruzione discende dalla
piana applicazione della vigente normativa.
---------------
1. Con il ricorso in esame, viene impugnato il permesso di
costruire n. 2/2016 del 15.01.2016, rilasciato dal Comune di
Milano ai sigg.ri Ga.Al., Lu.Fr.Ce. e An.Pa., nella parte in
cui assoggetta l’intervento assentito al pagamento del
contributo di costruzione, per un ammontare complessivo pari
ad euro 58.514,02.
2. L’intervento oggetto dell’atto impugnato consiste nella
ricostruzione di una porzione di un edificio condominiale
sito in Milano, Via ... n. 6, andata a distrutta a seguito
di un incendio.
3. Si è costituito in giudizio, per resistere al ricorso, il
Comune di Milano.
4. La Sezione, con
ordinanza 18.03.2016 n. 328, ha accolto l’istanza
cautelare.
5. Tenutasi la pubblica udienza in data 30.03.2017, la causa
è stata trattenuta in decisione.
6. Con il primo motivo, i ricorrenti sostengono che,
nel caso di specie, non vi sarebbero i presupposti necessari
per esercitare la pretesa di pagamento del contributo di
costruzione, e ciò in quanto l’intervento oggetto del
permesso di costruire del 15.01.2016 non comporterebbe alcun
aumento del carico urbanistico (presupposto necessario per
la pretesa degli oneri di urbanizzazione) né sarebbe indice
di incremento patrimoniale (requisito necessario per la
pretesa del costo di costruzione).
7. Con il secondo motivo, viene dedotta la violazione
dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, in quanto, a dire
dei ricorrenti, proprio in considerazione della specificità
del caso in esame, il Comune avrebbe dovuto indicare, nel
provvedimento impugnato, le ragioni per le quali si è
ritenuto che l’intervento che ne costituisce oggetto abbia
determinato un aumento del carico urbanistico.
8. I due motivi sono infondati per le ragioni di seguito
esposto.
9. Come anticipato, l’intervento oggetto del permesso di
costruire impugnato consiste nella ricostruzione di una
porzione di un edificio condominiale andata distrutta a
seguito di incendio.
10. L’intervento è stato qualificato, sia dai ricorrenti che
dal Comune di Milano, come intervento di ristrutturazione
edilizia.
11. Ciò premesso, si deve osservare che, ai sensi dell’art.
43, primo comma, della legge della Regione Lombardia
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del
territorio), gli interventi di ristrutturazione edilizia
sono espressamente assoggettati al pagamento del contributo
di costruzione, sia con riferimento agli oneri di
urbanizzazione che con riferimento al costo di costruzione.
12. A fronte del chiaro dettato normativo, all’interprete
sembra sottratta la possibilità di effettuare specifiche
valutazioni atte a rilevare se il singolo intervento di
ristrutturazione abbia o meno comportato un aumento del
carico urbanistico o possa essere considerato alla stregua
di un indice di capacità contributiva.
13. Né a diverse conclusioni può portare la circostanza che,
nel caso specifico, l’intervento di ricostruzione è stato
reso necessario a causa dell’incendio che in precedenza
aveva distrutto il bene, atteso che l’art.
17, terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 -nel
disciplinare le ipotesi di esenzione dall’obbligo di
versamento del contributo di costruzione- prende in
considerazione, alla lett. d), anche le cause di forma
maggiore, circoscrivendo tuttavia l’esenzione ai soli casi
di interventi realizzati in attuazione di norme o
provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità (cfr.,
TAR Lombardia Milano, sez. II, 25.05.2016, n. 1079).
14. In tale quadro, si deve anche escludere che il Comune di
Milano fosse tenuto a fornire una specifica motivazione,
posto che, come visto, nella fattispecie, l’obbligo di
versamento del contributo di costruzione discende dalla
piana applicazione della vigente normativa.
15. Per tutte queste ragioni, il ricorso deve essere
respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 12.06.2017 n. 1319 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
ricostruzione di una porzione edificio crollata a seguito di
incendio (quale ristrutturazione edilizia) sconta il
versamento del contributo di costruzione.
L'intervento in discorso è volto
unicamente alla ricostruzione del fabbricato totalmente
crollato a causa dell'incendio accidentale e non comporta
alcuna alterazione di sagoma e di superficie, né la modifica
della destinazione d'uso di cui all'originaria concessione
edilizia (e successive varianti).
Tuttavia, non coglie nel segno il primo motivo, con
cui la ricorrente ha dedotto che l’incendio verificatosi
sarebbe da annoverare tra le “pubbliche calamità”
individuate dalla lett. d) dell’art. 17, comma 3, del DPR
380/2001 come motivo di esenzione dal pagamento del
contributo di costruzione, e ciò in relazione all’ordinanza
emessa dal dirigente del settore edilizia.
Tale provvedimento, all’opposto, è stato adottato alla luce
del fatto che i fabbricati risultavano “ammalorati ed
interessati da dissesto strutturale”: il che ha prospettato
“condizioni che non consentono l’utilizzo in sicurezza delle
unità immobiliari costituenti le porzioni di capannone in
lato nord/ovest ed il lato nord/est, poste in aderenza alla
porzione di capannone all’interno del quale si è sviluppato
l’incendio”.
Si è, pertanto, disposto il “ripristino delle condizioni
minime di sicurezza delle unità immobiliari interessate
dall’incendio mediante eliminazione delle macerie e delle
parti pericolanti, con delimitazione della zona mediante
opportune opere provvisionali atte ad interdire l’accesso
alle zone pericolose”, nonché la “verifica degli impianti
elettrici e di adduzione gas, e di tutte le eventuali
diramazioni interessanti le unità immobiliari”.
Si è, quindi, trattato di un episodio grave e dannoso per
l’impresa, ma non certo catastrofico, le cui conseguenze
nocive sono risultate arginabili mediante l’attuazione di
normali operazioni di messa in sicurezza; né, tantomeno,
risultano essere stati adottati piani di emergenza o
evacuazione dei residenti, a conferma del fatto che non è
stata messa a immediato repentaglio –se non in via del tutto
potenziale– la pubblica incolumità.
Peraltro, l’infondatezza del primo
motivo è, indirettamente, avvalorata dal tenore della
seconda censura proposta, anch’essa infondata, con cui
la ricorrente ha dedotto che l’assentito intervento
integrerebbe (solo) una manutenzione straordinaria.
La Sezione ha più volte ribadito che nell’ambito degli
interventi di ristrutturazione edilizia sono
ricompresi anche quelli consistenti nella “demolizione e
ricostruzione parziale o totale nel rispetto della
volumetria preesistente, fatte salve le sole innovazioni
necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”, e
ciò ai sensi dell’art. 27, comma 1, della legge regionale
12/2005, ai quali, inoltre, è direttamente correlata, ai
fini del calcolo del costo di costruzione, la disciplina di
cui al successivo art. 44, con eventuali riduzioni in
funzione delle modalità esecutive della ristrutturazione.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento emesso in data
11.04.2015 dal responsabile del settore governo del
territorio del Comune di Monza -sportello unico
dell’edilizia– con cui è stato comunicato il rilascio del
permesso di costruire (a seguito di domanda presentata dalla
ricorrente in data 26.11.2014), e ciò nella parte in cui è
stato richiesto il versamento del contributo di costruzione
di importo pari a € 257.377,54; della comunicazione di
conclusione del procedimento del 13.01.2015 e della
deliberazione di Giunta comunale n. 43 del 03.11.2008, con
cui è stato approvato l’aggiornamento degli oneri di
urbanizzazione e del costo base di costruzione.
...
Con ricorso ritualmente proposto la società Nu.Gu. e Ra.
s.r.l. ha impugnato, chiedendone l’annullamento, il
provvedimento emesso in data 11.04.2015 dal responsabile del
settore governo del territorio del Comune di Monza
–sportello unico dell’edilizia– con cui è stato comunicato
il rilascio del permesso di costruire (a seguito di domanda
presentata dalla ricorrente in data 26.11.2014), e ciò nella
parte in cui è stato richiesto il versamento del contributo
di costruzione di importo pari a € 257.377,54, nonché la
comunicazione di conclusione del procedimento del 13.01.2015
e la deliberazione di Giunta comunale n. 43 del 03.11.2008,
con cui è stato approvato l’aggiornamento degli oneri di
urbanizzazione e del costo base di costruzione.
La società ricorrente ha esposto di essere “proprietaria
di una parte dell’edificio sito nel Comune di Monza, in Via
... n. 1-5”, avente “destinazione produttiva
–inserito dall'attuale PGT in Area D1 “Area per insediamenti
produttivi esistenti, di contenimento della capacità
edificatoria”– realizzato in virtù di concessione edilizia
n. 102 del 16/07/1985 rilasciata dall'Amministrazione
comunale sia alla società Nu.Gu. e Ra. s.r.l. sia al signor
Ed.Fo., a cui hanno avuto seguito due concessioni edilizie
in variante” (cfr. pag. 2).
Ha soggiunto che “in data 20/09/2012, proprio presso i
locali dell'edificio produttivo in discorso, è divampato
accidentalmente un incendio che ha comportato il crollo
della porzione di fabbricato”, il che ha reso
necessaria, da parte dell’Amministrazione, l’adozione, in
data 24.09.2012, di un’ordinanza di ripristino delle
condizioni minime di sicurezza delle unità interessate
dall’incendio “per scongiurare pericoli per la pubblica
incolumità, in considerazione della gravità dell'evento che
ha comportato l'assoluta inagibilità dei locali” (cfr.
pag. 3).
Al termine dei lavori di bonifica e rimozione dei rifiuti,
la ricorrente, “conformemente alle disposizioni
dirigenziali, ha presentato in data 26.11.2014, presso lo
Sportello Unico Edilizia del Comune di Monza, istanza di
permesso di costruire per la (ricostruzione di porzione di
fabbricato produttivo esistente della superficie coperta di
mq. 3468,96 oltre una tettoia della superficie di mq 363.68”
(cfr., ancora, pag. 3), cui è seguito il rilascio del
permesso di costruire oggetto di impugnazione nella parte
relativa alla prescritta corresponsione del costo di
costruzione.
La legittimità di tale prescrizione è stata contestata
sull’assunto che “l’intervento in discorso è volto
unicamente alla ricostruzione del fabbricato totalmente
crollato a causa dell'incendio del 20.09.2012 e non comporta
alcuna alterazione di sagoma e di superficie, né la modifica
della destinazione d'uso di cui all'originaria concessione
edilizia (e successive varianti). A ciò si aggiunga che le
realizzazioni in argomento prevedono il mantenimento della
rete fognaria esistente, con il semplice adeguamento della
stessa alla normativa attuale” (cfr. pag. 4).
A fondamento dell’impugnazione sono stati dedotti i seguenti
motivi:
- 1°) violazione degli artt. 16, comma 1 e 17, comma 3 del DPR
380/2001; eccesso di potere per travisamento dei presupposti
di fatto e di diritto, ingiustizia manifesta.
Ad avviso della ricorrente “posto che, secondo la
disciplina generale, il contributo di costruzione è
eventuale e commisurato all'incidenza degli oneri di
urbanizzazione nonché al costo di costruzione, come meglio
si vedrà in seguito, l’art. 17, comma 3, lett. d), del
D.P.R. 380/2001 lo esclude, in ogni caso, per gli interventi
da realizzare in attuazione di norme o provvedimenti emanati
a seguito di pubbliche calamità. Come precisato dalla
disposizione normativa appena richiamata, in conseguenza di
eventi calamitosi (ovverosia di eventi con effetti
disastrosi) che coinvolgono la collettività –quale è, per
l'appunto, l’incendio accidentale verificatosi presso i
locali del fabbricato produttivo, che ha condotto
l'Amministrazione ad adottare immediati provvedimenti a
tutela della sicurezza e della pubblica incolumità– i
successivi interventi effettuati e da effettuare sono, per
legge, esonerati dal carico contributivo” (cfr. pag. 5).
- 2°) violazione degli artt. 44 e 45 della legge regionale 12/2005,
degli artt. 16, 17, comma 3 e 22, comma 7 del DPR 380/2001;
eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto
e di diritto, difetto d’istruttoria e illogicità manifesta.
La ricorrente ha censurato il fatto che l’Amministrazione
avrebbe chiesto il pagamento di oneri per un intervento di
ripristino di parte dell’edificio crollato, “in relazione
al quale la società proprietaria in passato ha già
provveduto alla relativa corresponsione per la sua
realizzazione” (cfr. pagg. 6–7), ignorando che il “criterio
discretivo (…) per stabilire l’assoggettabilità o meno di
una realizzazione edilizia al pagamento degli oneri di
urbanizzazione è la tipologia di intervento e i riflessi che
lo stesso ha sull’area coinvolta, in termini di
trasformazione o aggravio del carico urbanistico della
stessa” (cfr. pag. 7).
In altri termini, l’ordinamento positivo non prevedrebbe
alcun automatismo nell’applicazione degli oneri concessori,
tale principio trovando conferma negli “incisi “se
dovuti” contenuti nella disposizione di cui all’art. 44
della L.R. Lombardia n. 12/2005” oltre che nell’art. 22
del testo unico dell’edilizia, che al comma 7 ammette
l’esenzione dall’obbligo di pagamento per gli interventi
qualificabili come “manutenzione straordinaria” ai
sensi dell’art. 3 del citato testo unico, come modificato
dal D.L. 133/2014, convertito nella legge 164/2014:
fattispecie che si attaglierebbe al caso di specie (cfr.
pag. 8).
- 3°) violazione dell’art. 3 della legge 241/1990, degli artt. 41 e
43 della Costituzione e dei principi di buona
Amministrazione.
La ricorrente ha, infine, dedotto che l’impugnato
provvedimento “non contiene nemmeno l’espressa
indicazione delle operazioni di calcolo che hanno condotto
all'individuazione di quel determinato ammontare ed in
presenza delle quali la giurisprudenza ritiene adempiuto
l'onere motivazionale” (cfr. pag. 11).
Si è costituito in giudizio il Comune di Monza (01.07.2015),
eccependo, nella memoria del 20.7.2015, l’inammissibilità
del ricorso in riferimento agli ulteriori provvedimenti
impugnati in via presupposta, i quali non sarebbero lesivi
della sfera giuridica della società ricorrente; nel merito
ha opposto che “l’evento definito dal ricorrente come
"calamitoso" non è né tale né, tantomeno, "pubblico" in
quanto, come si evidenzia dagli atti di controparte, non ha
assunto proporzioni tali da coinvolgere una pluralità
indefinita di soggetti, ma è rimasto circoscritto al
capannone della ricorrente ed a quello confinante, ed è
stato fronteggiato con gli ordinari mezzi di intervento dei
VV.FT., Polizia, ecc., senza che fosse necessario far
intervenire, ad esempio, la Protezione Civile la quale,
invece, è sempre chiamata a svolgere la propria funzione
laddove vi siano eventi effettivamente riconducibili alla
pubblica calamità”, e che, comunque, la messa in
sicurezza oggetto dell’ordinanza comunale rientrerebbe
nell’ordinaria amministrazione (cfr. pag. 6); ha, inoltre,
contestato “il tentativo di controparte di qualificare
come manutenzione straordinaria l'intervento per il quale è
stata presentata dalla stessa ricorrente, domanda di
permesso di costruire” (cfr. pag. 10), che, invece,
integrerebbe una ristrutturazione edilizia; che, infine, la
ricorrente sarebbe stata “perfettamente a conoscenza
delle previsioni normative che impongono il versamento del
contributo di costruzione nei casi di rilascio di permesso
di costruire. nonché della deliberazione di Consiglio
Comunale n. 43 del 03/11/2008 di aggiornamento degli oneri
di urbanizzazione e aggiornamento del costo base di
costruzione” (cfr. pag. 14).
Con
ordinanza 27.07.2015 n. 977 la Sezione ha
ritenuto di riservarsi nel merito sulle questioni oggetto
del giudizio, concedendo “la misura cautelare
subordinatamente alla prestazione, da parte della
ricorrente, di una garanzia bancaria o assicurativa con
clausola “a prima richiesta” in favore del Comune di Monza,
per un importo pari a quello indicato nel provvedimento
impugnato”.
...
Nel merito, il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto.
Non coglie nel segno il primo motivo, con cui la
ricorrente ha dedotto che l’incendio verificatosi in data
20.09.2012 sarebbe da annoverare tra le “pubbliche
calamità” individuate dalla lett. d) dell’art. 17, comma
3, del DPR 380/2001 come motivo di esenzione dal pagamento
del contributo di costruzione, e ciò in relazione
all’ordinanza emessa in data 24.09.2012 dal dirigente del
settore edilizia.
Tale provvedimento, all’opposto, è stato adottato alla luce
del fatto che i fabbricati risultavano “ammalorati ed
interessati da dissesto strutturale”: il che ha
prospettato “condizioni che non consentono l’utilizzo in
sicurezza delle unità immobiliari costituenti le porzioni di
capannone in lato nord/ovest ed il lato nord/est, poste in
aderenza alla porzione di capannone all’interno del quale si
è sviluppato l’incendio”.
Si è, pertanto, disposto il “ripristino delle condizioni
minime di sicurezza delle unità immobiliari interessate
dall’incendio mediante eliminazione delle macerie e delle
parti pericolanti, con delimitazione della zona mediante
opportune opere provvisionali atte ad interdire l’accesso
alle zone pericolose”, nonché la “verifica degli
impianti elettrici e di adduzione gas, e di tutte le
eventuali diramazioni interessanti le unità immobiliari”.
Si è, quindi, trattato di un episodio grave e dannoso per
l’impresa, ma non certo catastrofico, le cui conseguenze
nocive sono risultate arginabili mediante l’attuazione di
normali operazioni di messa in sicurezza; né, tantomeno,
risultano essere stati adottati piani di emergenza o
evacuazione dei residenti, a conferma del fatto che non è
stata messa a immediato repentaglio –se non in via del tutto
potenziale– la pubblica incolumità.
Peraltro, l’infondatezza del primo motivo è, indirettamente,
avvalorata dal tenore della seconda censura proposta,
anch’essa infondata, con cui la ricorrente ha dedotto che
l’assentito intervento integrerebbe (solo) una manutenzione
straordinaria.
La Sezione ha più volte ribadito (cfr., tra le tante, la
sentenza 18.05.2010, n. 1566) che nell’ambito degli
interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi
anche quelli consistenti nella “demolizione e
ricostruzione parziale o totale nel rispetto della
volumetria preesistente, fatte salve le sole innovazioni
necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”,
e ciò ai sensi dell’art. 27, comma 1, della legge regionale
12/2005, ai quali, inoltre, è direttamente correlata, ai
fini del calcolo del costo di costruzione, la disciplina di
cui al successivo art. 44, con eventuali riduzioni in
funzione delle modalità esecutive della ristrutturazione.
Nella specie, poi, il Comune di Monza si è dato una puntuale
regolamentazione mediante l’aggiornamento degli oneri di
urbanizzazione e del costo base di costruzione, approvato
con la deliberazione di G.C. n. 43 del 03.11.2008 (impugnata
dalla società ricorrente, ma senza articolare alcuna
specifica censura), la quale ha previsto che per gli
interventi di ristrutturazione comportanti demolizione e
ricostruzione si applichino gli oneri di urbanizzazione
relativi alle nuove costruzioni (dettagliati nell’allegato
B).
Conseguentemente, l’espressione contenuta nella nota del
13.01.2015 (in cui il responsabile dello sportello unico
dell’edilizia ha fatto cenno al “calcolo dell’eventuale
contributo di costruzione”) non può essere enfatizzata
alla luce della piana applicazione della normativa primaria
e secondaria, richiamata dall’Amministrazione nella
motivazione del permesso di costruire (il che determina
l’infondatezza del terzo motivo di ricorso).
In conclusione, il ricorso va respinto (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 25.05.2016 n. 1079 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Al
fine di ravvisare il silenzio-inadempimento
dell'amministrazione, deve essere riscontrato il duplice
presupposto dell’omessa conclusione del procedimento
amministrativo entro il termine astrattamente previsto per
il procedimento del tipo evocato con l'istanza, e
dell’inottemperanza a un preciso obbligo di provvedere
sull’istanza del privato.
---------------
Il
nostro ordinamento vede con
particolare disfavore l’ottenimento di benefici originato da
dichiarazioni false.
L'’art. 75 del D.P.R. 445/2000, in tema di controllo di
veridicità delle dichiarazioni sostitutive, prevede che “Fermo
restando quanto previsto dall'articolo 76, qualora dal
controllo di cui all'articolo 71 emerga la non veridicità
del contenuto della dichiarazione il dichiarante decade dai
benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato
sulla base della dichiarazione non veritiera”.
In base all'art. 75 predetto “la non veridicità
della dichiarazione sostitutiva presentata comporta la
decadenza dai benefici eventualmente conseguiti, senza che
tale disposizione (per la cui applicazione si prescinde
dalla condizione soggettiva del dichiarante, rispetto alla
quale sono irrilevanti il complesso delle giustificazioni
addotte) lasci alcun margine di discrezionalità alle
Amministrazioni; pertanto la norma in parola non richiede
alcuna valutazione circa il dolo o la grave colpa del
dichiarante, facendo invece leva sul principio di auto
responsabilità”.
In materia di gare d’appalto, le dichiarazioni mendaci non
possono essere regolarizzate e, una volta che
l’amministrazione abbia conseguito la certezza della non
veridicità di quanto dichiarato, ha il dovere di trarne le
necessarie conseguenze, senza alcuna possibilità di fare
applicazione dell’art. 21-nonies della L. 241/1990, le cui
disposizioni riguardano esclusivamente i procedimenti di
autotutela aventi natura tipicamente discrezionale.
Anche in materia di benefici ottenuti grazie alla
qualificazione di IAFR (impianti alimentati da fonti
rinnovabili), la previsione ex lege delle conseguenze
della dichiarazione non veritiera in termini di decadenza
automatica rende la determinazione del GSE vincolata nei
suoi contenuti, con connotazione della stessa in termini di
automaticità, per cui risulta evidente la non operatività
dell’art. 21-nonies, comma 1, della L. 241/1990 .
---------------
In materia di segnalazione di inizio attività, l’art. 19
della L. 241/1990 statuisce che, decorso il termine di legge
per adottare provvedimenti inibitori ovvero di conformazione
(60 giorni dal ricevimento della dichiarazione),
l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti
previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni
previste dall'articolo 21-nonies (riguardante i presupposti
per l’annullamento d’ufficio).
Tale essendo la disciplina posta dell’art. 19 citato,
in tema di liberalizzazione (in senso lato) della attività
economiche, dalla disamina congiunta della disciplina
racchiusa nei commi 3 e 4, <<si evince agevolmente che
l’Amministrazione procedente può vietare (o, comunque,
interdire, conformare ovvero chiedere integrazioni
documentali), ai sensi del comma 3, in relazione
all’attività commerciale comunicata con segnalazione
certificata di attività entro il termine di sessanta giorni
dalla presentazione della stessa, mentre, successivamente al
decorso di tale termine, ai sensi del successivo comma 4,
residua in capo alla predetta Amministrazione, un analogo
potere che non può configurarsi quale autotutela in quanto
la dichiarazione del privato resta tale anche dopo il
termine di sessanta giorni e non si trasforma in
provvedimento amministrativo nei confronti del quale sarebbe
ipotizzabile un’attività di autotutela; sul punto il potere
di intervento successivo della P.A. si sostanzia nell’uso di
poteri inibitori soggetti a limiti imposti per legge, per i
quali, non a caso, la legge n. 124/1915 ha correttamente
eliminato la definizione di “autotutela”, operando un
richiamo all’art. 21-nonies, co. 1, L. n. 241/1990>>;
In effetti, la vicenda di cui si discorre non è stata
originata da una SCIA, e tuttavia potrebbe rientrare nella
casistica delle dichiarazioni mendaci, per la quale il
legislatore prevede tassativamente la decadenza dei benefici
ritratti dal loro autore;
IL comma 2-bis all’art. 21-nonies, introdotto
dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 2, della L. 124/2015,
statuisce che l’amministrazione conserva il potere di
intervenire dopo la scadenza del richiamato termine per
l’annullamento d’ufficio (18 mesi) proprio nel caso in cui i
provvedimenti amministrativi siano stati “conseguiti
sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di
dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di
notorietà false o mendaci per effetto di condotte
costituenti reato”, seppur previo accertamento con sentenza
passata in giudicato.
---------------
Laddove una concessione edilizia sia
stata ottenuta in base ad una falsa rappresentazione dello
stato effettivo dei luoghi negli elaborati progettuali, al
Comune è consentito di esercitare il proprio potere di
autotutela ritirando l'atto concessorio senza necessità di esternare
alcuna particolare ragione di pubblico interesse (cfr. TAR
Campania Napoli, sez. III – 07/11/2016 n. 5141 –che risulta
appellata– e la giurisprudenza citata, tra cui la pronuncia
di questo TAR 20/11/2002 e TAR Campania Napoli, sez. VI –
12/05/2016 n. 2416, ad avviso del quale in materia di
annullamento d'ufficio dei titoli edilizi, quando l'operato
dell'amministrazione sia stato fuorviato dall'erronea o
falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica
ed espressa motivazione sull'interesse pubblico, che va
individuato nell’aspirazione della collettività al rispetto
della disciplina urbanistica, e in questi casi, si è quindi
al cospetto di un atto vincolato).
In argomento, si è pronunciato il Consiglio di Stato
rilevando che
qualificata giurisprudenza di primo grado ha affermato il principio secondo
il quale “in materia di annullamento d’ufficio di titoli
edilizi (nella specie, un’attestazione di conformità in
sanatoria), nei casi in cui l’operato dell’Amministrazione
sia stato fuorviato dalla erronea o falsa rappresentazione
dei luoghi, non occorre una specifica ed espressa
motivazione sull’interesse pubblico, che va individuato
nell’interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica”.
Sicché, la falsità dichiarativa impedisce anche la maturazione
in capo all’autore di un affidamento meritevole di
protezione, e siffatta carenza non può non incidere (in
senso favorevole all’amministrazione) anche sulla
valutazione della ragionevolezza del termine entro il quale
dovesse intervenire il provvedimento di autotutela
(riferimento temporale cui parametrare normativamente la
tempestività dell’esercizio del potere di annullamento
d’ufficio).
---------------
Secondo l’art. 6, comma 1, lett. a), della L.
241/1990, spetta al responsabile del procedimento valutare “ai
fini istruttori, le condizioni di ammissibilità, i requisiti
di legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per
l'emanazione di provvedimento”.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato è attestata nel
senso che, prima di accordare un permesso di costruire (o
una sanatoria edilizia) l’amministrazione debba verificare
la situazione di diritto e di fatto, anche se solo nei
limiti richiesti dalla ragionevolezza e dalla comune
esperienza.
Ai sensi dell’art. 11 del D.P.R. 380/2001 il Comune, nel
verificare l’esistenza in capo al richiedente un permesso
edilizio di un idoneo titolo di godimento sull’immobile, non
deve risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti
private in ordine all’assetto proprietario, ma deve
accertare soltanto il requisito della legittimazione
soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l’amministrazione è tenuta a svolgere
un livello minimo di istruttoria che comprende
l’acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a
dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento
soggettivo tra chi propone l’istanza e il bene giuridico
oggetto dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di
godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima
intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato
soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle
attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
---------------
Evidenziato:
- che il ricorrente riferisce di essere proprietario di un
appartamento ubicato nel Comune di Castiglione delle
Stiviere in Via ... n. 9, catastalmente identificato al
foglio 16, mappale n. 220, sub. 7, 11 e 17, e confinante con
l’immobile di proprietà dei Sigg.ri Bo., a sua volta
identificato in catasto al foglio 16, mappale n. 220, sub.
5, 8 e 13;
- che, a seguito dell’istanza depositata da uno dei
controinteressati per realizzare un sopralzo della copertura
in legno dell’appartamento (in modo da creare una soffitta
non abitabile), il Comune rilasciava nel 2011 il permesso di
costruire n. 603, e nel 2015 il titolo abilitativo in
sanatoria n. 940, ritualmente impugnato dal ricorrente con
gravame r.g. 1233/2016, ad oggi pendente innanzi a questo
TAR;
- che il controinteressato, in sede di richiesta del titolo
edilizio, ha affermato di essere proprietario dell’edificio
identificato –al NCEU del Comune di Castiglione– al foglio
16, mappali 220 e 206 (cfr. dichiarazione sostitutiva del
04/04/2011 - doc. 1), quando, nell’anno 2010, il medesimo
aveva alienato all’odierno ricorrente l’appartamento
identificato al mappale 220, sub 7, 17 e 11 (cfr. doc. 2);
- che risulterebbe evidente la non rispondenza al vero della
dichiarazione rilasciata dal controinteressato al Comune di
Castiglione delle Stiviere;
- che la circostanza avrebbe tratto in errore
l’amministrazione intimata, la quale ha emesso un titolo
abilitativo in relazione ad un edificio di cui il
richiedente non aveva la piena disponibilità;
- che, in base all’attestazione non veritiera del Sig.
Gi.Bo., il Comune avrebbe indebitamente emanato un permesso
di costruire, atteso che gli artt. 10 e 17 delle NTA del
Piano delle regole del PGT vigente prevedono, per gli
immobili ricadenti in zona B3 (“Ambito residenziale
consolidato di salvaguardia ambientale”) il rispetto,
per qualsiasi edificazione o ampliamento di fabbricati
esistenti, della distanza di 5 metri dai confini e il
divieto di recupero a fini abitativi dei sottotetti;
- che la dichiarazione infedele, nell’ambito della
disciplina dettata dal D.P.R. 445/2000, precluderebbe al
dichiarante il raggiungimento dello scopo cui era
indirizzata, e provocherebbe la decadenza dall’utilitas
conseguita per effetto del mendacio;
- che, alla luce della situazione sottostante, sussisterebbe
in capo al Comune intimato l’obbligo di provvedere
sull’istanza presentata dal ricorrente in data 02/11/2016,
con la conseguente illegittimità del silenzio serbato;
- che, in aggiunta, trattandosi di attività vincolata,
sussisterebbe anche il dovere per l’amministrazione di
adottare il provvedimento di decadenza e/o annullamento in
autotutela del permesso di costruire, rilasciato al
controinteressato sulla base di una dichiarazione falsa;
- che, pertanto, essendo l’amministrazione comunale rimasta
inerte, con l’introdotto ricorso l’esponente chiede che sia
dichiarato l’obbligo di provvedere ai sensi dell’art. 31,
comma 1, del Cpa, nonché l’accertamento della fondatezza
della pretesa avanzata ai sensi dell’art. 31 comma 3 e 34,
comma 1, lett. c) Cpa, con la conseguente condanna ad
adottare il provvedimento richiesto;
- che, in subordine, il Sig. Pi. insiste affinché sia
acclarato comunque il dovere del Comune di assumere un atto
formale a riscontro dell’istanza del privato;
- che, in ogni caso, chiede di nominare, in caso di
perdurante inerzia dell’amministrazione, un Commissario
ad acta che provveda in via sostitutiva;
Considerato:
- che, ad avviso del controinteressato costituito, il
ricorrente non contesta la proprietà dell’immobile inciso
dall’intervento di sopralzo, ma solo il fatto che
quest’ultimo sia stato realizzato in violazione delle
disposizioni comunali in tema di distanze/distacchi;
- che detta questione sarebbe del tutto estranea al
contenuto della dichiarazione del 2011 invocata
dall’esponente, mentre risulterebbe del tutto veritiera per
poter compiere l’intervento, dando conto della
legittimazione richiesta;
- che il controinteressato sarebbe ancor oggi proprietario
dell’edificio rispetto al quale è stato realizzato il
sopralzo, essendosi privato di una sola porzione
dell’immobile, ossia dei mappali sub 6 (appartamento) e 10
(autorimessa), oggetto della compravendita;
- che il ricorrente, al fine di ottenere il titolo edilizio,
avrebbe affermato al Comune la sua posizione di proprietario
dell’immobile ove è stato edificato il sopralzo, a
prescindere dalla circostanza che l’intervento potesse
violare i diritti dei terzi (problematica da affrontare
negli ulteriori giudizi già instaurati);
- che, siccome il controinteressato non ha invaso la
proprietà altrui (riguardando le opere esclusivamente il
proprio perimetro di proprietà) il Sig. Pi. avrebbe
palesemente travisato la dichiarazione resa nel 2011 ai fini
del rilascio del permesso di costruire;
- che, in diritto, in presenza di un silenzio-rifiuto
sull’istanza di esercizio dei poteri in autotutela, non
sarebbe configurabile alcun obbligo giuridico di provvedere
espressamente, trattandosi di richiesta avente natura
meramente sollecitatoria;
Rilevato, sotto il profilo giuridico:
- che, al fine di ravvisare il silenzio-inadempimento
dell'amministrazione, deve essere riscontrato il duplice
presupposto dell’omessa conclusione del procedimento
amministrativo entro il termine astrattamente previsto per
il procedimento del tipo evocato con l'istanza, e
dell’inottemperanza a un preciso obbligo di provvedere
sull’istanza del privato (cfr. sentenza di questo TAR, sez. II – 23/03/2016 n. 442);
- che, ad avviso della parte ricorrente, nella fattispecie
non si controverte circa la sussistenza o meno in capo al
Sig. Bo. della legittimazione a presentare la domanda di
permesso di costruire, ma sul fatto che costui, dichiarando
falsamente di essere proprietario dell’intero edificio, ha
ottenuto un’utilità che, diversamente, non avrebbe
conseguito;
- che controparte, infatti, avrebbe attestato e
rappresentato di essere proprietaria unica dell’immobile,
senza indicare l’avvenuta cessione parziale al ricorrente,
né (conseguentemente) i limiti di proprietà dai quali
calcolare la distanza dai confini;
- che detto ordine di idee merita condivisione;
- che il nostro ordinamento vede con particolare disfavore
l’ottenimento di benefici originato da dichiarazioni false;
- che l’art. 75 del D.P.R. 445/2000, in tema di controllo di
veridicità delle dichiarazioni sostitutive, prevede che “Fermo
restando quanto previsto dall'articolo 76, qualora dal
controllo di cui all'articolo 71 emerga la non veridicità
del contenuto della dichiarazione il dichiarante decade dai
benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato
sulla base della dichiarazione non veritiera”;
- che, secondo l’indirizzo del Consiglio di Stato, sez. V –
15/03/2017 n. 1172 (che richiama sez. V – 03/02/2016 n.
404), in base all'art. 75 predetto “la non veridicità
della dichiarazione sostitutiva presentata comporta la
decadenza dai benefici eventualmente conseguiti, senza che
tale disposizione (per la cui applicazione si prescinde
dalla condizione soggettiva del dichiarante, rispetto alla
quale sono irrilevanti il complesso delle giustificazioni
addotte) lasci alcun margine di discrezionalità alle
Amministrazioni; pertanto la norma in parola non richiede
alcuna valutazione circa il dolo o la grave colpa del
dichiarante, facendo invece leva sul principio di auto
responsabilità”;
- che, in materia di gare d’appalto, le dichiarazioni
mendaci non possono essere regolarizzate e, una volta che
l’amministrazione abbia conseguito la certezza della non
veridicità di quanto dichiarato, ha il dovere di trarne le
necessarie conseguenze, senza alcuna possibilità di fare
applicazione dell’art. 21-nonies della L. 241/1990, le cui
disposizioni riguardano esclusivamente i procedimenti di
autotutela aventi natura tipicamente discrezionale (cfr. TAR
Lazio Roma, sez. II – 14/11/2016 n. 11286 e la
giurisprudenza ivi citata);
- che, anche in materia di benefici ottenuti grazie alla
qualificazione di IAFR (impianti alimentati da fonti
rinnovabili), la previsione ex lege delle conseguenze
della dichiarazione non veritiera in termini di decadenza
automatica rende la determinazione del GSE vincolata nei
suoi contenuti, con connotazione della stessa in termini di
automaticità, per cui risulta evidente la non operatività
dell’art. 21-nonies, comma 1, della L. 241/1990 (Consiglio
di Stato, sez. IV – 21/12/2015 n. 5799);
- che, in materia di segnalazione di inizio attività, l’art.
19 della L. 241/1990 statuisce che, decorso il termine di
legge per adottare provvedimenti inibitori ovvero di
conformazione (60 giorni dal ricevimento della
dichiarazione), l'amministrazione competente adotta comunque
i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza
delle condizioni previste dall'articolo 21-nonies
(riguardante i presupposti per l’annullamento d’ufficio);
- che, secondo TAR Campania Napoli, sez. III – 26/04/2017 n.
2235, tale essendo la disciplina posta dell’art. 19 citato,
in tema di liberalizzazione (in senso lato) della attività
economiche, dalla disamina congiunta della disciplina
racchiusa nei commi 3 e 4, <<si evince agevolmente che
l’Amministrazione procedente può vietare (o, comunque,
interdire, conformare ovvero chiedere integrazioni
documentali), ai sensi del comma 3, in relazione
all’attività commerciale comunicata con segnalazione
certificata di attività entro il termine di sessanta giorni
dalla presentazione della stessa, mentre, successivamente al
decorso di tale termine, ai sensi del successivo comma 4,
residua in capo alla predetta Amministrazione, un analogo
potere che non può configurarsi quale autotutela in quanto
la dichiarazione del privato resta tale anche dopo il
termine di sessanta giorni e non si trasforma in
provvedimento amministrativo nei confronti del quale sarebbe
ipotizzabile un’attività di autotutela; sul punto il potere
di intervento successivo della P.A. si sostanzia nell’uso di
poteri inibitori soggetti a limiti imposti per legge, per i
quali, non a caso, la legge n. 124/1915 ha correttamente
eliminato la definizione di “autotutela”, operando un
richiamo all’art. 21-nonies, co. 1, L. n. 241/1990>>;
- che, in effetti, la vicenda di cui si discorre non è stata
originata da una SCIA, e tuttavia potrebbe rientrare nella
casistica delle dichiarazioni mendaci, per la quale il
legislatore prevede tassativamente la decadenza dei benefici
ritratti dal loro autore;
- che il comma 2-bis all’art. 21-nonies, introdotto
dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 2, della L. 124/2015,
statuisce che l’amministrazione conserva il potere di
intervenire dopo la scadenza del richiamato termine per
l’annullamento d’ufficio (18 mesi) proprio nel caso in cui i
provvedimenti amministrativi siano stati “conseguiti
sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di
dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di
notorietà false o mendaci per effetto di condotte
costituenti reato”, seppur previo accertamento con
sentenza passata in giudicato;
Rilevato:
- che, laddove una concessione edilizia sia stata ottenuta
in base ad una falsa rappresentazione dello stato effettivo
dei luoghi negli elaborati progettuali, al Comune è
consentito di esercitare il proprio potere di autotutela
ritirando l'atto concessorio senza necessità di esternare
alcuna particolare ragione di pubblico interesse (cfr. TAR
Campania Napoli, sez. III – 07/11/2016 n. 5141 –che risulta
appellata– e la giurisprudenza citata, tra cui la pronuncia
di questo TAR 20/11/2002 e TAR Campania Napoli, sez. VI –
12/05/2016 n. 2416, ad avviso del quale in materia di
annullamento d'ufficio dei titoli edilizi, quando l'operato
dell'amministrazione sia stato fuorviato dall'erronea o
falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica
ed espressa motivazione sull'interesse pubblico, che va
individuato nell’aspirazione della collettività al rispetto
della disciplina urbanistica, e in questi casi, si è quindi
al cospetto di un atto vincolato);
- che, in argomento, si è pronunciato il Consiglio di Stato
(cfr. sez. IV – 31/08/2016 n. 3735), rilevando che
qualificata giurisprudenza di primo grado (TAR Toscana, sez.
III – 27/05/2015 n. 825), ha affermato il principio secondo
il quale “in materia di annullamento d’ufficio di titoli
edilizi (nella specie, un’attestazione di conformità in
sanatoria), nei casi in cui l’operato dell’Amministrazione
sia stato fuorviato dalla erronea o falsa rappresentazione
dei luoghi, non occorre una specifica ed espressa
motivazione sull’interesse pubblico, che va individuato
nell’interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica”;
- che la falsità dichiarativa impedisce anche la maturazione
in capo all’autore di un affidamento meritevole di
protezione, e siffatta carenza non può non incidere (in
senso favorevole all’amministrazione) anche sulla
valutazione della ragionevolezza del termine entro il quale
dovesse intervenire il provvedimento di autotutela
(riferimento temporale cui parametrare normativamente la
tempestività dell’esercizio del potere di annullamento
d’ufficio – TAR Campania Salerno, sez. I – 02/03/2017 n.
411);
Tenuto conto:
- che, secondo l’art. 6, comma 1, lett. a), della L.
241/1990, spetta al responsabile del procedimento valutare “ai
fini istruttori, le condizioni di ammissibilità, i requisiti
di legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per
l'emanazione di provvedimento”;
- che la giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. sez. IV
– 05/06/2017 n. 2648 e i precedenti citati) è attestata nel
senso che, prima di accordare un permesso di costruire (o
una sanatoria edilizia) l’amministrazione debba verificare
la situazione di diritto e di fatto, anche se solo nei
limiti richiesti dalla ragionevolezza e dalla comune
esperienza;
- che, ai sensi dell’art. 11 del D.P.R. 380/2001 il Comune,
nel verificare l’esistenza in capo al richiedente un
permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento
sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di
interesse tra le parti private in ordine all’assetto
proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della
legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso;
- che, in tal senso, l’amministrazione è tenuta a svolgere
un livello minimo di istruttoria che comprende
l’acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a
dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento
soggettivo tra chi propone l’istanza e il bene giuridico
oggetto dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di
godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima
intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato
soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle
attività sottoposte al controllo autorizzatorio (TAR
Lombardia Milano, sez. II – 31/01/2017 n. 235);
- che, nel caso di specie, si denuncia che il Comune ha
trascurato di valutare (per la dichiarazione mendace o
comunque fuorviante dell’istante) la reale situazione di
fatto, ossia che la proprietà del fabbricato non era estesa
all’intero mappale 220 ma solo a una frazione di esso, con
conseguente omessa verifica delle condizioni correlate (in
particolare, il rispetto delle distanze);
- che detta omissione formale ha provocato un grave deficit
istruttorio, che ha indotto l’amministrazione a non indagare
la sussistenza di determinati presupposti, indispensabili
per il rilascio del titolo;
Ritenuto:
- che, alla luce delle considerazioni diffusamente espresse,
sussiste l’obbligo del Comune intimato di pronunciarsi
tempestivamente sulla domanda del privato ricorrente;
- che, diversamente da quanto richiesto in via principale,
non si ritiene di poter adottare il provvedimento in luogo
dell’amministrazione competente, in quanto la vicenda merita
ulteriori approfondimenti spettanti all’autorità
amministrativa e riguardanti:
a) l’effettività e la rilevanza della “falsità” o comunque
il carattere fuorviante della dichiarazione, tenuto conto
dell’avvenuta suddivisione del mappale di cui si è dato
conto;
b) l’individuazione delle norme di legge e delle regole della
pianificazione urbanistica comunale pertinenti;
c) le valutazioni sulla sussistenza di una potestà di autotutela e
sulla ricorrenza delle condizioni per esercitarla;
- che, alla luce di ciò, sussiste unicamente il presupposto
per l’accoglimento della domanda formulata in via
subordinata;
- che, in definitiva, deve essere dichiarato l’obbligo del
Comune di Castiglione delle Stiviere di provvedere
sull’istanza, secondo le seguenti scansioni temporali:
• entro il 20.06.2017, il Comune dovrà attivare il procedimento di
verifica sollecitato dal ricorrente, dando la comunicazione
di avvio al medesimo e al soggetto controinteressato;
• entro il 15.07.2017, il Comune dovrà aver completato l’attività
istruttoria;
• entro il 31.07.2017 dovrà essere emesso l’atto finale (con
trasmissione di copia di esso a questo all’interessato e a
questo TAR);
- che, in accoglimento dell’istanza di parte ricorrente, si
nomina sin da ora quale Commissario ad acta il
dirigente del Settore Sportello dell’Edilizia (Area
Pianificazione Urbana e Mobilità) del Comune di Brescia, con
facoltà di delega;
- che quest’ultimo (ove il Comune non provveda entro la
scadenza indicata del 31.07.2017) dovrà insediarsi
tempestivamente, e compiere la propria attività entro e non
oltre 60 (sessanta) giorni, per poi relazionare a questo
TAR;
- che, in caso di ulteriori ritardi anche del Commissario,
questo Tribunale, previa istanza di parte, provvederà ad
assumere i provvedimenti necessari e a segnalare l’inerzia
alle competenti autorità, anche giurisdizionali, per la
valutazione degli eventuali e concorrenti profili di
responsabilità;
- che, in conclusione, il ricorso è fondato e merita
accoglimento nei limiti sopra esposti
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 09.06.2017 n. 765 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Mentre
le linee guida dell'ANAC si distinguono in
vincolanti e non vincolanti, va invece senz’altro
affermata la natura di meri pareri dei comunicati del
Presidente dell’ANAC, privi di qualsivoglia efficacia
vincolante per le stazioni appaltanti, trattandosi di meri
opinamenti inerenti l’interpretazione della normativa in
tema di appalti pubblici.
Invero, non può ammettersi nel vigente quadro
costituzionale, in tal delicato settore, un generale
vincolante potere interpretativo con effetto erga omnes
affidato ad organo monocratico di Autorità Amministrativa
Indipendente, i cui comunicati ermeneutici -per quanto
autorevoli- possono senz’altro essere disattesi.
---------------
Nessuna decisiva rilevanza può
attribuirsi al comunicato del Presidente dell’ANAC
del 05.10.2016 pervicacemente invocato dalla difesa della
ricorrente.
Come noto, il Codice degli appalti pubblici
approvato con D.lgs. 50 del 2016 ha previsto per la relativa
attuazione, in completa rottura rispetto al sistema
precedente, non più un’unica fonte regolamentare avente
forma e sostanza di regolamento governativo bensì una
pluralità di atti, di natura eterogenea, tra cui per quello
che qui interessa, le linee guida approvate dall’ANAC.
Tali linee guida, costituendo
una novità assoluta nella contrattualistica pubblica, si
distinguono in vincolanti (vedi ad es. art. 31, comma
5, D.lgs. 50/2016) e non vincolanti, quest’ultime
invero molto più frequenti e assimilabili -secondo una tesi-
alla categoria di stampo internazionalistico della c.d.
“soft law”
oppure -seconda altra opzione- alle circolari
intersoggettive interpretative con rilevanza esterna,
operando il Codice appalti un rinvio formale alle linee
guida (es. art. 36, comma 7, D.lgs. 50/2016).
Senza dover affrontare tale tematica, per quel che qui
rileva va invece senz’altro affermata la
natura di meri pareri dei comunicati del Presidente
dell’ANAC, privi di qualsivoglia efficacia vincolante per le
stazioni appaltanti, trattandosi di meri opinamenti inerenti
l’interpretazione della normativa in tema di appalti
pubblici.
Infatti, per quanto a norma dell’art. 213 del D.lgs. 50 del
2016 il novero dei poteri e compiti di vigilanza affidati
all’ANAC sia invero penetrante ed esteso, a presidio della
più ampia legalità nell’attività contrattuale delle stazioni
appaltanti e della prevenzione della corruzione,
non può ammettersi nel vigente quadro
costituzionale, in tal delicato settore, un generale
vincolante potere interpretativo con effetto erga omnes
affidato ad organo monocratico di Autorità Amministrativa
Indipendente, i cui comunicati ermeneutici -per
quanto autorevoli- possono senz’altro essere disattesi.
Diversamente dalle linee guida, per
la cui formazione è previsto un percorso procedimentalizzato
e partecipato
(vedi
art. 213, comma 2, D.lgs. 50 del 2016) -nel solco
d’altronde degli stessi principi affermati dalla
giurisprudenza in tema di esercizio di poteri di tipo
normativo o regolatorio da parte di Autorità Indipendenti-
i comunicati del Presidente dell’ANAC sono
dunque pareri atipici e privi di efficacia vincolante per la
stazione appaltante e gli operatori economici.
Alla stregua delle suesposte considerazioni
nessuna rilevanza può dunque avere, ai fini del
presente giudizio, il comunicato ANAC del 05.10.2016
da cui la Regione Umbria poteva discostarsi senza dover
fornire alcuna motivazione.
---------------
Viene all’esame del Collegio la corretta interpretazione
dell’art. 97, comma 2, lett. e), del D.lgs. 50/2016 ed in
particolare la questione se nel caso di offerte recanti
l’identico ribasso, ai fini del c.d. taglio delle ali,
devono essere conteggiati o meno tutti i ribassi, con
conseguente possibile esclusione di un numero di offerte
superiore alla percentuale del 10% delle offerte di maggiore
o minor ribasso.
Ritiene il Collegio la suindicata questione interpretativa
particolarmente problematica sicché ritiene, altresì, di
dover sospendere il giudizio sino alla pubblicazione della
decisione dell’Adunanza Plenaria a seguito della rimessione
operata dalla V Sezione del Consiglio di Stato.
---------------
1.- Con il ricorso in epigrafe Ri.Co. s.r.l. impugna gli
atti inerenti la gara d’appalto indetta dalla Regione Umbria
ai sensi dell’art. 60 del D.lgs. 50/2016 per l’affidamento
delle opere di urbanizzazione primaria per le soluzioni
abitative d’emergenza presso il Comune di Norcia in seguito
agli eventi sismici che hanno recentemente colpito anche il
territorio umbro.
Con ordinanza n. 394 del 19.09.2016 a firma del Capo
Dipartimento della Protezione civile, la Regione Umbria è
stata indicata quale soggetto attuatore delle attività
preliminari all’insediamento delle soluzioni abitative
d’emergenza, anche in parziale deroga alla vigente
disciplina in materia di appalti pubblici (art. 5 cit.
ordinanza).
Il bando è stato pubblicato sulla G.U.R.I. V Serie Speciale
Contratti Pubblici n. 151 del 30.12.2016 con importo a base
d’asta di 3.222.326,55 euro e criterio di aggiudicazione del
prezzo più basso ai sensi dell’art. 60 del D.lgs. 50 del
2016.
Alla procedura aperta hanno partecipato 265 concorrenti (tra
cui l’impresa ricorrente) e il calcolo della soglia di
anomalia sorteggiato dalla Commissione è risultato quello
previsto dalla lett. e) dell’art. 97, comma 2, del D.lgs.
50/2016 (c.d. taglio delle ali).
Nell’individuare le offerte con minor ribasso da accantonare
nella percentuale del 10% la Commissione escludeva 28
offerte in luogo delle 27, ritenendo come unica offerta le
pervenute due offerte identiche tra quelle con minor ribasso
(13,2230% proposte da Ni. s.r.l. e dall’a.t.i. Im.Ed.Ma.
s.r.l.) entrambe dunque accantonate nel taglio delle ali,
con conseguente determinazione della soglia di anomalia nel
ribasso pari a 25,699%.
Con determinazione dirigenziale n. 902 del 03.02.2017 la
gara è stata definitivamente aggiudicata in favore della
Ma.Co. s.r.l. con un ribasso del 25,695% e in data
27.02.2017 è stato stipulato il contratto il quale allo
stato attuale risulta in gran parte eseguito (in misura
dell’85% secondo quanto risultante dagli atti di causa e
rappresentato dalla difesa regionale all’udienza pubblica).
La Ri.Co., impugna il suddetto provvedimento di
aggiudicazione unitamente ai verbali di gara, deducendo il
seguente unico motivo di diritto:
- Violazione e falsa applicazione dell’art. 97 comma 2, lett. e),
del D.lgs. 50/2016 e delle “direttive” ANAC del
05.10.2016; violazione del principio di selezione della
miglior offerta in tema di gare pubbliche; eccesso di potere
per difetto di istruttoria, travisamento e sviamento:
lamenta la Ri.Co. l’erroneità del calcolo della soglia di
anomalia operato dalla stazione appaltante, poiché essa
avrebbe dovuto escludere soltanto 27 delle offerte con il
minor ribasso, ossia un numero di offerte pari al 10%
arrotondato all’unità superiore (265 x 10% = 26,5 = 27)
dovendo considerare le pervenute due offerte identiche “uti
singulis” ovvero idonee ad essere considerate
singolarmente ai fini della percentuale di offerte da
inserire nel taglio delle ali.
La Commissione e la stazione appaltante non avrebbero
correttamente applicato l’art. 92, comma secondo, lett. e),
del nuovo Codice degli appalti pubblici approvato con D.lgs.
50 del 2016, perpetrando nell’applicazione del criterio
previsto dall’art. 121 del d.P.R. 207/2010 abrogato per
effetto dell’art. 217, c. 1, lett. u), del citato D.lgs.
50/2016. Pertanto nel caso di offerte di ugual valore, tutte
dovrebbero essere considerate come offerte singole che vanno
a formare il limite massimo del 10%.
La Ri.Co. lamenta pertanto la lesione del proprio interesse
legittimo al conseguimento dell’aggiudicazione, dal momento
che laddove le imprese escluse fossero state 27 (anziché 28)
la soglia di anomalia sarebbe stata pari a 25,6846, si che
la propria offerta diverrebbe con certezza quella con il
minor ribasso percentuale tra le offerte non anomale. Cita a
supporto della propria tesi anche il Comunicato del
Presidente dell’ANAC del 05.10.2016 secondo cui sotto la
vigenza del D.lgs. 50/2016 l’art. 121 del d.P.R. 207 del
2010 non può più essere applicato con conseguente non
applicabilità del criterio c.d. relativo ivi previsto,
dovendosi fare esclusivo riferimento al dato numerico delle
offerte e non al valore delle stesse.
Si è costituita la Regione Umbria eccependo l’infondatezza
del gravame, poiché in sintesi:
- l’art. 121 del d.P.R. 207 del 2010 avrebbe carattere non già
innovativo ma di norma interpretativa dell’art. 86 comma 1,
del D.lgs. 163/2006, il cui testo coincide con l’art. 97,
comma 2, del D.lgs. 50/2016;
- la lettura fornita dal Presidente dell’ANAC nel comunicato del
05.10.2010 sarebbe del tutto errata;
- la stessa ANAC avrebbe in realtà avallato l’operato della Regione
Umbria avendo ricevuto il 20.02.2017 tutta la documentazione
di gara nell’ambito del protocollo d’intesa siglato con la
stessa Autorità di Vigilanza senza nulla eccepire in merito
al calcolo della soglia di anomalia;
- la propria assoluta mancanza di colpa in riferimento alla domanda
risarcitoria ex adverso formulata.
...
2.- Viene all’esame del Collegio la
corretta interpretazione dell’art. 97, comma 2, lett. e),
del D.lgs. 50/2016 ed in particolare la questione se nel
caso di offerte recanti l’identico ribasso, ai fini del c.d.
taglio delle ali, devono essere conteggiati o meno tutti i
ribassi, con conseguente possibile esclusione di un numero
di offerte superiore alla percentuale del 10% delle offerte
di maggiore o minor ribasso.
Trattasi di questione invero ben nota in riferimento
all’omologo disposto di cui all’art. 86, c. 1, del D.lgs.
163 del 2006 e relativa norma di attuazione contenuta
nell’art. 121 del d.P.R. 207 del 2010, in passato oggetto di
contrasti giurisprudenziali.
3. - Secondo un primo orientamento infatti,
nel caso in cui siano state presentate due o più
offerte aventi la medesima riduzione percentuale che si
trovino nella fascia delle imprese rientranti nel 10% ogni
offerta deve essere considerata individualmente (c.d.
criterio assoluto) poiché la soluzione opposta comporterebbe
il superamento del limite fissato dal legislatore nel 10% e
si porrebbe in contrasto con il dato letterale dell’art. 86,
c. 1, del D.lgs. 163 del 2006 in assenza di ragioni
sostenibili o ispirate all’interesse pubblico
(ex multis Consiglio di Stato sez. V, 28.08.2014, n.
4429).
Al contrario, secondo un diverso orientamento
giurisprudenziale avvalorato anche dai pareri della Autorità
di Vigilanza sui contratti pubblici (cfr. parere Autorità
vigilanza contratti pubblici n. 133 del 24.07.2013; parere
Anac n. 87 del 23.04.2014), nel caso vi
siano offerte portanti lo stesso ribasso nella fascia delle
ali, devono essere conteggiati tutti i ribassi con
conseguente possibile esclusione di un numero di offerte
superiore alla percentuale del 10% delle offerte di maggiore
o minore ribasso
(cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 18.06.2001, n. 3216; id.
sez. V, 06.07.2012, n. 3953; 15.10.2009, n. 6323; id. sez.
V, 15.03.2006, n. 1373; C.G.A.S., 26.07.2006, n. 439; id.
21.07.2008, n. 608; 15.10.2009, n. 6323; TAR Liguria, sez.
II, 12.04.2006, n. 364; TAR Umbria, 11.04.2013, n. 230).
Si è infatti osservato che con il taglio delle ali la norma
persegue l’intento di eliminare in radice l’influenza che
possono avere sulla media dei ribassi, offerte
manifestamente distanti dai valori medi e il ribasso, così
individuato, ha natura oggettiva, nel senso che riporta ad
unica categoria anche più offerte quando, casualmente o
meno, esse hanno la medesima misura; pertanto l’indicazione
del 10% delle offerte da escludere dalla media non deve
essere inteso in senso soltanto numerico, ma anche in senso
logico, cosicché a determinare il valore medio in questione
concorrono offerte che, per la loro oggettiva consistenza,
siano identiche ad altra ritenuta per definizione
ininfluente o fuorviante, venendo altrimenti a mancare,
nello scarto degli estremi, la funzione correttiva
sostanziale sia del computo della media, sia del calcolo
dello scarto aritmetico medio dei ribassi percentuali, cui
l’articolo 86 del Codice fa riferimento.
I dubbi interpretativi -secondo la richiamata
giurisprudenza- dovevano comunque ritenersi superati alla
luce della norma regolamentare di cui all’articolo 121,
primo comma, del d.P.R. n. 207 del 2010, a mente del quale “Qualora
nell’effettuare il calcolo del dieci per cento di cui
all’art. 86, comma 1, del codice, siano presenti una o più
offerte di eguale valore rispetto alle offerte da
accantonare, dette offerte sono altresì da accantonare ai
fini del successivo calcolo della soglia di anomalia”.
Una volta ammesso, infatti, che il tenore letterale
dell’articolo 86, comma 1, del D.lgs. n. 163 del 2006 può
essere superato per via interpretativa per le offerte ‘a
cavallo’ delle ali, non vi sono ragioni per non
applicare lo stesso criterio alle offerte uguali che si
collocano all’interno delle ali (entro l’ala superiore o
entro l’ala inferiore, ovvero nel 10% delle offerte con
maggior ribasso o nel 10% delle offerte con minor ribasso),
criterio del c.d. “blocco unitario”.
Identificare ciascuna offerta con uno specifico ribasso
(accorpando le offerte con valori identici) consente, nella
fase del taglio delle ali, di depurare la base di calcolo
dai ribassi effettivamente marginali (definiti ex lege
nel limite del 10% superiore e inferiore di oscillazione
delle offerte). In questa prospettiva è irrilevante che i
ribassi identici siano a cavallo o all’interno delle ali,
perché si tratta comunque di valori che se considerati
distintamente limitano l’utilità dell’accantonamento e
ampliano eccessivamente la base di calcolo della media
aritmetica e dello scarto medio aritmetico, rendendo
inaffidabili i risultati.
L’articolo 121, comma 1, del d.P.R. n. 207 del 2010 aveva
dunque eliminato (secondo la prevalente giurisprudenza) ogni
dubbio interpretativo, specificando che le offerte da
accantonare sono quelle identiche, senza distinzione tra
ribassi ‘a cavallo’ o all’interno delle ali. Il che
equivale a dire che le offerte identiche devono essere
considerate, in questa fase, come un’offerta unica, mentre
nella fase successiva, calcolando la media aritmetica e lo
scarto medio aritmetico, si utilizzano tutte le offerte,
anche quelle con valori identici.
E, infatti, quando sia stato circoscritto in modo rigoroso
l’intervallo dei ribassi attendibili ai fini del calcolo
della soglia di anomalia, è ragionevole che alla definizione
delle medie partecipino tutte le offerte non accantonate.
Tale interpretazione, tra l’altro, è stata correttamente
ritenuta più garantista dell’interesse pubblico e previene
manipolazioni della gara e del suo esito ostacolando
condotte collusive in sede di formulazione delle percentuali
di ribasso (ex plurimis Consiglio di Stato sez. V,
08.06.2015 n. 2813; id. sez. IV, 29.02.2016, n. 818).
3.1. - Tanto premesso va evidenziato
-come correttamente prospettato dalla difesa della Ri.Co.-
che la descritta questione è stata recentemente
nuovamente posta in discussione e rimessa, ai sensi
dell’art. 99 cod. proc. amm., all’Adunanza Plenaria
(Consiglio di Stato, sez. III,
ordinanza 13.03.2017 n. 1151).
Precisamente sono stati proposti i seguenti quesiti:
a) se nel calcolo del 10% delle offerte aventi
maggiore e/o minore ribasso, ai sensi dell’art. 86, comma 1,
del d.lgs. n. 163 del 2006, occorra computare tutte le
offerte aventi medesimo valore (e, dunque, medesimo ribasso)
singolarmente una ad una o, invece, quale unica offerta
(c.d. blocco unitario), facendo detta disposizione
riferimento, letteralmente, all’esclusione del 10% delle
offerte aventi maggiore e minore ribasso e non dei singoli
ribassi;
b) se la disposizione regolamentare dell’art. 121,
comma 1, secondo periodo, del d.P.R. n. 207 del 2010, nel
prevedere che «qualora nell’effettuare il calcolo del
dieci per cento di cui all’articolo 86, comma 1, del Codice
siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto
alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da
accantonare ai fini del successivo calcolo della soglia di
anomalia», intenda o, comunque, presupponga che le
offerte aventi eguale valore rispetto a quelle da
accantonare siano considerate, “accantonate” e
accorpate come un’unica offerta o, invece, si limiti a
prevedere solo che debbano essere escluse (“accantonate”)
dal calcolo della soglia di anomalia le offerte che, pur non
rientrando nella quota algebrica del 10%, abbiano tuttavia
eguale valore rispetto a quelle da accantonare e cioè, per
logica necessità, a quelle situate al margine estremo delle
ali (c.d. offerte a cavallo).
3.2. - Come evidenziato dalla difesa della ricorrente
trattasi di questione inerente l’applicazione dell’art. 86,
comma 1, del D.lgs. 163/2006 e non già dell’art. 97, comma
2, lett. e), del nuovo Codice degli appalti pubblici
approvato con D.lgs. 2016 n. 50 applicabile “ratione
temporis” alla gara di che trattasi, ma nondimeno
rilevante, in considerazione della sostanziale identità
delle due norme.
Infatti a norma della prima “Nei contratti di cui al
presente codice, quando il criterio di aggiudicazione è
quello del prezzo più basso, le stazioni appaltanti valutano
la congruità delle offerte che presentano un ribasso pari o
superiore alla media aritmetica dei ribassi percentuali di
tutte le offerte ammesse, con esclusione del dieci per
cento, arrotondato all'unità superiore, rispettivamente
delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor
ribasso, incrementata dello scarto medio aritmetico dei
ribassi percentuali che superano la predetta media”.
Secondo il citato art. 97, comma 2, lett. e), del citato
D.lgs. 50/2016 “Quando il criterio di aggiudicazione è
quello del prezzo più basso la congruità delle offerte è
valutata sulle offerte che presentano un ribasso pari o
superiore ad una soglia di anomalia determinata, al fine di
non rendere predeterminabili dai candidati i parametri di
riferimento per il calcolo della soglia, procedendo al
sorteggio, in sede di gara, di uno dei seguenti metodi:
…omissis …… e) media aritmetica dei ribassi percentuali di
tutte le offerte ammesse, con esclusione del dieci per
cento, arrotondato all'unità superiore, rispettivamente
delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor
ribasso, incrementata dello scarto medio aritmetico dei
ribassi percentuali che superano la predetta media,
moltiplicato per un coefficiente sorteggiato dalla
commissione giudicatrice all’atto del suo insediamento tra i
seguenti valori: 0,6; 0,8; 1; 1,2; 1,4;”.
3.3. - Dovendosi dar atto della sostanziale identità di
contenuto tra le due norme (fatta eccezione per
l’applicazione del coefficiente sorteggiato dalla
Commissione) ritiene la Ri.Co. elemento decisivo
l’intervenuta abrogazione (ad opera dell’art. 217, c. 1,
lett. u), del D.lgs. 50 del 2016) dell’art. 121 del d.P.R.
207 del 2010, dal momento che il criterio c.d. relativo ai
fini del calcolo delle ali traeva il proprio presupposto da
tal innovativo disposto regolamentare.
Ritiene il Collegio la suindicata questione
interpretativa particolarmente problematica.
3.4. - Infatti, da un lato potrebbe aderirsi alla
motivata tesi della Regione che fa leva sul descritto
orientamento pretorio formatosi prima dell’entrata in vigore
del Regolamento attuativo del Codice dei Contratti pubblici
del 2006, secondo cui sulla base del citato art. 86 (e ancor
prima dell’art. 21, c. 1-bis, della legge “Merloni”
n. 109/1994 e s.m.) va dato peso al valore delle offerte e
non solo al relativo numero, considerando in modo unitario
quelle aventi il medesimo ribasso, dando la stura alla
possibile esclusione di un numero di offerte superiore alla
percentuale del dieci per cento delle offerte di maggiore o
minor ribasso.
La ragione di tale interpretazione era stata individuata
-come visto- nella prevenzione di manipolazioni della gara
frustrando altrimenti la ricerca voluta dal citato art. 86
di un indicatore ragionevole della soglia di anomalia, così
vanificando in definitiva la ricerca del miglior contraente
per la P.A.
Ne consegue, così opinando, la natura puramente
interpretativa e non già innovativa della pur abrogata
disposizione contenuta nell’art. 121 del d.P.R. 207/2010,
limitandosi a chiarire il contenuto della disposizione della
norma primaria secondo un significato affermatosi nella
prassi e ormai diventato regola di diritto vivente.
Ne sarebbe dimostrazione poi la stessa natura esecutiva ed
attuativa del Regolamento approvato con d.P.R. 207 del 2010
(Consiglio di Stato sez. affari normativi, 17.09.2007, n.
3262/2007) si da impedire in subiecta materia
l’introduzione di disposizioni praeter legem.
3.5. - Al contempo anche la tesi prospettata dalla
ricorrente non manca invero di elementi persuasivi, primo
fra tutti l’intervenuta abrogazione dell’art. 121 del d.P.R.
207/2010, norma che anche a non volerne riconoscere il
carattere innovativo aveva comunque assunto un indubbio
valore sul piano ermeneutico.
Osserva poi il Collegio come la finalità di ostacolare
condotte collusive in sede di formulazione delle percentuali
di ribasso e prevenire manipolazioni della gara sia in
realtà già a monte affrontata e disciplinata dal nuovo
Codice degli appalti pubblici approvato con D.lgs. 50/2016,
dal momento che il previsto (art. 97) innovativo meccanismo
di sorteggio tra ben 5 diversi metodi per il calcolo della
soglia di anomalia rende oltremodo difficoltosa tale
manipolazione, a beneficio della effettività del confronto
concorrenziale.
Con la conseguenza che venendo meno le ragioni di interesse
pubblico alla base di tale lettura logico-sistematica, il
criterio c.d. assoluto elaborato dalla giurisprudenza
potrebbe in quanto in ipotesi maggiormente aderente al
tenore letterale (art. 12, comma 1, disp. Prel. c.c.)
riprendere corpo (vedi sul punto le analoghe argomentazioni
del Consiglio di Stato nella citata ordinanza n. 1151 del
2017).
3.6. - D’altronde nessuna decisiva
rilevanza può attribuirsi al comunicato del
Presidente dell’ANAC del 05.10.2016 pervicacemente invocato
dalla difesa della Ri.Co..
Come noto, il Codice degli appalti pubblici
approvato con D.lgs. 50 del 2016 ha previsto per la relativa
attuazione, in completa rottura rispetto al sistema
precedente, non più un’unica fonte regolamentare avente
forma e sostanza di regolamento governativo bensì una
pluralità di atti, di natura eterogenea, tra cui per quello
che qui interessa, le linee guida approvate dall’ANAC.
Tali linee guida, costituendo una
novità assoluta nella contrattualistica pubblica, si
distinguono in vincolanti (vedi ad es. art. 31, comma
5, D.lgs. 50/2016) e non vincolanti, quest’ultime
invero molto più frequenti e assimilabili -secondo una tesi-
alla categoria di stampo internazionalistico della c.d. “soft
law”
(Consiglio di Stato parere n. 1767 del 02.08.2016)
oppure -seconda altra opzione- alle circolari
intersoggettive interpretative con rilevanza esterna,
operando il Codice appalti un rinvio formale alle linee
guida (es. art. 36, comma 7, D.lgs. 50/2016).
Senza dover affrontare tale tematica, per quel che qui
rileva va invece senz’altro affermata la
natura di meri pareri dei comunicati del Presidente
dell’ANAC, privi di qualsivoglia efficacia vincolante per le
stazioni appaltanti, trattandosi di meri opinamenti inerenti
l’interpretazione della normativa in tema di appalti
pubblici.
Infatti, per quanto a norma dell’art. 213 del D.lgs. 50 del
2016 il novero dei poteri e compiti di vigilanza affidati
all’ANAC sia invero penetrante ed esteso, a presidio della
più ampia legalità nell’attività contrattuale delle stazioni
appaltanti e della prevenzione della corruzione,
non può ammettersi nel vigente quadro
costituzionale, in tal delicato settore, un generale
vincolante potere interpretativo con effetto erga omnes
affidato ad organo monocratico di Autorità Amministrativa
Indipendente, i cui comunicati ermeneutici -per
quanto autorevoli- possono senz’altro essere disattesi.
Diversamente dalle linee guida, per
la cui formazione è previsto un percorso procedimentalizzato
e partecipato
(vedi
art. 213, comma 2, D.lgs. 50 del 2016) -nel solco
d’altronde degli stessi principi affermati dalla
giurisprudenza in tema di esercizio di poteri di tipo
normativo o regolatorio da parte di Autorità Indipendenti
(Consiglio di Stato sez. atti normativi, 06.02.2006; TAR
Lombardia Milano, 04.02.2006, n. 246)- i
comunicati del Presidente dell’ANAC sono dunque pareri
atipici e privi di efficacia vincolante per la stazione
appaltante e gli operatori economici.
3.7. - Alla stregua delle suesposte considerazioni
nessuna rilevanza può dunque avere, ai fini del
presente giudizio, il comunicato ANAC del 05.10.2016
da cui la Regione Umbria poteva discostarsi senza dover
fornire alcuna motivazione.
4. - Per i suesposti motivi ritiene il
Collegio la sussistenza di peculiari ragioni di opportunità
tali da sospendere il giudizio in attesa della decisione
dell’Adunanza Plenaria, dal momento che in considerazione
della particolare complessità della questione
-nonché dello stesso interesse pubblico al completamento dei
lavori e al contenimento della spesa pubblica stante la
responsabilità oggettiva sussistente in subiecta materia
(C.G.U.E. 30.09.2010 C - 314/09)- la
sentenza resa dall’adito Tribunale rischierebbe di risultare
“inutiliter data” ove in contrasto con le indicazioni
dell’organo nomofilattico.
4.1. - E ciò anche nella pur consapevole mancanza sia di una
previsione normativa (del tipo di quella recentemente
introdotta in via sperimentale per il solo PAT) che
autorizzi anche il Tribunale Amministrativo a deferire
direttamente la questione alla Plenaria, riferendosi come
noto l’art. 99 cod. proc. amm. al solo giudizio d’appello,
sia invero di una norma che consenta nel caso di specie la
sospensione del giudizio, non sussistendo i presupposti
tipici indicati dagli artt. 295 e 296 c.p.c. (richiamati
dall’art. 79 cod. proc. amm.) stante la stessa opposizione
manifestata dalla difesa regionale al rinvio dell’udienza.
5. – Per tutti i suesposti motivi ritiene
il Collegio di dover sospendere il giudizio sino alla
pubblicazione della decisione dell’Adunanza Plenaria a
seguito della rimessione operata dalla V Sezione del
Consiglio di Stato
(TAR Umbria,
ordinanza 31.05.2017 n. 428 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oltre l'anno dalla mancata conclusione del
procedimento è necessaria la nuova istanza.
Con la
sentenza
28.04.2017 n. 427, la
Sez. II del TAR Puglia-Bari, ha stabilito l’irricevibilità
del ricorso notificato oltre il termine di un anno (termine
previsto dall’articolo 31 Cpa per la proposizione
dell’azione avverso il silenzio della pubblica
amministrazione) dall’astratta scadenza del termine di
conclusione del procedimento.
Il principio di diritto
Già il Consiglio di Stato ha infatti evidenziato, sul punto,
che il legislatore, al fine di attenuare il rischio che,
eliminato l’onere della diffida, il silenzio-inadempimento
potesse divenire inoppugnabile dopo il decorso del termine
(normalmente) più breve previsto per proposizione dei
ricorsi davanti al giudice amministrativo, ha ritenuto
congruo assegnare alla parte istante il termine di un anno
(dal termine assegnato all’Amministrazione per la
conclusione del procedimento) per esercitare l’azione
tendente ad accertare l’illegittimità dell’inerzia.
Decorso tale termine la parte, se ha ancora interesse ad
ottenere una pronuncia dall’Amministrazione, può rivolgere
alla stessa una nuova istanza ed eventualmente, se
l’Amministrazione non provvede nel termine procedimentale
assegnato, può impugnare tempestivamente il nuovo silenzio
inadempimento formatosi (Cons. Stato, sez. III, n.
1050/2015).
Riguardo a tale richiesta, peraltro, se rispetto ad essa non
può ravvisarsi una posizione qualificata e differenziata di
interesse legittimo della parte istante, né un obbligo di
provvedere, e quindi di rispondere a tale richiesta in capo
al Comune, l’inerzia diviene non qualificabile come
silenzio-inadempimento e il ricorso, in parte qua, non può
che essere dichiarato inammissibile.
Il caso
Nella specie, si controverteva sul se considerare
irricevibile il ricorso notificato oltre il termine di un
anno (termine previsto dall’art. 31 citata) dall’astratta
scadenza del termine di conclusione del procedimento,
nonostante l'invio, ad opera della parte istante, di una
nota inidonea a far sorgere una posizione qualifica e
differenziata di interesse legittimo, e neppure un obbligo
di provvedere in capo alla Pa.
Argomenti, spunti e considerazioni
La decisione del Tar Puglia persuade.
In primo luogo, perché decorso il termine di un anno dal
termine assegnato all’Amministrazione per la conclusione del
procedimento, se la parte istante ha ancora interesse ad
ottenere una pronuncia dall’Amministrazione, può rivolgere
alla stessa una nuova istanza, che -per essere tale- non può
essere evidentemente troppo diversa dalla prima, nella forma
e soprattutto nella sostanza.
Inoltre, anche al di fuori dei casi di nuova istanza,
ogniqualvolta l'istanza, per come formulata, non faccia
sorgere una posizione qualifica e differenziata di interesse
legittimo, né un obbligo di provvedere in capo
all'amministrazione, l’inerzia diviene non qualificabile
come silenzio-inadempimento e quindi il ricorso, in parte
qua, non può che essere dichiarato inammissibile (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.05.2017).
---------------
MASSIMA
Con il gravame indicato in epigrafe, parte ricorrente ha
chiesto a questo Tribunale di dichiarare l’illegittimità del
silenzio serbato dal Comune di Molfetta, in ordine
all’istanza acquisita con il prot. n. 41626 del 15.07.2011,
nonché in ordine alle istanze riportate nella diffida ad
adempiere del 07.07.2016.
L’Amministrazione comunale si è costituita in giudizio
eccependo l’inammissibilità del ricorso per essere stato
presentato ben oltre i termini di decadenza previsti dagli
articoli 30 e 31 del codice del processo amministrativo.
Il Comune di Molfetta ha evidenziato, inoltre, che con nota
del 01.09.2011, era stato comunicato alla ricorrente, con
provvedimento espresso, che l’istanza de qua era in
attesa di essere istruita seguendo l’ordine cronologico di
presentazione, giusta disposizione di cui all’art. 34 del
Piano generale degli impianti pubblicitari e delle pubbliche
affissioni.
Alla camera di consiglio del 04.04.2017 la causa è stata
trattenuta in decisione.
Il Collegio, in via preliminare, deve esaminare l’eccezione
d’inammissibilità del ricorso sollevata dal Comune di
Molfetta.
L’eccezione è fondata e va accolta.
Il ricorso è irricevibile considerato che
lo stesso è stato inviato alla notifica il 04.10.2016 e,
dunque, oltre il termine di un anno (termine previsto
dall’art. 31 del codice del processo amministrativo per la
proposizione dell’azione avverso il silenzio della pubblica
amministrazione) dall’astratta scadenza del termine di
conclusione del procedimento di che trattasi (l’istanza
risale, infatti, al 15.07.2011).
Sul punto, il Consiglio di Stato, ha evidenziato che “Il
legislatore, infatti, al fine di attenuare il rischio che,
eliminato l’onere della diffida, il silenzio-inadempimento
potesse divenire inoppugnabile dopo il decorso del termine
(normalmente) più breve previsto per proposizione dei
ricorsi davanti al giudice amministrativo, ha ritenuto
congruo assegnare alla parte istante il termine di un anno
(dal termine assegnato all’Amministrazione per la
conclusione del procedimento) per esercitare l’azione
tendente ad accertare l’illegittimità dell’inerzia. Decorso
tale termine la parte, se ha ancora interesse ad ottenere
una pronuncia dall’Amministrazione, può rivolgere alla
stessa una nuova istanza ed eventualmente, se
l’Amministrazione non provvede nel termine procedimentale
assegnato, può impugnare tempestivamente il nuovo
silenzio-inadempimento formatosi”
(Cons. Stato, sez. III, 03.03.2015, n. 1050).
Infine, per quanto riguarda l’ulteriore richiesta contenuta
nella diffida del 07.07.2016 (sulla quale la ricorrente, con
il ricorso de quo, ha chiesto a questo Tribunale di
pronunciarsi), consistente nel comunicare quali iniziative
l’Ente comunale avesse adottato per conformarsi al rispetto
della normativa vigente in tema di autorizzazioni per
l’installazione di impianti pubblicitari, nonché, in tema di
rispetto dei canoni di buona amministrazione, del principio
costituzionale di libertà di iniziativa economica nonché,
dei principi di trasparenza, pubblicità ed imparzialità, il
Collegio si limita ad evidenziare che in
relazione a tale richiesta, come formulata, non si ravvisa
né una posizione qualifica e differenziata di interesse
legittimo della ricorrente, né un obbligo di provvedere (rectius
di rispondere a tale richiesta) in capo al Comune; in
assenza di un obbligo di provvedere in capo
all’Amministrazione, l’inerzia non è qualificabile come
silenzio-inadempimento e il ricorso, in parte qua,
non può che essere dichiarato inammissibile.
Inammissibile per la sua assoluta genericità risulta,
infine, la richiesta di condannare il Comune di Molfetta al
risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2-bis, comma 1
della legge n. 241 del 1990.
Sul punto, si evidenzia che, recentemente, il Consiglio di
Stato ha chiarito che “l'ingiustizia e
la sussistenza stessa del danno non possono, in linea di
principio, presumersi iuris tantum, in meccanica ed
esclusiva relazione al ritardo nell'adozione del
provvedimento amministrativo favorevole, ma il danneggiato
deve, ex art. 2697 c.c., provare tutti gli elementi
costitutivi della relativa domanda
(si veda ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 04.05.2011,
n. 2675)”
(Cons. Stato, sez. V, 25.03.2016, n. 1239). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI
(Agenzia delle Entrate, 14.06.2017). |
SICUREZZA LAVORO:
Il
D.Lgs. 09.04.2008 n. 81 -noto come Testo Unico in
materia di salute e sicurezza sul lavoro- in materia di
tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro,
integrato con circolari, accordi Stato Regioni, interpelli
ed altre fonti normative ed amministrative (aggiornato
nell'edizione maggio 2017 - tratto
da
www.ispettorato.gov.it). |
VARI:
VADEMECUM PER ACQUISTARE O AFFITTARE CASA
(C.C.I.A.A. di Milano, aprile 2017). |
SINDACATI & ARAN |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Banca dati contratti integrativi – Comunicazione a tutte le
pubbliche amministrazioni.
L’Aran e il Cnel hanno reso disponibile, attraverso una
procedura WEB, la banca dati dei contratti integrativi delle
amministrazioni pubbliche, consultabile all’indirizzo:
www.contrattintegrativipa.it.
Si tratta di una banca dati che raccoglie tutti i contratti
integrativi (o di secondo livello) stipulati dalle
amministrazioni pubbliche e dai sindacati sul territorio.
I contratti integrativi raccolti –oltre 25.000 fino ad oggi-
sono inviati da ciascuna amministrazione pubblica all’Aran
ed al Cnel mediante la procedura di trasmissione congiunta
che è attiva dal 01.10.2015.
Nella logica degli “open data”, la banca dati sarà
accessibile a tutti. I dati saranno consultabili e
scaricabili mediante “filtri di ricerca” che
consentiranno estrazioni per singola amministrazione, per
territorio di riferimento, per anno di trasmissione.
Questo strumento consentirà inoltre alle amministrazioni di
ridurre i propri oneri informativi in materia di
trasparenza. Le nuove norme introdotte con il cosiddetto
FOIA sollevano infatti le amministrazioni pubbliche
dall’obbligo di pubblicazione dei contratti integrativi
inviati alla banca dati, a partire dal prossimo 23 giugno.
In tal modo, i cittadini interessati, invece di consultare
il sito di ciascuna amministrazione, avranno a disposizione
un’unica pagina web “nazionale” nella quale saranno
consultabili (e scaricabili) tutti i contratti integrativi
acquisiti dalla banca dati.
Il nuovo strumento mette anche a disposizione di studiosi e
istituzioni di ricerca, interessati al tema delle relazioni
sindacali nella pubblica amministrazione, un importante
patrimonio informativo sul quale sarà possibile effettuare
elaborazioni e ricerche ad hoc (19.06.2017 -
link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Semplificate le procedure per le progressioni verticali
nel Pubblico Impiego (CGIL-FP di Bergamo,
nota 25.05.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO:
RACCOLTA SISTEMATICA DELLE DISPOSIZIONI CONTRATTUALI -
Area II della dirigenza
(ARAN, gennaio 2017). |
PUBBLICO IMPIEGO:
RACCOLTA SISTEMATICA DELLE DISPOSIZIONI CONTRATTUALI -
Personale non dirigente
(ARAN, gennaio
2017). |
SEGRETARI COMUNALI:
RACCOLTA SISTEMATICA DELLE DISPOSIZIONI CONTRATTUALI -
Segretari comunali e provinciali
(ARAN, gennaio
2017). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Raccolta sistematica degli orientamenti applicativi -
Istituto contrattuale:
Permessi retribuiti
(ARAN, dicembre 2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Raccolta sistematica degli orientamenti applicativi -
Istituto contrattuale:
Permessi brevi
(ARAN, dicembre 2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Raccolta sistematica degli orientamenti applicativi -
Istituto contrattuale:
Diritto allo studio
(ARAN, dicembre 2016). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 26 del 30.06.2017, "Recepimento
accordo conferenza unificata moduli unificati e
standardizzati in materia di attività commerciali e
assimilate - d.lgs. n. 126/2016 e d.lgs. n. 222/2016" (decreto
D.U.O. 27.06.2017 n. 7649). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 26 del 29.06.2017, "Aggiornamento
dei bacini di utenza della rete di distribuzione carburanti
dei prodotti metano e gpl sulla rete stradale ordinaria"
(decreto
D.U.O. 22.06.2017 n. 7494). |
ENTI LOCALI:
G.U. 26.06.2017 n. 147 "Disposizioni integrative e
correttive al decreto legislativo 19.08.2016, n. 175,
recante testo unico in materia di società a partecipazione
pubblica"
(D.Lgs.
16.06.2017 n. 100). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PATRIMONIO:
G.U. 23.06.2017 n. 144, suppl. ord. n. 31/L, "Testo
del decreto-legge 24.04.2017, n. 50, coordinato con la legge
di conversione 21.06.2017, n. 96, recante:
«Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a
favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le
zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo»".
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Di particolare interesse si leggano:
• Art. 13-quater
- Sospensione del conio di monete da 1 e 2 centesimi
• Art. 21 - Disposizioni in favore delle fusioni di comuni
• Art. 52-ter - Modifiche al codice dei contratti pubblici
• Art. 52-quater - Organizzazione dell’ANAC
• Art. 54 - Documento Unico di Regolarità Contributiva
• Art. 54-bis - Disciplina delle prestazioni occasionali.
Libretto Famiglia. Contratto di prestazione occasionale
• Art. 62 - Costruzione di impianti sportivi
• Art. 65-bis - Modifica all’articolo 3 del testo unico di
cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001,
n. 380
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In Gazzetta Ufficiale la Manovrina (legge n. 96/2017).
Ok alla cessione dell'ecobonus condomini alle banche. Il
sismabonus esteso all'acquisto di case demolite e
ricostruite nelle zone a rischio 1 anche con variazione
volumetrica. Possibilità di cambiare la destinazione d’uso
di un immobile in seguito ad interventi di restauro o
risanamento (26.06.2017 - link a
www.casaeclima.com).
...
La Manovrina è legge: tutte le novità punto per punto.
Ok alla cessione dell'ecobonus condomini alle banche. Il
sismabonus esteso all'acquisto di case demolite e
ricostruite nelle zone a rischio 1 anche con variazione
volumetrica. Possibilità di cambiare la destinazione d’uso
di un immobile in seguito ad interventi di restauro o
risanamento
(15.06.2017 - link a
www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 23.06.2017 n. 144, "Disposizioni recanti modifiche
al decreto legislativo 08.03.2006, n. 139, concernente le
funzioni e i compiti del Corpo nazionale dei vigili del
fuoco, nonché al decreto legislativo 13.10.2005, n. 217,
concernente l’ordinamento del personale del Corpo nazionale
dei vigili del fuoco, e altre norme per l’ottimizzazione
delle funzioni del Corpo nazionale dei vigili del fuoco ai
sensi dell’articolo 8, comma l, lettera a) , della legge
07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle
amministrazioni pubbliche" (D.Lgs.
29.05.2017 n. 97).
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Prevenzione incendi, dall'8 luglio sanzioni più severe per
le imprese che omettono la SCIA.
Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legislativo di
riforma del Corpo nazionale dei vigili del fuoco (26.06.2017
- link a www.casaeclima.com). |
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 22.06.2017, "Approvazione
del secondo bando «Criteri e procedure per concessione ai
comuni di contributi una tantum a fondo perduto per la
rimozione del cemento-amianto esistente in pubblici edifici»"
(decreto
D.S. 15.06.2017 n. 7112). |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 21.06.2017, "Disposizioni
regionali concernenti l’attuazione del piano di gestione dei
rischi di alluvione (PGRA) nel settore urbanistico e di
pianificazione dell’emergenza, ai sensi dell’art. 58 delle
norme di attuazione del piano stralcio per l’assetto
idrogeologico (PAI) del bacino del Fiume Po così come
integrate dalla variante adottata in data 07.12.2016 con
deliberazione n. 5 dal comitato istituzionale dell’autorità
di bacino del Fiume Po" (deliberazione
G.R. 19.06.2017 n. 6738). |
ENTI LOCALI - VARI: G.U.
19.06.2017 n. 140 "Modifiche al DM 13.12.2016, recante
Direttive e Calendario per le limitazioni alla circolazione
stradale fuori dai centri abitati per l’anno 2017 nei giorni
festivi e particolari, per i veicoli di massa superiore a
7,5 tonnellate"
(Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti,
decreto 27.04.2017).
---------------
Dal 19.12.2017 sarà possibile omologare e installare i
misuratori di tempo residuo dei cicli semaforici.
Tra pochi mesi sarà possibile installare sugli impianti
semaforici i dispositivi che avvisano gli utenti circa il
tempo residuo del colore attivo. Ma per aggiornare i vecchi
impianti andrà cambiato tutto il cuore del sistema. Meglio
mettere semafori nuovi. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 16.06.2017, "Riordino
e razionalizzazione delle disposizioni attuative della
disciplina regionale in materia di distribuzione carburanti
e sostituzione delle dd.gg.rr. 11.06.2009, n. 9590,
02.08.2013, n. 568, 23.01.2015 n. 3052, 25.09.2015, n. 4071,
26.09.2016 n. 5613" (deliberazione
G.R. 09.06.2017 n. 6698). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 14.06.2017, "Quarto
aggiornamento 2017 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 08.06.2017 n. 6724). |
APPALTI - INCARICHI PROFESSIONALI: G.U.
13.06.2017 n. 135, "Misure per la tutela del lavoro
autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire
l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro
subordinato" (Legge
22.05.2017 n. 81).
---------------
Di particolare interesse, si legga:
• Art. 12. -
Informazioni e accesso agli appalti pubblici e ai bandi per
l’assegnazione di incarichi e appalti privati. |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 12.06.2017, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei
provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in
acustica ambientale alla data del 31.05.2017, in attuazione
dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447
e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935"
(comunicato
regionale 06.06.2017 n. 102). |
ENTI
LOCALI - VARI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 12.06.2017, "Indirizzi
regionali per l’organizzazione dei controlli delle ATS sulle
case dell’acqua" (decreto
D.U.O. 05.06.2017
n. 6589). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 09.06.2017, "Monitoraggio
degli interventi di recupero dei vani e locali seminterrati
in attuazione della legge regionale 10.03.2017, n. 7" (decreto
D.S. 05.06.2017 n. 6555). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
07.06.2017 n. 130, "Modifiche e integrazioni al decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16,
commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17,
comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l), m), n), o), q),
r), s) e z), della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di
riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche" (D.Lgs.
25.05.2017 n. 75). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
07.06.2017 n. 130, "Modifiche al decreto legislativo
27.10.2009, n. 150, in attuazione dell’articolo 17, comma 1,
lettera r), della legge 07.08.2015, n. 124" (D.Lgs.
25.05.2017 n. 74). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
05.06.2017 n. 128, suppl. ord. n. 26, "Accordo tra il
Governo, le Regioni e gli Enti locali concernente l’adozione
di moduli unificati e standardizzati per la presentazione
delle segnalazioni, comunicazioni e istanze. Accordo, ai
sensi dell’articolo 9, comma 2, lettera c) del decreto
legislativo 28.08.1997, n. 281 (Repertorio atti n. 46/CU)"
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Conferenza
Unificata,
accordo 04.05.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - TRIBUTI: G.U.
22.05.2017 n. 117, "Criteri per la realizzazione da parte
dei comuni di sistemi di misurazione puntuale della quantità
di rifiuti conferiti al servizio pubblico o di sistemi di
gestione caratterizzati dall’utilizzo di correttivi ai
criteri di ripartizione del costo del servizio, finalizzati
ad attuare un effettivo modello di tariffa commisurata al
servizio reso a copertura integrale dei costi relativi al
servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti
assimilati" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del
Territorio e del Mare,
decreto 20.04.2017). |
ENTI LOCALI: G.U.
24.04.2017 n. 95, suppl. ord. n. 20/L, "Disposizioni
urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli
enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite
da eventi sismici e misure per lo sviluppo" (D.L.
24.04.2017 n. 50). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 16 del 21.04.2017, "Indicazioni
per la presentazione a Regione Lombardia Delle istanze per
tecnico competente in acustica conseguenti all’entrata in
vigore del d.lgs. 42/2017" (comunicato
regionale 18.04.2017 n. 65). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
URBANISTICA:
D. D'Alessandro,
L’esclusione dalla
normativa sugli appalti delle convenzioni non onerose per
l’amministrazione (fra programmazione urbanistica, interesse
pubblico ed interesse privato)
(28.06.2017 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa e profili generali. 2. Alla
ricerca di una nozione di causa idonea a tutelare
l’interesse pubblico e quello privato. La funzione
economico-individuale, la gratuità, l’interesse patrimoniale
del disponente, il rischio di elusioni della disciplina dei
contratti. 3. La gratuità ed i controversi limiti
dell’urbanistica consensuale. Le opere a scomputo e l’art.
20, fra natura corrispettiva degli oneri tabellari e rischio
di elusioni del codice dei contratti. 4. Le parti. Le
tensioni in ordine ai requisiti dell’esecutore 5. La
(blanda) tipizzazione. I contenuti necessari della proposta.
6. L’oggetto, come programma delle attività preordinato alla
realizzazione dell’opera, fra autotutela civilistica e
pubblicistica. 7. Il presupposto della previsione dell’opera
nell’ambito di strumenti o programmi urbanistici.
Interrogativi sull’ammissibilità di proposte di modifica e
sulla configurabilità di un obbligo di provvedere. 8. La
disciplina applicabile fra contratti attivi, accordi,
attività di diritto privato e contratti esclusi. 9. Gli
incerti confini con i contratti di sponsorizzazione. 10.
Problemi e prospettive. |
EDILIZIA PRIVATA:
D. Marrama,
Le novità in tema di SCIA
del biennio 2015-2016 (28.06.2017 - tratto da
www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Gli esordi della D.I.A. tra scenari
innovativi, lacune e difetti normativi. 2. Il nuovo art.
18-bis della legge n. 241 del 1990. 3. Le modifiche al 3°
comma dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990. 4. SCIA ed
autotutela. 5. Il nuovo art. 19-bis della legge 241 del
1990. 6. I poteri dell’Amministrazione dopo la scadenza del
termine originario per provvedere. 7. SCIA e tutela del
terzo. |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Berti Suman,
Scia e tutela del
terzo - Le questioni aperte dopo la riforma Madia ed i
decreti attuativi SCIA1 e SCIA2 (a margine della ordinanza
Tar Toscana, Sez. III, 11.05.2017, n. 667) (16.06.2017
- tratto da www.giustizia-amministrativa.it)..
----------------
SOMMARIO: 1. Premessa: il completamento della
riforma della SCIA ed i nodi ancora irrisolti – 2.
L’ordinanza Tar Toscana, sez. III, 11.05.2017, n. 667: dubbi
di costituzionalità sulla mancanza di un termine espresso
per la sollecitazione da parte del terzo dei poteri
spettanti alla p.a. – 3. La tutela del terzo e la SCIA nella
l. n. 124 del 2015 e nei decreti attuativi: il problema del
coordinamento con la nuova disciplina dell’autotutela e del
termine massimo di diciotto mesi – 4. L’evoluzione della
giurisprudenza su SCIA e tutela del terzo – 4.1 L’intervento
dell’Adunanza Plenaria n. 15/2011 e del legislatore (art.
19, comma 6-ter): il tipo di azione esperibile da parte del
terzo – 4.2 La giurisprudenza più recente: contrasti sulla
natura dei poteri spettanti alla p.a. e sul termine per la
loro sollecitazione – 5. Le questioni aperte: a) il termine
di sollecitazione; b) la sua decorrenza; c) i provvedimenti
esigibili – 6. Le lacune dell’art. 19 secondo i pareri del
Consiglio di Stato e la necessità di una disciplina di
dettaglio: prospettive de iure condito e de iure condendo. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
A. Porporato,
Il “nuovo” accesso civico “generalizzato” introdotto dal
d.lgs. 25.05.2016, n. 97 attuativo della riforma Madia e i
modelli di riferimento (14.06.2017 -
tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Le quattro tappe del cammino
normativo della trasparenza. – 2. La quinta tappa del
cammino normativo della trasparenza: la riforma Madia e il
d.lgs. 25.05.2016, n. 97. Le novità del d.lgs. 25.05.2016,
n. 97: alcuni rilievi critici. – 3. I modelli di riferimento
della riforma Madia e del d.lgs. 25.05.2016, n. 97. – 4.
Rilievi critici conclusivi. |
ATTI AMMINISTRATIVI: A.
Gualdani,
Il tempo nell’autotutela
(14.06.2017 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa. 2. La disciplina del
termine nell’annullamento d’ufficio e la sempre attuale
rilevanza del criterio della “ragionevolezza”. 3. La
“conferma” della discrezionalità dell’annullamento
d’ufficio: una prova di resistenza. 4. La natura del
termine. 5. L’indispensabilità della previsione di una
disciplina del tempo anche nella revoca. |
ATTI
AMMINISTRATIVI: F.
Nicotra,
I principi di proporzionalità e ragionevolezza dell’azione
amministrativa (14.06.2017 - tratto
da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Introduzione. 2. Il principio di
ragionevolezza: 2.1. Premessa. 2.2. Genesi del principio di
ragionevolezza in diritto costituzionale. 2.3. Il
significato del canone di ragionevolezza in diritto
costituzionale. 2.4. La ragionevolezza nel diritto
amministrativo. 3. Il principio di proporzionalità: origini
e natura. 3.1. I presupposti applicativi. 4. Il rapporto tra
il principio ragionevolezza e proporzionalità. 4.1.
Ragionevolezza e proporzionalità in materia costituzionale.
4.2. Ragionevolezza e proporzionalità in diritto
amministrativo. 5. I principi di proporzionalità e
ragionevolezza nella materia degli appalti. 6.
Considerazioni conclusive. |
APPALTI:
G. A. Giuffrè,
Revirement del Consiglio di Stato sull’immediata
impugnabilità della scelta del criterio di selezione delle
offerte: le novità (sostanziali e processuali) del Codice
dei contratti giustificano il superamento dell’Adunanza
Plenaria n. 1 del 2013? (14.06.2017 -
tratto da www.federalismi.it).
---------------
A fronte dell’illegittima adozione del criterio del
massimo ribasso da parte della stazione appaltante, il
concorrente che si ritiene danneggiato dalla scelta di
siffatto criterio, deve impugnare immediatamente la
documentazione di gara nella parte in cui lo prevede, senza
attendere l’esito della gara, in quanto sono già sussistenti
tutti i necessari presupposti:
a) la posizione giuridica legittimante avente a base, quale
interesse sostanziale, la competizione secondo
meritocratiche opzioni di qualità oltre che di prezzo;
b) la lesione attuale e concreta, generata dalla previsione del
massimo ribasso in difetto dei presupposti di legge; c)
l’interesse a ricorrere in relazione all’utilità
concretamente ritraibile da una pronuncia demolitoria che
costringa la stazione appaltante all’adozione del criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ritenuto dalle
norme del nuovo codice quale criterio “ordinario” e generale
(Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza 02.05.2017 n. 2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
F. Lorenzotti,
I regimi amministrativi
degli interventi edilizi dopo il D.Lgs. n. 222 del 2016 (06.06.2017
- tratto da www.ambientediritto.it).
----------------
Sommario: 1. Riforme e ritocchi incessanti per il
testo unico dell’edilizia. – 2. La legge delega n. 124 del
2015 avvia la revisione dei titoli abilitativi edilizi. - 3.
Il decreto legislativo n. 126 del 2016 e la revisione della
SCIA. –3.1. Un principio difficilmente attuabile
nell’edilizia: la libertà delle attività private. - 3.2. I
moduli unificati e standardizzati per la presentazione di
domande, segnalazioni e comunicazioni. - 3.3. La ricevuta
della presentazione di domande, segnalazioni e
comunicazioni. – 4. Il decreto legislativo n. 127 del 2016 e
le modificazioni al procedimento per il rilascio del
permesso di costruire. - 5. Il decreto legislativo n. 222
del 2016 e la Tabella A, sezione II, sui titoli abilitativi
edilizi. - 6. Aspettando il glossario unico dell’edilizia. -
7. L’attività edilizia libera secondo la Tabella. - 8.
L’attività edilizia delle pubbliche amministrazioni. – 9. Le
attività edilizie soggette a semplice comunicazione di
inizio lavori (CIL). - 10. La comunicazione di inizio dei
lavori asseverata (CILA). – 11. Gli interventi edilizi
realizzabili con la CILA secondo la Tabella. - 12. La
segnalazione certificata di inizio attività (SCIA). – 13.
Gli interventi edilizi realizzabili con la SCIA secondo la
Tabella. - 14. Il permesso di costruire e il procedimento
per il suo rilascio. – 15. Gli interventi realizzabili con
il permesso di costruire secondo la Tabella. – 16. La
formazione del silenzio assenso sulla domanda di permesso di
costruire. - 17. Gli interventi realizzabili per silenzio
assenso secondo la Tabella. - 18. La SCIA in alternativa al
permesso di costruire. - 19. Gli interventi subordinati alla
SCIA in alternativa al permesso di costruire secondo la
Tabella. – 20. La Tabella e gli impianti alimentati da fonti
rinnovabili. – 21. Passaggio dai titoli abilitativi edilizi
ai regimi amministrativi degli interventi edilizi. |
EDILIZIA PRIVATA:
S. Cacace,
Semplificazione
amministrativa e governo del territorio: i titoli
abilitativi e gli strumenti di semplificazione
(22.04.2017 - tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario: 1. La disciplina dei titoli abilitativi
edilizi. 2. La generalizzazione del silenzio-assenso: il
silenzio avente valore di permesso di costruire. 3. La
dichiarazione di inizio attività (D.I.A.) e la
segnalazione certificata di inizio attività (Scia). |
APPALTI:
M. Fratini e F. Iorio,
La contrattualizzazione della responsabilità precontrattuale
(De Iustitia n. 2/2017
- tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Trattative e
principio di buona fede: obblighi e ratio della
responsabilità precontrattuale. 3. Le forme di
responsabilità precontrattuale e la diversa entità di danno
risarcibile. 4.1. La natura giuridica della responsabilità
precontrattuale. 4.1.1. Il recente revirement della Corte di
Cassazione: la sentenza n. 14188 del 2016. 4.1.2. Segue. Le
conseguenze della contrattualizzazione della responsabilità
precontrattuale: l’ipotesi della configurabilità di una
responsabilità precontrattuale del terzo. 4.1.3. Segue. Le
conseguenze della contrattualizzazione della responsabilità
precontrattuale: la responsabilità precontrattuale della p.a..
4.1.4. Segue. Atti adottati in sede di trattative. 5.
Conclusioni. |
EDILIZIA PRIVATA: G.
Rizzi,
La disciplina della attività edilizia dopo il D.Lgs.
222/2016
(20.02.2017 - tratto da www.notairizzitrentin.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. La Marca,
La natura giuridica della cessione di cubatura e la tipicità
dei diritti reali (De Iustitia n. 1/2017
- tratto da www.deiustitia.it).
---------------
SOMMARIO: 1. I caratteri dei diritti reali: i
principi del numerus clausus e di tipicità. 2. La cessione
di cubatura e le sue condizioni di ammissibilità. 3. La
natura giuridica dell’istituto: le teorie pubblicistiche e
le teorie privatistiche. 4. La trascrizione dei contratti
che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti
edificatori ai sensi dell’art. 2643, n. 2-bis, c.c.. 5.
Conclusioni. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
A. Rapillo,
La motivazione del provvedimento amministrativo e le sorti
dell’atto plurimotivato parzialmente viziato (De
Iustitia n. 1/2017
- tratto da www.deiustitia.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. La motivazione del
provvedimento amministrativo. 2.1. Profili storici. 2.2. La
struttura della motivazione.3. Le funzioni della
motivazione. 4. Le deroghe all’obbligo di motivazione. 5. I
vizi della motivazione. 5.1. Segue… la riforma del 2005. 6.
La motivazione postuma: una questione controversa. 7. Atto
plurimotivato e vizio parziale della motivazione: il
principio di conservazione degli atti. |
EDILIZIA PRIVATA:
R. Iervolino,
L’evoluzione dell’istituto della S.C.I.A. nel processo di
liberalizzazione delle attività private (De
Iustitia n. 4/2016
- tratto da www.deiustitia.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Premessa storica
dell’istituto: dalla "denuncia", alla "dichiarazione", alla
"segnalazione" di inizio attività; 3. La disciplina della
s.c.i.a. alla luce della L. n. 122 del 2010; 4. La natura
giuridica dell’istituto e la tutela dei contro interessati;
4.1. La tesi della natura pubblicistica; 4.2. La tesi della
natura privatistica; 4.3. Conseguenze pratiche: tecniche di
tutela del contro interessato; 4.4. La risposta al quesito:
Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 15/2011; 4.5. La
soluzione del Legislatore: il D.L. n. 138/2011; 5. Le
ennesime riforme dell’istituto; 5.1. Lo “Sbolcca Italia”…;
5.2. …E la Riforma Madia; 6. Considerazioni conclusive. |
APPALTI SERVIZI:
I. Siniscalchi,
L’affidamento in house dei servizi pubblici locali di
rilevanza economica. Considerazioni alla luce della sentenza
della Corte Costituzionale del 17.07.2012 n. 199 e del
Decreto Legislativo n. 50 del 18.04.2016 (De
Iustitia n. 4/2016
- tratto da www.deiustitia.it).
---------------
SOMMARIO: 1. La nozione di servizio pubblico. 2.
La disciplina dell’affidamento dei servizi pubblici locali e
la tutela della concorrenza. 3. L’art. 23-bis del D.L.
25.06.2008, n. 112. 4. Il referendum abrogativo del 12 e
13.06.2011 e l’art. 4 del D.L. 13.08.2011, n. 138. 5.
L’intervento della Corte Costituzionale con la sentenza del
17.07.2012 n. 199 e l’attuale disciplina dei servizi
pubblici locali. 6. L’affidamento in house dei servizi
pubblici locali di rilevanza economica. 7. Il requisito del
“controllo analogo” . 8. Il requisito della “destinazione
prevalente dell’attività”. |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Auletta,
L’evoluzione giurisprudenziale sulle nullità urbanistiche:
brevi riflessioni circa la (possibile) incidenza sulla
vendita forzata (De Iustitia n. 3/2016
- tratto da www.deiustitia.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
E. Maino,
Il principio di trasparenza: ieri, oggi e domani: le nuove
prospettive della Foia (De Iustitia n. 3/2016
- tratto da www.deiustitia.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Il principio di trasparenza ieri. 2.
Il principio di trasparenza e il diritto di accesso: la casa
dai vetri oscurati. 3. L’accesso civico e il principio di
trasparenza oggi. 4. Foia e il ritorno alle origini. 5.
Prospettive future del principio di trasparenza. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
A. Rubano,
I reati di falso e la portata concreta del principio di
offensività (De Iustitia n. 3/2016
- tratto da www.deiustitia.it).
---------------
SOMMARIO: 1. La portata del principio di
offensività. 2. I delitti contro la fede pubblica: cenni
evolutivi. 3. La natura monoffensiva o plurioffensiva dei
reati di falso. 4. Il concetto di falso documentale e la
rilevanza delle invalidità dell’atto. 5. Il c.d. falso
documentale consentito. 6. Il falso materiale e il falso
ideologico. 7. Le falsità in atti pubblici. 8. Le falsità in
atti privati e la loro recente abrogazione. 9. Il falso in
autorizzazioni e in concessioni. 10. Il falso grossolano,
innocuo e inutile. 11. La dichiarazione infedele di
ammissione al patrocinio a spese dello Stato. 12. La falsa
indicazione “Made in Italy”. |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
A. Amendola,
Il danno all’immagine della pubblica amministrazione
(De Iustitia n. 2/2016
- tratto da www.deiustitia.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Il risarcimento del
danno non patrimoniale delle persone giuridiche. 3. Il danno
all’immagine della p.a. nella giurisprudenza della Corte di
Cassazione e della Corte dei Conti. 4. La nuova disciplina
dell’azione risarcitoria introdotta dall’art. 17, comma
30-ter, d.l. 78 del 2009. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
F. Caringella,
Brevi osservazioni sull’annullamento con effetti variabili
del provvedimento amministrativo … “verso un annullamento a
geometrie variabili?” (De Iustitia n. 2/2016
- tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. I dubbi sollevati dalla giurisprudenza
amministrativa. 2. Le geometrie variabili della tutela
demolitoria. |
APPALTI:
V. Ferrara,
Il soccorso istruttorio nelle procedure ad evidenza
pubblica: l’atavico duello tra forma e sostanza (De
Iustitia n. 1/2016 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Il dato normativo: genesi e profili
problematici dell’istituto. 2. La giurisprudenza
contrastante: come delimitare il raggio d’azione della
stazione appaltante? 3. Le soluzioni dell’Adunanza Plenaria:
il fardello del formalismo. 4. Uno sguardo ai cugini
d’Oltralpe: l’art. 52 del Code des Marchés Publics. 5.
Conclusioni. |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
URBANISTICA:
Oggetto: Legge regionale 31/2014 per la riduzione del
consumo di suolo – Modificato il regime transitorio
(ANCE di Bergamo,
circolare 28.06.2017 n. 117). |
TRIBUTI:
Oggetto: Esenzione IMU sul “magazzino” delle imprese
edili – Dichiarazione (ANCE di Bergamo,
circolare 28.06.2017 n. 116). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Svolgimento di manifestazioni pubbliche - Profili di
security e di safety
(Prefettura di Bergamo,
nota 23.06.2017 n. 35618 di prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Albo Nazionale Gestori Ambientali: nuovi
requisiti e verifiche di idoneità per il responsabile
tecnico (ANCE di Bergamo,
circolare 23.06.2017 n. 115). |
SEGRETARI COMUNALI: Oggetto:
articolo 43, comma 2, del C.C.N.L. dei segretari comunali e
provinciali del 15.05.2001: modalità procedurali per la
formulazione delle richieste di rimborso (Ministero
dell'Interno,
nota 20.06.2017 n. 7122 di prot.).
---------------
Il Ministero dell'Interno, con circolare n. 7122 del
20.06.2017 concernente le modalità procedurali per la
formulazione delle richieste di rimborso -articolo 43, comma
2, del CCNL- dei Segretari comunali e provinciali, fornisce
indicazioni in merito. La normativa in oggetto, riserva al
segretario collocato in posizione di disponibilità, la
facoltà di conservare, in caso di incarico presso un ente di
fascia immediatamente inferiore a quella di iscrizione, la
retribuzione di posizione più alta, corrispondente alla
fascia demografica dell'ente locale di cui il segretario era
titolare al momento del collocamento di disponibilità .
In riferimento alle modalità per la formulazione delle
richieste di rimborso viene precisato che compete comunque
all'ente locale l'erogazione della retribuzione di posizione
al segretario anche per la quota posta a carico del
Ministero dell'Interno. L'importo oggetto di rimborso viene
limitato, dalla contrattazione collettiva, al differenziale
risultante dal confronto tra la retribuzione di posizione
erogata al segretario durante il periodo di disponibilità e
quella prevista per la fascia di appartenenza dell'ente
dalla contrattazione collettiva di settore.
Non costituiscono oggetto di rimborso le voci stipendiali
previste dai commi 4 e 5 dell'articolo 41 del C.C.N.L.
16.05.2001, eventualmente riconosciute dall'ente al
segretario; parimenti esclusa dal rimborso è la retribuzione
aggiuntiva per sedi convenzionate erogata dall'ente locale
al segretario in relazione al trattamento economico in
godimento ai sensi dell'articolo 45 del C.C.N.L. del
16.05.2001.
Infine si evidenzia che l'istanza di rimborso deve essere
corredata da una dichiarazione da parte dell'ente locale
attestante l'effettiva erogazione, in favore del segretario,
del differenziale (commento tratto da www.logospa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Commissioni comunali di vigilanza sui locali di
pubblico spettacolo
(Ministero dell'Interno, Comando Provinciale Vigili del
Fuoco - Bergamo,
nota 12.06.2017 n. 12673 di prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Nuovi chiarimenti ministeriali sul decreto
sottoprodotti (ANCE di Bergamo,
circolare 09.06.2017 n. 105).
------------------
Si legga anche la
nota 30.05.2017 n. 7619 di prot.
del Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
Direzione Generale per i Rifiuti e l'Inquinamento ivi
menzionata). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Circolare esplicativa per l’applicazione del
decreto ministeriale 13.10.2016, n. 264 (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
Direzione Generale per i Rifiuti e l'Inquinamento,
nota 30.05.2017 n. 7619 di prot.).
----------------
Con decreto del Ministro dell’Ambiente e della tutela del
territorio e del mare 13.10.2016, n. 264 (in Gazzetta
ufficiale del 15.02.2017, n. 38, di seguito “Regolamento” o
“Decreto”) sono stati adottati «Criteri indicativi per
agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti
per la qualifica dei residui di produzione come
sottoprodotti e non come rifiuti».
In considerazione dei molteplici quesiti pervenuti a questo
Ministero su diversi profili interpretativi ed operativi,
appare utile fornire in questa sede alcuni chiarimenti, in
modo da consentire una uniforme applicazione ed una univoca
lettura del provvedimento.
Stante l’oggettiva complessità della disciplina, di origine
interna ed europea, concernente l’utilizzazione dei
sottoprodotti, e l’assenza di prassi interpretative
lungamente consolidate, per una migliore applicazione del
Decreto si ritiene utile fornire alcuni chiarimenti
interpretativi, accompagnando la presente circolare con un
Allegato tecnico-giuridico, che deve essere considerato
parte integrante della medesima. A tale Allegato si rinvia,
dunque, sin d’ora, per l’approfondimento dei temi di seguito
affrontati. (...continua). |
PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Riduzione del periodo di prognosi riportato nel
certificato attestante la temporanea incapacità lavorativa
per malattia (INPS,
circolare 02.05.2017 n. 79 - link a www.inps.it).
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SOMMARIO: 1. Premessa - 2. Prognosi riportata nel
certificato - 3. Obblighi del lavoratore e del datore di
lavoro - 4. Provvedimenti sanzionatori. |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Consiglieri, porte aperte.
Legittimo l'accesso reiterato al protocollo.
Va riconosciuto un diritto più ampio
rispetto al semplice cittadino.
È legittima la condotta di un consigliere di
minoranza che reitera nel tempo numerose
istanze di accesso al protocollo del Comune?
Secondo l'art. 22, comma 2, della legge n.
241/1990 «l'accesso ai documenti
amministrativi, attese le sue rilevanti
finalità di pubblico interesse, costituisce
principio generale dell'attività
amministrativa al fine di favorire la
partecipazione e di assicurarne
l'imparzialità e la trasparenza».
L'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000,
invece, consente ai consiglieri comunali di
accedere a «tutte le notizie e le
informazioni» in possesso dell'Ente, utili
all'espletamento del proprio mandato. Nella
fattispecie in esame, il Sindaco ha sospeso
le richieste di accesso del consigliere al
protocollo, ritenendole «formalizzate in
modo abnorme, generico, indiscriminato e
reiterato e finalizzate a strategie
ostruzionistiche comportanti aggravi
dell'attività amministrativa dell'Ente».
Tuttavia, va considerato che al consigliere
comunale, in relazione proprio al munus
rivestito, deve essere riconosciuto un
diritto più ampio rispetto a quello
esercitabile dal semplice cittadino, che si
estende oltre le competenze attribuite al
consiglio comunale, al fine della necessaria
valutazione della correttezza ed efficacia
dell'operato dell'amministrazione comunale
(cfr.: Cds n. 4525 del 05/09/2014, Cds sez. V
n. 5264/2007 che richiama Cons. stato, V sez.
21/02/1994 n. 119, Cons. stato, V sez.
26/09/2000 n. 5109, Cons. stato, V sez.
02/04/2001 n. 1893).
La giurisprudenza (cfr.
Tar Sardegna n. 29/2007 e n. 1782/2004, Tar
Lombardia, Brescia, n. 362/2005, Tar
Campania, Salerno, n. 26/2005) -superando
le precedenti decisioni contrarie e fatta
salva la necessità di non aggravare la
funzionalità amministrativa dell'Ente con
richieste emulative- è infatti, oggi
orientata nel ritenere illegittimo il
diniego opposto dall'amministrazione di
prendere visione del protocollo generale e
di quello riservato del Sindaco, comprensivo
sia della posta in arrivo che di quella in
uscita.
Del resto, i giudici del Tar
Sardegna, con la citata sentenza n. 29/2007,
hanno affermato che è consentito prendere
visione del protocollo generale senza alcuna
esclusione di oggetti e notizie riservate e
di materie coperte da segreto, posto che i
consiglieri comunali sono comunque tenuti al
segreto ai sensi dell'art. 43 del decreto
legislativo n. 267/2000, mentre il Tar
Lombardia, Brescia, 01.03.2004 n. 163, ha
ritenuto non ammissibile imporre al
consigliere l'onere di specificare in
anticipo l'oggetto degli atti che intendono
visionare giacché trattasi di informazioni
di cui gli stessi possono disporre solo in
conseguenza dell'accesso.
Pertanto, la
previa visione dei vari protocolli (tra cui
il protocollo informatico che rappresenta
una innovazione tecnologica consolidata, già
prevista dall'art. 17, del dlgs n. 82/2005),
è necessaria, e potrà trovare apposita
disciplina di dettaglio nel regolamento
dell'Ente, per poter individuare gli estremi
degli atti sui quali si andrà ad esercitare
l'accesso vero e proprio.
La Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi, esprimendosi sull'esercizio
di tale diritto (cfr. parere 29.11.2009),
sulla base del principio di economicità che
incombe sia sugli uffici tenuti a
provvedere, sia sui soggetti che chiedono
prestazioni amministrative, ha riconosciuto
«la possibilità per il consigliere di
avere accesso diretto al sistema informatico
interno, anche contabile, dell'ente
attraverso l'uso della password di servizio
( ) proprio al fine di evitare che le
continue richieste di accesso si trasformino
in un aggravio dell'ordinaria attività
amministrativa dell'ente locale»
(articolo ItaliaOggi del
02.06.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: risposta alla richiesta di parere circa la prova
dell’esistenza di un edificio costruito ante 1967
(Regione Emilia Romagna,
nota
30.05.2017 n. 402646 di prot.).
---------------
1. Viene richiesto parere in oggetto, in quanto alla
richiesta di un certificato di conformità edilizia, da parte
di un privato, per un intervento su un immobile, da
sottoporre a SCIA, di cui risulta esservi il solo
accatastamento nel 2007 e che risulta essere costruito in un
lasso di tempo tra il 1940 e il 1949, un Comune, ha
richiesto l’attestazione dell’esistenza dell’edificio di cui
sopra, prima del 1950.
Da quanto sopra descritto ed in buona sostanza si chiede se
un edificio, originariamente posto in zona agricola e
realizzato prima del 01.09.1967 e quindi prima dell’entrata
in vigore della Legge 06.08.1967, n.765 (c.d. Legge Ponte),
sia illegittimo, se privo di titolo edilizio. Si premette
che il parere richiesto viene fornito rispetto a questioni
generali che vengono considerate in astratto, escludendo
quindi valutazioni sul caso specifico, il cui apprezzamento
spetterà al Comune. (...continua). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Interpellanze in consiglio. La minoranza può
chiedere la convocazione. Non si configura
l'uso distorto dell'art. 39, comma 2, dlgs
267/2000.
Ai sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto
legislativo n. 267/2000, la minoranza
consiliare può chiedere al Presidente del
consiglio comunale di convocare il
consiglio, entro 20 giorni, per discutere
interrogazioni, interpellanze, mozioni, o
ciò costituisce un uso distorto di tale
norma?
Secondo l'art. 39, comma 2, del dlgs n.
267/2000 il presidente del consiglio comunale
è tenuto a riunire il consiglio, «in un
termine non superiore ai venti giorni»,
quando lo richiedano un quinto dei
consiglieri, inserendo all'ordine del giorno
le questioni richieste. La norma sembra
configurare un obbligo del Presidente del
consiglio comunale di procedere alla
convocazione dell'organo assembleare per la
trattazione, da parte del Consiglio, delle
questioni richieste, senza alcun riferimento
alla necessaria adozione di determinazioni
da parte del consiglio stesso.
Tale diritto
di iniziativa, «...è tutelato in modo
specifico dalla legge, che prevede la
modificazione dell'ordine delle competenze
mediante intervento sostitutorio del
Prefetto (misura, questa, severa ed
eccezionale) in caso di mancata convocazione
del consiglio comunale in un termine, breve,
di venti giorni» (Tar Puglia, Sez. 1, 25.07.2001, n. 4278).
L'orientamento che
vede riconosciuto e definito come «diritto,
dal legislatore, «...il potere dei
consiglieri di chiedere la convocazione del
Consiglio medesimo» è, quindi, ormai
ampiamente consolidato (sentenza Tar Puglia,
Lecce, Sez. I del 04.02.2004, n. 124).
In merito alla questione relativa alla sindacabilità dei motivi che determinano i
consiglieri a chiedere la convocazione
straordinaria dell'assemblea, l'orientamento
consolidato è nel senso di prevedere che al
Presidente del Consiglio spetti solo la
verifica formale della richiesta, non
potendo comunque sindacarne l'oggetto. La
giurisprudenza in materia si è, al riguardo,
da tempo espressa affermando che, in caso di
richiesta di convocazione del consiglio da
parte di un quinto dei consiglieri, «al
presidente del consiglio comunale spetta
soltanto la verifica formale che la
richiesta provenga dal prescritto numero di
soggetti legittimati, mentre non può
sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo
stesso consiglio nella sua totalità la
verifica circa la legalità della
convocazione e l'ammissibilità delle
questioni da trattare, salvo che non si
tratti di oggetto che, in quanto illecito,
impossibile o per legge manifestamente
estraneo alle competenze dell'assemblea in
nessun caso potrebbe essere posto all'ordine
del giorno» (Tar Piemonte, n. 268/1996).
Nondimeno, spetta all'assemblea decidere in
via pregiudiziale se un dato argomento
inserito nell'ordine del giorno debba essere
discusso (questione pregiudiziale) ovvero se
se ne debba rinviare la discussione
(questione sospensiva) (Tar Puglia, Lecce,
Sez. 1, 25.07.2001, n. 4278 e sempre Tar
Puglia, Lecce, Sez. 1, 04.02.2004, n. 124). Peraltro, l'art. 43 del Tuoel
demanda alla potestà statutaria e
regolamentare dei Comuni e delle province la
disciplina delle modalità di presentazione
delle interrogazioni, delle mozioni e di
ogni altra istanza di sindacato ispettivo
proposta dai consiglieri, nonché delle
relative risposte, che devono comunque
essere fornite entro trenta giorni.
Pertanto, qualora l'intenzione dei
proponenti non sia diretta a provocare una
delibera del Consiglio comunale, bensì a
porre in essere un atto di sindacato
ispettivo, si potrebbe ipotizzare che, ai
sensi dell'art. 42, comma 1, del decreto
legislativo n. 267/2000, rientri nella
competenza del Consiglio comunale, in
qualità di «organo di indirizzo e di
controllo politico-amministrativo»,
anche la trattazione di «questioni»
che, pur non rientrando nell'elencazione del
comma 2 del medesimo articolo, attengono
comunque a tale ambito di controllo.
Del resto, la dizione legislativa che parla
di «questioni» e non di deliberazioni
o di atti fondamentali, conforta nel
ritenere che la trattazione di argomenti non
rientranti nella previsione del citato comma
2, dell'art. 42, non debba necessariamente
essere subordinata alla successiva adozione
di provvedimenti da parte del consiglio
comunale. Quindi, la richiesta di
convocazione del consiglio ex art 39, comma
2, del decreto legislativo n. 267/2000
finalizzata all'esame degli atti di
sindacato ispettivo non configura un
utilizzo distorto della citata disposizione,
dettata dal legislatore a tutela delle
minoranze consiliari
(articolo ItaliaOggi del
26.05.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Garanzia
d'alto profilo. Commissione: attività di
governo nel mirino. Questioni di sicurezza
rientrano nel perimetro degli organismi
speciali.
Al fine di verificare l'eventuale violazione
delle norme sulla sicurezza nella
costruzione di un distributore di carburanti
nel territorio comunale, un comitato di
cittadini può chiedere la convocazione della
Commissione Garanzia e Controllo comunale?
La questione deve essere risolta facendo
riferimento alle disposizioni di legge o di
regolamento, ovvero degli statuti locali.
In linea generale, nei comuni sono operanti
commissioni obbligatorie (previste per legge
come, ad esempio, la commissione elettorale
comunale) e commissioni facoltative (come,
le cd. commissioni consiliari permanenti ex
art. 38 del Tuoel n. 267/2000); in entrambi
i casi, la rispettiva composizione ed il
funzionamento si riconducono generalmente
alla fonte normativa che le istituisce e,
quindi, alle citate previsioni statutarie e
regolamentari.
Nella fattispecie in esame, lo Statuto
comunale stabilisce solo che i presidenti
delle commissioni permanenti istituite con
finalità di controllo sono eletti tra i
rappresentanti dei gruppi consiliari di
opposizione, prevede la possibilità di
istituire commissioni di inchiesta e
consente di istituire commissioni speciali
per l'esame di problemi particolari,
demandando al Consiglio la composizione,
l'organizzazione, le competenze, i poteri e
la durata.
Il regolamento consiliare, invece,
disciplina le commissioni speciali e le
commissioni di inchiesta; inoltre, dispone
che le commissioni con funzioni di garanzia
e di controllo «effettuano verifiche
sull'attività di governo, sulla
programmazione e sulla pianificazione delle
attività, sui risultati e sugli obiettivi
raggiunti».
Orbene, le commissioni aventi funzioni di
controllo e di garanzia potrebbero
considerarsi, come ha sostenuto parte della
dottrina, una specie del medesimo genere
delle commissioni di indagine. Tale assunto
è confermato dalla circostanza che la
materia è trattata nello stesso art. 44 del
dlgs. n. 267/2000.
Tuttavia, ferma restando la tutela della
minoranza che si concretizza
nell'affidamento della presidenza della
commissione permanente ad un consigliere
dell'opposizione, una volta costituita,
l'attività istituzionale di tale commissione
segue la dinamica delle altre commissioni
permanenti, nel rispetto comunque delle
competenze amministrative demandate
previamente agli Uffici comunali.
Poiché lo Statuto e il regolamento hanno
previsto la possibilità di istituire anche
commissioni speciali con il compito di
approfondire «particolari questioni o
problemi che interessino il comune», la
fattispecie relativa alla presunta
violazione delle norme sulla sicurezza nella
costruzione di un impianto sul territorio
comunale sembra incidere in particolare
sulla competenza di tali organismi, dovendo
limitarsi l'attività della commissione
Garanzia e controllo, alle verifiche
sull'attività di governo
(articolo ItaliaOggi del
19.05.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Presidente
super partes. Revoca per motivi
istituzionali, non politici. I casi in cui
si può destituire il numero uno
dell'assemblea comunale.
Il consiglio comunale può attivare la
mozione di sfiducia nei confronti del suo
stesso presidente?
Al riguardo, l'articolo 38, comma 2, del
decreto legislativo n. 267/2000 rinvia il
funzionamento del consiglio comunale alla
disciplina regolamentare «nel quadro dei
principi stabiliti dallo statuto».
Circa la fattispecie in esame, assume
particolare rilievo la modalità con cui la
mozione di sfiducia, prevista dallo statuto
nei confronti del presidente del consiglio,
può conciliarsi con la disposizione
regolamentare che limita la possibilità di
un voto all'espressione di «un giudizio su
mozione presentata in merito ad
atteggiamenti del sindaco o della giunta
comunale, ovvero un giudizio sull'intero
indirizzo dell'amministrazione».
In merito
la norma regolamentare che disciplina le
adunanze affida addirittura al sindaco la
presidenza del consiglio, non contenendo
alcuna norma specifica che disciplini la
sfiducia al presidente del consiglio, mentre
è proprio lo statuto che prevede come
meramente eventuale l'elezione di un
presidente del consiglio comunale tra i
propri componenti.
Nonostante la mancanza di una disciplina
regolamentare di dettaglio, il consiglio ha
dunque utilizzato la normativa statutaria
(ritenendola sufficiente) per eleggere il
presidente del consiglio; talché, la
richiesta applicazione di ipotetiche norme
regolamentari che dovrebbero
obbligatoriamente disciplinare anche la
revoca, appare incoerente rispetto alla
pacifica accettazione della sola norma
statutaria per l'elezione del presidente del
consiglio.
Il decreto legislativo n. 267/2000, in ogni
caso, non prevede espressamente la
possibilità di revoca del presidente del
consiglio, tant'è che in carenza di una
specifica previsione statutaria, la
giurisprudenza tende ad affermarne
costantemente l'illegittimità (si veda tra
l'altro, Tar Piemonte sez. I, 04/09/2009, n.
2248).
Ferma restando, dunque, l'applicabilità
della citata disposizione statutaria che
disciplina la revoca del presidente, «la
giurisprudenza ha chiarito che la figura del
presidente del consiglio è posta a garanzia
del corretto funzionamento di detto organo e
della corretta dialettica tra maggioranza e
minoranza, per cui la revoca non può essere
causata che dal cattivo esercizio della
funzione, in quanto ne sia viziata la
neutralità e deve essere motivata, perciò,
con esclusivo riferimento a tale parametro e
non a un rapporto di fiducia» (conforme, Tar
Puglia–Lecce, sentenza n. 528/2014,
Consiglio di stato, sez. V, 26.11.2013, n. 5605)
Peraltro il Tar Piemonte, con la citata
sentenza (richiamando anche Tar Sicilia -
Catania, sez. I, 20.04.2007, n. 696; Tar
Sicilia Catania, sez. I, 18.07.2006, n.
1181), ha statuito che «lo statuto comunale,
tuttavia, può prevedere ipotesi e procedure
di revoca del presidente del consiglio
comunale, con riferimento a fattispecie che
integrino comportamenti incompatibili con il
ruolo istituzionale super partes che esso
deve costantemente disimpegnare
nell'assemblea consiliare».
Inoltre, il Tar Campania–Napoli - sez. I,
con decisione 03/05/2012 n. 2013, ribadendo
che il ruolo del presidente del consiglio
comunale è strumentale non già
all'attuazione di un indirizzo politico di
maggioranza, bensì al corretto funzionamento
dell'organo stesso e, come tale, non solo è
neutrale, ma non può restare soggetto al
mutevole atteggiamento fiduciario della
maggioranza, ha precisato che la revoca di
detta carica non può essere attivata per
motivazioni politiche, ma solo
istituzionali, quali la ripetuta e
ingiustificata omissione della convocazione
del consiglio o le ripetute violazioni dello
statuto o dei regolamenti comunali (si veda
anche, Consiglio di stato, sez. V,
18/01/2006, n. 114)
(articolo ItaliaOggi del
12.05.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Il consiglio ai consiglieri.
Il vicesindaco esterno non può presiederlo.
Non si può fungere da presidente di un
collegio a cui non si appartiene.
È possibile affidare la carica di
vicepresidente del consiglio comunale al
vice sindaco, assessore esterno in un Comune
con popolazione inferiore a 15.000 abitanti?
Il vicesindaco facente funzioni può assumere
le funzioni di presidente della commissione
elettorale comunale e partecipare alle
relative operazioni?
In merito al primo quesito, ai sensi
dell'art. 64, comma 3, del Tuel n. 267/2000,
nei comuni con popolazione inferiore ai
15.000 abitanti, non vi è incompatibilità
tra la carica di consigliere comunale ed
assessore nella rispettiva giunta, mentre la
nomina di assessori esterni al consiglio fa
parte del contenuto facoltativo dello
statuto ai sensi dell'art. 47, comma 4, del
medesimo decreto legislativo.
Per quanto concerne le funzioni di
presidente del consiglio comunale, l'art.
39, comma 3, del richiamato decreto
legislativo n. 267/2000 prevede che nei comuni
sino a 15.000 abitanti le stesse sono svolte
dal sindaco, «salvo differente previsione
statutaria», mentre il comma 1, stabilisce
che le funzioni vicarie del presidente del
consiglio, quando lo statuto non dispone
diversamente, sono esercitate dal
consigliere anziano.
Pertanto, la normativa statale, anche in
carenza di specifiche disposizioni
dell'ente, individua il vicario del
presidente del consiglio.
Nella fattispecie in esame, lo statuto del
comune conferma al sindaco il potere di
presiedere il consiglio comunale e
stabilisce che, «qualora il consigliere
anziano sia assente o rinunci a presiedere
l'assemblea, la Presidenza è assunta dal
consigliere che, nella graduatoria di
anzianità occupa il posto immediatamente
successivo».
Anche il regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale conferma la titolarità
della presidenza in capo al sindaco; la
stessa disposizione, tuttavia, stabilisce
che in caso di assenza o di impedimento del
sindaco, la presidenza è assunta dal vice
sindaco e ove questi sia assente o impedito,
dall'assessore più anziano di età.
La disposizione regolamentare si pone,
dunque, in contrasto con la norma
statutaria.
Seguendo la gerarchia delle fonti,
conformemente anche all'articolo 7 del
citato decreto legislativo n. 267/2000 che
disciplina l'adozione dei regolamenti
comunali «nel rispetto dei principi fissati
dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza
Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009 e Tar Lazio, n. 497 del 2011)
la disposizione statutaria dovrebbe essere
prevalente sulla norma regolamentare.
In ogni caso, per quanto concerne la
possibilità, nei comuni fino a 15.000
abitanti di far presiedere il consiglio
comunale, in assenza del sindaco, al vice
sindaco non consigliere comunale, il
Consiglio di stato, con il parere n. 94/96
del 21/02/1996 (richiamato dal successivo
parere n. 501 del 14/6/2001), con
riferimento all'estensione dei poteri del
vicesindaco, ha evidenziato che il
vicesindaco può sostituire il sindaco nelle
funzioni di presidente del consiglio
comunale soltanto nel caso in cui il vicario
rivesta la carica di consigliere comunale.
Nell'ipotesi in cui il vice sindaco, come
nel caso di specie, sia un assessore
esterno, questi non può presiedere il
consiglio, in quanto non può «fungere da
presidente di un collegio un soggetto che
non ne faccia parte».
La seconda questione prospettata trova
adeguata soluzione nell'orientamento del
Consiglio di stato, espresso con pareri n.
94/1996 del 21.02.1996 e n. 501/2001 del
04.06.2001, che, nella sostanza, hanno
avallato la linea interpretativa già
seguita, in materia, dal ministero
dell'interno.
In particolare l'Alto consesso, rilevando
che le funzioni del sindaco sospeso vengono
svolte dal vicesindaco in virtù dell'art.
53, comma 2, del decreto legislativo n.
267/2000, ha stabilito che nell'ipotesi di vicarietà, nessuna norma positiva identifica
atti riservati al titolare della carica e
vietati a chi lo sostituisce.
Tale considerazione di ordine testuale
risulta confortata da riflessioni di
carattere sistematico, poiché la
preposizione di un sostituto all'ufficio o
carica in cui si è realizzata la vacanza
implica, di regola, l'attribuzione di tutti
i poteri spettanti al titolare, con la sola
limitazione temporale connessa alla vacanza
medesima.
Se a ciò si aggiunge che l'esigenza di
continuità dell'azione amministrativa
dell'ente locale postula che in ogni momento
vi sia un soggetto giuridicamente
legittimato ad adottare tutti i
provvedimenti oggettivamente necessari
nell'interesse pubblico (riguardo la
questione precedente, infatti, l'assenza del
sindaco presidente del consiglio è supplita
dal consigliere anziano) è necessario
riconoscere al vicesindaco reggente pienezza
di poteri.
Peraltro, in merito alla specifica
fattispecie, il dpr 20.03.1967, n. 223
all'articolo 14, stabilisce che la
commissione elettorale comunale è presieduta
dal sindaco e in caso di assenza,
impedimento o cessazione dalla carica,
dall'assessore delegato o dall'assessore
anziano. Se il sindaco, infine, è sospeso
dalle funzioni di ufficiale del governo, la
commissione è presieduta dal commissario
prefettizio incaricato di esercitare tali
funzioni.
Nel caso di cui trattasi, alla luce delle
disposizioni di cui al Tuel, dunque, il vice
sindaco assumerà anche le funzioni di
presidente della commissione elettorale in
sostituzione del sindaco assente
(articolo ItaliaOggi del
05.05.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Il sindaco paga lo staff. Il
rapporto è necessariamente oneroso. La
figura del consigliere politico non è
prevista dall'ordinamento.
Il sindaco di un comune può individuare e
nominare i «consiglieri politici», figure
non previste dallo statuto comunale, che
dovrebbero svolgere funzioni di supporto
all'azione amministrativa assicurando
maggiore incisività ed efficacia al governo
della comunità locale, senza alcun onere per
il comune?
L'ordinamento degli enti locali non prevede
la figura del «consigliere politico»; i
consiglieri, gli assessori ed il sindaco,
quali organi di governo degli enti locali,
sono figure tipiche individuate dalla legge.
Nel sistema disciplinato dal legislatore
costituzionale, art. 117, lettera p), lo
Stato ha legislazione esclusiva in materia
di «organi di governo e funzioni
fondamentali di comuni, province e città
metropolitane», mentre all'ente locale è
riconosciuta un'autonomia statutaria,
normativa, organizzativa ed amministrativa
nel rispetto, però, dei principi fissati dal
decreto legislativo n. 267/2000.
Ai sensi dell'art. 6 del Tuel, lo statuto
stabilisce le norme fondamentali
dell'organizzazione dell'ente e specifica le
attribuzioni degli organi.
È prevista, inoltre, la possibilità di
istituire uffici di supporto agli organi di
direzione politica ai sensi dell'art. 90 del
citato decreto legislativo che al primo
comma demanda al regolamento degli uffici e
dei servizi la possibilità di prevedere la
costituzione di uffici posti alle dirette
dipendenze del sindaco, della giunta o degli
assessori per l'esercizio delle funzioni di
indirizzo e controllo loro attribuite dalla
legge. Con riferimento a tale istituto, la
giurisprudenza contabile ha evidenziato il
carattere necessariamente oneroso del
rapporto con i soggetti incaricati di
funzioni di staff (cfr. pronuncia Src
Campania n. 155/2014/PAR).
Per quanto
concerne la possibilità che il sindaco
deleghi proprie funzioni ai consiglieri,
tali ipotesi possono ricorrere, ai sensi
dell'art. 54, comma 10, per l'esercizio
delle funzioni di ufficiale del governo nei
quartieri e nelle frazioni, e ai sensi
dell'art. 31, comma 4, in caso di
partecipazioni alle assemblee consortili
(articolo ItaliaOggi
del 28.04.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
L'accesso non ha limiti.
Gli uffici non possono sindacare le
richieste.
Vanno riviste le norme comunali che
impongono l'obbligo di motivazione.
Ai sensi dell' art. 43 del dlgs n. 267/2000,
in materia di diritto di accesso dei
consiglieri comunali, possono considerarsi
legittime le norme regolamentari che
impongono al consigliere comunale di
motivare la propria richiesta di accesso
agli atti; ovvero che affidano al sindaco il
potere di verificare che l'informazione
richiesta attenga al mandato del
consigliere; oppure che limitano il diritto
di visione degli atti quando ciò si traduca
in «un potere di inchiesta, di ispezione o
di verifica»?
Il «diritto di accesso» e il «diritto di
informazione» dei consiglieri comunali in
ordine agli atti in possesso
dell'amministrazione comunale, utili
all'espletamento del proprio mandato,
trovano la loro disciplina specifica nel
citato art. 43 del decreto legislativo n.
267/2000, che si differenzia rispetto al pur
ampio diritto di accesso riconosciuto al
cittadino dall'articolo 10 del medesimo
decreto legislativo.
Il termine «utili», contenuto nella citata
disposizione del Tuel, garantisce, infatti,
l'estensione di tale diritto di accesso a
qualsiasi atto ravvisato utile per
l'esercizio del mandato (cfr. Cds
n. 6963/2010) senza che alcuna limitazione
possa derivare dall'eventuale natura
riservata delle informazioni richieste (v.
anche Consiglio di stato, sentenza n. 4525
del 05.09.2014, che ha richiamato Cds,
sez. V, 17.09.2010, n. 6963 e 09.10.2007, n. 5264).
Anche la Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi, con parere reso in
data 09.04.2014, ha specificato che
l'accesso del consigliere non può essere
soggetto ad alcun onere motivazionale,
giacché altrimenti sarebbe introdotta una
sorta di controllo dell'ente, attraverso i
propri uffici, sull'esercizio del mandato
del consigliere comunale. La Commissione,
infatti, considerato che il consigliere è
comunque vincolato al segreto d'ufficio, ha
ritenuto che gli unici limiti all'esercizio
del diritto di accesso dei consiglieri
comunali si rinvengano, per un verso, nel
fatto che esso non deve sostanziarsi in
richieste assolutamente generiche, ovvero
meramente emulative (fermo restando che la
sussistenza di tali caratteri necessita di
attento e approfondito vaglio, al fine di
non introdurre surrettiziamente
inammissibili limitazioni al diritto
stesso), nonché, per altro verso, nel fatto
che esso debba avvenire in modo da
comportare il minor aggravio possibile per
gli uffici comunali (vedi, oltre al citato
parere del 09.04.2014, anche il
precedente plenum in data 06.04.2011,
conforme a Cds, sez. V, 04.05.2004, n.
2716, Tar Trentino-Alto Adige, Trento, sez.
I, 07.05.2009, n. 143).
Conseguentemente, gli uffici comunali e il
sindaco non hanno il potere di sindacare il
nesso intercorrente tra l'oggetto delle
richieste di informazioni avanzate da un
consigliere comunale e le modalità di
esercizio del munus da questi espletato.
Ciò, anche nel rispetto della separazione
dei poteri (artt. 4 e 14 del decreto
legislativo n. 165/2001) sancita, per gli enti
locali, dall'art. 107 del decreto
legislativo n. 267/00 secondo cui i poteri
di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo spettano agli organi
di governo, essendo riservata ai dirigenti
la gestione amministrativa, finanziaria e
tecnica.
Peraltro, ai sensi dell'art. 42, comma 1,
del Tuel il consiglio è l'organo di
indirizzo e «di controllo
politico-amministrativo»; sicché, il
controllo del sindaco sull'operato anche dei
singoli consiglieri si porrebbe in contrasto
alla predetta normativa.
Nel caso di specie, pertanto, è opportuna la
revisione delle disposizioni che impongono
l'obbligo motivazionale a carico dei
consiglieri richiedenti l'accesso e che
affidano al sindaco il potere di verifica.
Tuttavia l'ente, attraverso l'esercizio
della propria potestà regolamentare, può
optare, tra le varie alternative possibili,
per la disciplina che, in concreto, meglio
contemperi esigenze concorrenti.
In particolare, quelle di garanzia delle
condizioni più adeguate all'espletamento del
mandato da parte dei consiglieri comunali e
quelle di salvaguardia della funzionalità
degli uffici e del normale espletamento del
servizio da parte del personale dipendente,
nonché quella di tutela della sicurezza
degli uffici, del personale e del patrimonio (articolo ItaliaOggi
del 21.04.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Il gruppo cambia nome. Anche se lo statuto del
comune non lo consente. È una scelta politica da
considerarsi generalmente ammissibile.
Se le norme statutarie e regolamentari vigenti in un comune
prevedono solo la modifica della composizione dei medesimi
gruppi, è' ammissibile il cambio di denominazione dei gruppi
consiliari?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente
prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle
disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative
in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3, art.
39, comma 4, e art. 125 del decreto legislativo n.
267/2000).
La materia deve, comunque, essere regolata da apposite norme
statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali
nell'ambito dell'autonomia organizzativa riconosciuta,
dall'art. 38 del citato Tuel, ai consigli comunali.
I mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze
politiche presenti in consiglio comunale per effetto di
dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza,
comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari,
ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti, sono
ammissibili. Tuttavia, sono i singoli enti locali,
nell'ambito della propria potestà di organizzazione, i
titolari della competenza a dettare norme, statutarie e
regolamentari, nella materia.
Nel caso di specie, si tratta, tuttavia, di cambio di
denominazione di un gruppo consiliare che, in assenza di una
specifica disposizione statutaria o regolamentare, appare
comunque rientrare nelle scelte proprie delle formazioni
politiche presenti nel consiglio, che sono in genere da
ritenersi ammissibili.
Peraltro, sebbene sia lo statuto che il regolamento
dell'ente locale presentino, nella fattispecie in esame, una
certa rigidità nella formazione dei gruppi, ancorandola alla
denominazione della corrispondente lista di elezione, lo
stesso statuto comunale consente la costituzione di gruppi
non corrispondenti alle liste elettorali, purché siano
composti da almeno tre membri.
Pertanto, può ritenersi che tale valore numerico costituisca
il limite per la costituzione di gruppi con denominazioni
diverse da quelle originarie
(articolo ItaliaOggi del 31.03.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: NOLI (Savona) — Vincolo paesaggistico relativo
alla via Aurelia (sede stradale e fasce laterali)
(MIBACT,
nota 08.03.2017 n. 7403 di
prot.).
---------------
Si riscontra la nota prot. 20630 del 07.12.2016 con la
quale codesta Direzione, anche a seguito di uno specifico
quesito posto dall'amministrazione comunale alla competente
Soprintendenza, chiede un parere in merito alla corretta
interpretazione del vincolo in oggetto, che tutela sia il
sedime stradale dell'antica via Aurelia, sia le fasce
laterali del sedime (per una profondità costante di 100 m
dai due bordi stradali compresi tra le progressive
chilometriche espressamente indicate) nelle quali vige il
divieto assoluto di apporre cartelli stradali pubblicitari.
In particolare, il d.m. del 20.03.1956 dichiara di notevole
interesse pubblico, ai sensi della legge 29.06.1939, n.
1497, "la sede stradale della via Aurelia", nel percorso ivi
individuato. Per quanto riguarda invece le fasce laterali
del sedime (non espressamente citate nel decreto di vincolo)
nel testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 86 del
1956, a corredo del d.m., sono pubblicati gli estratti degli
elenchi della Commissione provinciale di Savona, riferiti
alle sedute del 20.10.1953 e del 17.02.1954. (...continua). |
CORTE DEI CONTI |
CONSIGLIERI COMUNALI -
INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Danno erariale per l’incarico esterno su attività gestibili
dai dipendenti dell’ente.
Il Comune che delibera l’affidamento di
un incarico esterno che si sarebbe potuto svolgere con il
proprio personale provoca un danno erariale in quanto viola,
con grave colpa, i principi di economicità, efficienza,
efficacia e ragionevolezza –sanciti dall’articolo 1 della L.
n. 241/1990 e dal Dlgs n. 165/2001- posti a fondamento del
buon andamento della Pa, di cui all’articolo 97 della
Costituzione.
---------------
La domanda risarcitoria dedotta in giudizio trae origine
dall’affidamento esterno di una prestazione d’opera
professionale -consistente nella ricerca della “attivazione
di risorse finanziarie non impositive”- in assenza dei
requisiti e delle condizioni che ne giustificassero
l’adozione, con conseguente danno corrispondente all’inutile
costo -pari ad € 40.500,00- riconosciuto alla ditta
affidataria a titolo di ingiusto corrispettivo, ed imputato
agli odierni convenuti (componenti della Giunta Municipale
che adottò la Deliberazione n. 90 del 06/10/2008) in ragione
delle responsabilità derivanti dalle funzioni e dai compiti
esercitati in concreto nella procedura di affidamento, alla
cui formazione era stato inizialmente riconosciuto il
contributo causale del Responsabile dell’Area Tecnica -ing.
Fr.Di.- il cui successivo decesso aveva comportato,
unitamente alla esclusione della imputazione di personale
responsabilità, la conseguente rideterminazione del danno,
oggi utilmente perseguibile, nella misura di € 32.400,00.
Il Collegio ritiene che la pretesa risarcitoria azionata da
Parte Pubblica sia fondata, e ciò sulle seguenti
considerazioni fattuali e giuridiche che ne determinano
l’integrale accoglimento, anche alla stregua di un percorso
valutativo che imponga “ex ante” la misurazione delle
regolari condotte esigibili, in fattispecie concreta, dai
convenuti.
Preliminarmente il Collegio intende soffermarsi sulla esatta
qualificazione giuridica da conferire alla “fattispecie
negoziale” individuata come produttiva del danno in
contestazione, ancorché su siffatta questione le parti non
abbiano sollevato alcuna specifica eccezione o rilievo “dubitativo”,
essendosi le ragioni della controversia sviluppate lungo la
traccia giuridico-normativa delineata dall’art. 7, co. 6,
D.Lgs. n. 165/2001 disciplinante il conferimento di
incarichi fiduciari esterni, nonostante, dagli atti di causa
emerga qualche riferimento al sistema degli appalti di
servizi.
Invero:
- la determina n. 320 Reg. Gen. del 14.10.2008, a firma
dell’ing. Fr.Di. reca ad oggetto l’“affidamento
prestazioni”;
- il successivo contratto del 16.10.2008 (sempre firmato
dall’ing. Di.), dopo aver riportato in premessa il richiamo
a “prestazione servizi ai sensi D.Lgs. n. 163/2006”,
individua quale oggetto dello stesso la “prestazione di
servizi”;
- lo stesso atto di citazione, nell’introdurre la
descrizione della vicenda di danno, discorre di “…prestazione
di servizi…”;
- e, in ultimo, la pur censurata modalità di affidamento
dell’incarico in argomento è quella –“negoziata”–
contemplata dal suddetto D.Lgs. n. 163/2006 disciplinante la
materia degli appalti di servizi.
In realtà, “…l’incarico di prestazione di servizi…”
affidato dal Comune di Stigliano alla ditta “L.S.”,
lungi dal consentire la pacifica ed agevole qualificazione
dello stesso nel novero del sistema degli “Appalti di
servizi”, configura una vera e propria fattispecie di “Conferimento
di incarico esterno”, con conseguente applicazione dei
presupposti, delle condizioni e dei limiti, di cui al D.Lgs.
n. 165 del 2001, posti a presidio della corretta
utilizzazione di tale modulo operativo.
E ciò, indipendentemente dal nomen iuris emergente
dagli atti del procedimento amministrativo e dagli scritti
di causa, inidonei a vincolare il Giudice nell’esercizio del
proprio dovere-potere di qualificare giuridicamente l’azione
ed il rapporto dedotto in giudizio, con l’unico limite
dell’integrità dei fatti e degli elementi costitutivi della
domanda (Cass. Sez. II nn. 15925/2007, 10922/2005 e
3980/2004; C.d.c. FVG, 20.02.2009, n. 73).
Del resto, che la fattispecie si inquadri nel “tipo”
degli incarichi e delle consulenze esterne, v’è conferma nel
richiamo, svolto in punto di motivazione del provvedimento
di affidamento, alla rilevata insufficienza, o
impreparazione, del personale organicamente inserito
nell’Ente per l’assolvimento della prestazione oggetto di
esternalizzazione.
In ogni caso, ed indipendentemente dalla qualificazione
giuridica prospettata dalle parti, ma nel rispetto di quei
principi di ragionevolezza non suscettibili di alcuna
indebita interferenza col divieto di sindacato sulle scelte
discrezionali dell’Amministrazione, va precisato come ormai
cogente ed obbligatorio si manifesti il dovere per ogni
Pubblica Amministrazione di rispettare le regole che
presidiano gli affidamenti di incarichi esterni –comunque
formalizzati– regole, queste, copiosamente e partitamente
enucleate dalla Corte dei conti nell’esercizio della
funzione giurisdizionale e di controllo sulla scorta
dell’impianto normativo di settore formatosi nel tempo, e
che conferiscono a tale “scelta operativa” il
carattere della eccezionalità, rispetto all’ordinario
impiego delle risorse professionali ritraibili dal proprio
organico.
Nella sintetizzata ottica organizzativa vanno quindi lette
le limitazioni costituite dalla peculiarità dell’oggetto
della prestazione conferita, dalla delimitazione temporale
dell’incarico, dalla coerenza del compenso con la qualità e
quantità del lavoro affidato e dalla inesistenza di figure
professionali “interne” in grado di assolvere a quel
compito, riscontrata mediante una reale, e dimostrata,
ricognizione.
I limiti, invero stringenti, al conferimento di incarichi
esterni, sommariamente richiamati, risultano essere stati
platealmente superati nell’ambito dell’affidamento del
servizio di “ricerca dei finanziamenti utilizzabili”
alla ditta “L.S.” sotto il duplice profilo
dell’assenza di tratti di particolare complessità o
specialità della prestazione, e del reale, concreto ed
attendibile riscontro della inidoneità del personale “intraneo”
a svolgere il servizio di cui si predicava, e disponeva, la
necessaria esternalizzazione.
E tanto, senza indugiare sui pur adombrati profili collusivi
documentalmente, e sospettosamente, emergenti dalla perfetta
coincidenza delle prerogative professionali vantate dalla
ditta in sede di illustrazione della propria offerta, con le
motivazioni poste a sostegno della Deliberazione giuntale n.
90 del 2008, la cui valenza di “mero” atto di
indirizzo, pure eccepita in sede difensiva dagli autori
della stessa per decolorarne la incidenza nella dinamica
causativa del danno, è clamorosamente smentita dalla
minuziosa e particolareggiata descrizione delle
caratteristiche della prestazione oggetto di affidamento,
sorprendentemente coincidenti con le specifiche distintive
della ditta affidataria.
In realtà, osserva il Collegio in aperta condivisione delle
stigmatizzazioni accusatorie sul punto, l’attività
ricognitiva delle disponibilità finanziarie “dormienti”
o “silenti”, non appare connotata da quel tratto di
alta complessità o specialità che imponga il ricorso ad
operazioni di particolare competenza non esigibile da
personale impiegato nella gestione del settore
economico-finanziario di un Comune che, a maggior dire per
quello di Stigliano, non contempla tra i propri compiti
quello di intraprendere o perseguire attività o strategie di
investimento, o di indebitamento, che in qualche modo, e con
elevato rischio, vengono riservate a soggetti finanziari
privati, certamente più avvezzi alla speculazione che alla
pianificazione.
Ed a conforto di tale valutazione non vale tanto richiamare
la pur facile constatazione del risultato -invero “ordinario”-
ottenuto dalla “fragorosa” iniziativa intrapresa (la
contabilizzazione dei mutui non utilizzati), quanto la
manifesta irragionevolezza di una scelta che, già in una
valutazione ex ante, avrebbe dovuto far intuire, in
un’ottica di credibile verosimiglianza sorretta dalla
doverosa conoscenza dei dati relativi alla esperienza
concreta della gestione delle risorse di bilancio, la
possibilità di definire in autonomia, e senza ricorso ad
onerose consulenze esterne, tale passaggio ricognitivo,
anche nella ritenuta necessarietà dello stesso per la
pianificazione di nuovi e proficui investimenti.
Peraltro, non è di poco conto rilevare come, successivamente
a tale riscontrata necessità, iniziative di identico tenore
e contenuto fossero state con successo intraprese dal Comune
(Determinazioni del Servizio di Urbanistica “lavorate”
dal personale dell’Ente e finalizzate all’accensione dei
mutui di € 235.000,00 e € 14.500,00): a conferma del fatto
che “…da soli si poteva!...”.
Né è ravvisabile, come ampiamente argomentato dalla difesa,
una condizione di insufficienza, numerica e qualitativa, del
personale impiegato cui poter affidare tale incombenza.
In disparte la pur condivisa osservazione sulla mancanza di
ogni reale e concreta indagine ricognitiva che valesse ad
integrare il requisito richiesto dalla normativa di settore
(ma sarebbe più corretto dire “richiesto dalle regole di
una ragionata e prudente amministrazione”) deve
rilevarsi come “L’assetto organizzativo del Comune ed il
piano di assegnazione contingenti di personale” di cui
alla Deliberazione n. 78 del 03/07/2003, non sostanzialmente
modificata dal successivo Atto giuntale (Deliberazione n. 5
del 28/01/2009) intervenuto sul punto, contemplasse
l’assegnazione al 2° Settore-Area Economico finanziaria di 9
unità di personale, 7 delle quali appartenenti alle
categorie B e C, e quindi con qualifica di “istruttore” e “collaboratore”:
pur volendo considerare il rilievo “incidente”
dell’assenza del dirigente, la descritta dotazione organica
non appare plausibilmente connotata da quella grave e
cronica penuria di risorse umane che offra ragione della
scelta di esternalizzazione effettuata.
Né in altri atti dell’Ente è dato rilevare un significativo
segnale di “criticità” della organizzazione del
personale che, nel settore coinvolto indirettamente nella
intrapresa iniziativa, ne paventasse in qualche modo
l’adottata soluzione “di rimedio”.
Sulla scorta delle dispiegate osservazioni,
il Collegio
giudica la scelta di ricorrere ad un oneroso servizio consulenziale esterno per la ricognizione delle risorse
finanziarie disponibili, intrapresa dalla Giunta Municipale
di Stigliano con la Deliberazione n. 90 del 2008,
come
segnata da grave ed inescusabile superficialità, nonché
produttiva di ingiustificato danno, costituito dal
corrispettivo riconosciuto alla ditta affidataria.
Di tale danno, pari ad € 32.400,00 per effetto dello
stralcio della quota inizialmente addebitata all’ing. Di.,
nelle more della vicenda giudiziaria deceduto, vanno
dichiarati responsabili gli odierni convenuti che, in
qualità di componenti della Giunta Municipale che adottò la
delibera di affidamento, offrirono decisivo ed unico
contributo causale all’avveramento dello stesso.
Somma comprensiva di rivalutazione monetaria. Interessi
legali dalla sentenza sino al soddisfo.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione
Basilicata così decide:
a) condanna gli odierni convenuti DI GI. Le., BA.An., CA.Gi. e
FE.Gi. al risarcimento, in parti uguali, in favore del
Comune di Stigliano, della somma complessiva di € 32.400,00.
Somma comprensiva di rivalutazione monetaria. Interessi
legali dalla sentenza sino al soddisfo (Corte dei Conti,
Sez. giurisdiz. Basilicata,
sentenza
16.06.2017 n. 62). |
APPALTI FORNITURE: Sulla
possibilità di acquistare, al di fuori del Mercato
elettronico (MePa) e della convenzione stipulata attraverso
la Consip, il gasolio e la benzina per i mezzi comunali, a
prezzi più vantaggiosi (-10%).
Obbligo Consip per le forniture di carburante anche senza
risparmio di spesa.
Per rifornirsi di carburante il Comune non può
approvvigionarsi in autonomia sul mercato e sottrarsi al
meccanismo delle convenzioni-quadro, a prescindere
dall'onerosità e dalla minor convenienza che l'acquisizione
centralizzata di beni e servizi presso la Consip può
comportare.
---------------
Il Sindaco del Comune di Pettorazza Grimani (RO) ha
presentato richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma
8, della legge 05.06.2003, n. 131, formulando un quesito
sulla possibilità di acquistare, al di fuori del Mercato
elettronico (MePa) e della convenzione stipulata attraverso
la Consip, il gasolio e la benzina per i mezzi comunali,
considerato che i prezzi applicati in forza della
convenzione sarebbero molto più alti di quelli praticati dai
locali distributori di carburante, con una differenza di
oltre il 10%.
...
Il quesito formulato dal Sindaco del Comune di Pettorazza
Grimani, tuttavia, poiché espresso in termini non
propriamente generali ed astratti, può essere affrontato
limitatamente all’interpretazione delle summenzionate
disposizioni ed all’ambito di operatività delle specifiche
deroghe previste in materia.
L’acquisizione centralizzata di beni e servizi da parte
delle pubbliche amministrazioni mediante le c.d. centrali di
committenza e la Consip, in particolare (individuata
dall’art. 58 della L. 388/2000 quale centrale di acquisti
nazionale), ossia mediante convenzioni-quadro, già prevista
dalla L. n. 488/1999, è stata ulteriormente disciplinata
dalla L. n. 296/2006, la quale ha imposto alle
Amministrazioni statali il ricorso a tali convenzioni per
qualunque categoria merceologica, sancendo l’obbligo per la
quasi totalità delle amministrazioni statali e periferiche
di ricorrere al Mercato Elettronico della PA (MePa) per gli
acquisti sotto la soglia di rilievo comunitario (art. 1,
commi 449-450).
Successivamente, il D.L. n. 95/2012 (conv. nella L. n.
135/2012) ha esteso a tutte le pubbliche amministrazioni ed
alle società inserite nel conto economico consolidato della
PA l’obbligo di utilizzare le convenzioni Consip per
particolari categorie merceologiche di beni, compresi i
carburanti, prevedendo la nullità dei contratti stipulati in
violazione di tale obbligo, oltre ad una connessa ipotesi di
responsabilità disciplinare e per danno erariale in capo
agli autori della violazione medesima.
Da ultimo, la L. n. 208/2015 ha introdotto
una serie di disposizioni, sempre in materia di acquisti
delle pubbliche amministrazioni, disciplinando ulteriormente
la possibilità di deroga al regime dianzi sinteticamente
descritto, che era stata introdotta dalla L. n. 228/2013.
In primo luogo, il comma 510
dell’art. 1 della Legge di stabilità per il 2016, ha
riconosciuto alle pubbliche amministrazioni obbligate ad
approvvigionarsi attraverso le convenzioni Consip -o
attraverso quelle stipulate con altre centrali di
committenza regionali- la facoltà di procedere ad acquisti
autonomi, esclusivamente nel caso in cui “il bene o il
servizio oggetto di convenzione non sia idoneo al
soddisfacimento dello specifico fabbisogno
dell’amministrazione per mancanza di caratteristiche
essenziali” ed a condizione che vi sia la previa
autorizzazione motivata dell’organo di vertice
amministrativo, da trasmettere al competente ufficio della
Corte dei conti.
In secondo luogo, il comma 494 del
medesimo art. 1 della citata Legge di stabilità, modificando
il comma 7 dell’art. 1 del D.L. n. 95/2012, ha fatta salva
la possibilità, introdotta dall’art. 1, comma 151, della L.
n. 228/2013, di procedere ad affidamenti al di fuori della
convenzione Consip conseguenti “ad approvvigionamenti da
altre centrali di committenza o a procedure di evidenza
pubblica”, ma ha disposto, altresì, che gli stessi
debbano prevedere “corrispettivi inferiori almeno del 10
per cento per le categorie merceologiche telefonia fissa e
telefonia mobile e del 3 per cento per le categorie
merceologiche carburanti extra-rete, carburanti rete,
energia elettrica, gas e combustibili per il riscaldamento
rispetto ai migliori corrispettivi indicati nelle
convenzioni e accordi quadro messi a disposizione da Consip
SpA e dalle centrali di committenza regionali”.
La disposizione, inoltre, ha confermato la
necessità di apporre ai relativi contratti una clausola
risolutiva espressa, fissando, però, ad una soglia (più del
10 per cento) la percentuale di maggior vantaggio economico
ai fini dell’adeguamento del contraente ai “migliori
corrispettivi” offerti dalla Consip ed ha individuato un
“periodo sperimentale” di tre anni (dal 01.01.2017 al
31.12.2019), nel quale la facoltà per le amministrazioni di
svincolarsi dalle convenzioni Consip non è operante.
La ratio delle modifiche appena illustrate è quella
di rafforzare il sistema di acquisizione centralizzata,
disincentivando gli acquisti autonomi anche attraverso la “disapplicazione”
della deroga con riguardo ad alcune categorie merceologiche,
tra le quali proprio i carburanti.
Così definito il quadro normativo di riferimento,
occorre accertare se ed in che termini un ente
locale possa effettuare acquisti di carburante in via
diretta, sottraendosi, cioè, al meccanismo della
convenzione-quadro, ove questa comporti l’applicazione di un
corrispettivo (prezzo) sensibilmente più elevato rispetto a
quello rinvenibile sul mercato locale, avente, tra l’altro,
il vantaggio della vicinanza dei luoghi di rifornimento
(distributori presenti sul territorio comunale).
In merito si sono già espresse altre Sezioni regionali di
controllo, soffermandosi, in particolare, sulla
interpretazione delle citate norme derogatorie (Sezione
regionale di controllo per l’Emilia Romagna,
parere 20.04.2016 n. 38 e Sezione regionale di
controllo per il Friuli Venezia Giulia,
parere 25.03.2016 n. 35).
La prima, ossia quella che prevede la possibilità di
procedere, in generale, ad acquisti autonomi, laddove il
bene o servizio offerto in forza della convenzione non
soddisfi lo specifico fabbisogno dell’amministrazione
acquirente (comma 510 della L. n. 208/2015), correttamente è
stata ritenuta non applicabile al caso di acquisto di beni
fungibili (qual è, di norma e per natura, il carburante)
(Sezione regionale di controllo per il Friuli Venezia
Giulia, deliberazione cit.). La seconda, che
riguarda, invece, il reperimento sul mercato di alcune
categorie di prodotti, tra i quali proprio il carburante
(art. 1, comma 7, del D.L. n. 95/2012, come modificato dal
comma 494 della L. n. 208/2015) è senz’altro applicabile.
La deroga,
come emerge dal testo di tale ultima disposizione,
è sottoposta a limiti ed a condizioni ben precisi,
concretizzandosi nell’alternativa del ricorso ad altre
centrali di committenza o dell’esperimento di apposita
procedura ad evidenza pubblica. E’ richiesto, in entrambi i
casi, il conseguimento di un risparmio apprezzabile che, per
quanto riguarda il carburante (ed altre tipologie di beni
individuati dal legislatore), non può essere inferiore del 3
per cento rispetto ai prezzi fissati nelle convenzioni
Consip.
Non esistono, allo stato, possibilità di
approvvigionamento alternative diverse da quelle previste da
tali disposizioni, le quali, tra l’altro, avendo carattere
derogatorio e, quindi, eccezionale, devono considerarsi di
stretta interpretazione.
Per quanto riguarda l’acquisto di carburante, in generale ed
ad eccezione degli esercizi 2017, 2018 e 2019, dunque, il
ricorso diretto al mercato, laddove sia suscettibile di
determinare un effettivo risparmio di spesa, potrà avvenire
in presenza dei presupposti individuati dal legislatore e
nei limiti da quest’ultimo fissati.
Ne consegue che, qualora una
amministrazione pubblica non volesse far ricorso ad altre
centrali di committenza per l’acquisto di carburante,
sottraendosi al meccanismo delle convenzioni-quadro, e
volesse, invece, stabilire un rapporto diretto con un
fornitore, non potrebbe proprio farlo nel presente esercizio
(come negli altri due successivi), mentre al di fuori del
periodo di sospensione della deroga, avrebbe l’obbligo di
individuare tale fornitore mediante procedura ad evidenza
pubblica, secondo i principi generali e secondo le modalità
previste dal citato comma 494 dell’art. 1 della L. n.
208/2015.
Ciò a prescindere dall’onerosità e dalla
minor convenienza che, nel caso concreto rappresentato
dall’ente, sono certamente imputabili al sistema di acquisto
previsto dalle norme vigenti, alle quali codesta Sezione, al
pari delle amministrazioni pubbliche destinatarie della
normativa medesima, tuttavia, è tenuta a dare applicazione
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 29.05.2017 n. 348). |
CONSIGLIERI COMUNALI -
INCARICHI PROFESSIONALI:
Danno erariale al sindaco per l’affidamento diretto di
incarichi legali.
Secondo i magistrati contabili
l'affidamento in via diretta, da parte del sindaco, del
patrocinio legale ad avvocati del libero foro, in presenza
all'interno dell'ente di una propria avvocatura civica,
costituisce colpa grave tale da generare danno erariale.
Una possibile ed eccezionale scelta di avvocati all'esterno,
resta, in ogni caso, attribuita in via esclusiva alla
competenza dell'organo gestionale (avvocatura) e non
all'organo politico che, avendo proceduto con un illegittimo
affidamento fiduciario, ne subisce le sorti in fatto di
responsabilità erariale trattandosi di spesa inutilmente
sostenuta dall'ente. In altri termini, i citati incarichi
effettuati dal sindaco, rientrando in una scelta di gestione
attiva, ne radicano le conseguenze e le relative
responsabilità.
Sono queste le conclusioni cui è pervenuta la Corte dei
conti, Sez. giurisdiz. per il Lazio con la
sentenza 29.05.2017 n. 124.
Il fatto
La causa amministrativa che vedeva esposta l'amministrazione
comunale, con rilevanti risarcimenti di danni richiesti da
una ditta aggiudicataria a cui era stata successivamente
disposta la revoca dell'aggiudicazione, aveva condotto il
sindaco ad affidare in via diretta la difesa dell'ente a due
avvocati esterni del libero foro, pur in presenza di una
avvocatura interna. L'amministrazione, a fronte delle
richieste avanzate dai ricorrenti e della possibile
soccombenza l'ente, addiveniva a una transazione con
l'aggiudicatario estromesso, transazione considerata
vantaggiosa per l'ente.
In considerazione della mancata preventiva definizione degli
onorari da corrispondere ai legali esterni, si addiveniva a
un accordo sulle somme da corrispondere, con il successivo
riconoscimento di un debito fuori bilancio da parte del
consiglio comunale per circa mezzo milione di euro. A fronte
di tale scelta fiduciaria e del rilevante importo
corrisposto, la Procura rinviava a giudizio di conto il
sindaco stimando il danno erariale pari alla differenza tra
quanto corrisposto ai legali esterni e quanto invece da
corrispondere agli avvocati interni (incentivi) in caso di
assegnazione a questi ultimi della difesa dell'ente.
La difesa dell'ex sindaco
Nelle proprie memorie di comparsa l'ex primo cittadino si
difende precisando come l'assistenza esterna era
giustificata dalla rilevanza economica del risarcimento
richiesto, tanto che la transazione, successivamente
raggiunta, era avvallata anche dall'avvocatura interna,
inoltre gli onorari pagati agli avvocati esterni prevedevano
una decurtazione importante, rispetto a quanto inizialmente
richiesto e, in ultimo, se di responsabilità doveva parlarsi
la stessa non poteva non trovare altri possibili
interlocutori a partire dai consiglieri comunali che avevano
votato il riconoscimento e quindi l'utilità della citata
prestazione, oltre ai responsabili dei servizi che ne
avevano sottoscritto i pareri di conformità contabile e
tecnica, ivi inclusa la stessa avvocatura civica che ne
aveva giudicato la congruità.
Le motivazioni del collegio contabile
Secondo il collegio contabile la responsabilità del danno
erariale, causato alle casse dell'ente locale, discende in
via preliminare dall'illegittimo conferimento diretto
effettuato dal sindaco, ossia in assenza di una comprovata e
motivata impossibilità di assegnazione della difesa
dell'ente alla propria avvocatura civica (composta da ben 24
legali interni). Altro aspetto fondamentale, che radica la
responsabilità al primo cittadino, è soprattutto la
circostanza che l'iniziativa per l'attribuzione
dell'incarico esterno era stata assunta dal sindaco mediante
una ingerenza nell'attività gestionale e tale che sul
medesimo non poteva non gravare anche un onere di verifica
della legittimità delle modalità con le quale si intendeva
conferire i citati incarichi.
In altri termini, se l'incarico esterno fosse stato
attribuito dal responsabile dell'avvocatura civica, lo
stesso avrebbe dovuto necessariamente motivare
l'impossibilità ad assolvere con la struttura interna il
citato incarico, oltre alle necessarie ed obbligatorie
attività gestionali, ivi comprese quelle relative
all'affidamento degli incarichi di patrocinio legale
all'esterno, mentre nel caso di specie il Sindaco,
inserendosi indebitamente nella gestione attiva, non può non
subirne le conseguenze degli incarichi illegittimi
attribuiti in via fiduciaria.
Il Collegio contabile considera, pertanto, le somme
corrisposte ai citati legali del libero foro come
diminuzione patrimoniale subita dall'ente con ripristino
della tutela contabile in capo al convenuto, applicando,
tuttavia, la riduzione di 1/3 delle somme che avrebbero
dovute essere poste in capo anche ad altri soggetti, non
chiamati dalla Procura contabile in giudizio, ma che in ogni
caso hanno partecipato alla successiva liquidazione delle
somme non dovute mediante il citato riconoscimento del
debito fuori bilancio (articolo Quotidiano Enti Locali &
Pa del 05.06.2017). |
INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Affinché
l'affidamento di un incarico professionale all'esterno
dell'ente non sostanzi un danno erariale,
la giurisprudenza contabile ha precisato principi e
criteri da osservare, poi positivizzati dal legislatore,
quali:
a) i conferimenti di incarichi di consulenza a soggetti esterni
possono essere attribuiti ove i problemi di pertinenza
dell'Amministrazione richiedano conoscenze ed esperienze
eccedenti le normali competenze del personale dipendente e
conseguentemente implichino conoscenze specifiche che non si
possono nella maniera più assoluta riscontrare nell'apparato
amministrativo;
b) l'incarico stesso non deve implicare uno svolgimento di attività
continuativa bensì la soluzione di specifiche problematiche
già individuate al momento del conferimento del quale
debbono costituire l'oggetto espresso;
c) l'incarico si deve caratterizzare per la specificità e la
temporaneità, dovendosi altresì dimostrare l'impossibilità
di adeguato assolvimento dell'incarico da parte delle
strutture dell'ente per mancanza di personale idoneo;
d) l'incarico non deve rappresentare uno strumento per ampliare
surrettiziamente compiti istituzionali e ruoli organici
dell'ente al di fuori di quanto consentito dalla legge;
e) il compenso connesso all'incarico sia proporzionato all'attività
svolta e non liquidato in maniera forfetaria;
f) la delibera di conferimento deve essere adeguatamente motivata
al fine di consentire l'accertamento della sussistenza dei
requisiti previsti;
g) l'organizzazione dell'Amministrazione deve essere comunque
caratterizzata per il rispetto dei princìpi di
razionalizzazione, senza duplicazione di funzioni e senza
sovrapposizione all'attività ed alla gestione
amministrativa, per la migliore utilizzazione e flessibilità
delle risorse umane nonché per l'economicità, trasparenza ed
efficacia dell'azione amministrativa, per il prioritario
impiego delle risorse umane già esistenti all'interno
dell'apparato;
h) l'incarico non deve essere generico o indeterminato, al fine di
evitare un evidente accrescimento delle competenze e degli
organici dell'Ente, il che presuppone la previa ricognizione
e la certificazione dell'assenza effettiva nei ruoli
organici delle specifiche professionalità richieste;
i) i criteri di conferimento non devono rivelarsi generici, perché
la genericità non consente un controllo sulla legittimità
dell'esercizio dell'attività amministrativa di attribuzione
degli incarichi.
---------------
Con riguardo all’elemento soggettivo della responsabilità
amministrativa si reputa che la condotte del convenuto
(sindaco) sia stata connotata da colpa grave evincibile
dalla violazione di disposizioni normative chiare, non
connotate da complessità esegetiche in ordine al
conferimento di incarichi esterni.
---------------
4. Nel merito, il Collegio deve esaminare la vicenda
descritta nella premessa in fatto e procedere alla verifica
della sussistenza degli elementi tipici della responsabilità
amministrativa che si sostanziano in un danno patrimoniale,
economicamente valutabile, arrecato alla pubblica
amministrazione, in una condotta connotata da colpa grave o
dolo, nel nesso di causalità tra il predetto comportamento e
l'evento dannoso, nonché, nella sussistenza di un rapporto
di servizio fra colui che lo ha determinato e l'ente
danneggiato.
5. Con riferimento all’elemento oggettivo va espressa
condivisione in ordine all’an del danno erariale
contestato dall’organo requirente e per le considerazioni
dallo stesso espresse.
Si premette che il quadro normativo di riferimento è
rappresentato:
· dall’art. 13, comma 5, del "Regolamento sull'Ordinamento degli
Uffici e dei Servizi" approvato con deliberazione della
Giunta Comunale n. 62 del 29.10.2002, e vigente all’epoca
dei fatti;
· dall'art. 6, comma 1, del "Regolamento di Organizzazione per
l'esercizio dell'azione di promovimento del giudizio,
resistenza alle liti, conciliazione e transazione"
approvato con deliberazione della Giunta Comunale n. 182 del
27.01.2001 e tuttora vigente;
· in termini generali, dall’art. 110 del Tuel e dall’art. 7, comma
6 e seguenti, del decreto legislativo n. 165/2001.
Sempre in subiecta materia la
giurisprudenza contabile ha precisato principi e criteri da
osservare, poi positivizzati dal legislatore con le
disposizioni normative richiamate:
a) i conferimenti di incarichi di consulenza a soggetti esterni
possono essere attribuiti ove i problemi di pertinenza
dell'Amministrazione richiedano conoscenze ed esperienze
eccedenti le normali competenze del personale dipendente e
conseguentemente implichino conoscenze specifiche che non si
possono nella maniera più assoluta riscontrare nell'apparato
amministrativo;
b) l'incarico stesso non deve implicare uno svolgimento di attività
continuativa bensì la soluzione di specifiche problematiche
già individuate al momento del conferimento del quale
debbono costituire l'oggetto espresso;
c) l'incarico si deve caratterizzare per la specificità e la
temporaneità, dovendosi altresì dimostrare l'impossibilità
di adeguato assolvimento dell'incarico da parte delle
strutture dell'ente per mancanza di personale idoneo;
d) l'incarico non deve rappresentare uno strumento per ampliare
surrettiziamente compiti istituzionali e ruoli organici
dell'ente al di fuori di quanto consentito dalla legge;
e) il compenso connesso all'incarico sia proporzionato all'attività
svolta e non liquidato in maniera forfetaria;
f) la delibera di conferimento deve essere adeguatamente motivata
al fine di consentire l'accertamento della sussistenza dei
requisiti previsti;
g) l'organizzazione dell'Amministrazione deve essere comunque
caratterizzata per il rispetto dei princìpi di
razionalizzazione, senza duplicazione di funzioni e senza
sovrapposizione all'attività ed alla gestione
amministrativa, per la migliore utilizzazione e flessibilità
delle risorse umane nonché per l'economicità, trasparenza ed
efficacia dell'azione amministrativa, per il prioritario
impiego delle risorse umane già esistenti all'interno
dell'apparato;
h) l'incarico non deve essere generico o indeterminato, al fine di
evitare un evidente accrescimento delle competenze e degli
organici dell'Ente, il che presuppone la previa ricognizione
e la certificazione dell'assenza effettiva nei ruoli
organici delle specifiche professionalità richieste;
i) i criteri di conferimento non devono rivelarsi generici, perché
la genericità non consente un controllo sulla legittimità
dell'esercizio dell'attività amministrativa di attribuzione
degli incarichi.
Ciò posto, l’illegittimità del conferimento
di incarico in esame si evince:
· dalla chiara violazione delle disposizioni
regolamentari disciplinanti l’istituto, in base alle quali
apparteneva al Capo dell'Avvocatura Comunale sia il potere
di proposta di conferimento di incarichi professionali ad
avvocati del libero foro
(art. 13, comma 5, del "Regolamento sull'Ordinamento
degli Uffici e dei Servizi”), sia il
potere di scelta del legale esterno
(all'art. 6, comma 1, "Regolamento di Organizzazione per
l'esercizio dell'azione di promovimento del giudizio,
resistenza alle liti, conciliazione e transazione"),
mentre, nella fattispecie in esame, la nomina dei
legali esterni è avvenuta mediante la procura a firma del
Sindaco Gi.Al. estesa a margine dell'atto di costituzione
del Comune di Roma nel giudizio avanti al TAR Lazio;
· dall’omessa –seria e concreta- preliminare
verifica in ordine alla effettiva impossibilità di ricorrere
a risorse interne, imposta sia dalle disposizioni
regolamentari richiamate che, più in generale, da norme di
legge ordinaria.
Al riguardo anche i principi di diritto affermati dalle
Sezioni Riunite di questa Corte (delib. n. 6/2005) espressi
nel senso che “deve essere adeguatamente
motivato con specifico riferimento all’assenza di strutture
organizzative o professionalità interne all’ente in grado di
assicurare i medesimi servizi. L’affidamento dell’incarico
deve essere preceduto, perciò, da un accertamento reale, che
coinvolge la responsabilità del dirigente competente,
sull’assenza di servizi o di professionalità, interne
all’ente, che siano in grado di adempiere l’incarico”;
· dalla circostanza –ben posta in rilievo dall’organo requirente-
che all'epoca dei fatti, nel mese di febbraio 2009,
l'Avvocatura Civica romana disponeva di ben ventiquattro
avvocati in servizio permanente.
La grave carenza istruttoria rilevata
milita, peraltro, nel senso che la nomina dei legali esterni
sia stata frutto di scelta fiduciaria da parte dell'allora
Sindaco Al..
5.1 Non inficiano le conclusioni raggiunte le pur suggestive
argomentazioni difensive volte ad evidenziare:
· la estrema rilevanza ed importanza (anche economica) della
questione, giacché tale aspetto non rende legittimo il
conferimento dell’incarico effettuato in palese violazione
di disposizioni legislative e regolamentari;
· l’assenza di segnalazione da parte del Capo dell’Avvocatura in
ordine a una possibile violazione procedimentale del
conferimento dell’incarico che -pur valutabile in sede di
quantificazione del danno erariale imputabile- non ha
valenza esimente dalla responsabilità amministrativa in
ragione della esigibilità di una condotta informata ai
principi di diligenza da parte del “primo cittadino”,
e declinabile nella vicenda in esame in termini di
preliminare verifica in ordine alla legittimità delle
modalità del conferimento di incarico che si intendeva
effettuare;
· l’assenza di danno erariale asserita affermando che il compenso
professionale era correlato alla prestazione, in quanto
siffatta tesi sovrappone impropriamente due piani, quello
civilistico riguardante l’esecuzione dell’incarico e che
vede come Parti l’Ente locale e i legali interessati, e
quello contabile nel cui ambito si è consumata la
illegittima procedura di conferimento e nel quale vengono in
rilievo l’Ente nella veste di danneggiato e il dipendente in
quella di presunto danneggiante;
· l’assenza di danno erariale affermata -sotto diverso profilo-
sull’assunto secondo cui l’Ente locale non avrebbe
conseguito un risparmio ove l’incarico fosse stato svolto in
via esclusiva dagli Avvocati interni dell’Ente, in quanto
asserzione puramente ipotetica;
· l’interruzione di ogni nesso causale tra il presunto danno ed il
comportamento tenuto dal convenuto che sarebbe stata
determinata dall’adozione della delibera n. 64/2012, in
quanto tale erronea tesi scaturisce dall’omessa distinzione
tra la delibera di riconoscimento del debito fuori bilancio
-che va a sanare un rapporto a contenuto patrimoniale tra
l’Ente e un soggetto esterno- doverosa ex art. 191 del Tuel
e la condotta illegittima e dannosa del convenuto foriera di
responsabilità amministrativa;
· l’impossibilità, da parte del sindaco, di essere a conoscenza del
regolamento dell’Ente articolato e complesso disciplinante
la materia, in quanto tale assunto –in astratto
condivisibile- non tiene conto che –in concreto- nella
fattispecie l’iniziativa per l’attribuzione dell’incarico
era assunta dal sindaco con una ingerenza nell’attività
gestionale e sul medesimo non poteva non gravare anche un
onere di verifica della legittimità delle modalità con le
quale si intendeva conferirlo;
· l’autentica di firma apposta consiste nell’attestazione che la
sottoscrizione è stata apposta in sua presenza da persona la
cui identità è stata previamente accertata conferendo anche
certezza alla data, ma non ha valenza di condivisione del
contenuto dell’atto.
6. Diverso apprezzamento si ritiene debba esprimersi in
ordine alla quantificazione del danno erariale -operata
dall’organo requirente in euro 468.720,00- che deve tener
conto del contributo causale di altri soggetti non evocati
in giudizio, sicché il danno risarcibile in favore dell’Ente
locale viene rideterminato in euro 312.480,00, oltre alla
rivalutazione monetaria dalla data (02.07.2013)
dell’esborso.
7. Con riguardo all’elemento soggettivo
della responsabilità amministrativa si reputa che la
condotte del convenuto sia stata connotata da colpa grave
evincibile dalla violazione di disposizioni normative
chiare, non connotate da complessità esegetiche in ordine al
conferimento di incarichi esterni.
8. Si reputano, inoltre, sussistenti, nella fattispecie in
esame, anche gli altri elementi della responsabilità
amministrativa, del rapporto di servizio –peraltro non
contestato- e del nesso di causalità.
9. In conclusione, accertata l’esistenza di tutti i
requisiti costitutivi della responsabilità amministrativa,
la domanda della Procura va accolta per le ragioni da questa
prospettate ma nella diversa misura dal Collegio determinata
oltre a rivalutazione monetaria e interessi legali dalla
data della sentenza al soddisfo.
10. Alla soccombenza segue anche l’obbligo del pagamento
delle spese di giudizio.
P. Q. M.
La Corte dei Conti – Sezione Giurisdizionale per la Regione
Lazio, definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza
ed eccezione reiette
RESPINGE
l’istanza di integrazione del contraddittorio.
CONDANNA
per l’addebito di responsabilità amministrativa di cui
all’atto di citazione in epigrafe, il signor Gi.Al. al
pagamento, in favore del comune di Roma Capitale, di
complessivi euro 312.480,00, oltre alla rivalutazione
monetaria dalla data del 02.07.2013.
Tale somma sarà gravate di interessi legali a far data dalla
pubblicazione della presente sentenza all’effettivo soddisfo
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio,
sentenza 29.05.2017 n. 124). |
APPALTI -
CONSIGLIERI COMUNALI:
Risponde di danno erariale il sindaco che assume iniziative
per il comune senza seguire l'iter formale giuridico
contabile.
Risponde di danno erariale il sindaco
che, con una condotta del tutto difforme dalla normativa
vigente, assume iniziative estranee alle finalità
istituzionali assegnate dalla legge.
Nell'ordinamento degli enti locali le obbligazioni contratte
per acquisto di beni e servizi senza atto di impegno
contabile registrato sul competente capitolo di bilancio
ovvero senza attestazione di copertura finanziaria non
vincolano l'Amministrazione, bensì intercorrono tra il terzo
e l'amministratore o funzionario che le ha stipulate e/o ne
ha consentito l'esecuzione.
Va, pertanto, dichiarato danno ingiusto il pagamento -a
titolo di debito fuori bilancio- delle somme richieste per
prestazioni non collegate all'esercizio di funzioni o
servizi di competenza dell'ente e delle somme cui non
corrisponda un "arricchimento" dell'ente ai sensi dell'art.
2041 c.c.
(Corte dei conti, Sez. giurisdiz. Toscana,
sentenza 23.05.2017 n. 133 -
massima tratta da www.dirittodeiservizipubblici.it).
---------------
MASSIMA
Non essendo state poste questioni preliminari, il
Collegio entrando nel merito ritiene che la richiesta di
parte attorea sia fondata e sia da accogliere nei sensi di
cui in motivazione.
La Procura contesta all’odierno convenuto di aver assunto
una iniziativa estranea alle finalità istituzionali
dell’ente, con un uso della comunicazione istituzionale che,
nella specie, poteva definirsi comunicazione politica.
Osserva il Collegio che nell’ambito degli indirizzi di
modernizzazione delle Amministrazioni Pubbliche assume
rilevanza l’adozione di iniziative e strumenti di
trasparenza, relazione, comunicazione ed informazione
diretti a realizzare un rapporto aperto con i cittadini.
Alcune iniziative di legge, e tra esse la legge 07.08.1990 n. 241 e la legge
07.06.2000 n. 150, nell’ottica di
tale orientamento, hanno introdotto principi operativi e
strutture organizzative volti a questo scopo.
Tra le iniziative adottate dalle Amministrazioni vi è quello
della rendicontazione sociale che risponde alle esigenze
conoscitive dei diversi interlocutori (singoli cittadini,
famiglie, imprese, associazioni, altre istituzioni pubbliche
e private), cui è consentito di comprendere e valutare gli
effetti dell’azione amministrativa.
Nella specie la base normativa primaria di riferimento è
costituita dall’art. 1 della l. 07.06.2000 n. 150 che
prevede (comma 5): ”le attività di formazione e
comunicazione sono, in particolare, finalizzate a: a)
illustrare e favorire la conoscenza delle disposizioni
normative al fine di facilitarne l’ applicazione; b)
illustrare le attività delle istituzioni e il loro
funzionamento; c) favorire l’accesso ai servizi pubblici,
promuovendone la conoscenza; d) promuovere conoscenze
allargate ed approfondite su temi di rilevante interesse
pubblico e sociale; e) favorire processi interni di
semplificazione delle procedure e di modernizzazione degli
apparati amministrativi nonché la conoscenza dell’avvio e
del percorso dei procedimenti amministrativi; f) promuovere
l’ immagine delle amministrazioni , nonché quella dell’
Italia, in Europa e nel mondo, conferendo conoscenza e
visibilità ad eventi di importanza locale, regionale,
nazionale ed internazionale”.
Date queste finalità, il volume dato alle stampe dal sig. Au.Pe. non appare certamente sussumibile in una
delle tipologie previste dalla normativa e la condotta
identifica, secondo la parte attorea, un danno erariale in
quanto costituente un atto politico che può dichiararsi di
parte e imputato e traslato come costo sul bilancio
dell’Amministrazione.
Osserva il Collegio che senza dubbio non appare sempre
agevole lo scrutinio del contenuto della pubblicazione con
la individuazione dell’assenza della finalità della
comunicazione istituzionale e la strumentalizzazione della
pubblicazione al fine della propaganda politica atteso che
la propaganda (politica) in quanto caratterizzata da una
valenza manipolativa e persuasiva -poiché il messaggio che
a suo mezzo viene trasmesso ha la finalità di provocare
l’adesione dei destinatari verso l’opzione enunciata
dall’autore della comunicazione– che si distingue
concettualmente dall’informazione, ma la distinzione,
agevole in astratto, può in concreto presentare difficoltà
nei casi limite: cfr. Cass. Sez. I Civ. 20.01.1998
n. 477.
Tuttavia in ogni caso la finalità istituzionale disegnata
dal quadro normativo suddetto è stata implementata dal
convenuto con un uso scorretto delle risorse finanziarie e
con consequenziale danno erariale per avere il soggetto
convenuto violato l’iter formale giuridico contabile
destinato ad esitare nel previo impegno di spesa, siccome è
confermato dalla nota del segretario comunale del 23.10.2014, il quale confermava che non risultavano agli atti del
Comune impegni di spesa inerenti l’acquisto del libro di
cui si tratta.
In altri termini il convenuto ha assunto, con condotta
gravemente colposa, un’iniziativa che non solo può
qualificarsi estranea alle finalità istituzionali assegnate
dalla legge, in conseguenza della decisione di impegnare i
fondi pubblici per la pubblicazione del volume in assenza
dei presupposti previsti dalla richiamata normativa, ma ha
agito anche in assenza di un impegno di spesa violando i
doverosi passaggi procedurali giuscontabili comportamento
sanzionato sistematicamente dalla giurisprudenza contabile
(cfr. Sez. I Centr. 18.01.2016 n. 22 e Sez. II Centr. 05.04.2002 n. 114),
con consequenziale assunzione di un
debito fuori bilancio causativo di un danno erariale.
Pertanto, vista la ritenuta responsabilità per i menzionati
motivi, gli oneri sostenuti dal Comune costituiscono danno
erariale in quanto i relativi oneri non potevano essere
posti a carico del Comune e devono essere rifusi dal
convenuto che ha adottato l’iniziativa in questione: cfr.
Sezione giurisdizionale Trentino Alto Adige 13.05.2015
n. 14.
Indiscusso il rapporto di servizio sussistente per il
sindaco Pe., il danno erariale deriva e si configura
definitivamente in forza del decreto ingiuntivo n. 36/2013
la cui cogenza esclude ogni responsabilità di coloro che
espressero voto favorevole alla adozione della citata
delibera n. 49/2014.
Osserva correttamente la parte attorea che il vincolo
giuridico derivante dall’ obbligazione (di pagamento del
corrispettivo) contratta nei confronti della Fe.Ed.Ar. srl, sarebbe gravato, come per legge, sul sig.
Pe. se vi fosse stata opposizione al decreto
ingiuntivo in modo da impedire allo stesso di divenire
definitivo con traslazione dei costi sul bilancio pubblico.
Infatti nell’ordinamento degli enti locali le obbligazioni
contratte per acquisto di beni e servizi senza atto di
impegno contabile registrato sul competente capitolo di
bilancio ovvero senza attestazione di copertura finanziaria
non vincolano l’Amministrazione, bensì intercorrono tra il
terzo e l’amministratore o funzionario che le ha stipulate
e/o ne ha consentito l’esecuzione (art. 23 D.L. n. 66/1989,
riprodotto nell’ art. 37 D.Lgs. 77/1995 e nell’art. 191 D.Lgs. n. 267/2000),
né vi è una parte “riconoscibile” o
“riconosciuta” da parte dell’Ente che avrebbe potuto sanare
l’assenza dell’atto di impegno con esperibilità da parte del
privato di un’azione di indebito arricchimento
antecedentemente non consentita (cfr. Sez. I Centr. 27.03.2008 n. 7966).
Va, pertanto, dichiarato danno ingiusto il pagamento –a
titolo di debito fuori bilancio- delle somme richieste per
prestazioni non collegate all’esercizio di funzioni o
servizi di competenza dell’ente e delle somme cui non
corrisponda un “arricchimento” dell’ente ai sensi dell’art.
2041 c.c..
Il danno erariale, sotto il profilo dell’efficienza causale,
va attribuito all’odierno convenuto in quanto autore della
condotta del tutto difforme dalla normativa vigente.
Il sig. Au.Pe. deve, pertanto, essere condannato
al pagamento, in favore del Comune di Montescudaio, della
somma sopra indicata, della somma di € 7.640,34, oltre
rivalutazione monetaria fino alla data di pubblicazione
della presente pronuncia, e con gli interessi legali sulla
somma così rivalutata decorrenti dalla decisione sino al
soddisfo. |
ATTI AMMINISTRATIVI -
CONSIGLIERI COMUNALI:
Danno erariale per la giunta che avvia una lite
temeraria.
L'opposizione al decreto monitorio, privo degli elementi
essenziali per essere accolto, costituisce lite temeraria i
cui costi supplementari sopportati dall'amministrazione
possono essere posti a carico dell'organo collegiale che ne
deliberi la resistenza in giudizio. A fronte di un caso
tipico di lite temeraria, dettagliatamente dimostrata dalla
Procura e successivamente dal collegio contabile, sono stati
condannati per danno erariale sia il sindaco che gli altri
componenti della Giunta comunale.
Tali sono le conclusioni a cui è pervenuta la Corte dei
Conti, Sez. giurisdiz. Lazio, con la
sentenza
11.05.2017 n. 107 .
La vicenda
A causa dei mancati pagamenti per alcuni lavori effettuati,
l'impresa notificava al Comune un provvedimento monitorio
nel quale si ingiungeva il pagamento che, oltre della parte
capitale, comprendeva anche gli interessi moratori per
ritardato pagamento nonché le spese dello stesso decreto
monitorio. Avverso il citato decreto ingiuntivo proponeva,
tuttavia, ricorso il Comune con delibera della giunta
comunale.
Il Tribunale respingeva l'opposizione e condannava il Comune
alle ulteriori spese di giudizio. La Procura rinviava,
pertanto, a giudizio l'intera Giunta per rispondere del
danno erariale causato al Comune a fronte delle maggiori
spese corrisposte e quantificate pari all'importo
complessivamente pagato con sola detrazione della quota del
capitale in ogni caso dovuta all'impresa.
La difesa dei convenuti
I convenuti, oltre alla richiesta di prescrizione, si
difendono evidenziando come non si trattasse di lite
temeraria, tanto che sul punto nulla veniva evidenziato dal
Tribunale, inoltre non vi era violazione di nessuna delle
norme imperative tali da generare una tipizzata
responsabilità erariale.
La sentenza del collegio contabile
Avuto riguardo alla prescrizione sostenuta dai convenuti,
evidenzia il Collegio contabile come la stessa coincida con
l'effettiva diminuzione patrimoniale del Comune,
realizzatasi solo al momento del pagamento disposto a
seguito della citata sentenza e non con la data della
deliberazione che aveva disposto la resistenza in giudizio
al decreto ingiuntivo. Nel merito domanda di risarcimento
del danno a titolo di responsabilità amministrativa per lite
temeraria è fondata, per le seguenti ragioni:
• dall'esame degli atti emerge come il finanziamento dei citati
lavori avrebbe dovuto essere disposto con mutuo contratto
con la Cassa Depositi e Prestiti, ma il Comune, non avendo
trasmesso la documentazione necessaria nei termini, non
riceveva alcun finanziamento dall'istituto;
• con successiva nota il Comune inviava la documentazione
all'Istituto ma questi rispondeva in modo negativo in quanto
trattandosi di nuovi lavori vi era assenza del provvedimento
di devoluzione del mutuo richiesto;
• mentre il Comune provvedeva alla richiesta del citato
finanziamento la ditta terminava i lavori e a seguito della
richiesta del pagamento, il Consiglio comunale negava la
proposta di finanziamento con risorse a carico del bilancio
comunale.
Effettuata la citata ricostruzione, appare evidente la
responsabilità dell'intero organo esecutivo nel proporre
opposizione al citato decreto ingiuntivo, con ovvia
soccombenza in giudizio e aggravio di spese per l'ente. Il
danno patito dall'ente, come quantificato dalla Procura,
deve essere ripartito in parti uguali tra i convenuti
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.05.2017). |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO:
Danno erariale per il responsabile finanziario
che ritarda i pagamenti ai fornitori.
Condanna a carico del responsabile finanziario che ha
ritardato il pagamento delle fatture emesse dalla società
creditrice, debitamente vistate e provviste di fondi a
destinazione vincolata, derivanti da mutuo Cassa depositi e
prestiti.
È questo l'esito della
sentenza 10.04.2017 n. 69
della sezione giurisdizionale della Corte dei conti per il
Lazio, scaturita dopo che la sezione di controllo aveva
inviato alla Procura informativa di danno arrecato a un
Comune per maggiori somme corrisposte a una società rispetto
al valore dei lavori che erano stati commissionati e
regolarmente eseguiti.
La vicenda
Il caso è riferibile a un affidamento di lavori per il
rifacimento delle strade urbane ed extraurbane per un
importo complessivo contrattuale di 368.782 euro oltre Iva,
per il quale la società non ha ricevuto il pagamento
tempestivo di alcune fatture, nonostante gli esiti
favorevoli del contenzioso in tutti i gradi di giudizio.
Solo a seguito della conclusione del lungo procedimento
giudiziale, l'appaltatore ha visto soddisfatte le proprie
ragioni. Oggetto del giudizio sono i maggiori oneri
derivanti dal contenzioso (interessi legali e spese di lite)
che l'amministrazione ha liquidato alla società. Le somme
aggiuntive rappresentano infatti un danno per l'ente
rispetto al costo dei lavori commissionati ed eseguiti.
Il danno
In particolare, le somme sono state riconosciute a seguito
di atto transattivo nel quale le parti si sono accordate per
la definizione delle spettanze con pagamento, di 56.387,39
euro, pari alla metà delle somme dovute a titolo di
interessi, oltre 6.901,58 euro per spese legali, per
complessivi 63.288,97 euro. Questo importo (al quale va
aggiunto quello di mille euro pagati dal Comune quale
compenso del commissario ad acta), seppure inferiore
a quello costituente il credito della ditta a titolo di
interessi e spese, costituisce pur sempre un danno erariale,
in quanto ha comportato una lievitazione dei costi
complessivi delle opere senza giustificazione alcuna.
La colpa
I costi dei lavori erano finanziati da fondi a destinazione
vincolata, derivanti da mutuo della Cdp, le cui somme erano
state incassate dal Comune in tempo utile per la
liquidazione delle fatture. I giudici ricostruiscono che per
tutte le fatture pagate in ritardo (tranne che per una), la
causa del ritardo risiede nel mancato utilizzo delle somme
incassate dal Comune dalla Cdp a fronte delle fatture, somme
che sono state versate, invece, in tesoreria senza vincolo
di destinazione, nel contesto della ormai cronica situazione
di deficit dell'ente, esistente sin dal 2009 e sfociata nel
2011 nella dichiarazione di dissesto.
Conseguentemente, l'imputabilità del danno sofferto dal
Comune è addossabile al responsabile finanziario, il quale
ha determinato la dispersione delle risorse, la loro
distrazione a fini diversi da quelli per i quali erano state
erogate, e, nel contesto più generale di cronica
indisponibilità di cassa, l'insolvenza delle fatture per
lungo tempo. Gli elementi di colpa a carico del responsabile
finanziario sarebbero riconducibili, secondo i giudici, alla
necessaria conoscenza della disciplina dell'utilizzo delle
somme a destinazione vincolata, del tutto incompatibile con
il loro utilizzo per fin diversi.
La deliberazione ribadisce la necessità di procedere al
tempestivo pagamento delle fatture, in particolar modo se
relative a spese finanziate con entrate a destinazione
vincolata già incassate e per le quali è stata riscontrata
dal responsabile del procedimento la correttezza della
prestazione e la sussistenza dei presupposti di legge per la
liquidazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
04.05.2017). |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: La
fattispecie del dolo, nell’ambito della
responsabilità amministrativa patrimoniale, è definita,
rispetto all’ambito della colpa grave, per l’assenza
di ogni errore (l’errore non giustificabile è il nucleo
della colpa grave) e per la presenza, invece, di una
coscienza dell’illecito.
Dunque, la coscienza e volontà dell’illecito, cioè la
consapevolezza del fatto che il proprio comportamento
costituisce una trasgressione alle norme di legge e non è
assistito da alcuna causa di giustificazione, rileva di per
sé ai fini dell’assorbimento dell’illecito erariale
nell’illecito doloso, senza che sia necessario, come
lo è in altre sedi (come quella penale) accertare altri
ulteriori elementi al fine di verificare se sia maturata o
meno una determinata o specifica figura di reato.
---------------
Il Responsabile finanziario è responsabile del danno
erariale causato all'Ente per l'utilizzo di somme a
destinazione vincolata (mutuo) ad altri fini (maggiori costi
sopportati dal Comune per ritardati pagamenti a valere su
fondi ricevuti con destinazione vincolata, ma utilizzati per
altri scopi).
---------------
In sostanza, la tesi accusatoria individua nel comportamento
del Ma. il nesso causale per aver determinato l’insorgere
del titolo per le maggiori somme spettanti alla società per
interessi, per spese legali e del commissario ad acta,
in quanto spese ricollegabili alla mancata tempestiva
soddisfazione delle fondate pretese creditorie della società
esecutrice dei lavori.
Sostiene che tali somme egli avrebbe dovuto tempestivamente
liquidare, in quanto fondi a destinazione vincolata, che
egli doveva obbligatoriamente destinare al pagamento
tempestivo delle fatture, quale Responsabile del
Dipartimento Finanziario, e, a maggior ragione, quale
soggetto che aveva attestato la copertura finanziaria dei
lavori proprio in ragione delle disponibilità derivanti dal
mutuo contratto ad hoc ed esistenti in cassa, mentre
le some risultano versate in tesoreria, e poi destiate ad
altre spese, senza che sia stato rispettato il loro vincolo
di destinazione.
...
4.2 I fatti come sopra esposti sono direttamente rilevanti
ai fini della definizione del titolo dell’addebito al Ma.,
che il Collegio ritiene correttamente inquadrabile nella
fattispecie del dolo.
Tale figura, nell’ambito della responsabilità amministrativa
patrimoniale, è, infatti, definita, rispetto all’ambito
della colpa grave, per l’assenza di ogni errore
(l’errore non giustificabile è il nucleo della colpa
grave) e per la presenza, invece, di una coscienza
dell’illecito; dunque, la coscienza e volontà dell’illecito,
cioè la consapevolezza del fatto che il proprio
comportamento costituisce una trasgressione alle norme di
legge e non è assistito da alcuna causa di giustificazione,
rileva di per sé ai fini dell’assorbimento dell’illecito
erariale nell’illecito doloso, senza che sia
necessario, come lo è in altre sedi (come quella penale)
accertare altri ulteriori elementi al fine di verificare se
sia maturata o meno una determinata o specifica figura di
reato.
Una tale consapevolezza è certa nella posizione del Ma. per
tutte le modalità di commissione dell’illecito sopra
evidenziate, ed è all’uopo sufficiente richiamare la
disciplina dell’utilizzo delle somme a destinazione
vincolata, del tutto incompatibile con l’utilizzo delle
stesse ad altri fini, ed inserire tale illegittima
deviazione di risorse nell’ambito della gestione del Ma. nel
2009 (quando, come si è detto, egli era, se non compartecipe
delle cause, quantomeno sicuramente, nella sua qualità, del
tutto a conoscenza dello stato di insolvenza dell’ente) per
concluderne che egli aveva piena consapevolezza, sia della
violazione, che delle conseguenze dannose che nel tempo ne
sarebbero derivate al Comune debitore
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio,
sentenza 10.04.2017 n. 69). |
APPALTI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il risarcimento del danno erariale “da distrazione”.
Sussiste il danno erariale da
distrazione quando una amministrazione comunale,
beneficiaria di finanziamenti pubblici a destinazione
vincolata, utilizza gli stessi per scopi differenti rispetto
a quelli posti a base della richiesta di finanziamento, in
particolare per la realizzazione di opere diverse, anche se
aventi finalità istituzionali.
Il superficiale controllo, sebbene periodico, effettuato
dagli enti finanziatori, che abbia contribuito ad agevolare
i comportamenti amministrativi illeciti, determina un
concorso di responsabilità.
Il Sindaco, l’Assessore all’urbanistica e il responsabile
dell’area lavori pubblici di un Comune avevano chiesto un
finanziamento al Ministero dell’ambiente e alla Regione
Toscana al fine di effettuare opere di consolidamento e
ricostruzione di muri di contenimento nel centro storico del
paese, a seguito di dissesto idrogeologico. A tale scopo
avevano presentato al Ministero e alla Regione un progetto
preliminare delle opere da realizzarsi. Ottenuto il
finanziamento, lo stesso era utilizzato per la costruzione
di un parcheggio multipiano, in totale difformità rispetto
al progetto preliminare posto a base della richiesta.
La Corte dei conti ha condannato i trasgressori al
risarcimento del danno cd. “da distrazione”, con
conseguente restituzione delle somme finanziate, non
accogliendo le difese dei convenuti, i quali sostenevano
comunque la sussistenza di una finalità istituzionale nella
costruzione del parcheggio.
Tuttavia, considerato che parte delle opere realizzate
avevano anche una funzione di contenimento idrogeologico e
che l’omesso controllo (accertato in via incidentale) da
parte del Ministero e della Regione sulla regolare
esecuzione delle opere aveva agevolato la condotta illecita,
i magistrati contabili hanno decurtato l’obbligazione
risarcitoria dei responsabili (Corte dei Conti, Sez.
giurisdiz Toscana,
sentenza 31.01.2013 n. 35 - commento tratto da
http://drasd.unipmn.it).
---------------
MASSIMA
L’insieme delle argomentazioni di cui trattasi, premessa
la presenza o l’assenza di implicazioni di natura penale non
rilevanti in questa sede (se non come imput alla
presente indagine di responsabilità amministrativa
contabile) indica sicuramente la sussistenza di un livello
di colpa azionabile.
Al riguardo la giurisprudenza di questa
Corte si è più volte occupata dell’utilizzazione dei
pubblici finanziamenti non conforme alle destinazioni
impresse dalla legge o dall’amministrazione concedente,
ritenendo che la fattispecie all’esame costituisca ipotesi
di danno erariale (c.d. da distrazione).
Detta giurisprudenza costantemente è stata
confermata anche in tempi recenti
(Sez. III, 06.05.2009, n. 171 - Sez. III, 23.03.2009, n.
106) per cui il danno è stato considerato
proprio quello di avere distratto i fondi dall’utilizzazione
dei progetti presentati all’amministrazione
(cfr. altresì la copiosa giurisprudenza di primo grado
indicata in atto di citazione).
La medesima giurisprudenza ha peraltro
evidenziato che il carattere illecito della distrazione di
fondi a destinazione vincolata non è escluso dal fatto che i
fondi stessi siano stati utilizzati per altre finalità
istituzionali, potendosi, in tal caso, solo tenersi conto
degli eventuali vantaggi in sede di quantificazione del
danno (Sez. III,
12.10.2004, n. 542).
Peraltro la distrazione delle pubbliche
finanze dai fini impressi dalla legge è espressamente punita
anche dal codice penale (artt. 316-bis e 316-ter).
In sintesi la procedura di finanziamento,
come rilevato, lascia alcuni margini di
discrezionalità all’amministrazione richiedente
nell’indicare i luoghi e le soluzioni tecniche con cui
eliminare i problemi connessi al rischio idrogeologico ma
una volta indicati e prescelti ogni modifica è inibita
all’amministrazione ed in ogni caso deve essere portata a
conoscenza del Ministero che la deve valutare nuovamente
come conforme all’interesse generale e specifico della
tutela del territorio, revocando in caso contrario il
finanziamento.
Peraltro anche le
comunicazioni periodiche che il Comune inviava al Ministero
per informarlo sull’andamento dei lavori (All. 1, sub. 12,
nota dep. cit.) si limitavano a comunicare laconicamente gli
importi erogati a stato di avanzamento dei lavori senza
alcun ulteriore dettaglio.
La palese non conformità a norma di tali
comportamenti amministrativi doveva essere rilevata dalla
struttura ministeriale
(come dalla struttura regionale per la parte di propria
competenza) il cui silenzio è stato invece
superato solo da una indagine penale, partita per
irregolarità riscontrate nelle gare di affidamento dei
lavori finanziati con gli importi in contestazione.
In altri termini il Collegio ritiene che
gli omessi controlli periodici demandati ex lege al
Ministero dell’Ambiente ed alla Regione Toscana abbiano
agevolato i comportamenti amministrativi di cui trattasi,
incidendo anche sul volume del riflesso economico degli
stessi.
Per quanto sopra, in conformità all’indirizzo
giurisprudenziale già seguito da questa Sezione (Sent. n.
330 del 15.06.2012), dall’importo complessivo del danno
erariale contestato vanno detratte le quote teoricamente
ascrivibili al comportamento di soggetti non citati in
giudizio ma la cui responsabilità va accertata in via
incidentale (e, quindi, senza effetto di giudicato), al solo
fine di consentire al Collegio di parametrare la condanna
degli odierni citati in base al loro effettivo contributo
causale, tenuto conto che il danno non può farsi risalire
alla loro esclusiva responsabilità.
Tale quota può esser indicata in via equitativa nel 50% del
danno azionabile la cui determinazione, come già anticipato
in parte narrativa, ha richiesto l’adozione di una
consulenza tecnica d’ufficio il cui deliberato è stato
recepito da questo Collegio nei termini che seguono.
3. Danno erariale
In primo luogo mentre non paiono condivisibili (per tutte le
argomentazioni soprasvolte) le eccezioni difensive che
ipotizzano la non attualità del danno in quanto il Ministero
dell’Ambiente potrebbe pur sempre attivarsi per recuperare
gli importi nei confronti del Comune di Campagnatico oppure
l’inesistenza dello stesso per l’ipotizzata “legittimità”
della spesa, la richiesta di valutazione della utilitas
è stata invece (parzialmente) accolta dal Collegio.
La materia, ovviamente, per il tecnicismo della stessa ha
necessitato il ricorso ad un consulente esterno al quale
sono stati posti due distinti quesiti volti ad appurare il
valore delle opere realizzate e la quota parte delle stesse
cui possa attribuirsi una azione di “contenimento del
rischio idrogeologico”.
L’elaborato consegnato del perito, corredato da una ampia ed
esaustiva documentazione, dopo aver ripercorso le fasi
storiche del finanziamento, dalla richiesta alla
utilizzazione, ha valorizzato la quota utile di fini della
salvaguardia del territorio nei seguenti termini:
A) finanziamento ministeriale:
utilizzato per € 1.079.002,67 (al netto del saldo
disponibile di cassa pari ad € 90.997,33 potenzialmente a
disposizione del Ministero dell’Ambiente e non oggetto della
presente azione risarcitoria) di cui € 125.000,00 con
valenza ambientale ed un danno differenziale di €
954.002,67;
B) finanziamento regionale:
utilizzato per € 141.900,00 di cui € 105.000,00 con valenza
ambientale ed un danno differenziale di € 36.900,00.
Come già riportato, il Collegio condivide la tesi del CTU
(pagg. 64-67 dell’atto peritale) per la quale, diversamente
da quanto richiesto dai Consulenti di parte, l’utilitas
da detrarre postula un effetto “ambientale”
dell’opera principale (struttura adibita a futuro parcheggio
auto e terrazza calpestabile realizzata a contatto con mura
pericolanti) nei fatti piuttosto contenuto mentre l’opera
minore (muro di contenimento lungo la viabilità) per la
maggior parte può dirsi di concreto aiuto all’ambiente.
In altri e definitivi termini le opere
pubbliche (per
inciso oggi del tutto incomplete e inutilizzabili nonché
sotto sequestro per motivi di ordine penale)
sono state sì parzialmente realizzate ma con denaro
erogato e percepito con vincolo di destinazione all’interno
di una procedura “rigida”, nei fatti superata da una
progettazione esecutiva non solo difforme dalla preliminare
ma neppure ritualmente approvata dalla Amministrazione
centrale.
Sul punto poi il Consulente (pag. 56) indica anche
violazioni in ordine alla violazione della normativa
coinvolgente il Genio civile di Grosseto, situazione
paradossale trattandosi ovviamente di opere in cemento
armato.
A parte le considerazioni di cui sopra, come detto il 50%
dal danno può attribuirsi a soggetti non evocati in
giudizio, residua l’importo di € 477.001,33 a favore del
Ministero dell’Ambiente ed € 18.450,00 a favore della
Regione Toscana.
Ciò premesso a tutte le parte citate in giudizio possono
essere ascritte censure a titolo di colpa grave, sia pure
differentemente riscontrata nei seguenti termini.
4. Ripartizione danno erariale
A) El.PE. in qualità di Sindaco
ha adottato gli atti fondamentali delle procedure di
richiesta ed utilizzazione del finanziamento che,
considerate le dimensioni del Comune di Campagnatico e
l’entità delle opere realizzate, non può ritenersi un atto
di mera ordinaria amministrazione.
A prescindere dalle ipotetiche implicazioni penali, sul
piano prettamente amministrativo risultano essere stati
posti in essere comportamenti non in linea con una doverosa
corretta gestione amministrazione di denaro pubblico per cui
la quota maggiore del danno, individuabile nel 60%
dell’importo ascrivibile, deve essere addebitato al medesimo
(€ 477.001,33 x 60% = 286.200,79 a favore del Ministero ed €
36.900,00 x 60% = 22.140,00 a favore della Regione) per un
totale di € 308.340,79
B) Lu.GR. come Vice-sindaco Assessore
all’Urbanistica ha
partecipato alla adozione del progetto esecutivo
accettandone colpevolmente i contenuti che non potevano e
dovevano a lui sfuggire in virtù della natura del proprio
Assessorato.
Per inciso la deliberazione è stata assunta da una Giunta,
composta di soli tre soggetti, di cui uno era anche assente
per cui il provvedimento doveva e poteva essere idoneamente
attenzionato.
Al riguardo deve essere disattesa l’eccezione per cui
essendo le opere concretamente avviate anche parzialmente
diverse da quelle indicate nella progettazione, ne sarebbe
esclusa la responsabilità.
In realtà la progettazione esecutiva fin dall’inizio
contrastava con il solo progetto sottoposto al Ministero
dell’Ambiente, quello preliminare ed allora tale eccezione
può solo essere parzialmente accolta, ai fini della
limitazione percentuale del danno ascrivibile.
Per quanto sopra, sempre a titolo di colpa grave, il
convenuto può essere chiamato a rispondere del 20% del danno
(€ 477.001,33 x 20% = 95.400,27 a favore del Ministero ed €
36.900,00 x 60% = 7.380,00 a favore della Regione) per un
totale di € 102.780,27.
C) Em.BA. in quanto Responsabile della Area LL.PP.
non solo ha dato i previsti pareri sulla delibera di
adozione del progetto esecutivo ma ha altresì svolto le
funzioni di Direttore lavori e Responsabile unico del
procedimento (RUP) dell’opera finanziata per cui non poteva
non conoscere nel dettaglio le opere in via di
realizzazione.
Per quanto sopra, sempre a titolo di colpa grave, il
convenuto può essere chiamato a rispondere del 20% del danno
(€ 477.001,33 x 20% = 95.400,27 a favore del Ministero ed €
36.900,00 x 60% = 7.380,00 a favore della Regione) per un
totale di € 102.780,27.
Alla somma per cui è condanna, trattandosi di debito di
valore conseguente alla valutazione economica di parte del
manufatto pubblico in contestazione obbligazione
originariamente pecuniaria, vanno aggiunti la rivalutazione
monetaria e gli interessi secondo i criteri che seguono:
- la rivalutazione va calcolata secondo l’indice ISTAT dei prezzi
al consumo per le famiglie ed operai (FOI), a decorrere dal
fatto illecito che trattandosi di un unicum va indicato
nella data dell’ultima erogazione da parte del Ministero
(15.06.2006), fino alla pubblicazione della presente
sentenza;
- gli interessi legali vanno calcolati dalla stessa data sulla
somma originaria rivalutata anno dopo anno, cioè con
riferimento ai singoli momenti con riguardo ai quali la
predetta somma si incrementa nominalmente in base agli
indici ci rivalutazione monetaria (Cass. Sez. II n.
18028/2010 – Sez. III n. 4587/2009 – Sez. III n. 5671/2010 –
SS.UU. 1712/2005), fino al concreto soddisfo.
Dalla data di pubblicazione della presente sentenza sono
altresì dovuti, sulla somma come sopra incrementata, gli
interessi nella misura del saggio legale fino all’effettivo
pagamento.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e vanno, quindi,
poste a carico in quota percentuale delle parti convenute
condannate;
PER QUESTI MOTIVI
la Sezione giurisdizionale della Regione Toscana della Corte
dei conti, definitivamente pronunciando sul giudizio n.
57901/REL, in parziale conformità delle conclusioni del
Pubblico ministero
CONDANNA
A) El.PE. all’importo complessivo di € 308.340,79 (60% del totale)
di cui 286.200,79 a favore del Ministero dell’Ambiente ed
22.140,00 a favore della Regione Toscana;
B) Lu.GR. all’importo complessivo di € 102.780,27 (20% del totale)
di cui 95.400,27 a favore del Ministero dell’Ambiente ed
7.380,00 a favore della Regione Toscana;
C) Em.BA. all’importo complessivo di € 102.780,27 (20% del totale)
di cui 95.400,27 a favore del Ministero dell’Ambiente ed
7.380,00 a favore della Regione Toscana;
somme tutte cui vanno aggiunti gli interessi legali e la
rivalutazione monetarie secondo il criterio di calcolo
indicato in motivazione.
Segue la condanna al pagamento delle spese processuali che,
fino alla presente decisione, sono percentualmente liquidate
in € 2182,90 (Euro duemilacentottantadue/90).
Dispone infine il pagamento delle spese peritali,
quantificate in € 4.331,17 per rimborsi a piè di lista
omnicomprensivi e € 19.678,00 oltre IVA di legge per onorari
e spese (in totale € 28.145,55) a carico delle parti
condannate nelle rispettive quote di competenza, dedotti gli
eventuali acconti medio-tempore corrisposti. |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Esclusione dalla gara per gravi illeciti professionali, tali
da rendere dubbia l’integrità o l’affidabilità del
concorrente.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione
dalla gara – Per gravi illeciti professionali, tali da
rendere dubbia l’integrità o l’affidabilità del concorrente
– Art. 80, comma 5, lett. c, d.lgs. n. 50 del 2016 –
Presupposti - Individuazione
L’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs.
18.04.2016, n. 50 –che consente alle stazioni appaltanti di
escludere i concorrenti da una procedura di affidamento di
contratti pubblici in presenza di “gravi illeciti
professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o
affidabilità”– innovando rispetto al previgente assetto
normativo, prevede che l’esclusione del concorrente è
condizionata al fatto che la stazione appaltante dimostri
con mezzi adeguati che l’operatore economico si è reso
colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere
dubbia la sua integrità o affidabilità (1).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar che tra i “gravi illeciti professionali”
rientrano le significative carenze nell’esecuzione di un
precedente contratto di appalto o di concessione che ne
hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in
giudizio, ovvero confermata all’esito di un giudizio, ovvero
che hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del
danno o ad altre sanzioni; il tentativo di influenzare
indebitamente il processo decisionale della stazione
appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di
proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza,
informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare
le decisioni sull’esclusione, la selezione o
l’aggiudicazione ovvero l’omettere le informazioni dovute ai
fini del corretto svolgimento della procedura di selezione.
Il dato assiologico che emerge appare incentrarsi sulla
circostanza che, per effetto degli indicati fattori o di
ulteriori elementi valutativi, emerga a carico
dell’operatore economico un quadro tale da rendere dubbia la
sua affidabilità.
La ratio della norma de qua risiede dunque
nell’esigenza di verificare l’affidabilità complessivamente
considerata dell’operatore economico che andrà a contrarre
con la p.a. per evitare, a tutela del buon andamento
dell’azione amministrativa, che quest’ultima entri in
contatto con soggetti privi di affidabilità morale e
professionale.
Ha aggiunto il Tar che persiste in capo alla Stazione
appaltante un coefficiente di discrezionalità, il cui
esercizio –ed il cui correlato sindacato in sede
giurisdizionale- comporta la esatta riconduzione della
fattispecie astratta contemplata dalla norma (grave illecito
professionale) a quella concretamente palesatasi nella
singola gara.
Il conferimento alle stazioni appaltanti di un diaframma di
discrezionalità in sede applicativa –il quale attiene non
all’individuazione delle fattispecie espulsive, che
senz’altro compete al legislatore, in materia di requisiti
generali, secondo una elencazione da considerare tassativa,
bensì alla riconduzione della fattispecie concreta a quella
astratta, siccome descritta genericamente mediante l’uso di
concetti giuridici indeterminati– affiora, pur in mancanza
di una formulazione della norma di segno univoco come quella
contenuta nel previgente Codice appalti (laddove si
discorreva di “motivata valutazione”), da quanto
statuito a proposito della consacrata necessità di dare “dimostrazione
con mezzi adeguati” della sussistenza della fattispecie
espulsiva, nonché dall’uso di locuzione generiche (“dubbia”,
“gravi”) e dalla omessa precisa elencazione di
ipotesi escludenti, che il legislatore infatti si limita ad
individuare a fini meramente esemplificativi (TAR
Valle d’Aosta,
sentenza 23.06.2017 n. 36
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
La censura non può essere condivisa
In diritto deve osservarsi che l’art. 80,
comma 5, lett. c), del D.Lgs. n. 50/2016, recante il codice
dei contratti pubblici, consente alle stazioni appaltanti di
escludere i concorrenti da una procedura di affidamento di
contratti pubblici in presenza di «gravi illeciti
professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o
affidabilità», con la precisazione, ai fini che qui
interessano, che in tali ipotesi rientrano, tra l’altro, «significative
carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di
appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione
anticipata».
La citata disposizione codicistica, innovando rispetto al
previgente assetto normativo, prevede che l’esclusione del
concorrente è condizionata al fatto che la stazione
appaltante dimostri con mezzi adeguati che l’operatore
economico si è reso colpevole di gravi illeciti
professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o
affidabilità.
Tra questi rientrano: le significative
carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di
appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione
anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata
all’esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una
condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il
tentativo di influenzare indebitamente il processo
decisionale della stazione appaltante o di ottenere
informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il
fornire, anche per negligenza, informazioni false o
fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni
sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione ovvero
l’omettere le informazioni dovute ai fini del corretto
svolgimento della procedura di selezione.
Il dato assiologico che emerge appare
incentrarsi sulla circostanza che, per effetto degli
indicati fattori o di ulteriori elementi valutativi, emerga
a carico dell’operatore economico un quadro tale da rendere
dubbia la sua affidabilità.
La ratio della norma de qua
risiede dunque nell’esigenza di verificare l’affidabilità
complessivamente considerata dell’operatore economico che
andrà a contrarre con la p.a. per evitare, a tutela del buon
andamento dell’azione amministrativa, che quest’ultima entri
in contatto con soggetti privi di affidabilità morale e
professionale
Orbene, nel caso di specie, non solo non viene in rilievo un
profilo immediatamente correlato al momento esecutivo di un
pregresso rapporto contrattuale in termini di specifico
inadempimento al complesso di obbligazioni dallo stesso
scaturente; ma deve anche rilevarsi come la censurata
carenza di requisito alla partecipazione, pur astrattamente
non sottratto in quanto tale ad un più ampio giudizio di
inadempimento mediato o di rimbalzo, in concreto non possa
in alcun modo qualificarsi in tali termini.
...
Né infine può, secondo la traiettoria ermeneutica proposta
dal ricorrente, riconnettersi al precedente dictum
giudiziale un effetto di automatismo espulsivo ai presenti
fini: deve al riguardo ribadirsi che anche in siffatta
evenienza persiste in capo alla Stazione
appaltante un coefficiente di discrezionalità, il cui
esercizio –ed il cui correlato sindacato in sede
giurisdizionale- comporta la esatta riconduzione della
fattispecie astratta contemplata dalla norma (grave illecito
professionale) a quella concretamente palesatasi nella
singola gara.
Il conferimento alle stazioni appaltanti di
un diaframma di discrezionalità in sede applicativa
–il quale attiene non alla individuazione delle fattispecie
espulsive, che senz’altro compete al legislatore, in materia
di requisiti generali, secondo una elencazione da
considerare tassativa, bensì alla riconduzione della
fattispecie concreta a quella astratta, siccome descritta
genericamente mediante l’uso di concetti giuridici
indeterminati- affiora, pur in mancanza di una formulazione
della norma di segno univoco come quella contenuta nel
previgente Codice Appalti (laddove si discorreva di “motivata
valutazione”), da quanto statuito a
proposito della consacrata necessità di dare “dimostrazione
con mezzi adeguati” della sussistenza della fattispecie
espulsiva, nonché dall’uso di locuzione generiche (“dubbia”,
“gravi”) e dalla omessa precisa elencazione di
ipotesi escludenti, che il legislatore infatti si limita ad
individuare a fini meramente esemplificativi.
Ne consegue, anche per questa via ed alla luce dei rilievi
di cui sopra, la correttezza della valutazione qui in esame,
ove si consideri che l’intervenuto giudicato non espleta la
propria efficacia accertativo-preclusiva su di un specifico
fatto di inadempimento in sede propriamente posto in diretta
relazione causale con la conseguente risoluzione del
rapporto contrattuale, ma, come prima detto, sulla diversa
dimensione di una carenza di requisito partecipativo che
solo indirettamente e di rimbalzo ha comportato, non ex
se ma in via derivata e mediata, l’incidenza su di un
momento esecutivo-prestazionale peraltro connotato da
comprovata e non contestata conformità tutti gli obblighi
contrattualmente assunti. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Accesso ai documenti adottati in seduta riservata.
---------------
Accesso ai documenti – Diritto – Atti adottati in seduta
riservata – Diniego – Illegittimità.
E’ illegittimo il diniego di accesso
agli atti riguardanti l’istante, opposto sul rilievo che
erano stati adottati in seduta riservata da un Comune, ove
non sia prevista diversa disposizione nel regolamento
comunale (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che tra i casi di segreto espressamente
previsti dall’ordinamento non rientrano le opinioni espresse
ed i voti dati dai consiglieri comunali nell’esercizio delle
loro funzioni e non ostano motivi di riservatezza in merito
alla condotta della persona oggetto dell’attività di
indagine da parte del consiglio comunale, in quanto è il
richiedente l’accesso. Né d’altro canto l’attività
d’indagine del consiglio comunale, volta a far valere una
responsabilità politica, ha le stesse garanzie delle
indagini penali della polizia e della magistratura (TAR
Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 22.06.2017 n. 1409
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
1. Il ricorrente, ex dipendente comunale, ha proposto
ricorso principale contro la mancata risposta alla richiesta
di accesso agli atti della commissione d’indagine istituita
dal Consiglio comunale sulla sua nomina a dirigente
dell’ente.
Il ricorrente evidenzia che le relative deliberazioni
comunali sono state pubblicate sul sito dell’ente ma che la
relazione della commissione d’indagine, unitamente al
verbale della deliberazione, risultavano omessi in quanto “trattasi
di seduta segreta”.
Uguale silenzio è stato mantenuto sulla richiesta motivata
di ostensione anche della “Interrogazione urgente presentata
in Consiglio Comunale all’indomani dell’articolo pubblicato
sul Giornale di Vimercate del 15/03/2016, a pag. 43, dal
titolo: “una dipendente del Comune: “ho dato il decreto
di nomina a dirigente di De Fi. al Sindaco”.
Contro i suddetti dinieghi taciti ha proposto i seguenti
motivi di ricorso: violazione e falsa applicazione degli
artt. 22 e ss. l. 241/1990; violazione e falsa applicazione
dell’art. 3 d.p.r. 184/2006; violazione e falsa applicazione
dell’art. 97 della costituzione.
2. Con ricorso per motivi aggiunti il ricorrente ha
impugnato l’esplicito rigetto alle istanze di accesso,
motivate con riferimento al fatto che trattasi di atti
adottati in seduta segreta, l’articolo 50 dello Statuto del
Comune di Carnate nonché degli articoli 16 e 52 del
Regolamento sul funzionamento e l’organizzazione del
consiglio comunale di Carnate, che prevedono la segretezza
delle sedute, in quanto ai sensi dell’art. 24, comma 7, l.
241/1990 “… deve comunque essere garantito ai richiedenti
l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia
necessaria per curare o per difendere i propri interessi
giuridici”.
La difesa del Comune ha chiesto la reiezione del ricorso.
Alla camera di consiglio del 20.06.2017 la causa è stata
trattenuta dal Collegio per la decisione.
2. I ricorso sono parzialmente fondati.
La costante giurisprudenza, condivisa da
questo Collegio, afferma che qualora l’accesso ai documenti
amministrativi sia motivato dalla cura o la difesa di propri
interessi giuridici, esso prevale sull’esigenza di
riservatezza dei terzi
(Consiglio di Stato, VI, 05.03.2015, n. 1113; IV,
10.03.2014, n. 1134).
A ciò si aggiunge che dalla lettura delle
norme regolamentari comunali non si ricava in via diretta
che gli atti della seduta segreta siano automaticamente
sottratti all’accesso, atteso che è stabilita soltanto la
non pubblicità della seduta. Tali norme infatti, relative al
funzionamento del consiglio, trovano il loro fondamento
nell’art. 38, c. 7, del D.Lgs. 267/2000 secondo il quale “Quando
lo statuto lo preveda, il consiglio si avvale di commissioni
costituite nel proprio seno con criterio proporzionale. Il
regolamento determina i poteri delle commissioni e ne
disciplina l'organizzazione e le forme di pubblicità dei
lavori”.
Se la fonte regolamentare locale è la fonte primaria in
merito alla forma di pubblicità delle sedute, grazie alla
delega contenuta nell’art. 38, c. 7, citato, non vale
altrettanto per l’accesso agli atti.
L’art. 22, c. 3, della legge 241/1990 stabilisce che tutti i
documenti amministrativi sono accessibili, ad eccezione di
quelli indicati all'articolo 24, commi 1, 2, 3, 5 e 6,
riservando così alla legge la disciplina della segretezza
documentale.
A sua volta l’art. 24 prevede che l’accesso è escluso nei
casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente
previsti dalla legge e dal regolamento governativo di cui al
comma 6 mentre all’amministrazione compete, ai sensi del
comma 2, di individuare gli atti coperti da segreto, secondo
le norme di legge che lo prevedono.
Tra i casi di segreto espressamente previsti
dall’ordinamento non rientrano le opinioni espresse ed i
voti dati dai consiglieri comunali nell’esercizio delle loro
funzioni e non ostano motivi di riservatezza in merito alla
condotta della persona oggetto dell’attività di indagine da
parte del consiglio comunale, in quanto è il richiedente
l’accesso. Né d’altro canto l’attività d’indagine del
consiglio comunale, volta a far valere una responsabilità
politica, ha le stesse garanzie delle indagini penali della
polizia e della magistratura.
Neppure eventuali testimonianze di impiegati comunali
possono essere secretate in quanto attinenti ad attività
amministrativa. Infatti il segreto d’ufficio, cioè l’obbligo
di non comunicare all’esterno dell’amministrazione notizie o
informazioni di cui siano venuti a conoscenza nell’esercizio
delle loro funzioni, ovvero che riguardino l’attività
amministrativa in corso di svolgimento o già conclusa, non
può prevalere sul diritto d’accesso ai sensi dell’art. 28
della L. 241/1990.
A ciò si aggiunge che l’art. 24 della legge n. 241 del 1990
garantisce comunque l’accesso a quegli atti la cui
conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri
interessi giuridici (comma 7).
In definitiva quindi i ricorsi sono fondati per quanto
attiene ai documenti richiesti.
Va invece respinta con riferimento alle norme dello Statuto
e del regolamento consiliare, in quanto riferite alla
pubblicità delle sedute e non all’accesso agli atti. |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Ripetizione emolumenti non dovuti al netto di tutte le
ritenute fiscali e oneri previdenziali.
---------------
Pubblico impiego privatizzato – Stipendi – Ripetizione
emolumenti non dovuti - Su base lorda – Illegittimità.
E’ illegittimo il recupero, da parte
dell’Amministrazione, di somme indebitamente erogate ad un
dipendente su base lorda, anziché al netto di tutte le
ritenute fiscali e oneri previdenziali (1).
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(1)
Ha ricordato il Tar che costituisce principio consolidato
nella giurisprudenza amministrativa (sez.
IV, 03.11.2015, n. 5010; id.,
sez. III, 21.01.2015, n. 198) che
l'Amministrazione, nel procedere al recupero delle somme
indebitamente erogate ai propri dipendenti, deve eseguire
detto recupero al netto delle ritenute fiscali,
previdenziali e assistenziali; non può invece pretendere di
ripetere le somme al lordo delle predette ritenute,
allorché, come di regola accade, le stesse non siano mai
entrate nella sfera patrimoniale del dipendente.
Anche la Corte di Cassazione (sez. I, 04.09.2014, n. 18674)
ha affermato analogo principio. In particolare, ha chiarito
che nel rapporto di lavoro subordinato, il datore di lavoro
versa al lavoratore la retribuzione al netto delle ritenute
fiscali e, quando corrisponde per errore una retribuzione
maggiore del dovuto, opera ritenute fiscali erronee per
eccesso; per cui il medesimo datore di lavoro, salvi i
rapporti con il fisco, può ripetere l'indebito nei confronti
del lavoratore soltanto nei limiti di quanto effettivamente
percepito da quest'ultimo, restando esclusa la possibilità
di ripetere importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate
nella sfera patrimoniale del dipendente (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 22.06.2017 n. 858
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
RILEVATO QUANTO DI SEGUITO ESPOSTO.
Il ricorso è palesemente fondato, tanto da consentirsene la
definizione con sentenza in forma semplificata.
Costituisce, infatti, come si usa dire
jus receptum
(cioè
diritto vivente, consolidato e agevolmente conoscibile)
nell’esperienza del Consiglio di Stato
che
l'Amministrazione, nel procedere al recupero delle somme
indebitamente erogate ai propri dipendenti, deve eseguire
detto recupero al netto delle ritenute fiscali,
previdenziali e assistenziali; non può invece pretendere di
ripetere le somme al lordo delle predette ritenute,
allorché, come di regola accade, le stesse non siano mai
entrate nella sfera patrimoniale del dipendente.
Di seguito si richiama solo una parte della cospicua
giurisprudenza che un qualsiasi funzionario e dirigente di
media cultura, preparazione e diligenza dovrebbe conoscere:
Cons. St. sez. II, parere su ric. straord., n. 991, adunanza
05.04.2017; Cons. Stato Sez. IV, 03.11.2015, n.
5010; Cons. Stato, sez. III, 21.01.2015 n. 198; Cons.
Stato, sez. IV, 12.02.2015, n. 750; Cons. Stato, sez. IV, 20.09.2012, n. 5043; Cons. Stato, sez. III,
04.07.2011, nr. 3984 e n. 3982; id., sez. VI, 02.03.2009 nr. 1164, solo per citarne
alcune.
Nello stesso senso si atteggia l’orientamento dei Tribunali
Amministrativi, secondo i quali
la richiesta di restituzione
dei compensi illegittimamente percepiti non può che avere a
oggetto le somme ricevute in eccesso (e cioè, effettivamente
entrate nella sfera patrimoniale del dipendente medesimo),
non potendosi pretendere la ripetizione di somme calcolate
al lordo delle ritenute fiscali, le quali non sono mai
entrate nella disponibilità materiale e giuridica del
prestatore di lavoro.
Anche qui il Collegio si limita a
ricordare, per dare un aiuto a quegli stessi funzionari e
dirigenti dell’amministrazione finanziaria di cui si è già
fatto cenno: TAR Toscana, sez. I, 25.01.2017, n.
199; TAR Lazio Roma Sez. I-bis, 24/03/2016, n. 3753; TAR
Bologna, sez. I, 04.06.2015, n. 525; TAR Lombardia,
Milano, Sez. IV, n. 614/2013; TAR Umbria, sez. I, 05.12.2013, n. 559).
RICORDATO INOLTRE QUANTO SOTTO RIPORTATO.
Nella medesima direzione contraria alle difese
dell’amministrazione si colloca, ancora, l’orientamento
della Corte di Cassazione, evidenziante come
nel rapporto di
lavoro subordinato, il datore di lavoro versa al lavoratore
la retribuzione al netto delle ritenute fiscali e, quando
corrisponde per errore una retribuzione maggiore del dovuto,
opera ritenute fiscali erronee per eccesso; per cui il
medesimo datore di lavoro, salvi i rapporti con il fisco,
può ripetere l'indebito nei confronti del lavoratore
soltanto nei limiti di quanto effettivamente percepito da
quest'ultimo, restando esclusa la possibilità di ripetere
importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera
patrimoniale del dipendente: Cass. Civ., sez. I,
04.09.2014, n. 18674; id., Sez. Lav., 02.02.2012, n. 1464;
idem, sez. lavoro, 11.01.2006 n. 239; idem, sez.
lavoro, 26.02.2002 n. 2844.
A conforto indiretto, ove ve ne fosse bisogno per convincere
i più riottosi e incalliti, del suddetto orientamento è il
convincimento del Giudice ordinario il quale, a proposito
della speculare tematica delle modalità di calcolo degli
accessori dovuti al lavoratore pubblico, ha evidenziato come
appare consolidata la giurisprudenza anche amministrativa
(Ad. Plen. 05.06.2012, n.18),
nel ribadire la piena
legittimità delle modalità di calcolo degli accessori del
credito del dipendente pubblico riportate nell'alveo
dell'art. 1224 c.c. ritenendo che possa ritenersi produttivo
di interessi e soggetto ai meccanismi di attualizzazione del
credito solo il denaro che viene posto a disposizione del
creditore e che effettivamente ne incrementi il patrimonio,
e non quello corrispondente alle ritenute alla fonte,
operate dal sostituto d'imposta attraverso rapporto di
delegazione ex lege, che non sarebbe mai entrato nella
disponibilità del dipendente
(Cass. civ. Sez. lavoro, Ord.,
28/10/2016, n. 2190).
OSSERVATO, INOLTRE, QUANTO SOTTO RIPORTATO.
A quanto esposto non può opporsi l’orientamento contrario
espresso in materia dall'Agenzia delle entrate con infiniti
atti interpretativi di varia denominazione
(note,
risoluzioni, determinazioni, circolari, ecc.: fra le tante
v. quelle richiamate, sopra, dall’Avvocatura dello Stato,
oppure la nota del 23.05.2013, richiamata dal citato
parere di quest’anno della II sez. del CdS)
con le quali la
medesima Agenzia si è pervicacemente (ma inspiegabilmente)
espressa per la legittimità della richiesta di recupero
dell’indebito al lordo delle ritenute di legge, sulla base
di quanto disposto dall’art. 10, comma 1, lett. d-bis) del d.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR), il quale statuisce la
deducibilità dal reddito complessivo del contribuente di
tutte le somme restituite in quanto indebitamente percepite
e non le modalità concrete con cui detto recupero deve aver
luogo.
Si tratta di un richiamo improvvido e temerario, perché con
esso, da una norma di garanzia per il privato che esplica i
suoi effetti nel rapporto tra contribuente erroneamente
gravato di in peso tributario non dovuto e l’amministrazione
finanziaria, si intende ricavare un principio vessatorio per
il medesimo privato nei suoi rapporti con il datore di
lavoro, costringendo quest’ultimo a ripetere quanto
effettivamente pagato aumentato di oneri fiscali
astrattamente dovuti dal lavoratore ma mai entrati nella sua
sfera patrimoniale.
Come invece precisato dalla giurisprudenza innanzi
riportata,
ciò che rileva nella fattispecie non è il
rapporto intercorrente tra l’interessato e l’Agenzia fiscale
-regolato dal succitato art. 10, comma 1, lett. d-bis) del
TUIR-
ma quello fra il ricorrente e l’Amministrazione di
servizio, nell’ambito del quale la seconda versa al primo
gli emolumenti al netto delle ritenute fiscali
(nonché
previdenziali e assistenziali);
con la conseguenza che non
risulta né logico, né equo, né lecito chiedere
all’interessato un adempimento che può essere posto in
essere direttamente dall’Amministrazione stessa senza
gravare sul soggetto interessato in maniera non coerente con
i fini del dovuto recupero delle somme erogate a titolo di
imposte e contributi.
Il richiamo effettuato dall’Amministrazione al TUIR, dunque,
non risulta adeguato a superare il consolidato orientamento
giurisprudenziale più volte espresso dalle varie
giurisdizioni ordinaria ed amministrativa, in base al quale,
come in precedenza esposto,
la ripetizione dell'indebito nei
confronti del dipendente non può non avere ad oggetto le
sole somme effettivamente “pagate” (come recita
l’art. 2033 c.c.) a quest'ultimo e da lui effettivamente
percepite in eccesso, vale a dire quanto e solo quanto
effettivamente sia entrato nella sfera patrimoniale del
dipendente
(Cons. di
Stato, Sez. VI, 02.03.2009, n. 1164).
D’altra parte, i ricordati e concordi insegnamenti non
avrebbero ragion d’essere soltanto ove l’amministrazione
finanziaria
–le cui palesemente errate direttive hanno
determinato anche il presente contenzioso, essendo evidente
che nessun pubblico dipendente si azzarderebbe (come pur
potrebbe e dovrebbe) a disapplicare una direttiva della
stessa amministrazione fiscale per ovvi timori di incorrere
in responsabilità contabile–
leggesse con un minimo di
capacità e diligenza le norme codicistiche, peraltro già
sopra richiamate.
L’art. 2033 cod. civ., sull’indebito oggettivo, stabilisce
che chi ha eseguito un “pagamento” non dovuto ha diritto di
ripetere ciò che ha “pagato”. La nozione di pagamento si
correla a quelal di ricevimento (art. 1463, comma 1, cod.
civ.) ed entrambe individuano un comportamento materiale
costituente la modalità principe di estinzione in via
satisfattiva dell’obbligazione pecuniaria. Pagamento e
ricevimento, costituenti la medesima azione vista dalla
parte rispettivamente del debitore e del creditore hanno per
oggetto un bene materiale che la terminologia del codice,
descrittiva di una società antica ma dai rapporti
socio-economici fondamentali sempre attuali, individua nella
“moneta” (artt. 1277 e seg. Cod. civ.), cioè in un preciso
e determinato oggetto concreto avente valore di scambio.
Se
è dunque, secondo la disciplina codicistica, la concreta
materialità di ciò che si è pagato e, correlativamente,
ricevuto a segnare le reciproche posizioni di debitore e
creditore (oltre quelli che non a caso si chiamano
“accessori”),
non possono certo valere ad alterare il
principio di materialità e concretezza dei pagamenti fatti e
ricevuti un titolo di debito-credito astratto che indichi
valori diversi.
Ancor più semplicemente,
se il datore di lavoro è debitore
di cento, ma tale debito si riduce a cinquanta per effetto
del c.d. cuneo fiscale, il lavoratore che abbia percepito
erroneamente (ad esempio per una duplicazione di pagamenti)
cinquanta, non è certo tenuto a restituire l’importo del suo
credito lavorativo astratto, cioè cento.
Si tratta di concetti elementari e di assoluto buon senso, a
fronte dei quali non possono valere gli inconcepibili
richiami fatti dall’amministrazione finanziaria e per essa
dall’amministrazione resistente, a specifiche norme
tributarie di garanzia per il contribuente, che si vorrebbe
tramutare in norme illogiche, inique e vessatorie,
riecheggianti antichi ma defunti istituti come quello del
“solve e repete” (prima paghi ciò che non devi e poi chiedi
la restituzione).
AGGIUNTI I SEGUENTI ULTERIORI RILIEVI.
Risultano, perciò, privi di ogni rilevanza i richiami fatti
dall’amministrazione resistente a comunicazioni, note,
dispacci, circolari, direttive, chiarimenti, ecc. emanati
dall’Agenzia delle Entrate nella materia qui di interesse,
tutti illegittimi per i motivi innanzi ricordati.
E’ infatti altrettanto risaputo (“Jus receptum”) che
le
disposizioni contenute in circolari o altri atti di analogo
contenuto e finalità interpretativi/esplicativi non possono
condizionare il giudice nell'interpretazione delle norme che
l’atto stesso intende spiegare.
Le circolari amministrative,
infatti, in quanto atti di indirizzo interpretativo-illustrativo-applicativo, non sono vincolanti
per i soggetti estranei all'Amministrazione: ed anche per
gli organi ed uffici della stessa amministrazione emanante
esse sono vincolanti, ma solo se legittime, potendo,
altrimenti essere disapplicate qualora il funzionario
chiamato a darvi applicazione ne accerti la portata contra legem.
Nei predetti limiti –derivanti dai canoni fondamentali di
gerarchia delle fonti e di separazione dei Poteri- gli atti
di tal natura sono atti diretti agli organi e uffici
periferici ovvero sottordinati, e non hanno di per sé valore
normativo o provvedimentale o comunque vincolante per i
soggetti estranei all'Amministrazione. Soccorre a tal
proposito l’ormai diffusa teoria della disapplicazione, la
quale tende a mitigare l’onere di impugnare espressamente e
ritualmente innanzi al TAR la determinazione
esplicativo-precettiva.
Una circolare amministrativa (o
altro atto analogo) contra legem può essere, infatti,
disapplicata anche d'ufficio dal giudice investito
dell'impugnazione dell'atto che ne faccia applicazione.
Anche qui l’orientamento giurisprudenziale è sostanzialmente
univoco e se ne riportano di seguito solo alcuni estratti da
fungere quale elemento di stimolo e di studio per i
dirigenti e funzionari dell’Agenzia delle Entrate: TAR
Umbria, 06/05/2014, n. 248; TAR Lazio, Roma, sez. I, 07/02/2014, n. 1507; TAR,Puglia, Lecce, sez. I, 10/10/2012,
n. 1653; Cons. Stato, sez. VI, 13/09/2012, n. 4859).
CONSIDERATO IN CONCLUSIONE.
Il ricorso va accolto e le spese, liquidate come da
dispositivo, seguono la soccombenza.
Il Collegio ravvisa nel comportamento dell’Agenzia delle
Entrate che continua ad ignorare i richiamati, concordi
insegnamenti giurisprudenziali elementi di grave negligenza
ed imperizia, che continuano ad alimentare un inutile
contenzioso dal prevedibile esito negativo per la parte
pubblica, con i conseguenti oneri economici per le finanze
pubbliche connessi alla necessaria condanna alle spese (art.
26 c.p.a.) come nel caso di specie.
Il Collegio manda pertanto alla Segreteria del TAR perché
invii copia della presente sentenza alla Procura regionale
della Corte dei Conti, al Sig. Presidente del Consiglio dei
Ministri, al Sig. Ministro dell’Economia. |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Il ricorrente, in quanto proprietario di un immobile
adiacente a quello della società controinteressata, ha
chiesto di poter accedere alla documentazione relativa ai
titoli edilizi e paesaggistici “richiesti, denegati e
concessi” concernenti “l’intervento inerente il cambio di
destinazione d’uso da lastrico solare a terrazzo praticabile
(roof garden) con realizzazione di torrino ascensore ed
installazione di pergolato presso l’albergo denominato ...”.
Ritiene il Collegio che in capo al ricorrente, in ragione
del divisato presupposto della vicinitas, deve riconoscersi
la sussistenza di un “interesse diretto, concreto ed
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è stato chiesto
l'accesso”, che l'art. 22 l n. 241/1990, prevede quale
presupposto per la legittimazione all'azione e
l'accoglimento della relativa domanda.
---------------
...
per l'accertamento
dell’illegittimo silenzio/inadempimento perfezionatosi
sull’istanza di accesso inoltrata al Comune di Vico Equense
a mezzo PEC in data 30.08.2016;
...
Il ricorso è fondato e va accolto.
Preliminarmente devono essere respinte le eccezioni di
inammissibilità del ricorso perché proposto, secondo la
prospettazione dei resistenti, ai sensi dell’art. 117 c.p.a.
(ricorso avverso il silenzio inadempimento) e non ai sensi
dell’art. 116 c.p.a. (accesso ai documenti amministrativi).
Deve, infatti, osservarsi che ai sensi dell’art. 32, comma 2, c.p.a. il giudice ha l’obbligo di qualificare l’azione
proposta in base ai suoi elementi sostanziali.
Nella fattispecie, l’azione proposta è volta ad accertare il
diritto del ricorrente (e il conseguente obbligo del Comune)
di accedere alla documentazione richiesta con l’istanza del
30.08.2016 e sulla quale si è formato un provvedimento
tacito di rigetto tempestivamente impugnato (il ricorso è
stato notificato ai resistenti in data 19.10.2016). E’
evidente, quindi, che la domanda giudiziale (sebbene
proposta dal ricorrente ai sensi dell’art. 117 c.p.a.) ha
tutti i requisiti di forma e sostanza per essere qualificata
come azione ai sensi dell’art. 116 c.p.a. volta
all’annullamento del provvedimento tacito di rigetto
dell’istanza di accesso e all’accertamento del diritto di
ottenere la documentazione richiesta (con conseguente
obbligo del Comune di esibirla).
Ciò premesso, il ricorso è fondato.
Il ricorrente in quanto proprietario di un immobile
adiacente a quello della società controinteressata ha
chiesto di poter accedere alla documentazione relativa ai
titoli edilizi e paesaggistici “richiesti, denegati e
concessi” concernenti “l’intervento inerente il cambio di
destinazione d’uso da lastrico solare a terrazzo praticabile
(roof garden) con realizzazione di torrino ascensore ed
installazione di pergolato presso l’albergo denominato “Le
An.” sito alla via ... n. ...”.
Ritiene il Collegio che in capo al ricorrente, in ragione
del divisato presupposto della vicinitas, deve riconoscersi
la sussistenza di un “interesse diretto, concreto ed
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è stato chiesto
l'accesso”, che l'art. 22 l n. 241/1990, prevede quale
presupposto per la legittimazione all'azione e
l'accoglimento della relativa domanda.
Deve, inoltre, osservarsi che -contrariamente a quanto
eccepito dal Comune resistente- la domanda di accesso è
tutt’altro che generica in quanto individua o comunque
consente di individuare agevolmente (cfr. D.P.R. 184/2006)
gli atti richiesti che riguardano i titoli rilasciati per
uno specifico intervento edilizio realizzato dalla controinteressata. Del resto lo stesso Comune con la nota
inoltrata per conoscenza al ricorrente in data 24.05.2017 (e da quest’ultimo depositata) ha chiesto alla società controinteressata di evidenziare eventuali motivi di
opposizione all’accesso agli atti in mancanza dei quali
“procederà ad evadere” la richiesta; nonostante tale
intendimento il Comune non risulta allo stato avere ancora
adempiuto.
Quanto precede basta per concedere ingresso alla pretesa qui
fatta valere, nella precisazione che siffatta decisione in
nulla è condizionata da valutazioni circa la fondatezza
delle eventuali pretese alla cui tutela l'acquisizione della
documentazione è strumentale posto che, per costante
giurisprudenza, il diritto di accesso è autonomo rispetto
alla posizione giuridica posta a base della relativa istanza
(cfr., per tutte, Tar Campania, questa sezione sesta, 11.03.2010, n. 1373).
In definitiva, alla luce di quanto fin qui argomentato, il
ricorso deve essere accolto con conseguente accertamento del
diritto all’ostensione, per effetto del quale
l’amministrazione intimata dovrà consentire l’accesso,
secondo le modalità indicate in dispositivo
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 21.06.2017 n. 3382 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Il
potere di autotutela è un potere discrezionale attribuito
alle amministrazioni, che presuppone sia l'illegittimità
dell'atto amministrativo annullando, sia la sussistenza di
ragioni di interesse pubblico all'annullamento, entro un
termine ragionevole.
La norma di cui all'art. 21-nonies L. n. 241/1990 prevede,
dunque, che al fine di procedere all'annullamento d'ufficio
di un atto amministrativo la P.A. necessita di un
triplice ordine di presupposti: che l'atto sia
illegittimo; che sussistano ragioni di interesse pubblico
che ne giustifichino l'annullamento e che il tutto avvenga
entro un termine ragionevole.
Nell’adozione dell’atto, inoltre, occorre tener conto degli
interessi del destinatario; l’Amministrazione è infatti
chiamata a svolgere un bilanciamento tra gli opposti
interessi prima di decretare l’annullamento di un atto in
autotutela. Di tutti questi elementi è necessario dare conto
in motivazione.
In particolare, con riguardo all’annullamento di titoli
edilizi, i presupposti per l’esercizio del potere di
annullamento d'ufficio di un titolo edilizio devono
rispondere ai requisiti di legittimità codificati
nell'articolo 21-nonies della l. 07.08.1990, n. 241,
consistenti nell'illegittimità originaria del titolo e
nell'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua
rimozione diverso dal mero ripristino della legalità,
comparato con i contrapposti interessi dei privati.
I presupposti dell'esercizio dell’autotutela dei titoli
edilizi sono quindi costituiti dall'illegittimità originaria
del provvedimento, dall'interesse pubblico concreto ed
attuale alla loro rimozione (diverso dal mero ripristino
della legalità), tenuto conto anche delle posizioni
giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari.
E’ noto che l'esercizio del potere di autotutela è
espressione di rilevante discrezionalità che non esime,
tuttavia, l'Amministrazione dal dare conto, sia pure
sinteticamente, della sussistenza dei summenzionati
presupposti.
L'ambito della motivazione esigibile è integrato
dall'allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio,
dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare
atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del
territorio e dei valori che su di esso insistono (ambiente,
paesaggio, salute, sicurezza, beni storici e culturali), che
quasi sempre sono prevalenti rispetto a quelli contrapposti
dei privati; nonché dell'eventuale negligenza o della
malafede del privato che ha indotto in errore
l'Amministrazione o ha approfittato di un suo errore (ad es.
rappresentando in modo erroneo la situazione di fatto in
base alla quale è stato rilasciato il titolo o sono stati
individuati i legittimati attivi).
---------------
Per quanto riguarda poi la disciplina dell’annullamento di
ufficio anche questa risulta illegittimamente applicata dal
Comune.
L’art. 21-nonies della legge 241/1990, nella formulazione
ratione temporis applicabile, dispone infatti che “Il
provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi
dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha
emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge”.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che il potere
di autotutela è un potere discrezionale attribuito alle
amministrazioni, che presuppone sia l'illegittimità
dell'atto amministrativo annullando, sia la sussistenza di
ragioni di interesse pubblico all'annullamento, entro un
termine ragionevole (Cons. Stato Sez. IV, 05.05.2016, n.
1808).
La norma di cui all'art. 21-nonies L. n. 241/1990 prevede
dunque che al fine di procedere all'annullamento d'ufficio
di un atto amministrativo la P.A. necessita di un triplice
ordine di presupposti: che l'atto sia illegittimo; che
sussistano ragioni di interesse pubblico che ne
giustifichino l'annullamento e che il tutto avvenga entro un
termine ragionevole. Nell’adozione dell’atto, inoltre,
occorre tener conto degli interessi del destinatario;
l’Amministrazione è infatti chiamata a svolgere un
bilanciamento tra gli opposti interessi prima di decretare
l’annullamento di un atto in autotutela. Di tutti questi
elementi è necessario dare conto in motivazione (Cons. Stato
Sez. III, 10.05.2017, n. 2169).
In particolare, con riguardo all’annullamento di titoli
edilizi, i presupposti per l’esercizio del potere di
annullamento d'ufficio di un titolo edilizio devono
rispondere ai requisiti di legittimità codificati
nell'articolo 21-nonies della l. 07.08.1990, n. 241,
consistenti nell'illegittimità originaria del titolo e
nell'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua
rimozione diverso dal mero ripristino della legalità,
comparato con i contrapposti interessi dei privati
(Consiglio di Stato, sez. VI, 29/01/2016, n. 351).
I presupposti dell'esercizio dell’autotutela dei titoli
edilizi sono quindi costituiti dall'illegittimità originaria
del provvedimento, dall'interesse pubblico concreto ed
attuale alla loro rimozione (diverso dal mero ripristino
della legalità), tenuto conto anche delle posizioni
giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari. E’
noto che l'esercizio del potere di autotutela è espressione
di rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia,
l'Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente,
della sussistenza dei summenzionati presupposti. L'ambito
della motivazione esigibile è integrato dall'allegazione del
vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere
conto, per il resto, del particolare atteggiarsi
dell'interesse pubblico in materia di tutela del territorio
e dei valori che su di esso insistono (ambiente, paesaggio,
salute, sicurezza, beni storici e culturali), che quasi
sempre sono prevalenti rispetto a quelli contrapposti dei
privati; nonché dell'eventuale negligenza o della malafede
del privato che ha indotto in errore l'Amministrazione o ha
approfittato di un suo errore (ad es. rappresentando in modo
erroneo la situazione di fatto in base alla quale è stato
rilasciato il titolo o sono stati individuati i legittimati
attivi) (TAR Napoli, sez. VIII, 04/11/2015, n. 5117, sez, VI
n. 3552/2016).
Nella fattispecie all’esame di questo giudice non emerge che
l’Amministrazione abbia posto a fondamento della sua scelta
alcuna argomentazione in merito all’interesse pubblico che
si intende tutelare e alcuna ponderazione degli interessi
coinvolti se non quella, peraltro errata, della non
intervenuta decorrenza del termine assegnato alla
Soprintendenza per pronunciarsi sulla autorizzazione
paesaggistica n. 46 del 31/12/2009 rilasciata dal Comune e
inoltrata all’Ente statale il 04.01.2010.
L’illegittimità dell’operato dell’amministrazione locale
emerge ancor di più se si tiene conto che l’Amministrazione
ha deciso di agire in autotutela dopo circa 3 anni dal
rilascio del titolo, termine troppo lungo che imponeva una
particolare istruttoria sia in merito all’affidamento
ingenerato nei ricorrenti per il decorso del tempo che con
riguardo alle ragioni di pubblico interesse.
Oltre al provvedimento assunto in autotutela n. 16014/2014,
conseguentemente deve essere annullata anche l’ordinanza di
demolizione n. 128/2014 assunta sulla base proprio del
disposto annullamento in autotutela.
L’art. 27, comma 2, del d.P.R. 380/2001, richiamato nella
detta ordinanza di demolizione prevede che “Il dirigente
o il responsabile, quando accerti l'inizio o l'esecuzione di
opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi
statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o
adottate, a vincolo di inedificabilità, ……nonché in tutti i
casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici provvede alla
demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi…..”.
Tale norma non può ritenersi applicabile alla presente
fattispecie in quanto le opere contestate non risultano
realizzate abusivamente, ma in forza del permesso di
costruire n. 23/2011.
Conclusivamente il ricorso va accolto con il conseguente
assorbimento delle ulteriori censure formulate e per
l’effetto vanno annullati gli atti impugnati (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 21.06.2017 n. 3378 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
mancata notifica dell'ordinanza di demolizione a uno dei
comproprietari non ne inficia la legittimità, comportandone
semmai l'inefficacia relativa nei confronti del solo
comproprietario interessato, ai fini della successiva
acquisizione del bene al patrimonio pubblico.
Altresì, cui l'ordinanza di demolizione di opere abusive
deve essere notificata oltre che al soggetto o ai soggetti
responsabili dell'abuso anche al proprietario dell'area.
Il motivo per cui il proprietario viene ad essere
destinatario dell'ordine di demolizione, pur in assenza di
ogni coinvolgimento nella realizzazione delle opere non
autorizzate, sta nel fatto che la legge pone a suo carico
non una responsabilità (che sarebbe oggettiva e, come tale,
contraria ai principi dell'ordinamento) ma un obbligo di
cooperazione nella rimozione delle opere abusive il cui
mancato adempimento può anche comportare la sanzione della
acquisizione gratuita del terreno.
Si tratta di un obbligo di cooperazione il cui contenuto
dipende dalle singole fattispecie: il proprietario
incolpevole della singola particella sarà tenuto a non
frapporre ostacoli alla demolizione, alla quale dovranno
tuttavia provvedere i soggetti responsabili degli abusi. Non
potrà essere riferita al proprietario incolpevole la
previsione dell'ordinanza secondo la quale è possibile la
sua esecuzione da parte dell'Amministrazione e a spese dei
destinatari, essendo anche questa previsione necessariamente
riferita ai responsabili dell'abuso, tenuti alla
demolizione.
---------------
Rispetto all'ordine demolizione non occorre alcun onere
aggiuntivo motivazionale, trattandosi di atto dovuto e a
contenuto vincolato ed inoltre la mancata comunicazione di
avvio del procedimento dequota, secondo lo schema di cui
all'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, a mera irregolarità
non invalidante.
In altri termini, in materia di repressione di abusi
edilizi, l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea
generale, una specifica motivazione circa le ragioni della
sanzione, essendo sufficiente, a tal fine, la constatazione
della natura abusiva del manufatto. Essa costituisce atto
dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore
rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e
all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi.
L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere ulteriori
indagini circa la sussistenza dell'interesse pubblico,
concreto ed attuale, alla repressione dell'abuso né ad
effettuare una comparazione tra questo e l'interesse privato
alla conservazione del manufatto abusivo, essendo "in re
ipsa" l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito ed
al ripristino della legalità. L'ingiunzione di demolizione,
infine, in quanto atto dovuto e dalla natura vincolata, non
deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento.
---------------
In sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere
edilizie abusive su area vincolata non è necessario
acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal
momento che l'ordine di ripristino discende direttamente
dall'applicazione della disciplina edilizia e non
costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti
dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio.
---------------
Prive di pregio si appalesano le censure di carattere
formale-procedimentale, in disparte l’irrilevanza delle
stesse a fronte di un provvedimento di natura vincolata a
contenuto conforme rispetto ai dettami di legge (art.
21-octies, II co., L. 241/1990).
Ed, invero, per giurisprudenza pacifica (cfr. da ultimo TAR
Venezia, sez. I, 20/11/2015, n. 1240), la mancata notifica
dell'ordinanza di demolizione a uno dei comproprietari non
ne inficia la legittimità, comportandone semmai
l'inefficacia relativa nei confronti del solo
comproprietario interessato, ai fini della successiva
acquisizione del bene al patrimonio pubblico.
Del pari va ribadito il principio di diritto per cui
l'ordinanza di demolizione di opere abusive deve essere
notificata oltre che al soggetto o ai soggetti responsabili
dell'abuso anche al proprietario dell'area.
Il motivo per cui il proprietario viene ad essere
destinatario dell'ordine di demolizione, pur in assenza di
ogni coinvolgimento nella realizzazione delle opere non
autorizzate, sta nel fatto che la legge pone a suo carico
non una responsabilità (che sarebbe oggettiva e, come tale,
contraria ai principi dell'ordinamento) ma un obbligo di
cooperazione nella rimozione delle opere abusive il cui
mancato adempimento può anche comportare la sanzione della
acquisizione gratuita del terreno.
Si tratta di un obbligo di cooperazione il cui contenuto
dipende dalle singole fattispecie: il proprietario
incolpevole della singola particella sarà tenuto a non
frapporre ostacoli alla demolizione, alla quale dovranno
tuttavia provvedere i soggetti responsabili degli abusi. Non
potrà essere riferita al proprietario incolpevole la
previsione dell'ordinanza secondo la quale è possibile la
sua esecuzione da parte dell'Amministrazione e a spese dei
destinatari, essendo anche questa previsione necessariamente
riferita ai responsabili dell'abuso, tenuti alla
demolizione.
Sul piano procedimentale –in disparte la corretta
attivazione del meccanismo informativo-partecipativo ed i
già svolti rilievi in punto di vizi formali non invalidanti–
va ribadito l’assunto (cfr., da ultimo, TAR Napoli, sez. IV,
27/03/2017, n. 1668) per cui rispetto all'ordine demolizione
non occorre alcun onere aggiuntivo motivazionale,
trattandosi di atto dovuto e a contenuto vincolato ed
inoltre la mancata comunicazione di avvio del procedimento
dequota, secondo lo schema di cui all'art. 21-octies, l. n.
241 del 1990, a mera irregolarità non invalidante.
In altri termini, in materia di repressione di abusi
edilizi, l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea
generale, una specifica motivazione circa le ragioni della
sanzione, essendo sufficiente, a tal fine, la constatazione
della natura abusiva del manufatto. Essa costituisce atto
dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore
rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e
all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi.
L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere ulteriori
indagini circa la sussistenza dell'interesse pubblico,
concreto ed attuale, alla repressione dell'abuso né ad
effettuare una comparazione tra questo e l'interesse privato
alla conservazione del manufatto abusivo, essendo "in re
ipsa" l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito
ed al ripristino della legalità. L'ingiunzione di
demolizione, infine, in quanto atto dovuto e dalla natura
vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di
avvio del procedimento.
Nel caso di specie, in particolare, le descritte opere
risultano eseguite in assenza di atti abilitativi per
costruire, ricadenti in zona P.I. , comportandone
trasformazione urbanistica edilizia del territorio tanto da
indurre il Comune di Capri a disporre la sanzione
demolitoria prevista dall'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001.
Oltre a ciò, le opere "abusive" risultano realizzate
in violazione degli obblighi stabiliti dalle disposizioni
del Titolo I, Parte Terza del Dlgs 22/01/2004 n. 42. Infine,
le stesse opere risultano ricadere in zona classificata a
rischio sismico di classe III dal 28/11/2002 ai sensi della
L. 64/1974 e della L.R. 9/83 e pertanto sanzionate in
applicazione del decreto legislativo n. 42/2004 n. 42,
violando, tra l'altro, l'articolo 146 della stessa norma
s.m.i..
Ne discende altresì l’infondatezza della censura relativa al
mancato parere della Commissione edilizia, atteso che in
sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere
edilizie abusive su area vincolata non è necessario
acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal
momento che l'ordine di ripristino discende direttamente
dall'applicazione della disciplina edilizia e non
costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti
dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio (in
termini TAR Napoli, sez. VI, 20/02/2017, n. 996) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 21.06.2017 n. 3377 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La nozione di pertinenzialità ai fini urbanistici
ed edilizi ha connotati diversi da quelli civilistici,
avendo rilievo determinante non tanto il legame materiale
tra pertinenza e immobile principale, quanto che la prima
non abbia autonoma destinazione e autonomo valore di mercato
e che esaurisca la propria destinazione d'uso nel rapporto
funzionale con l'edificio principale, così da non incidere
sul carico urbanistico e che vengano in rilievo manufatti di
dimensioni estremamente modeste e ridotte, inidonei, quindi,
ad alterare in modo significativo l'assetto del territorio.
---------------
Infine e nel merito, non colgono nel segno le censure di
merito volte ad evidenziare la mancata considerazione della
vetustà delle opere in questione e la loro prevalente natura
pertinenziale.
Di contro s’osserva, da un lato, che è del tutto
irrilevante che alcuni manufatti siano già da tempo
esistenti, atteso che –ed al fuori da vicende condonistiche
legate all’epoca di realizzazione degli abusi- possono
essere oggetto di demolizioni anche quelle opere abusive che
comportino un aumento del volume dell'immobile preesistente;
dall’altro lato i manufatti realizzati non possono
essere considerate pertinenze, e quindi non soggette
all'ordinanza di demolizione, avendo la giurisprudenza
amministrativa chiarito che le opere, come nel caso di
specie, aventi carattere di stabilità ed aventi
un'utilizzazione autonoma, oltre a non poter essere
considerate una mera pertinenza, costituiscono un'opera
esterna per la cui costruzione occorre il permesso di
costruire, non potendo fruire di regimi semplificati
allorquando le loro dimensioni sono di entità tali da
arrecare una visibile alterazione all'edificio, come nel
caso che ci occupa.
Più in generale, deve ricordarsi come la nozione di
pertinenzialità ai fini urbanistici ed edilizi ha connotati
diversi da quelli civilistici, avendo rilievo determinante
non tanto il legame materiale tra pertinenza e immobile
principale, quanto che la prima non abbia autonoma
destinazione e autonomo valore di mercato e che esaurisca la
propria destinazione d'uso nel rapporto funzionale con
l'edificio principale, così da non incidere sul carico
urbanistico e che vengano in rilievo manufatti di dimensioni
estremamente modeste e ridotte, inidonei, quindi, ad
alterare in modo significativo l'assetto del territorio, con
la conseguenza che nel caso di specie, in ragione del dato
qualitativo-quantitativo, non potrà riconoscersi siffatto
carattere alle opere de quibus (TAR Campania-Napoli,
Sez. VI,
sentenza 21.06.2017 n. 3377 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Il Consiglio di Stato ha reso il parere in ordine alla
competenza, a seguito del primo correttivo al Codice dei
contratti pubblici, ad adottare gli atti di attuazione del
sistema di qualificazione del contraente generale.
1. Oggetto del parere
Il Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione ha
chiesto al Consiglio di Stato un parere in ordine alla
portata degli artt. 197 e 199 del decreto legislativo
18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici).
Il quesito ha ad oggetto la competenza, a seguito del
decreto legislativo 19.04.2017, n. 56 (Disposizioni
integrative e correttive al decreto legislativo 18.04.2016,
n. 50), ad adottare gli atti di attuazione del sistema di
qualificazione del contraente generale: in particolare, il
dubbio è sorto in quanto dalla lettura del citato articolo
197 sembra che la competenza sia dell’ANAC mediante
l’adozione di linee guida, mentre dalla lettura del citato
articolo 199 sembra che la competenza sia del Ministero
delle infrastrutture e dei trasporti mediante l’adozione di
un decreto.
Si è trattato, pertanto, di stabilire se sia estensibile
anche al sistema di qualificazione del contraente generale
l’art. 83, coma 3, del d.lgs. n. 50 del 2016, come
modificato dal decreto correttivo, nella parte in cui,
recependo i rilievi prospettati dal Consiglio di Stato, con
il parere 01.04.2016, n. 855, prevede che il sistema
generale di qualificazione degli operatori economici debba
avvenire mediante decreto ministeriale in ragione della
natura “intrinsecamente normativa” del suo contenuto.
2. La risposta del Consiglio di Stato
Nel fornire la risposta al quesito nel parere è stata
ricostruita la normativa che nel tempo si è succeduta in
relazione al sistema di qualificazione degli operatori
economici e del contraente generale.
Alla luce della ricostruzione effettuata la Commissione
Speciale ha ritenuto che la volontà del legislatore sia
stata quella di “estendere” anche al contraente
generale la modifica che ha riguardato le disposizioni
generali di qualificazione.
A tale conclusione, il Consiglio di Stato è pervenuto
all’esito dell’analisi del dato letterale e della ragione
sistematica dell’intervento correttivo.
Sul piano letterale, il legislatore ha modificato
espressamente il regime transitorio di cui agli artt. 199 e
216, comma 27-bis, relativi al contraente generale, mediante
un espresso richiamo al decreto di cui al secondo comma
dell’art. 83. La mancata modifica anche dell’art. 197, per
quanto si tratti della norma che pone la disciplina a
regime, non può avere valenza determinante, proprio in
ragione del fatto che la stessa non è stata oggetto di
modifiche.
Sul piano della ragione sistematica, il legislatore del 2016
ha effettuato una chiara opzione a favore del sistema “unitario”
che eviti differenziazioni di regime del sistema
qualificazione dipendenti dalla presenza di un qualsiasi
operatore economico ovvero di un contraente generale. In
questo senso depone l’attribuzione alle SOA dei compiti di
attestazione che nel precedente sistema erano affidati, per
il solo contraente generale, ad un decreto ministeriale.
Deve, pertanto, presumersi che il legislatore del 2017 abbia
inteso continuare lungo questo percorso unitario, estendendo
anche al contraente generale la modifica che ha riguardato
la natura delle fonti di regolazione. Del resto, si
sottolinea nel parere, è la valenza intrinsecamente
normativa dell’atto che giustifica la sua veste
regolamentare. Ed è indubbio che tale valenza l’atto l’abbia
anche quando esso trovi applicazione nell’ambito della
disciplina del contraente generale.
3. Misure da adottare
In relazione al sistema di qualificazione nel parere sono
stati segnalati alcuni errori materiali, conseguenza di un
mancato coordinamento normativo che possono essere corretti
con un avviso di rettifica.
In particolare, tale avviso dovrà sostituire i riferimenti
alle linee guida contenuti nell’art. 83, comma 2, e
nell’art. 216 con il riferimento al “decreto di cui
all’art. 83, comma 2”.
In relazione al sistema di qualificazione del contraente
generale, che è l’oggetto specifico del parere, la
Commissione speciale ha sottolineato come la misura più
idonea per ridare coerenza al sistema sia rimessa al
legislatore. In questo caso, infatti, la difficoltà del
ricorso al mero avviso di rettifica deriva dal fatto che non
è sufficiente una mera sostituzione delle espressioni “linee
guida” con “decreto di cui al secondo comma dell’art.
83”.
Ciò in quanto, il sistema di qualificazione rimane comunque
affidato ad una pluralità di atti (linee guida e decreti
regolamentari) che presentano un contenuto eterogeneo. E’
dunque necessaria una modifica sostanziale della norma (Consiglio
di Stato, Comm. spec.,
parere 21.06.2017 n. 1479
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla distanza da osservare nel costruire un barbecue a
confine.
Per l’art. 890 c.c. chi presso il
confine vuole fabbricare forni o camini, per i quali può
sorgere pericolo di danni, deve osservare le distanze
stabilite dai regolamenti e, in mancanza, quelle necessarie
a preservare i fondi vicini da ogni danno alla solidità,
salubrità e sicurezza.
Tale articolo va quindi letto nel senso di considerare le
cose espressamente elencate come gravate da una presunzione
assoluta di nocività o pericolosità.
Il rispetto della distanza prevista dall’art. 890 c.c.,
nella cui regolamentazione rientrano anche i forni, è
collegato ad una presunzione assoluta di nocività e
pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto nel
caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che
stabilisca la distanza medesima; mentre, in difetto di una
disposizione regolamentare, si ha pur sempre una presunzione
di pericolosità, seppure relativa, che può essere superata
ove la parte interessata al mantenimento del manufatto
dimostri che mediante opportuni accorgimenti può ovviarsi al
pericolo o al danno del fondo vicino.
---------------
La Corte territoriale ha posto a fondamento della sua
decisione le risultanze della consulenza tecnica di ufficio
secondo le quali il barbecue in questione avrebbe dovuto
essere collocato a non meno di 5-6 metri dalla proprietà del
resistente (distanza che la corte territoriale ha affermato
essere persino troppo modesta) e che il predetto manufatto
invece era stato posto molto vicino alle finestre
dell'abitazione privata di An.Ma., che risultavano "soprastanti
per poche decine di centimetri", mentre la casa era
situata "in posizione soprastante la piccola area esterna
ove il sig. Ca.In. ha collocato il suo barbecue" e ha
aggiunto che "le fotografie in atti sono più eloquenti di
ogni scritto sull'argomento e il rinvio alla loro diretta
visione potrebbe bastare quale motivazione della pronuncia
giudiziale".
La Corte di appello ha qualificato il barbecue un forno e ha
dato atto che il Tribunale, accogliendo la domanda ex art.
890 c.c. dell'attore aveva rilevato che era costituito da un
manufatto in muratura il cui comignolo si trovava ad una
distanza minima da meno di un metro a due metri circa da
alcune finestre del soprastante appartamento dell'attore.
Per l'art. 890 c.c. chi presso il confine
vuole fabbricare forni o camini, per i quali può sorgere
pericolo di danni, deve osservare le distanze stabilite dai
regolamenti e, in mancanza, quelle necessarie a preservare i
fondi vicini da ogni danno alla solidità, salubrità e
sicurezza.
Tale articolo va quindi letto nel senso di considerare le
cose espressamente elencate come gravate da una presunzione
assoluta di nocività o pericolosità.
Il rispetto della distanza prevista dall'art. 890 c.c.,
nella cui regolamentazione rientrano anche i forni
(tale essendo qualificato dalla Corte di appello il
manufatto), è collegato ad una presunzione
assoluta di nocività e pericolosità che prescinde da ogni
accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento
edilizio comunale che stabilisca la distanza medesima;
mentre, in difetto di una disposizione regolamentare, si ha
pur sempre una presunzione di pericolosità, seppure
relativa, che può essere superata ove la parte interessata
al mantenimento del manufatto dimostri che mediante
opportuni accorgimenti può ovviarsi al pericolo o al danno
del fondo vicino
(Cass. 22/10/2009 n. 22389; Cass. 06/03/2002 n. 3199).
Va precisato che la presunzione che deve
essere superata non è una presunzione di danno, ma una
presunzione di pericolo che si produca il danna e prescinde
dall'accertamento in concreto del danno, dovendo invece
essere valutata in concreto la pericolosità del forno
ancorché non in attività.
Ne discende quale necessaria conseguenza, l'irrilevanza di
un accertamento svolto con il forno in funzione essendo
invece sufficiente la potenzialità dell'esalazione nociva o
molesta, potenzialità che è stata appunto accertata dal CTU
A nulla rileva che l'apertura più vicina fosse una luce od
una veduta e che si aprisse all'esterno del seminterrato,
dovendosi tenere conto del complessivo mancato rispetto
delle distanze come accertata in concreto dalla Corte di
appello sulla base della CTU e in base alla posizione del
forno rispetto all'immobile del resistente.
Il motivo deve pertanto essere rigettato.
2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la
violazione dell'art. 115 c.p.c. e sostiene che la Corte di
appello ha erroneamente applicato la nozione del notorio
ritenendo di comune esperienza la nocività delle immissioni
provocate dal barbecue senza avere valutato in concreto la
effettiva nocività e pericolosità del manufatto, amovibile
in quanto soltanto appoggiato al suolo.
2.1. La Corte di appello ha rilevato che per il comune buon
senso e per le nozioni di comune esperienza il carbone di
legna è nocivo.
Il motivo è infondato perché rientra ormai
nella comune esperienza che dalla bruciatura del carbone di
legna (come
rilevato dalla Corte di appello) si
sviluppa una sostanza cancerogena; già nel 2010 l'Agenzia
Internazionale per la ricerca sul cancro ha inserito il fumo
di legna tra i possibili agenti cancerogeni; va aggiunto che
anche su quotidiani a larga tiratura è stata evidenziata la
nocività dei fumi da barbecue
(v. ad es. il quotidiano La Stampa 08/08/2012 inserto
salute) (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 20.06.2017 n. 15246 - massima tratta da
https://renatodisa.com). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Si
possono installare antenne per radioamatori su tetti
condominiali senza titolo edilizio.
LE antenne come quella di cui si è
dotato il ricorrente possono essere installate senza che sia
necessario il rilascio di un titolo edilizio, una nozione
che si può derivare con maggiore precisione dopo l’entrata
in vigore del d.lvo 2003, n. 259.
---------------
A diversa conclusione non può indurre la menzione operata in
motivazione di due norme del regolamento edilizio comunale
che imporrebbero l’acquisizione di un titolo edilizio per
legittimare l’installazione del manufatto di che si tratta.
Al riguardo va considerato innanzitutto che l’art. 3, comma
2, del dpr 06.06.2001, n. 380 spiega un effetto sulla
gerarchia delle fonti del diritto in materia edilizia che
inibisce la possibilità di ritenere che un regolamento
locale possa considerare un’attività costruttiva in modo
differente rispetto ai principi generali posti dalla norma
di legge citata.
Oltre a ciò il collegio deve richiamare adesivamente la
motivazione della propria ordinanza cautelare (2000, n.
1167) nella parte in cui essa evidenziava l’impossibilità di
derivare dalla lettura delle norme di regolamento l’obbligo
di acquisizione del titolo edilizio per l’installazione
dell’antenna.
---------------
L’impugnazione è relativa ad un atto con cui il comune di
Genova ha ingiunto all’interessato la rimozione dell’antenna
per radioamatore installata sulla copertura dell’immobile
condominiale ubicato in via ... 19. Il bene si eleva per
circa undici metri.
In relazione alle censure proposte il collegio deve
premettere una considerazione generale e assorbente in
ordine alla situazione soggettiva dedotta: risulta infatti
dall’esame della prevalente giurisprudenza in argomento (tar
Lazio, Latina, 2011/861, tar Abruzzo, Pescara, 2009, n. 207,
tar Piemonte, 2002, n. 2156) che le antenne come quella di
cui si è dotato il ricorrente possono essere installate
senza che sia necessario il rilascio di un titolo edilizio,
una nozione che si può derivare con maggiore precisione dopo
l’entrata in vigore del d.lvo 2003, n. 259.
La tesi è poi corroborata e non già smentita dalla
giurisprudenza citata dalla difesa comunale, posto che le
pronunce allegate presuppongono l’intervento autorizzativo
della p.a. solo nel caso in cui l’impianto riguardi un sito
paesisticamente rilevante, cosa che l’atto in questione non
allega si sia verificato.
Ne deriva che, al di là delle censure dedotte, il
provvedimento è carente nel presupposto che lo fonda, posto
che esso non specifica la ragione per cui in una zona
paesisticamente non significativa sarebbe necessario munirsi
di un titolo edilizio per installare un’antenna da
radioamatore.
A diversa conclusione non può indurre la menzione operata in
motivazione di due norme del regolamento edilizio comunale
che imporrebbero l’acquisizione di un titolo edilizio per
legittimare l’installazione del manufatto di che si tratta.
Al riguardo va considerato innanzitutto che l’art. 3, comma
2, del dpr 06.06.2001, n. 380 spiega un effetto sulla
gerarchia delle fonti del diritto in materia edilizia che
inibisce la possibilità di ritenere che un regolamento
locale possa considerare un’attività costruttiva in modo
differente rispetto ai principi generali posti dalla norma
di legge citata. Oltre a ciò il collegio deve richiamare
adesivamente la motivazione della propria ordinanza
cautelare (2000, n. 1167) nella parte in cui essa
evidenziava l’impossibilità di derivare dalla lettura delle
norme di regolamento l’obbligo di acquisizione del titolo
edilizio per l’installazione dell’antenna.
Il ricorso è pertanto fondato e va accolto, conseguendo da
ciò la condanna del comune soccombente alle spese di lite
sostenute dall’interessato, oneri che vengono liquidati
equamente date la natura della controversia e la lontananza
nel tempo dei fatti per cui è lite
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 20.06.2017 n. 540 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda di
risarcimento del danno asseritamente risentito per aver
fatto affidamento sulla legittimità di provvedimenti
urbanistici ed edilizi successivamente annullati dal Tar.
---------------
Giurisdizione – Risarcimento danni - Affidamento sul
legittimità di provvedimenti urbanistici ed edilizi
successivamente annullati dal Tar – Controversia –
Giurisdizione giudice ordinario.
Rientra nella giurisdizione del
giudice ordinario la controversia avente ad oggetto la
domanda di risarcimento del danno asseritamente risentito
per aver fatto affidamento sulla legittimità di
provvedimenti urbanistici ed edilizi successivamente
annullati dal Tar; la domanda giudiziale non attiene,
infatti, ad atti e provvedimenti già adottati in materia, e
neppure all’esercizio del potere amministrativo, espletatosi
con l’approvazione del piano di lottizzazione e con il
rilascio delle concessioni edilizie, ma all’attitudine del
pregresso esercizio del potere amministrativo -sfociato nei
provvedimenti illegittimi- a determinare come conseguenza
causale l’insorgenza di un incolpevole affidamento nella
permanenza della situazione di vantaggio ottenuta (1).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che la questione ricade nella
giurisdizione del giudice ordinario perché involge
l’apprezzamento del comportamento tenuto dalla pubblica
amministrazione (cfr. Cass. civ., s.u., ord., 04.09.2015, n.
17586; id. 22.01.2015, n. 1162; id. 03.05.2013, n. 10305;
id. 23.03.2011, n. 6594) (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 19.06.2017 n. 211
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Giustificazione della non anomalia dell'offerta di gara
pubblica.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte
anomale – Giustificazioni – Oggetto - Individuazione.
Ai sensi dell’art. 97, d.lgs.
18.04.2016, n. 50, le giustificazioni rese dall’offerente
nell’ambito del giudizio di anomalia della propria offerta
devono riguardare elementi che concernono l’offerta stessa,
tra cui l’economia del processo di fabbricazione dei
prodotti, dei servizi prestati o del metodo di costruzione;
le soluzioni tecniche prescelte o le condizioni
eccezionalmente favorevoli di cui dispone l’offerente per
fornire i prodotti, per prestare i servizi o per eseguire i
lavori; l’originalità dei lavori, delle forniture o dei
servizi proposti (1).
---------------
(1)
Il Tar ha ritenuto inidonee a giustificare il notevole
ribasso offerto dalla ricorrente le giustificazioni che si
basano su elementi aleatori e futuri estranei all’offerta
stessa, quali gli eventuali introiti che sarebbe possibile
ricavare dalla vendita di un terreno ovvero dalla vendita di
appartamenti da costruire sul terreno medesimo (TAR
Umbria,
sentenza 16.06.2017 n. 457
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
1. Viene all’esame del Collegio la legittimità degli
atti riguardanti la procedura di gara per l’affidamento “dei
lavori di realizzazione della Piazza dell’Archeologia con
parte del corrispettivo costituito da trasferimento
dell’immobile”, da effettuarsi presso il Comune di Città
di Castello.
2. Con il primo motivo di ricorso, la società
ricorrente sostiene che in sede di valutazione dell’anomalia
della propria offerta, la stazione appaltante avrebbe errato
nel ritenere insufficienti ed incongruenti le
giustificazioni prodotte in ordine agli introiti derivanti
dalla vendita del terreno che costituisce parte del
corrispettivo, ovvero in relazione agli appartamenti che
sarebbe possibile costruire e poi vendere su detto terreno.
2.1. Il motivo è infondato e va respinto.
2.2. Osserva infatti il Collegio che
ai
sensi dell’art. 97 del d.lgs. n. 50/2016, le giustificazioni
rese dall’offerente nell’ambito del giudizio di anomalia
della propria offerta, devono riguardare elementi che
concernono l’offerta stessa, tra cui: l’economia del
processo di fabbricazione dei prodotti, dei servizi prestati
o del metodo di costruzione; le soluzioni tecniche prescelte
o le condizioni eccezionalmente favorevoli di cui dispone
l’offerente per fornire i prodotti, per prestare i servizi o
per eseguire i lavori; infine, l’originalità dei lavori,
delle forniture o dei servizi proposti.
2.3. Contrariamente al suesposto dato normativo, la società
ricorrente ha invece tentato di giustificare il notevole
ribasso offerto, facendo affidamento su elementi aleatori e
futuri estranei all’offerta stessa, quali gli eventuali
introiti che sarebbe possibile ricavare dalla vendita del
terreno facente parte della remunerazione della ditta
aggiudicataria, ovvero dalla vendita di appartamenti da
costruire sul terreno medesimo.
2.4. Appare pertanto corretta la valutazione effettuata
dalla stazione appaltante, secondo cui deve ritenersi “infondata
l’impostazione dell’impresa che ritiene di poter coprire
costi derivanti dall’esecuzione del contratto mediante utili
conseguibili eventualmente solo in un tempo successivo per
mezzo di un negozio giuridico differente”. |
EDILIZIA PRIVATA:
Manufatto abusivo - Ingiunzione alla demolizione
- Rigetto della richiesta di revoca o sospensione - Condanna
definitiva - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Valutazione
effettuata dall'amministrazione comunale - Criteri.
In materia urbanistica, la situazione particolare che viene
a determinarsi in conseguenza della deliberazione comunale,
sottraendo l'opera abusiva la suo normale destino, che è la
demolizione, presuppone che la valutazione effettuata
dall'amministrazione comunale sia estremamente rigorosa e
deve essere puntualmente riferita al singolo manufatto, il
quale va precisamente individuato, dando atto delle
specifiche esigenze che giustificano la scelta, dovendosi
escludere che possano assumere rilievo determinazioni di
carattere generale riguardanti, ad esempio, più edifici o
fondate su valutazioni di carattere generale (Sez. 3, n.
25824 del 22/05/2013, Mursia; V. anche Sez. 3, n. 9864 del
17/02/2016, Corleone e altro).
Immobile abusivo in zona sottoposta a
vincolo paesaggistico - Condono edilizio ex legge 326/2003 -
Provvedimento di sanatoria - Amministrazione comunale -
Presupposti per l'emissione - Giurisprudenza.
La realizzazione, in area assoggettata a vincolo
paesaggistico, di nuove costruzioni in assenza di permesso
di costruire non è suscettibile di sanatoria (v. da ultimo,
Sez. 3, n. 16471 del 17/02/2010, Giardina, nonché ex. pi.
Sez. 3, n. 35222 del 11/04/2007, Manfredi e altro; Sez. 3,
n. 38113 del 03/10/2006, De Giorgi; Sez. 4, n. 12577 del
12/01/2005, Ricci) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.06.2017 n. 30170 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla non sanabilità
di un parcheggio per camion, abusivamente realizzato in zona
agricola mediante livellamento del terreno e successivo
riporto di ghiaia.
Quanto al parcheggio, funzionale
all’esercizio delle attività di trasporto di cui era
all’epoca titolare il marito della ricorrente, è del pari
evidente la incompatibilità anche solo dell’inghiaiamento,
sia con l’autorizzazione al livellamento per miglioramento
della funzionalità agricola, sia con la destinazione
agricola di zona (come pure con quella asseritamente
sopravvenuta a “zona per impianti tecnologici”), nonché con
l’art. 48 delle NTA dell’epoca, che escludevano in zona
agricola qualsiasi deposito non funzionale all’attività
agricola.
----------------
Con gli atti impugnati il Comune di Crespano del Grappa ha
denegato (18/19.05.2000, n. 2499) la sanatoria e il nulla
osta paesistico di un parcheggio per camion, abusivamente
realizzato in zona agricola mediante livellamento del
terreno e successivo riporto di ghiaia, e di un muro di
recinzione e contenimento a confine con il fondo adiacente
del vicino, situato a livello inferiore.
L’autorizzazione 24.11.1990 per l’esecuzione di recinzione
metallica su pali in ferro e per il “livellamento della
depressione presente nel terreno agricolo"........... “al
fine di realizzare un miglioramento fondiario del terreno”
medesimo, non può evidentemente coprire la realizzazione di
un muro di contenimento per proteggere il fondo confinante
dal deflusso dell’acqua piovana e dal franamento del
materiale ghiaioso (abusivamente riportato), né lo
spianamento del terreno agricolo e la sua copertura con un
materiale ghiaioso per realizzarvi un parcheggio,
trattandosi di opere ben diverse da quelle autorizzate.
Un muro lungo 52 m e di altezza 2.40 (giustamente misurata
dal piano di campagna esterno, perché i limiti di altezza,
ed anche il vincolo paesaggistico di zona sono imposti a
tutela dell’interesse pubblico e del contesto ambientale e
non del fondo di sedime dell’abuso) è cosa ben diversa dalla
recinzione metallica su pali (es. TAR Campania 677/2017; TAR
Bologna I sez., 1003/2014); senza contare che l’art. 88
della NTA allora vigenti consentiva in zona agricola solo la
recinzione delle aree di pertinenza dei fabbricati, in
nessun caso di altezza superiore ai 2 m, quindi non vi era
alcuna possibilità di sanatoria per mancanza della doppia
conformità.
Quanto al parcheggio, funzionale all’esercizio delle
attività di trasporto di cui era all’epoca titolare il
marito della ricorrente, è del pari evidente la
incompatibilità anche solo dell’inghiaiamento, sia con
l’autorizzazione al livellamento per miglioramento della
funzionalità agricola, sia con la destinazione agricola di
zona (come pure con quella asseritamente sopravvenuta a “zona
per impianti tecnologici”), nonché con l’art. 48 delle
NTA dell’epoca, che escludevano in zona agricola qualsiasi
deposito non funzionale all’attività agricola (cfr. TAR
Veneto II, n. 5244/2010, Tar Campania VIII, n. 1397/2016,
TAR Val D’Aosta I sez., n. 55/2016).
Anche per questo abuso, dunque, la sanatoria non poteva che
essere de negata per mancanza della doppia conformità.
Tanto premesso sulle caratteristiche del muro di
contenimento, è evidente che il diniego del nulla osta
paesaggistico è adeguatamente motivato con l’affermazione
che il muro “per posizione e tipologia interrompe i coni
visuali di pregio ambientale” (cfr. Tar Toscana III
1238/2012 sui limiti dell’onere motivazionale del diniego di
autorizzazione paesaggistica).
Dunque, tutti i motivi sono infondati.
Il ricorso è respinto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 15.06.2017 n. 572 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Esclusione dalla gara per l’affidamento in concessione di un
servizio per omesso versamento del contributo all’Anac.
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Contratti della
Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Per
omesso versamento del contributo all’Anac – Gara per
l’affidamento in concessione di un servizio – Non comporta
l’esclusione.
L’omesso versamento, da parte del
concorrente di una gara pubblica per l’affidamento in
concessione di un servizio, del contributo all’Anac,
previsto dall’art. 1, comma 67, l. 23.12.2005, n. 266, non
comporta l’esclusione dalla procedura, non essendo il cit.
comma 67 dell’art. 1 applicabile alla concessione di servizi
(1).
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(1)
Ha chiarito il Tar che l’art. 1, comma 67, l. 23.12.2005, n.
266 pone il versamento del contributo all’Anac come
condizione di ammissibilità dell’offerta unicamente per gli
appalti di opere pubbliche. Ne consegue che, in difetto di
espressa previsione di legge, tale previsione non può
estendersi alle concessioni di servizi, perché una simile
estensione risulterebbe incompatibile con il principio di
tassatività delle cause di esclusione dalla gara previsto
dall’art. 83, comma 8, d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
Ad avviso del Tribunale, inoltre, l’estensione alle
concessioni di servizi della causa di esclusione dagli
appalti pubblici consistente nel mancato versamento del
contributo all’Anac si porrebbe in contrasto anche con il
principio generalissimo che non consente l’applicazione di
una norma eccezionale fuori dai casi da essa espressamente
contemplati.
Il Tar ha quindi concluso che in base all’ora vista
pronuncia dei giudici comunitari, il principio di parità di
trattamento e l’obbligo di trasparenza ostano all’esclusione
di un operatore economico da una procedura di aggiudicazione
di un appalto pubblico in seguito al mancato rispetto, da
parte di tale operatore, dell’obbligo di pagamento di un
contributo (nel caso di specie: il contributo all’Anac) che
non risulti espressamente dai documenti di gara o da norme
di legge, bensì da una loro interpretazione (non
condivisibile, per quanto sopra detto): infatti, in tali
circostanze, i principi di parità di trattamento e di
proporzionalità non ostano a che si consenta al citato
operatore economico di regolarizzare la propria posizione e
di adempiere a tale obbligo entro un termine fissatogli
dall’amministrazione aggiudicatrice (TAR
Veneto, Sez. I,
sentenza 15.06.2017 n. 563
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
- Considerato, in particolare, che nel merito le censure
della ricorrente si incentrano, a ben guardare, tutte sulla
stessa questione, cioè sul mancato versamento nella gara
de qua, da parte della S.. S.r.l., del contributo
all’Autorità di Vigilanza (ora all’A.N.A.C.) di cui all’art.
1, comma 67, della l. n. 266/2005;
- Considerato, tuttavia, che come già accennato in sede
cautelare, l’art. 1, comma 67, della l. n.
266 cit. non è applicabile alla fattispecie all’esame,
avente ad oggetto una concessione di servizi, poiché la
disposizione in parola pone il versamento del ridetto
contributo come condizione di ammissibilità dell’offerta
unicamente per gli appalti di opere pubbliche: la succitata
condizione di ammissibilità non può, in difetto di espressa
previsione di legge, estendersi alle concessioni di servizi,
perché una simile estensione risulterebbe incompatibile con
il principio di tassatività delle cause di esclusione dalla
gara (v. art. 83, comma 8, del d.lgs. n. 50/2016 ed in
passato art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006);
- Osservato, inoltre, che l’estensione alle
concessioni di servizi della causa di esclusione dagli
appalti pubblici consistente nel mancato versamento del
contributo all’A.N.A.C. si porrebbe in contrasto, oltre che
con la lettera della legge, con il principio generalissimo
che non consente l’applicazione di una norma eccezionale
fuori dai casi da essa espressamente contemplati;
- Considerato, ancora, che anche ove si
volesse sostenere la doverosità del versamento del
contributo nel caso di specie e che, pertanto, la S. S.r.l.
fosse tenuta a versarlo, ne deriverebbe non già l’esclusione
di detta società per il mancato versamento del contributo,
ma soltanto la fissazione alla società stessa di un termine
per regolarizzare la propria posizione
(così il recentissimo arresto della Corte Giust. UE,
02.06.2016, n. 27);
- Considerato, infatti, che, in base all’ora vista pronuncia
dei giudici comunitari, il principio di
parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza ostano
all’esclusione di un operatore economico da una procedura di
aggiudicazione di un appalto pubblico in seguito al mancato
rispetto, da parte di tale operatore, dell’obbligo di
pagamento di un contributo (nel caso di specie: il
contributo all’AVCP) che
(come nella vicenda qui in esame) non
risulti espressamente dai documenti di gara o da norme di
legge, bensì da una loro interpretazione (non condivisibile,
per quanto sopra detto): infatti, in tali circostanze, i
principi di parità di trattamento e di proporzionalità non
ostano a che si consenta al citato operatore economico di
regolarizzare la propria posizione e di adempiere a tale
obbligo entro un termine fissatogli dall’amministrazione
aggiudicatrice;
- Ritenuto in definitiva, alla luce di quanto si è esposto,
di dover dichiarare il ricorso manifestamente infondato ai
sensi dell’art. 74 c.p.a.. |
EDILIZIA PRIVATA: Come
è noto, soltanto con l’entrata in vigore dell’articolo 10
della legge 06.08.1967, n. 765 (c.d. “legge ponte”) è stato
novellato l’articolo 31 della legge urbanistica 17.08.1942,
n. 1150, mediante l’introduzione dell’obbligo generalizzato
di munirsi della licenza edilizia per tutte le
trasformazioni edificatorie dei suoli eseguite nell’intero
territorio comunale. In precedenza, tale obbligo aveva
invece una portata limitata, in quanto il richiamato
articolo 31 stabiliva, al primo comma, che “Chiunque intenda
eseguire nuove costruzioni edilizie ovvero ampliare quelle
esistenti o modificarne la struttura o l'aspetto nei centri
abitati ed ove esista il piano regolatore comunale, anche
dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art. 7,
deve chiedere apposita licenza al podestà del comune”.
Dalla suddetta disposizione deriva che, per le costruzioni
realizzate prima dell’entrata in vigore della novella del
1967, la licenza edilizia non fosse richiesta, salvo che
l’opera ricadesse nel centro abitato o nelle zone di
espansione, e salvo inoltre –secondo l’orientamento fatto
proprio recentemente dalla Sezione– il caso in cui l’obbligo
di munirsi del titolo edilizio fosse comunque previsto dai
regolamenti edilizi comunali.
La giurisprudenza ha, inoltre, ripetutamente affermato che
“l’onere della prova sul possesso del titolo edilizio
richiesto e, più in generale, circa l’epoca di realizzazione
delle opere della cui demolizione di tratta e sulla
legittimità degli interventi effettuati grava sul privato e
non sulla P.A.”.
---------------
Ritiene il Collegio che, con riferimento alle opere
realizzate prima del 1967, l’applicazione di quest’ultimo
principio comporti, ai fini del riparto dell’onere della
prova, che spetta all’interessato dimostrare che l’edificio
sia stato realizzato prima dell’entrata in vigore della
novella che ha generalizzato l’obbligo di munirsi del titolo
edilizio, e che tuttavia, una volta che la parte abbia dato
questa prova, sia onere del Comune dimostrare che,
nonostante l’epoca di realizzazione, l’edificazione
richiedesse comunque il rilascio del titolo edilizio.
Ciò sia in quanto l’esistenza di una delle condizioni
comportanti comunque la necessità della licenza costituisce
un fatto impeditivo del dispiegarsi della situazione
soggettiva allegata dal privato, sia per ragioni di
prossimità della prova, atteso che, a distanza di molti
anni, può risultare estremamente difficile per l’interessato
acquisire la documentazione necessaria a dimostrare –in
negativo– che la costruzione, all’epoca della sua
realizzazione, non ricadesse in alcuna delle situazioni che
avrebbero richiesto il previo rilascio del titolo edilizio.
---------------
1. Con la proposizione del ricorso introduttivo del presente
giudizio, la signora An.Ca.Da. ha impugnato l’ordinanza del
Comune di Mandello del Lario in data 30.12.2015, con la
quale le è stata ordinata la rimessione in pristino delle
opere realizzate in difformità dal “Nulla Osta esecuzione
opere edilizie” n. 1749 del 26.02.1962, con conseguente
riconduzione dell’unità abitativa posta al quarto piano –
sottotetto del fabbricato in Via ... 16/H alla destinazione
di “ripostiglio”.
2. La ricorrente allega di aver acquistato nel 2011,
mediante la stipulazione di un contratto di compravendita,
la mansarda oggetto del provvedimento repressivo comunale.
L’unità immobiliare, secondo quanto pure evidenziato dalla
parte, sarebbe stata realizzata, con le stesse
caratteristiche con le quali si presenta oggi, nel 1963,
allorché fu costruito il fabbricato nel quale si colloca, e
da allora sarebbe stata sempre destinata ad uso abitativo.
L’esistenza della mansarda sarebbe peraltro nota da tempo
all’Amministrazione, in quanto indicata nella relazione e
certificato di collaudo delle opere in cemento armato del
1963, presente agli atti del Comune.
...
7. Il ricorso è fondato, dovendo trovare accoglimento il
terzo motivo articolato dalla ricorrente, per le ragioni
che di seguito si espongono.
8. Il provvedimento impugnato ha ordinato il ripristino
della destinazione a ripostiglio della mansarda di proprietà
della ricorrente, sulla base del riscontro della difformità
della destinazione d’uso impressa all’immobile rispetto a
quanto previsto dal nulla osta rilasciato nel 1962 per la
costruzione dell’edificio ove è posto l’appartamento. La
medesima ordinanza fa, inoltre, riferimento alla circostanza
che l’unità abitativa non è indicata nel certificato di
abitabilità, che si riferisce alle unità fino al terzo piano
(mentre l’appartamento della ricorrente, come detto, si pone
al quarto piano, costituito dal sottotetto).
9. Al riguardo, deve tenersi presente che come è noto,
soltanto con l’entrata in vigore dell’articolo 10 della
legge 06.08.1967, n. 765 (c.d. “legge ponte”) è stato
novellato l’articolo 31 della legge urbanistica 17.08.1942,
n. 1150, mediante l’introduzione dell’obbligo generalizzato
di munirsi della licenza edilizia per tutte le
trasformazioni edificatorie dei suoli eseguite nell’intero
territorio comunale. In precedenza, tale obbligo aveva
invece una portata limitata, in quanto il richiamato
articolo 31 stabiliva, al primo comma, che “Chiunque
intenda eseguire nuove costruzioni edilizie ovvero ampliare
quelle esistenti o modificarne la struttura o l'aspetto nei
centri abitati ed ove esista il piano regolatore comunale,
anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art.
7, deve chiedere apposita licenza al podestà del comune”.
9.1 Dalla suddetta disposizione deriva che, per le
costruzioni realizzate prima dell’entrata in vigore della
novella del 1967, la licenza edilizia non fosse richiesta,
salvo che l’opera ricadesse nel centro abitato o nelle zone
di espansione, e salvo inoltre –secondo l’orientamento fatto
proprio recentemente dalla Sezione– il caso in cui l’obbligo
di munirsi del titolo edilizio fosse comunque previsto dai
regolamenti edilizi comunali (per quest’ultimo profilo v.
Cons. Stato, Sez. VI, 07.08.2015, n. 3899; Id., Sez. IV,
21.10.2008, n. 5141; TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
09.01.2017, n. 37).
9.2 La giurisprudenza ha, inoltre, ripetutamente affermato
che “l’onere della prova sul possesso del titolo edilizio
richiesto e, più in generale, circa l’epoca di realizzazione
delle opere della cui demolizione di tratta e sulla
legittimità degli interventi effettuati grava sul privato e
non sulla P.A.” (in questo senso, ex multis:
Cons. Stato, Sez. VI, 05.01.2015, n. 13).
Ritiene il Collegio che, con riferimento alle opere
realizzate prima del 1967, l’applicazione di quest’ultimo
principio comporti, ai fini del riparto dell’onere della
prova, che spetta all’interessato dimostrare che l’edificio
sia stato realizzato prima dell’entrata in vigore della
novella che ha generalizzato l’obbligo di munirsi del titolo
edilizio, e che tuttavia, una volta che la parte abbia dato
questa prova, sia onere del Comune dimostrare che,
nonostante l’epoca di realizzazione, l’edificazione
richiedesse comunque il rilascio del titolo edilizio. Ciò
sia in quanto l’esistenza di una delle condizioni
comportanti comunque la necessità della licenza costituisce
un fatto impeditivo del dispiegarsi della situazione
soggettiva allegata dal privato, sia per ragioni di
prossimità della prova, atteso che, a distanza di molti
anni, può risultare estremamente difficile per l’interessato
acquisire la documentazione necessaria a dimostrare –in
negativo– che la costruzione, all’epoca della sua
realizzazione, non ricadesse in alcuna delle situazioni che
avrebbero richiesto il previo rilascio del titolo edilizio.
10. Facendo applicazione di questi principi nel caso oggetto
del presente giudizio, deve riscontrarsi che il fabbricato
in cui è posta l’unità abitativa della ricorrente risulta
essere stato realizzato nel 1963, come emerge dalla
circostanza che in quell’anno furono emessi non solo il
collaudo dei cementi armati (doc. 8 della ricorrente), ma
anche il permesso di abitabilità (doc. 9 della ricorrente).
La signora Da. ha inoltre affermato che l’unità abitativa di
sua proprietà, posta nel sottotetto, è stata realizzata con
le attuali caratteristiche sin dal momento della costruzione
dell’edificio, e a comprova di questa circostanza ha
richiamato la relazione e certificato di collaudo delle
opere in cemento armato del 1963, ove si legge che “Il
sottotetto è accessibile mediante scala: nello stesso
sottotetto sono stati ricavati due piccoli appartamenti in
falda di tetto” (v. ancora il doc. 8 della ricorrente).
Sulla scorta di questi elementi di fatto, deve ritenersi
effettivamente dimostrato che la destinazione del sottotetto
a residenza sia avvenuta in epoca precedente al 1967.
Circostanza, questa, peraltro non contestata
dall’Amministrazione, né nel provvedimento impugnato, né in
giudizio.
11. A fronte di questo dato, il Comune aveva perciò l’onere,
secondo quanto sopra si è detto, di accertare –dandone conto
nella motivazione dell’ordinanza di demolizione– che,
nonostante l’epoca di realizzazione, le opere fossero
soggette al rilascio del titolo edilizio.
11.1 Ciò, tuttavia, non emerge dalla lettura del
provvedimento impugnato, il quale si limita a riscontrare la
difformità del locale sottotetto rispetto al nulla osta
rilasciato per l’edificazione dell’intero fabbricato nel
1962. La circostanza che sia stato emesso un “nulla osta”
per l’esecuzione dell’intervento edificatorio non dimostra
però, di per sé, che il previo rilascio del titolo fosse
condizione necessaria per l’edificazione. E, d’altro canto,
ove il titolo non fosse stato indispensabile, dovrebbe pure
ritenersi irrilevante la circostanza che, nella
realizzazione dell’intervento, l’allora proprietario si sia
discostato dal nulla osta rilasciatogli.
11.2 Deve poi rilevarsi che, soltanto in giudizio, il Comune
ha sostenuto, nelle proprie difese, che il fabbricato nel
quale è situato il sottotetto si troverebbe “nel nucleo
abitato consolidato del Comune” (v. memoria comunale in
data 11.04.2016, p. 7). Secondo la prospettazione
dell’Amministrazione, ciò si desumerebbe:
- dalla perimetrazione del centro edificato operata ai sensi
della legge n. 865 del 1971, risultante dal Piano Regolatore
Generale, la quale evidenzierebbe come l’abitato sia
largamente sviluppato intorno all’edificio (doc. 5 del
Comune);
- dalla fotografia tratta da Google Maps datata settembre
2010, che permetterebbe di riscontrare l’edificazione in
epoca risalente dei fabbricati circostanti (doc. 14 del
Comune).
I suddetti elementi, come anticipato, non risultano tuttavia
essere stati fatti oggetto dell’istruttoria procedimentale
e, comunque, non sono idonei a dimostrare la precisa
circostanza che, nel 1963, l’area su cui sorge il fabbricato
facesse parte del centro abitato.
11.3 Sotto altro profilo, non è dirimente, al fine di
sorreggere la legittimità dell’ordinanza di demolizione, la
circostanza che l’area entro la quale ricade l’immobile sia
soggetta a vincolo paesaggistico.
Secondo l’Amministrazione, da questo dato dovrebbe
discendere la necessarietà del provvedimento adottato,
essendo stata disattesa l’autorizzazione rilasciata dalla
Soprintendenza in relazione al progetto del 1962.
Al riguardo, deve tuttavia osservarsi che dalle motivazioni
dell’ordinanza emerge che il profilo di difformità
riscontrato rispetto all’autorizzazione paesaggistica
attiene solo al numero e alle dimensioni delle finestre,
ossia a profili che di per sé avrebbero potuto giustificare
unicamente un provvedimento diretto a disporre la
regolarizzazione delle aperture, ma non anche il ripristino
della destinazione del sottotetto a ripostiglio. E ciò in
quanto il mero utilizzo del locale sottotetto per finalità
abitative, e la realizzazione di opere interne atte a
realizzare la predetta destinazione, non incidono, di per se
stessi, sull’aspetto esteriore dell’edificio, e sono quindi
irrilevanti, come tali, dal punto di vista paesaggistico.
12. In definitiva, il provvedimento impugnato risulta
affetto dai dedotti vizi di difetto di istruttoria e di
motivazione, sotto i profili illustrati.
Il ricorso va quindi accolto, con assorbimento delle
rimanenti censure, e va disposto, per l’effetto,
l’annullamento del provvedimento impugnato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.06.2017 n. 1354 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della legittimità di un provvedimento non
è necessario che la motivazione contenga un’analitica
confutazione delle osservazioni e controdeduzioni svolte
dalla parte, essendo invece sufficiente che dalla
motivazione si evinca che l’amministrazione abbia
effettivamente tenuto conto nel loro complesso di quelle
osservazioni e controdeduzioni per la corretta formazione
della propria volontà o del proprio giudizio.
Ciò che si richiede, ai fini della giustificazione del
provvedimento, è quindi una motivazione complessivamente e
logicamente resa a sostegno dell’atto stesso, ossia una
esternazione motivazionale che renda, nella sostanza,
percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione
amministrativa alle deduzioni partecipative.
---------------
9. Il ricorso è infondato.
10. Non può, anzitutto, trovare accoglimento il primo
motivo, con il quale la ricorrente allega la violazione
delle garanzie di partecipazione procedimentale, a causa
dell’omessa valutazione delle osservazioni presentate dopo
la ricezione della comunicazione di avvio del procedimento.
10.1 Al riguardo, deve richiamarsi l’unanime orientamento
giurisprudenziale secondo il quale “ai fini della
legittimità di un provvedimento non è necessario che la
motivazione contenga un’analitica confutazione delle
osservazioni e controdeduzioni svolte dalla parte, essendo
invece sufficiente che dalla motivazione si evinca che
l’amministrazione abbia effettivamente tenuto conto nel loro
complesso di quelle osservazioni e controdeduzioni per la
corretta formazione della propria volontà o del proprio
giudizio” (così Cons. Stato, Sez. V, 02.10.2014, n.
4928). Ciò che si richiede, ai fini della giustificazione
del provvedimento, è quindi una motivazione complessivamente
e logicamente resa a sostegno dell’atto stesso, ossia una
esternazione motivazionale che renda, nella sostanza,
percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione
amministrativa alle deduzioni partecipative (Cons. Stato,
Sez. V, 13.02.2017, n. 603, che conferma TAR Lazio, Sez. II
Ter, 07.10.2015, n. 11504).
10.2 Nel caso oggetto del presente giudizio, il
provvedimento impugnato ha bensì evidenziato che la parte
interessata avesse presentato “deduzione e documenti”,
ma li ha ritenuti “non rilevanti ai fini del presente
procedimento”.
Tale affermazione deve ritenersi sufficiente, posto che le
ragioni per le quali l’Amministrazione non ha accolto quanto
prospettato dall’interessata sono evincibili dalle ampie
motivazioni del provvedimento amministrativo, che si
contrappongono agli argomenti sostenuti nelle osservazioni
della parte, in questo senso risultati non idonei a
sorreggere un diverso esito del procedimento.
10.3 E invero, la parte aveva sostenuto, anzitutto, che dal
tenore della comunicazione di avvio del procedimento, ove si
afferma che il permesso di costruire n. 45 del 2012 era
stato rilasciato “per tali opere”, dovesse ricavarsi
che, secondo lo stesso Comune, l’intervento accertato in
occasione del sopralluogo fosse conforme al predetto titolo
edilizio.
Tale osservazione è stata implicitamente confutata
dall’Amministrazione, la quale –chiarendo l’affermazione
contenuta nella comunicazione di avvio del procedimento cui
si era riferita la società– ha evidenziato che le opere non
corrispondessero affatto a quelle oggetto del precedente
permesso di costruire (che infatti aveva ad oggetto un
intervento del tutto diverso, consistenti soltanto in una
recinzione). In questo senso le opere sono state dichiarate
“difformi” dal precedente titolo edilizio.
Una volta rilevata la mancanza di corrispondenza
dell’intervento rispetto all’oggetto del permesso di
costruire (circostanza, peraltro, obiettivamente
riscontrabile), era irrilevante che il Comune confutasse gli
argomenti spesi dalla parte per sostenere che il titolo
edilizio non fosse decaduto.
Infine, la ricostruzione del Comune in ordine alla
disciplina urbanistica applicabile all’area costituisce
un’implicita confutazione della diversa prospettazione
operata, sul punto, dalla società con la presentazione delle
osservazioni.
10.4 Il motivo va, perciò, rigettato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.06.2017 n. 1351 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione di opere edilizie abusive
non richiede la previa comunicazione di avvio del
procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente
vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti
apporti partecipativi del destinatario, al quale va
garantita soltanto la possibilità di partecipare a quelle
attività di rilevamento fattuale che preludono alla
valutazione circa l’adozione del provvedimento repressivo.
---------------
11. E’ pure infondato il secondo motivo, con il quale
la parte lamenta la mancanza di corrispondenza, quanto
all’individuazione dell’illecito edilizio, tra la
comunicazione di avvio del procedimento e l’ordinanza di
rimessione in pristino, oltre che la genericità di
quest’ultima nell’indicare le opere come meramente difformi
dal permesso di costruire.
11.1 La ricorrente insiste, anzitutto, sulla circostanza che
–a suo avviso– dalla comunicazione di avvio del procedimento
si evincerebbe che le opere fossero state ritenute conformi
al permesso di costruire, per cui la loro abusività veniva
fatta dipendere soltanto dalla ritenuta decadenza dello
stesso titolo edilizio. Nel provvedimento conclusivo,
invece, si afferma la difformità delle opere dal permesso di
costruire, benché decaduto.
Secondo la parte, la differente impostazione dell’ordinanza
di demolizione rispetto alla comunicazione di avvio del
procedimento avrebbe, perciò, frustrato le garanzie di
partecipazione procedimentale.
11.2 La prospettazione della parte non può essere condivisa.
Al riguardo, va anzitutto evidenziato che, secondo il
prevalente indirizzo giurisprudenziale, l’ordine di
demolizione di opere edilizie abusive non richiede neppure
la previa comunicazione di avvio del procedimento,
trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con
riferimento al quale non sono richiesti apporti
partecipativi del destinatario, al quale va garantita
soltanto la possibilità di partecipare a quelle attività di
rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa
l’adozione del provvedimento repressivo (Cons. Stato, Sez.
V, 07.06.2015, n. 3051). E, nel caso oggetto del presente
giudizio, il rilevamento dello stato dei luoghi non è
oggetto di contestazione.
11.3 Peraltro, l’Amministrazione ha effettivamente inviato
all’interessata la comunicazione dell’avvio di un
procedimento sanzionatorio degli abusi edilizi, evidenziando
–secondo quanto sopra riportato– che le opere fossero state
realizzate in assenza di titolo abilitativo. La ricorrente è
stata così messa pienamente in grado di partecipare al
procedimento, presentando le proprie osservazioni, al fine
di dimostrare il carattere non illecito delle opere.
La circostanza, poi, che il tenore del provvedimento finale
non corrisponda esattamente, per qualche profilo, alla
comunicazione di avvio del procedimento non potrebbe in ogni
caso costituire, di per sé, una lesione delle prerogative di
partecipazione procedimentale dell’interessato. E ciò in
quanto l’Amministrazione –nei procedimenti a iniziativa
d’ufficio– è tenuta soltanto a rendere noto l’avvio
dell’iter, ma non anche a comunicare lo schema finale del
provvedimento che intende adottare. Tanto più quando avviene
che, come nel caso di specie, il diverso tenore del
provvedimento conclusivo dipenda proprio dalla necessità di
chiarire profili (la corrispondenza o meno delle opere
rispetto al precedente permesso di costruire) posti
all’attenzione dell’Amministrazione dall’apporto
partecipativo dell’interessato.
11.4 La parte lamentata poi la genericità dell’ordinanza di
demolizione, nella parte in cui accerta la difformità delle
opere rispetto al titolo, senza precisare se si tratti di
difformità totale o parziale, e senza considerare che,
secondo la tesi della parte, dovrebbe trovare applicazione
analogica, pur in assenza della realizzazione di volumi
edilizi, l’articolo 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, che
imporrebbe di considerare irrilevante tale difformità.
La censura non può essere accolta.
Con l’uso del termine “difformità” l’amministrazione
ha inteso affermare che le opere non fossero sorrette dal
precedente permesso di costruire. Come detto, infatti, il
titolo edilizio rilasciato nel 2012 si riferiva a una
recinzione, mentre le opere sanzionate dal provvedimento
impugnato consistono in una asfaltatura diretta ad allargare
l’accesso carrabile e nella realizzazione di uno spazio
adibito a parcheggio.
Ciò posto, deve tenersi presente che l’assenza di titolo e
la totale difformità rispetto a questo sono del tutto
assimilate quanto al trattamento sanzionatorio, per cui non
è giuridicamente rilevante stabilire se si versi nell’una o
nell’altra ipotesi. Conseguentemente, è pure irrilevante una
eventuale improprietà terminologica del provvedimento su
questo punto. E’, invece, radicalmente escluso che il tenore
dell’ordinanza impugnata potesse ingenerare alcun dubbio
circa la possibilità di ricondurre le opere alla fattispecie
della mera difformità parziale dal permesso di costruire,
tenuto conto degli atti del procedimento e della circostanza
che sin dal verbale di sopralluogo era stata rilevato che le
opere non fossero sorrette da alcun titolo. Nessuno spazio
poteva trovare, quindi, l’applicazione analogica
dell’articolo 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, ipotizzata
dalla ricorrente, al fine di pervenire alla qualificazione
delle “difformità” come irrilevanti.
11.5 Il motivo va, quindi, rigettato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.06.2017 n. 1351 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La possibilità di procedere ad interventi
ricadenti nell’ambito della c.d. ‘attività edilizia libera’
non opera in modo incondizionato, ma resta pur sempre
subordinata (in base al comma 1 dell’articolo 6 del d.P.R.
380, cit.) al rispetto “[delle] prescrizioni degli strumenti
urbanistici comunali, e comunque [al] rispetto delle altre
normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell’attività edilizia (…)”.
La conformità urbanistica costituisce dunque un presupposto
per l’esecuzione degli interventi di attività edilizia
libera, e non una conseguenza della mera astratta
riconducibilità dell’opera, in base alle sue caratteristiche
tipologiche, nell’elencazione contenuta all’articolo 6 del
d.P.R. n. 380 del 2001.
---------------
12. Con il terzo motivo, infine, la ricorrente
sostiene –in estrema sintesi– la conformità urbanistica
delle opere.
La prospettazione della parte, tuttavia, non convince.
12.1 Sotto un primo profilo, la società allega che le opere
consisterebbero nella mera pavimentazione dell’area e
sarebbero, quindi, riconducibili nell’ambito dell’attività
edilizia libera, ai sensi dell’articolo 6 del d.P.R. n. 380
del 2001. Secondo la parte, dall’applicazione di
quest’ultima disposizione deriverebbe la possibilità di
realizzare tali opere in qualunque porzione del territorio
comunale, a prescindere dalla destinazione urbanistica.
Conseguentemente, il Comune non avrebbe dovuto ordinare la
rimessione in pristino, ma soltanto comminare la sanzione
pecuniaria, per l’omessa comunicazione dell’intervento,
secondo quanto prescritto dalla disciplina vigente al tempo
della realizzazione dell’intervento.
Rileva il Collegio che –come ben evidenziato dalla difesa
comunale– la medesima questione attinente
all’interpretazione dell’articolo 6, sopra richiamato, è già
stata affrontata in una pronuncia del Consiglio di Stato,
peraltro relativa a un caso del tutto analogo a quello
oggetto del presente giudizio. Si trattava infatti parimenti
di opere di pavimentazione realizzate nel territorio del
medesimo Comune di Seregno, in area destinata a standard
d’uso pubblico (in quel caso “S/SA – massa boscata”).
E in quel precedente si è ritenuto –affermando un principio
che il Collegio condivide e fa proprio– che “la
possibilità di procedere ad interventi ricadenti nell’ambito
della c.d. ‘attività edilizia libera’ non opera in modo
incondizionato, ma resta pur sempre subordinata (in base al
comma 1 dell’articolo 6 del d.P.R. 380, cit.) al rispetto
“[delle] prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali,
e comunque [al] rispetto delle altre normative di settore
aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia (…)”
(Cons. Stato, Sez. VI, 27.07.2015, n. 3667).
La conformità urbanistica costituisce dunque un presupposto
per l’esecuzione degli interventi di attività edilizia
libera, e non una conseguenza della mera astratta
riconducibilità dell’opera, in base alle sue caratteristiche
tipologiche, nell’elencazione contenuta all’articolo 6 del
d.P.R. n. 380 del 2001
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.06.2017 n. 1351 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Risarcimento danni per revoca di aggiudicazione conseguente
a informativa antimafia poi annullata giudizialmente se
prima della revoca dell'aggiudicazione è intervenuta la
cessione di ramo di azienda.
----------------
Risarcimento danni – Contratti della Pubblica
amministrazione – Aggiudicazione – Revoca Conseguente ad
informativa antimafia – Annullamento in sede giurisdizionale
– Istanza risarcitoria - Intervenuta cessione d’azienda -
Difetto di legittimazione della società cedente.
E’ inammissibile per difetto di
legittimazione attiva, la domanda di risarcimento dei danni
subiti per effetto dell'informativa antimafia e della
conseguente revoca dell'aggiudicazione dell'appalto di
lavori, successivamente annullati in sede giurisdizionale,
ove –prima della revoca dell’aggiudicazione– sia intervenuta
cessione del ramo d’azienda.
----------------
(1)
Ha chiarito il Tar che la cessione dell’azienda, infatti,
comporta (ai sensi dell’art. 2558, comma 1, cod. civ.) il
trasferimento al cessionario dei rapporti contrattuali
relativi all’azienda e, soprattutto, di ogni credito verso
terzi relativo all’azienda stessa, per effetto di quanto
previsto dall’art. 2559, comma 1, cod. civ., secondo cui “La
cessione dei crediti relativi all'azienda ceduta, anche in
mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione, ha
effetto, nei confronti dei terzi, dal momento
dell'iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese”.
Regime giuridico che opera senz’altro anche in relazione ai
crediti da fatto illecito, come chiarito dalla Corte di
cassazione (sez. III, 31.07.2012, n. 13692) secondo cui “Tra
i crediti che, nel caso di cessione d'azienda, si
trasferiscono automaticamente al cessionario rientrano anche
quelli derivanti da fatti illeciti commessi in danno
dell'impresa cedente, a nulla rilevando che gli stessi
consistano nella lesione di interessi legittimi pretensivi
od oppositivi per condotta illegittima della p.a.” (TAR
Sardegna,
sentenza 14.06.2017 n. 403
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
rilevanza penale, o meno, dell'omessa esposizione del cd.
cartello di cantiere.
La violazione dell'obbligo di esporre il
cartello indicante gli estremi del titolo abilitativo,
qualora prescritto dal regolamento edilizio o dal titolo
medesimo, è tuttora punita dall'art. 44, lett. a) del d.P.R.
06.06.2011, n. 380, se commessa dal titolare del permesso
a costruire, dal committente, dal costruttore
o dal direttore dei lavori.
Ciò in quanto sussiste continuità normativa tra l'art. 4,
comma 4, dell'abrogata legge 28.02.1985, n. 47, e la nuova
fattispecie contemplata dall'art. 27, comma 4, del citato
d.P.R. 380 del 2011.
Tant'è che integra il reato anche l'esposizione, in maniera
non visibile, del cartello indicante il titolo abilitativo e
i nominativi dei responsabili, ancorché esso risulti
presente all'interno del cantiere.
---------------
1. Il ricorso è fondato.
2. Lo stesso provvedimento impugnato ha dato atto del
contrario insegnamento di legittimità in merito alla
rilevanza penale dell'omessa esposizione del cd. cartello di
cantiere, qualora detta prescrizione sia prevista dal
provvedimento sindacale (come si evince in specie dal
richiamo, contenuto nel capo d'imputazione, alla
prescrizione contenuta nel permesso di costruire n. 4 del
2011).
In proposito, infatti, la violazione dell'obbligo di esporre
il cartello indicante gli estremi del titolo abilitativo,
qualora prescritto dal regolamento edilizio o dal titolo
medesimo, è tuttora punita dall'art. 44, lett. a) del d.P.R.
06.06.2011, n. 380, se commessa dal titolare del permesso
a costruire, dal committente, dal costruttore
o dal direttore dei lavori (Sez. 3, n. 29730 del
04/06/2013, Stroppini, Rv. 255836; anche più recentemente,
ad es. Sez. 3, n. 13963 del 29/01/2016, Carotenuto ed altri;
Sez. 3, n. 10713 del 16/01/2015, Zanussi ed altri).
Ciò in quanto sussiste continuità normativa tra l'art. 4,
comma 4, dell'abrogata legge 28.02.1985, n. 47, e la nuova
fattispecie contemplata dall'art. 27, comma 4, del citato
d.P.R. 380 del 2011 (Sez. 3, n. 46832 del 15/10/2009, Thabet
e altro, Rv. 245613; quanto alla previsione normativa
iniziale, Sez. U, n. 7978 del 29/05/1992, Aramini e altro,
Rv. 191176).
Tant'è che integra il reato anche l'esposizione, in maniera
non visibile, del cartello indicante il titolo abilitativo e
i nominativi dei responsabili, ancorché esso risulti
presente all'interno del cantiere (Sez. 3, n. 40118 del
22/05/2012, Zago e altri, Rv. 253673).
2.1. In particolare, quanto al contestato rilievo penale (v.
provvedimento impugnato, pag. 2) delle sole norme violatrici
delle prescrizioni concernenti la trasformazione urbanistica
ed edilizia del territorio, a suo tempo fu posto l'accento,
nel contesto normativo in allora rappresentato dalla legge
n. 47 del 1985, sull'art. 4 della stessa.
Detta norma, intitolata "vigilanza sull'attività
urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne
la rispondenza alle norme di legge e di regolamento alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità
esecutive fissate nella concessione o nell'autorizzazione",
prevedeva, all'ultimo comma, che gli ufficiali ed agenti di
polizia giudiziaria dessero immediata comunicazione
all'autorità giudiziaria, al presidente della giunta
regionale ed al sindaco ove nei luoghi di realizzazione
delle opere non fosse esibita la concessione ovvero non
fosse stato apposto il prescritto cartello, "ovvero in
tutti gli altri casi di presunta violazione
urbanistico-edilizia".
In tal modo testualmente consentendo di desumere, in
particolare, come anche la sola violazione dell'obbligo di
apposizione del cartello fosse appunto considerata dal
legislatore come ipotesi di presunta violazione
urbanistico-edilizia e, come tale, di particolare rilevanza
ai suindicati fini.
A riprova era stato altresì notato come la sistemazione del
prescritto cartello, contenente gli estremi della
concessione edilizia e degli autori dell'attività
costruttiva presso il cantiere, consentisse una vigilanza
rapida, precisa ed efficiente dell'attività, rispondendo
allo scopo di permettere ad ogni cittadino di verificare se
i lavori fossero o meno stati autorizzati dall'autorità
competente. Di qui, dunque, la riconducibilità della
condotta omissiva in questione all'interno dell'allora
precetto dell'art. 20, lett. a), della legge 47 del 1985, in
relazione alla inosservanza delle norme di cui alla stessa
legge.
Né tali conclusioni potevano mutare ove si abbia riguardo
alla sopravvenuta normativa rappresentata dal d.P.R. n. 380
del 2001, posto che l'art. 27, comma 4, del d.P.R. stesso)
ha riprodotto la previsione del previgente art. 4 cit.
relativa alla immediata comunicazione agli enti competenti
da parte degli ufficiali ed agenti di p.g. della mancata
apposizione del cartello così come di "tutti gli altri
casi di presunta violazione urbanistico-edilizia",
restando quindi confermata l'appartenenza della violazione
in questione alla attività edilizio-urbanistica e, dunque,
la sanzionabilità della stessa all'interno delle ipotesi di
cui all'art. 44, lett. a), del d.P.R. cit., così acquistando
rilievo determinante la previsione di essa all'interno dei
regolamenti edilizi o della concessione (cfr., in
motivazione, n. 10713 del 2015 cit.).
La sentenza impugnata, che ha disatteso siffatto consolidato
insegnamento in ordine alla riconducibilità dell'apposizione
del cartello al campo delle violazioni in materia
urbanistica ed edilizia, va pertanto annullata, con rinvio
per nuovo giudizio -a norma dell'art. 623, lett. d), cod.
proc. pen.- al competente Tribunale di Asti
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.06.2017 n. 29213). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sulla
responsabilità dell’inquinamento riguardante l’area “ex
polveriera Montedison”.
---------------
Inquinamento –
Rifiuti – Rimozione e ripristino stato dei luoghi – Soggetto
obbligato – Individuazione – Criterio.
La fonte dell'obbligo di procedere
alla messa in sicurezza e all'eventuale bonifica del sito
inquinato si identifica nella responsabilità dell'autore
dell'inquinamento, che quindi va puntualmente e precisamente
individuato da parte dell’Autorità amministrativa, sulla
base di un rigoroso accertamento anche in caso di vicende
societarie complesse (1).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar che la Direttiva 2004/35/CE all’art. 2
definisce come “operatore”, cui si connette la
responsabilità per danno ambientale (cfr. 2° e 18°
Considerando) “qualsiasi persona fisica o giuridica, sia
essa pubblica o privata, che esercita o controlla
un'attività professionale”.
Pur volendo far riferimento –in via teorica ed astratta– ad
una nozione ampia di operatore economico (rilevante ai fini
dell’internalizzazione dei costi ambientali), nel caso
all’esame del Tribunale sono del tutto assenti un’analisi e
un accertamento in concreto del ruolo effettivamente svolto
dalla ricorrente con specifico riferimento al ramo
industriale interessato e ritenuto ‘responsabile’
della condotta inquinante (Tar Lazio, sez. II-bis,
21.03.2016, n. 3441), tenuto conto della complessa
articolazione, anche nel tempo, del Gruppo Montedison.
Ha aggiunto il Tar che l'inquadramento della contaminazione
come situazione permanente non esime dall’individuazione del
soggetto responsabile, rilevando quel concetto ai fini
dell'applicazione delle procedure amministrative di bonifica
più recentemente introdotte nel nostro ordinamento anche a
contaminazioni storiche, con conseguente applicazione dei
relativi limiti tabellari o di rischio e delle relative fasi
procedurali.
Il Tar ha infine ricordato che nell'ipotesi di mancata
individuazione del responsabile, o di mancata esecuzione
degli interventi in esame da parte sua –e sempreché non
provvedano spontaneamente né il proprietario del sito, né
altri soggetti interessati–, le opere di recupero ambientale
devono essere eseguite dall'Amministrazione competente (art.
250, d.lgs. 03.04.2006, n. 152), che potrà poi rivalersi sul
proprietario del sito, nei limiti del valore dell'area
bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a
buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei
medesimi interventi (art. 253, d.lgs. n. 152 del 2006) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 13.06.2017 n. 1326 - commento tratto da
e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
V.2) Così sinteticamente ricostruito il contenuto
essenziale del provvedimento il Collegio osserva che
l’istruttoria operata dal Comune, che si riverbera
nell’articolato motivazionale, si presenta carente e non
supportata da circostanze attuali.
L’attività istruttoria svolta dal Comune si fonda, infatti,
da un lato, su elementi antecedenti all’ordinanza n.
76/2004, oggetto di annullamento, dall’altro su circostanze
subprocedimentali successive dalle quali non trapela, in
generale, alcuna attività volta ad individuare il soggetto
responsabile dell’inquinamento e, nello specifico, alcun
accertamento conducente e conclusivo per ritenere tale la
ricorrente. Anzi, dall’attività compiuta parrebbe emergere
l’intenzione del Comune di eseguire in proprio le opere di
bonifica, per il tramite della propria società Ta. STU
s.p.a.
Va ancora evidenziato che gli ultimi atti compiuti risalgono
agli anni 2006/2007.
Da allora –per quasi dieci anni– non risulta, né dall’atto
impugnato né dalla produzione documentale versata in atti,
che il Comune abbia svolto alcuna attività di indagine
ulteriore. Neppure si dà conto della permanente esistenza in
vita della società Ta. STU spa (soggetto obbligato alla
bonifica, unitamente al Comune, secondo l’ordinanza n.
76/2004), dell’avvenuta presentazione del progetto
definitivo da parte di tale società né di ulteriori elementi
rilevanti occorsi in tale lungo lasso di tempo.
Va osservato, innanzi tutto, che non risulta che la
ricorrente sia mai stata proprietaria dell’area (ceduta al
Comune nel 2002) né, tanto meno, che abbia svolto alcun tipo
di attività sui terreni in questione.
Ciò posto, l’individuazione del soggetto responsabile è
avvenuta sulla base di una indimostrata successione della
ricorrente “a titolo universale” dal soggetto che,
fino agli anni ’70, ha svolto l’attività inquinante.
Deve rammentarsi che il Comune nel 2002 ha acquistato l’area
in questione dalla società Co.In.Im. srl,
avente causa della società In.Ed. srl, già “Se.Im.Mo. spa” (per effetto del
trasferimento della proprietà nel 1999) la quale a sua volta
ne era divenuta proprietaria per conferimento (ciò è quanto
si ricava dal contratto di compravendita tra il Comune e la
società Co. srl).
Il Comune, nei propri atti difensivi, fa riferimento –a
sostegno dell’assunto circa la successione di Ed. spa– ad
una visura camerale relativa a Mo. srl da cui
risultano, a partire dal 1999, i trasferimenti d’azienda, le
fusioni, le scissioni e i subentri coinvolgenti le seguenti
società: Ge.Ge.Im. srl, Im.Gr. srl, Società Im.As. spa, Ac. srl,
Ce. srl, ICI Im.Co.In. srl, Ed.Tr.Se. srl, e, infine, con atto di fusione per
incorporazione nell’aprile 2012, Ed.spa.
A fronte di tale complessità dei rapporti societari, sopra
sinteticamente evidenziati (con indicazioni peraltro
difformi tra quanto riportato nel provvedimento impugnato e
quanto risulta dal documento prodotto in giudizio), che
prendono l’avvio da una precisa società del più articolato “Gruppo
Mo.”, l’individuazione di Ed. spa quale
successore “a titolo universale”, che sarebbe,
secondo l’atto impugnato, “soggetto giuridico succeduto a
Mo. spa, Co.In.Im. srl e Mo.
srl”, appare affermazione indimostrata, priva di alcuna
evidenza documentale, né in sede procedimentale né in sede
processuale.
Invero né è stata dimostrata –in modo rigoroso– l’effettiva
qualificazione di avente causa della ricorrente dal soggetto
responsabile dell’inquinamento (e quindi di successore a
titolo universale), essendosi il Comune limitato ad una
sommaria descrizione delle presunte successioni societarie
di un gruppo che, in realtà, nel corso di oltre un
cinquantennio, risulta essere stato oggetto di modificazioni
complesse e articolate, composto da molteplici società
svolgenti attività tra loro differenti. Né è stata
dimostrata la responsabilità dell’inquinamento dell’area in
questione da parte del ritenuto avente causa della
ricorrente, considerato che, come già rilevato,
l’individuazione nella società Co. srl del soggetto
responsabile, effettuata con l’ordinanza n. 76/2004 (fondata
sul titolo contrattuale), è stata ritenuta da questo
Tribunale non corretta e non risulta che, in sede di nuovo
procedimento, siano stati effettuati accertamenti ai fini
dell’individuazione di una responsabilità ad altro titolo
della predetta società, asserita dante causa della
ricorrente.
La Direttiva 2004/35/CE all’art. 2 definisce come “operatore”,
cui si connette la responsabilità per danno ambientale (cfr.
2° e 18° Considerando) “qualsiasi persona fisica o
giuridica, sia essa pubblica o privata, che esercita o
controlla un'attività professionale”.
Pur volendo far riferimento –in via teorica ed astratta– ad
una nozione ampia di operatore economico (rilevante ai fini
dell’internalizzazione dei costi ambientali),
nel caso di
specie sono del tutto assenti un’analisi e un accertamento
in concreto del ruolo effettivamente svolto dalla ricorrente
con specifico riferimento al ramo industriale interessato e
ritenuto ‘responsabile’ della condotta inquinante
(cfr. in termini Tar Lazio–Roma sez. II-bis 21.03.2016, n.
3441), tenuto conto della complessa articolazione, anche nel
tempo, del Gruppo Mo..
L'inquadramento della contaminazione come situazione
permanente, cui fa riferimento il Comune nel provvedimento
impugnato, non esime dall’individuazione del soggetto
responsabile, rilevando quel concetto ai fini
dell'applicazione delle procedure amministrative di bonifica
più recentemente introdotte nel nostro ordinamento anche a
contaminazioni storiche, con conseguente applicazione dei
relativi limiti tabellari o di rischio e delle relative fasi
procedurali.
Le norme di cui agli artt. 242 e segg. del d.lgs. n.
152/2006 vanno interpretate nel senso che l'obbligo di
adottare le misure dirette a fronteggiare la situazione di
inquinamento incombe su colui che di tale situazione sia
responsabile per avervi dato causa (cfr. Corte di Giustizia
sentenza 04.03.2015, n. C-534/15, Fipa Group).
La fonte dell'obbligo di procedere alla messa in sicurezza e
all'eventuale bonifica del sito inquinato si identifica,
cioè, nella responsabilità dell'autore dell'inquinamento,
che quindi va puntualmente e precisamente individuato da
parte dell’Autorità amministrativa, sulla base di un
rigoroso accertamento (Tar Milano sez. IV 13.10.2016, n.
1860; Consiglio di Stato, sez. V, 14.04.2016, n. 1509).
Nell'ipotesi di mancata individuazione del responsabile, o
di mancata esecuzione degli interventi in esame da parte sua
–e sempreché non provvedano spontaneamente né il
proprietario del sito, né altri soggetti interessati–, le
opere di recupero ambientale devono essere eseguite
dall'Amministrazione competente (art. 250), che potrà poi
rivalersi sul proprietario del sito, nei limiti del valore
dell'area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non
vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto
dei medesimi interventi (art. 253) (cfr. Cons. Stato sez. V
09.07.2015 n. 3449; Ad. Plen. n. 21/2013).
Tale disciplina rende priva di rilevanza la questione posta
dalla ricorrente circa la permanenza dell’efficacia
dell’ordinanza n. 76/2004 nella parte in cui il Comune
imponeva a sé stesso gli obblighi di bonifica. A questi
l’Amministrazione è tenuta comunque, nell’ipotesi sopra
indicata, in forza di legge.
Sotto altro profilo, ma concorrente ai fini della fondatezza
del lamentato vizio di carenza istruttoria, va rilevato che
l’affermazione contenuta nel provvedimento impugnato circa “l’accertata
contaminazione del sito” si fonda, tenuto conto della
documentazione offerta, sulla relazione di ARPA di cui si è
preso atto nella conferenza di servizi del 16.04.2006 che,
tuttavia, ha evidenziato che “i valori analitici
riscontrati nei campioni prelevati in contraddittorio
corrispondono a quelli rilevati dal laboratorio di parte e
non si riscontrano superamenti ai valori limite stabiliti
dal DM 471/1999 per i siti ad uso verde pubblico, privato e
residenziale”.
Nel corso del lungo periodo intercorso tra quegli
accertamenti e il provvedimento impugnato non risulta che
siano stati compiuti ulteriori analisi, anche alla luce
della normativa sopravvenuta.
Per le ragioni che precedono il ricorso per motivi aggiunti,
in relazione ai profili esaminati e assorbite le ulteriori
censure, merita accoglimento e per l’effetto va disposto
l’annullamento dell’ordinanza del 30.03.2016. |
EDILIZIA PRIVATA: Le
caratteristiche proprie della copertura di cui si tratta
costituiscono una conferma che quest’ultima ha le funzioni e
la destinazione propria di una vera e propria terrazza,
funzioni queste ultime del tutto differenti da quelle che
contraddistinguono un lastrico solare, destinato
com’è a costituire esclusivamente un tetto, privo
un’utilizzazione da parte dei dimoranti nell’immobile.
---------------
In presenza di un utilizzo protratto della copertura come
terrazzo, l’avvenuta realizzazione di una ringhiera
protettiva costituisce un intervento per il quale non è
richiesto il preventivo rilascio del permesso di costruire.
Infatti, tali opere seppure finalizzate a consentire
l'utilizzo del solaio di copertura di un immobile non
determinano una significativa trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio, ma si configurano piuttosto come
mere pertinenze, essendo preordinate ad un'oggettiva
esigenza dell'edificio principale, funzionalmente inserite
al servizio dello stesso, sfornite di un autonomo valore di
mercato e caratterizzate da un volume minimo, tale da non
consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a
servizio dell'immobile al quale accedono e, comunque, tale
da non comportare un aumento del carico urbanistico.
---------------
2.2 Altrettanto legittima è la realizzazione del terrazzo.
2.3 Sul punto è necessario premettere che i coniugi Ni.
hanno ottenuto la sanatoria, con provvedimento del nr.
75/88, di un bagno con ripostiglio in ampliamento sulla
corte posta sul retro dell’edificio di loro proprietà.
2.4 Parte ricorrente afferma di aver collocato delle
ringhiere sul lastrico solare riferito ai manufatti oggetto
di sanatoria e, ciò, in considerazione del fatto che lo
stesso lastrico solare sarebbe stato da sempre utilizzato
come terrazzo, pertinente all’abitazione.
2.5 Le affermazioni dei ricorrenti risultano confermate dai
documenti allegati al ricorso, nell’ambito dei quali è
possibile evincere che la copertura sovrastante gli ambienti
condonati si trova a livello delle porte finestre di un
locale adibito a “sala”, esplicando così le funzioni
tipiche di una terrazza o di un balcone prospiciente le
aperture della stessa unità abitativa.
Detta circostanza, desumibile dalla documentazione
fotografica, unitamente alle caratteristiche proprie della
copertura di cui si tratta, costituisce una conferma che
quest’ultima ha le funzioni e la destinazione propria di una
vera e propria terrazza, funzioni queste ultime del tutto
differenti da quelle che contraddistinguono un lastrico
solare, destinato com’è a costituire esclusivamente un
tetto, privo un’utilizzazione da parte dei dimoranti
nell’immobile (sulla diversità di funzioni tra lastrico e
terrazza si veda anche TAR Sicilia Catania Sez. I,
10/11/2008, n. 2068).
2.6 In presenza di un utilizzo protratto della copertura
come terrazzo, non assume carattere dirimente nemmeno
l’avvenuta installazione delle ringhiere da parte dei
ricorrenti e, ciò, considerando che secondo un costante
orientamento giurisprudenziale l’avvenuta realizzazione di
una ringhiera protettiva costituisce un intervento per il
quale non è richiesto il preventivo rilascio del permesso di
costruire; “infatti, tali opere seppure finalizzate a
consentire l'utilizzo del solaio di copertura di un immobile
non determinano una significativa trasformazione urbanistica
ed edilizia del territorio, ma si configurano piuttosto come
mere pertinenze, essendo preordinate ad un'oggettiva
esigenza dell'edificio principale, funzionalmente inserite
al servizio dello stesso, sfornite di un autonomo valore di
mercato e caratterizzate da un volume minimo, tale da non
consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a
servizio dell'immobile al quale accedono e, comunque, tale
da non comportare un aumento del carico urbanistico (TAR
Campania Salerno Sez. II, 27.06.2014, n. 1139)”.
Le censure di cui al secondo e al terzo motivo sono,
pertanto, fondate
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 13.06.2017 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordine di demolizione ha un carattere dovuto,
dovendo essere disposto indipendente dal periodo di tempo
intercorso dalla commissione dell’abuso, non sussistendo
alcun legittimo affidamento in capo al responsabile
dell’abuso.
Non sussiste, infatti, alcuna necessità di motivare in modo
particolare un provvedimento con il quale sia stata ordinata
la demolizione di un manufatto abusivo, quando sia trascorso
un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione
dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di
demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo
qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di
un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività
del costruttore contra legem. Non può ammettersi, pertanto,
un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di
una situazione di fatto abusiva.
---------------
2.7 Vanno respinte, al contrario, le ulteriori censure
proposte.
2.8 E’ infondato, in particolare, il primo motivo con il
quale si sostiene l’esistenza di un eccesso di potere per
carenza di motivazione, in quanto la demolizione sarebbe
stata disposta dopo venti anni dalla realizzazione delle
opere di cui si tratta.
2.9 Costituisce orientamento maggioritario, fatto proprio
anche da questo Tribunale, quello in base al quale l'ordine
di demolizione ha un carattere dovuto, dovendo essere
disposto indipendente dal periodo di tempo intercorso dalla
commissione dell’abuso, non sussistendo alcun legittimo
affidamento in capo al responsabile dell’abuso (Cons. Stato
Sez. VI, 23.10.2015, n. 4880).
Non sussiste, infatti, alcuna necessità di motivare in modo
particolare un provvedimento con il quale sia stata ordinata
la demolizione di un manufatto abusivo, quando sia trascorso
un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione
dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di
demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo
qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di
un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività
del costruttore contra legem. Non può ammettersi,
pertanto, un affidamento meritevole di tutela alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva (Cons.
Stato Sez. VI, 01.12.2015, n. 5426)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 13.06.2017 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La sostituzione della demolizione con la sanzione
pecuniaria, prevista dall’art. 34 del Dpr 380/2001, può
essere adottata solo in un secondo momento e, cioè, quando
il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla
demolizione ed il Comune ha accertato che la demolizione non
può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità.
---------------
3.3 Altrettanto infondato è il quarto motivo, diretto a
sostenere la legittimità dell’innalzamento del fabbricato.
3.4 Non solo i ricorrenti non hanno contestato né
l’innalzamento né la modifica della pendenza del tetto, ma
va evidenziato come dette variazioni non sono mai state
oggetto di richiesta di un provvedimento abilitativo o di
una variante alla concessione originaria, circostanza
quest’ultima che conferma il carattere abusivo degli stessi
manufatti.
3.5 Nemmeno risulta dimostrato che l’eventuale demolizione
della tettoia sarebbe di pregiudizio per la parte conforme.
3.6 Si consideri come costituisca orientamento consolidato
che la sostituzione della demolizione con la sanzione
pecuniaria, prevista dall’art. 34 del Dpr 380/2001, può
essere adottata solo in un secondo momento e, cioè, quando
il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla
demolizione ed il Comune ha accertato che la demolizione non
può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità (TAR Campania Napoli Sez. IV, 24.04.2017, n. 2217
e TAR Campania Salerno Sez. I, 02.03.2016, n. 485, TAR
Molise Campobasso Sez. I, 08.04.2016, n. 171)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 13.06.2017 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ noto che l’ordinanza di demolizione
costituisce un atto dovuto dell’Amministrazione che non
richiede la comunicazione di avvio del procedimento,
riconducibile ad esercizio di potere vincolato e che,
ancora, la mancata indicazione dell’area di sedime non
inficia la legittimità dell’ordine demolitorio, attenendo
tale aspetto al provvedimento successivo e relativo
all’esecuzione dell’ordinanza gravata.
---------------
3.7 E’ noto, altresì, che l’ordinanza di demolizione
costituisce un atto dovuto dell’Amministrazione che non
richiede la comunicazione di avvio del procedimento,
riconducibile ad esercizio di potere vincolato (Cons. Stato
Sez. VI, 15.09.2015, n. 4293) e che, ancora, la mancata
indicazione dell’area di sedime non inficia la legittimità
dell’ordine demolitorio, attenendo tale aspetto al
provvedimento successivo e relativo all’esecuzione
dell’ordinanza gravata (TAR Campania sez. IV del 06.10.2016,
n. 4574 e Cons. Stato Sez. IV, 23.01.2012, n. 282)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 13.06.2017 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Giurisdizione giudice ordinario sull'accertamento tecnico
preventivo finalizzato ad operazioni di occupazione
d'urgenza non preordinate a decreto di esproprio.
----------------
Giurisdizione – Espropriazione per pubblica utilità –
Accertamento tecnico preventivo – Finalizzato ad operazioni
di occupazione d'urgenza non preordinate a decreto di
esproprio – Controversia – giurisdizione giudice ordinario.
Rientra nella giurisdizione del
giudice ordinario la controversia avente ad oggetto il
ricorso volto all’accertamento tecnico preventivo in vista
di operazioni di occupazione d'urgenza collegate, ma non
finalizzate, ad un provvedimento di espropriazione; ed
infatti, l’accertamento tecnico preventivo, attesa la sua
valenza cautelare e conservativa, è intimamente connesso al
giudizio di merito nel quale la prova avrebbe dovuto essere
acquisita in via ordinaria, con la conseguenza che il
Giudice adito è tenuto a verificare preliminarmente se la
futura ed eventuale domanda di merito, cui accede la domanda
di accertamento tecnico preventivo, rientri o meno nella
propria giurisdizione (1).
----------------
(1) Il Tar ha richiamato
il recente arresto delle Sezioni unite della cassazione (ord.,
09.02.2011, n. 3167) secondo cui le controversie concernenti
l’occupazione temporanea di aree funzionale alla corretta
esecuzione dei lavori, disposte ai sensi dell’art. 49,
d.P.R. 08.06.2001, n. 327, non avendo ad oggetto atti o
provvedimenti in materia ablatoria e rimanendo estranee alla
materia espropriativa vera e propria, rientrano nella
giurisdizione del giudice ordinario, purché la domanda sia
limitata a far valere l’illecito protrarsi dell’occupazione
temporanea, senza lamentare vizi di legittimità di
provvedimenti amministrativi.
Nello stesso senso si è espresso il giudice amministrativo
(Tar Umbria 16.01.2014, n. 49) con riferimento ad una
controversia nella quale la parte ricorrente non si doleva
della legittimità di provvedimenti o comportamenti in
materia espropriativa, né dell’occupazione sine titulo
preordinata all’espropriazione, bensì chiedeva la condanna
dell’amministrazione al risarcimento dei danni subiti in
occasione dell’occupazione temporanea del proprio fondo,
asseritamente in carenza di potere (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 13.06.2017 n. 198
- link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
7. Ancor prima di procedere all’esame delle eccezioni
processuali sollevate dall’amministrazione resistente con la
memoria depositata in data 31.05.2017, giova rammentare che,
secondo la giurisprudenza (TAR Lazio Roma, Sez. II,
29.03.2016, n. 3846), «l’esperibilità dell’accertamento
tecnico preventivo nell’ambito del processo amministrativo
-prima riconosciuta in via giurisprudenziale nel solco di
una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni
concernenti i mezzi probatori sperimentabili nel processo
amministrativo, alla stregua dei principi del giusto
processo, del diritto di difesa e di conservazione dei
valori giuridici- trova espresso riconoscimento nell’art.
53, comma 5, del c.p.a., laddove espande espressamente l’esperibilità
dei mezzi di prova nel processo amministrativo a tutti
quelli previsti dal codice del processo civile con formula
che esclude soltanto l’interrogatorio formale ed il
giuramento. La ratio dell’accertamento tecnico preventivo,
regolato dall’art. 696 c.p.c., è quella di ovviare al
pericolo della dispersione della prova prima che la parte
interessata attivi un giudizio di merito ovvero definisca
con un accordo un procedimento contenzioso già iniziato.
Presupposto essenziale di tale strumento di acquisizione
della prova è la sussistenza di un’urgenza concreta di far
verificare, ante causam, lo stato dei luoghi, ovvero la
qualità o la condizione di una cosa, in chiara correlazione
con un’esigenza di tipo cautelare che è resa evidente
dall’incipit della norma».
8. Si deve poi evidenziare che
l’accertamento tecnico
preventivo, attesa la sua valenza cautelare e conservativa,
è intimamente connesso al giudizio di merito nel quale la
prova avrebbe dovuto essere acquisita in via ordinaria
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.10.2011, n. 5769),
con
l’ulteriore conseguenza che il Giudice adito è tenuto a
verificare preliminarmente se la futura ed eventuale domanda
di merito, cui accede la domanda di accertamento tecnico
preventivo, rientri o meno nella propria giurisdizione.
9. Passando all’eccezione di difetto di giurisdizione di
questo Tribunale, il Collegio ritiene che la stessa debba
essere accolta.
Come ha puntualizzato il Giudice regolatore
della giurisdizione (Cass. civ., Sez. Un., ord. 09.02.2011,
n. 3167),
le controversie come quella per cui è causa,
concernenti l’occupazione temporanea di aree funzionale alla
corretta esecuzione dei lavori, disposte ai sensi dell’art.
49 del D.P.R. n. 327/2001, non avendo ad oggetto atti o
provvedimenti in materia ablatoria e rimanendo estranee alla
materia espropriativa vera e propria, rientrano nella
giurisdizione del giudice ordinario, purché la domanda sia
limitata a far valere l’illecito protrarsi dell’occupazione
temporanea, senza lamentare vizi di legittimità di
provvedimenti amministrativi.
Nello stesso senso si è espresso il giudice amministrativo
(TAR Umbria Perugia, Sez. I, 16.01.2014, n. 49) con
riferimento ad una controversia nella quale la parte
ricorrente non si doleva della legittimità di provvedimenti
o comportamenti in materia espropriativa, né
dell’occupazione sine titulo preordinata
all’espropriazione, bensì chiedeva la condanna
dell’amministrazione al risarcimento dei danni subiti in
occasione dell’ occupazione temporanea del proprio fondo,
asseritamente in carenza di potere.
Ciò posto, con riferimento alla fattispecie in esame è
sufficiente evidenziare che:
A) l’occupazione di cui trattasi -che avrebbe cagionato i danni
lamentati, per il suo protrarsi oltre il termine previsto- è
stata disposta con la determinazione dirigenziale n. 862 del
28.10.2008 ai sensi dell’art. 28 della legge provinciale n.
6/1993 (disposizione questa che, come quella dell’art. 49
del D.P.R. n. 327/2001, risponde alla sola finalità di
disciplinare l’occupazione temporanea dell’area
interessata);
B) la società ricorrente non lamenta alcun vizio della predetta
determinazione dirigenziale n. 862 del 28.10.2008, né della
successiva determinazione dirigenziale n. 706 del
23.11.2016, limitandosi a richiedere il risarcimento dei
danni derivanti dalla pretesa occupazione abusiva dell’area
successivamente al 31.05.2009 e dall’allagamento dell’area
di sua proprietà, con conseguente richiesta di ripristino
dello stato dei luoghi. |
APPALTI: •
Sulla sinteticità degli atti nel giudizio
amministrativo e sulla natura sanzionatoria della condanna
alle spese di cui all'art. 26, c. 2 c.p.a..
•
Sul criterio della c.d. doppia riparametrazione
per le gare da aggiudicare con il criterio dell'offerta più
vantaggiosa.
•
In tema di chiarezza e sinteticità degli atti amministrativi
di cui all'art. 3, c. 2, c.p.a. il limite dimensionale degli
atti giudiziari può essere superato ottenendo
l'autorizzazione preventiva ex art. 6 del decreto del
Segretariato generale della giustizia amministrativa del
22.12.2016, recante "Disciplina dei criteri di redazione
e dei limiti dimensionali dei ricorsi e degli altri atti
difensivi nel processo amministrativo".
In assenza di tale autorizzazione, la parte dell'atto
eccedente i limiti non è esaminabile.
Inoltre, l'art. 26, c. 2, c.p.a. dispone che "Il giudice
condanna d'ufficio la parte soccombente al pagamento di una
sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non
superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per
il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte
soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio.
Al gettito delle sanzioni previste dal presente comma si
applica l'articolo 15 delle norme di attuazione".
Tale norma si lega a quanto sancito dall'art. 26, c. 1,
c.p.a., secondo cui "Quando emette una decisione, il
giudice provvede anche sulle spese del giudizio, secondo gli
artt. 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del c.p.c., tenendo anche
conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità
di cui all'art. 3, c. 2".
E' pacifica la natura sanzionatoria della misura pecuniaria
in esame, che tipizza uno dei casi di temerarietà del
giudizio e che prescinde da una specifica domanda nonché
dalla prova del danno subito, ed il cui gettito, commisurato
a predeterminati limiti edittali, è destinato al bilancio
della giustizia amministrativa, atteso che lo scopo della
norma è quello di tutelare la rarità della risorsa
giudiziaria, un bene non suscettibile di usi sovralimentati
o distorti, soprattutto a presidio dei casi in cui il suo
uso è davvero necessario
•
Nel sistema degli appalti pubblici nessuna norma di
carattere generale impone, per le gare da aggiudicare con il
criterio dell'offerta più vantaggiosa, l'obbligo della
stazione appaltante di attribuire alla migliore offerta
tecnica in gara il punteggio massimo previsto dalla lex
specialis, mediante il criterio della c.d. doppia
riparametrazione atteso che nelle gare da aggiudicarsi con
detto criterio la riparametrazione ha la funzione di
ristabilire l'equilibrio fra i diversi elementi qualitativi
e quantitativi previsti per la valutazione dell'offerta solo
se e secondo quanto voluto e disposto dalla stazione
appaltante con il bando, con la conseguenza che l'operazione
di riparametrazione deve essere espressamente prevista dalla
legge di gara per poter essere applicata e non può tradursi
in una modalità di apprezzamento delle offerte
facoltativamente introdotta dalla commissione giudicatrice.
Infatti, la discrezionalità che pacificamente compete alla
stazione appaltante nella scelta, alla luce delle esigenze
del caso concreto, dei criteri da valorizzare ai fini della
comparazione delle offerte, come pure nella determinazione
della misura della loro valorizzazione, non può non
rivestire un ruolo decisivo anche sul punto della c.d.
riparametrazione che, avendo la funzione di preservare
l'equilibro fra i diversi elementi stabiliti nel caso
concreto per la valutazione dell'offerta (e perciò di
assicurare la completa attuazione della volontà espressa al
riguardo dalla stazione appaltante), non può che dipendere
dalla stessa volontà e rientrare quindi già per sua natura
nel dominio del potere di disposizione ex ante della
stessa Amministrazione
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.06.2017 n. 2852 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
All’Adunanza plenaria la questione della perdurante
efficacia delle proposte di vincolo ante d.lgs. 42 del 2004
e non seguite dal provvedimento ministeriale di notevole
interesse pubblico.
---------------
Beni culturali, paesaggistici e ambientali – Proposte di
vincolo formulate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n.
42 del 2004 – Efficacia – Mancata conclusione del
procedimento – Deferimento all’Adunanza plenaria.
Va rimessa all’Adunanza
plenaria la questione se, a mente del combinato disposto
degli articoli 140, 141 e 157, co. 2, d.lgs. 22.01.2004, n.
42 –come modificati dapprima con il d.lgs. 24.03.2006 n.
157, e poi, con il d.lgs. 26.03.2008 n. 63– le proposte di
vincolo formulate prima dell’entrata in vigore del medesimo
decreto legislativo, e per le quali non vi sia stata
conclusione del relativo procedimento con l’adozione del
decreto ministeriale recante la dichiarazione di notevole
interesse pubblico, cessino di avere effetto.
(1)
----------------
(1) I.- Con una articolata motivazione, la quarta sezione
del Consiglio di Stato deferisce all’Adunanza plenaria la
questione della perdurante efficacia delle proposte di
vincolo paesaggistico formulate prima dell’entrata in vigore
del d.lgs. n. 42 del 2004, non seguite dal decreto
ministeriale di conclusione del procedimento di
dichiarazione di notevole interesse pubblico.
La rimessione è stata disposta nell’ambito di un giudizio di
appello proposto da una società –interessata al rilascio di
un’autorizzazione unica ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n.
387 del 2003– la cui domanda di annullamento di un diniego
di autorizzazione paesaggistica era stata respinta dal TAR
sul presupposto (tra gli altri motivi di rigetto) della
perdurante efficacia di due proposte di vincolo dell’area di
localizzazione del parco eolico, non seguite dal decreto
ministeriale di dichiarazione di notevole interesse pubblico
che, invece, la ricorrente assumeva prive di effetti ai
sensi dell’art. 141 d.lgs. n. 42 del 2004.
La questione giuridica controversa può essere sintetizzata
nei seguenti termini.
L’art. 157, co. 2 d.lgs. n. 42/2004 prevede che “le
disposizioni della presente Parte si applicano anche agli
immobili ed alle aree in ordine ai quali, alla data di
entrata in vigore del presente Codice, sia stata formulata
la proposta ovvero definita la perimetrazione ai fini della
dichiarazione di notevole interesse pubblico o del
riconoscimento quali zone di interesse archeologico”.
Nel contesto antecedente al Codice dei beni culturali, la
tutela dei valori paesaggistici si esplicava fin dal momento
in cui la proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni
interessati e la durata della misura cautelativa o
anticipatoria di tutela durava fino alla approvazione del
vincolo, senza indicazione di termine di efficacia della
misura ovvero di decadenza dal potere di emanazione del
provvedimento finale.
Per effetto delle modifiche introdotte all’art. 141 d.lgs.
n. 42/2004 -dapprima con il d.lgs. 24.03.2006 n. 157, e poi,
segnatamente, con il d.lgs. 26.03.2008 n. 63- il comma 5 del
suddetto articolo prevede ora che “se il provvedimento
ministeriale di dichiarazione non è adottato nei termini di
cui all’art. 140, co. 1, allo scadere di detti termini, per
le aree e gli immobili oggetto della proposta di
dichiarazione, cessano gli effetti di cui all’art. 146, co.
1” (cioè i particolari limiti imposti ai proprietari,
possessori o detentori dei beni che “non possono
distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino
pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione”).
Il TAR, in particolare, ha condiviso l’interpretazione
ministeriale (parere 03.11.2009 n. 21909 dell’Ufficio
legislativo del Ministero per i beni e le attività
culturali), secondo cui la proposta di vincolo formulata
dalla competente commissione prima della data di entrata in
vigore del d.lgs. 22.01.2004 n. 42, conserva efficacia anche
in assenza della approvazione mediante l’adozione della
dichiarazione di notevole interesse pubblico, ai sensi e per
gli effetti dell’art. 157, comma 2, del d.lgs. n. 42/2004.
A tale conclusione è pervenuto sulla scorta delle seguenti
considerazioni:
a) alla data di entrata in vigore del Codice di cui al d.lgs.
22.01.2004 n. 42, ha continuato a trovare applicazione la
medesima disciplina prevista dall’art. 2, ultimo comma,
della legge 29.06.1939 n. 1497 (trasfuso nell’art. 140 del
d.lgs. 29.10.1999 n. 490), secondo la quale, relativamente
alle cd. bellezze di insieme, la tutela dei valori
paesaggistici (che si sostanzia nella necessità di ottenere
l’autorizzazione paesaggistica per poter modificare i beni
soggetti a tutela) si esplica fin dal momento in cui la
proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni interessati ... e
la durata della misura cautelativa o anticipatoria dura fino
all’approvazione del vincolo, al fine di impedire che il
lasso di tempo necessario per l’approvazione definitiva
degli elenchi possa rendere possibili manomissioni
incontrollate dei beni immobili ricompresi nell’elenco delle
bellezze di insieme e quindi compromettere il paesaggio,
valore tutelato dall’art. 9 Cost.;
b) l’art. 157, co. 2, d.lgs. n. 42/2004 –il quale, nel prevedere
che “le disposizioni della presente parte si applicano
anche agli immobili ed alle aree in ordine ai quali, alla
data di entrata in vigore del presente Codice, sia stata
formulate la proposta ovvero definita la perimetrazione ai
fini della dichiarazione di notevole interesse pubblico o
del riconoscimento quali zone di interesse archeologico”,
non prevede altresì “forme di decadenza del vincolo,
termini perentori per il perfezionamento della procedura o
forme di silenzio”– non ha subito alcuna modificazione
ad opera del d.lgs. 24.03.2006 n. 157 e del d.lgs.
26.03.2008 n. 63; fonti queste ultime che, nel modificare
gli artt. 141, co. 3 e co. 5 del Codice, hanno introdotto
una espressa decadenza per le proposte non approvate dal
Ministro entro il termine di cui all’art. 140, co. 1; da ciò
consegue che le forme di decadenza successivamente
introdotte non sono applicabili alle proposte di vincolo
formulate antecedentemente alla entrata in vigore del
Codice;
c) ogni diversa interpretazione “si pone in contraddizione con
l’interpretazione letterale e sistematica dell’art. 157,
comma 2”, il quale, peraltro, non introduce un “rinvio
mobile, così recependo tutte le successive novelle normative”,
poiché ciò comporterebbe, oltre che un contrasto con “l’originaria
intenzione del legislatore”, anche “la sostanziale
retroattività delle norme sopravvenute ed una violazione
proprio del principio del tempus regit actum”.
La società appellante, nel censurare le statuizione di primo
grado, ha prospettato la tesi per cui il termine di
decadenza, previsto nel caso di procedimenti di vincolo non
conclusi entro il termine previsto dall’art. 140, co. 1,
d.lgs. n. 42/2004, come introdotto in particolare dal d.lgs.
n. 63/2008, si applicherebbe anche a quei procedimenti
avviati prima dell’entrata in vigore del Codice dei beni
culturali, a tale conclusione non ostandovi l’art. 157, co.
2, del Codice che, al contrario la confermerebbe.
II.- La rimessione.
Con l’ordinanza in esame la quarta sezione, dopo aver
disatteso alcune questioni preliminari, ricostruisce i due
orientamenti che si fronteggiano sul tema, richiamando al
riguardo anche le argomentazioni addotte dalla
giurisprudenza dei TAR e della Corte di cassazione in
materia di tutela penale dei beni paesaggistici (favorevole
alla tesi della ultrattività dell’efficacia delle mere
proposte di vincolo).
La quarta sezione ha poi provveduto a prospettare ulteriori
argomenti a sostegno dell’uno come dell’altro orientamento.
Secondo l’orientamento prevalente (Cons.
Stato, VI, 27.07.2015 n. 3663
e
21.03.2005
n. 1121
che si richiamano ai principi espressi da
Corte cost.,
23.07.1997 n. 262;
Cass. pen., sez. III, 12.01.2012 n. 6617; idem
17.02.2010 n. 16476;
TAR Venezia 29.04.2015, n. 473):
d) le proposte di vincolo avanzate prima dell’entrata in vigore del
d.lgs. n. 42/2004, ancorché i relativi procedimenti non si
siano conclusi (nel rispetto dei termini di cui alla Tabella
A, allegata al D.M. 13.06.1994 n. 495), non risentono delle
modifiche introdotte all’art. 141 dal d.lgs. n. 63/2008, di
modo che, per un verso, vi è sempre la possibilità, per
l’amministrazione, di emanare il provvedimento di
dichiarazione; per altro verso, perdurano gli effetti di
tutela “anticipata”, di cui all’art. 146, co. 1 del
Codice.
Tale affermazioni si fonda sul sistema di tutela introdotto
dall’art. 2, ultimo comma, della legge n. 1497/1939 e sulla
affermazione della Corte costituzionale per cui la mancata
adozione del provvedimento di vincolo nel termine di
conclusione del procedimento a tal fine previsto non
comporta nemmeno “il venir meno dell’efficacia
dell’originario vincolo”, quel vincolo cioè che,
applicato in via provvisoria fin dalla pubblicazione della
proposta, diviene definitivo con l’adozione della
dichiarazione di interesse (Corte cost., n. 262 del 1997
cit.);
e) il legislatore del 2008, a fronte dell’introduzione della
perdita di efficacia delle misure di tutela per il mancato
rispetto del termine di adozione del decreto ministeriale,
non ha invece modificato l’art. 157, co. 2, del Codice, né
questo contiene un “rinvio mobile”, di modo che le
forme di decadenza successivamente introdotte (dd.lgs. nn.
157/2006 e 63/2008), non sono applicabili alle proposte
formulate antecedentemente alla data di entrata in vigore
del d.lgs. n. 42/2004;
f) il ritenere applicabile anche alle antecedenti proposte il
sopravvenuto regime decadenziale (recte, di perdita
di efficacia delle misure di tutela) costituirebbe una
applicazione retroattiva delle norme, contrastante anche con
il principio del “tempus regit actum”;
g) la “insensibilità” delle antecedenti proposte al nuovo
regime si giustifica, sul piano logico–sistematico e secondo
una interpretazione costituzionalmente orientata, con
finalità di tutela del paesaggio, in attuazione concreta
dell’art. 9 Cost., posto che, diversamente opinando, si
avrebbe una indiscriminata e generalizzata decadenza di
tutte le proposte di vincolo non ancora approvate presenti
sull’intero territorio nazionale indipendentemente dalla
data della loro formulazione, entro i brevissimi tempi di
decadenza previsti dall’art. 141 del d.lgs. n. 42/2004;
h) la logica sottesa alla scelta di non considerare prive di
effetti le proposte di vincolo a seguito di norme
sostanziali e procedimentali (sopravvenute alla loro
emanazione), che tale decadenza sanciscono, è la stessa che
ha condotto la Corte costituzionale (cfr.
sentenza n.
57 del 2015, in Foro
it., 2015, I, 3063 con nota di TRAVI) e l’Adunanza
plenaria (cfr.
sentenza n.
6 del 2015, in Foro
it., 2015, III, 501, con nota di TRAVI e in
Urbanistica e appalti, 2015, 1303, con nota di MUCIO,
cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e
giurisprudenza), ad escludere la soluzione esegetica che
estende misure decadenziali a fatti storici anteriori
dovendosi preferire, al contrario, quella che garantisce l’ultrattività
delle norme precedenti in corso di attuazione (nella specie,
come, noto, si trattava del termine decadenziale previsto
dall’art. 30, comma 3, c.p.a. per la proposizione della
domanda risarcitoria);
i) va esclusa qualsiasi forma di indebita ingerenza dello Stato nei
confronti della proprietà privata e della libertà di
iniziativa economica alla stregua dei parametri europei
atteso che la disciplina nazionale volta a tutelare il
paesaggio come valore primario costituzionale (ma
riconosciuto anche a livello internazionale), incide su una
materia che non rientra nelle competenze dell’Unione; essa,
pertanto, non può essere sindacata neppure sotto il profilo
della violazione del principio generale della
proporzionalità (cfr. negli esatti termini
Corte di
giustizia UE, sez. X, 06.03.2014, C-206/13,
Cruciano Siragusa).
Secondo un più recente orientamento, maturato in seno alla
VI sezione del Consiglio di Stato (Cons.
Stato, VI, 16.11.2016 n. 4746;
TAR
Puglia–Bari, III, 08.03.2012, n. 521
e
TAR Venezia,
II, 08.04.2005, n. 1393),
anche per le proposte di vincolo approvate prima
dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004 varrebbe il
regime decadenziale previsto dall’art. 141, qualora non
sopravvenga, nel termine di legge, il provvedimento
ministeriale conclusivo del relativo procedimento.
Ciò in quanto:
j) la tesi dell’ultrattività delle mere proposte di vincolo
presupporrebbe l’esistenza di un genus di proposte
assistite da un regime speciale e rafforzato privo tuttavia
di base normativa; né una tale specialità potrebbe desumersi
dal peculiare pregio paesaggistico dei beni tutelati da tali
peculiari proposte di vincolo poiché una tale caratteristica
sarebbe indimostrata.
La stessa esegesi dell’art. 157, comma 2, escluderebbe, dal
punto di vista del tenore letterale, una tale
differenziazione nel regime giuridico delle proposte di
vincolo poiché quando afferma che “conservano efficacia a
tutti gli effetti” una serie di atti (dichiarazioni,
elenchi, provvedimenti) fa riferimento ad atti formali e
definitivi, non dunque a semplici loro proposte. Nessuna
rilevanza potrebbe poi riconoscersi al profilo dell’impatto
organizzativo della opposta tesi, in ordine alla perdita di
efficacia di un numero considerevole di proposte di vincolo
per intervenuta decadenza;
k) il quadro normativo operante è stato profondamente modificato
con gli interventi di cui ai decreti legislativi nn.
157/2006 e 63/2008, di modo che oggi la cessazione di
efficacia del vincolo provvisorio per mancato rispetto del
termine di conclusione del procedimento (a differenza di
quanto previsto dal quadro normativo vigente all’epoca della
sentenza n. 262/1997 della Corte costituzionale),
costituisce la “regola”, a fronte della quale sempre
meno si giustifica, con il passare del tempo, una “eccezione”
relativa a proposte di vincolo formulate in epoca anteriore
al 2004;
l) all’estensione della nuova disciplina anche alle mere proposte
di vincolo non osterebbe la mancata modifica dell’art. 157,
comma 2, d.lgs. n. 42/2004 sia in quanto appare dubbio
sostenere la violazione del principio di irretroattività
della legge nel caso di procedimenti non ancora conclusi, e
dunque in assenza di situazioni e/o rapporti giuridici
consolidati; sia in quanto tra due possibili interpretazioni
della norma, ed in assenza di specifiche indicazioni del
legislatore, appare preferibile una interpretazione che
tenda ad “uniformare” il sistema, in luogo di una
interpretazione che produca differenti applicazioni dei
poteri amministrativi (e dei loro effetti) e, dunque,
possibili disparità di trattamento.
III.- Per completezza si segnala:
m) circa l’interpretazione dell'articolo 2, ultimo comma, della
legge 29.06.1939, n. 1497 (trasfuso nell’articolo 140 del
D.lgs. 29.10.1999, n. 490) secondo il quale, relativamente
alle c.d. bellezze di insieme, la tutela dei valori
paesaggistici (che si sostanzia nella necessità di ottenere
l’autorizzazione paesaggistica per poter modificare i beni
soggetti a tutela) si esplica fin dal momento in cui la
proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni interessati e la
durata della misura cautelativa o anticipatoria si protrae
sino all’approvazione del vincolo- al fine di impedire che
il lasso di tempo necessario per l'approvazione definitiva
degli elenchi possa rendere possibili manomissioni
incontrollate dei beni immobili ricompresi nell'elenco delle
bellezze d'insieme e quindi compromettere il paesaggio,
valore tutelato dall'art. 9 Cost. -
Cons. Stato, Ad. plen., 06.05.1976, n. 3; Sez. IV,
19.12.1986, n. 913; idem 12.03.1987, n. 714; idem
25.01.1990, n. 139;
Sez. VI, 21.03.2005, n. 1121;
Sez. V, 11.10.2005, n. 5484;
Tar Lazio, Sez. II, 21.02.2005 n. 1427;
n) sul riparto di competenze Stato - Regioni in relazione alla
titolarità ed all’ esercizio dei poteri di tutela, controllo
e gestione dei beni culturali e paesaggistici,
Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9, in Foro
it., 2003, III 382, con nota di L. GILI;
o) sulla importanza del paesaggio in sede di pianificazione del
territorio,
Corte cost., 24.07.2013, n. 238;
18.07.2013, n. 211 e
24.07.2012, n. 207, in Foro it., 2013, I, 3025,
con nota di ROMBOLI, cui si rinvia per ogni approfondimento
di dottrina e giurisprudenza;
p) sul carattere “trasversale” della materia della tutela e
valorizzazione dei beni culturali,
Corte cost., 17.07.2013, n. 194, in Foro it.,
2013, I, 2733
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
ordinanza 12.06.2017 n. 2838
- commento tratto da e link a
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APPALTI -
ATTI AMMINISTRATIVI:
I portatori di un interesse specifico hanno
diritto di accesso agli atti amministrativi per la tutela di
situazioni giuridicamente rilevanti, intendendo, per tali,
le situazioni giuridiche soggettive che presentino un
collegamento diretto ed attuale con gli atti cui la
richiesta si riferisce.
---------------
Nelle gare pubbliche il diritto di accesso agli atti delle
procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti
pubblici è sottoposto ad un limite generale che è quello
della necessaria sussistenza di un interesse differenziato,
concreto ed attuale, il quale deve trovarsi in evidente
collegamento con la tutela giurisdizionale di una
determinata posizione giuridica dell'istante; inoltre il
diritto all'accesso ai documenti amministrativi oppure alla
documentazione privata d'interesse amministrativo,
soprattutto per questa ultima, deve essere sempre comparato
con il diritto alla riservatezza e comunque si deve ritenere
prevalente ove connesso al riconoscimento di una determinata
situazione in sede giurisdizionale.
Inoltre: “E' da escludere che la titolarità del diritto
d'accesso risieda soltanto in una situazione funzionale
all'esercizio di un interesse giuridicamente protetto e
suscettibile di tutela giurisdizionale; ed invero la
richiesta di accesso, pur non potendo configurarsi quale
forma di preventivo e generalizzato controllo dell'intera
attività dell'Amministrazione, si può basare su un interesse
anche non funzionalmente connesso ad un'immediata tutela in
via giudiziale, purché concreto ed attuale; in altri
termini, la nozione di «interesse giuridicamente rilevante»,
che fonda il diritto di accesso, è più ampia rispetto a
quella di «interesse all'impugnazione»”.
“Il diritto di accesso non è stato configurato dal
legislatore con carattere meramente strumentale rispetto
alla difesa in giudizio, avendo un carattere autonomo, nel
senso che il collegamento tra l'interesse giuridicamente
rilevante del soggetto che richiede l'accesso e la
documentazione oggetto della relativa istanza va inteso in
senso ampio, poiché la documentazione richiesta deve essere
considerata mezzo utile per la difesa e non come strumento
di prova diretta della lesione dell'interesse tutelato".
Deve, infine, precisarsi che: “Ai sensi dell'art. 22, comma
1, lett. b), l. 07.08.1990 n. 241 e successive
modificazioni, il diritto di accesso si indirizza ai
documenti amministrativi detenuti dall'Amministrazione e
concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica
della loro disciplina sostanziale; quindi è strutturato al
fine di consentire la conoscenza di atti rappresentativi
dell'attività della Pubblica amministrazione finalizzata
alla cura e al perseguimento di scopi di interesse pubblico
o che si configurino essenziali all'esercizio dell'attività
stessa, indipendentemente dal fatto che essa sia espressione
di poteri autoritativi o di autonomia negoziale dell' ente;
nel documento deve quindi sostanziarsi l'esercizio della
funzione amministrativa, ovvero deve costituire strumento
per l'esercizio della potestà di amministrazione”
---------------
In sede di accesso agli atti non è dato pretendere che
l’istante indichi specifici dati (quali il numero di
protocollo e la data di formazione di un atto) di atti e
documenti non in suo possesso.
“L'esigenza di una puntuale indicazione degli estremi degli
atti oggetto della domanda di accesso deve intendersi in
modo flessibile e non formalistico, non occorrendo dunque
l'indicazione di tutti gli estremi identificativi (organo
emanante, numero di protocollo, data di adozione dell'atto),
ma potendosi ritenere l'onere assolto con l'indicazione
dell'oggetto e dello scopo cui l'atto è indirizzato, sì da
mettere l'Amministrazione in condizione di comprendere la
portata ed il contenuto della domanda”.
---------------
Il Collegio ritiene che il ricorso sia fondato nei seguenti
limiti, sussistendo il concreto interesse della ricorrente
al riconoscimento in suo favore del diritto di accesso a
tutti gli atti concernenti l’esecuzione dei lavori di cui
all’oggetto, con particolare riferimento a quelli posti a
fondamento della delibera di CME con cui è stata decisa la
revoca dell’assegnazione ad -OMISSIS- della medesima
esecuzione dei lavori.
Ed invero, il contratto di appalto è stato stipulato dal
consorzio CME nell’interesse e per conto della deducente
consorziata designata, che è stata la materiale esecutrice
dei lavori sino alla sua estromissione.
Sussiste dunque la legittimazione di -OMISSIS- all’accesso a
tutti i documenti concernenti l’esecuzione dei lavori di cui
all’oggetto, con particolare riferimento a quelli prodromici
alla revoca dei lavori di esecuzione dell’appalto.
E’ stato, in proposito, costantemente affermato dalla
giurisprudenza amministrativa che i portatori di un
interesse specifico hanno diritto di accesso agli atti
amministrativi per la tutela di situazioni giuridicamente
rilevanti, intendendo, per tali, le situazioni giuridiche
soggettive che presentino un collegamento diretto ed attuale
con gli atti cui la richiesta si riferisce.
Il collegio richiama, sul punto, il costante orientamento
della giurisprudenza amministrativa in base al quale: “nelle
gare pubbliche il diritto di accesso agli atti delle
procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti
pubblici è sottoposto ad un limite generale che è quello
della necessaria sussistenza di un interesse differenziato,
concreto ed attuale, il quale deve trovarsi in evidente
collegamento con la tutela giurisdizionale di una
determinata posizione giuridica dell'istante; inoltre il
diritto all'accesso ai documenti amministrativi oppure alla
documentazione privata d'interesse amministrativo,
soprattutto per questa ultima, deve essere sempre comparato
con il diritto alla riservatezza e comunque si deve ritenere
prevalente ove connesso al riconoscimento di una determinata
situazione in sede giurisdizionale” (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 27.04.2015, n. 2096).
Inoltre: “E' da escludere che la titolarità del diritto
d'accesso risieda soltanto in una situazione funzionale
all'esercizio di un interesse giuridicamente protetto e
suscettibile di tutela giurisdizionale; ed invero la
richiesta di accesso, pur non potendo configurarsi quale
forma di preventivo e generalizzato controllo dell'intera
attività dell'Amministrazione, si può basare su un interesse
anche non funzionalmente connesso ad un'immediata tutela in
via giudiziale, purché concreto ed attuale; in altri
termini, la nozione di «interesse giuridicamente rilevante»,
che fonda il diritto di accesso, è più ampia rispetto a
quella di «interesse all'impugnazione»” (Cons. Stato,
sez. V, 17.03.2015, n. 1370).
“Il diritto di accesso non è stato configurato dal
legislatore con carattere meramente strumentale rispetto
alla difesa in giudizio, avendo un carattere autonomo, nel
senso che il collegamento tra l'interesse giuridicamente
rilevante del soggetto che richiede l'accesso e la
documentazione oggetto della relativa istanza va inteso in
senso ampio, poiché la documentazione richiesta deve essere
considerata mezzo utile per la difesa e non come strumento
di prova diretta della lesione dell'interesse tutelato”
(Cons. Stato, sez. VI, 10.02.2015, n. 714).
Deve, infine, precisarsi che: “Ai sensi dell'art. 22,
comma 1, lett. b), l. 07.08.1990 n.241 e successive
modificazioni, il diritto di accesso si indirizza ai
documenti amministrativi detenuti dall'Amministrazione e
concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica
della loro disciplina sostanziale; quindi è strutturato al
fine di consentire la conoscenza di atti rappresentativi
dell'attività della Pubblica amministrazione finalizzata
alla cura e al perseguimento di scopi di interesse pubblico
o che si configurino essenziali all'esercizio dell'attività
stessa, indipendentemente dal fatto che essa sia espressione
di poteri autoritativi o di autonomia negoziale dell' ente;
nel documento deve quindi sostanziarsi l'esercizio della
funzione amministrativa, ovvero deve costituire strumento
per l'esercizio della potestà di amministrazione” (Cons.
Stato, sez. III, 22.12.2014, n. 6352).
Ne consegue, dunque, la possibilità dell’ostensione da parte
della ricorrente anche di atti di natura privatistica,
purché connessi all’esercizio della potestà autoritativa
dell’amministrazione.
La legittimazione di -OMISSIS- all’accesso ai documenti
richiesti si appalesa nel caso di specie in maniera ancor
più evidente, posto che il consorzio CME ha disposto la
revoca dell’assegnazione dell’appalto sulla base di presunti
inadempimenti connessi con l’esecuzione del medesimo,
cosicché è interesse della deducente prendere visione ed
estrarre copia di tutti i documenti inerenti l’esecuzione
dei lavori al fine di dimostrare, in sede giudiziale, la
correttezza del proprio operato.
Riguardo all’asserzione avversaria secondo la quale il
contenuto dell’istanza di -OMISSIS- non consentirebbe di
individuare l’oggetto della stessa, gli atti di cui è stato
richiesto l’accesso sono precisamente individuabili in
relazione allo specifico appalto cui si riferiscono,
espressamente indicato nella pertinente istanza («Intervento
di ristrutturazione edilizia (OP 1.03 e OP 1.07) di cui al
contratto d’appalto stipulato con l’Azienda Lombarda
Edilizia Residenziale Milano (ALER MILANO), REP. 80/2008 –
Q.re Molise/Calvairate – Lotto C – Fabbr. 8 – Via Tomei n. 2
e Piazza Insubria 1. Finanziamento “Contratti di Quartiere
II” D.G.R. VII/13861 del 29/07/2003 – D.G.R. VII/14845 del
31/10/2003 CUP: I46I05000050007 – CIG. 02952331F»).
Inoltre, per insegnamento giurisprudenziale consolidato, in
sede di accesso agli atti non è dato pretendere che
l’istante indichi specifici dati (quali il numero di
protocollo e la data di formazione di un atto) di atti e
documenti non in suo possesso.
“L'esigenza di una puntuale indicazione degli estremi
degli atti oggetto della domanda di accesso deve intendersi
in modo flessibile e non formalistico, non occorrendo dunque
l'indicazione di tutti gli estremi identificativi (organo
emanante, numero di protocollo, data di adozione dell'atto),
ma potendosi ritenere l'onere assolto con l'indicazione
dell'oggetto e dello scopo cui l'atto è indirizzato, sì da
mettere l'Amministrazione in condizione di comprendere la
portata ed il contenuto della domanda” (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 12.01.2016, n. 28; TAR Lazio, Roma, sez. III.,
17.01.2012, n. 487).
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va
accolto e, per l’effetto, va annullato il provvedimento
impugnato e va disposta la condanna dell’Amministrazione al
riconoscimento in favore della società ricorrente del
diritto di accesso a tutti gli atti concernenti l’esecuzione
dei lavori di cui all’oggetto, con particolare riferimento a
quelli posti a fondamento della delibera di CME con cui è
stata decisa la revoca dell’assegnazione ad -OMISSIS- della
medesima esecuzione dei lavori
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 12.06.2017 n. 1311 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Non
è configurabile in forma omissiva il reato di cui all'art.
256, comma secondo, d.lgs. n. 152 del 2006, nei confronti
del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano
abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato,
anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei
rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste solo in
presenza di un obbligo giuridico di impedire la
realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il
proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o
movimentazione dei rifiuti.
Nella fattispecie, il rapporto di coniugio non attribuisce
il dovere di impedire che il coniuge reati e certamente non
costituisce il coniuge custode o responsabile delle azioni
dell'altro. Sicché tale rapporto non espande gli obblighi
che (non) gravano sul proprietario dell'area.
---------------
1.1 coniugi Gi.An. e Vi.Pa. ricorrono per l'annullamento
della sentenza del 18/12/2015 del Tribunale di Brindisi che
li ha condannati alla pena, condizionalmente sospesa, di
2.100,00 euro di ammenda per il reato di cui agli artt. 110,
cod. pen., 256, commi 1 e 2, d.lgs. n. 152 del 2006, loro
ascritto per aver, senza autorizzazione, raccolto, smaltito
e stoccato rifiuti speciali non pericolosi, costituiti da
pezzi di fili elettrici, terra e roccia da scavo, rifiuti
legnosi, rifiuti ferrosi, plastica e gomma. Il fatto è
contestato come accertato in Ceglie Messapica il 19/02/2014.
1.1. Con il primo motivo, deducendo che il (solo)
An., titolare di impresa esercente attività edile, aveva
momentaneamente depositato alcuni materiali ed attrezzature
della propria ditta e che i cumuli di pietre erano
null'altro che il prodotto di lavori agricoli di
spietramento del terreno (circostanze oggetto della
testimonianza resa dal figlio Ma., del tutto negletta),
eccepiscono l'inosservanza e l'erronea applicazione degli
artt. 192, cod. proc. pen., e 256, d.lgs. n. 152 del 2006
nonché vizio di motivazione contraddittoria ed illogica in
ordine alla definizione di rifiuto dei beni sopra indicati e
omessa valutazione di elementi di prova favorevoli
all'imputato.
1.2. Con il secondo motivo eccepiscono, con
riferimento alla posizione della Pa., la violazione del
principio di colpevolezza e di responsabilità personale
essendo la condanna basata sul presupposto della
comproprietà del fondo e della 'culpa in vigilando'.
...
5. E' invece fondato il secondo motivo.
5.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte,
non è configurabile in forma omissiva il reato di cui
all'art. 256, comma secondo, d.lgs. n. 152 del 2006, nei
confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi
abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo
incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la
rimozione dei rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste
solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la
realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il
proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o
movimentazione dei rifiuti (Sez. 3, n. 50997 del 07/10/2015,
Cucinella, Rv. 266030; Sez. 3, n. 40528 del 10/06/2014,
Cantoni, Rv. 260754; Sez. 3, n. 49327 del 12/11/2013, Merlet,
Rv. 257294).
5.2. Il rapporto di coniugio non attribuisce il dovere di
impedire che il coniuge reati e certamente non costituisce
il coniuge custode o responsabile delle azioni dell'altro.
Sicché tale rapporto non espande gli obblighi che (non)
gravano sul proprietario dell'area.
5.3. Ne consegue che, essendo queste le uniche ragioni della
condanna della Pa., nei suoi confronti la sentenza impugnata
deve essere annullata senza rinvio per non aver commesso il
fatto
(Corte di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.06.2017 n. 28704). |
EDILIZIA PRIVATA: La
disposizione di cui all'art. 9, secondo comma, del DM del
02.04.1968, n. 1444 (nella parte in cui prevede che gli
edifici di nuova realizzazione siano comunque ubicati ad una
distanza minima, assoluta ed inderogabile, di dieci metri
dalle pareti finestrate) deve applicarsi anche nell’ipotesi
in cui si intenda realizzare un ripostiglio e, ciò,
considerando sia, l’inesistenza di eccezioni in questo senso
contenute nell’art. 9 sopra citato sia, ancora, in
considerazione del fatto che anche detto manufatto è
suscettibile di integrare la nozione di “fabbricato” e
“costruzione” di cui allo stesso art. 9 e all’art. 873 del
codice civile.
Precedenti pronunce hanno affermato che ai fini del computo
della distanza di dieci metri “non sono computabili ai fini
delle distanze tra edifici solamente:
- gli sporti (cioè le sporgenze che non sono non attinenti alle
caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il
volume che si vuol distanziare);
- le parti che hanno funzione ornamentale e decorativa (es. le
mensole, le lesene, i risalti verticali);
- le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni;
- gli aggetti, gli elementi di ridotte dimensioni e gli altri
manufatti di minima entità. Non possono invece essere
esclusi dal computo delle distanze le pensiline, i balconi e
tutte quelle sporgenze (anche dei generi ora indicati), che
le particolari dimensioni sono destinate anche ad estendere
ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l'uso
abitativo dell'edificio”.
E’ noto, infatti, che la distanza minima fissata dall'art. 9
D.M. 02.04.1968 n. 1444 di dieci metri dalle pareti
finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili
esigenze igienico sanitarie, al fine di evitare malsane
intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di
salubrità degli stessi, quanto ad areazione, luminosità ed
altro.
---------------
Deve ritenersi non condivisibile la tesi
dell’Amministrazione comunale secondo la quale, al caso di
specie, dovrebbe applicarsi l’art. 34 delle NTA, nella parte
in cui detta disposizione consentirebbe di derogare alla
distanza dei dieci metri, legittimando costruzioni “di
servizio”, nei limiti delle distanze di cui al codice
civile.
Sul punto è sufficiente evidenziare come costituisca
orientamento consolidato che le disposizioni di cui al DM
1444/1968 prevalgono sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti locali, ai quali si sostituiscono per inserzione
automatica.
---------------
1. Il ricorso va accolto, risultando fondati sia il primo
che il secondo motivo.
1.1 In primo luogo è necessario premettere che costituisce
circostanza incontestata che il manufatto è posizionato ad
una distanza inferiore ai tre metri rispetto al muro
perimetrale della villetta, così come risulta ad una
distanza inferiore ai dieci metri rispetto alla parete
finestrata del fabbricato sul fondo confinante di proprietà
del Sig. Lo.Ju..
1.2 Ciò premesso è evidente che l’autorizzazione edilizia
diretta a permettere la realizzazione del ripostiglio è
stata adottata in violazione dell’art. 9, secondo comma, del
DM del 02.04.1968, n. 1444, nella parte in cui prevede che
gli edifici di nuova realizzazione siano comunque ubicati ad
una distanza minima, assoluta ed inderogabile, di dieci
metri dalle pareti finestrate.
1.3 Detta distanza deve applicarsi anche nell’ipotesi in cui
si intenda realizzare un ripostiglio e, ciò, considerando
sia, l’inesistenza di eccezioni in questo senso contenute
nell’art. 9 sopra citato sia, ancora, in considerazione del
fatto che anche detto manufatto è suscettibile di integrare
la nozione di “fabbricato” e “costruzione” di
cui allo stesso art. 9 e all’art. 873 del codice civile.
1.4 Precedenti pronunce hanno affermato che ai fini del
computo della distanza di dieci metri “non sono
computabili ai fini delle distanze tra edifici solamente: -
gli sporti (cioè le sporgenze che non sono non attinenti
alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il
volume che si vuol distanziare); - le parti che hanno
funzione ornamentale e decorativa (es. le mensole, le
lesene, i risalti verticali); - le canalizzazioni di gronde
e i loro sostegni; - gli aggetti, gli elementi di ridotte
dimensioni e gli altri manufatti di minima entità. Non
possono invece essere esclusi dal computo delle distanze le
pensiline, i balconi e tutte quelle sporgenze (anche dei
generi ora indicati), che le particolari dimensioni sono
destinate anche ad estendere ed ampliare la parte
concretamente utilizzabile per l'uso abitativo dell'edificio
(Cons. Stato Sez. IV, 21.10.2013, n. 5108, Cons. Stato Sez.
V, 13.03.2014, n. 1272 Cass. civ. Sez. II, 24.11.1995, n.
12163)”.
1.5 E’ noto, infatti, che la distanza minima fissata
dall'art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 di dieci metri dalle
pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle
imprescindibili esigenze igienico sanitarie, al fine di
evitare malsane intercapedini tra edifici tali da
compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad
areazione, luminosità ed altro.
1.6 Deve ritenersi non condivisibile la tesi
dell’Amministrazione comunale secondo la quale, al caso di
specie, dovrebbe applicarsi l’art. 34 delle NTA, nella parte
in cui detta disposizione consentirebbe di derogare alla
distanza dei dieci metri, legittimando costruzioni “di
servizio”, nei limiti delle distanze di cui al codice
civile.
1.7 Sul punto è sufficiente evidenziare come costituisca
orientamento consolidato che le disposizioni di cui al DM
1444/1968 prevalgono sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti locali, ai quali si sostituiscono per inserzione
automatica (per tutti si veda TAR Emilia Romagna-Bologna
Sez. I, 08.07.2016, n. 693, Cons. Stato Sez. IV, 29.02.2016,
n. 856 Cons. Stato Sez. IV, 02.11.2010, n. 7731 e Cass. civ.
Sez. Unite, 07.07.2011, n. 14953).
1.8 L’autorizzazione di cui si tratta è stata adottata anche
in violazione dell’art. 873 del codice civile nella parte in
cui prevede che le costruzioni tra fondi finitimi devono
essere tenute ad una distanza non inferiore a tre metri,
disposizione quest’ultima suscettibile di essere derogata
solo prevedendo una distanza superiore.
2. In conclusione il ricorso è fondato e va accolto, con
conseguente annullamento dell’autorizzazione edilizia n. 98
del 04.04.2002
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 08.06.2017 n. 785
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
comma 2 dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 ammette
distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi
per gruppi di edifici che siano oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate dotati di
“previsioni planovolumetriche”.
La previsione derogatoria si fonda sul presupposto che nel
disciplinare la realizzazione ex novo o la sistemazione
integrale di un insieme di edifici un piano di natura
esecutiva possa adottare soluzioni progettuali e
accorgimenti tecnici in grado di evitare problemi
igienico-sanitari anche con una distanza inferiore a 10
metri.
Affinché la deroga possa operare è, quindi, necessario che
il piano attuativo giunga ad un livello di dettaglio tale
“da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici
delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio
unitario”.
A tale risultato conduce non solo la ratio ma anche la
lettera del comma 2 dell’art. 9 del citato D.M. nella parte
in cui richiede che la deroga all’obbligo di distanza possa
derivare solo da uno strumenti pianificatorio che contenga
“previsioni planovolumetriche”, ossia previsioni progettuali
che evidenzino congiuntamente la planimetria ed il volume
dei fabbricati presi in considerazione attraverso la
proiezione in mappa delle relative ombre; posto che solo in
tal modo risulta possibile operare una verifica concreta sul
fatto se un distacco inferiore a quello standard di 10 m.
possa nuocere alle esigenze di salubrità ed areazione degli
edifici frontistanti.
---------------
E’ fondata la
prospettazione difensiva delle parti intimate che fa leva
sulla non applicabilità degli obblighi di distanza prevista
dall’art. 879 c.c. per le costruzioni al confine con vie e
con piazze.
Anche a voler tacere del fatto che la citata disposizione si
riferisce a costruzioni da realizzare su vie esistenti e non
semplicemente programmate dagli strumenti urbanistici, la
stessa non trova applicazione all’obbligo di distanza fra
pareti finestrate previsto dall’art. 9 del D.M. 1444 del
1968 in quanto tale obbligo non attiene solo ad una
dimensione intersoggettiva di regolamentazione dei rapporti
fra proprietà finitime ma è posto a presidio del preminente
interesse pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico
intorno alla strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che
trova la sua disciplina esclusivamente nelle leggi e
regolamenti urbanistico-edilizi fra cui il citato D.M..
---------------
Nel merito sia il comune di Grosseto che la
controinteressata osservano:
1) che l’impugnata variante avrebbe la consistenza di piano
particolareggiato dotato di previsioni planivolumetriche per
ciascun isolato e, come tale, ben avrebbe potuto contenere
previsioni derogatorie rispetto all’obbligo di distanza di
10 metri fra pareti finestrate in forza della previsione di
cui alla seconda parte del comma 1 dell’art. 9 del D.M. 1444
del 1968.
2) che essendo l’edificio oggetto dell’impugnato permesso
confinante con un passaggio pubblico previsto dalla variante
esso non era tenuto al rispetto delle distanze legali in
forza della previsione di cui all’art. 879 c.c.
Entrambe le deduzioni difensive sono prive di fondamento.
Il comma 2 dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 ammette
distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi
per gruppi di edifici che siano oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate dotati di “previsioni
planovolumetriche”.
La previsione derogatoria si fonda sul presupposto che nel
disciplinare la realizzazione ex novo o la
sistemazione integrale di un insieme di edifici un piano di
natura esecutiva possa adottare soluzioni progettuali e
accorgimenti tecnici in grado di evitare problemi
igienico-sanitari anche con una distanza inferiore a 10
metri (TAR Brescia 730/2011).
Affinché la deroga possa operare è, quindi, necessario che
il piano attuativo giunga ad un livello di dettaglio tale “da
definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici
delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio
unitario” (Corte Cost. 24/02/2017 n. 41).
A tale risultato conduce non solo la ratio ma anche
la lettera del comma 2 dell’art. 9 del citato D.M. nella
parte in cui richiede che la deroga all’obbligo di distanza
possa derivare solo da uno strumenti pianificatorio che
contenga “previsioni planovolumetriche”, ossia
previsioni progettuali che evidenzino congiuntamente la
planimetria ed il volume dei fabbricati presi in
considerazione attraverso la proiezione in mappa delle
relative ombre; posto che solo in tal modo risulta possibile
operare una verifica concreta sul fatto se un distacco
inferiore a quello standard di 10 m. possa nuocere alle
esigenze di salubrità ed areazione degli edifici
frontistanti.
Nel caso di specie la tavole della variante riferite alla
zona omogenea B2 (isolato 29, lotto 3 nel quale sono
compresi gli edifici di cui al ricorso – doc. 6 del
fascicolo dell’amministrazione) contengono una
rappresentazione “solo in pianta” dei fabbricati
esistenti al momento della loro redazione e l’indicazione
astratta dei volumi realizzabili in ampliamento, la cui
collocazione, tuttavia, non è graficamente sviluppata
attraverso una rappresentazione planovolumetrica.
Non risulta, quindi, raggiunto il livello di dettaglio
progettuale previsto dal comma 2 dell’art. 9 del D.M. 1444
del 1968 ai fini della derogabilità degli obblighi di
distanza previsti dai commi precedenti.
E’ altresì fondata la prospettazione difensiva delle parti
intimate che fa leva sulla non applicabilità degli obblighi
di distanza prevista dall’art. 879 c.c. per le costruzioni
al confine con vie e con piazze.
Anche a voler tacere del fatto che la citata disposizione si
riferisce a costruzioni da realizzare su vie esistenti e non
semplicemente programmate dagli strumenti urbanistici, la
stessa, secondo un costante orientamenti giurisprudenziale
che il Collegio condivide, non trova applicazione
all’obbligo di distanza fra pareti finestrate previsto
dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 in quanto tale obbligo
non attiene solo ad una dimensione intersoggettiva di
regolamentazione dei rapporti fra proprietà finitime ma è
posto a presidio del preminente interesse pubblico ad un
ordinato sviluppo urbanistico intorno alla strade ed alle
piazze, ordinato sviluppo che trova la sua disciplina
esclusivamente nelle leggi e regolamenti urbanistico-edilizi
fra cui il citato D.M. (TAR Palermo, sez. III, 17/10/2012,
n. 2049; TAR Genova (Liguria) sez. I 20.07.2011 n. 1148; TAR
Brescia, sez. I 03.07.2008 n. 788).
Alla luce di quanto sopra specificato occorre quindi
concludere nel senso che la impugnata variante del comparto
C.1 di Marina di Grosseto è illegittima in parte qua
(con specifico riferimento ai lotti in cui insistono le
proprietà dei ricorrenti e della controinteressata) nel
punto in cui consente la realizzazione di interventi di
ricostruzione con maggiore volumetria ad una distanza
inferiore a quella prevista dall’art. 9 del D.M. 1444 del
1968, posto che tale tipologia di interventi, essendo
inquadrabile nella categoria della nuova costruzione, deve
rispettare gli obblighi di distanza legale (Cass. 20/08/2015
n. 17043).
Parimenti illegittimo (per derivazione) deve ritenersi
l’impugnato permesso di costruire rilasciato in sua
attuazione.
Il ricorso deve, quindi, essere accolto in relazione alla
domanda di annullamento dei predetti atti, mentre è
inammissibile con riferimento alla domanda di condanna della
controinteressata alla demolizione del manufatti
illegittimamente autorizzato posto che la stessa esula dalla
giurisdizione esclusiva del g.a. in materia di atti e
comportamenti della p.a. afferenti il governo del territorio
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 08.06.2017 n. 776 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sulla possibilità, o meno, di accede ad un parere legale del
comune cui è succeduto il preavviso di diniego del richiesto
permesso di costruire.
Le ragioni poste alla base del diniego
di accesso al parere legale, fondate sulla sua natura di
“documento interno riservato, prodromico anche ad una
eventuale difesa in giudizio”, per quanto stringate,
risultano puntuali e satisfattive.
Difatti, va dapprima sottolineato come il predetto parere
legale non sia stato affatto richiamato esplicitamente nel
provvedimento adottato dall’Amministrazione, comunque dotato
di una specifica ed esaustiva motivazione, che ha posto in
grado la ricorrente di percepire le ragioni del diniego
tanto da indurla a ritirare la richiesta originaria; da ciò
si deduce, quantomeno in via presuntiva, l’intenzione degli
Uffici comunali di tenere riservato il parere legale e non
utilizzarlo per rafforzare l’apparato motivazionale posto
alla base del preavviso di diniego del permesso di
costruire. L’assenza negli atti del procedimento di un
diretto riferimento al parere rende molto dubbia la sua
natura di atto endoprocedimentale e quindi la sua valenza
istruttoria.
Inoltre, nell’impugnato diniego si specifica che il parere
risulta essere un documento interno riservato, finalizzato
anche ad una eventuale difesa in giudizio del Comune, con
ciò chiarendosi le effettive intenzioni che hanno indotto
l’Amministrazione all’acquisizione del predetto parere.
Del resto, il principio della riservatezza della consulenza
legale, che dovrebbe garantire all’Amministrazione la
possibilità di predisporre la propria strategia difensiva,
in ordine ad un lite che, pur non essendo ancora in atto,
può considerarsi quanto meno potenziale, si pone non come
eccezione alla regola dell’accesso, e dunque, di stretta
interpretazione, bensì come disciplina rispondente ai valori
sottesi all’art. 24 Cost., in modo da evitare che l’accesso
sia adoperato in modo strumentale e tale da offrire indebiti
vantaggi ad una delle parti in giudizio.
Quindi il parere legale deve essere osteso soltanto laddove
abbia con certezza una funzione endoprocedimentale e
istruttoria, perché correlato ad un procedimento
amministrativo che si conclude con un provvedimento ad esso
collegato, mentre se lo stesso è reso allo scopo di definire
una strategia difensiva, anche in vista di una lite
potenziale, ben può essere ritenuto inaccessibile
dall’Amministrazione.
---------------
2. Passando all’esame del merito del ricorso, lo stesso è
infondato.
3. Con le due censure di ricorso, da trattare congiuntamente
in quanto strettamente connesse, si assume l’illegittimità
del diniego comunale in ragione della ampiezza del diritto
di accesso e della necessaria interpretazione restrittiva
dei casi di sua esclusione, unitamente alla circostanza che
il richiesto parere legale sarebbe stato riversato nel
procedimento amministrativo e, senza alcuna effettiva
motivazione, sarebbe stato sottratto all’accesso.
3.1. Le doglianze sono complessivamente infondate.
Appare opportuno premettere che non risultano affatto
dimostrate –se non in modo apodittico e generico– la
concretezza e l’attualità dell’interesse all’accesso, visto
che il procedimento cui si riferisce il parere legale si è
concluso per scelta autonoma della stessa ricorrente
attraverso la rinuncia, dopo la comunicazione del preavviso
di rigetto trasmessa dal Comune, all’originario intervento
edilizio, per il quale era stato richiesto un permesso di
costruire; la successiva presentazione di una s.c.i.a. per
la realizzazione di un intervento avente differenti
caratteristiche quali-quantitative non appare idonea a
riattivare il pregresso e oramai concluso procedimento
edilizio avviato con la richiesta di permesso di costruire,
considerata l’alternatività tra gli stessi.
3.2. In ogni caso, le ragioni poste alla base del diniego di
accesso al parere legale, fondate sulla sua natura di “documento
interno riservato, prodromico anche ad una eventuale difesa
in giudizio”, per quanto stringate, risultano puntuali e
satisfattive, anche alla luce delle peculiarità del caso di
specie.
Difatti, va dapprima sottolineato come il predetto parere
legale non sia stato affatto richiamato esplicitamente nel
provvedimento adottato dall’Amministrazione, comunque dotato
di una specifica ed esaustiva motivazione, che ha posto in
grado la ricorrente di percepire le ragioni del diniego
tanto da indurla a ritirare la richiesta originaria (cfr.
all. 2 al ricorso); da ciò si deduce, quantomeno in via
presuntiva, l’intenzione degli Uffici comunali di tenere
riservato il parere legale e non utilizzarlo per rafforzare
l’apparato motivazionale posto alla base del preavviso di
diniego del permesso di costruire. L’assenza negli atti del
procedimento di un diretto riferimento al parere rende molto
dubbia la sua natura di atto endoprocedimentale e quindi la
sua valenza istruttoria (sull’accessibilità dei soli pareri
posti alla base del provvedimento finale, laddove
costituiscano parte integrante della motivazione: Consiglio
di Stato, V, 23.06.2011, n. 3812; TAR Lombardia, Milano, II,
18.11.2011, n. 2788).
Inoltre, nell’impugnato diniego si specifica che il parere
risulta essere un documento interno riservato, finalizzato
anche ad una eventuale difesa in giudizio del Comune, con
ciò chiarendosi le effettive intenzioni che hanno indotto
l’Amministrazione all’acquisizione del predetto parere.
Del resto, il principio della riservatezza della consulenza
legale, che dovrebbe garantire all’Amministrazione la
possibilità di predisporre la propria strategia difensiva,
in ordine ad un lite che, pur non essendo ancora in atto,
può considerarsi quanto meno potenziale, si pone non come
eccezione alla regola dell’accesso, e dunque, di stretta
interpretazione, bensì come disciplina rispondente ai valori
sottesi all’art. 24 Cost., in modo da evitare che l’accesso
sia adoperato in modo strumentale e tale da offrire indebiti
vantaggi ad una delle parti in giudizio (cfr. Consiglio di
Stato, IV, 18.10.2016, n. 4338).
Quindi il parere legale deve essere osteso soltanto laddove
abbia con certezza una funzione endoprocedimentale e
istruttoria, perché correlato ad un procedimento
amministrativo che si conclude con un provvedimento ad esso
collegato, mentre se lo stesso è reso allo scopo di definire
una strategia difensiva, anche in vista di una lite
potenziale, ben può essere ritenuto inaccessibile
dall’Amministrazione (cfr. Consiglio di Stato, IV,
18.10.2016, n. 4338).
Nella fattispecie di cui al presente contenzioso, pertanto,
appare giustificato il diniego di accesso al parere legale
opposto dal Comune alla società ricorrente.
3.3. Di conseguenza, le suesposte censure non sono
meritevoli di accoglimento.
4. In conclusione, il ricorso deve essere respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 07.06.2017 n. 1293 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
sede di esame della istanza di accertamento di conformità
proposta ai sensi dell’art. 36 del testo unico n. 380 del
2001, il Comune deve effettuare non solo gli accertamenti
espressamente previsti dal medesimo art. 36, ma anche quelli
–logicamente antecedenti e giuridicamente
rilevanti– previsti dagli articoli 11 e 12 del medesimo
testo unico.
Tra le disposizioni applicabili in tema di istanze in
materia edilizia, vi è l’art. 11, comma 1, del testo unico,
per il quale «il permesso di costruire è rilasciato al
permesso di costruire o a chi abbia titolo per richiederlo».
Tale regola riguarda non solo le istanze volte a realizzare
nuovi edifici, ma anche quelle volte alla sanatoria, a
qualsiasi titolo, di un immobile realizzato sine titulo.
L’interpretazione estensiva dell’art. 11, comma 1, del testo
unico si giustifica per la natura stessa dell’accertamento
di conformità (ovvero del condono straordinario).
La sua ratio corrisponde a quella dell’art. 4 della legge n.
10 del 1977.
Come rilevato dalla pacifica giurisprudenza, in sede di rilascio del titolo edilizio (sia esso
la concessione, ovvero il permesso), «il Comune è tenuto a
verificare la legittimazione soggettiva del richiedente, con
il solo limite di non poter procedere d’ufficio ad indagini
su profili che non appaiono controversi»: il Comune non deve
effettuare un «definitivo accertamento di eventualmente confliggenti posizioni di diritto soggettivo, demandato alla
sede naturale della risoluzione di tali conflitti, cioè alla
giurisdizione ordinaria».
---------------
7.1. Contrariamente a quanto è stato dedotto dalle
interessate, in sede di esame della istanza di accertamento
di conformità proposta ai sensi dell’art. 36 del testo unico
n. 380 del 2001, il Comune deve effettuare non solo gli
accertamenti espressamente previsti dal medesimo art. 36, ma
anche quelli –logicamente antecedenti e giuridicamente
rilevanti– previsti dagli articoli 11 e 12 del medesimo
testo unico.
Tra le disposizioni applicabili in tema di istanze in
materia edilizia, vi è l’art. 11, comma 1, del testo unico,
per il quale «il permesso di costruire è rilasciato al
permesso di costruire o a chi abbia titolo per richiederlo».
Tale regola riguarda non solo le istanze volte a realizzare
nuovi edifici, ma anche quelle volte alla sanatoria, a
qualsiasi titolo, di un immobile realizzato sine titulo.
L’interpretazione estensiva dell’art. 11, comma 1, del testo
unico si giustifica per la natura stessa dell’accertamento
di conformità (ovvero del condono straordinario).
La sua ratio corrisponde a quella dell’art. 4 della legge n.
10 del 1977.
Come rilevato dalla pacifica giurisprudenza (Cons. Stato,
Sez. IV, 25.11.2008, n. 5811; Sez. V, 11.03.2001,
n. 1507), in sede di rilascio del titolo edilizio (sia esso
la concessione, ovvero il permesso), «il Comune è tenuto a
verificare la legittimazione soggettiva del richiedente, con
il solo limite di non poter procedere d’ufficio ad indagini
su profili che non appaiono controversi»: il Comune non deve
effettuare un «definitivo accertamento di eventualmente confliggenti posizioni di diritto soggettivo, demandato alla
sede naturale della risoluzione di tali conflitti, cioè alla
giurisdizione ordinaria».
Pertanto, il Comune non poteva che attribuire rilevanza alla
opposizione del signor Fu., che nel corso del procedimento
ha fornito una documentazione tale da far ritenere
ragionevole la sussistenza della sua legittimazione ad
opporsi anche all’accertamento di conformità.
Poiché il provvedimento impugnato non doveva risolvere il
conflitto venutosi a verificare tra le ricorrenti ed il
signor Fu., ma doveva unicamente prendere atto della
opposizione di quest’ultimo, adeguatamente motivata, il
contestato diniego risulta adeguatamente istruito e motivato
(e non si può nella presente sede giurisdizionale effettuare
l’indagine sulla effettiva titolarità del bene, dovendosi
unicamente verificare se l’atto impugnato sia legittimo)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 05.06.2017 n. 521 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Ostensione dell’offerta nella parte in cui contiene
informazioni che costituiscano segreti tecnici o
commerciali.
---------------
•
Accesso ai documenti – Contratti della Pubblica
amministrazione – Esclusione relativa – Art. 53, comma 5,
lett. a, d.lgs. n. 50 del 2016 - Informazioni che
costituiscano segreti tecnici o commerciali – Condizione.
•
Accesso ai
documenti – Contratti della Pubblica amministrazione –
Esclusione relativa – Art. 53, comma 5, lett. a, d.lgs. n.
50 del 2016 – Limiti – Prevalenza della difesa in giudizio –
Decorso del termine per impugnare l’aggiudicazione –
Irrilevanza ex se.
•
L’art. 53, comma 5, lett. a), d.lgs. 18.04.2016,
n. 50 –che disciplina i casi di esclusione “relativa”
all’accesso ai documenti di gara– non fa riferimento
all’offerta nel suo complesso, che in linea di principio è
accessibile, ma soltanto alla parte di essa che contiene
informazioni che costituiscano segreti tecnici o
commerciali, parti che devono essere indicate, motivate e
comprovate da una espressa dichiarazione dell’offerente,
contenuta nell’offerta stessa (1).
•
Il divieto di accesso ai documenti di gara,
previsto dalla lett. a) del comma 5 dell’art. 53, d.lgs.
18.04.2016, n. 50, non è assoluto, essendo infatti
consentito, dal successivo comma 6, l’accesso al concorrente
che lo chieda in vista della difesa in giudizio dei propri
interessi in relazione alla procedura di affidamento del
contratto nell’ambito della quale viene formulata la
richiesta di accesso, senza che tale possibilità venga meno
a seguito del decorso del termine utile per intraprendere
azioni giurisdizionali volte alla contestazione dell’esito
della procedura di gara avanti il Tar competente (2).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che tale dichiarazione costituisce un
onere per l’offerente che voglia mantenere riservate e
sottratte all’accesso tali parti dell’offerta. Peraltro tale
manifestazione di volontà è comunque suscettiva di autonomo
e discrezionale apprezzamento da parte della stazione
appaltante sotto il profilo della validità e pertinenza
delle ragioni prospettate a sostegno dell’opposto diniego.
(2) Ad avviso del Tar la tutela impugnatoria ai fini caducatori
(soggetta allo stringente termine decadenziale dimezzato)
non esaurisce lo spettro di forme di difese in giudizio del
concorrente non aggiudicatario, ben potendo, anche nella
stessa sede giurisdizional-amministrativa, azionare
l’autonoma e concorrente tutela risarcitoria nel più ampio
spatium temporis ivi previsto.
Ha aggiunto il tribunale che costituendo la previsione
normativa de qua un’eccezione all’eccezione di esclusione
(relativa) e di conseguente ripristinando il principio
generale espresso dal primo comma dell’art. 53, d.lgs.
18.04.2016, n. 50 (in linea con un univoco trend normativo
volto ad ampliare in termini quali-quantitativi il valore
della trasparenza amministrativa sia con riguardo alla
generale azione della Pubblica amministrazione, sia nello
specifico settore dei contratti pubblici), della stessa deve
esser data un’opzione ermeneutica non restrittivo-limitativa,
ma al contrario ampliativo-estensiva, nel senso appunto di
ricondurre al concetto di “difesa in giudizio” degli
interessi del concorrente, in relazione alla procedura di
affidamento del contratto nell’ambito del quale viene
formulata la richiesta di accesso, come comprensiva di ogni
forma di tutela delle proprie posizioni giuridiche.
In altri termini, se l’accesso è diritto dell’interessato
ammesso in via generale dalla norma della l. 07.08.1990, n.
241, le compressioni di cui ai commi 2 e 5 dell’art. 53 del
Codice rappresentano norme speciali e, comunque,
eccezionali, da interpretarsi in modo restrittivo
(attenendosi a quanto tassativamente ed espressamente
contenuto in esse); mentre le deroghe a tali eccezioni,
contenute nel comma 6 di tale ultima disposizione,
consentendo una riespansione e riaffermazione del diritto
generalmente riconosciuto nel nostro ordinamento di accedere
agli atti, possono ben essere considerate “eccezioni
all’eccezione” e, dunque, nuovamente regola (TAR
Valle d’Aosta,
sentenza 05.06.2017 n. 34
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Pur
nel nuovo sistema introdotto dagli artt. 2 e 3, l. n. 241
del 1990, il silenzio serbato dall'Amministrazione
sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica di
cui all'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di atto
tacito di reiezione dell'istanza (e quindi di
silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto).
Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si
forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato
dall'interessato in sede giurisdizionale nel prescritto
termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua
di un comune provvedimento, senza che possano ravvisarsi in
esso i vizi formali propri degli atti, quali i difetti di
procedura o la mancanza di motivazione, con la conseguenza
che il predetto provvedimento, in quanto tacito, è già di
per sé privo di motivazione ed impugnabile non per difetto
di motivazione, bensì per il suo contenuto di rigetto.
Pertanto, l'ordinamento, a seguito della presentazione
dell'istanza di accertamento di conformità, ai sensi
dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, non prevede alcun
obbligo dell'Amministrazione di pronunciarsi con un
provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato
sulla predetta istanza come rifiuto della stessa.
---------------
Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato.
Ed invero, in relazione ai primi due motivi di
ricorso, concernenti l’assunta carenza di motivazione e la
violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990, deve
richiamarsi il costante orientamento della giurisprudenza
amministrativa, per il quale: “Pur nel nuovo sistema
introdotto dagli artt. 2 e 3, l. n. 241 del 1990, il
silenzio serbato dall'Amministrazione sull'istanza di
accertamento di conformità urbanistica di cui all'art. 36,
d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di atto tacito di
reiezione dell'istanza (e quindi di silenzio-significativo e
non di silenzio-rifiuto). Pertanto, una volta decorso il
termine di 60 giorni, si forma il silenzio-diniego, che può
essere impugnato dall'interessato in sede giurisdizionale
nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla
stessa stregua di un comune provvedimento, senza che possano
ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali i
difetti di procedura o la mancanza di motivazione, con la
conseguenza che il predetto provvedimento, in quanto tacito,
è già di per sé privo di motivazione ed impugnabile non per
difetto di motivazione, bensì per il suo contenuto di
rigetto. Pertanto, l'ordinamento, a seguito della
presentazione dell'istanza di accertamento di conformità, ai
sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, non prevede
alcun obbligo dell'Amministrazione di pronunciarsi con un
provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato
sulla predetta istanza come rifiuto della stessa” (cfr.,
fra le tante, TAR Campania, sez. III, 22.08.2016, n. 4088)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 01.06.2017 n. 1231 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' del tutto inconciliabile con la finalità
agricola, e non può essere ammissibile, la realizzazione in
area agricola di opere di battitura del terreno, riporto di
sabbia e di materiali inerti con asfaltatura per la
realizzazione di una pavimentazione per uno spessore di
circa 50 cm.
La realizzazione del piazzale-deposito altera lo stato dei
luoghi e costituisce un intervento di permanente
trasformazione edilizia e urbanistica del territorio
disciplinato dall'art. 3, d.P.R. n. 380 del 2001 che,
essendo subordinato al permesso di costruire, deve
necessariamente rispettare le tipologie e le destinazioni
d'uso funzionali consentite per la zona agricola.
---------------
Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato.
...
Riguardo, invece, al terzo motivo di diritto, l’opera
di asfaltatura è stata realizzata su area agricola.
In proposito, riguardo ad altre fattispecie analoghe a
quella in questione la realizzazione di un parcheggio
scoperto è stata riconosciuta assolutamente fuori dalle
ipotesi di legittima utilizzazione che il proprietario
poteva fare del proprio terreno ed è stato, in particolare,
affermato che: “E' del tutto inconciliabile con la
finalità agricola, e non può essere ammissibile, la
realizzazione in area agricola di opere di battitura del
terreno, riporto di sabbia e di materiali inerti con
asfaltatura per la realizzazione di una pavimentazione per
uno spessore di circa 50 cm. La realizzazione del
piazzale-deposito altera lo stato dei luoghi e costituisce
un intervento di permanente trasformazione edilizia e
urbanistica del territorio disciplinato dall'art. 3, d.P.R.
n. 380 del 2001 che, essendo subordinato al permesso di
costruire, deve necessariamente rispettare le tipologie e le
destinazioni d'uso funzionali consentite per la zona
agricola” (cfr. TAR Campania, sez. VIII, 10.03.2016, n.
1397; 07.11.2016, n. 5116)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 01.06.2017 n. 1231 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell'art. 9, comma 1, l. 24.03.1989, n.
122 i proprietari di immobili possono realizzare, nei locali
siti al piano terreno dei fabbricati, parcheggi da destinare
a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in
deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi
vigenti.
Peraltro condizione essenziale per l'applicazione della
succitata normativa è che si tratti di parcheggi «pertinenziali»,
nel senso che devono essere al servizio di singole unità
immobiliari e fruibili solo da chi si trova in un
determinato rapporto con tali unità immobiliari, che si può
inverare nella «residenza» e può pure presupporre una
relazione di pertinenzialità materiale tale, cioè, da
evocare un rapporto d'immediata contiguità fisica tra il
fabbricato principale e l'area asservita.
---------------
Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato.
...
Il Collegio condivide integralmente tale orientamento,
risultando, pertanto, infondato pure il terzo motivo di
gravame, anche in considerazione dell’insussistenza del
vincolo giuridico-pertinenziale.
“Ai sensi dell'art. 9, comma 1, l. 24.03.1989, n. 122 i
proprietari di immobili possono realizzare, nei locali siti
al piano terreno dei fabbricati, parcheggi da destinare a
pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga
agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi
vigenti; peraltro condizione essenziale per l'applicazione
della succitata normativa è che si tratti di parcheggi «pertinenziali»,
nel senso che devono essere al servizio di singole unità
immobiliari e fruibili solo da chi si trova in un
determinato rapporto con tali unità immobiliari, che si può
inverare nella «residenza» e può pure presupporre una
relazione di pertinenzialità materiale tale, cioè, da
evocare un rapporto d'immediata contiguità fisica tra il
fabbricato principale e l'area asservita” (Cons. Stato,
sez. IV, 23.05.2016, n. 2116).
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va
respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 01.06.2017 n. 1231 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Allo
scopo di stabilire se un atto amministrativo sia
meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di
conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente
lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se
l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova
istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente
confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la
cui adozione sia stata preceduta da un riesame della
situazione che aveva condotto al precedente provvedimento,
giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento
istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli
interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto
e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata,
può dare luogo a un atto propriamente di conferma, in grado,
come tale, di costituire un provvedimento diverso dal
precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando
l'amministrazione, a fronte di un'istanza di riesame, si
limita a dichiararne l'esistenza di un suo precedente
provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e
senza una nuova motivazione.
---------------
A questo proposito, va ricordata la costante giurisprudenza
elaborata in tema di atto di conferma.
Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia
meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di
conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente
lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se
l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova
istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente
confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la
cui adozione sia stata preceduta da un riesame della
situazione che aveva condotto al precedente provvedimento,
giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento
istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli
interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto
e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata,
può dare luogo a un atto propriamente di conferma, in grado,
come tale, di costituire un provvedimento diverso dal
precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando
l'amministrazione, a fronte di un'istanza di riesame, si
limita a dichiararne l'esistenza di un suo precedente
provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e
senza una nuova motivazione (cfr. per tutte Cons. Stato,
sez. IV, 14.04.2014, n. 1805; sez. IV, 12.02.2015, n.758;
sez. IV, 29.02.2016, n. 812)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 30.05.2017 n. 2564 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza è monolitica nell’affermare che il Comune in
sede di istruttoria per il rilascio di un titolo edilizio
non è chiamato a svolgere accertamenti complessi, dovendo
limitarsi a verificare la sussistenza di un titolo
legittimante, posto che l’autorizzazione viene emanata
facendo comunque salvi i diritti dei terzi.
Dall’accertamento dell’esistenza di eventuali fattori
limitativi, preclusivi o estintivi dello ius aedificandi o
della piena disponibilità dei beni oggetto dell’intervento
consegue per l’amministrazione il dovere di adottare i
provvedimenti volti al ripristino della legalità violata. La
verifica dell'esistenza di un idoneo titolo sul bene oggetto
della richiesta avviene mediante attività che non è diretta
a risolvere i conflitti tra i privati ma ad accertare il
requisito della legittimazione soggettiva del richiedente.
Del resto secondo condivisa giurisprudenza
“l’Amministrazione non può agire in spregio dei principi che
tutelano la proprietà privata nei confronti dell’azione
amministrativa: principi che sono sanciti dalla
Costituzione, ma ormai presidiati anche da un consistente
corpus giurisprudenziale della Corte europea dei diritti
dell’uomo; e che hanno anche un impatto sui profili
sostanziali del governo e della gestione del territorio.
Ragionare diversamente significherebbe non salvaguardare,
bensì pregiudicare i principi di buon andamento e del giusto
procedimento, dovendosi aver riguardo alle fondamentali
garanzie della proprietà. Ed anche il principio di
conservazione degli atti si rivela recessivo nella specie,
mancando il presupposto fondamentale della legittimazione,
neppure sanato a posteriori.
E parimenti recessivo si rivela -in concreto- il principio
dell’affidamento”.
---------------
Tali principi ancor più valgono con riferimento alla
denuncia/segnalazione di inizio attività, che è un atto
soggettivamente ed oggettivamente privato, uno strumento di
massima semplificazione quale manifestazione di autonomia
privata con cui l'interessato certifica la sussistenza dei
presupposti in fatto ed in diritto allegati a presupposto
del legittimo esercizio dell'attività segnalata alla P.A.
Presupposto indefettibile perché una DIA/SCIA possa essere
produttiva di effetti è la completezza e la veridicità delle
dichiarazioni contenute nell'autocertificazione, in presenza
di una dichiarazione inesatta o incompleta
all'Amministrazione spetta comunque il potere di inibire
l'attività dichiarata.
La Sezione in recente pronuncia
ha richiamato, condividendolo, l’orientamento consolidato
della giurisprudenza per cui “non sono evocabili i principi
a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di
autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione
dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in
cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine
dei presupposti per concludere favorevolmente il
procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d'ufficio di un titolo abilitativo edilizio,
dovuto a fatto dell'interessato (come nel caso in esame),
non necessita, peraltro, di un'espressa e specifica
motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo
nell'interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica e in considerazione che le
affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso
del tempo sono tutte imperniate sulla tutela
dell’affidamento del privato, ossia una situazione qui non sussistente,
stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al
Comune, dovuto proprio a fatto del privato”.
---------------
8.2. – Da quanto appena evidenziato consegue che i
provvedimenti adottati dal Comune ed oggetto di gravame
assumono i caratteri dell’atto dovuto.
La denunziata violazione delle regole e dei principi che
governano l’esercizio del potere di autotutela ed il
connesso principio dell’affidamento del privato, non appare
meritevole di positiva delibazione.
Sia i precedenti proprietari nell’istanza di accertamento di
conformità, che la ricorrente nella SCIA hanno, infatti,
dichiarato l’assenza della lesione dei diritti dei terzi.
Tali dichiarazioni sono risultate non rispondenti ai
contenuti della produzione documentale.
In simili casi anche l’attuale formulazione dell’art. 19 L.
241/1990, frutto di recenti interventi nel senso della
liberalizzazione, al comma 6-bis L. 241/1990, consente al
Comune di esercitare i propri poteri sanzionatori,
prevedendo che «restano altresì ferme le disposizioni
relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia,
alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dalle
leggi regionali».
La giurisprudenza è monolitica nell’affermare che il Comune
in sede di istruttoria per il rilascio di un titolo edilizio
non è chiamato a svolgere accertamenti complessi, dovendo
limitarsi a verificare la sussistenza di un titolo
legittimante, posto che l’autorizzazione viene emanata
facendo comunque salvi i diritti dei terzi (ex multis Cons.
Stato, sez. IV, sent, 5587 del 09.12.2015 e apre n. 4571 del
12.12.2011).
Dall’accertamento dell’esistenza di eventuali fattori
limitativi, preclusivi o estintivi dello ius aedificandi o
della piena disponibilità dei beni oggetto dell’intervento
consegue per l’amministrazione il dovere di adottare i
provvedimenti volti al ripristino della legalità violata. La
verifica dell'esistenza di un idoneo titolo sul bene oggetto
della richiesta avviene mediante attività che non è diretta
a risolvere i conflitti tra i privati ma ad accertare il
requisito della legittimazione soggettiva del richiedente
(TAR Sicilia, sez. III, sent. 100 del 13.01.2017).
Del resto secondo condivisa giurisprudenza
“l’Amministrazione non può agire in spregio dei principi che
tutelano la proprietà privata nei confronti dell’azione
amministrativa: principi che sono sanciti dalla
Costituzione, ma ormai presidiati anche da un consistente
corpus giurisprudenziale della Corte europea dei diritti
dell’uomo; e che hanno anche un impatto sui profili
sostanziali del governo e della gestione del territorio.
Ragionare diversamente significherebbe non salvaguardare,
bensì pregiudicare i principi di buon andamento e del giusto
procedimento, dovendosi aver riguardo alle fondamentali
garanzie della proprietà. Ed anche il principio di
conservazione degli atti si rivela recessivo nella specie,
mancando il presupposto fondamentale della legittimazione,
neppure sanato a posteriori.
E parimenti recessivo si rivela -in concreto- il principio
dell’affidamento” (TAR Lazio, sez. II-bis, sent. 1141
del 02.02.2012).
8.3. - Tali principi ancor più valgono con riferimento alla
denuncia/segnalazione di inizio attività, che è un atto
soggettivamente ed oggettivamente privato, uno strumento di
massima semplificazione quale manifestazione di autonomia
privata con cui l'interessato certifica la sussistenza dei
presupposti in fatto ed in diritto allegati a presupposto
del legittimo esercizio dell'attività segnalata alla P.A.
Presupposto indefettibile perché una DIA/SCIA possa essere
produttiva di effetti è la completezza e la veridicità delle
dichiarazioni contenute nell'autocertificazione, in presenza
di una dichiarazione inesatta o incompleta
all'Amministrazione spetta comunque il potere di inibire
l'attività dichiarata.
La Sezione in recente pronuncia (TAR Bari, sent. 96/2017)
ha richiamato, condividendolo, l’orientamento consolidato
della giurisprudenza per cui “non sono evocabili i principi
a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di
autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione
dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in
cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine
dei presupposti per concludere favorevolmente il
procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d'ufficio di un titolo abilitativo edilizio,
dovuto a fatto dell'interessato (come nel caso in esame),
non necessita, peraltro, di un'espressa e specifica
motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo
nell'interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica (da ultimo, Consiglio di Stato, sez.
V, 08.11.2012 n. 5691; Consiglio di Stato, sez. IV, 30.07.2012 n. 4300) e in considerazione che le affermazioni
miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono
tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato
(si veda, ad esempio, Consiglio di Stato, sez. I, 25.05.2012 n. 3060), ossia una situazione qui non sussistente,
stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al
Comune, dovuto proprio a fatto del privato” (ex multis, da
ultimo, TAR Bari, sez. III, sent. 222 del 09.03.2017, TAR
Campania, sez. IV, sent. 5726, del 13.12.2016).
9. - Dalle considerazioni che precedono discende anche il
rigetto delle censure articolate avverso la successiva
ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi, in quanto
deve ritenersi provvedimento consequenziale rigidamente
vincolato. L'interesse pubblico al ripristino dello stato
dei luoghi è, infatti, ‘in re ipsa’.
Né può ritenersi legittimamente invocata l’applicazione
dell’art. 38 d.p.r. 380/2001. E’ sufficiente in proposito
rilevare che la peculiarità dell’art. 38 è giustificata
essenzialmente dalla necessità di tutela dell’affidamento
del soggetto che ha edificato in conformità ad un titolo
rivelatosi poi illegittimo. Ma si è già diffusamente
argomentato sull’insussistenza, nella vicenda per cui è
causa, di alcun legittimo affidamento tutelabile in capo
alla ricorrente.
10. – In base alle considerazioni esposte il ricorso va
rigettato
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 30.05.2017 n. 560 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Impugnazione immediata dell’ammissione di altro concorrente
o unitamente all'aggiudicazione.
--------------
Processo amministrativo – Rito appalti – Rito
superaccelerato – Impugnazione immediata ammissione di altro
concorrente – Presupposto – Individuazione – Mancata
pubblicità ex art. 29, d.lgs. n. 50 del 2016 – Impugnazione
dell’ammissione unitamente all’aggiudicazione.
L'onere di immediata impugnazione
del provvedimento di ammissione ad una gara d'appalto ai
sensi dell’art. 120, comma 2 bis, c.p.a. risulta esigibile
solo a fronte della contestuale operatività della
disposizione che consente l’immediata conoscenza di tale
ammissione da parte delle imprese partecipanti e,
segnatamente, dell’art. 29, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50
(pubblicazione sul profilo del committente nella sezione
“Amministrazione trasparente”), in mancanza della quale tale
ammissione deve essere impugnata unitamente
all’aggiudicazione (1).
--------------
(1)
Ha chiarito il Tar che in difetto del contestuale
funzionamento delle regole che assicurano la pubblicità e la
comunicazione dei provvedimenti di cui si introduce l’onere
di immediata impugnazione -che devono, perciò, intendersi
legate da un vincolo funzionale inscindibile- la relativa
prescrizione processuale si rivela del tutto inattuabile,
per la mancanza del presupposto logico della sua operatività
e, cioè, la predisposizione di un apparato regolativo che
garantisca la tempestiva informazione degli interessati
circa il contenuto del provvedimento da gravare nel
ristretto termine di decadenza ivi stabilito.
Una volta esclusa l’applicazione del nuovo rito
superaccelerato di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a.,
trova applicazione il costante orientamento
giurisprudenziale, formatosi prima dell’entrata in vigore
del nuovo Codice dei contratti pubblici, che nega valenza
procedimentale autonoma all’atto di ammissione alla gara e
che ne ammette l’impugnazione solo unitamente al
provvedimento di aggiudicazione (TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 29.05.2017 n. 2843
- commento tratto da link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini della qualificazione di una strada come vicinale
pubblica, occorre avere riguardo alle sue condizioni
effettive, in quanto una strada può rientrare in tale
categoria solo qualora rilevino il passaggio esercitato "iure servitutis pubblicae" da una collettività
di persone appartenenti a un gruppo territoriale, la
concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di
carattere generale, anche per il collegamento con la
pubblica via, e un titolo valido a sorreggere l'affermazione
del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi
nella protrazione dell'uso da tempo immemorabile.
L'iscrizione della strada nell'elenco delle strade vicinali
di uso pubblico costituisce presunzione "iuris tantum",
superabile con la prova contraria, che escluda l'esistenza
di un diritto di uso o di godimento della strada da parte
della collettività.
In disparte ogni problematica in ordine alla giurisdizione
in ipotesi di contestazione, resta fermo l'orientamento
della giurisprudenza di legittimità secondo cui "l'iscrizione di una
strada nell'elenco formato dalla P.A. delle vie gravate da
uso pubblico non ha natura costitutiva, ma è dichiarativa
della pretesa della P.A. La stessa iscrizione pone in essere
una mera presunzione "iuris tantum" di uso pubblico,
superabile con la prova dell'inesistenza di un tale diritto
di godimento da parte della collettività.".
---------------
L'assoggettamento ad uso pubblico di una strada privata può
derivare, oltre che dalla volontà del proprietario e dal
mutamento della situazione dei luoghi, con conseguente
inserimento della stessa nella rete viaria cittadina, anche
da un immemorabile uso pubblico, inteso come comportamento
della collettività contrassegnato dalla convinzione, pur
essa palesata da una situazione dei luoghi che non consente
di distinguere la strada in questione da una qualsiasi altra
strada della rete viaria pubblica, di esercitare il diritto
di uso della strada.
---------------
7. Passando ai motivi del presente appello, si rileva che
con il primo motivo il Consorzio sostiene che, costituendo
il Consorzio stradale permanente degli utenti della rete
viaria del centro turistico di Marsia, il Comune di
Tagliacozzo avrebbe violato la disposizione dell’art. 14
della legge n. 126/1958, la quale prevedrebbe la
costituzione di un consorzio stradale obbligatorio per la
manutenzione soltanto delle strade vicinali pubbliche e non
invece di quelle pubbliche.
Anche in questo caso si può prescindere dall’eccezione di
inammissibilità per novità della censura, stante la sua
infondatezza.
Infatti nella proposta di deliberazione del Consiglio
comunale n. 26/P del 14.09.2009, è espressamente
affermato che “La disciplina dei consorzi stradali
obbligatori si applica a tutte le strade private aperte al
pubblico transito, a prescindere che si tratti di strade
vicinali o meno; le strade del centro turistico di Marsia, a
prescindere da chi sia il proprietario, sono sicuramente
aperte al pubblico transito; ciò è previsto, tra l’altro,
dall’art. 7 del verbale di conciliazione sottoscritto
innanzi al Commissario Regionale agli Usi Civici dell’Aquila
in data 19.07.1968, Cron. N. 136 (e ribadito, nello stesso
senso, nel verbale di conciliazione in data 01.04.1971, n.
171: “Le strade, i piazzali, i larghi destinati all’uso
collettivo sono soggetti all’uso pubblico di circolazione, a
norma delle leggi in materia, salvi gli oneri della società Marsia e suoi aventi causa per la costruzione, sistemazione
e manutenzione delle strade”), ed è stato di recente
confermato dalla sentenza del TAR dell’Aquila n. 232 del
2003 (divenuta definitiva per non essere stata impugnata da
alcuno); pertanto, anche per esse trovano applicazione le
disposizioni del d.lgs. n. 1446/1918 e dell’art. 14 della
legge n. 126/1958”.
Inoltre, secondo il consolidato orientamento
giurisprudenziale (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 19.03.2015, n. 1515), ai fini della qualificazione di una
strada come vicinale pubblica, occorre avere riguardo alle
sue condizioni effettive, in quanto una strada può rientrare
in tale categoria solo qualora rilevino il passaggio
esercitato "iure servitutis pubblicae" da una collettività
di persone appartenenti a un gruppo territoriale, la
concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di
carattere generale, anche per il collegamento con la
pubblica via, e un titolo valido a sorreggere l'affermazione
del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi
nella protrazione dell'uso da tempo immemorabile.
L'iscrizione della strada nell'elenco delle strade vicinali
di uso pubblico costituisce presunzione "iuris tantum",
superabile con la prova contraria, che escluda l'esistenza
di un diritto di uso o di godimento della strada da parte
della collettività.
In disparte ogni problematica in ordine alla giurisdizione
in ipotesi di contestazione, resta fermo l'orientamento
della giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., Sez. Unite,
07.11.1994, n. 9206) secondo cui "l'iscrizione di una
strada nell'elenco formato dalla P.A. delle vie gravate da
uso pubblico non ha natura costitutiva, ma è dichiarativa
della pretesa della P.A. La stessa iscrizione pone in essere
una mera presunzione "iuris tantum" di uso pubblico,
superabile con la prova dell'inesistenza di un tale diritto
di godimento da parte della collettività.".
8. Inoltre, questa Sezione (sentenza 22.12.2014, n.
6197), confermando la sentenza n. 230 del 2003 del TAR
per l’Abruzzo, ha definitivamente accertato la presenza di
un immemorabile uso pubblico delle strade e delle piazze
ricadenti all’interno del centro turistico di Marsia.
Ciò conferma risolutivamente che sussistevano i presupposti
affinché, ai sensi dell’art. 14 L. n. 126/1958, fosse
costituito dal Comunità di Tagliacozzo il consorzio stradale
permanente degli utenti della rete viaria del centro
turistico di Marsia.
Come già ricordato, l'assoggettamento ad uso pubblico di una
strada privata può derivare, oltre che dalla volontà del
proprietario e dal mutamento della situazione dei luoghi,
con conseguente inserimento della stessa nella rete viaria
cittadina, anche da un immemorabile uso pubblico, inteso
come comportamento della collettività contrassegnato dalla
convinzione, pur essa palesata da una situazione dei luoghi
che non consente di distinguere la strada in questione da
una qualsiasi altra strada della rete viaria pubblica, di
esercitare il diritto di uso della strada.
In ogni caso, si rileva che nella proposta di deliberazione
del Consiglio comunale n. 26/P del 14.09.2009, è
espressamente affermato (pag. 4) che “Nessuna delle strade
ricomprese nel comprensorio del centro turistico di Marsia
può essere classificata come “strada comunale” ai sensi
della vigente normativa, per cui tutte queste strade
rientrano nella definizione di “strade private” soggette ad
uso pubblico, e come tale soggette alla competenza del
Consorzio stradale che si intende costituire”.
Tali rilievi sono sufficienti a dimostrare la legittimità
degli atti impugnati sotto il profilo denunciato, restando
salve altre ed ulteriori questioni di diritto proprietario
che non sono comunque di competenza di questo plesso
giurisdizionale
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 29.05.2017 n. 2531 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Ai
sensi dell’art. 38, comma 1, lett. i), del D.Lgs. 12/04/2006, n.
163, sono esclusi dalle
procedure di gara per i contratti pubblici quanti “hanno
commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle
norme in materia di contributi previdenziali e
assistenziali, secondo la legislazione italiana o dello
Stato in cui sono stabiliti”.
Costituisce ius receputm che la regolarità contributiva
postulata dalla trascritta norma deve sussistere fin dalla
presentazione dell’offerta e permanere per tutta la durata
della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la
stazione appaltante, restando irrilevanti eventuali
adempimenti tardivi dell’obbligazione contributiva.
Tale principio, già chiaramente espresso dall’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato, 04/05/2012, n. 8, non è
superato dall’articolo 31 (Semplificazioni in materia di DURC), comma 8, del D.L. 21/06/2013, n. 69 (Disposizioni
urgenti per il rilancio dell’economia), convertito con
modificazioni dalla L. 09/08/2013, n. 98, sull’invito alla
regolarizzazione, a norma del quale, ai fini della verifica
per il rilascio del DURC, «in caso di mancanza dei requisiti
per il rilascio di tale documento gli Enti preposti al
rilascio, prima dell'emissione del DURC o dell'annullamento
del documento già rilasciato, invitano l'interessato […] a
regolarizzare la propria posizione entro un termine non
superiore a quindici giorni, indicando analiticamente le
cause della irregolarità».
Ciò è stato recentemente ribadito dall’Adunanza Plenaria di
questo Consiglio di Stato, con le sentenza 29/02/2016, n. 5 e
6, con le quali si è chiarito che anche dopo detto art. 31
non sono consentite regolarizzazioni postume delle posizioni
previdenziali, perché l’impresa dev’essere in regola con
l’assolvimento degli obblighi previdenziali e assistenziali
fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato
per la durata della procedura di aggiudicazione e del
rapporto con la stazione appaltante: sicché rimane
irrilevante l’eventuale adempimento tardivo
dell’obbligazione contributiva, posto che l’invito alla
regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC negativo), già
previsto dall’art. 7, comma 3, del D.M. 24/10/2007 e ora
recepito dall’art. 31 predetto, opera solo nei rapporti tra
impresa ed ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC
chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla
stazione appaltante per la verifica della veridicità
dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1,
lett. i), del Codice dei contratti pubblici ai fini della
partecipazione alla gara d’appalto.
Nessun argomento contrario può trarsi, poi, dall’art. 4 del
D.M. 30/01/2015, recante norme di “Semplificazione in materia
di documento unico di regolarità contributiva (DURC)”.
Come rilevato dalla citata Adunanza Plenaria n. 6 del 2016:
“Appurato, infatti, che a livello di normativa primaria, la
disciplina dell'affidamento degli appalti pubblici non
consente la regolarizzazione postuma della irregolarità
contributiva, deve certamente escludersi che tale forma di
regolarizzazione possa essere stata introdotta da una fonte
di rango regolamentare, quale è il decreto ministeriale 30.01.2015.
È fin troppo evidente che il generale principio di gerarchia
delle fonti normative non permette ad una norma
regolamentare di introdurre una forma di regolarizzazione
incompatibile con la disciplina di rango legislativo”.
---------------
Può, pertanto, procedersi ad esaminare nel merito i due
motivi di gravame che risultano infondati.
In punto di diritto occorre premettere che, ai sensi
dell’art. 38, comma 1, lett. i), del D.Lgs. 12/04/2006, n.
163 (applicabile ratione temporis), sono esclusi dalle
procedure di gara per i contratti pubblici quanti “hanno
commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle
norme in materia di contributi previdenziali e
assistenziali, secondo la legislazione italiana o dello
Stato in cui sono stabiliti”.
Costituisce ius receputm che la regolarità contributiva
postulata dalla trascritta norma deve sussistere fin dalla
presentazione dell’offerta e permanere per tutta la durata
della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la
stazione appaltante, restando irrilevanti eventuali
adempimenti tardivi dell’obbligazione contributiva (cfr. da
ultimo, Cons. Stato, Sez. V, 29/04/2016, n. 1650; Sez. III,
09/03/2016, n. 955).
Tale principio, già chiaramente espresso dall’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato, 04/05/2012, n. 8, non è
superato dall’articolo 31 (Semplificazioni in materia di DURC), comma 8, del D.L. 21/06/2013, n. 69 (Disposizioni
urgenti per il rilancio dell’economia), convertito con
modificazioni dalla L. 09/08/2013, n. 98, sull’invito alla
regolarizzazione, a norma del quale, ai fini della verifica
per il rilascio del DURC, «in caso di mancanza dei requisiti
per il rilascio di tale documento gli Enti preposti al
rilascio, prima dell'emissione del DURC o dell'annullamento
del documento già rilasciato, invitano l'interessato […] a
regolarizzare la propria posizione entro un termine non
superiore a quindici giorni, indicando analiticamente le
cause della irregolarità».
Ciò è stato recentemente ribadito dall’Adunanza Plenaria di
questo Consiglio di Stato, con le sentenza 29/02/2016, n. 5 e
6, con le quali si è chiarito che anche dopo detto art. 31
non sono consentite regolarizzazioni postume delle posizioni
previdenziali, perché l’impresa dev’essere in regola con
l’assolvimento degli obblighi previdenziali e assistenziali
fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato
per la durata della procedura di aggiudicazione e del
rapporto con la stazione appaltante: sicché rimane
irrilevante l’eventuale adempimento tardivo
dell’obbligazione contributiva, posto che l’invito alla
regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC negativo), già
previsto dall’art. 7, comma 3, del D.M. 24/10/2007 e ora
recepito dall’art. 31 predetto, opera solo nei rapporti tra
impresa ed ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC
chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla
stazione appaltante per la verifica della veridicità
dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1,
lett. i), del Codice dei contratti pubblici ai fini della
partecipazione alla gara d’appalto.
Nessun argomento contrario può trarsi, poi, dall’art. 4 del
D.M. 30/01/2015, recante norme di “Semplificazione in materia
di documento unico di regolarità contributiva (DURC)”.
Come rilevato dalla citata Adunanza Plenaria n. 6 del 2016:
“Appurato, infatti, che a livello di normativa primaria, la
disciplina dell'affidamento degli appalti pubblici non
consente la regolarizzazione postuma della irregolarità
contributiva, deve certamente escludersi che tale forma di
regolarizzazione possa essere stata introdotta da una fonte
di rango regolamentare, quale è il decreto ministeriale 30.01.2015.
È fin troppo evidente che il generale principio di gerarchia
delle fonti normative non permette ad una norma
regolamentare di introdurre una forma di regolarizzazione
incompatibile con la disciplina di rango legislativo”.
I principi di diritto poc’anzi espressi si attagliano
perfettamente alla fattispecie controversa, nella quale le
stazioni appaltanti, in sede di verifica
dell’autodichiarazione resa dal concorrente, hanno appurato
l’esistenza di un’irregolarità contributiva a carico della
R.C.B.
Al riguardo giova puntualizzare che nessuna rilevanza può
avere il fatto che l’autocertificazione risalga al settembre
2012 e la verifica sia stata compiuta nel 2014, in quanto,
come sopra osservato, la regolarità contributiva deve
sussistere continuativamente dal momento della presentazione
della domanda di partecipazione sino alla conclusione del
rapporto
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 29.05.2017 n. 2529 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Dall’esclusione dalla gara consegue
automaticamente l’escussione della cauzione provvisoria,
senza che all’uopo possano rilevare gli stati soggettivi del
concorrente in ordine alle circostanze che hanno determinato
il provvedimento espulsivo, ricollegandosi la detta
escussione soltanto alla mancata prova del possesso dei
requisiti di partecipazione dichiarati con la presentazione
dell'offerta e al conseguente provvedimento di esclusione.
---------------
Ritiene, infine, il Collegio, in linea con un consolidato
orientamento giurisprudenziale, che dall’esclusione dalla
gara consegua automaticamente l’escussione della cauzione
provvisoria, senza che all’uopo possano rilevare gli stati
soggettivi del concorrente in ordine alle circostanze che
hanno determinato il provvedimento espulsivo, ricollegandosi
la detta escussione soltanto alla mancata prova del possesso
dei requisiti di partecipazione dichiarati con la
presentazione dell'offerta e al conseguente provvedimento di
esclusione (cfr, fra le tante, Cons. Stato, Sez. V,
15/03/2017, n. 1172; 13/06/2016, n. 2531; 01/10/2015 n. 4587;
28/04/2014, n. 2201; 16/04/2013, n. 2114; Sez. IV, 19/11/2015,
n. 5280).
La reiezione delle censure sin qui esaminate consente di
prescindere dall’affrontare le restanti doglianze
prospettate, potendo l’impugnata sentenza reggersi sui capi
risultati immuni da vizi.
L’appello va, in definitiva, respinto
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 29.05.2017 n. 2529 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
10-bis della legge n. 241 del 1990 si applica ai
procedimenti che l’Amministrazione intenda concludere con un
provvedimento che ‘per la prima volta’ rappresenta al
richiedente una o più ragioni impeditive dell’accoglimento
della sua istanza.
La sua ratio è quella di evitare ‘provvedimenti a sorpresa’,
cioè che prospettino questioni di fatto o di diritto prima
ignote al richiedente, o comunque da lui non percepibili: il
contraddittorio da instaurare consente di valutare già in
sede amministrativa le argomentazioni dell’interessato sul
se vi siano effettivamente ragioni ostative all’accoglimento
dell’istanza e agevola la deflazione dei ricorsi
giurisdizionali, poiché può avvenire o che l’Amministrazione
condivida le osservazioni o che l’interessato si convinca
della adeguatezza della valutazione dell’Amministrazione e
che non proponga dunque ricorso.
L’art. 10-bis non si applica invece quando sia proposta una
istanza di riesame, volta alla rinnovazione dell’esercizio
del potere, e non prospetti alcuna sopravvenienza.
In tal caso, infatti, si chiede all’Amministrazione di
effettuare una ulteriore valutazione della situazione di
fatto e di diritto già in precedenza valutata e non vi sono
profili che potrebbero comportare una ‘motivazione a
sorpresa’.
Quando l’istanza di riesame è respinta con un atto meramente
confermativo o solo di conferma del precedente atto, sulla
base di una motivazione incentrata sulla immodificabilità
della precedente valutazione, non occorre dunque una
ulteriore interlocuzione procedimentale con l’interessato:
l’Amministrazione, così come in linea di principio non ha
l’obbligo di prendere in considerazione l’istanza di
riesame, così non ha l’obbligo di inviare la comunicazione
prevista dall’art. 10-bis, se intende respingerla perché
ritiene immodificabile la precedente valutazione.
---------------
13. Col quarto motivo, è lamentato che le determinazioni di
‘riesame negativo’ della Soprintendenza sarebbero
illegittime, perché –in violazione dell’art. 10-bis della
legge n. 241 del 1990, nel frattempo entrato in vigore– la
Soprintendenza non avrebbe comunicato preventivamente le
ragioni di rigetto della istanza.
L’appellante ha richiamato molteplici precedenti
giurisprudenziali, riguardanti la ratio dell’art. 10-bis e
il suo ambito di applicazione.
Ritiene la Sezione che anche tale censura è infondata, per
le seguenti considerazioni.
13.1. In primo luogo, il successivo atto negativo della
Soprintendenza va considerato meramente confermativo del
precedente parere.
Infatti, la Soprintendenza –con una nota sostanzialmente
‘di cortesia’- ancora una volta ha dato atto dell’esistenza
del vincolo disposto dal decreto ministeriale del 24.09.1947, negando la possibilità di esercitare una
discrezionalità contrastante con le esigenze di tutela poste
a sua base, ribadendo il contenuto del precedente parere
negativo e considerando ‘illecita’ una sanatoria che avrebbe
consentito il mantenimento delle ‘alterazioni ambientali’.
13.2. Peraltro, le censure proposte non risultano fondate e
vanno respinte.
L’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 si applica ai
procedimenti che l’Amministrazione intenda concludere con un
provvedimento che ‘per la prima volta’ rappresenta al
richiedente una o più ragioni impeditive dell’accoglimento
della sua istanza.
La sua ratio è quella di evitare ‘provvedimenti a sorpresa’,
cioè che prospettino questioni di fatto o di diritto prima
ignote al richiedente, o comunque da lui non percepibili: il
contraddittorio da instaurare consente di valutare già in
sede amministrativa le argomentazioni dell’interessato sul
se vi siano effettivamente ragioni ostative all’accoglimento
dell’istanza e agevola la deflazione dei ricorsi
giurisdizionali, poiché può avvenire o che l’Amministrazione
condivida le osservazioni o che l’interessato si convinca
della adeguatezza della valutazione dell’Amministrazione e
che non proponga dunque ricorso.
L’art. 10-bis non si applica invece quando sia proposta una
istanza di riesame, volta alla rinnovazione dell’esercizio
del potere, e non prospetti alcuna sopravvenienza.
In tal caso, infatti, si chiede all’Amministrazione di
effettuare una ulteriore valutazione della situazione di
fatto e di diritto già in precedenza valutata e non vi sono
profili che potrebbero comportare una ‘motivazione a
sorpresa’.
Quando l’istanza di riesame è respinta con un atto meramente
confermativo o solo di conferma del precedente atto, sulla
base di una motivazione incentrata sulla immodificabilità
della precedente valutazione, non occorre dunque una
ulteriore interlocuzione procedimentale con l’interessato:
l’Amministrazione, così come in linea di principio non ha
l’obbligo di prendere in considerazione l’istanza di
riesame, così non ha l’obbligo di inviare la comunicazione
prevista dall’art. 10-bis, se intende respingerla perché
ritiene immodificabile la precedente valutazione.
14. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 26.05.2017 n. 2507 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
comunicazione dei motivi ostativi di cui all’art. 10-bis, L.
n. 241/1990, è priva di immediata lesività, attesa la
funzione che le è propria, di consentire alla parte di
partecipare attivamente al procedimento, ed in ipotesi, di
far pervenire l'autorità competente anche ad una diversa
determinazione rispetto a quanto rappresentato nella sede
dell'interlocuzione procedimentale, essendo pertanto
inammissibile la sua autonoma impugnazione.
---------------
Il presente ricorso va dichiarato inammissibile.
Per giurisprudenza pacifica, la comunicazione dei motivi
ostativi di cui all’art. 10-bis, L. n. 241/1990, è infatti
priva di immediata lesività, attesa la funzione che le è
propria, di consentire alla parte di partecipare attivamente
al procedimento, ed in ipotesi, di far pervenire l'autorità
competente anche ad una diversa determinazione rispetto a
quanto rappresentato nella sede dell'interlocuzione
procedimentale, essendo pertanto inammissibile la sua
autonoma impugnazione (TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
01.07.2015 n. 1515, TAR Roma, Lazio, Sez. II, 14.06.2016 n.
6788, Sez. III, 12.04.2012, n. 3359)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 26.05.2017 n. 1188 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Accesso alle offerte di gara e azione incidentale avverso il
diniego del ricorrente e del controinteressato.
---------------
•
Processo amministrativo – Accesso ai documenti – Azione ex
art. 116, comma 2, c.p.a. – soggetto legittimato –
Controinteressato – Esclusione.
•
Accesso ai
documenti – Contratti della Pubblica amministrazione –
Differimento dopo l’aggiudicazione – Art. 53, comma 2,
d.lgs. n. 50 del 2016 – Interpretazione – Differimento del
solo contenuto delle offerte – Documentazione amministrativa
– E’ immediatamente accessibile.
•
La facoltà di azionare la tutela in materia di
accesso ai documenti anche in pendenza di giudizio ex art.
116, comma 2, c.p.a., attesa la finalità istruttoria di tale
strumento processuale, può essere riconosciuta solo alla
parte ricorrente nel giudizio principale e non anche al
controinteressato, stante la natura strumentale rispetto ad
un’azione già incardinata, ferma restando, ovviamente la
possibilità di proporre un autonomo processo di accesso.
•
L'art. 53, comma 2, lett. c), d.lgs. 18.04.2016,
n. 50, secondo cui l'accesso in relazione alle offerte è
differito fino al momento dell’aggiudicazione, deve essere
interpretato nel senso che tale norma si riferisce solamente
al contenuto delle offerte, essendo posta a presidio della
segretezza delle offerte tecnico-economiche, ma non
impedisce l’accesso alla documentazione amministrativa,
relativa ai requisiti soggettivi dei concorrenti, essendo
peraltro la conoscenza di tale documentazione elemento
imprescindibile per l’esercizio del diritto di difesa in
relazione al nuovo sistema delineato dall’art. 120, comma
2-bis, c.p.a., che onera i concorrenti dell’impugnazione
immediata delle ammissioni e delle esclusioni (1).
---------------
(1)
Tar Lazio, sez. III, 28.03.2017, n. 3971.
Il Tar ha anche ricordato l’art. 29, d.lgs. 18.04.2016, n.
50, il quale detta i principi generali sulla trasparenza e
impone la pubblicità di tutti gli atti delle procedure di
affidamento sul sito delle stazioni appaltanti, nella
sezione amministrazione trasparente, e inoltre sulla
piattaforma digitale ANAC e sul sito del Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti, nonché il comma 3 dell’art.
76 (nel testo ante correttivo attualmente vigente) che, in
aggiunta alle pubblicazioni previste dall’art. 29,
stabilisce che debba essere dato “avviso ai concorrenti,
mediante PEC o strumento analogo negli altri Stati membri,
del provvedimento che determina le esclusioni dalla
procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all'esito
della valutazione dei requisiti soggettivi,
economico-finanziari e tecnico-professionali, indicando
l'ufficio o il collegamento informatico ad accesso riservato
dove sono disponibili i relativi atti”; laddove per “atti”
si devono intendere, i verbali di gara relativi alla fase di
ammissione dei concorrenti e la documentazione
amministrativa di cui si è detto sopra utile al fine della
verificazione della sussistenza dei requisiti soggettivi dei
concorrenti (TAR
Veneto, Sez. I,
ordinanza 26.05.2017 n. 512
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
Nel merito, il diniego di accesso alla
documentazione amministrativa opposto
all’Impresa di Costruzioni Ga.Ro. è
illegittimo, non essendo condivisibile l’assunto
dell’Amministrazione secondo cui l’accesso alla
documentazione amministrativa, ai sensi dell’art. 53, comma
2, lett. c), del D.lgs. n. 50 del 2016, è differito fino al
momento dell’aggiudicazione;
Infatti, tale ultima norma si riferisce
solamente al contenuto delle offerte, ed è chiaramente posta
a presidio della segretezza delle offerte
tecnico-economiche, ma non impedisce l’accesso alla
documentazione amministrativa contenuta normalmente nella
busta A, relativa ai requisiti soggettivi dei concorrenti,
essendo peraltro la conoscenza di tale documentazione
elemento imprescindibile per l’esercizio del diritto di
difesa in relazione al nuovo sistema delineato dall’art.
120, comma 2-bis, c.p.a., che onera i concorrenti
dell’impugnazione immediata delle ammissioni e delle
esclusioni;
Giova considerare, inoltre, non solo l’art.
29 del D.lgs. 50/2016, il quale detta i principi generali
sulla trasparenza e impone la pubblicità di tutti gli atti
delle procedure di affidamento sul sito delle stazioni
appaltanti, nella sezione amministrazione trasparente, e
inoltre sulla piattaforma digitale ANAC e sul sito del
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ma anche il
comma 3 dell’art. 76
(nel testo ante correttivo attualmente vigente)
che in aggiunta alle pubblicazioni previste
dall’art. 29, stabilisce che debba essere dato “avviso ai
concorrenti, mediante PEC o strumento analogo negli altri
Stati membri, del provvedimento che determina le esclusioni
dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa
all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi,
economico-finanziari e tecnico-professionali, indicando
l'ufficio o il collegamento informatico ad accesso riservato
dove sono disponibili i relativi atti”; laddove per “atti”
si devono intendere, i verbali di gara relativi alla fase di
ammissione dei concorrenti e la documentazione
amministrativa di cui si è detto sopra utile al fine della
verificazione della sussistenza dei requisiti soggettivi dei
concorrenti;
Ed invero, è proprio il nuovo regime
diversificato di impugnazione previsto dal citato art. 120,
comma 2-bis, del cpa, introdotto nel 2016, che impone una
tale interpretazione, nel senso cioè che l’operatore
economico possa accedere alla documentazione amministrativa
e ai verbali di gara relativi alla fase di ammissione dei
concorrenti, già nella fase iniziale della procedura
selettiva (senza attendere cioè quella finale di
aggiudicazione, come era previsto nel vecchio regime di cui
al D.lgs. n. 163 del 2006) e che il differimento previsto
dall’art. 53, comma 2, lett. c), del D.lgs. n. 50 del 2016
sia ormai limitato alle buste della proposta che contengono
le offerte tecniche e economiche
(cfr. in tal senso, TAR Lazio, sez. III, n. 3971 del
28.03.2017);
D’altro canto, non sussiste alcuna esigenza
di differimento delle richieste di accesso a tale
documentazione amministrativa una volta conclusa la fase
delle ammissioni e delle esclusioni, né verrebbe violata
alcuna esigenza di riservatezza essendo noto il contenuta
della busta contenente la documentazione amministrativa una
volta aperta la stessa, né, quindi, potrebbe in alcun modo
configurarsi alcuna violazione da parte dei pubblici
ufficiali rilevante ai sensi dell’art. 326 c.p., richiamato
dal comma 4 dell’art. 53 del D.lgs. 50/2016;
Pertanto, l’istanza avanzata dalla Ga.Ro. deve essere
accolta e deve essere ordinato all’Amministrazione
resistente di consentire alla stessa l’accesso alla
documentazione amministrativa richiesta relativa alla Fr. e
ai verbali di gara, entro il termine di 15 giorni dalla
comunicazione in via amministrativa della presente ordinanza
ovvero dalla notifica, se antecedente. |
EDILIZIA PRIVATA: Regolamento
unico edilizio, norma salva.
Non sono state accolte dalla Consulta, con
la
sentenza 26.05.2017 n. 125, le
questioni di legittimità costituzionali,
sollevate dalla regione Puglia e dalla
provincia autonoma di Trento, che hanno
promosso due distinti ricorsi, iscritti
rispettivamente ai numeri 5 e 9 del registro
2015, lamentando l'incostituzionalità
dell'art. 17-bis (Regolamento unico
edilizio) del dl 133/2014 (Misure urgenti
per l'apertura dei cantieri, la
realizzazione delle opere pubbliche),
convertito, con modificazioni, dalla legge
n. 164/2014.
La norma impugnata aggiunge il
comma 1-sexies all'art. 4 del dpr n.
380/2001, stabilendo che in sede di
Conferenza unificata il governo, le regioni
e le autonomie locali stipulano accordi o
intese per l'adozione di uno schema di
regolamento edilizio-tipo e che «tali
accordi costituiscono livello essenziale
delle prestazioni, concernenti la tutela
della concorrenza e i diritti civili e
sociali che devono essere garantiti su tutto
il territorio nazionale».
La regione
sosteneva che la disposizione fosse in
contrasto con l'art. 117, commi 2, 3 6, della
Costituzione perché la disciplina in
questione, nelle materie «determinazione dei
livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali» e
«tutela della concorrenza», rientrerebbe
nella competenza statale esclusiva, ma la
norma non andrebbe a individuare una
prestazione da erogare, definendo poi i
livelli strutturali e qualitativi necessari
per soddisfare i diritti. La potestà
regolamentare spetterebbe allo stato solo
nelle materie di legislazione esclusiva: in
questo caso, l'ausilio dello schema di
regolamento-tipo integrerebbe gli estremi di
una fonte regolamentare, invasiva della
potestà riconosciuta alle regioni,
sottolineava la difesa.
Secondo la Corte, la
legge non ha perso la propria competenza
attribuendo a un atto sub-legislativo il
compito di disciplinare una materia affidata
al legislatore statale che, infatti, detta
tutti gli estremi necessari per raggiungere
l'uniformità nazionale in un ambito di
interesse. La scelta di rinviare ad altri
atti l'identificazione delle specifiche
caratteristiche è possibile, come confermano
precedenti sentenze della Consulta. Lo
schema di regolamento-tipo è privo dei
contenuti propri delle fonti regolamentari e
ha solo la funzione di raccordo e
coordinamento meramente tecnico e
redazionale. Fra l'altro, dopo l'intesa, gli
enti locali, adeguandosi al tipo stabilito
in Conferenza, potranno fare interventi in
linea con le peculiarità territoriali grazie
all'esercizio delle potestà regolamentari
loro attribuite in materia edilizia.
Invece
la provincia asseriva che la norma violasse
l'art. 117, comma secondo, lettere e) e m),
della Costituzione, ledendo la potestà
legislativa primaria e la potestà
amministrativa in materia di «urbanistica e
piani regolatori» delle province autonome.
Ma la norma è inapplicabile alle province
autonome perché impedita dalla clausola di
salvaguardia richiamata dall'art. 43-bis del
dl. n. 133/2014 che prevede che «le norme
trovino applicazione nelle Regioni a statuto
speciale e nelle Province autonome
compatibilmente con le norme dei rispettivi
statuti e con le relative norme di
attuazione»
(articolo ItaliaOggi del
27.05.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Corte costituzionale riconduce lo schema
di regolamento edilizio-tipo adottato in sede di conferenza
unificata Stato–Regioni–Enti locali tra i principi
fondamentali del governo del territorio.
---------------
Regolamento edilizio tipo – Accordo in sede di Conferenza
unificata – Questione infondata di costituzionalità.
E’ infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 17-bis del decreto-legge
12.09.2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei
cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la
digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica,
l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa
delle attività produttive), convertito, con modificazioni,
dalla legge 11.11.2014, n. 164, promossa, in riferimento
all’art. 117, secondo, terzo e sesto comma, della
Costituzione nella parte in cui afferma «[i]l Governo, le
regioni e le autonomie locali, in attuazione del principio
di leale collaborazione, concludono in sede di Conferenza
unificata accordi ai sensi dell’articolo 9 del decreto
legislativo 28.08.1997, n. 281, o intese ai sensi
dell’articolo 8 della legge 05.06.2003, n. 131, per
l’adozione di uno schema di regolamento edilizio-tipo, al
fine di semplificare e uniformare le norme e gli
adempimenti. Ai sensi dell’articolo 117, secondo comma,
lettere e) e m), della Costituzione, tali accordi
costituiscono livello essenziale delle prestazioni,
concernenti la tutela della concorrenza e i diritti civili e
sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale. Il regolamento edilizio-tipo, che indica i
requisiti prestazionali degli edifici, con particolare
riguardo alla sicurezza e al risparmio energetico, è
adottato dai comuni nei termini fissati dai suddetti
accordi, comunque entro i termini previsti dall’articolo 2
della legge 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni».
(1)
---------------
(1) I.- Con la sentenza n. 125 del 2017, la Corte
costituzionale ha ritenuto infondate, in riferimento agli
artt. 117, commi secondo, terzo e sesto, della Costituzione,
le questioni di legittimità costituzionale di cui alla
massima sollevate dalla Regione Puglia e quelle analoghe
proposte dalla Provincia autonoma di Trento in relazione
però alle norme di attuazione dello statuto speciale per il
Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti
legislativi statali e leggi regionali e provinciali.
La Regione Puglia, in particolare, aveva impugnato la norma
di legge lamentando in particolare che:
a) la disciplina in esame non rientrerebbe nelle materie «determinazione
dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali» e «tutela della concorrenza»,
di competenza statale esclusiva (art. 117, secondo comma,
lettere e) e m). La disposizione in esame infatti non
individuerebbe una prestazione da erogare, di cui è
necessario definire i livelli strutturali e qualitativi
capaci di soddisfare i diritti civili e sociali tutelati
dalla Costituzione, ma disciplinerebbe una funzione
normativa concernente le modalità di adozione e i contenuti
del regolamento edilizio-tipo;
b) l’intervento legislativo de quo ricadrebbe, invece,
nella materia di competenza concorrente «governo del
territorio», in riferimento alla quale è attribuito al
legislatore statale il potere di dettare i principi
fondamentali della materia in forma di legge e non di
regolamento, come accaduto nel caso di specie. Ne
discenderebbe, secondo la ricorrente, non solo la violazione
dell’art. 117, terzo comma, Cost., ma anche del sesto comma
dello stesso articolo, il quale stabilisce che la potestà
regolamentare spetta allo Stato soltanto nelle materie di
legislazione esclusiva.
II.- La Corte costituzionale, ha ritenuto le questioni non
fondate sulla scorta delle seguenti considerazioni:
c) pur condividendo la doglianza regionale circa la impossibilità
di ricondurre la disciplina in questione alle materie di
competenza statale esclusiva dei «livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali»
e della «tutela della concorrenza», tenuto altresì
conto della irrilevanza della auto-qualificazione
legislativa, la Corte osserva tuttavia che la norma in
questione ha posto un criterio procedurale, di natura
concertativa, finalizzato a semplificare la struttura dei
regolamenti edilizi, anche attraverso la predisposizione di
definizioni uniformi sull’intero territorio nazionale.
La decisione di ricorrere a uno schema “tipo”,
riflettendo tale esigenza unitaria e non frazionabile, viene
pertanto annoverata a pieno titolo tra i principi
fondamentali del governo del territorio e quindi
legittimamente ricompresa nella competenza statale
esclusiva, senza tuttavia pregiudicare la possibilità, per
le singole regioni, di operare nell’ambito dello schema e di
svolgere una funzione di raccordo con gli enti locali
operanti sul loro territorio;
d) è da escludersi che legge statale si sia spogliata della
propria competenza, attribuendo ad un atto sub-legislativo
il compito di disciplinare una materia che l’art. 117, terzo
comma, Cost. affida al legislatore. La disposizione
censurata, infatti, non contiene una autorizzazione “in
bianco”, non omettendo di indicare i soggetti
interessati, l’obiettivo da perseguire, il metodo e gli
adempimenti procedurali necessari a unificare e coordinare
la struttura e il lessico dei regolamenti edilizi locali;
e) è ben possibile che il legislatore rinvii ad atti integrativi
e ad essi affidi «il compito di individuare le
specifiche caratteristiche della fattispecie tecnica […] le
quali necessitano di applicazione uniforme in tutto il
territorio nazionale» e «mal si conciliano con il diretto
contenuto di un atto legislativo» (Corte
cost. sentenza n. 11 del 2014).
Poiché se è ovvio che tali atti, «qualora autonomamente
presi, non possono assurgere al rango di normativa
interposta, altra è la conclusione cui deve giungersi ove
essi vengano strettamente ad integrare, in settori
squisitamente tecnici, la normativa primaria che ad essi
rinvia» (Corte cost. sentenza n. 11 del 2014);
f) la disciplina statale che rimette a decreti ministeriali
l’approvazione di talune norme tecniche per le costruzioni
costituisce «chiara espressione di un principio
fondamentale» (Corte
cost. sentenze n. 282 del 2016
e n.
254 del 2010;
nello stesso senso,
sentenza n. 41 del 2017);
g) è da escludersi che lo schema di regolamento-tipo integrerebbe
gli estremi di una fonte regolamentare statale, invasiva
della potestà riconosciuta alle regioni nelle materie di
legislazione concorrente. Il regolamento tipo non ha alcun
contenuto innovativo della disciplina dell’edilizia ma
svolge una funzione di raccordo e coordinamento meramente
tecnico e redazionale, venendo a completare il principio
(fondamentale) contenuto nella disposizione legislativa
sicché ben potrebbe essere adottato in una materia di
legislazione concorrente in quanto, come già precisato, «[l]’art.
117, sesto comma, Cost. […] preclude allo Stato, nelle
materie di legislazione concorrente, non già l’adozione di
qualsivoglia atto sub-legislativo, […] bensì dei soli
regolamenti, che sono fonti del diritto, costitutive di un
determinato assetto dell’ordinamento» (Corte
cost. sentenza n. 284 del 2016);
h) all’intesa potrà seguire il recepimento regionale e
l’esercizio del potere regolamentare da parte degli enti
locali. Questi, nell’adempiere al necessario obbligo di
adeguamento delle proprie fonti normative al “tipo”
concertato in Conferenza unificata e recepito dalle singole
Regioni, godranno di un ragionevole spazio per intervenire
con riferimenti normativi idonei a riflettere le peculiarità
territoriali e urbanistiche del singolo comune, tramite
l’esercizio delle potestà regolamentari loro attribuite in
materia edilizia (art. 117, sesto comma, Cost.; artt. 2,
comma 4, e 4 del citato TUEL).
Ad una soluzione identica, anche se tramite un percorso
argomentativo in parte diverso, la Corte perviene in
riferimento al ricorso proposto dalla Provincia autonoma di
Trento.
III.- Sui rapporti tra Stato e Regioni in materia di Governo
del territorio, e sulla individuazione dei principi
fondamentali all’interno del t.u. ed. si vedano:
i) Corte
cost., sentenza 13.04.2017, n. 84
oggetto della
NEWS US del 10.05.2017
ed i richiami di giurisprudenza e di dottrina ivi segnalati;
j) Corte
cost., sentenza 09.03.2016, n. 49
in Riv. giur. edilizia, 2016, I, 8, con nota di
STRAZZA; Giur. it., 2016, 2233 (m), con nota di
VIPIANA PERPETUA, secondo cui «È costituzionalmente
illegittimo, per violazione dell’art. 117, 3º comma, cost.,
l’art. 84-bis, 2º comma, lett. b), l.reg. Toscana 03.01.2005
n. 1, che stabilisce la possibilità per l’amministrazione di
esercitare poteri sanzionatori per la repressione degli
abusi edilizi, anche oltre il termine di trenta giorni dalla
presentazione della Scia, in un numero più ampio di ipotesi
rispetto alla previsione statale; nell’ambito della materia
concorrente del «governo del territorio», i titoli
abilitativi agli interventi edilizi costituiscono oggetto di
una disciplina che assurge a principio fondamentale e tale
valutazione deve ritenersi valida anche per la denuncia di
inizio attività (Dia) e per la segnalazione certificata di
inizio attività (Scia), che si inseriscono in una
fattispecie, il cui effetto è pur sempre quello di
legittimare il privato ad effettuare gli interventi edilizi;
tale fattispecie ha una struttura complessa e non si
esaurisce, rispettivamente, con la dichiarazione o la
segnalazione, ma si sviluppa in due fasi ulteriori: una
prima, di ordinaria attività di controllo
dell’amministrazione; una seconda, in cui può esercitarsi
l’autotutela amministrativa; anche le condizioni e le
modalità di esercizio dell’intervento della p.a., una volta
che siano esauriti i termini prescritti dalla normativa
statale, devono considerarsi il necessario completamento
della disciplina dei titoli abitativi, poiché
l’individuazione della loro consistenza e della loro
efficacia non può prescindere dalla capacità di resistenza
rispetto alle verifiche effettuate dall’amministrazione
successivamente alla maturazione degli stessi; la disciplina
di questa fase ulteriore è, dunque, parte integrante del
titolo abilitativo e costituisce un tutt’uno inscindibile;
il suo perno è costituito da un istituto di portata generale
-quello dell’autotutela- che si colloca allo snodo
delicatissimo del rapporto fra il potere amministrativo e il
suo riesercizio, da una parte, e la tutela dell’affidamento
del privato, dall’altra; ne deriva che la disciplina de qua
costituisce espressione di un principio fondamentale della
materia «governo del territorio»; la normativa regionale,
nell’attribuire all’amministrazione un potere di intervento,
lungi dall’adottare disposizioni di dettaglio, ha introdotto
una disciplina sostitutiva dei principi fondamentali dettati
dal legislatore statale, toccando i punti nevralgici del
sistema elaborato nella legge sul procedimento
amministrativo e con tutti i rischi per la certezza e
l’unitarietà dello stesso»;
k) Corte
cost., 12.04.2013, n. 64
in Foro it., 2014, I, 2299 secondo cui «È
incostituzionale l’art. 1, 1º e 2º comma, l.reg. Veneto
24.02.2012 n. 9, nella parte in cui prevede che, nell’ambito
degli interventi edilizi nelle zone classificate sismiche, è
esclusa, anche con riguardo ai procedimenti in corso, la
necessità del previo rilascio delle autorizzazioni del
competente ufficio tecnico regionale per i «progetti» e le
«opere di modesta complessità strutturale», privi di
rilevanza per la pubblica incolumità, individuati dalla
giunta regionale in base ad una procedura nella quale è
prevista l’obbligatoria assunzione di un semplice parere da
parte della commissione sismica regionale»
(Corte
Costituzionale,
sentenza 26.05.2017 n. 125
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’obbligo
di motivazione dei provvedimenti amministrativi è inteso
dalla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di
Stato secondo una concezione sostanziale/funzionale, nel
senso che esso è da intendersi rispettato quando l’atto reca
l’esternazione del percorso logico-giuridico seguito
dall’amministrazione per giungere alla decisione adottata e
il destinatario è in grado di comprendere le ragioni di
quest’ultimo e, conseguentemente, di utilmente accedere alla
tutela giurisdizionale, in conformità ai principi di cui
agli artt. 24 e 113 della Costituzione.
---------------
11. La prima censura è infondata.
Deve premettersi che l’obbligo di motivazione dei
provvedimenti amministrativi è inteso dalla consolidata
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato secondo una
concezione sostanziale/funzionale, nel senso che esso è da
intendersi rispettato quando l’atto reca l’esternazione del
percorso logico-giuridico seguito dall’amministrazione per
giungere alla decisione adottata e il destinatario è in
grado di comprendere le ragioni di quest’ultimo e,
conseguentemente, di utilmente accedere alla tutela
giurisdizionale, in conformità ai principi di cui agli artt.
24 e 113 della Costituzione (da ultimo: Cons. Stato, III,
23.11.2015, nn. 5311 e 5312; IV, 21.04.2015, n. 2011; V,
24.11.2016, n. 4959, 23.09.2015, n. 4443, 28.07.2015, n.
3702, 14.04.2015, n. 1875, 24.03.2014, n. 1420; VI,
06.12.2016, n. 5150).
Con riferimento al caso di specie può rilevarsi che nel
verbale della seduta del 22.07.2015 della commissione
giudicatrice le ragioni dell’esclusione sono espresse
attraverso il richiamo alla previsione di cui al punto 1.4.
del disciplinare di gara, secondo cui le proposte formulate
dagli offerenti devono «adeguarsi alle quantità e alle
tipologie dei corpi illuminanti previste nel progetto
preliminare approvato», mentre «non verranno tenute
in considerazione proposte di modifica delle tipologie
richiamate».
Ciò è, ad avviso della Sezione, sufficiente a fare
comprendere in modo compiuto le ragioni del provvedimento
lesivo per l’interessato e a controdedurre sul punto in sede
giurisdizionale, il che trova conferma proprio
nell’introduzione della controversia in trattazione
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 25.05.2017 n. 2457 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Il
risarcimento del danno derivante da procedimento
amministrativo illegittimo, per ciò che riguarda
l'ammissibilità della domanda, giurisprudenza consolidata
ritiene non sufficiente il mero annullamento del
provvedimento lesivo, essendo necessario sia fornita la
prova sia del danno subito, sia dell'elemento soggettivo del
dolo o della colpa dell'Amministrazione, configurabili
quando l'adozione dell'atto illegittimo è avvenuta in
violazione delle regole proprie dell'azione amministrativa,
quali desumibili sia dai principi costituzionali
d'imparzialità e buon andamento, sia dalle norme di legge
ordinaria in materia di celerità, efficienza, efficacia e
trasparenza, sia dai principi generali dell'ordinamento,
quanto a ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza.
Essa è quindi connessa alla particolare dimensione della
responsabilità dell'Amministrazione per lesione di interessi
legittimi, identificabili con quelli al c.d. giusto
procedimento, il quale richiede competenza, attenzione,
celerità ed efficacia, necessari parametri di valutazione
dell'azione amministrativa.
---------------
... per la riforma della
sentenza 01.06.2015 n. 851 del TAR Toscana, Sez.
II, resa tra le parti, concernente condanna al risarcimento
del danno a seguito di illegittimo diniego di autorizzazione
per la realizzazione impianto fotovoltaico;
...
L’appello della Provincia di Grosseto è fondato, in
particolare dove lamenta la mancata prova della sussistenza
dei presupposti soggettivi dell’illecito.
Oggetto del ricorso di primo grado e della conseguente
sentenza è la domanda di risarcimento dei danni
asseritamente subiti da An.Me. derivante dal diniego opposto
dall’Amministrazione provinciale alla richiesta di
autorizzazione per realizzazione di impianto fotovoltaico e
del ritardo che ne è seguito, causa il primitivo diniego poi
annullato dal giudice.
La stessa sentenza di prime cure spiega che il mancato
rilascio dell’autorizzazione unica è derivato dall’esito
negativo della conferenza dei servizi del 19.10.2010,
motivato dal parere di non conformità del progetto con il
piano territoriale di coordinamento vigente, perché tale
impianto non sarebbe stato localizzato in campi chiusi ma in
un’area visibile da media distanza, perché localizzata nelle
prime propaggini di un versante collinare adiacente un’area
pianeggiante e quindi in base a valutazioni sui valori
ambientali coinvolti e di conseguenza eminentemente
discrezionale.
Non va sottaciuto infatti che tale diniego era scaturito da
varie considerazioni, non ultimo che il Comune di
Castiglione della Pescaia, interessato dalla Me. il
24.06.2010 per l’approvazione del programma aziendale
pluriennale di miglioramento agricolo ambientale (P.A.P.M.A.A.)
necessario per realizzare l’impianto, non si era pronunciato
e lo ha poi fatto con rilevante ritardo il 20.03.2012, il
che costituisce una grave responsabilità; ma va anche
rilevato che l’autorizzazione non era atto vincolato da
emanarsi a seguito di meri accertamenti, ma che richiedeva
valutazioni sulla qualità dell’unità morfologica
territoriale (U.M.T.) cui i fondi dell’interessata
appartengono.
La sentenza che ha annullato il diniego cita l’area
interessata come area collinare dovevano valorizzate le
risorse storico-naturali, vanno promosse opere di
miglioramento dell’ambiente dello spazio rurale, limitati
degli erosivi derivanti dalla presenza di vigneti
specializzati; tali indirizzi, dettati dal Piano
territoriale di coordinamento provinciale, non potevano però
essere considerati come incompatibili in assoluto con la
realizzazione dell’impianto energetico da fonte rinnovabile;
nemmeno il piano territoriale prevedeva preclusioni
generalizzate per questi, se non criteri di ammissibilità
coerenti con i valori identitari di ogni unità morfologica,
per perseguire la tutela degli ambiti di rilevante pregio
naturalistico e paesaggistico e verificare in concreto
l’impatto dell’impianto, nel bilanciamento degli interessi
contrapposti e tenendo conto che vi erano unità morfologiche
più vulnerabili di quelle interessata, né che l’intervento
riguardasse la produzione di energia eolica, ben più
invasiva [in coerenza con TAR Toscana, II, 25.06.2007, n.
939].
Perciò fondamentale è stata la successiva approvazione del
P.A.P.M.A.A. da parte del Comune, intervenuta con
deplorevole ritardo, ma comunque senza domande di
risarcimento: ritardo di cui non può rispondere una diversa
amministrazione. In ogni caso è importante che anche tale
ultimo atto presupposto aveva carattere di discrezionalità.
Si deve da un lato preliminarmente considerare che per il
risarcimento del danno derivante da procedimento
amministrativo illegittimo, per ciò che riguarda
l'ammissibilità della domanda, giurisprudenza consolidata
ritiene non sufficiente il mero annullamento del
provvedimento lesivo, essendo necessario sia fornita la
prova sia del danno subito, sia dell'elemento soggettivo del
dolo o della colpa dell'Amministrazione, configurabili
quando l'adozione dell'atto illegittimo è avvenuta in
violazione delle regole proprie dell'azione amministrativa,
quali desumibili sia dai principi costituzionali
d'imparzialità e buon andamento, sia dalle norme di legge
ordinaria in materia di celerità, efficienza, efficacia e
trasparenza, sia dai principi generali dell'ordinamento,
quanto a ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza.
Essa è quindi connessa alla particolare dimensione della
responsabilità dell'Amministrazione per lesione di interessi
legittimi, identificabili con quelli al c.d. giusto
procedimento, il quale richiede competenza, attenzione,
celerità ed efficacia, necessari parametri di valutazione
dell'azione amministrativa (Cons. Stato, V, 08.04.2014 n.
1644).
Nella specie, la sentenza non ha mosso considerazioni sulle
colpe ipoteticamente ascrivibili alla Provincia di Grosseto;
ma passando in esame il suo comportamento, esso non pare
caratterizzato da violazione di regole su trasparenza o
celerità, né di quelle costituzionali a presidio dei
principi di imparzialità e buon andamento.
L’Amministrazione ha avuto una particolare attenzione nei
confronti della tutela paesaggistica, attenzione mancata nel
passato e sanzionata dal Tribunale amministrativo della
Toscana proprio in tema di energie alternative e non può
ignorarsi che la Provincia si trovava di fronte ad una
fattispecie latamente discrezionale in cui le attenzioni
sono particolarmente dovute e ciò senza l’ausilio
dell’approvazione del P.A.P.M.A.A., carenza che rendeva
l’azione amministrativa di un sostegno istruttorio di grande
rilievo.
Inoltre la Provincia era tenuta ad un’istruttoria
coinvolgente altre amministrazioni. Sicché le cause potevano
essere ascritte agli uffici provinciali. Tra dette altre
amministrazioni coinvolte vi era il Comune (peraltro non
intimato). La circostanza della presenza di
un’ingiustificato ritardo nel pronunciarsi sul P.A.P.M.A.A.,
passaggio necessario per la Provincia al fine di esprimersi
compiutamente, non necessariamente può dunque essere
riferita alla Provincia medesima.
Per le ragioni suesposte l’appello va accolto con
conseguente riforma della sentenza impugnata
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 24.05.2017 n. 2446 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: L'annullamento
della destinazione urbanistica di un'area -rectius:
dell'atto che la dispone-, in conseguenza dell'efficacia
retroattiva della pronuncia caducatoria, comporta la
riviviscenza della pregressa disciplina urbanistica di tale
area.
---------------
7. In conclusione, stante la fondatezza della seconda
censura dedotta col ricorso principale e vista la fondatezza
del corrispondente profilo di illegittimità derivata,
dedotto con i primi e con i secondi motivi aggiunti, il
ricorso stesso ed i motivi aggiunti devono essere accolti,
restando assorbite le censure non esaminate.
Per l’effetto va annullato, oltre all’impugnato diniego, il
regolamento urbanistico in parte qua, con conseguente
riviviscenza, quanto alla proprietà della ricorrente, della
disciplina urbanistica dettata dal previgente piano
regolatore generale.
Invero, la caducazione della variante urbanistica determina
la reviviscenza delle previsioni di piano precedenti,
modificate dalla variante poi annullata (Cons. Stato, V,
22.02.2007, n. 954; idem, IV, 06.05.2004, n. 2800; TAR
Lombardia, Milano, II, 02.12.2011, n. 3084; TAR Toscana, I,
10.12.2009, n. 3267; TAR Lazio, Roma, II, 02.11.2000, n.
8874; TAR Friuli Venezia Giulia, I, 29.07.2014, n. 423: “l'annullamento
della destinazione urbanistica di un'area -rectius:
dell'atto che la dispone-, in conseguenza dell'efficacia
retroattiva della pronuncia caducatoria, comporta la
riviviscenza della pregressa disciplina urbanistica di tale
area").
Pertanto, per effetto dell’annullamento del regolamento
urbanistico o di una sua variante il terreno avrà quella
medesima destinazione che avrebbe avuto se tale ultimo atto
non fosse mai venuto ad esistenza (Cons. Stato, IV,
28.01.2002, n. 456)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 23.05.2017 n. 725
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Commissione
di gara, presidenza non al Rup. Regola
applicabile subito.
Il Rup (Responsabile unico del procedimento)
non può essere nominato presidente della
commissione giudicatrice; la regola è
applicabile anche adesso e non occorre
attendere l'istituzione dell'albo Anac dei
commissari di gara.
Lo ha affermato il TAR Lazio-Latina,
Sez. I, con la
sentenza 23.05.2017 n. 325
che esamina alcuni profili
inerenti il ruolo del Rup nelle commissioni
giudicatrici.
Nel caso esaminato dai giudici il Rup era
stato nominato presidente della commissione
di gara e aveva anche svolto la funzione di
componente di un'altra commissione di gara
per l'affidamento di un analogo servizio
presso un diverso comune (gara vinta da un
partecipante alla gara oggetto di esame da
parte del Tar).
Rispetto a tali censure i
giudici hanno accolto il ricorso affermando
che il Rup non può essere membro della
commissione; benché la compatibilità tra le
due funzioni sia stata di recente affermata
in giurisprudenza. Per i giudici laziali ciò
si desume dal confronto tra la previsione
del soppresso articolo 84, dlgs 12.04.2006, n. 163 secondo cui «i commissari
diversi dal presidente non devono aver
svolto né possono svolgere alcun'altra
funzione o incarico tecnico o amministrativo
relativamente al contratto del cui
affidamento si tratta» e la formulazione
dell'articolo 77, comma 4, dlgs. 19.04.2016, n. 50 secondo cui «i commissari non
devono aver svolto né possono svolgere
alcun'altra funzione o incarico tecnico o
amministrativo relativamente al contratto
del cui affidamento si tratta».
Per il Tar la mancata esclusione del
presidente dalla regola prevista
dall'articolo 77 implica chiaramente che il
Rup non possa essere componente della
commissione nemmeno quale presidente. Ciò
comporta il superamento della giurisprudenza
formatasi sotto il codice De Lise e, ha
sottolineato il Tar, l'applicazione
immediata dell'art. 77, comma 4, che di fatto
vieta la nomina del Rup, come nel caso
esaminato, a presidente della commissione
anche in assenza dell'istituzione dell'albo
dei commissari previsto dall'articolo 77,
comma 3, del codice, norma «formulata in
termini generali e pertanto immediatamente
efficace».
Da notare, però, che il decreto
correttivo rimette a una valutazione
specifica la possibilità di nomina del Rup a
commissario di gara
(articolo ItaliaOggi del
02.06.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
La recente giurisprudenza amministrativa,
evidenziando che le cc.dd. “pergotende” non possono essere
considerate “opere precarie” ex art. 3, comma 1, lett. e),
del T.U. dell’Edilizia, perché non si connotano per una
temporaneità della loro utilizzazione, ma piuttosto per
costituire un elemento di migliore fruizione dello spazio,
comunque duraturo, ha approfondito la questione della
necessità o meno del previo rilascio del titolo abilitativo
per la loro realizzazione, osservando come una struttura in
alluminio anodizzato destinata ad ospitare una tenda
retrattile in tessuto come quella in questione, non integri,
in primo luogo, gli effetti di “trasformazione edilizia e
urbanistica del territorio” propri degli “interventi di
nuova costruzione” ex artt. 3 e 10 DPR n. 380/2001.
Va, invero, considerato che l’opera principale non è la
struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione
dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una
migliore fruizione dello spazio esterno del locale;
considerata in tale contesto, la struttura in alluminio
anodizzato si qualifica in termini di mero elemento
accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della
tenda.
Quest’ultima, poi, integrata alla struttura portante, non
vale a configurare una “nuova costruzione”, attese la sua
realizzazione in tessuto e la sua natura retrattile, che,
escludendo elementi di fissità e stabilità nella copertura,
priva di qualsiasi tamponatura laterale, fanno sì che non
possa parlarsi di uno spazio chiuso e della creazione di
nuova superficie o nuovo volume.
---------------
Con il ricorso in epigrafe la Br. s.r.l., società esercente
attività di somministrazione di alimenti e bevande nel
locale commerciale di via ... 2/4, ha dedotto di aver
chiesto ed ottenuto da Roma Capitale, con determinazione
dirigenziale prot CI/235212/2014, per l’area pertinenziale
esterna al suo locale, la concessione per l’occupazione di
suolo pubblico con tenda autoportante, tavoli, sedie e
fioriere, secondo i progetti depositati a supporto
dell’istanza, ma di aver successivamente ricevuto, proprio
in relazione alla suddetta struttura (realizzata in
alluminio, poggiante su 6 pali alloggiati in 6 vasi,
sostenuta da un sistema di assemblaggio laterale di staffe
inox e fusioni in alluminio e non fissata sul muro
perimetrale del fabbricato), avviso di apertura del
procedimento amministrativo per realizzazione di opere
abusive e l’ordinanza n. 1057/2016 di rimozione
dell’installazione.
In merito a tale ultimo provvedimento, la Br. s.r.l. ha,
quindi, lamentato l’errata rappresentazione da parte
dell’Amministrazione, del manufatto in questione, che non
era stato considerato negli elementi decisivi ai fini del
suo corretto inquadramento, costituiti, appunto, dalla
copertura retrattile e dalla funzione di semplice sostegno
della tenda svolta dalla struttura in alluminio leggero, la
cui apposizione doveva considerarsi assolutamente
irrilevante dal punto di vista urbanistico - edilizio, ferma
restando la necessità per l’occupazione del suolo pubblico
della specifica concessione.
Tali censure sono fondate e meritevoli di accoglimento.
La recente giurisprudenza amministrativa, (cfr. Cons. St.,
Sez. VI, 17.04.2016 n. 1619), evidenziando che le cc.dd. “pergotende”
non possono essere considerate “opere precarie” ex
art. 3, comma 1, lett. e), del T.U. dell’Edilizia, perché
non si connotano per una temporaneità della loro
utilizzazione, ma piuttosto per costituire un elemento di
migliore fruizione dello spazio, comunque duraturo, ha
approfondito la questione della necessità o meno del previo
rilascio del titolo abilitativo per la loro realizzazione,
osservando come una struttura in alluminio anodizzato
destinata ad ospitare una tenda retrattile in tessuto come
quella in questione, non integri, in primo luogo, gli
effetti di “trasformazione edilizia e urbanistica del
territorio” propri degli “interventi di nuova
costruzione” ex artt. 3 e 10 DPR n. 380/2001.
Va, invero, considerato che l’opera principale non è la
struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione
dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una
migliore fruizione dello spazio esterno del locale;
considerata in tale contesto, la struttura in alluminio
anodizzato si qualifica in termini di mero elemento
accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della
tenda.
Quest’ultima, poi, integrata alla struttura portante, non
vale a configurare una “nuova costruzione”, attese la
sua realizzazione in tessuto e la sua natura retrattile,
che, escludendo elementi di fissità e stabilità nella
copertura, priva di qualsiasi tamponatura laterale, fanno sì
che non possa parlarsi di uno spazio chiuso e della
creazione di nuova superficie o nuovo volume.
Allo stesso modo, deve ritenersi che non sia integrata la
fattispecie della ristrutturazione edilizia, richiamata,
invece, erroneamente nella determinazione impugnata.
Invero, ai sensi dell’articolo 3, lettera d), del dpr n.
380/2001, tale tipologia di intervento edilizio fa
riferimento ad “interventi rivolti a trasformare gli
organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere”,
i quali “comprendono il ripristino o la sostituzione di
alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione,
la modifica e l’inserimento di nuovi elementi e impianti”.
Orbene, la disposizione, così come declinata dal
legislatore, richiede comunque che le opere realizzate
abbiano consistenza e rilevanza edilizia, siano cioè tali da
poter “trasformare l’organismo edilizio”,
condividendo pertanto natura e consistenza degli elementi
costitutivi di esso.
Tali caratteristiche risultano all’evidenza non sussistenti
nella fattispecie della struttura in alluminio anodizzato
atta ad ospitare una tenda retrattile, avuto riguardo alla
consistenza di tale intervento ed alla circostanza che
l’immobile accanto al quale essa è collocata è un fabbricato
in muratura, sulla cui originaria identità e conformazione
l’opera nuova non può certamente incidere.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte deve, pertanto,
ritenersi che la struttura realizzata dalla ricorrente non
necessitasse del previo rilascio del permesso di costruire,
giacché la tenda retrattile che essa è unicamente destinata
a servire si risolve, in ultima analisi, in un mero elemento
di arredo dello spazio pertinenziale su cui insiste,
legittimamente occupato dalla ricorrente in virtù di
concessione di occupazione di suolo pubblico.
Tale interpretazione delle strutture in parola appare, in
verità, essere stata già condivisa dall’Amministrazione di
Roma Capitale nella circolare del 09.03.2012, nella quale,
alla lettera i) del punto 3.2 si specifica che, tra le
attività di edilizia libera (A.E.L.), sono ricomprese “tende
autoportanti, tende in aggetto, ombrelloni, pedane e
fioriere al servizio degli esercizi commerciali e di
ristorazione ubicate su suolo pubblico, ferma restando
l’acquisizione della specifica autorizzazione amministrativa
secondo quanto previsto dalle deliberazioni di Roma Capitale
in materia di occupazione suolo pubblico e naturalmente
esclusa la loro chiusura sui lati perimetrali”.
In conclusione, il ricorso deve essere, dunque, accolto, con
annullamento dell’atto impugnato ed assorbimento di ogni
altra doglianza (TAR
Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 22.05.2017 n. 6054 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Offerta anomala, non c'è
audizione. Tar Lazio su procedure di
verifica.
Non deve essere più convocato in audizione
il concorrente di una gara di appalto che ha
presentato un'offerta dichiarata anomala; i
termini per presentare le giustificazioni
non sono perentori e la verifica va condotta
sul complesso dell'offerta.
Lo ha precisato il Tar Lazio-Roma, Sez. III-quater, con la
sentenza 19.05.2017 n. 5979 nella quale si discuteva delle
modalità di svolgimento della procedura di
verifica delle offerte anomale.
Un primo punto sollevato riguardava la
necessità o meno di convocare in audizione
il concorrente anomalo; veniva contestata la
violazione di legge per omessa convocazione
della ricorrente, in audizione, nell'ambito
del giudizio di anomalia. Sul punto, i
giudici osservano come, in seguito
all'entrata in vigore del nuovo codice degli
appalti (decreto legislativo n. 50 del 2016)
quest'obbligo procedimentale,
precedentemente previsto, al ricorrere di
determinati presupposti, dall'art. 88, comma
4, dell'abrogato dlgs 163/2006, non sia più
altrimenti contemplato in seno all'art. 97
del nuovo codice.
Rispetto all'effetto derivante dal tardivo
riscontro alle richieste di giustificazione
dell'offerta nella sentenza ribadisce che
nelle gare pubbliche la mancata o anche la
sola tardiva produzione delle
giustificazioni dell'offerta e degli
eventuali chiarimenti non possono comportare
l'automatica esclusione dell'offerta
sospettata di anomalia e che i termini a tal
fine previsti non sono perentori, ma
sollecitatori, avendo lo scopo di
contemperare gli interessi del concorrente a
giustificare l'offerta e quelli
dell'amministrazione alla rapida conclusione
del procedimento di gara.
Sul tema delle modalità di svolgimento delle
verifiche di anomalia il Tar laziale ha
affermato che nelle gare pubbliche di
appalto il giudizio d'insostenibilità e
anomalia dell'offerta del concorrente deve
essere complessivo, nel senso di tener conto
di tutti gli elementi favorevoli o negativi,
tanto da poter giungere a ritenere credibili
voci di prezzo eccessivamente basse perché
accompagnate da altre voci sulle quali sono
possibili e realizzabili risparmi, al fine
di giungere ad una compensazione che lasci
l'offerta affidabile e seria a prescindere
dalla gestione interna dell'impresa
offerente
(articolo ItaliaOggi del
26.05.2017). |
APPALTI: Le
mere questioni formali non escludono
l'impresa.
Non si può escludere l'impresa dall'appalto
solo perché nell'offerta manca l'impegno del
fideiussore per l'esecuzione del contratto
previsto dal bando di gara: scatta infatti
il soccorso istruttorio a pagamento in
favore dell'azienda partecipante. E il
merito è anche del decreto correttivo al
codice dei contratti pubblici che mostra
come la legislazione in materia si evolva
nel senso di evitare l'estromissione dalla
procedura a evidenza pubblica per mere
omissioni formali.
È quanto emerge dalla
sentenza
19.05.2017 n. 1125,
pubblicata dalla IV Sez. del TAR
Lombardia-Milano.
Par condicio
Accolto il ricorso della società che si
candida a gestire i servizi di manutenzione
e riparazione di un termovalorizzatore,
nell'ambito della gara a procedura aperta
bandita da un organismo di diritto pubblico
che opera nel settore della gestione
ambientale.
È vero: nell'offerta dell'impresa esclusa
manca l'impegno del fideiussore a rilasciare
la garanzia prevista dall'articolo 103 del
decreto legislativo 50/2016 in caso di
aggiudicazione dell'appalto. Ma l'azienda
può pagare la sanzione pecuniaria e ottenere
così un termine per mettersi in regola: deve
infatti escludersi la violazione della par
condicio per i partecipanti all'appalto
perché l'omissione non incide sull'offerta
tecnica o economica e dunque
sull'attribuzione dei punteggi che decreta
la vittoria nella gara.
Lo stesso nuovo testo dell'articolo 83,
comma 9, del decreto legislativo 50/2016,
introdotto dal dlgs correttivo 56/2017,
indica che il legislatore guarda con favore
all'ampliamento del ricorso al soccorso
istruttorio
(articolo ItaliaOggi del
31.05.2017).
---------------
MASSIMA
2. Il ricorso è fondato, per le ragioni
che seguono.
La società istante è stata esclusa dalla
procedura per la mancanza del requisito di
cui all’art. 15 del disciplinare di gara, il
quale –in conformità alla previsione
dell’art. 93, comma 8, del D.Lgs. 50/2016–
impone che l’offerta contenente la cauzione
provvisoria del 2% dell’importo dell’appalto
sia corredata, a pena di esclusione,
dall’impegno di un fideiussore a rilasciare
la garanzia per l’esecuzione del contratto,
di cui all’art. 103 del D.Lgs. 50/2016,
qualora l’offerente risultasse
aggiudicatario.
In effetti, nel caso di specie, l’offerta
della ricorrente non riporta tale impegno;
tuttavia, come sostenuto nel gravame,
tale omissione non comporta l’automatica
esclusione dell’offerta, bensì l’onere per
la stazione appaltante di attivare il
procedimento di soccorso istruttorio di cui
all’art. 83, comma 9, secondo periodo, del
D.Lgs. 50/2016 (c.d. soccorso istruttorio a
pagamento).
Infatti, la norma dell’art. 93, comma 8, che
pure contiene l’inciso “a pena di
esclusione”, deve essere letta alla luce
dell’ulteriore disposizione dell’art. 83,
comma 9, che prevede (nel testo applicabile
ratione temporis alla presente
fattispecie) il soccorso istruttorio con
pagamento di una sanzione pecuniaria, in
caso di incompletezza, di mancanza e di ogni
altra irregolarità essenziale degli elementi
della domanda, “con esclusione di quelli
afferenti all’offerta tecnica ed economica”.
Nel caso di specie, l’impegno di un terzo
–vale a dire il fideiussore– al rilascio
della garanzia per l’esecuzione del
contratto non costituisce certamente un
elemento dell’offerta tecnica o economica,
bensì un differente elemento della domanda
di partecipazione, riguardante il regime
delle cauzioni da rilasciarsi da parte degli
operatori, ma non incide sul concreto
contenuto dell’offerta tecnica o economica
da valutarsi da parte della stazione
appaltante ai fini dell’attribuzione del
punteggio ai partecipanti alla procedura di
gara.
La possibilità di regolarizzare la mancanza
del succitato elemento (vale a dire
l’impegno al rilascio della garanzia
definitiva), non viola quindi il principio
della “par condicio” dei concorrenti
ed è anzi volta ad evitare l’esclusione per
difetto di un elemento meramente formale.
Le conclusioni alle quali lo scrivente
Collegio giunge con l’attuale pronuncia
trovano conferma nella giurisprudenza
formatasi nella vigenza del pregresso codice
dei contratti pubblici (D.Lgs. 163/2006), il
cui articolo 75, comma 8, ricalcava
l’attuale art. 93, comma 8
(cfr. sul punto, TAR Liguria, sez. II,
17.10.2016, n. 1023).
Parimenti, le medesime conclusioni sono
confermate dalla circostanza che
l’evoluzione legislativa è nel senso
dell’ampliamento degli spazi del soccorso
istruttorio, per evitare l’esclusione dalle
pubbliche gare per omissioni meramente
formali e prive di sostanziale rilevanza
(cfr. il nuovo testo dell’art. 83, comma 9,
così come introdotto dal D.Lgs. 56/2017 di
correzione del D.Lgs. 50/2016).
Per effetto dell’accoglimento del presente
gravame, deve essere annullato il
provvedimento di esclusione, con conseguente
onere di Ac. Spa di avviare il soccorso
istruttorio. |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati di omessa denuncia dei lavori e
presentazione dei progetti e di inizio dei lavori senza
preventiva autorizzazione - Natura permanente dei reati -
Violazione della normativa antisimica - Individuazione della
cessazione della permanenza - Artt. 64, 65, 71, 72, 93, 94,
95 e 101 dlgs n. 380/2001 - Giurisprudenza.
In materia antisismica, i reati di omessa denuncia dei
lavori e presentazione dei progetti e di inizio dei lavori
senza preventiva autorizzazione scritta dell'ufficio
competente hanno natura di reati permanenti, la cui
consumazione si protrae sino a quando il responsabile non
presenta la relativa denuncia con l'allegata documentazione,
non completa l'opera, ovvero, non ricorrendo alcuna delle
precedenti condizioni, sino alla data della sentenza di
condanna di primo grado (Corte di cassazione, Sezione III
penale, 20/01/2016, n. 2209; idem Sezione III penale,
14/01/2016, n. 1145).
Atteso che la lesione dell'interesse protetto dalla norma,
ravvisabile nell'apprestamento degli strumenti necessari
alla amministrazione competente per potere effettivamente ed
efficacemente esercitare i propri compiti in tema di
vigilanza sulla regolarità tecnica di ogni costruzione
eseguita in zona sismica, permane sin tanto che tale
controllo non viene consentito ovvero, una volta completata
la realizzazione dell'opera, esso risulta oramai
sostanzialmente non più utile.
Opere edilizie in zona sismica -
Acquisizione delle autorizzazioni in materia antisismica -
Necessità - Individuazione di un errore scusabile in capo
all'agente - Integrazione degli elementi soggettivi ed
oggettivi.
La realizzazione in zona sismica, di un ballatoio aggettante
esterno e la sostituzione e dislocazione di parte di una
scala interna, in assenza delle prescritte comunicazioni e
autorizzazioni integra l'elemento materiale della
contravvenzione in materia antisismica, mentre, ai fini
della integrazione dell'elemento soggettivo è sufficiente
accertare l'avvenuta consapevole violazione della norma
legislativa prescrittiva, in assenza di fattori che
avrebbero potuto legittimare l'individuazione di un errore
scusabile in capo all'agente, per giustificare quanto meno
la colposità della condotta (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.05.2017 n. 24574
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati
paesaggistici e reati urbanistici - Disciplina difforme e
differenziata - Effetti - Successivo provvedimento di
compatibilità paesaggistica - Condono ambientale - Art. 181 dlgs n. 42/2004.
Sanatoria urbanistica e
violazione paesaggistica - Artt. 36 e 44, comma 1, lettera
e), dPR n. 380/2001 - Giurisprudenza.
La concessione rilasciata a seguito di accertamento di
conformità ai sensi dell'art. 36 del dPR n. 380 del 2001
estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme
urbanistiche vigenti, ma non i reati paesaggistici previsti
dal dlgs, n. 42 del 2004, che sono soggetti ad una
disciplina difforme e differenziata, legittimamente e
costituzionalmente distinta, avente oggettività giuridica
diversa, rispetto a quella che riguarda l'assetto del
territorio sotto il profilo edilizio.
Né ha rilievo la circostanza che la ricorrente avesse anche
conseguito un provvedimento di compatibilità paesaggistica
posto che la circostanza di avere ottenuto detto
provvedimento non determina di per sé la non punibilità dei
reati in materia ambientale e paesaggistica, in quanto
compete sempre al giudice l'accertamento dei presupposti di
fatto e di diritto legittimanti l'applicazione del
cosiddetto condono ambientale (Corte di cassazione, Sezione
III penale, 06/04/2016, n. 13730) (Corte di Cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 16.05.2017 n. 24111 - link a
www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Aggiudicazione mancata, scatta il
risarcimento.
Danno per mancato profitto.
In caso di mancata aggiudicazione, ritenuta
illegittima, al concorrente spetta il
risarcimento del danno per lucro cessante
individuato come mancato profitto e come
«danno curriculare».
Lo ha chiarito
l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
con la
sentenza
12.05.2017 n. 2 che ha
approfondito il tema della quantificazione
del danno nel caso di mancata aggiudicazione
del contratto.
In particolare la sentenza ha chiarito che
il danno conseguente al lucro cessante si
identifica con l'interesse cosiddetto
positivo, che ricomprende sia il mancato
profitto (che l'impresa avrebbe ricavato
dall'esecuzione dell'appalto), sia il danno
cosiddetto curriculare (cioè il pregiudizio
subìto dall'impresa a causa del mancato
arricchimento del curriculum e dell'immagine
professionale per non poter indicare in esso
l'avvenuta esecuzione dell'appalto).
Dal punto di vista dell'onere della prova,
spetta, in ogni caso, all'impresa
danneggiata offrire, senza poter ricorrere a
criteri forfettari, la prova rigorosa
dell'utile che in concreto avrebbe
conseguito, qualora fosse risultata
aggiudicataria dell'appalto. Questo perché,
dice il collegio, nell'azione di
responsabilità per danni il principio
dispositivo opera con pienezza e non è
temperato dal metodo acquisitivo proprio
dell'azione di annullamento di cui
all'articolo 64, commi 1 e 3, del codice di
procedura amministrativa; inoltre la
valutazione equitativa, ai sensi
dell'art. 1226 del codice civile, è ammessa
soltanto in presenza di situazione di
impossibilità, o di estrema difficoltà, di
una precisa prova sull'ammontare del danno.
Il mancato utile spetta nella misura
integrale, in caso di annullamento
dell'aggiudicazione impugnata e di certezza
dell'aggiudicazione in favore del
ricorrente, solo se questo dimostri di non
aver utilizzato o potuto altrimenti
utilizzare maestranze e mezzi, in quanto
tenuti a disposizione in vista della
commessa. In difetto di tale dimostrazione,
può presumersi che l'impresa abbia
riutilizzato o potuto riutilizzare mezzi e
manodopera per altri lavori acquisiti o
acquisibili da altri committenti
(articolo ItaliaOggi del
19.05.2017).
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MASSIMA
50. In conclusione, l’Adunanza plenaria
enuncia i seguenti principi di diritto:
1. Dal giudicato amministrativo, quando riconosce la fondatezza
della pretesa sostanziale, esaurendo ogni
margine di discrezionalità nel successivo
esercizio del potere, nasce ex lege,
in capo all’amministrazione,
un’obbligazione, il cui oggetto consiste nel
concedere “in natura” il bene della
vita di cui è stata riconosciuta la
spettanza.
2. L’impossibilità (sopravvenuta) di esecuzione in forma specifica
dell’obbligazione nascente dal giudicato
–che dà vita in capo all’amministrazione ad
una responsabilità assoggettabile al regime
della responsabilità di natura contrattuale,
che l’art. 112, comma 3, c.p.a., sottopone
peraltro ad un regime derogatorio rispetto
alla disciplina civilistica– non estingue
l’obbligazione, ma la converte, ex lege,
in una diversa obbligazione, di natura
risarcitoria, avente ad oggetto
l’equivalente monetario del bene della vita
riconosciuto dal giudicato in sostituzione
della esecuzione in forma specifica;
l’insorgenza di tale obbligazione può essere
esclusa solo dalla insussistenza originaria
o dal venir meno del nesso di causalità,
oltre che dell’antigiuridicità della
condotta.
3. In base agli articoli 103 Cost. e 7 c.p.a., il giudice
amministrativo ha giurisdizione solo per le
controversie nelle quali sia parte una
pubblica amministrazione o un soggetto ad
essa equiparato, con la conseguenza che la
domanda che la parte privata danneggiata
dall’impossibilità di ottenere l’esecuzione
in forma specifica del giudicato proponga
nei confronti dell’altra parte privata,
beneficiaria del provvedimento illegittimo,
esula dall’ambito della giurisdizione
amministrativa.
4.
Nel caso di mancata aggiudicazione, il danno
conseguente al lucro cessante si identifica
con l’interesse c.d. positivo, che
ricomprende sia il mancato profitto (che
l’impresa avrebbe ricavato dall’esecuzione
dell’appalto), sia il danno c.d. curricolare
(ovvero il pregiudizio subìto dall’impresa a
causa del mancato arricchimento del
curriculum e dell’immagine professionale per
non poter indicare in esso l’avvenuta
esecuzione dell’appalto).
Spetta, in ogni caso, all’impresa
danneggiata offrire, senza poter ricorrere a
criteri forfettari, la prova rigorosa
dell’utile che in concreto avrebbe
conseguito, qualora fosse risultata
aggiudicataria dell’appalto, poiché
nell’azione di responsabilità per danni il
principio dispositivo opera con pienezza e
non è temperato dal metodo acquisitivo
proprio dell’azione di annullamento (ex art.
64, commi 1 e 3, c.p.a.), e la valutazione
equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod.
civ., è ammessa soltanto in presenza di
situazione di impossibilità -o di estrema
difficoltà- di una precisa prova
sull’ammontare del danno.
5.
Il mancato utile spetta nella misura
integrale, in caso di annullamento
dell’aggiudicazione impugnata e di certezza
dell’aggiudicazione in favore del
ricorrente, solo se questo dimostri di non
aver utilizzato o potuto altrimenti
utilizzare maestranze e mezzi, in quanto
tenuti a disposizione in vista della
commessa.
In difetto di tale dimostrazione, può
presumersi che l’impresa abbia riutilizzato
o potuto riutilizzare mezzi e manodopera per
altri lavori, a titolo di aliunde
perceptum vel percipiendum. |
APPALTI: Avvalimento
infragruppo, il contratto è da produrre.
Gare: per la disponibilità dei requisiti.
Anche nell'avvalimento infragruppo è
necessaria la produzione del contratto con
il quale si mettono a disposizione i
requisiti; il principio vale anche nei
settori speciali.
È quanto ha precisato il TAR Lazio-Roma,
III Sez., con la
sentenza
09.05.2017 n. 5545 rispetto ad una fattispecie di avvalimento infragruppo, per una gara di
appalto successiva all'entrata in vigore del
nuovo codice dei contratti pubblici (dlgs
50/2016).
I giudici hanno messo in evidenza la
discontinuità del nuovo codice rispetto al
codice De Lise del 2006, segnalando che in
base all'articolo 49, comma 2, lett. g), del
vecchio codice era previsto che per le
imprese appartenenti al medesimo gruppo, in
luogo del contratto di avvalimento si
potesse presentare una dichiarazione
sostitutiva attestante il legame giuridico
ed economico esistente nel gruppo, dal quale
fare discendere gli obblighi di messa a
disposizione dei requisiti oggetto di
avvalimento per tutta la durata del
contratto.
Ebbene, dicono i giudici laziali,
«nessuna norma di analogo tenore trova oggi
collocazione nel nuovo codice degli appalti
pubblici»; quindi si applica sempre il
generale obbligo di allegare il relativo
contratto.
La norma del vecchio codice, dicono i
giudici, non era peraltro «espressione di un
particolare principio eurounitario di
primaria rilevanza o cogente», il che
avrebbe potuto portare a sostenere la
diretta applicazione, né, ancora, i giudici
ritengono che sia possibile desumere una
eccezione per i cosiddetti «settori
speciali» (acqua, energia e trasporti) con
riferimento al comma 2 dell'art. 89 del
nuovo codice. Il rinvio al comma 1 della
stessa norma non consente di ammettere una
deroga all'obbligo di stipulare e produrre
in gara un contratto scritto di avvalimento.
La sentenza ha precisato, in particolare,
che occorre depositare la dichiarazione
dell'ausiliaria, «adempimento certamente non
derogabile, non essendo altrimenti
ipotizzabile altro documento idoneo a
comprovare il rapporto di avvalimento e
costituendo la suddetta dichiarazione da
sempre la prova principale del rapporto di
avvalimento, anche nel regime previgente»
(articolo ItaliaOggi del
12.05.2017).
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MASSIMA
19.5.
Com’è noto, senza sostanziali differenze tra
nuovo e vecchio Codice, l’istituto in
questione (avvalimento), di derivazione
comunitaria, consente che un imprenditore
possa comprovare alla stazione appaltante il
possesso dei necessari requisiti economici,
finanziari, tecnici e organizzativi –nonché
di attestazione della certificazione SOA– a
fini di partecipazione ad una gara, facendo
riferimento alle capacità di altro soggetto
(ausiliario), che assume contrattualmente
con lo stesso –impegnandosi nei confronti
della stazione appaltante– una
responsabilità solidale.
I caratteri e le finalità di fondo
dell’istituto (per come delineati
dall’articolo 47 della direttiva 2004/18/CE)
sono stati da ultimo sostanzialmente
confermati dall’articolo 63 della direttiva
2014/24/UE (cui corrispondono le analoghe
previsioni dell’articolo 38, paragrafo 2
della direttiva 2014/23/UE in tema di
concessioni e dell’articolo 79 della
direttiva 2014/25/UE in tema di cc.dd. ‘settori
speciali’), recepito nel nostro
ordinamento dall’art. 89 d.lgs. n. 50 del
2016.
L’avvalimento, pertanto, può riguardare
anche, come accaduto nella specie, un
requisito di capacità tecnica, relativo ad
una determinata esperienza
tecnico-professionale maturata nella
installazione di una specifica tipologia di
macchine radiogene e, in casi di questo
genere, deve ritenersi che “l’impresa
ausiliaria deve assumere l’impegno di
mettere a disposizione dell’impresa
ausiliata le proprie risorse e il proprio
apparato organizzativo, in termini di mezzi,
personale e di ogni altro elemento aziendale
qualificante
(cfr. in tal senso, fra le tante, Cons.
Stato, VI, 31.07.2014, n. 4056; V,
22.01.2015, n. 257, 27.01.2014, n. 412,
04.11.2014, n. 5446, 23.05.2011, n. 3066 e
12.06.2009, n. 3762; III, 07.04.2014, n.
1636 e 11.07.2014, n. 3599; IV, 09.02.2015,
n. 662). (…..)
Nella situazione in esame, la società
appellata richiama i requisiti di capacità
tecnica ed economica, riferiti al fatturato
ed ai contratti pregressi della ditta
ausiliaria, ma non richiama in alcun modo la
messa a disposizione –da parte di
quest’ultima– della propria struttura
organizzativa...”
(è quanto si legge in Cons. Stato, sez. VI,
15.05.2015, n. 2486).
Il Collegio ritiene che, anche nel caso in
esame, il requisito esperienziale di cui al
punto III.1.3., lett. a), del bando non sia
un mero requisito immateriale o “cartolare”
ma che, al contrario, comporti l’effettiva
prestazione di risorse, personale e mezzi,
da parte della He..
In effetti la specifica esperienza
tecnico-professionale delineata dalla
clausola serve a garantire alla stazione
appaltante la effettiva e concreta capacità
della concorrente di svolgere adeguatamente
le prestazioni contrattuali assunte, con
particolare riguardo alla installazione
delle macchine radiogene del tipo voluto dal
bando e, più nel dettaglio dal Capitolato
Speciale d’Appalto.
Seguendo, in altri termini, la
differenziazione tipologica invalsa in tema
di avvalimento, quello che viene in
considerazione nella specie appare
avvicinarsi, quanto meno per il profilo
attinente alla installazione dei macchinari
dedotti in appalto, ad un avvalimento di
tipo “operativo” piuttosto che di
mera “garanzia” (figura che,
viceversa, ricorre in caso di messa a
disposizione di un requisito patrimoniale o
del solo fatturato, ad integrazione di una
solidità finanziaria altrimenti non adeguata
in capo alla concorrente ausiliata).
Pertanto, seguendo quanto recentemente
affermato dall’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato nella sentenza
04.11.2016, n. 23 laddove si richiama
adesivamente (par. 3.4.) l’opinione secondo
cui “il contratto di
avvalimento (qualificabile come contratto
atipico) presenta tratti propri: i) del
contratto di mandato di cui agli articoli
1703 e seguenti del codice civile, ii)
dell’appalto di servizi, nonché iii) aspetti
di garanzia atipica nei rapporti fra
l’impresa ausiliaria e l’amministrazione
aggiudicatrice per ciò che riguarda
l’assolvimento delle prestazioni dedotte in
contratto”,
deve ritenersi che, nella specie, ai fini
dell’integrazione del requisito in capo alla
concorrente, nel contratto di avvalimento
debbano necessariamente ricorrere elementi
propri anche dell’appalto di servizi
(prestazione di mezzi e risorse), che
appaiono prevalenti rispetto agli aspetti di
“mera garanzia patrimoniale”. |
INCARICHI PROFESSIONALI: Notai,
limiti al falso ideologico. Esclusione se
l'omessa attestazione non provoca nullità.
La prima presa di posizione della Cassazione
sul collegamento con i lavori edilizi.
Il falso ideologico, a carico di un notaio,
non è configurabile se l'omessa attestazione
non incide sul contenuto dell'atto in modo
da determinarne la nullità in base alla
legge.
È questa la prima presa di posizione della
Corte di Cassazione, Sez. V penale, in tema di falso ideologico e
lavori edilizi (sentenza
08.05.2017 n. 22200).
In particolare secondo la Cassazione non
commette falso ideologico il notaio che, in
un atto pubblico da lui rogato, non attesta
l'avvenuta «realizzazione di interventi
edilizi c.d. “minori”, in quanto
insuscettibili di determinare la nullità
dell'atto traslativo, per l'epoca della
costruzione dell'immobile e per la
consistenza delle opere realizzate».
L'imputazione riguardava l'«attestazione da
parte del notaio rogante, nell'atto pubblico
stipulato per la compravendita di un
fabbricato, oggetto di opere edili che
avevano comportato il cambio di destinazione
d'uso di una loggia e di un magazzino, e
l'ampliamento planovolumetrico, che le opere
realizzate in epoca successiva ai titoli
legittimanti non richiedessero provvedimenti
abilitativi; circostanza non rispondente al
vero (secondo l'accusa), in quanto
l'immobile era stato trasformato e
modificato abusivamente in data antecedente
alla vendita, della quale erano a conoscenza
tutte le parti».
Con riferimento alla fattispecie concreta,
la sentenza ha affermato che il notaio aveva
l'obbligo di rogare l'atto, non ricorrendo
alcuna proibizione alla sua stipulazione.
Tale proibizione si configura, soltanto,
nell'ipotesi in cui esista un vizio che dia
luogo ad una nullità assoluta dell'atto. In
relazione all'abusivismo edilizio la nullità
assoluta dell'atto di compravendita si
realizza soltanto nell'ipotesi in cui, in
base alla normativa in materia, sia prevista
la sua «incommerciabilità».
Nella fattispecie esaminata, invece, «è
stata esclusa l'applicabilità delle norme
sull'incommerciabilità degli atti traslativi
aventi ad oggetto immobili abusivi»,
trattandosi di bene commerciabile in quanto
costruito «prima del 17.03.1985» e
sottoposto, successivamente a tale data,
soltanto ad interventi edili c.d. «minori».
Quindi, l'atto pubblico di compravendita non
era «proibito dalla legge», poiché non
affetto dal vizio di nullità
(articolo ItaliaOggi
Sette del
29.05.2017).
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MASSIMA
1. Il ricorso è infondato.
2. Giova premettere che correttamente la
sentenza impugnata ha riqualificato il fatto
contestato nel rato di falso ideologico, e
non già materiale, in atto pubblico.
È altresì pacificamente emerso che le parti
venditrici, la parte acquirente ed il Notaio
rogante erano consapevoli della
realizzazione di alcuni interventi edilizi
illegittimi, pur tuttavia non richiamati
nell'atto di compravendita stipulato. Al
riguardo, va rammentato che
il falso ideologico per omissione è
integrato dalla condotta che, incidendo sul
significato di un enunciato dichiarativo o
constatativo, produca un'attestazione non
conforme ai fatti; tuttavia, l'omissione è
configurabile soltanto se sussista un
relativo obbligo giuridico di
rappresentazione di alcuni fatti, sicché, in
caso di omessa rappresentazione, l'atto
pubblico assuma il significato di
attestazione della loro inesistenza (cd.
attestazione implicita)
(in tal senso, Sez. 1, n. 46966 del
17/11/2004, Narducci, Rv. 231183: "La
falsità ideologica di un atto può derivare
anche dall'omissione o dalla incompletezza
dei dati in esso illustrati, quando il
contesto espositivo sia tale che la
parzialità dell'informazione si risolve
nella mendace negazione dell'esistenza di un
fatto").
Tanto premesso, la sentenza impugnata appare
immune da censure.
Nel caso in esame, infatti, è stata esclusa
l'applicabilità delle norme
sull'incommerciabilità degli atti traslativi
aventi ad oggetto immobili abusivi,
trattandosi di immobile realizzato prima del
17.03.1985 (e, addirittura, del 01.09.1967,
data di entrata in vigore della c.d. "legge-ponte"),
dies a quo per l'applicabilità
dell'art. 46, comma 1, d.P.R. 380/2001, e di
interventi edilizi c.d. "minori", non
rientranti nelle previsioni di cui all'artt.
46, comma 5-bis (in relazione all'art. 22,
comma 3) d.P.R. 380/2001.
Non ricorrendo un'ipotesi di nullità
dell'atto, pertanto, e sul presupposto che
l'art. 27 della l. 89 del 1913 (c.d. legge
notarile) prevede che "Il notaro è
obbligato a prestare il suo ministero ogni
volta che ne è richiesto", è stato
affermato che il Notaio rogante non avesse
il divieto di stipulare l'atto di
compravendita in oggetto, e non avesse
neppure l'obbligo di dichiarare l'esistenza
degli interventi edilizi "minori"
realizzati, in quanto non incidenti sul
regime di commerciabilità del bene.
L'art. 28 della legge notarile sancisce,
infatti, che "Il notaro non può ricevere
atti (...) se essi sono espressamente
proibiti dalla legge (...)".
Sicché, nel caso in esame, trattandosi di
bene commerciabile, in quanto costruito
prima del marzo 1985 ed oggetto di
interventi edilizi c.d. "minori",
l'atto pubblico di compravendita non era "proibito
dalla legge", in quanto non affetto dal
vizio della nullità sancito dall'art. 46
d.P.R. 380/2001.
In tal senso si è, altresì, espressa la
giurisprudenza civile di questa Corte,
secondo cui, in tema di responsabilità
disciplinare dei notai, il divieto, imposto
dall'articolo 28, comma primo, n. 1, della
legge 16.02.1913, n. 89, sanzionato con la
sospensione a norma dell'art. 138, comma
secondo, di ricevere atti "espressamente
proibiti dalla legge" attiene ad ogni
vizio che dia luogo ad una nullità assoluta
dell'atto, con esclusione, quindi, dei vizi
che comportano l'annullabilità o
l'inefficacia dell'atto (ovvero la stessa
nullità relativa) ed è sufficiente che la
nullità risulti in modo inequivoco (Cass.
Civ., Sez. 3, n. 11128 del 11/11/1997, Rv.
509864)
Del resto, lo stesso art. 2700 c.c.,
richiamato dal ricorrente, nel delimitare il
regime di efficacia dell'atto pubblico,
sancisce che questo "fa piena prova, fino
a querela di falso, della provenienza del
documento dal pubblico ufficiale che lo ha
formato, nonché delle dichiarazioni delle
parti e degli altri fatti che il pubblico
ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o
da lui compiuti".
Ebbene, oltre alla prova della provenienza
del documento, l'efficacia probatoria
dell'atto pubblico si estende alle
dichiarazioni e ai fatti avvenuti in
presenza del pubblico ufficiale; ma tale
efficacia riguarda soltanto le dichiarazioni
e i fatti rilevanti ai fini della formazione
dell'atto pubblico.
In altri termini,
l'omessa esposizione di un fatto assume il
significato della negazione della sua
esistenza soltanto quando la sua rilevanza
ne avrebbe imposto la manifestazione; al
contrario, non ricorre la c.d. attestazione
implicita, allorquando, come nel caso di
specie, non sussista l'obbligo di attestare
la realizzazione di interventi edilizi c.d.
"minori", in quanto insuscettibili di
determinare la nullità dell'atto traslativo,
per l'epoca della costruzione dell'immobile
e per la consistenza delle opere realizzate. |
EDILIZIA PRIVATA: La
sostituzione o il rinnovamento di serramenti e, quindi,
anche di infissi o di serrande, rientra nel concetto di
finiture di edifici, come tale configurabile in termini di
manutenzione ordinaria ai sensi dell’art. 31, lett.
a), della l. 05.08.1978, n. 457, vigente all’epoca della
contestazione dell’abuso ed (anche) oggi ai sensi dell'art.
3, lett. a), D.P.R. 06.06.2001, n. 380, disposizione ultima
secondo la quale tale intervento costituisce attività libera
e non soggetta a denuncia di inizio attività ai sensi
dell'art. 6, lett. a), dello stesso decreto, e ciò sia che
vengano impiegati gli stessi materiali componenti, sia che
la sostituzione o il rinnovamento venga effettuata con
materiali diversi.
----------------
5. – Anche il secondo motivo di ricorso, nella
sequenza proposta nell’atto introduttivo del presente
giudizio, si presenta fondato.
Con il secondo motivo di ricorso, infatti, si sostiene
correttamente che la sostituzione dell’infisso costituirebbe
intervento di “manutenzione ordinaria”, di talché si
presenta illegittima la sanzione demolitoria inflitta dal
Comune.
Sul punto va rammentato, in aderenza ad una diffusa
giurisprudenza, che la sostituzione o il rinnovamento di
serramenti e, quindi, anche di infissi o di serrande,
rientra nel concetto di finiture di edifici, come tale
configurabile in termini di manutenzione ordinaria ai
sensi dell’art. 31, lett. a), della l. 05.08.1978, n. 457,
vigente all’epoca della contestazione dell’abuso ed (anche)
oggi ai sensi dell'art. 3, lett. a), D.P.R. 06.06.2001, n.
380, disposizione ultima secondo la quale tale intervento
costituisce attività libera e non soggetta a denuncia di
inizio attività ai sensi dell'art. 6, lett. a), dello stesso
decreto, e ciò sia che vengano impiegati gli stessi
materiali componenti, sia che la sostituzione o il
rinnovamento venga effettuata con materiali diversi (cfr.
TAR Piemonte, Sez. I, 12.04.2010 n. 1761; TAR Campania,
Napoli, Sez. IV, 18.10.2005 n. 16667 e TAR Lazio, Sez. II,
09.05.2005 n. 3438)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 08.05.2017 n. 5541 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In ragione del contenuto rigidamente vincolato
che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia
edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione
abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione
d'avvio del relativo procedimento.
----------------
7. - Quanto alla mancata comunicazione dell’avvio del
procedimento repressivo sanzionatorio (ai sensi ai sensi
dell’art. 7 l. 241/1990) che ha dato luogo all’ordinanza qui
gravata, trova applicazione il costante insegnamento
giurisprudenziale a mente del quale in ragione del contenuto
rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti
sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di
demolizione di costruzione abusiva, non devono essere
preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo
procedimento (cfr., per tutte, Cons. Stato, Sez. VI,
24.09.2010 n. 7129).
Ne deriva che, come la terza, anche la quarta censura non si
presta ad essere accolta
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 08.05.2017 n. 5541 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
La competenza ad adottare
atti di gestione in materia edilizia, compresi quelli
repressivo-sanzionatori, è stata trasferita dalla legge ai
dirigenti soltanto con l’entrata in vigore della l.
191/1998, vale a dire a far data dal 05.07.1998.
----------------
6. – Con la terza censura dedotta il ricorrente
sostiene la incompetenza del Sindaco ad adottare il
provvedimento repressivo in materia edilizia qui impugnato,
ma la censura non coglie nel segno.
Sul punto va invero considerato che in materia di riparto di
competenza tra organi politici e organi della gestione negli
Enti locali per la adozione di provvedimenti amministrativi
si è assistito alla seguente evoluzione:
- con l'originaria stesura dell'art. 51, terzo comma, della legge
08.06.1990, n. 142, venne previsto che ai dirigenti
spettassero tutti i compiti, compresa la adozione di atti
che impegnassero l'amministrazione verso l'esterno ma che
non fossero espressamente riservati dalla legge o dallo
statuto agli organi di governo, indicandosi in particolare,
con richiamo alle modalità stabilite dallo statuto, la
presidenza delle commissioni di gara e di concorso, la
responsabilità sulle procedure d'appalto e di concorso, la
stipulazione dei contratti;
- con la modifica apportata dall'art. 6 della l. 15.05.1997, n. 127
la elencazione dei compiti attribuiti ai dirigenti ha subito
un ampliamento, aggiungendosi, a quelli previsti dal cennato
originario terzo comma, gli atti di gestione finanziaria,
ivi compresa l'assunzione di impegni di spese (lett. d), gli
atti di amministrazione e gestione del personale (lett. e),
i provvedimenti di assentimento di cui alla sopra citata
lett. [f], le attestazioni, certificazioni, comunicazioni,
diffide, verbali, autenticazioni, legalizzazioni ed ogni
altro atto costituente manifestazione di giudizio e di
conoscenza (lett. g), gli atti ad essi attribuiti dallo
statuto e dai regolamenti o, in base a questi, delegati dal
sindaco (lett. h);
- con l'art. 45 d.lgs. 31.03.1998, n. 80 è stato previsto che, a
decorrere dalla data di entrata in vigore dello stesso
decreto (e cioè dal 23.04.1998), le disposizioni previgenti
che conferiscono agli organi di governo l'adozione di atti
di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi di cui
all'art. 3, secondo comma, del d.lgs. 03.02.1993, n. 29, si
intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai
dirigenti;
- con l'art. 2, comma 12, l. 16.06.1998, n. 191, è stata inserita,
dopo la lett. [f] del sopra citato e modificato art. 51
della l. n. 142/1990, la seguente lett. [f-bis]: “tutti i
provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e
riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i
poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni
amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e
regionale in materia di prevenzione e repressione
dell'abusivismo edilizio e paesaggistico–ambientale”.
L'esplicito ampliamento normativo, subìto per due volte,
della elencazione dei compiti originariamente spettanti ai
dirigenti, conduce alla conclusione che quanto indicato,
limitatamente alle commissioni, alle procedure e ai
contratti, dall'iniziale stesura dell'art. 51, non fosse
meramente esemplificativo. Una ipotesi del genere
colliderebbe infatti con la considerazione in base alla
quale il legislatore avrebbe emesso per tre volte norme
sostanzialmente inutili (precisando dapprima taluni compiti
nella originaria stesura dell'art. 51, ampliandoli poi con
la legge n. 127 del 1997, ampliandoli ulteriormente con la
legge n. 191 del 1998).
Va pertanto concluso, per quanto qui occorre, che il
progressivo ampliamento delle competenze dei dirigenti sia
avvenuto, di volta in volta, in concomitanza con la entrata
in vigore delle varie norme sopra esaminate.
E va conseguentemente detto che le enunciazioni, di ampio
significato, contenute nell'art. 51, terzo comma, cit. ("spettano
ai dirigenti tutti i compiti...") e nell'art. 45 cit. ("le
disposizioni previgenti che conferiscono agli organi di
governo l'adozione di atti ... si intendono nel senso che la
relativa competenza spetta ai dirigenti"), sono state
intese dal medesimo legislatore che le ha introdotte, e
(cfr. in particolare l'originario art. 51 e l'art. 6, comma
2 cit.) nel momento stesso in cui sono state poste, nel
senso di enunciazioni di principio, abbisognevoli di
specificazioni necessarie; non utili quindi, ex se, a
conferire senz'altro poteri dirigenziali sul punto.
Può concludersi pertanto che la competenza ad adottare atti
di gestione in materia edilizia, compresi quelli
repressivo-sanzionatori, sia stata trasferita dalla legge ai
dirigenti soltanto con l’entrata in vigore della l.
191/1998, vale a dire a far data dal 05.07.1998 e quindi in
epoca successiva alla data di adozione del provvedimento qui
impugnato
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 08.05.2017 n. 5541 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Costi
di sicurezza esclusi per le opere di tipo
intellettuale. Consiglio di Stato. Appalti
pubblici.
Novità per le prestazioni di natura
intellettuale a pubbliche amministrazioni,
negli appalti di servizi soggetti alla
disciplina delle opere pubbliche (Dlgs
50/2016): il Consiglio di Stato esclude che
per esse vi siano costi di sicurezza da
indicare.
La
sentenza 08.05.2017 n.
2098, relativa alla fornitura e
manutenzione di software ad una società
pubblica della provincia autonoma di
Bolzano, decide il caso di un fornitore che
aveva indicato la cifra «zero» per i costi
di sicurezza, che il disciplinare di gara
imponeva fossero chiariti.
Per i giudici, quando la fornitura riguarda
un servizio di natura intellettuale, costi
di sicurezza non sono configurabili e, in
conseguenza, non si può escludere il
concorrente per asserita violazione
dell’articolo 87, comma 4, del Dlgs 163/2006
(oggi articolo 50, Dlgs 50/2016, Codice
appalti), dovendosi valutare in concreto se
la dichiarazione relativa all’offerta
economica sia congrua. Il confine tra
forniture di servizi di natura intellettuale
ed altri tipi di servizi assume rilievo con
l’evolversi delle professioni verso
strutture imprenditoriali, articolate in
organismi complessi, destinati ad operare
non solo presso la sede professionale ma
anche presso l’utente, anche in forme
societarie complesse.
Le recenti modifiche al Dlgs 50/2016 (Dlgs
19.04.2017 n. 56, pubblicato il 5 maggio
e in vigore dal 20 maggio) accentuano
(articolo 50) la differenza degli appalti di
servizi di natura intellettuale rispetto ad
altri servizi, esonerando i primi, per la
loro matrice personale, dalle clausole
sociali che garantiscono generica stabilità
occupazionale.
Restano di difficile definizione le figure
in cui i costi di sicurezza non sono
applicabili: la fornitura di pc con
assistenza tecnica on-site, quindi con
personale in loco, non è stata ritenuta
prestazione intellettuale (Tar Bologna,
sentenza 268/2015), nemmeno se vi è garanzia
post vendita (Consiglio di Stato,
1798/2015); consulenza e brokeraggio
assicurativo per una Regione non espongono a
rischi o pericoli (Consiglio di Stato,
1051/2016; Tribunale amministrativo di
Bolzano, 143/2017); il servizio di call
center, ritenuto di natura intellettuale
(Tar Bologna, 564/2016). Per i tecnici, la
redazione di un piano di rischi
idrogeologici con sopralluoghi e rilievi
espone a rischi specifici (Consiglio di
Stato, 3139/2016), come progettazione
lavori, demolizione e ricostruzione di una
scuola con sopralluoghi, rilievi e
misurazioni (Tar Veneto, 182/2017).
Altre volte i servizi di ingegneria a
supporto di una struttura tecnica di
un’azienda ospedaliera sono stati ritenuti
prevalentemente intellettuali, privi di
rischi specifici perché si esprimono in
attività di controllo e supervisione dei
lavori, senza partecipazione attiva ai
cantieri (Tar Napoli, 4150/2016); solo
professionale è anche l’attività degli
interpreti e traduttori (assistenza
linguistica negli asili nido della provincia
di Trento), anche se l’attività è prestata
in scuole (Consiglio di Stato, 223/2017).
In sintesi, analizzando i costi aziendali
emerge il ridursi delle prestazioni
meramente intellettuali, che si riducono
all’ideazione delle soluzioni, senza
necessità di verifiche e collaudi
(articolo Il Sole 24
Ore del 10.05.2017). |
APPALTI -
ATTI AMMINISTRATIVI:
Nella fattispecie, l’istanza di accesso è
assolutamente generica e indeterminata, facendo riferimento
a “tutta la corrispondenza interna fra DL, RUP, ufficio
affari legali M.M. e Consiglio di Amministrazione”.
Deve, dunque, ricevere applicazione la costante
giurisprudenza sull’inesistenza in capo all’istante del
concreto interesse all’accesso in tutti i casi in cui lo
stesso miri ad un controllo generalizzato dell’operato
dell’amministrazione, inammissibile ai sensi dell’art. 24,
comma 3, della legge n. 241/1990.
---------------
Ai sensi dell'art. 13, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 nelle gare
pubbliche il diritto di accesso agli atti delle procedure di
affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici è
sottoposto ad un limite generale che è quello della
necessaria sussistenza di un interesse differenziato,
concreto ed attuale, il quale deve trovarsi in evidente
collegamento con la tutela giurisdizionale di una
determinata posizione giuridica dell'istante; inoltre il
diritto all'accesso ai documenti amministrativi oppure alla
documentazione privata d'interesse amministrativo,
soprattutto per questa ultima, deve essere sempre comparato
con il diritto alla riservatezza e comunque si deve ritenere
prevalente ove connesso al riconoscimento di una determinata
situazione in sede giurisdizionale.
Inoltre “E' da escludere che la titolarità del diritto
d'accesso risieda soltanto in una situazione funzionale
all'esercizio di un interesse giuridicamente protetto e
suscettibile di tutela giurisdizionale; ed invero la
richiesta di accesso, pur non potendo configurarsi quale
forma di preventivo e generalizzato controllo dell'intera
attività dell'Amministrazione, si può basare su un interesse
anche non funzionalmente connesso ad un'immediata tutela in
via giudiziale, purché concreto ed attuale; in altri
termini, la nozione di «interesse giuridicamente rilevante»,
che fonda il diritto di accesso, è più ampia rispetto a
quella di «interesse all'impugnazione»”.
“Il diritto di accesso non è stato configurato dal
legislatore con carattere meramente strumentale rispetto
alla difesa in giudizio, avendo un carattere autonomo, nel
senso che il collegamento tra l'interesse giuridicamente
rilevante del soggetto che richiede l'accesso e la
documentazione oggetto della relativa istanza va inteso in
senso ampio, poiché la documentazione richiesta deve essere
considerata mezzo utile per la difesa e non come strumento
di prova diretta della lesione dell'interesse tutelato”.
Deve, infine, precisarsi che: “Ai sensi dell'art. 22, comma
1, lett. b), l. 07.08.1990 n.241 e successive modificazioni,
il diritto di accesso si indirizza ai documenti
amministrativi detenuti dall'Amministrazione e concernenti
attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla
natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina
sostanziale; quindi è strutturato al fine di consentire la
conoscenza di atti rappresentativi dell'attività della
Pubblica amministrazione finalizzata alla cura e al
perseguimento di scopi di interesse pubblico o che si
configurino essenziali all'esercizio dell'attività stessa,
indipendentemente dal fatto che essa sia espressione di
poteri autoritativi o di autonomia negoziale dell' ente; nel
documento deve quindi sostanziarsi l'esercizio della
funzione amministrativa, ovvero deve costituire strumento
per l'esercizio della potestà di amministrazione”.
---------------
Il collegio ritiene che il ricorso sia fondato solo in
parte, sussistendo il concreto interesse della ricorrente
all’accesso esclusivamente riguardo al verbale del CdA di MM
che concerne la sua posizione con riferimento alla
risoluzione del contratto in questione.
Ed invero, riguardo alla porzione dell’istanza concernente
la copia della corrispondenza privata interna intercorsa tra
la DL e il RUP, la DL e la DT, la DT e la progettazione,
nonostante l’astratta configurabilità della possibilità
dell’ostensione anche di atti di natura privatistica, purché
connessi all’esercizio della potestà autoritativa
dell’amministrazione, nella fattispecie in questione
l’istanza è assolutamente generica e indeterminata, facendo
riferimento a “tutta la corrispondenza interna fra DL,
RUP, ufficio affari legali M.M. e Consiglio di
Amministrazione”. Deve, dunque, ricevere applicazione la
costante giurisprudenza sull’inesistenza in capo all’istante
del concreto interesse all’accesso in tutti i casi in cui lo
stesso miri ad un controllo generalizzato dell’operato
dell’amministrazione, inammissibile ai sensi dell’art. 24,
comma 3, della legge n. 241/1990 (cfr., fra le tante, Cons.
Stato, sez. IV, 12.01.2016, n. 68).
Riguardo alla documentazione detenuta da ANAC, l’accesso è
stato legittimamente negato da MM in virtù del differimento
già dalla stessa Autorità disposto con nota del 12.12.2016
su analoga istanza di accesso presentatagli dalla odierna
ricorrente, poiché ai sensi del Regolamento concernente
l’accesso ai documenti formati o detenuti stabilmente
dall’Autorità, l’accesso è differito a una data successiva
all’adozione della delibera conclusiva del Consiglio, che
non è ancora intervenuta.
Riguardo, invece, al verbale del Consiglio di
Amministrazione di MM, il Collegio ritiene che sia
rinvenibile l’interesse della ricorrente all’ostensione del
medesimo, anche se non specificato nell’istanza, atteso che
nel provvedimento di risoluzione si fa menzione di
un’autorizzazione alla risoluzione medesima da parte del
Consiglio di Amministrazione, risultando, dunque, lo stesso
facilmente individuabile.
Il Collegio richiama, in proposito, il costante orientamento
della giurisprudenza amministrativa in base al quale: “Ai
sensi dell'art. 13, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 nelle gare
pubbliche il diritto di accesso agli atti delle procedure di
affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici è
sottoposto ad un limite generale che è quello della
necessaria sussistenza di un interesse differenziato,
concreto ed attuale, il quale deve trovarsi in evidente
collegamento con la tutela giurisdizionale di una
determinata posizione giuridica dell'istante; inoltre il
diritto all'accesso ai documenti amministrativi oppure alla
documentazione privata d'interesse amministrativo,
soprattutto per questa ultima, deve essere sempre comparato
con il diritto alla riservatezza e comunque si deve ritenere
prevalente ove connesso al riconoscimento di una determinata
situazione in sede giurisdizionale” (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 27.04.2015, n. 2096).
Inoltre “E' da escludere che la titolarità del diritto
d'accesso risieda soltanto in una situazione funzionale
all'esercizio di un interesse giuridicamente protetto e
suscettibile di tutela giurisdizionale; ed invero la
richiesta di accesso, pur non potendo configurarsi quale
forma di preventivo e generalizzato controllo dell'intera
attività dell'Amministrazione, si può basare su un interesse
anche non funzionalmente connesso ad un'immediata tutela in
via giudiziale, purché concreto ed attuale; in altri
termini, la nozione di «interesse giuridicamente rilevante»,
che fonda il diritto di accesso, è più ampia rispetto a
quella di «interesse all'impugnazione»” (Cons. Stato,
sez. V, 17.03.2015, n. 1370).
“Il diritto di accesso non è stato configurato dal
legislatore con carattere meramente strumentale rispetto
alla difesa in giudizio, avendo un carattere autonomo, nel
senso che il collegamento tra l'interesse giuridicamente
rilevante del soggetto che richiede l'accesso e la
documentazione oggetto della relativa istanza va inteso in
senso ampio, poiché la documentazione richiesta deve essere
considerata mezzo utile per la difesa e non come strumento
di prova diretta della lesione dell'interesse tutelato”
(Cons. Stato, sez. VI, 10.02.2015, n. 714).
Deve, infine, precisarsi che: “Ai sensi dell'art. 22,
comma 1, lett. b), l. 07.08.1990 n.241 e successive
modificazioni, il diritto di accesso si indirizza ai
documenti amministrativi detenuti dall'Amministrazione e
concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica
della loro disciplina sostanziale; quindi è strutturato al
fine di consentire la conoscenza di atti rappresentativi
dell'attività della Pubblica amministrazione finalizzata
alla cura e al perseguimento di scopi di interesse pubblico
o che si configurino essenziali all'esercizio dell'attività
stessa, indipendentemente dal fatto che essa sia espressione
di poteri autoritativi o di autonomia negoziale dell' ente;
nel documento deve quindi sostanziarsi l'esercizio della
funzione amministrativa, ovvero deve costituire strumento
per l'esercizio della potestà di amministrazione” (Cons.
Stato, sez. III, 22.12.2014, n. 6352).
Ne consegue, dunque, la possibilità dell’ostensione anche di
atti di natura privatistica, purché connessi all’esercizio
della potestà autoritativa dell’amministrazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 05.05.2017 n. 1035 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I lavori di adeguamento su
struttura socio-riabilitativa per
portatori di disabilità, da parte di una IPAB,
rientrano per definizione all’interno delle “…
opere pubbliche o di interesse generale”, di cui all'art.
17, co. 3, lett. c) TUE. Trattasi infatti di struttura volta
alla cura di persone con gravi disabilità, e mirante ad
assicurare loro assistenza continuativa, anche dopo la morte
dei relativi familiari.
Sicché, la fattispecie è esente dal versamento del
contributo di costruzione ai sensi dell’art. 17, co. 3,
lett. c), TUE. Invero, il contributo di costruzione, non è
dovuto: “… per gli impianti, le attrezzature, le opere
pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti
istituzionalmente competenti nonché per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici” ove “Per integrare la fattispecie
normativa, è necessario il concorso di due requisiti,
l'uno di carattere oggettivo e l'altro di
carattere soggettivo. Per effetto del primo, la
costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse
generale; per effetto del secondo, le opere devono essere
eseguite da un ente istituzionalmente competente. La ratio
della norma è innanzitutto quella di agevolare l'esecuzione
di opere destinate al soddisfacimento di interessi pubblici
o dalle quali la collettività possa comunque trarre una
utilità. Il legislatore ha, quindi, inteso evitare
l'imposizione di oneri concessori al soggetto che interviene
per l'istituzionale attuazione del pubblico interesse;
imposizione che sarebbe altrimenti intimamente
contraddittoria, poiché verrebbe a gravare, sia pure
indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe
avvantaggiarsi dal loro pagamento. In tale prospettiva, è
stato chiarito dalla giurisprudenza -con riferimento al
requisito soggettivo- che per “enti istituzionalmente
competenti" debbano intendersi i soggetti pubblici, ovvero
anche i soggetti privati, purché l'opera sia realizzata per
conto di un ente pubblico”.
---------------
1. La ricorrente –iscritta nell’elenco delle IPAB operanti
all’interno della Regione– ha ottenuto permesso di costruire
al fine di eseguire lavori di adeguamento del proprio
immobile a struttura socio-riabilitativa, versando il
relativo contributo concessorio.
Avvedutasi della possibilità di fruire dell’esenzione
stabilita dall’art. 17, co. 3, lett. c), d.P.R. n. 380/2001
(TUE), essa ha diffidato il Comune di Castro a trasformare
il permesso di costruire da oneroso in gratuito, restituendo
conseguentemente le somme indebitamente percepite dall’ente
a titolo di oneri concessori.
Tale diffida è stata formalmente disattesa dal Comune con
nota prot. n. 7141/15.
Avverso tale nota, e ai relativi provvedimenti presupposti,
la ricorrente è insorta, deducendone l’illegittimità sulla
base dei seguenti motivi di gravame: violazione dell’art.
17, co. 3, lett. c), d.P.R. n. 380/2001; eccesso di potere
per errore.
All’udienza del 19.04.2017 il ricorso è stato trattenuto in
decisione.
...
4. Nel merito, con i vari motivi di gravame, deduce la
ricorrente la violazione, ad opera del Comune, della
previsione di cui all’art. 17, co. 3, lett. c), TUE, avuto
riguardo sia alla sua soggettività di diritto pubblico, sia
alla natura di interesse generale delle opere realizzate
dalla ricorrente.
Gli assunti sono fondati.
4.2. Ai sensi dell’art. 17, co. 3, lett. c), TUE, il
contributo di costruzione, non è dovuto: “… per gli
impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse
generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti
nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da
privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Così individuata la previsione normativa di riferimento,
occorre ora indagarne la portata.
4.3. Sul punto, osserva il Collegio che, per condivisa
giurisprudenza amministrativa, “Per integrare la
fattispecie normativa, è necessario il concorso di due
requisiti, l'uno di carattere oggettivo e l'altro
di carattere soggettivo. Per effetto del primo, la
costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse
generale; per effetto del secondo, le opere devono essere
eseguite da un ente istituzionalmente competente. La ratio
della norma è innanzitutto quella di agevolare l'esecuzione
di opere destinate al soddisfacimento di interessi pubblici
o dalle quali la collettività possa comunque trarre una
utilità. Il legislatore ha, quindi, inteso evitare
l'imposizione di oneri concessori al soggetto che interviene
per l'istituzionale attuazione del pubblico interesse;
imposizione che sarebbe altrimenti intimamente
contraddittoria, poiché verrebbe a gravare, sia pure
indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe
avvantaggiarsi dal loro pagamento. In tale prospettiva, è
stato chiarito dalla giurisprudenza -con riferimento al
requisito soggettivo- che per “enti istituzionalmente
competenti" debbano intendersi i soggetti pubblici, ovvero
anche i soggetti privati, purché l'opera sia realizzata per
conto di un ente pubblico” (TAR Lombardia, II,
03.11.2016, n. 2011. Cfr. altresì la copiosa giurisprudenza
ivi citata).
5. Ciò premesso, e venendo ora al caso in esame, rileva il
Collegio che, per quel che attiene al requisito
soggettivo, già la denominazione giuridica della
ricorrente –i.e: Istituzione pubblica di assistenza e
beneficenza (IPAB)– ne tradisce la sua natura pubblicistica,
peraltro assai risalente nel tempo, essendo le IPAB
originariamente disciplinate dalla legge 17.07.1890, n.
6972.
Inoltre, ai sensi dell’art. 1 d.lgs. n. 207/2001, si è
previsto “il riordino delle istituzioni pubbliche di
assistenza e beneficenza”, la qual cosa costituisce
ulteriore indice della sua natura pubblicistica.
La natura pubblicistica della ricorrente è poi confermata
dalla L.R. n. 15/2004, la quale in coerenza con la citata
normativa statale ha dettato previsioni per il riordino
delle IPAB già esistenti in ambito regionale, tra le quali
risulta inclusa la ricorrente –il cui statuto è stato
approvato in data 10.07.1923 (cfr. doc. n. 11 del fascicolo
di parte ricorrente)– come da nota Regione Puglia n.
635/2013 (cfr. n. 35 del relativo Allegato contenente
indicazione di tutte le IPAB regionali – Doc. n. 15).
Da ultimo, vi è in atti nota n. 32 del 18.02.2010 con la
quale la Regione, visto il piano di risanamento elaborato
dalla ricorrente, ha autorizzato quest’ultima a conservare
la soggettività giuridica pubblica in atto, nelle more della
sua trasformazione in Azienda pubblica di servizi alla
persona (ASP), ai sensi del d.lgs. n. 207/2001.
Alla luce di tali elementi, è evidente la natura
pubblicistica della ricorrente, e l’assenza del fine di
lucro della stessa, sicché deve senz’altro ritenersi
integrato il requisito soggettivo richiesto dalla cennata
previsione di cui all’art. 1,7 co. 3, lett. c) TUE.
6. Per quel che attiene al requisito oggettivo,
peraltro mai contestato dal Comune, rileva il Collegio che
l’opera realizzata dalla ricorrente –realizzazione di una
struttura socio-riabilitativa per portatori di disabilità–
rientra per definizione all’interno delle “… opere
pubbliche o di interesse generale”, di cui al cennato
art. 17, co. 3, lett. c) TUE. Trattasi infatti di struttura
volta alla cura di persone con gravi disabilità, e mirante
ad assicurare loro assistenza continuativa, anche dopo la
morte dei relativi familiari.
7. Per tali ragioni, reputa il Collegio la sussistenza di
entrambi i requisiti normativamente previsti ai fini
dell’esenzione del contributo in esame.
Ne consegue, in accoglimento del ricorso, la condanna del
Comune di Castro alla restituzione, in favore della
ricorrente, di tutte le somme versate da quest’ultima al
Comune a titolo di oneri concessori relativi al p.d.c.
18.12.2012, n. 7274.
Trattandosi di indebito oggettivo, e in assenza di indici di
mala fede da parte del Comune, il relativo importo andrà
maggiorato di rivalutazione monetaria e interessi legali
sulla somma via via rivalutata, dal 09.02.2016 –data di
notifica del presente ricorso, e dies a quo di
decorrenza della mora (art. 2033 c.c.)– al soddisfo (TAR
Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 04.05.2017 n. 671 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Appalti,
essenziale la sicurezza. Esclusa l'impresa
che non indica i costi anti-infortuni. Il
Tar Campania: non attivabile il soccorso
istruttorio per un obbligo previsto dalla
legge.
Il soccorso istruttorio non salva
dall'esclusione dalla gara l'impresa che
nell'offerta economica manca di indicare i
costi di sicurezza interna. Con il nuovo
codice dei contratti pubblici, infatti,
l'obbligo scaturisce direttamente dalla
legge, che indica come elemento economico
essenziale gli oneri sostenuti dell'azienda
per tutelare la salute dei lavoratori:
l'estromissione della società inadempiente
dalla gara scatta dunque al di là delle
previsioni ad hoc contenute nello stesso
bando emesso dall'ente.
È quanto emerge dalla
sentenza 03.05.2017 n. 2358,
pubblicata dalla III Sez. del TAR
Campania-Napoli.
Parla chiaro l'articolo 95, comma
10, del decreto legislativo 50/2016:
«Nell'offerta economica l'operatore deve
indicare i propri costi aziendali
concernenti l'adempimento delle disposizioni
in materia di salute e sicurezza sui luoghi
di lavoro». Resta fuori, quindi, dalla
procedura a evidenza pubblica la società che
puntava a gestire la raccolta dei rifiuti
urbani in un comune del Napoletano.
È
escluso che l'impresa candidata possa
ottenere il termine di dieci giorni per
mettersi in regola previsto dall'articolo
83, nono comma, del decreto legislativo
50/2016: il soccorso istruttorio, infatti,
si può ottenere soltanto per sanare le
carenze formali del documento di gara unico
europeo, mentre la partecipante alla
procedura pubblica che non espone i costi
necessari agli adempimenti per la sicurezza
sui luoghi di lavoro viene meno a un obbligo
imposto dalla legge che integra di per sé
gli atti di gara. Non conta allora se il
bando, il disciplinare oppure lo stesso
modello di offerta economica predisposto
dalla stazione appaltante prevedano la
dichiarazione separata degli oneri sostenuti
per tutelare la salute dei dipendenti.
Già prima del decreto legislativo 50/2016 la
giurisprudenza di legittimità è intervenuta
sull'esclusione dalla gara l'impresa che in
sede di offerta economica non ha indicato
gli oneri necessari a evitare gli infortuni,
anche se un incombente del genere non
risulta richiesto dal bando. E ha chiarito
che si tratta di un precetto imperativo per
qualsiasi tipo di procedura pubblica, quale
che sia la posta in palio: lavori, servizi o
forniture.
Deve ritenersi che il principio
secondo cui ogni impresa che partecipa a un
appalto pubblico deve indicare gli oneri di
sicurezza aziendali è un obbligo che integra
«dall'esterno» la legge di gara. Se non si
adegua, dunque, l'azienda resta fuori dalla
procedura benché il bando non preveda
l'estromissione ad hoc, il tutto in base al
principio di «tassatività attenuata» delle
cause di esclusione dalle gare, sancito
dall'articolo 46 del codice dei contratti
pubblici. Il Consiglio di stato con la
sentenza 5873/2015, pubblicata dalla quinta
sezione, dà continuità all'orientamento di
giurisprudenza espresso dall'adunanza
plenaria di Palazzo Spada.
Resta da motivare perché in caso di mancata
indicazione degli oneri di sicurezza
aziendali non sono legittimamente
esercitabili i poteri attinenti al soccorso
istruttorio: nella specie, anche si dovesse
ritenere che il bando abbia escluso
l'obbligo delle imprese di indicare i costi
di sicurezza aziendale in sede di offerta,
la legge di gara risulta comunque impugnata
sul punto da un'impresa partecipante
(articolo ItaliaOggi
Sette del
29.05.2017). |
APPALTI:
Non si possono imporre iscritti a
particolari ordini.
Annullata. Va posta nel nulla
l'aggiudicazione dell'appalto se si scopre
che la lettera d'invito impone alla società
partecipante di avere un dipendente iscritto
a uno specifico ordine professionale,
titolato ai lavori messi a gara, mentre
l'impresa vincitrice ha solo un consulente
con quei requisiti, per quanto legato
all'azienda da un contratto in esclusiva.
E ciò perché non si può disattendere il
requisito indicato nella lettera d'invito
agli operatori economici: l'amministrazione
ha infatti interesse a che il professionista
sia a diretta disposizione
dell'aggiudicataria.
È quanto emerge dalla
sentenza
28.04.2017 n. 150,
pubblicata dalla I Sez. del TAR
Molise.
Potere e intensità
Accolto il ricorso dello studio
professionale associato, che fa bloccare la
gara vinta dal competitor per il piano di
assestamento forestale del comune: per
realizzarlo, infatti, ci vuole un agronomo,
mentre il titolare dell'aggiudicataria è un
geologo e solo il consulente esterno ha il
requisito indicato.
Ai fini dell'appalto il rapporto di lavoro
subordinato non può essere equiparato alla
prestazione d'opera per le evidenti
differenze fra gli istituti ex articoli 2094
c.c. e 2222 c.c.: nel primo caso risulta
evidente la maggiore intensità del potere
che il creditore vanta nel pretendere
l'esecuzione della prestazione dal
professionista.
Senza dimenticare che un'eventuale
equiparazione delle due figure è contraria
alla par condicio fra i partecipanti alla
procedura: penalizza chi sostiene i costi
dell'assunzione e paga i contributi rispetto
all'altro che con la consulenza risparmia
(articolo ItaliaOggi del
31.05.2017). |
APPALTI: Giustificare
i prezzi corregge l'anomalia. Valutazione
congruità offerte in gara.
È illegittima l'esclusione per anomalia
dell'offerta laddove l'offerente abbia
documentato gli scostamenti tra prezzi
indicati in offerta e prezzi indicati in
sede di giustificazione.
Lo ha precisato il TAR Lombardia-Milano,
I Sez., con la
sentenza 27.04.2017 n. 963 analizzando la disciplina
della verifica della congruità delle
offerte.
In particolare, i giudici hanno affermato
che nelle gare pubbliche la valutazione
della congruità dell'offerta, pur essendo
espressione di discrezionalità cosiddetta
tecnica della stazione appaltante è tuttavia
suscettibile di sindacato esterno da parte
del giudice amministrativo nei profili
dell'eccesso di potere per manifesta
irragionevolezza, erronea valutazione dei
presupposti, e contraddittorietà;
diversamente, il provvedimento che valuta
un'offerta non anomala non abbisogna di una
motivazione analitica, essendo sufficiente
anche un rinvio alle argomentazioni e
giustificazioni della parte che l'ha
formulata, quello che la ritiene anomala,
deve essere invece puntualmente motivato.
Ciò premesso, era accaduto che gli importi
dell'analisi dei prezzi delle lavorazioni
più significative indicati dall'offerente in
sede di giustificazione non coincidessero
con i prezzi inseriti in sede di offerta;
inoltre, non erano stati dimostrati i
fattori e le circostanze che avevano
prodotto tali scostamenti. Da qui
l'esclusione per anomalia da parte della
stazione appaltante che però i giudici
ritengono illegittima in quanto l'impresa
aveva documentato gli scostamenti tra i
prezzi indicati in sede di offerta e i
prezzi indicati in sede di giustificazione.
Nella fattispecie esaminata dal Tar, la
ricorrente non aveva sostanzialmente
modificato la ripartizione delle voci,
riducendone alcune ed aumentandone altre,
per riuscire a giustificare il prezzo
complessivamente offerto né quello relativo
a singole voci, essendosi invece limitata a
dimostrare la loro congruità, sostenendo a
tal fine che i valori indicati in sede di
gara erano addirittura eccedenti rispetto ai
costi che la stessa avrebbe sostenuto
nell'esecuzione dell'appalto di che
trattasi, potendo infatti anche essere
ulteriormente ribassati, rimanendo tuttavia
idonei a coprire le spese, e ad assicurare
un utile di impresa
(articolo ItaliaOggi del
05.05.2017).
---------------
MASSIMA
I.1) In via preliminare, osserva il
Collegio che,
nelle gare pubbliche, la valutazione della
congruità dell'offerta, pur essendo
espressione di discrezionalità c.d. tecnica
della stazione appaltante, è tuttavia
suscettibile di sindacato esterno da parte
del giudice amministrativo nei profili
dell'eccesso di potere per manifesta
irragionevolezza, erronea valutazione dei
presupposti, e contraddittorietà
(C.S., Sez. V, 29.04.2016, n. 1652).
Inoltre, per giurisprudenza pacifica,
mentre il provvedimento che valuta
un’offerta non anomala non abbisogna di una
motivazione analitica, essendo sufficiente
anche un rinvio alle argomentazioni e
giustificazioni della parte che l’ha
formulata, quello che la ritiene anomala,
deve essere invece puntualmente motivato
(TAR Campania, Napoli, Sez. III, 10.10.2013,
n. 4532).
In particolare,
il giudizio negativo sul piano
dell'attendibilità deve riguardare voci che,
per la loro incidenza complessiva, rendano
l'intera operazione economica non
plausibile, e per l'effetto, non
suscettibile di accettazione da parte della
stazione appaltante
(TAR Lazio, Roma, Sez. II, 16.12.2015 n.
14142),
con irrilevanza di eventuali singole voci di
scostamento, non avendo ad oggetto la
ricerca di specifiche e singole inesattezze
dell'offerta economica
(TAR Umbria, Sez. I, 14.03.2015 n. 114,
C.S., Sez. IV, 26.02.2015, n. 963),
quanto invece la dimostrazione della
complessiva inaffidabilità dell’offerta, e
dunque la sua inidoneità a garantire la
serietà nell'esecuzione del contratto
(TAR Lazio, Roma, Sez. I, 02.12.2016, n.
12066, TAR Puglia, Bari, Sez. I, 23.02.2017,
n. 184, TAR Campania, Napoli, Sez. IV,
06.10.2016, n. 4619, C.S. Sez. V,
13.09.2016, n. 3855).
...
II) In aggiunta a quanto precede, di per sé
risolutivo ai fini dell’accoglimento del
ricorso, ritiene il Collegio che le
motivazioni addotte nel citato verbale n.
2/2016, oltreché insufficienti, siano
altresì errate.
Come sopra evidenziato, secondo detto
provvedimento, l’offerta della ricorrente
andava esclusa, sostanzialmente, poiché le
giustificazioni fornite, e riferite a 8
voci, “non coincidono per difetto con i
prezzi inseriti nella lista delle
lavorazioni e fornitura” (v. punto n.
1).
II.1) Osserva il Collegio che,
in linea generale, nella fase del controllo
dell’anomalia, non è effettivamente
possibile un’indiscriminata ed arbitraria
modifica postuma della composizione
dell’offerta economica, con il solo limite
del rispetto del saldo complessivo,
ponendosi ciò in contrasto con le esigenze
conoscitive, da parte della stazione
appaltante, della struttura dei costi,
finendo altrimenti per snaturarsi
completamente la funzione ed i caratteri del
subprocedimento di anomalia
(C.S., Sez. III, 15.04.2016 n. 1533, C.S.,
Sez. III, 10.03.2016 n. 962).
E’ tuttavia consentito al concorrente di
dimostrare, in sede di verifica di anomalia,
che determinate voci di prezzo erano
eccessivamente basse, mentre altre, per
converso, erano sopravvalutate, pervenendo
così ad un rimaneggiamento, volto a
documentare per alcune di esse un risparmio
idoneo a compensare il maggior costo di
altre, incidendo finanche anche sull'utile
esposto
(TAR Lazio, Roma, Sez. II, 26.09.2016, n.
9927),
al fine di giungere ad una compensazione tra
sottostime e sovrastime, che lasci l’offerta
affidabile e seria
(C.S., Sez. V, 06.08.2015 n. 3859, TAR
Veneto, Sez. I, 12.10.2015, n. 1033).
II.2) Con riferimento alla fattispecie per
cui è causa, in via preliminare, osserva il
Collegio che le compensazioni operate dalla
ricorrente sono di modesto importo,
limitandosi a circa Euro 9.000,00, e
riferite a sole 8 voci su 23, dubitandosi
pertanto che le stesse fossero idonee a
stravolgere l’impianto complessivo
dell’offerta.
Inoltre, il Collegio evidenzia che, malgrado
la stessa ricorrente abbia affermato di aver
effettuato, mediante le proprie
giustificazioni, una “compensazione”
tra le voci di costo oggetto di verifica, in
realtà, più semplicemente, si è limitata a
dare conto della composizione della propria
offerta, cercando inoltre di dimostrare che
la stessa era addirittura complessivamente
eccedente rispetto ai costi da sostenersi
nell’esecuzione dell’appalto. Infatti,
poiché le giustificazioni sono risultate
superiori ai prezzi offerti per un importo
irrisorio (voci art. 9E e 11E, Euro 36,36),
essendo invece inferiori di quasi 9000 Euro,
deve concludersi che la ricorrente non ha
sostanzialmente effettuato tanto una
compensazione, in aumento ed in diminuzione,
delle voci di costo indicate in sede di
offerta, avendo al contrario cercato di
dimostrare che le stesse erano in realtà
sovrastimate rispetto ai costi
effettivamente necessari.
Conseguentemente, malgrado la non
coincidenza tra i valori delle voci di costo
indicate nelle giustificazioni, e quelli
offerti in gara, erroneamente assunta dal
provvedimento impugnato quale causa di
esclusione della ricorrente, ed a
prescindere dalla loro entità quantitativa,
la stazione appaltante avrebbe dovuto
pronunciarsi sulla congruità dell’offerta,
alla luce delle risultanze del procedimento
di anomalia.
L’indirizzo giurisprudenziale,
implicitamente posto a fondamento del
provvedimento impugnato, e che il Collegio
condivide, secondo cui
il concorrente sottoposto a verifica di
anomalia non può fornire giustificazioni
tali da integrare un’operazione di “finanza
creativa”, modificando, in aumento o in
diminuzione, le voci di costo
(TAR Lazio, Roma, Sez. II 26.09.2016 n.
9927, TAR Lombardia, Milano, Sez. IV,
01.06.2015, n. 1287, C.S., Sez. VI,
07.02.2012 n. 636),
non è infatti applicabile alla fattispecie,
essendosi formato in una casistica in cui il
rimaneggiamento delle voci è finalizzato a
mantenere fermo l’importo finale, al solo
scopo di “far quadrare i conti”,
ossia di assicurare che il prezzo
complessivo offerto resti immutato, per
superare le contestazioni sollevate dalla
stazione appaltante su alcune voci di costo.
Come detto, nella fattispecie per cui è
causa, la ricorrente non ha invece
sostanzialmente modificato la ripartizione
delle voci, riducendone alcune ed
aumentandone altre, per riuscire a
giustificare il prezzo complessivamente
offerto, né quello relativo a singole voci,
essendosi invece limitata a dimostrare la
loro congruità, sostenendo a tal fine che i
valori indicati in sede di gara erano
addirittura eccedenti rispetto ai costi che
la stessa avrebbe sostenuto nell’esecuzione
dell’appalto di che trattasi, potendo
infatti anche essere ulteriormente
ribassati, rimanendo tuttavia idonei a
coprire le spese, ed ad assicurare un utile
di impresa.
Paradossalmente, se la ricorrente si fosse
limitata a formulare le proprie
giustificazioni per un importo identico a
quello offerto in gara, la stazione
appaltante si sarebbe pronunciata sulla loro
congruità. Poiché invece nel caso di specie,
mediante dette giustificazioni, la
ricorrente ha sostanzialmente inteso
comprovare non solo che il prezzo offerto in
gara era congruo, ma anche che il medesimo
era addirittura eccedente ai costi
effettivi, del tutto irragionevolmente, la
Commissione ha invece ritenuto che l’offerta
andasse esclusa, sic et simpliciter. |
PATRIMONIO: Demanio
senza automatismi. Addio al rinnovo delle
concessioni senza selezione. APPALTI/ Una
sentenza del Tribunale amministrativo
regionale della Lombardia.
Addio rinnovo automatico delle concessioni
demaniali in essere anche dopo il decreto
legge enti locali 113/2016, il tutto in
ossequio alla sentenza C-458/14 della Corte
Ue che ha dichiarato illegittimo
l'affidamento a privati delle spiagge
italiane, prorogato al 31.12.2020 senza «una
imparziale e trasparente procedura di
selezione dei potenziali candidati».
E ciò perché l'articolo 24, c. 3-septies,
del dl 113/2016 introduce in pratica una
moratoria sulle concessioni esistenti ma
senza un termine finale certo.
Così la
sentenza
27.04.2017 n. 959 del TAR Lombardia-Milano,
Sez. I.
La controversia nasce dalla procedura a
evidenza pubblica bandita dal comune per la
gestione di uno stabilimento balneare. I
giudici di Lussemburgo hanno già bocciato la
norma di cui all'articolo 1, comma 18, del
decreto legge 194/2009 che prorogava le
autorizzazioni demaniali per gestire
attività turistiche e ricreative in riva al
mare e ai laghi. Ma dopo la sentenza Ue nel
dl 113/2016 è stata introdotta una norma
secondo cui i rapporti pendenti conservano
validità fino a quanto la materia non sarà
regolata dallo stato nazionale secondo i
principi eurounitari di libera concorrenza.
E anche voler condividere l'interpretazione
della società ricorrente secondo cui la
proroga prevista all'articolo, comma
3-septies, del dl 113/2016 debba trovare
applicazione con riferimento alle
concessioni non solo di beni demaniali ma
anche di beni appartenenti al patrimonio
indisponibile, queste norme devono essere
disapplicate per contrasto con il diritto Ue
(articolo ItaliaOggi del
31.05.2017).
---------------
MASSIMA
9.1 Prima di esaminare le censure,
occorre delineare il quadro normativo la cui
applicazione al caso di specie è oggetto
della presente controversia.
9.2 L’art. 1, c. 18, d.l. n. 194/2009, come
modificato dall'articolo 1, comma 1, della
legge 26.02.2010, n. 25, in sede di
conversione e, successivamente,
dall'articolo 34-duodecies, comma 1, del
D.L. 18.10.2012, n. 179, dall'articolo 1,
comma 547, della Legge 24.12.2012, n. 228 e,
da ultimo, dall'articolo 1, comma 291, della
Legge 27.12.2013, n. 147, dispone che: “ferma
restando la disciplina relativa
all'attribuzione di beni a regioni ed enti
locali in base alla legge 05.05.2009, n. 42,
nonché alle rispettive norme di attuazione,
nelle more del procedimento di revisione del
quadro normativo in materia di rilascio
delle concessioni di beni demaniali
marittimi, lacuali e fluviali con finalità
turistico-ricreative, ad uso pesca,
acquacoltura ed attività produttive ad essa
connesse, e sportive, nonché quelli
destinati a porti turistici, approdi e punti
di ormeggio dedicati alla nautica da
diporto, da realizzarsi, quanto ai criteri e
alle modalità di affidamento di tali
concessioni, sulla base di intesa in sede di
Conferenza Stato-regioni ai sensi
dell'articolo 8, comma 6, della legge
05.06.2003, n. 131, che è conclusa nel
rispetto dei principi di concorrenza, di
libertà di stabilimento, di garanzia
dell'esercizio, dello sviluppo, della
valorizzazione delle attività
imprenditoriali e di tutela degli
investimenti, nonché in funzione del
superamento del diritto di insistenza di cui
all'articolo 37, secondo comma, secondo
periodo, del codice della navigazione, [che
è soppresso dalla data di entrata in vigore
del presente decreto], il termine di durata
delle concessioni in essere alla data di
entrata in vigore del presente decreto e in
scadenza entro il 31.12.2015 è prorogato
fino al 31.12.2020, fatte salve le
disposizioni di cui all'articolo 03, comma
4-bis, del decreto-legge 05.10.1993, n. 400,
convertito, con modificazioni, dalla legge
04.12.1993, n. 494. All'articolo 37, secondo
comma, del codice della navigazione, il
secondo periodo è soppresso”.
9.3 La conformità al diritto comunitario di
questa norma è stata oggetto di rinvio
pregiudiziale alla Corte di Giustizia
dell’Unione Europea, disposto con sentenza
di questo Tribunale n. 2401/2014 e con
ordinanza del Tar Sardegna n. 224/2015.
La
Corte, con sentenza del 14.07.2016, ha
affermato che:
1) l’articolo 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del
12.12.2006, relativa ai servizi nel mercato
interno, deve essere interpretato nel senso
che osta a una misura nazionale, come quella
di cui ai procedimenti principali, che
prevede la proroga automatica delle
autorizzazioni demaniali marittime e lacuali
in essere per attività turistico ricreative,
in assenza di qualsiasi procedura di
selezione tra i potenziali candidati.
2) l’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a
una normativa nazionale, come quella di cui
ai procedimenti principali, che consente una
proroga automatica delle concessioni
demaniali pubbliche in essere per attività
turistico ricreative, nei limiti in cui tali
concessioni presentano un interesse
transfrontaliero certo.
9.4 A seguito della decisione della Corte di
Giustizia, il legislatore italiano, con
legge n. 160 del 07.08.2016, ha introdotto,
in sede di conversione al d.l. n. 113/2016,
all’art. 24, il comma 3-septies, ai sensi
del quale: “nelle more della revisione e
del riordino della materia in conformità ai
principi di derivazione europea, per
garantire certezza alle situazioni
giuridiche in atto e assicurare l'interesse
pubblico all'ordinata gestione del demanio
senza soluzione di continuità, conservano
validità i rapporti già instaurati e
pendenti in base all'articolo 1, comma 18,
del decreto-legge 30.12.2009, n. 194,
convertito, con modificazioni, dalla legge
26.02.2010, n. 25”.
10.1 Così delineato il quadro normativo, si
può procedere con l’esame delle doglianze
formulate dalla ricorrente.
10.2 Anche a volere condividere la linea
interpretativa prospettata dalla ricorrente,
secondo cui la proroga prevista all’art. 1,
c. 18, d.l. n. 194/2009 ed all’art. 24, c.
3-septies, d.l. n. 113/2016 debba trovare
applicazione con riferimento alle
concessioni non solo di beni demaniali ma
anche di beni appartenenti al patrimonio
indisponibile, queste norme devono essere
disapplicate per contrasto con il diritto
comunitario, così come interpretato dalla
Corte di Giustizia UE con la sentenza sopra
richiamata.
Per costante giurisprudenza, al pari di
regolamenti e direttive, anche le pronunce
della Corte di Giustizia della Comunità
europea hanno, difatti, efficacia diretta
nell'ordinamento interno degli stati membri,
vincolando sia le amministrazioni che i
giudici nazionali alla disapplicazione delle
norme interne con esse configgenti
(Cfr. C.
Cost., 19.04.1985, n. 113 che ha affermato
l’immediata applicabilità delle statuizioni
risultanti dalle sentenze interpretative
della Corte di Giustizia; Cons. giust. amm.
Sicilia, sez. giurisd., 16.05.2016, n. 139).
10.3 La presente controversia ha ad oggetto
il contratto in forza del quale il Comune di
Como ha attribuito alla ricorrente il
diritto utilizzare il compendio denominato “lido
di Villa Olmo”, appartenente al
patrimonio indisponibile, quale lido e
stabilimento balneare, dietro versamento di
un canone periodico e senza alcun
corrispettivo a carico dell’amministrazione.
Tale contratto presenta i caratteri della
concessione, ai sensi del diritto
dell’Unione, essendo il rischio d’impresa a
carico della società Villa Olmo s.n.c.
La concessione rientra nell’ambito di
applicazione dell’articolo 12 della
direttiva 2006/123 in quanto:
- deve essere qualificata quale autorizzazione, ai sensi delle
disposizioni della direttiva, in quanto atto
formale che il prestatore deve ottenere
dall’autorità nazionale al fine di potere
esercitare l’attività economica;
- il numero di autorizzazioni disponibili per l’attività in
questione è indubbiamente limitato per via
della scarsità delle risorse naturali, quali
sono, in generale, le rive del lago di Como,
suscettibili di sfruttamento economico solo
in numero limitato, e quale è, in
particolare, il compendio in questione, in
considerazione delle sue peculiarità (in
relazione alla sua ubicazione ed alla sua
storia);
- la concessione d’uso del bene in questione non rientra nella
categoria delle concessioni di servizi,
escluse dall’ambito di applicazione della
direttiva 2006/123 e rientranti in quello
della direttiva 2014/23, per le ragioni
affermate dalla Corte di Giustizia con la
sentenza del 14.07.2016 (punti 44-48) ed
estensibili anche al caso di specie.
10.4 L’art. 12, c. 1, della direttiva
2006/123, dispone che, qualora il numero di
autorizzazioni disponibili per una
determinata attività sia limitato per via
della scarsità delle risorse naturali o
delle capacità tecniche utilizzabili, il
rilascio delle autorizzazioni deve essere
soggetto ad una procedura di selezione tra i
candidati potenziali, che presenti garanzie
di imparzialità e di trasparenza e preveda,
in particolare, un'adeguata pubblicità
dell'avvio della procedura e del suo
svolgimento e completamento.
10.5 Come affermato dalla Corte di Giustizia
ai punti 50 e ss. della sentenza sopra
richiamata, “una normativa nazionale,
come quella di cui ai procedimenti
principali, che prevede una proroga ex lege
della data di scadenza delle autorizzazioni
equivale a un loro rinnovo automatico, che è
escluso dai termini stessi dell’articolo 12,
paragrafo 2, della direttiva 2006/123.
Inoltre, la proroga automatica di
autorizzazioni relative allo sfruttamento
economico del demanio marittimo e lacuale
non consente di organizzare una procedura di
selezione come descritta al punto 49 della
presente sentenza”.
La Corte ha poi affermato che,
pur se
l’articolo 12, paragrafo 3, della direttiva
2006/123 prevede espressamente che gli Stati
membri possano tener conto, nello stabilire
le regole della procedura di selezione, di
considerazioni legate a motivi imperativi
d’interesse generale, “è previsto che si
tenga conto di tali considerazioni solo al
momento di stabilire le regole della
procedura di selezione dei candidati
potenziali e fatto salvo, in particolare,
l’articolo 12, paragrafo 1, di tale
direttiva.
Pertanto l’articolo 12, paragrafo 3, della
direttiva in questione non può essere
interpretato nel senso che consente di
giustificare una proroga automatica di
autorizzazioni allorché, al momento della
concessione iniziale delle autorizzazioni
suddette, non è stata organizzata alcuna
procedura di selezione ai sensi del
paragrafo 1 di tale articolo”.
Inoltre, “una giustificazione fondata sul
principio della tutela del legittimo
affidamento richiede una valutazione caso
per caso che consenta di dimostrare che il
titolare dell’autorizzazione poteva
legittimamente aspettarsi il rinnovo della
propria autorizzazione e ha effettuato i
relativi investimenti. Una siffatta
giustificazione non può pertanto essere
invocata validamente a sostegno di una
proroga automatica istituita dal legislatore
nazionale e applicata indiscriminatamente a
tutte le autorizzazioni in questione”.
La previsione di cui all’art. all’art. 1, c.
18, d.l. n. 194/2009, come affermato dalla
Corte di Giustizia dell’Unione Europea,
contrasta quindi con l’articolo 12,
paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123.
10.6 Un identico contrasto deve ritenersi
sussistente con riferimento alla previsione
di cui all’art. 24, c. 3-septies, d.l. n.
113/2016.
Con tale norma, il legislatore -nel
prevedere la conservazione della validità
dei rapporti già instaurati e pendenti in
base all'articolo 1, comma 18, del
decreto-legge 30.12.2009, n. 194,
convertito, con modificazioni, dalla legge
26.02.2010, n. 25 “nelle more della
revisione e del riordino della materia in
conformità ai principi di derivazione
europea”– ha, difatti, sostanzialmente
reintrodotto un rinnovo automatico delle
autorizzazioni concesse, oltretutto senza la
previsione di un termine finale certo, che
impedisce lo svolgimento di procedure
comparative, eludendo così, al pari
dell’art. 1, c. 18, d.l. n. 194/2009, il
dettato della direttiva 2006/123 e le
indicazioni date dalla Corte di Giustizia.
10.7
Poiché le norme invocate dalla ricorrente si
pongono in contrasto con il diritto
comunitario, esse devono essere
disapplicate. A ciò consegue la piena
legittimità della decisione del Comune di
Como di non considerare efficace la
concessione in questione e di procedere alla
pubblicazione del bando per l’assegnazione
del compendio immobiliare. |
APPALTI: Le
stazioni appaltanti hanno il potere di
fissare nella lex specialis parametri di
capacità tecnica dei partecipanti e
requisiti soggettivi specifici di
partecipazione attraverso l'esercizio di
un'ampia discrezionalità, fatti salvi i
limiti imposti dai principi di
ragionevolezza e proporzionalità, i quali
consentono il sindacato giurisdizionale
sull'idoneità ed adeguatezza delle clausole
del bando rispetto alla tipologia e
all'oggetto dello specifico appalto.
In definitiva, in sede di predisposizione
della lex specialis di gara d'appalto,
l'Amministrazione è legittimata ad
introdurre disposizioni atte a limitare la
platea dei concorrenti onde consentire la
partecipazione alla gara stessa di soggetti
particolarmente qualificati, specie per ciò
che attiene al possesso di requisiti di
capacità tecnica e finanziaria, tutte le
volte in cui tale scelta non sia
eccessivamente quanto irragionevolmente
limitativa della concorrenza, in quanto
correttamente esercitata attraverso la
previsione di requisiti pertinenti e congrui
rispetto allo scopo perseguito.
---------------
14. La
ricorrente ha, infine, dedotto, in via
subordinata, l’illegittimità, per eccesso di
potere per illogicità e contraddittorietà,
dell’art. 9 dell’avviso d’asta nella parte
in cui prevede, a pena di esclusione, tra i
requisiti di partecipazione, “un’esperienza
professionale di almeno tre anni nell’ambito
della conduzione di impianti sportivi o di
pubblici esercizi”.
A suo avviso, avendo il Comune individuato
l’uso per il quale il bene è dato in
concessione nella “gestione di uno
stabilimento balneare, quale attività
principale, oltre ad attività di
somministrazione di alimenti e bevande
accessorie alle suddette attività” (art.
2 dell’avviso d’asta) e avendo richiesto ai
concorrenti il possesso del requisito
dell’iscrizione alla competente camera di
commercio “per le specifiche attività
oggetto della concessione”, sarebbe
illegittimo richiedere, a dimostrazione
della capacità tecnica, una generica
esperienza professionale nell’ambito della
conduzione di ogni tipo di impianto sportivo
o di pubblico esercizio e non esigere,
invece, una specifica esperienza nella
conduzione degli stabilimenti balneari.
La conduzione di uno stabilimento balneare,
con due piscine, necessiterebbe di
specifiche competenze e capacità che
spaziano dall’assistenza ai bagnanti, alla
manutenzione degli impianti natatori, alla
gestione degli attracchi per l’ormeggio
delle imbarcazioni, alla balneabilità o meno
dello specchio lacuale, alla tutela
dell’ambiente lacustre.
15. La censura è infondata.
Per costante giurisprudenza "le stazioni
appaltanti hanno il potere di fissare nella
lex specialis parametri di capacità tecnica
dei partecipanti e requisiti soggettivi
specifici di partecipazione attraverso
l'esercizio di un'ampia discrezionalità,
fatti salvi i limiti imposti dai principi di
ragionevolezza e proporzionalità, i quali
consentono il sindacato giurisdizionale
sull'idoneità ed adeguatezza delle clausole
del bando rispetto alla tipologia e
all'oggetto dello specifico appalto. In
definitiva, in sede di predisposizione della
lex specialis di gara d'appalto,
l'Amministrazione è legittimata ad
introdurre disposizioni atte a limitare la
platea dei concorrenti onde consentire la
partecipazione alla gara stessa di soggetti
particolarmente qualificati, specie per ciò
che attiene al possesso di requisiti di
capacità tecnica e finanziaria, tutte le
volte in cui tale scelta non sia
eccessivamente quanto irragionevolmente
limitativa della concorrenza, in quanto
correttamente esercitata attraverso la
previsione di requisiti pertinenti e congrui
rispetto allo scopo perseguito" (TAR
Campania, Napoli, sez. V, 03.05.2016 n.
2185; Cons. di St., sez. V, 23.09.2015, n.
4440; TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.09.2015,
n. 11008).
Nel caso di specie, la decisione
dell’amministrazione di consentire la
partecipazione alla gara a soggetti iscritti
alla camera di commercio per “le
specifiche attività oggetto di concessione”
ed aventi un’esperienza professionale nella
conduzione, in generale, di impianti
sportivi o anche di pubblici esercizi,
anziché ai soli soggetti aventi una
specifica esperienza nella conduzione di
stabilimenti balneari non può ritenersi
viziata per manifesta illogicità né per
contraddittorietà.
La scelta dell’amministrazione è, invero,
adeguata in considerazione dell’oggetto
della concessione (gestione di uno
stabilimento balneare ed esercizio
dell’attività di somministrazione di
alimenti e bevande), della tipologia di beni
di cui è composto il compendio immobiliare
(biglietteria, due piscine scoperte e
solarium, cabine, guardaroba, docce, servizi
igienici, locali deposito e sale macchine e
dehor-bar) e delle destinazioni funzionali
ammesse (ludico/ricreativo e bar nell’ambito
del lido).
Le attività che dovranno essere svolte dal
concessionario sono dunque plurime e
riguardano l’attività di ristorazione, la
gestione di impianti sportivi (le due
piscine) e la gestione dello stabilimento
balneare, attività, quest’ultima, che consta
di prestazioni già ricomprese nelle prime
due (come l’attività di assistenza ai
bagnanti, richiamata dalla stessa
ricorrente): ciò giustifica che il requisito
di esperienza non sia limitato
esclusivamente a quest’ultima attività.
Inoltre, consentire la partecipazione alla
gara ai soli soggetti che hanno maturato la
propria esperienza nella conduzione di
stabilimenti balneari, e non al più ampio
numero di gestori di impianti sportivi in
genere, avrebbe, invece, ristretto
eccessivamente ed ingiustificatamente la
platea dei partecipanti, in netto contrasto
con i principi del favor partecipationis
e dell’apertura al mercato di settori dai
quali finora sono rimasti esclusi tutti
quegli operatori non affidatari di
provvedimenti concessori rilasciati senza
gara (TAR Lombardia-Milano,
Sez. I,
sentenza
27.04.2017 n. 959). |
TRIBUTI: Notifiche
a mezzo posta, un pieno di insidie.
Dalle notifiche a mezzo posta degli atti
tributari un pieno di insidie per i
contribuenti.
Secondo una recentissima sentenza della
Corte di Cassazione alle notifiche fiscali
si applica infatti la disposizione contenuta
nell'articolo 1335 del codice civile secondo
la quale «ogni dichiarazione diretta a una
determinata persona si reputa conosciuta nel
momento in cui giunge all'indirizzo del
destinatario, se questi non prova di essere
stato, senza sua colpa, nell'impossibilità
di averne notizia».
Se questa tesi dei giudici di legittimità
(Sez. V civile) contenuta nella
sentenza
26.04.2017 n. 10245, dovesse affermarsi, ne
deriverebbero gravi conseguenze per i
contribuenti.
In quanto si verrebbe ad affermare che la
notifica è giunta a buon fine anche quando
l'atto venga consegnato ad un soggetto che
si trovi in loco del tutto per caso, come un
conoscente del figlio del destinatario
oppure, al limite, a chi si è introdotto
abusivamente nella proprietà altrui. Ponendo
sul destinatario l'onere della prova -difficile e quasi diabolica- di essere
stato senza colpa nell'impossibilità di
avere notizia della circostanza.
In ambito tributario infatti a seguito della
notifica scatta un breve termine entro il
quale il debitore deve contestare nelle
forme di legge la pretesa del Fisco (in
genere ricorrendo alla giustizia
tributaria); se egli resta inerte la pretesa
fiscale si «consolida», cioè si ha per
definitivamente accertata.
Di qui l'enorme rilievo che assumono del
diritto tributario le norme sulla notifica
degli atti impositivi.
Per quanto sopra illustrato molto spesso
accade che il contribuente venga a
conoscenza della pretesa fiscale solo quando
inizia la procedura di riscossione coattiva.
E in quel momento affermi di non aver avuto
notizia dell'atto di accertamento. Ma questa
sua asserita ignoranza è irrilevante se
l'atto impositivo è stato notificato,
secondo regole e prassi che tendono ad
avvantaggiare il Fisco, ad esempio
consentendogli di ricorre al servizio
postale; né è necessaria la prova che il
contribuente abbia ricevuto materialmente
l'atto impositivo, ma è sufficiente che esso
sia giunto in un'area, come la buca delle
lettere, ove il contribuente avrebbe potuto
prenderne visione; o a mani di una persona
che si può presumere gli consegni la
missiva.
Legge e regolamento postale individuano poi
i soggetti cui l'atto inviato per posta può
essere consegnato; si tratta di un elenco
piuttosto ampio, ma ove la consegna avvenga
a chi non ha alcun legame con il
contribuente e con il luogo della notifica,
sarebbe logico ritenere che la notifica non
sia andata a buon fine.
Nei rapporti di diritto civile invece il
creditore non è collocato in una posizione
istituzionale di vantaggio rispetto al
debitore, e perciò la notifica informa
soltanto il debitore di quanto da lui si
pretende; ed impedisce il venir meno del
diritto (per prescrizione o decadenza). Ma
il debitore non ha, di regola, alcun onere
di replicare alla richiesta pervenutagli. E
se il creditore vorrà realizzare il suo
diritto dovrà rivolgersi al giudice, avanti
al quale il debitore potrà difendersi.
Dunque nei rapporti privati la applicazione
dell'art. 1335 del codice civile produce
effetti limitati Mentre l'applicazione del
medesimo principio alla notifica degli atti
tributari produce effetti negativi
dirompenti per il presunto debitore. E
simile applicazione estensiva dell'art. 1335
pare tradisca la funzione della norma, che
è, inserita nel libro quarto (delle
obbligazioni) nel capo II (dei contratti in
generale) del codice civile; e quindi non è
stata concepita per regolare un rapporto
pubblicistico come quello tributario, che è
fondato non sul consenso contrattuale, bensì
sul potere impositivo dello Stato
(articolo ItaliaOggi
Sette del
29.05.2017). |
APPALTI: Integrazione
documentale tramite la Pec.
Nelle gare d'appalto la richiesta di
integrazione documentale ai fini del
soccorso istruttorio deve essere comunicata
alla ditta mediante posta elettronica
certificata.
Lo ha stabilito il TAR Toscana, Sez. III, con la
sentenza
26.04.2017 n. 609.
La
vicenda nasce dall'esclusione di un
raggruppamento temporaneo «reo» di non aver
trasmesso una serie di atti richiesti dal
committente pubblico. La p.a. inoltre non
aveva voluto concedere la rimessione in
termini, anche se era stato addotto che la
domanda di ulteriore carteggio ex art. 83,
comma 9, dlgs n. 50 del 2016 non era stata
ricevuta e che comunque era partita da un
semplice indirizzo di posta elettronica.
Il
Collegio ha risolto la quaestio iuris
interpretando in termini più ampi l'art. 76,
comma 3, citato dlgs, il quale prescrive
l'utilizzo della Pec in caso di
«provvedimento che determina le esclusioni
dalla procedura di affidamento».
L'organo
giudicante vi ha fatto rientrare non solo i
provvedimenti di esclusione in senso
stretto, ma anche quegli atti che pongono a
carico dei concorrenti degli incombenti il
cui mancato rispetto comporta come sanzione
l'esclusione dalla gara. In tale quadro
rientra anche l'atto con il quale la
stazione appaltante assegna al concorrente
un termine non superiore a dieci giorni
perché siano rese, integrate o completate le
dichiarazioni necessarie alla
partecipazione.
Infine il Tar ha ribadito
che la posta elettronica ordinaria non
garantisce certezza in ordine all'inoltro e
al recepimento dell'atto, per cui in questo
caso non poteva dirsi maturata la decadenza
a carico del ricorrente
(articolo ItaliaOggi
Sette del
29.05.2017).
---------------
MASSIMA
9 – Il Collegio ritiene fondata la prima
censura di cui al ricorso introduttivo del
giudizio, ove parte ricorrente censura la
erronea applicazione della lex specialis e
delle norme vigenti in materia di
comunicazioni ai concorrenti ai sensi del
d.lgs. n. 50 del 2016.
L’art. 8 del
Disciplinare di gara -in disparte le
“comunicazioni aventi carattere generale”,
per le quali prevede la sola pubblicazione
sul sito START nell’area riservata alla gara- contiene per le comunicazioni aventi
specifica valenza per il singolo concorrente
due distinte previsioni, che devono essere
tra loro armonizzate; da un lato stabilisce
che le comunicazioni di valenza individuale
“sono eseguite ai sensi dell’art. 76 d.lgs.
50/2016”, dall’altro lato aggiunge che le
comunicazioni “comunque avvengono e si danno
per eseguite mediante spedizione di messaggi
alla casella di posta elettronica o alla
casella di posta elettronica certificata
indicata dal concorrente ai fini della
procedura telematica di acquisto nella
domanda di partecipazione”, con l’aggiunta
dell’inserimento delle comunicazioni stesse
in area riservata del sistema START.
Le due
richiamate previsioni disciplinari hanno
diversa portata applicativa, dal momento che
l’art. 76 d.lgs. n. 50 del 2016,
espressamente richiamato dall’art. 8 del
Disciplinare, prevede per alcune tipologie
di comunicazioni l’uso esclusivo della pec,
essendo questo uno degli elementi innovativi
in materia del Codice del 2016, mentre la
restante previsione dell’art. 8 del
Disciplinare contempla l’alternativa tra pec
o posta elettronica ordinaria.
Invero il
coordinamento tra i due contenuti dell’art.
8 cit. è agevole, ancorché lo stesso avrebbe
potuto essere formulato in termini
maggiormente perspicui; cioè
il Disciplinare
di gara, nel richiamare l’art. 76 d.lgs. n.
50 del 2016, vincola la stazione appaltante
all’utilizzo della pec per le comunicazioni
per le quali la norma del Codice preveda
tale strumento in via esclusiva, con
l’effetto che l’ulteriore previsione di alternatività tra pec e posta elettronica
ordinaria vale solo per le comunicazioni
diverse da quelle per le quali l’art. 76
d.lgs. n. 50 del 2016 impone l’uso della
pec.
Tale lettura del sistema normativo
comporta, quale ulteriore passaggio
esegetico, la necessità di chiarire se la
comunicazione di integrazione documentale in
sede di soccorso istruttorio, di cui
all’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016,
rientri o meno tra quelle per le quali era
necessario l’utilizzo in via esclusiva della
pec, ovvero se tale richiesta di
integrazione sia legittimamente comunicabile
anche con mezzo diverso.
Ritiene il Collegio
che
la risposta al quesito passi attraverso
la corretta interpretazione dell’art. 76,
comma 3, d.lgs. n. 50 del 2016, laddove
l’utilizzo della pec è imposto con
riferimento al “provvedimento che determina
le esclusioni dalla procedura di
affidamento”.
L’Amministrazione resistente
sembra leggere la suddetta previsione
normativa come riferita ai provvedimenti di
esclusione in senso stretto, avendo infatti
comunicato l’esclusione della concorrente
dalla gara a mezzo pec e non utilizzando la
casella di posta elettronica ordinaria, pur
indicata da parte ricorrente nella domanda
di partecipazione alla selezione.
Ritiene
tuttavia il Collegio che la suddetta
previsione normativa debba essere letta in
termini più ampi, sì da comprendere cioè non
solo i provvedimenti di esclusione in senso
stretto, ma anche quegli atti che pongono a
carico dei concorrenti degli incombenti il
cui mancato rispetto comporta come sanzione
l’esclusione dalla gara, parlando infatti la
norma di provvedimento “che determina”
l’esclusione, cioè il cui esito finale può
essere l’esclusione dalla gara.
In tal
quadro rientra dunque anche l’atto di cui
all’art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del
2016, con il quale la stazione appaltante
assegna al concorrente un termine non
superiore a dieci giorni perché siano rese,
integrate o regolarizzate le dichiarazioni
necessarie alla partecipazione alla gara,
con la precisazione che “in caso di inutile
decorso del termine di regolarizzazione, il
concorrente è escluso dalla gara”.
Si tratta
anche in questo caso, dunque, di un atto
“che determina le esclusioni dalla procedura
di affidamento”, cioè dotato di forte
potenzialità lesiva per il concorrente,
stante la perentorietà del termine che viene
assegnato per la regolarizzazione, che cade
nella disciplina del combinato disposto
degli artt. 83, comma 9, e 76, comma 3,
d.lgs. n. 50 del 2016, e di cui quindi deve
essere dato avviso ai concorrenti a mezzo
pec.
Nel caso di specie, invece, come già
chiarito, l’atto di soccorso istruttorio è
stato comunicato a mezzo posta elettronica
ordinaria, che non garantisce certezza in
ordine al suo inoltro e recepimento, per cui
non può dirsi maturata a decadenza a carico
del concorrente, risultando quindi
illegittima la disposta esclusione dalla
gara. |
VARI: Tumore da telefonino, è malattia
professionale.
L'Inail dovrà risarcire un ex dipendente
della Telecom ammalatosi di neurinoma
dell'acustico, un tumore benigno ma
invalidante, causato dall'utilizzo
prolungato del telefono cellulare.
Lo ha
deciso, in primo grado, il TRIBUNALE di
Ivrea con la
sentenza
21.04.2017 n. 96, che riconosce il legame tra tumore
cranico e uso del cellulare.
Il lavoratore
per 15 anni, dal 1995 al 2010, ha utilizzato
il telefono cellulare messogli a
disposizione dall'azienda, anche per 3-4 ore
al giorno. Fino a quando inizia ad avvertire
disturbi a un orecchio che dopo ripetuti
controlli medici risultano causati da un
neurinoma dell'acustico, carcinoma benigno
ma che necessita di essere asportato.
L'intervento avviene nel 2011: i medici
rimuovono il neurinoma, ma anche il nervo
acustico, con la conseguente perdita di
udito dall'orecchio destro.
Un danno
biologico permanente del 23%, come stabilito
dal giudice del lavoro Luca Fadda, che si è
basato su una consulenza tecnica d'ufficio e
ha condannato l'Inail a versare al
lavoratore un vitalizio da malattia
professionale, quantificabile in circa 500
euro al mese. «Con il caso deciso dal
tribunale di Ivrea», hanno spiegato i legali
della vittima Renato Ambrosio e Stefano Bertone, «è la prima volta che, fin
dall'inizio, la giustizia italiana riconosce
la piena plausibilità dell'effetto oncogeno
delle onde elettromagnetiche dei cellulari.
Effetto già riconosciuto sin dal 2011 dalla Iarc (International agency for research on
cancer) che includeva le onde dei cellulari
e dei cordless fra i possibili cancerogeni».
«A oggi non c'è un rapporto causa-effetto
accertato che indichi che l'uso del telefono
cellulare aumenta il rischio di cancro», ha
però commentato Carmine Pinto, presidente
dell'Aiom, l'associazione italiana di
oncologia medica». «In 20 anni la
letteratura scientifica non ha prodotto
evidenze certe sulla correlazione tra
cellulari e cancro, ci sono diversi studi
contraddittori, non esaustivi». Il punto,
ricorda l'oncologo, è che i cellulari
emettono campi elettromagnetici a bassa
frequenza, e «su questi campi non ci sono
studi completi.
Non ci sono prove che anche basse frequenze
riescano a influire sui neuroni tanto da
provocare un cancro cerebrale».
«Anche
perché», conclude, «dal momento che
l'irradiamento di questo tipo di campi è
molto tenue, ci vogliono 30 anni per poter
valutare in maniera attendibile i possibili
effetti sul cervello»
(articolo ItaliaOggi
del 21.04.2017). |
URBANISTICA: L'arte sposta l'ambulante.
È legittimo il piano del commercio su area
pubblica di un comune che, per riqualificare
l'area vicino a un importante basilica,
d'accordo con la soprintendenza per i beni
architettonici, ha disposto il parziale
spostamento di alcuni posteggi in altre aree
del territorio comunale.
Questo è il
principio espresso dal Consiglio di Stato,
Sez. V, con la
sentenza 19.04.2017 n. 1816 in materia di spostamento di un
piano di commercio ambulante su area
pubblica per la tutela dei centri storici
delle città d'arte.
I giudici del consiglio di stato sostengono
che la difesa di un centro storico non si
può limitare alla conservazione della
consistenza materiale, ma deve riguardare
anche la qualità dell'ambiente
(articolo ItaliaOggi
del 21.04.2017).
---------------
MASSIMA
4.3. Osserva inoltre il Collegio che
l’illegittimità degli atti impugnati in
primo grado neppure può essere affermata in
base all’invocata inclusione del mercato di
San Lorenzo fra i ‘mercati storici’ e
fra le ‘espressioni di identità culturale
e collettiva’ di cui alle Convenzioni
UNESCO per la salvaguardia del c.d.
patrimonio culturale immateriale e la
promozione delle diversità culturali
adottate a Parigi il 03.11.2003 e il
20.10.2005: per meglio dire «espressioni
di identità culturale collettiva», le
quali, a norma dell’art. 7-bis del Codice
dei beni culturali e del paesaggio, «sono
assoggettabili alle disposizioni» di
tutela e valorizzazione di quel Codice
soltanto «qualora siano rappresentate da
testimonianze materiali e sussistano i
presupposti e le condizioni per
l'applicabilità dell'articolo 10», cioè
per la dichiarazione di bene culturale: il
che qui non ricorre (è semmai il contesto
monumentale ad avere tale qualifica, a
muovere dalla basilica).
Il Comune appellato bene ha obiettato che la
ratio della l. 20.02.2006, n. 77 è la
protezione dei siti di interesse culturale,
paesaggistico e ambientale, inseriti nella «lista
del patrimonio mondiale» dell'UNESCO, al
fine di preservarne l’unicità in quanto
elementi di rilievo mondiale del patrimonio
italiano e della sua rappresentazione a
livello internazionale.
Ma la sufficiente ragione giuridica dei
richiamati interventi non necessita di una
siffatta, aggiuntiva, qualificazione
internazionale e –come indica l’art. 52 del
Codice– si riferisce alla coerenza attuale
del commercio con un contesto, qui
particolarmente significativo, del
patrimonio culturale italiano.
La ratio dell’art. 52 non è quella di
una mera conservazione della situazione
esistente, ma quella di una valutazione in
ragione delle trasformazioni che il
commercio stesso, per sua natura, può
presentare. Sicché non può ritenersi che
l’operatività della norma debba limitarsi
nella pura e semplice cristallizzazione (in
modo –per così dire– ‘statico’) delle
caratteristiche dei luoghi, specie quando
per le dinamiche commerciali vengano a
presentarsi evidenti e gravi profili di
conseguito degrado, contrari alla
conservazione dei valori da tutelare.
Al contrario, la salvaguardia dei siti in
questione comporta interventi orientati al
decoro urbano, cioè a preservare attivamente
le caratteristiche essenziali dei luoghi.
Come già la giurisprudenza di questa Sezione
ha precisato in un rilevante caso di
postazioni di commercio ambulante nel centro
storico di Roma, “il
decoro urbano non è una materia o
un’attività ma una finalità immateriale
dell’azione amministrativa, che corrisponde
al valore insito in un apprezzabile livello
di qualità complessiva della tenuta degli
spazi pubblici, armonico e coerente con il
contesto storico, perseguita mediante la
selezione delle apposizioni materiali (es.
dehor) e delle utilizzazioni, specie
commerciali (art. 52 del Codice) ma non
solo. A seconda del profilo e dello
strumento, può essere frutto vuoi di tutela
(e valorizzazione) del patrimonio culturale,
vuoi di disciplina urbanistica o del
commercio, vuoi della politiche comunali di
concessioni di suolo pubblico: comunque in
ragione delle competenze di legge”
(Cons. Stato, V, 23.08.2016, n. 3861).
Un siffatto obiettivo può dalle
amministrazioni competenti essere perseguito
anche con riguardo alle trasformazioni
negative che nel tempo subisce la dinamica,
pur solo merceologica, del commercio
ambulante, ove –ferme naturalmente le
trasformazioni tecniche compatibili- giunga
al punto da divenire incongrua con le
concrete caratteristiche storico-artistiche
e con la dignità culturale dei luoghi.
La previsione risponde a una finalità
essenziale per la salvaguardia dei centri
storici e delle città d’arte: la quale, per
non restare claudicante perché incentrata
sulla preservazione del solo elemento
materiale, deve riguardare anche la
dimensione immateriale e qualitativa. In
questa si iscrivono appunto, per decoro
urbano, la corrispondenza tra il contesto
storico-artistico e la connotazione che nei
fatti assume l’attività commerciale, su cui
il provvedere, analiticamente o per congrue
categorie, compete al Comune ex art. 52 cit.
(mentre altre misure, di stretta tutela di
beni culturali, competono senz’altro al solo
Ministero: cfr. artt. 20, 12, 13 e 45 del
Codice).
Alla luce di tali parametri, l’operato del
Comune di Firenze (e con esso degli
impugnati atti della Soprintendenza) risulta
congruo, coerente e non viziato dai
lamentati profili di abnormità ed
irragionevolezza.
Il Comune ha rilevato che il Piano di
gestione adottato ai sensi della l. n. 77
del 2006 ha previsto espresse misure di
tutela per le tradizionali botteghe
artigiane fiorentine, nonché per i negozi
storici (cioè gli esercizi commerciali “che
vantano una lunga tradizione di genere
merceologico venduto nello stesso negozio o
dell’attività ivi esercitata, ma anche la
tipicità della produzione”).
Queste altre sono misure comunali volte a
coniugare la salvaguardia di luoghi storici
con la preservazione di attività economiche
integrate da tempo immemorabile e che
mantengono la corrispondente connotazione
storica. Sicché la loro preservazione, lungi
dal costituire un detrimento come nei casi
cennati, continua ad esprimere un elemento
delle caratteristiche tradizionali
dell’apprezzabilità dei luoghi e del decoro
urbano da attivamente perseguire.
In coerenza con l’art. 52 del Codice dei
beni culturali e del paesaggio,
l’amministrazione comunale ha il compito
non, riduttivamente, di attestarsi a una
mera rilevazione economica; ma di vagliare
l’attualità di un rapporto tra la realtà
effettiva delle attività commerciali e il
contesto di particolare pregio. Il fatto
della presenza di attività commerciali
risalenti non comporta la loro automatica
congruenza con quel carattere dei luoghi: al
contrario, occorre considerare la
compatibilità –seppur con attenzione alla
normale evoluzione tecnica– delle loro
mutate caratteristiche rispetto a quello
stesso ambiente.
Essendo questo il proporzionato e
contestuale modo in cui inquadrare da parte
del Comune la preservazione di attività
economiche in àmbiti di carattere storico o
monumentale, è evidente che tale
salvaguardia non può favorire
indistintamente qualunque attività
economica, cioè anche quella che (ad es.,
per cessioni o per recente costituzione) si
trovi ad operare in un sito storico offrendo
ora in vendita merci che non hanno
qualitativamente a vedere con la
connotazione e il pregio storico del
contesto.
Pertanto
è congruo e giustificato l’operato selettivo
del Comune appellato il quale, per
salvaguardare le caratteristiche di pregio
dei siti UNESCO e in attuazione del Piano di
gestione del giugno 2006, ha disposto
l’istituzione di un albo degli esercizi
commerciali, artigianali e alberghieri e dei
pubblici esercizi, anche per commercio su
area pubblica, che svolgono attività di
rilevante valore artistico, storico,
ambientale e documentario.
Risulta in atti che nessuna delle attività
gestite dagli appellanti sia iscritta nel
richiamato Albo (e, in particolare, che non
vi risulti iscritto l’esercente nei cui
confronti è stata resa la sentenza di questo
Consiglio di Stato, V, 23.02.2015, n. 847,
richiamata dagli appellanti con memoria
05.01.2017). |
APPALTI: Bandi
di gara e formulazione delle offerte.
Clausole escludenti da impugnare subito.
Le clausole di un bando di gara escludenti
la partecipazione devono essere
immediatamente impugnate; le altre
potenzialmente lesive devono essere
impugnate al momento dell'aggiudicazione
definitiva.
È quanto ha affermato il Consiglio di Stato,
Sez. III, con la
sentenza
18.04.2017 n. 1809 relativamente all'onere di
tempestiva impugnazione delle clausole di
atti di gare per l'affidamento di contratti
pubblici.
La sentenza si pronuncia in merito
all'impugnativa della clausola del bando di
gara nella quale veniva precisato il
criterio di calcolo delle offerte teso a
premiare l'impresa concorrente che avrebbe
offerto un ribasso maggiore sulla parte di
fornitura che rappresentava il più alto
impegno economico per l'amministrazione. I
giudici ricostruiscono in termini generali
le regole sull'impugnazione precisando che
l'onere di impugnare immediatamente le
previsioni della legge di gara non concerne
solo quelle in senso classico «escludenti»,
che prevedono requisiti soggetti di
partecipazione, ma anche le clausole
afferenti alla formulazione dell'offerta,
sia sul piano tecnico che economico, laddove
esse rendano impossibile la presentazione di
una offerta.
La sentenza ricorda quali siano le
fattispecie che devono essere immediatamente
oggetto di impugnativa, fra cui: le regole
impositive, ai fini della partecipazione, di
oneri manifestamente incomprensibili o del
tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai
contenuti della procedura concorsuale; le
previsioni che rendano la partecipazione
incongruamente difficoltosa o addirittura
impossibile; le disposizioni abnormi o
irragionevoli che rendano impossibile il
calcolo di convenienza tecnica ed economica
ai fini della partecipazione alla gara
ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli
dei termini per la presentazione
dell'offerta; le condizioni negoziali che
rendano il rapporto contrattuale
eccessivamente oneroso e obiettivamente non
conveniente.
Pertanto, dicono i giudici, le
rimanenti tipologie di clausole «asseritamente
ritenute lesive devono essere impugnate
insieme con l'atto di approvazione della
graduatoria definitiva». È quello il momento
in cui viene definita la procedura
concorsuale e identificato in concreto il
soggetto leso dal provvedimento, così
rendendo attuale e concreta la lesione della
situazione soggettiva e postulano la
preventiva partecipazione alla gara
(articolo ItaliaOggi
del 28.04.2017).
---------------
MASSIMA
6.11. La previsione del disciplinare di
gara infatti, proprio per il tenore della
censura e indipendentemente dall’esito della
gara, appariva immediatamente lesiva per la
ricorrente, che proprio in base alla sua
stessa prospettazione sarebbe stata
costretta dalla legge di gara a formulare
una offerta asseritamente illogica sul piano
della convenienza economica oltre che, come
deduce l’appellante (p. 20 del ricorso),
asseritamente irragionevole e illogica, per
la stessa stazione appaltante, anche
rispetto al dichiarato intento di
configurare a lotto unico indivisibile.
6.12. Occorre al riguardo rammentare,
infatti, che
l’onere di impugnare immediatamente le
previsioni della legge di gara non concerne
solo quelle in senso classico “escludenti”,
che prevedono requisiti soggetti di
partecipazione (Ad. plen., 29.01.2003, n.
1), ma anche le clausole afferenti alla
formulazione dell’offerta, sia sul piano
tecnico che economico, laddove esse rendano
(realmente) impossibile la presentazione di
una offerta
(v., ex plurimis, Cons. St., sez. IV,
11.10.2016, n. 4180).
6.13.
La più recente giurisprudenza segue ormai
fermamente tale linea interpretativa
(Cons. St., sez. III, 02.02.2015, n. 491)
e, nel tentativo di enucleare le ipotesi in
cui tale evenienza può verificarsi, ha a più
riprese puntualizzato che, tra le altre,
tali sono:
a)
le regole impositive, ai fini della
partecipazione, di oneri manifestamente
incomprensibili o del tutto sproporzionati
per eccesso rispetto ai contenuti della
procedura concorsuale
(v., in particolare, Cons. St., sez. IV,
07.11.2012, n. 5671);
b)
le previsioni che rendano la partecipazione
incongruamente difficoltosa o addirittura
impossibile
(così, del resto, la già citata pronuncia n.
1 del 29.01.2003 dell’Adunanza plenaria);
c)
le disposizioni abnormi o irragionevoli che
rendano impossibile il calcolo di
convenienza tecnica ed economica ai fini
della partecipazione alla gara ovvero
prevedano abbreviazioni irragionevoli dei
termini per la presentazione dell’offerta
(cfr. Cons. St., sez. V, 24.02.2003, n.
980);
d)
le condizioni negoziali che rendano il
rapporto contrattuale eccessivamente oneroso
e obiettivamente non conveniente
(cfr. Cons. St., sez. V, 21.11.2011 n.
6135);
e)
l’imposizione di obblighi contra ius
(come, ad esempio, la cauzione definitiva
pari all’intero importo dell’appalto: Cons.
St., sez. II, 19.02.2003, n. 2222);
f)
le gravi carenze nell’indicazione di dati
essenziali per la formulazione dell’offerta
(quelli relativi, exempli gratia, al
numero, alle qualifiche, alle mansioni, ai
livelli retributivi e all’anzianità del
personale destinato ad essere assorbiti
dall’aggiudicatario) ovvero la presenza di
formule matematiche del tutto errate (come
quelle per cui tutte le offerte conseguono
comunque il punteggio di “0” punti);
g)
gli atti di gara del tutto mancanti della
prescritta indicazione nel bando di gara dei
costi della sicurezza “non soggetti a
ribasso”
(cfr. Cons. St., sez. III, 03.10.2011 n.
5421).
6.14.
Le rimanenti tipologie di clausole
asseritamente ritenute lesive devono essere
impugnate insieme con l’atto di approvazione
della graduatoria definitiva, che definisce
la procedura concorsuale ed identifica in
concreto il soggetto leso dal provvedimento,
rendendo attuale e concreta la lesione della
situazione soggettiva
(Cons. Stato, sez. V, 27.10.2014, n. 5282)
e postulano la preventiva partecipazione
alla gara.
6.15. Non occorre aggiungere altro per
comprendere che l’odierna appellante avrebbe
dovuto impugnare immediatamente, come il
primo giudice ha rilevato in limine litis,
la previsione qui contestata che rendeva, a
suo dire, ragionevolmente impossibile la
formulazione di un’offerta economica seria,
ponderata, logica e coerente con il
principio del prezzo complessivamente più
basso.
6.16. Il non avere l’appellante stessa
contestato specificamente il pur sintetico
rilievo del TAR rende il motivo qui
disaminato inammissibile per difetto di
interesse, restando precluso al Collegio
l’esame di esso nel merito.
7. In conclusione, per i motivi esposti,
l’appello deve in parte dichiarato
inammissibile e in parte deve essere
respinto, secondo le ragioni sopra esposte,
con piena conferma della sentenza impugnata. |
APPALTI: Aggiudicazione provvisoria.
Si può censurare solo se è illogica.
Il ritiro di una aggiudicazione provvisoria
è censurabile davanti al giudice
amministrativo soltanto in caso di manifesta
illogicità o irrazionalità della scelta
compiuta dalla stazione appaltante.
È quanto
ha precisato il TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV, con la
sentenza 18.04.2017 n.
900 che tratta degli effetti del ritiro, da
parte di una stazione appaltante, una
aggiudicazione provvisoria.
I giudici hanno
ricostruito il quadro normativo vigente con
riguardo all'articolo 33 del decreto 50/2016
che ha sostituito l'aggiudicazione
provvisoria con la proposta di
aggiudicazione, facendo seguito agli
orientamenti giurisprudenziali formatisi
sull'atto di aggiudicazione provvisoria che
avevano circoscritto gli effetti di questa
prima fase del procedimento di
aggiudicazione del contratto.
I giudici hanno ricordato come anche in
passato, prima del decreto 50, le sentenze
avevano chiarito che l'aggiudicazione
provvisoria, facendo nascere in capo
all'interessato solo una mera aspettativa
alla definizione positiva del procedimento
stesso, non assume le caratteristiche di un
provvedimento conclusivo della procedura di
evidenza pubblica, avendo, per sua natura,
un'efficacia destinata ad essere superata.
Da questo il Tar fa discendere che, ai fini
del ritiro dell'aggiudicazione provvisoria,
non vi è obbligo di avviso di avvio del
procedimento né un particolare onere
motivazionale. Infatti, la possibilità che
all'aggiudicazione provvisoria della gara
d'appalto non segua quella definitiva è un
evento del tutto fisiologico, inidoneo di
per sé a ingenerare qualunque affidamento
tutelabile con conseguente obbligo
risarcitorio. Diversamente, dopo
l'aggiudicazione definitiva e prima della
stipula del contratto, la revoca è pur
sempre possibile, salvo un particolare e più
aggravato onere motivazionale.
Pertanto il ritiro dell'aggiudicazione
provvisoria può essere censurato, oltre che
per violazione della norma di legge
eventualmente invocata dalla stazione
appaltante a fondamento della sua decisione,
solo in caso di manifesta illogicità o
irrazionalità della scelta amministrativa
compiuta (articolo ItaliaOggi
del 21.04.2017).
---------------
MASSIMA
3.1. Ebbene, il Collegio deve anzitutto
rammentare che, con l’entrata in vigore del
nuovo codice, l’aggiudicazione provvisoria è
stata sostituita dalla “proposta di
aggiudicazione”, di cui all’art. 33 del
d.lgs. 18.04.2016, n. 50: non di meno, in
prima approssimazione, si possono richiamare
gli orientamenti giurisprudenziali formatisi
sull’atto di aggiudicazione provvisoria, cui
si riferiva il previgente codice degli
appalti.
3.2. Ciò vale anzitutto per la tesi, del
tutto condivisibile, per cui
l’aggiudicazione provvisoria,
facendo nascere in capo all'interessato solo
una mera aspettativa alla definizione
positiva del procedimento stesso, non è
individuabile come provvedimento conclusivo
della procedura di evidenza pubblica,
avendo, per sua natura, un’efficacia
destinata ad essere superata: per cui, ai
fini della suo ritiro non vi è obbligo di
avviso di avvio del procedimento
(così, da ultimo C.d.S., III, 05.10.2016, n.
4107).
Così, nelle gare pubbliche, “la
possibilità che all'aggiudicazione
provvisoria della gara d'appalto non segua
quella definitiva è un evento del tutto
fisiologico, disciplinato dagli artt. 11,
comma 11, 12 e 48, d.lgs. 12.04.2006, n.
163, inidoneo di per sé a ingenerare
qualunque affidamento tutelabile con
conseguente obbligo risarcitorio”
(C.d.S., V, 21.04.2016, n. 1600); per lo
stesso motivo, “non è
richiesto un particolare onere motivazionale
a sostegno della revoca del procedimento,
mentre dopo l'aggiudicazione definitiva e
prima della stipula del contratto, la revoca
è pur sempre possibile, salvo un particolare
e più aggravato onere motivazionale”
(TAR Lazio, II, 05.09.2016, n. 9543).
3.3. Ne segue che il ritiro
dell’aggiudicazione provvisoria può essere
censurato, oltre che per violazione della
norma di legge eventualmente invocata dalla
Stazione appaltante a fondamento della sua
decisione, soltanto in caso di manifesta
illogicità o irrazionalità della scelta
amministrativa compiuta: e ciò vale anche
per il caso che tale decisione trovi il
proprio fondamento, come nel caso, nel bando
di gara, giacché è pur sempre la stessa
aspettativa transitoria a chiedere tutela.
3.4.1. Ebbene, in specie, non è in questione
che l’originaria lex specialis
mancasse di quel secondo allegato 3, il
quale è stato poi incluso nel nuovo
disciplinare tecnico.
3.4.2. È poi condivisibile che una parte di
tali elementi fosse desumibili dalle
restanti disposizioni contenute negli
allegati originari, per cui la loro migliore
esposizione nel nuovo allegato 3 da sola non
avrebbe ragionevolmente giustificato la
rinnovazione della procedura; ma ciò non si
può affermare per le quantità di reagenti da
utilizzare nel servizio.
3.5. Non bisogna dimenticare che la gara de
qua era al massimo ribasso, e ciò comporta
che la prestazione richiesta debba essere
esattamente delineata nel suo contenuto, non
potendo la Stazione appaltante svolgere,
durante la selezione, un giudizio
qualitativo sulle offerte presentate.
3.6. Così, prestabilendo –secondo una scelta
tecnica ampiamente discrezionale e di norma
incesurabile- un quantitativo di reagente da
impiegare nel servizio, si impone
ragionevolmente un’adeguata soglia
qualitativa del servizio stesso, rilevante
sia nel momento della valutazione d’anomalia
(ed è infatti in quel momento che, in
specie, la Stazione appaltante si è resa
conto dell’incompletezza dell’offerta) sia
poi, durante l’esecuzione del contratto, per
verificare, in corso d’opera, il reale
utilizzo dei reagenti e, così, la qualità
complessiva del servizio.
3.7. È dunque legittimo che
l’Amministrazione, quando abbia
originariamente omesso tale elemento, possa
poi includervelo, previo ritiro e
reiterazione della procedura, almeno finché
manchi un’aggiudicazione definitiva:
l’affermazione per cui lo scopo sarebbe
stato quello di ampliare il numero dei
partecipanti resta una mera insinuazione.
3.8. Accertata come legittima la decisione
di ritiro, ad analoga conclusione si deve
pervenire per la nuova procedura di gara, di
cui resta irrilevante l’esito. |
AMBIENTE-ECOLOGIA - TRIBUTI: Minambiente
in fuorigioco sui rifiuti. Tar Lazio.
È illegittimo il silenzio inadempimento
ventennale del Ministero dell'ambiente in
materia di assimilazione dei rifiuti
speciali ai rifiuti urbani.
Il TAR Lazio-Roma - Sez. II-bis, con
sentenza
13.04.2017 n. 4611, ha
obbligato il ministero dell'ambiente ad
adottare, entro un termine massimo di 120
giorni (dall'emissione sentenza), il decreto
ministeriale atteso ormai dal lontano 1997
(ovvero dall'anno dell'entrata in vigore del
cosiddetto «decreto Ronchi»).
Il fatto in concreto.
Il dicastero del
Ministero dell'ambiente, il Ministero dello
sviluppo economico e il Comune di Reggio
Emilia venivano chiamati in causa da
un'azienda bolognese (operante nel settore
rifiuti, attiva soprattutto sul fronte della
raccolta e avvio a riciclo della carta da
macero) che lamentava di essere gravemente
danneggiata, in termini di ingiusta
sottrazione di risorse e beni al mercato
privato e di elevato versamento Tari, dalla
eccessiva assimilazione dei rifiuti speciali
ai rifiuti urbani effettuata dalle
amministrazioni comunali, a causa della
mancanza di una regolamentazione
ministeriale (prevista dall'articolo 195 del dlgs 152/2006, e prima ancora dall'articolo
18, 2° comma, lettera d, dlgs 5/1997 c.d.
decreto Ronchi).
Il Tar Lazio ha accolto il ricorso
sostenendo che «il Ministero dell'ambiente,
pur tenuto ad adottare la regolamentazione
suddetta, risulta non aver ancora completato
l'iter relativo, avendo soltanto avviato le
attività propedeutiche all'adozione del
decreto in questione».
Cosa che «rende illegittima l'inerzia tenuta
dallo stesso» e, per questo motivo, dovrà
adottare «di concerto con il ministro dello
Sviluppo economico il decreto che fissi i
criteri per l'assimilabilità dei rifiuti
speciali ai rifiuti urbani, nel termine di
giorni 120» dalla data della sentenza.
Per la metà di agosto prossimo e dopo
vent'anni di attesa, il regolamento potrebbe
finalmente essere emanato
(articolo ItaliaOggi
del 28.04.2017). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Nuovo
ufficio. Il garage perde la sosta vietata.
Chi trasforma il garage in attività
commerciale non può mantenere il cartello di
divieto di sosta regolarmente autorizzato
dal comune per consentire l'accesso e lo
stazionamento dei veicoli all'interno del
locale. Neppure se occasionalmente nello
stesso manufatto vengono ricoverati dei
motorini o delle biciclette.
Lo dice il TAR Toscana, Sez. III, con la
sentenza 12.04.2017 n.
560.
Un cittadino ha trasformato una autorimessa
in ufficio mantenendo attiva la vecchia
concessione comunale per l'esercizio di un
passo carraio. Contro la conseguente revoca
della licenza attivata a seguito di un
controllo della polizia municipale
l'interessato ha proposto senza successo
ricorso al Tribunale amministrativo locale.
Ai sensi del codice stradale il passo
carrabile deve consentire l'accesso a
un'area laterale idonea allo stazionamento e
alla sosta dei veicoli. Quindi se un locale
è utilizzato per fini commerciali diversi
non risulta possibile attivare o mantenere
un passo carrabile. Neppure se nelle ore
serali gli stessi locali ad uso ufficio sono
utilizzati per il rimessaggio occasionale di
motorini o di velocipedi da parte degli
operatori
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.05.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
pergotenda.
La struttura costituita da due pali poggiati sul pavimento
di un terrazzo a livello e da quattro traverse con binario
di scorrimento a telo in pvc, ancorata al sovrastante
balcone e munita di copertura rigida a riparo del telo
retraibile (c.d. pergotenda) non configura né un aumento del
volume e della superficie coperta, né la creazione o la
modificazione di un organismo edilizio, né l'alterazione del
prospetto o della sagoma dell'edificio cui è connessa, in
ragione della sua inidoneità a modificare la destinazione
d'uso degli spazi interni interessati, della sua facile e
completa rimovibilità, dell'assenza di tamponature verticali
e della facile rimovibilità della copertura orizzontale: la
stessa va pertanto qualificata come arredo esterno, di
riparo e protezione, funzionale alla migliore fruizione
temporanea dello spazio esterno all'appartamento cui accede
ed è riconducibile agli interventi manutentivi liberi, ossia
non subordinati ad alcun titolo abilitativo ai sensi
dell'art. 6, comma 1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
---------------
Il primo gruppo di censure è infondato.
È noto e condivisibile il consolidato orientamento della
giurisprudenza sulle cosiddette pergotende (cfr. ex multis
Consiglio di Stato, sez. VI, 11.04.2014, n. 1777).
Per la giurisprudenza richiamata, la struttura costituita da
due pali poggiati sul pavimento di un terrazzo a livello e
da quattro traverse con binario di scorrimento a telo in pvc,
ancorata al sovrastante balcone e munita di copertura rigida
a riparo del telo retraibile (c.d. pergotenda) non configura
né un aumento del volume e della superficie coperta, né la
creazione o la modificazione di un organismo edilizio, né
l'alterazione del prospetto o della sagoma dell'edificio cui
è connessa, in ragione della sua inidoneità a modificare la
destinazione d'uso degli spazi interni interessati, della
sua facile e completa rimovibilità, dell'assenza di
tamponature verticali e della facile rimovibilità della
copertura orizzontale: la stessa va pertanto qualificata
come arredo esterno, di riparo e protezione, funzionale alla
migliore fruizione temporanea dello spazio esterno
all'appartamento cui accede ed è riconducibile agli
interventi manutentivi liberi, ossia non subordinati ad
alcun titolo abilitativo ai sensi dell'art. 6, comma 1,
d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
Diversamente, peraltro, deve essere valutato l’intervento
realizzato dalla ricorrente, essendo stato accertato che,
oltre alla pergotenda, identificabile nella struttura di
sostegno della copertura ritraibile e nella copertura
stessa, si è verificata la tamponatura dei tre lati
originariamente aperti con policarbonato trasparente, oltre
alla realizzazione di porte di accesso laterali.
Dall’esame complessivo dell’opera risulta insussistente il
presupposto ravvisato dalla giurisprudenza amministrativa,
oltre che dalla richiamata circolare di Roma Capitale, per
la qualificazione della stessa come edilizia libera, perché
le chiusure verticali e la presenza di porte di accesso,
seppure in materiale leggero e facilmente amovibile,
impediscono di considerare la stessa come un arredo esterno,
funzionale alla fruizione temporanea del terrazzo, essendo,
al contrario, riconoscibile una vera e propria opera di
ristrutturazione edilizia, in quanto rivolta a modificare
l’appartamento mediante la trasformazione del terrazzo in un
ambiente tendenzialmente chiuso.
Ne derivano l’infondatezza delle censure e, nei limiti del
dedotto, la legittimità dell’ordine di ripristino
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 11.04.2017 n. 4448 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'istanza di accertamento di conformità (c.d. sanatoria)
non incide sulla legittimità della previa ordinanza di
demolizione pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma
soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione,
espressa o tacita, dell'istanza, con il risultato che essa
potrà essere portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata
decorrendo il relativo termine di adempimento dalla
conoscenza del diniego.
---------------
1.– La questione posta all’esame della Sezione attiene alla
legittimità dell’ordinanza del Comune resistente che ha
ordinato la demolizione delle opere descritte nella parte in
fatto.
2.– L’appello non è fondato.
3.– Con un primo motivo si afferma l’erroneità della
sentenza nella parte in cui non ha avrebbe dichiarato
l’inefficacia dell’ordine di demolizione a seguito della
presentazione, da parte degli appellanti, in data
25.02.2003, di una domanda di accertamento di conformità.
Il motivo non è fondato.
L’art. 31 del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia) prevede
che, in presenza di interventi, quali quelli di nuova
costruzione, eseguita in assenza di un permesso di
costruire, l’amministrazione deve ordinare la demolizione.
L’art. 36 dello stesso decreto che in presenza, tra l’altro,
di tali abusi è possibile «ottenere il permesso in
sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda».
Il due procedimenti sono diversi e separati. La
giurisprudenza di questo Consiglio, con orientamento che si
condivide, ha affermato, infatti, che «l'istanza di
accertamento di conformità (c.d. sanatoria) non incide sulla
legittimità della previa ordinanza di demolizione
pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto
sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o
tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere
portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il
relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego»
(Cons. Stato, sez. VI, 02.02.2015, n. 466)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.04.2017 n. 1667 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce attività vincolata della p.a., con la
conseguenza che ai fini dell'adozione delle ordinanze di
demolizione non è necessario l'invio della comunicazione di
avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell'atto.
---------------
1.– La questione posta all’esame della Sezione attiene alla
legittimità dell’ordinanza del Comune resistente che ha
ordinato la demolizione delle opere descritte nella parte in
fatto.
2.– L’appello non è fondato.
...
4.– Con un secondo motivo si afferma l’erroneità
della sentenza nella parte in cui non avrebbe ritenuto
illegittimi gli atti impugnati per mancata comunicazione
dell’avvio del procedimento e per la mancata indicazione del
responsabile del procedimento.
Il motivo non è fondato.
L’art. 7 della legge n. 241 del 1990 prevede che l’avvio del
procedimento è comunicato, tra gli altri, ai soggetti «nei
confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a
produrre effetti diretti». L’art. 8 dispone che con tale
comunicazione deve essere indicato anche il nome del
responsabile del procedimento.
L’art. 21-octies, secondo comma, secondo inciso, della
stessa legge prevede che: «Il provvedimento
amministrativo non è comunque annullabile per mancata
comunicazione dell'avvio del procedimento qualora
l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato».
Parte della giurisprudenza amministrativa, con orientamento
che la Sezione condivide, assume che venendo in rilievo
elementi conoscitivi nella disponibilità del privato, spetta
a quest’ultimo indicare quali sono gli elementi conoscitivi
che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto
la comunicazione. Solo dopo che la parte ha adempiuto a
questo onere l’amministrazione «sarà gravata dal ben più
consistente onere di dimostrare che, anche ove quegli
elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo
del provvedimento non sarebbe mutato». La tesi opposta
porrebbe a carico della p.a. una probatio diabolica «quale
sarebbe quella consistente nel dimostrare che ogni eventuale
contributo partecipativo del privato non avrebbe mutato
l’esito del procedimento» (Cons. Stato, sez. VI,
04.04.2015, n. 1060; Id., VI, 29.07.2008, n. 3786; id., V,
18.04.2012, n. 2257).
Nel settore dell’edilizia la giurisprudenza di questo
Consiglio ha già avuto modo di affermare che: «l’esercizio
del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce
attività vincolata della p.a., con la conseguenza che ai
fini dell'adozione delle ordinanze di demolizione non è
necessario l'invio della comunicazione di avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell'atto» (Cons. Stato, sez. VI,
05.01.2015, n. 13).
La parte non ha inoltre indicato alcun elemento probatorio
rilevante atto a dimostrare, ai sensi dell’art. 21-ocites
della legge n. 241 del 1990, che se avesse partecipazione al
procedimento avrebbe inciso sul contenuto della
determinazione finale
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.04.2017 n. 1667 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
presupposti per l’esercizio del potere di annullamento
d’ufficio con effetti ex tunc sono l’illegittimità
originaria del provvedimento, l’interesse pubblico concreto
ed attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino
della legalità, l’assenza di posizioni consolidate in capo
ai destinatari e non ultima una più puntuale e convincente
motivazione allorché la caducazione intervenga ad una
notevole distanza di tempo.
---------------
L’infedele prospettazione dello stato dei luoghi incide
certamente sull’onere motivazionale dell’Amministrazione
relativo alla comparazione tra interesse pubblico e privato
e all’affidamento riposto dal richiedente sul mantenimento
del manufatto, non potendo l’interessato medesimo vantare il
proprio legittimo affidamento nella persistenza di un
beneficio ottenuto attraverso l’induzione in errore
dell’Amministrazione procedente, (errore) determinato dallo
stesso soggetto richiedente, ma pur sempre a condizione che
l’Amministrazione descriva puntualmente l’infedele
rappresentazione dei luoghi e motivi adeguatamente in ordine
all’incidenza sostanziale della difformità tra quanto
dichiarato e quanto esistente in ordine alla legittimità del
titolo edilizio.
---------------
7.2 - Il ricorso si palesa, invece, fondato in relazione al
contestuale annullamento del pdc in variante.
Ed invero, secondo i principi giurisprudenziali enucleati
dal Consiglio di Stato, poi sostanzialmente confluiti
nell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 (nel testo
ratione temporis applicabile ovvero quello antecedente
alle novelle del 2014 e 2015), “i presupposti per
l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio con effetti
ex tunc sono l’illegittimità originaria del provvedimento,
l’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione
diverso dal mero ripristino della legalità, l’assenza di
posizioni consolidate in capo ai destinatari e non ultima
una più puntuale e convincente motivazione allorché la
caducazione intervenga ad una notevole distanza di tempo
(cfr. fra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 27/11/2010 n.
8291; Sez. IV, n. 2885 del 2016; Sez. IV, n. 2908 del 2016)”
- così, da ultimo, Consiglio di stato, sez. IV, sent.
25/01/2017 n. 293.
Dunque, l’illegittimità originaria del provvedimento (che,
in disparte il caso di vizi meramente procedurali, in
materia urbanistica si traduce nel contrasto del titolo con
gli strumenti urbanistici e la normativa edilizia vigenti) è
pur sempre un indefettibile presupposto per l’annullamento
in autotutela, che –nel caso di specie– difetta o del quale,
comunque, il Comune ha omesso di dare conto nell’atto
gravato.
L’infedele prospettazione dello stato dei luoghi, in altri
termini, incide certamente sull’onere motivazionale
dell’Amministrazione relativo alla comparazione tra
interesse pubblico e privato e all’affidamento riposto dal
richiedente sul mantenimento del manufatto, non potendo
l’interessato medesimo vantare il proprio legittimo
affidamento nella persistenza di un beneficio ottenuto
attraverso l’induzione in errore dell’Amministrazione
procedente (ex multis, Consiglio di Stato, IV,
24.12.2008, n. 6554; Consiglio di Stato, V, 08.11.2012, n.
5691; TAR Puglia, Lecce, III, 21.02.2005, n. 686, TAR
Campania, Napoli, VIII, 19.05.2015, n. 2791), (errore)
determinato dallo stesso soggetto richiedente, ma pur sempre
a condizione che l’Amministrazione descriva puntualmente
l’infedele rappresentazione dei luoghi e motivi
adeguatamente in ordine all’incidenza sostanziale della
difformità tra quanto dichiarato e quanto esistente in
ordine alla legittimità del titolo edilizio.
Per quanto innanzi detto, l’atto gravato –limitatamente al
disposto annullamento del pdc in variante n. 167/2008- va
annullato, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti
dell’Amministrazione
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 10.04.2017 n. 380 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Paletti al rito superveloce. Tar
Puglia.
Il Comune non può pretendere l'applicazione
del rito superaccelerato al ricorso di chi
impugna l'aggiudicazione dell'appalto se non
ha pubblicato l'elenco delle aziende ammesse
alla procedura nella sezione ad hoc
«amministrazione trasparente» prevista dal
decreto legislativo 33/2013. È dunque
tempestivo l'atto introduttivo del giudizio
depositato dall'impresa esclusa entro 30
giorni dalla Pec con cui la stazione
appaltante rende noto l'affidamento dei
lavori insieme con l'elenco delle aziende
che hanno partecipato all'iter.
È quanto emerge dalla
sentenza 05.04.2017 n. 340,
pubblicata dalla III Sez. del TAR
Puglia-Bari.
Principio di effettività
Infondata l'eccezione di irricevibilità per
tardività sollevata dal Comune benché la
graduatoria della gara sia stata pubblicata
il 9 agosto scorso mentre risulta notificato
soltanto il 16 novembre il ricorso proposto
contro la mancata esclusione dell'Ati
aggiudicataria. Il punto è che la
graduatoria compare nell'albo pretorio della
provincia, in quanto profilo committente
della stazione appaltante, ma non nella
sezione amministrazione trasparente come
richiede l'articolo 29 del nuovo codice
degli appalti pubblici, che richiama il
decreto trasparenza sull'attività delle
pubbliche amministrazioni: è la stessa
difesa dell'ente locale ad ammetterlo
durante la discussione.
E d'altronde neanche il bando di gara
risulta più chiaro: si limita a rinviare al
sito Internet della stazione unica
appaltante che nella sezione «bandi e
gare» contiene solo regolamenti e
moduli. Il tutto mentre la giurisprudenza
delle Corte Ue condanna per violazione del
principio di effettività le leggi nazionali
che richiedono ricorsi sprint senza che la
parte privata abbia una completa conoscenza
degli atti. Il ricorso dell'azienda è
rigettato nel merito ma le spese di giudizio
sono comunque compensate per la novità della
questione
(articolo ItaliaOggi del
12.05.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Pot
Entrate, il Tar è incompetente.
Sulla legittimità delle posizioni organizzative temporali (Pot)
dell'Agenzia delle entrate è competente il giudice del
lavoro.
Con queste motivazioni il TAR Lazio-Roma ha respinto il ricorso
presentato da Dirpubblica invitando l'associazione a
riassumere la causa davanti alla giurisdizione competente
entro tre mesi dalla data della
sentenza 30.03.207
n. 4049.
Per il Tar Lazio con gli atti impugnati
da Dirpubblica, l'Agenzia delle entrate ha attribuito mere
responsabilità gestionali. Per queste ragioni il collegio
ritiene, conformandosi a giurisprudenza consolidata, che la
questione di selezione interna per titoli tra pubblici
dipendente avviata per attribuzione temporanea di mansioni
superiori, appartenga alla giurisdizione del giudice
ordinario, in quanto non incide sulla posizione di ruolo dei
concorrenti, che rimane immutata.
Non c'è insomma per il giudice amministrativo un mutamento
di profilo professionale ma solo di una implementazione di
compiti per cui il giudice adito dovrà essere quello del
lavoro
(articolo ItaliaOggi dell'01.04.2017).
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MASSIMA
Il complesso gravame tende a revocare in dubbio la
legittimità, amministrativa e costituzionale, delle
disposizioni con le quali le Agenzie fiscali hanno
provveduto ad assegnare -in via temporanea, da ultimo fino
al 30.09.2017, e comunque nelle more dell’espletamento del
concorso pubblico per la copertura dei posti dirigenziali
vacanti (concorso non ancora indetto)- incarichi ai propri
funzionari privi di livello dirigenziale consistenti nella
delega alla firma di atti tributari e relative funzioni che
non siano quelle riservate esclusivamente per legge ai
dirigenti, con attribuzione ai medesimi di posizioni
organizzative speciali e senza previa indizione del concorso
pubblico.
In questi termini perimetrata la causa petendi, il
ricorso deve ritenersi inammissibile per difetto di
giurisdizione del giudice amministrativo.
Ed invero, il ricorso in esame in quanto volto a contestare
l’attribuzione delle posizioni organizzative speciali
strumentali al conferimento delle deleghe di firma di atti
tributari con relative funzioni presupposte integra una
vicenda che rientra nella giurisdizione del Giudice
Ordinario.
Come già ha avuto modo di rilevare questo Tribunale con
riguardo ad una vicenda parzialmente simile decisa inter
partes con sentenza n. 11005/2016, nel caso di specie
vengono in considerazione atti ricompresi tra le
determinazioni assunte con la capacità e i poteri del datore
di lavoro privato ai sensi dell’art. 5, comma 2, d.lgs.
n.165 del 2001 di fronte ai quali sussistono posizioni di
diritti soggettivi.
Tanto si evince dalla circostanza che con gli atti impugnati
l’Agenzia delle Entrate ha attribuito mere “responsabilità
gestionali connesse all’esercizio delle deleghe” con
attribuzione di “posizioni organizzative temporanee”
e relativo trattamento economico, da conferirsi ad interim
previa procedura selettiva interna, con valutazione
comparata dei curricula degli interessati e colloquio di
approfondimento, che non implica una “progressione
verticale” rientrante nella materia dei concorsi pubblici.
Più in particolare, vengono all’esame nell’odierna
controversia atti con i quali si intende conferire una
posizione organizzativa sulla base di deleghe all’esercizio
di funzioni gestionali; il concetto di procedura concorsuale
—riservata, ai sensi dell'art. 63, comma 4, d.lgS. n. 165
del 2001, alla giurisdizione del Giudice Amministrativo—
evoca una procedura caratterizzata dalla valutazione dei
candidati e dalla compilazione finale di una graduatoria: ne
sono escluse, pertanto, non solo le assunzioni che non sono
basate su di una logica selettiva, ma soprattutto le
procedure che si sostanziano (come nella fattispecie) in una
mera verifica di idoneità di determinati soggetti, già
inseriti nell'ambito dell'Amministrazione di riferimento.
Il Collegio ritiene, sulla scorta di una consolidata
giurisprudenza (v. Tar Campobasso, sez. I, 16/07/2013, n.
487; in termini: TAR Puglia–Lecce n. 290 del 16.02.2016; Tar
Lazio, sez. III, n. 11005/2016; ordinanza Tar Lazio, sez. II,
n. 3702/2016 del 07.07.2016) che appartiene
alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia
avente ad oggetto la selezione interna per titoli fra
pubblici dipendenti avviata non per la nomina a un posto o
per la progressione verticale o per la promozione in un'area
organizzativa diversa, bensì per l'attribuzione temporanea
di superiori mansioni (quale appare profilarsi nella
fattispecie), sicché essa non consiste in un concorso
pubblico propriamente inteso né in un concorso interno per
la progressione verticale, non incidendo sulla posizione di
ruolo dei concorrenti, che rimane immutata.
Va soggiunto, che al vaglio di questo TAR non sono stati
sottoposti atti c.d. di macro-organizzazione, ossia volti a
ridefinire le linee fondamentali di organizzazione degli
uffici, trattandosi piuttosto di atti volti a sopperire a
temporanee esigenze funzionali degli uffici mediante Linee
guida preordinate alla individuazione dei funzionari interni
alla struttura cui attribuire, in via provvisoria e per
assicurare la continuità dell’azione amministrativa, talune
responsabilità gestionali da conferire secondo criteri
organizzativi propri del datore di lavoro privato.
I provvedimenti oggetto di gravame, pertanto, non sono
idonei a derogare alla regola che vuole la giurisdizione
ordinaria estesa ad ogni aspetto del rapporto di lavoro
contrattualizzato.
A conferma di tanto, occorre soggiungere che la ricorrente,
sia nell’atto introduttivo che nei motivi aggiunti, ha più
volte precisato a motivo dell’asserita illegittimità degli
atti impugnati l’assenza della procedura concorsuale che
l’intimata Amministrazione avrebbe dovuto indire; unica
materia che, ai sensi dell’art. 63, comma 4°, del decreto
legislativo n. 165 del 2001, sarebbe residuata alla
giurisdizione di questo TAR.
L’inapplicabilità di tale ultima disposizione è confermata
dal fatto che il conferimento delle deleghe alla firma di
atti tributari e delle pedisseque posizioni organizzative
speciali ad interim di cui qui si tratta, non comporta un
mutamento di profilo professionale, che rimane invariato, né
determina un mutamento di area, ma comporta soltanto
un’implementazione di compiti connessi all’esercizio di
deleghe di funzioni riferite a uffici aventi natura
dirigenziale alla quale si correla una indennità di
posizione e di risultato e non anche una variazione del
trattamento economico in godimento.
Dalle considerazioni che precedono ne consegue che la
controversia oggi in decisione rientra nell’alveo della
giurisdizione del Giudice Ordinario, in funzione di Giudice
del lavoro.
Va, pertanto, declinata la giurisdizione del Giudice
Amministrativo in favore di quella del Giudice Ordinario,
davanti al quale il giudizio andrà riassunto, ai sensi
dell’art. 11, comma II c.p.a., entro il termine perentorio
di tre mesi dal passaggio in giudicato della presente
sentenza, salvi gli effetti processuali e sostanziali della
domanda, e ferme restando le preclusioni e le decadenze
eventualmente intervenute. |
APPALTI SERVIZI:
Un freno all'avvalimento nella
scelta del socio. Non si può applicare l'avvalimento
nelle gare indette per la selezione del
socio privato della società mista a cui è
affidato il servizio pubblico.
Lo dice il TAR Abruzzo-L'Aquila con la
sentenza
30.03.2017 n. 152.
Il principio ha come sfondo la tematica
dell'utilizzo da parte del Comune del
modello gestionale operativo della società
mista.
Alla base di questo partenariato
pubblico-privato vi è l'esigenza di creare
un'organizzazione comune con un soggetto
privato appositamente selezionato, al fine
di dotarsi del patrimonio di esperienza,
composto di conoscenze tecniche e
scientifiche, maturate dal privato, il quale
deve contribuire all'arricchimento del «know
how» pubblico e ad alleggerire gli oneri
gestionali del Comune.
Quindi, se il privato, al fine di
aggiudicarsi un contratto pubblico, ha
bisogno di avvalersi dell'esperienza e dei
requisiti tecnico-organizzativi di un altro
soggetto (c.d. ausiliario), perché non li
possiede, ciò vuol dire che non sarà in
condizione di fornire alcun «know how» alla
pubblica amministrazione.
Né tale «know how» potrà essere apportato
dall'impresa ausiliaria, la quale non è una
concorrente né diventa parte del contratto
di società stipulato con l'ente locale. Il
collegio ha concluso dichiarando che bene ha
fatto l'ente territoriale a richiedere nel
bando il possesso dei requisiti di capacità,
tecnica e organizzativa in capo
all'aspirante socio in proprio e di non
consentire la partecipazione a soggetti non
singolarmente in possesso di detti requisiti (articolo ItaliaOggi Sette
del 18.04.2017).
---------------
MASSIMA
7.- Con l’ultimo motivo di ricorso è
dedotta l’illegittimità del bando di gara,
nella parte in cui (punto 9.3) vieta
l’istituto dell’avvalimento, in violazione
dei principi comunitari in tema di favor
partecipationis, nonché per violazione e
falsa applicazione degli articoli 30 e 89
del d.lgs. 50/2016 e degli articoli 1 e 17
del d.lgs. n. 175/2016.
Il motivo è infondato.
7.1.- Alla luce di un’interpretazione
coordinata delle disposizioni del nuovo
codice dei contratti pubblici,
deve ritenersi esclusa la
possibilità di applicare l’istituto dell’avvalimento
alle gare, come quella in esame, indette ai
sensi dell’art. 179 del d.lgs. 50/2016
nell’ambito del partenariato pubblico
privato, quale quella indetta per la
selezione del socio operativo della società
mista affidataria del servizio pubblico.
Dal combinato disposto dell’art. 179, commi
1 e 2, del d.lgs. 80/2016 e art. 164, comma
2, del d.lgs. 50/2016, al quale rinvia
l’art. 179, comma 2 citato, si desume che
prevede che alle procedure di affidamento
disposte nell’ambito del partenariato
pubblico privato si applicano:
- “in quanto compatibili”, le
disposizioni di cui alla parte I, III, V e
VI e della parte II, limitatamente al titolo
I;
- le disposizioni contenute nella parte I e
nella parte II, del presente codice
limitatamente ai “principi generali, alle
esclusioni, alle modalità e alle procedure
di affidamento, alle modalità di
pubblicazione e redazione dei bandi e degli
avvisi, ai requisiti generali e speciali e
ai motivi di esclusione, ai criteri di
aggiudicazione, alle modalità di
comunicazione ai candidati e agli offerenti,
ai requisiti di qualificazione degli
operatori economici, ai termini di ricezione
delle domande di partecipazione alla
concessione e delle offerte, alle modalità
di esecuzione” (art. 164, comma 2, del
d.lgs. 50/2016, richiamato dall’art. 179,
comma 2, dello stesso decreto legislativo).
Dalla lettura della norma emerge che, mentre
il richiamo della parte I, III, V e VI e
alla parte II, titolo I, costituisce un
rinvio interno “aperto” ovvero a
tutte le disposizioni in tali parti e titoli
contenute, fatta salva la compatibilità
delle stesse con la disciplina del
partenariato pubblico privato, invece, il
richiamo alla parte I e alla parte II
costituisce un rinvio interno “chiuso”
ovvero circoscritto ad un elenco tassativo
di ipotesi.
Orbene,
l’art. 89 del d.lgs. n. 50/2016, che
disciplina l’avvalimento, è collocato nella
parte II, titolo III, e, ancorché tale
titolo sia denominato “Procedura di
affidamento”, l’istituto in questione
non è annoverabile in alcuno degli ambiti
disciplinari nominativamente elencati, non
potendo farsi rientrare né tra le “modalità”
di affidamento né tra le “procedure di
affidamento” strictu sensu
intese, né tra i “requisiti generali e
speciali”, trattandosi di un istituto
che soccorre alla carenza dei requisiti
tecnici, organizzativi e finanziari da parte
di un concorrente.
L’esclusione dell’avvalimento nelle gare
indette per la selezione del socio privato
della società mista trova conferma anche
dall’esame della specifica disciplina delle
società miste, contenuta nell’art. 17, comma
2, del d.lgs. 175/2016, ai sensi del quale è
il socio privato che “deve possedere i
requisiti di qualificazione” in
relazione alle prestazioni per cui la
società è stata costituita.
8.3.- D’altra parte, la decisione del Comune
di Teramo di vietare l’avvalimento, è
compatibile con il modello organizzativo,
prescelto a monte, per la gestione del
servizio pubblico di igiene ambientale e
degli altri servizi e lavori accessori.
Invero,
il partenariato pubblico-privato
costituisce una modalità organizzativa di
tipo istituzionalizzato
(termine utilizzato dalla Commissione
europea nel “Libro verde” presentata
il 30.04.2004),
alternativa alla gestione in
economia e alla completa esternalizzazione
della gestione delle funzioni e dei servizi
pubblici, che trova espressione nel
principio di libera organizzazione, sancito
dall’art. 2 della direttiva n. 2014/23/UE.
Secondo tale principio “le autorità
nazionali, regionali e locali possono
liberamente organizzare l'esecuzione dei
propri lavori o la prestazione dei propri
servizi in conformità del diritto nazionale
e dell'Unione” e “sono libere di
decidere il modo migliore per gestire
l'esecuzione dei lavori e la prestazione dei
servizi per garantire in particolare un
elevato livello di qualità, sicurezza e
accessibilità, la parità di trattamento e la
promozione dell'accesso universale e dei
diritti dell'utenza nei servizi pubblici”.
Dunque,
la scelta dell’ente locale di
adottare il modello organizzativo del
partenariato pubblico-privato per la
gestione di determinati servizi pubblici si
realizza con la costituzione di una società,
partecipata congiuntamente dal partner
pubblico e dal partner privato.
La società mista, a differenza della
esternalizzazione del servizio ad operatori
economici estranei alla pubblica
amministrazione, realizza una collaborazione
stabile e di lunga durata tra la pubblica
amministrazione ed il privato, attraverso
l’istituzione di un’organizzazione comune
con la “missione” di assicurare
determinati servizi (e/o funzioni e/o opere)
in favore della comunità locale.
Alla base della decisione della
pubblica amministrazione di optare per il
modello gestionale della società mista
(oggi disciplinato dal d.lgs. 19.08.2016, n.
175, che ha consolidato una serie di norme
contenute in frammentarie disposizioni
legislative e ha codificato i principi
elaborati dalla giurisprudenza)
vi è, infatti, l’esigenza di creare
un’organizzazione comune con un soggetto
privato appositamente selezionato, al fine
di dotarsi del patrimonio di esperienza,
composto di conoscenze tecniche e
scientifiche, maturate dal privato, il
quale, con il proprio apporto organizzativo
e gestionale, dovrà contribuire
all’arricchimento del “Know how”
pubblico, e, con il proprio apporto
finanziario, ad alleggerire gli oneri
economico finanziari che l’ente territoriale
deve sopportare la gestione dei servizi
pubblici.
Tale esigenza, nella specie, è manifestata
dal Comune di Teramo all’art. 4.3 del bando,
che richiede ai concorrenti di “presentare
una proposta di piano industriale per la TE.
Am. S.p.a., apportando il proprio Know how
tecnico, gestionale, organizzativo nel
settore del servizio di igiene ambientale,
nonché la propria capacità tecnica
manageriale per il migliore conseguimento
degli obiettivi di crescita e sviluppo della
società”. In particolare, il bando
richiede che la proposta di piano
industriale “dovrà essere indirizzata al
concreto miglioramento dell’efficienza e
dell’economicità aziendale, anche attraverso
interventi di integrazione
organizzativa/gestionale, inerenti le
attività specifiche di trattamento
finalizzato al recupero e/o alla
valorizzazione dei rifiuti ivi compreso lo
smaltimento degli stessi”.
Orbene,
se il privato, al fine di
aggiudicarsi un contratto pubblico, ha la
necessità di avvalersi dell’esperienza e dei
requisiti tecnico-organizzativi di un altro
soggetto (c.d. ausiliario nel contratto di
avvalimento), perché non li possiede, non
potrà evidentemente apportare alcun “Know
how” alla pubblica amministrazione. Né
tale “Know how” potrà essere
apportato dall’impresa ausiliaria, la quale
non è una concorrente né diventa parte del
contratto di società stipulato con l’ente
locale.
Ne deriva, alla luce delle considerazioni
svolte, la legittimità, della volontà
negoziale dell’ente locale, espressa nel
bando di gara, di richiedere il possesso dei
requisiti di capacità, tecnica e
organizzativa in capo all’aspirante socio in
proprio e di non consentire la
partecipazione a soggetti non singolarmente
in possesso di detti requisiti. |
LAVORI PUBBLICI: Partenariato,
Cds chiede formazione doc nella p.a..
Via libera alle linee guida Anac sul partenariato pubblico
privato (Ppp), ma con adeguata formazione nelle p.a..
È il contenuto principale del
parere
29.03.2017 n. 775 favorevole con osservazioni (Parere
sullo schema di linee guida recanti “Monitoraggio delle
amministrazioni aggiudicatrici sull’attività dell’operatore
economico nei contratti di partenariato pubblico privato”) reso ieri dal
Consiglio di Stato. I giudici premettono che si tratta di
linee guida che, dal punto di vista giuridico, hanno in
realtà una duplice natura.
Sono non vincolanti quanto al
contenuto della parte prima (analisi e allocazione dei
rischi) e invece vincolanti quanto alla parte seconda
(monitoraggio dell'attività dell'operatore economico). Si
sottolinea come sia opportuno che le linee guida forniscano
alle amministrazioni aggiudicatrici le opportune indicazioni
per assicurare una adeguata selezione e formazione dei
funzionari pubblici che dovranno concretamente implementare
le linee guida.
Si evidenzia poi che la necessità di
produrre nell'offerta un piano economico-finanziario
asseverato è previsto dall'art. 183 (finanza di progetto),
ma non dall'articolo 181 (Ppp) invitando l'Anac a rivedere
la richiesta di asseverazione
(articolo ItaliaOggi del 30.03.2017). |
ENTI
LOCALI - VARI: Sono
legittime benedizioni in aula.
Impartire benedizioni religiose in classe (purché al di
fuori delle lezioni e «facoltative») è legittimo.
Il Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.03.2017 n. 1388, ha accolto il
ricorso del ministero dell'Istruzione e ribaltato la
decisione del Tar Emilia Romagna, che aveva annullato la
delibera con cui un consiglio di istituto di Bologna aveva
consentito lo svolgimento del rito nelle aule nel 2015.
Secondo la VI sezione di palazzo Spada le benedizioni non
incidono sulla vita scolastica, «non diversamente dalle
diverse attività parascolastiche che» possono essere «programmate,
o autorizzate dagli organi di autonomia delle singole
scuole, anche senza una formale delibera»; inoltre, «per
un elementare principio di non discriminazione, non può
attribuirsi alla natura religiosa di un'attività una valenza
negativa tale da renderla vietata, o intollerabile»,
soltanto perché «espressione di una fede religiosa,
mentre, se non avesse tale carattere, sarebbe ritenuta
ammissibile e legittima».
Del resto, la Costituzione, all'articolo 20, pone, hanno
puntualizzato i magistrati amministrativi, «un divieto di
trattamento deteriore, sotto ogni aspetto, delle
manifestazioni religiose in quanto tali». All'origine
della vicenda il ricorso depositato da alcuni insegnanti e
genitori di un istituto bolognese e dal comitato «Scuola
e costituzione», ai quali, in primo grado, il Tar aveva
dato ragione, nel 2016, motivando la scelta con il fatto che
la scuola non potesse essere coinvolta in un rito attinente
unicamente alla sfera individuale di ciascuno.
Il Consiglio di stato, però, ha adesso capovolto il
giudizio, affermando che le benedizioni non condizionano «in
alcun modo lo svolgimento della didattica». Una delle
docenti ricorrenti ha già annunciato che ora ci si appellerà
alla Corte di giustizia europea
(articolo ItaliaOggi del 28.03.2017). |
APPALTI SERVIZI: Settori
speciali, revisione prezzi alla giustizia Ue. Verificare se
è legittimo non applicarla.
Verificare se sia legittima l'inapplicabilità della
revisione prezzi negli appalti dei settori speciali.
È quanto ha chiesto alla Corte di giustizia europea il
Consiglio di Stato, Sez. IV, con l'ordinanza
22.03.2017 n. 1297
in merito all'esclusione dell'istituto della revisione
prezzi nell'ambito dei contratti aggiudicati nei cosiddetti
settori speciali (energia, acqua e trasporti).
La fattispecie oggetto di esame del collegio giudicante
riguardava un contratto di servizi affidato da parte della
Rfi, Rete ferroviaria italiana spa, per il quale era stata
avanzata una richiesta di adeguamento revisionale del
corrispettivo d'appalto, respinta dalla stazione appaltante;
in primo grado era stata confermata la legittimità
dell'operato di Rfi mentre il Consiglio di stato ha scelto
la strada del rinvio della questione alla Corte europea per
valutare la conformità dell'interpretazione del giudice di
prime cure.
La questione viene posta in relazione ai principi del
Trattato, all'articolo 16 della Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione europea e alla direttiva n. 17/2004
per sapere se l'interpretazione del diritto interno che
escluda la revisione dei prezzi nei contratti afferenti ai
cosiddetti settori speciali, con particolare riguardo a
quelli con oggetto diverso da quelli cui si riferisce la
stessa direttiva, ma legati a questi ultimi da un nesso di
strumentalità sia legittimo.
Inoltre, i giudici hanno chiesto se la direttiva n. 17/2004
(ove si ritenga che l'esclusione della revisione dei prezzi
in tutti i contratti stipulati e applicati nell'ambito dei
cosiddetti settori speciali discenda direttamente da essa),
sia conforme ai principi dell'Unione europea (in
particolare, agli articoli 3, co. 1 Tue, 26, 56/58 e 101 TfUe,
art. 16 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea),
«per l'ingiustizia, la sproporzionatezza, l'alterazione
dell'equilibrio contrattuale e, pertanto, delle regole di un
mercato efficiente».
Una questione di particolare rilievo che potrebbe avere
ripercussioni sull'intero sistema semplificato che
caratterizza il regime in cui operano i settori speciali (articolo ItaliaOggi del 31.03.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Casa galleggiante sul Tevere, serve il permesso di costruire. Chi
vuole realizzare il sogno di avere una casa sul fiume deve ottenere il
permesso di costruire perché non basta la sola concessione.
Per la Corte di Cassazione (Sez. III penale,
sentenza 15.03.2017 n. 12387) i cosiddetti fiumaroli che seguono
la moda della casa galleggiante, senza essersi prima messi in regola con il
testo unico sull'edilizia (Dpr 380/2001) commettono il reato di abuso
edilizio.
La vicenda
Partendo da questa premessa respinge il ricorso dell'imputato, un
architetto-imprenditore, che aveva realizzato sul Tevere, e dunque in una
zona sottoposta a vincolo paesaggistico, un edificio galleggiante di due
piani, composto da otto appartamenti e vari terrazzi in forza di una
concessione e di un parere tecnico della Ausl ma senza il permesso di
costruire.
Secondo il proprietario della houseboat infatti, i galleggianti che
stazionano sul biondo fiume della città eterna sarebbero sottratti alla
disciplina urbanistica, anche quando come nel suo caso, c'era stato un
cambio di destinazione da attività ricreativa ad abitazione. In subordine
invocava il riconoscimento della sua buona fede, considerando le
autorizzazioni già ottenute dalla pubblica amministrazione e l'oggettiva
difficoltà di interpretare la legge sul punto.
La decisione
La Cassazione non è d'accordo. I via libera ricevuti, per lo più riferiti ad
aspetti prettamente idraulici, avevano lasciato impregiudicata la necessità
di ulteriori permessi e fatto salve altre disposizioni vigenti. Inoltre
l'imputato aveva il dovere, anche “rafforzato” in virtù della sua
doppia qualifica di architetto e imprenditore, di contattare gli uffici
comunali per avere chiarimenti sugli atti amministrativi. Spiegazioni che
intanto fornisce la Suprema corte.
Per la Cassazione le caratteristiche qualificavano la casa galleggiante come
intervento di nuova costruzione (Dpr 380/2001) perché comportavano una
trasformazione edilizia e urbanistica del territorio. L'abitazione sul fiume
rientrava tra le opere definite, a titolo di esempio dalla norma (articolo
3, comma 1, lettera e5) e in particolare, tra le «strutture o
imbarcazioni utilizzate come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come
depositi, magazzini o simili non diretti a soddisfare esigenze meramente
temporanee». I giudici della terza sezione penale sottolineano che la
necessità del permesso di costruire per le strutture galleggianti ancorate
alle sponde del Tevere è stata riconosciuta dalla giurisprudenza
amministrativa, in casi analoghi.
Anche i fondali subacquei, infatti, vanno considerati come suolo, in questo
caso demaniale e le strutture stabilmente installate sull'acqua sono
assoggettabili al testo unico sull'edilizia (articoli 3, 10 e 35). Il
principio dettato dalla Cassazione non vale soltanto per chi sul fiume vuole
vivere ma anche per chi crea un luogo di lavoro: ristoranti, ritrovi,
depositi, magazzini, studi ecc. Per tutti c'è bisogno del permesso di
costruire a meno che le strutture non siano destinate a soddisfare delle
esigenze in un tempo limitato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
16.03.2017). |
VARI: La
multa degli altri è segreta. Tar Molise.
Chi viene sanzionato per divieto di sosta può chiedere al
comando di polizia locale di conoscere quanti veicoli sono
stati multati in quella determinata situazione. Ma non certo
di avere accesso indiscriminato ai verbali dei colleghi
trasgressori.
Così il TAR Molise, Sez. I,
sentenza
15.03.2017 n. 81.
Un conducente ha lasciato inavvertitamente il proprio
veicolo in sosta vietata durante la sagra di Ferragosto e
per questo è stato multato dai vigili. Ha poi chiesto al
comune informazioni sul numero dei verbali elevati nella
medesima circostanza. Nonostante la risposta del comando di
polizia locale l'interessato ha proposto doglianze al
collegio che ha rigettato le censure. In particolare circa
la possibilità di ottenere copia integrale di tutti i
verbali elevati dai vigili.
È infatti discutibile che un comune debba rilasciare
informazioni di questo tipo, specifica il collegio. È
sufficiente comunicare quante infrazioni sono state
accertate in quella determinata situazione dal comando di
polizia locale. Non rilasciare copia degli altri atti
sanzionatori
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.03.2017). |
APPALTI: Ditta
in doppia veste, no all'esclusione
automatica.
Nelle gare sotto soglia regolate dal nuovo
codice dei contratti, è illegittima
l'esclusione automatica della ditta in lizza
sia come concorrente sia come
subappaltatrice.
Lo afferma il TAR Piemonte, Sez. II, con la
sentenza
08.03.2017 n. 328.
La stazione appaltante aveva estromesso la
società in quanto la compresenza nello
stesso soggetto del ruolo di partecipante e
di subappaltatore alterava la competizione.
Ciò aveva indotto la pubblica
amministrazione a liberarsi della
concorrente in base all'art. 80, comma 5,
lett. m), del decreto legislativo 50/2016
che fa riferimento a situazioni di controllo
o comunque ad offerte imputabili ad un unico
centro decisionale.
Il collegio ha dato ragione al privato
rilevando che la legge di gara, pur
imponendo l'indicazione dei subappaltatori,
non prevedeva un divieto per lo stesso
soggetto di concorrere in più vesti. Né ciò
è vietato dalla legge, in analogia a quanto
invece disposto, ad esempio, per gli
ausiliari o i componenti il raggruppamento
temporaneo di imprese.
In definitiva la presenza del medesimo
soggetto nell'ambito di più offerte può
costituire mero sintomo di collegamento tra
le offerte e di dubbia trasparenza delle
stesse ma, quale mero indizio, va verificato
nel contraddittorio delle parti
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.05.2017). |
APPALTI SERVIZI:
Ok alla consegna anticipata del
servizio.
Legittima la consegna anticipata del
servizio anche se il contratto d'appalto non
è ancora efficace. Possibile? Sì, se il
servizio risulta essenziale e il Comune ad
esempio è alle prese con la necessità
liberare dalla neve le strade cittadine: in
casi di urgenza è l'articolo 32, comma 13,
del nuovo codice dei contratti pubblici che
consente alla stazione appaltante di
stringere i tempi.
È quanto emerge dalla
sentenza
07.03.2017 n. 209, pubblicata dalla
II Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna.
Interesse pubblico
Non conta che il provvedimento
dell'amministrazione sia adottato in
pendenza del periodo di stand still, la
classica clausola dei contratti che
impedisce alle parti di avere rapporti con
terzi mentre è in corso l'accordo fra loro.
Fa un buco nell'acqua il consorzio agrario
che contesta l'esecuzione anticipata decisa
dal Comune per lo sgombero della neve e il
trattamento antigelo sul territorio.
È vero: l'esecuzione può avere inizio
soltanto quando il contratto risulta
efficace, ma la stazione appaltante può
ottenere la consegna del servizio prima del
tempo per evitare pericoli a persone o cose.
Altrettanto vale quando si tratta di
tutelare l'igiene e la salute pubblica ma
anche per il patrimonio storico, artistico e
culturale dell'area. Insomma: la stazione
appaltante ha diritto alla prestazione
immediata quando un ulteriore ritardo può
danneggiare l'interesse pubblico sotteso
alla gara, compresa l'ipotesi in cui
l'amministrazione rischia di perdere
finanziamenti europei.
E in ogni caso l'aggiudicazione inefficace
della gara è tutt'altro che inesistente:
risulta solo sospesa (articolo ItaliaOggi Sette
del 18.04.2017).
---------------
MASSIMA
6. Con i motivi aggiunti parte
ricorrente contesta la consegna anticipata
del servizio in via d’urgenza, lamentando
innanzitutto, con il primo di detti motivi,
che con tale consegna anticipata sarebbe
stata pretermessa la fase delle verifiche,
al cui esito è condizionata l’efficacia
dell’aggiudicazione (come si è già detto nel
paragrafo 2).
Il Collegio ancora una volta tralascia le
argomentazioni che attengono a presunte
irregolarità inficianti le gare svoltesi nei
precedenti anni, che non possono trovare
ingresso nel presente giudizio, non essendo
state tempestivamente denunciate con ricorso
innanzi al TAR.
Ciò premesso, si osserva che
la consegna anticipata dell’appalto
è prevista dal d.lgs. n. 50/2016. L’art. 32
prevede, al comma 13, che l'esecuzione del
contratto può avere inizio solo dopo che lo
stesso è divenuto efficace, salvo che, in
casi di urgenza, la stazione appaltante ne
chieda l'esecuzione anticipata, nei modi e
alle condizioni previste al comma 8.
Il comma 8 prevede che «Nel caso di
servizi e forniture, se si è dato avvio
all'esecuzione del contratto in via
d'urgenza, l'aggiudicatario ha diritto al
rimborso delle spese sostenute per le
prestazioni espletate su ordine del
direttore dell'esecuzione. L'esecuzione
d'urgenza di cui al presente comma è ammessa
esclusivamente nelle ipotesi di eventi
oggettivamente imprevedibili, per ovviare a
situazioni di pericolo per persone, animali
o cose, ovvero per l'igiene e la salute
pubblica, ovvero per il patrimonio, storico,
artistico, culturale ovvero nei casi in cui
la mancata esecuzione immediata della
prestazione dedotta nella gara
determinerebbe un grave danno all'interesse
pubblico che è destinata a soddisfare, ivi
compresa la perdita di finanziamenti
comunitari».
Il successivo comma 9 dispone che il
contratto non può comunque essere stipulato
prima di trentacinque giorni dall'invio
dell'ultima delle comunicazioni del
provvedimento di aggiudicazione; il comma 10
prevede alcune eccezioni alla predetta
regola, tra le quali quella di cui alla
lettera b): «nel caso di un appalto
basato su un accordo quadro di cui
all'articolo 54, nel caso di appalti
specifici basati su un sistema dinamico di
acquisizione di cui all'articolo 55, nel
caso di acquisto effettuato attraverso il
mercato elettronico e nel caso di
affidamenti effettuati ai sensi
dell'articolo 36, comma 2, lettere a) e b).».
Orbene, a fronte della natura essenziale del
servizio di cui trattasi era necessario
assicurarne lo svolgimento durante la
stagione invernale, sicché non si ravvisano
profili di illegittimità, essendo certamente
rispondente all’interesse pubblico lo
svolgimento del servizio medesimo ed essendo
altresì possibile e anche probabile, in caso
di mancata esecuzione, il verificarsi di
pregiudizi anche rilevanti all’incolumità
delle persone e all’integrità dei beni.
Si precisa che
nel caso in esame è legittima anche
l’esecuzione anticipata durante il periodo
di stand still, secondo le
disposizioni su riportate, trattandosi di
affidamento ai sensi dell’art. 36/2 lett. b. |
EDILIZIA PRIVATA: Non
sono sanabili opere edilizi abusive realizzate su un’area
ricompresa in un piano particolareggiato destinato a
interventi di e.r.p. a favore della popolazione nomade, a
cui il ricorrente stesso appartiene.
È pacifico che le opere di cui si discute sono state
edificate senza titolo, dunque abusivamente.
È altrettanto pacifico che si tratta di opere che
necessitano complessivamente del permesso di costruire.
Il ricorrente sostiene che l’abuso sarebbe regolarizzabile
in via di sanatoria perché insistente su un’area ricompresa
in un piano particolareggiato destinato a interventi di
e.r.p. a favore della popolazione nomade, a cui il
ricorrente stesso appartiene. Si osserva in proposito:
- da un lato, l’asserita sanabilità dell’abuso non incide
sulla legittimità dell’ordine di demolizione, né sulla sua
efficacia, almeno fino al momento in cui l’istanza di
sanatoria non venga presentata (e qui non risulta che sia
stata presentata);
- dall’altro, come sostenuto dal Comune resistente, non può
dirsi conforme alla disciplina urbanistica un intervento
privato in un’area nella quale sono previsti soltanto
interventi pubblici di e.r.p.; e la circostanza che l’autore
dell’abuso appartenga al gruppo sociale che dovrebbe fruire
degli interventi pubblici in questione non fa venir meno il
carattere abusivo di quanto individualmente realizzato senza
titolo.
Né tale carattere può venire meno in ragione delle
particolari condizioni economiche e di salute del ricorrente
e dei suoi familiari o della appartenenza all’etnia sinti:
questa Sezione ha già avuto ripetutamente occasione di
pronunciarsi a quest’ultimo riguardo in cause analoghe,
evidenziando che “la normativa urbanistica statale e
regionale si applica indifferentemente a tutti i soggetti
che pongono in essere trasformazioni permanenti del
territorio e che a nessun proprietario è precluso, in
ragione della sua origine etnica, di esercitare lo ius
aedificandi nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e dei
piani regolatori” .
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 440 del 23.11.2016
con la quale il Dirigente del Comune di Nichelino (TO) ha
ordinato la demolizione delle opere edilizie realizzate
all'interno del lotto di terreno sito in Nichelino (TO), Via
..., censito al Catasto Terreni al foglio 22,
mappale 173, ed il ripristino dello stato dei luoghi, nonché
di ogni altro atto ad essa presupposto, consequenziale o
connesso.
...
1) Con il provvedimento in epigrafe il Dirigente dell’Area
tecnica del Comune di Nichelino ha ordinato la demolizione
di opere edilizie abusive realizzate dal sig. Ott.Ce. -di etnia sinti- su un terreno di sua proprietà, in assenza
di permesso di costruire e in contrasto con la disciplina
urbanistica vigente nel predetto Comune, consistenti in un
“fabbricato di civile abitazione ad un piano fuori terra
costituito da muratura perimetrale in blocchi di laterizi
intonacati fondati su un basamento in calcestruzzo…”, nonché
in un “cancello carraio e pedonale per l’accesso al lotto…”
e in “manufatti vari posti in adiacenza al fabbricato
principale…”.
2) Di tale provvedimento l’interessato ha chiesto
l’annullamento deducendo:
- che le opere in questione, per quanto abusive, sono
comunque conformi alla disciplina urbanistica, in quanto
ricadono in area disciplinata da un piano particolareggiato
finalizzato a interventi di edilizia residenziale pubblica
in favore della popolazione nomade;
- che dunque il ricorrente
potrebbe chiedere al Comune un permesso in sanatoria;
- che
nell’immobile vivono il ricorrente e il suo nucleo
familiare, i cui componenti presentano anche numerosi
problemi di salute;
- che il provvedimento impugnato, infine,
viola l’art. 8 della CEDU e il principio di proporzionalità,
in quanto non tiene conto delle condizioni personali del
ricorrente e della sua famiglia, aventi risorse economiche
limitate e comprovati problemi di salute.
...
5) Il ricorso è infondato.
È pacifico che le opere di cui si discute sono state
edificate senza titolo, dunque abusivamente.
È altrettanto pacifico che si tratta di opere che
necessitano complessivamente del permesso di costruire.
Il ricorrente sostiene che l’abuso sarebbe regolarizzabile
in via di sanatoria perché insistente su un’area ricompresa
in un piano particolareggiato destinato a interventi di
e.r.p. a favore della popolazione nomade, a cui il
ricorrente stesso appartiene. Si osserva in proposito:
- da un lato, l’asserita sanabilità dell’abuso non incide
sulla legittimità dell’ordine di demolizione, né sulla sua
efficacia, almeno fino al momento in cui l’istanza di
sanatoria non venga presentata (e qui non risulta che sia
stata presentata);
- dall’altro, come sostenuto dal Comune resistente, non può
dirsi conforme alla disciplina urbanistica un intervento
privato in un’area nella quale sono previsti soltanto
interventi pubblici di e.r.p.; e la circostanza che l’autore
dell’abuso appartenga al gruppo sociale che dovrebbe fruire
degli interventi pubblici in questione non fa venir meno il
carattere abusivo di quanto individualmente realizzato senza
titolo.
Né tale carattere può venire meno in ragione delle
particolari condizioni economiche e di salute del ricorrente
e dei suoi familiari o della appartenenza all’etnia sinti:
questa Sezione ha già avuto ripetutamente occasione di
pronunciarsi a quest’ultimo riguardo in cause analoghe,
evidenziando che “la normativa urbanistica statale e
regionale si applica indifferentemente a tutti i soggetti
che pongono in essere trasformazioni permanenti del
territorio e che a nessun proprietario è precluso, in
ragione della sua origine etnica, di esercitare lo ius
aedificandi nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e dei
piani regolatori” (cfr. TAR Piemonte, sez. II, n. 1223 del
05.10.2016, che richiama le precedenti n. 358/2016 e n.
551/2015).
6) In relazione a quanto sopra il ricorso deve essere
respinto
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 03.03.2017 n. 307 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione
soppalco: quando occorre il permesso di costruire.
In base ad un rilievo logico, prima che giuridico, la
disciplina edilizia del soppalco, ovvero dello spazio
aggiuntivo che si ricava all’interno di un locale, di solito
come nella specie, un’abitazione, interponendovi un solaio,
non è definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per
caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto.
In linea di principio, sarà necessario il permesso di
costruire quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e
comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile
preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1, D.P.R. 06.06.2001,
n. 380, con incremento delle superfici dell'immobile e in
prospettiva ulteriore carico urbanistico.
Si rientrerà invece
nell’ambito degli interventi edilizi minori, per i quali
comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il
soppalco sia tale da non incrementare la superficie
dell’immobile, e ciò sicuramente avviene quando esso non sia
suscettibile di utilizzo come stanza di soggiorno.
---------------
...
per la riforma
della sentenza del TAR Lazio, sede di Roma, sezione I-quater
30.11.2011 n. 9401, resa fra le parti, con la quale è
stato respinto il ricorso per annullamento della
determinazione dirigenziale 29.09.2006 n.1803 di Roma
Capitale, di demolizione in quanto abusive di opere
realizzate senza permesso di costruire all’interno di
un’unità immobiliare sita a Roma, in via ... n. 17;
...
I ricorrenti appellanti hanno impugnato in primo grado il
provvedimento indicato in epigrafe, con il quale hanno
ricevuto ingiunzione a demolire, in quanto realizzate senza
permesso di costruire, una serie di opere realizzate
all’interno di un immobile di proprietà -sito a Roma, via
... 17, e distinto al catasto al f. 622, part. 300
sub. 501- costituite da una struttura di putrelle in ferro
orizzontali e verticali, disposte in modo da formare un
soppalco a forma di “L” della superficie di circa 24,80 mq
all’interno di un locale più ampio.
L’area soppalcata al
piano superiore consiste di un solaio in muratura con due
finestre, posto ad altezza variabile da un soffitto
irregolare, da metri 2,30 a metri 1.55 circa; la struttura
del soppalco poggia invece per circa 20 mq su una pedana in
muratura di circa 0,40 metri di altezza, ha un distacco di
metri 1,88 e un’altezza interna praticabile di circa 1,45
metri; per la parte restante di circa 4,80 mq poggia sul
piano di calpestio ed ha un distacco di 2,10 metri.
L’area
sottostante il soppalco è poi priva di finestre, con nuove
tramezzature ed attacchi per impianti idrici ed elettrici
(v. doc. 1 in primo grado ricorrenti appellanti, ordinanza
impugnata).
Con la sentenza indicata in epigrafe, il TAR ha respinto il
ricorso, ritenendo in sintesi estrema che l’intervento fosse
effettivamente soggetto a permesso di costruire, mai
ottenuto né richiesto.
Contro tale sentenza, i ricorrenti in primo grado propongono
appello, affidato a due motivi:
- con il primo di essi, deducono propriamente eccesso di
potere per carenza di presupposti e mancanza di motivazione.
Premettono in fatto che, a loro dire, da un lato per l’opera
in questione sarebbe stato pendente un procedimento di
condono edilizio, su istanza dei precedenti proprietari,
certi Salvi; dall’altro, che per una porzione dello stesso
immobile sarebbe stata emessa un’analoga ordinanza,
annullata dal TAR del Lazio con sentenza 30.01.2007
n. 636.
Ciò premesso, sostengono che l’intervento, in quanto
soppalco non praticabile, non sarebbe soggetto a permesso di
costruire, contrariamente a quanto ritenuto dal Giudice di
primo grado. Ciò sarebbe stato in qualche modo riconosciuto
dall’Autorità giudiziaria penale, che ne avrebbe disposto il
dissequestro;
- con il secondo motivo, deducono violazione degli artt. 33
e 37 T.U. 06.06.2001 n.380, perché il Giudice di primo
grado non avrebbe valutato la presentazione da parte loro di
una denuncia di inizio attività – DIA a sanatoria, che in
ogni caso avrebbe dovuto far venir meno l’abuso.
...
1. Il primo motivo di appello è fondato ed assorbente, nei
termini che seguono.
2. In base ad un rilievo logico, prima che giuridico, la
disciplina edilizia del soppalco, ovvero dello spazio
aggiuntivo che si ricava all’interno di un locale, di solito
come nella specie, un’abitazione, interponendovi un solaio,
non è definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per
caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto.
3. In linea di principio, sarà necessario il permesso di
costruire quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e
comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile
preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, con incremento delle superfici dell'immobile e
in prospettiva ulteriore carico urbanistico: così per tutte
C.d.S. 03.09.2014 n. 4468.
Si rientrerà invece
nell’ambito degli interventi edilizi minori, per i quali
comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il
soppalco sia tale da non incrementare la superficie
dell’immobile, e ciò sicuramente avviene quando esso non sia
suscettibile di utilizzo come stanza di soggiorno.
4. Quest’ultima è l’ipotesi che si verifica nel caso di
specie, in cui, come detto in narrativa, lo spazio
realizzato con il soppalco è un vano chiuso, senza finestre
o luci, di altezza interna modesta, tale da renderlo
assolutamente non fruibile alle persone: si tratta, in buona
sostanza, di un ripostiglio.
5. Quanto sopra è sufficiente per affermare l’illegittimità
dell’ordinanza di demolizione impugnata, che va annullata,
in riforma della sentenza di primo grado, perché fondata, in
sintesi, su un presupposto non corretto.
6. Va invece assorbito il secondo motivo, che si fonda sul
rapporto fra l’ordinanza impugnata ed un fatto ulteriore, la
presentazione in un momento successivo della DIA. E’
evidente infatti che, annullata l’ordinanza stessa, la
possibilità che rispetto alla demolizione da essa ordinata
si sia prodotta una sanatoria è priva di rilievo.
Spetterà
invece all’amministrazione, nel prosieguo della propria
attività, valutare se l’opera compiuta integri un diverso e
minore tipo di abuso, e in caso affermativo se esso sia
stato sanato dalla DIA in questione. Ciò però rientra nel
futuro esercizio di poteri amministrativi, sui quali il
Giudice non può pronunciare
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 02.03.2017 n. 985 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
revoca di una aggiudicazione non rientra tra le ipotesi di
esclusione dell’art. 80, comma V, dlgs 50/2016, poiché non costituisce
automaticamente un grave illecito professionale, tale da
rendere dubbia la affidabilità, né integra l’ipotesi di
significative carenze nell’esecuzione di un precedente
appalto.
---------------
Il verbale della commissione di gara costituisce un atto
pubblico che è assistito da fede privilegiata, facendo prova
sino a querela di falso di quanto in esso attestato; una
volta che il verbale venga "chiuso", cioè confermato e
sottoscritto, esso diviene pertanto intangibile anche per
gli stessi componenti della Commissione, nel senso che il
potere che con la verbalizzazione è stato esercitato è
venuto meno, cioè si è consumato.
Può peraltro ammettersi che, nel caso in cui il verbale sia
inficiato da errori materiali, sia consentito operare le
opportune rettifiche, ma deve trattarsi di vero e proprio
errore materiale, cioè di una inesattezza percepibile ictu
oculi dal contesto dell'atto e tale da non determinare
alcuna incertezza in ordine alla individuazione di quanto
effettivamente rappresentato e avvenuto.
---------------
1) Il presente ricorso è proposto avverso gli atti della
gara per l’affidamento del servizio di ristorazione
scolastica della scuola materna ed elementare per il
triennio 2016/2019, del Comune di Campiglione Fenile.
Il Collegio, anche dopo l’esame più approfondito, rispetto a
quello della fase cautelare, non ravvisa elementi per
discostarsi dalla decisione interinale, per le ragioni di
seguito rappresentate.
2) Il primo motivo verte sulla violazione dell’art. 80, comma
5, lett. c), d.lgs. 50/2016, per la mancata dichiarazione
nella domanda di ammissione al punto h), da parte della G.
di una precedente revoca dell’aggiudicazione del servizio
presso il Comune di Sciolze, per l’omissione nella
dichiarazione di reati riferibili al legale rappresentante
rilevanti sotto il profilo dell’affidabilità morale e
professionale.
La censura è infondata in fatto, in quanto nella domanda di
ammissione l’Amministratore unico della G. ha dichiarato
che l’affidamento per il servizio di refezione scolastica
era stato revocato dalla Centrale Unica di Committenza -
capofila Comune di Chivasso, per asserite false
dichiarazioni rese dalla Sig. Ka.Pi. amministratore
unico della società sino al 01.07.2016 e che il provvedimento
era però stato impugnato avanti il Tar Lazio.
Sempre secondo parte ricorrente la revoca avrebbe dovuto
comportare l’esclusione dalla gara, in quanto il fatto
integra l’ipotesi di grave illecito professionale, tale da
rendere dubbia la integrità e affidabilità di cui all’art. 80,
comma V, d.lgs. 50/2016.
Anche questo rilievo non può essere condiviso, poiché la
revoca di una aggiudicazione non rientra tra le ipotesi di
esclusione dell’art. 80, comma V, poiché non costituisce
automaticamente un grave illecito professionale, tale da
rendere dubbia la affidabilità, né integra l’ipotesi di
significative carenze nell’esecuzione di un precedente
appalto.
Nel caso di specie la revoca non ha riguardato l’esecuzione
di un contratto, ma l’omissione di dichiarazioni rese dal
precedente amministratore, mentre in questa sede la G. non
solo ha dichiarato l’intervenuta revoca, ma anche le ragioni
della stessa, indicando altresì il reato contestato all’ex
amministratore, nonché gli atti societari successivi con cui
la società si è dissociata dalle condotte contestate.
...
E’ fondata
anche la censura nella parte in cui osserva che la
formulazione dell’offerta non potesse indurre a ritenere che
vi fosse una “donazione” delle attrezzature a fine
contratto, poiché nell’offerta la G. si limita a dichiarare
la “fornitura a proprie spese” di tutta una serie di
strumenti (dai frigoriferi ai piccoli elettrodomestici), che
indica la volontà di sostituzione gratuita degli esistenti,
ma senza alcun riferimento alla fase conclusiva del
contratto e alla volontà di trasferire in proprietà i beni
alla stazione appaltante.
Il chiarimento reso in sede di apertura delle offerte, nella
seduta del 18.08.2016, si è sostanziato in una dichiarazione
integrativa dell’offerta originale, attraverso cui è stata
introdotta una nuova proposta, in palese violazione al
principio della immodificabilità dell’offerta.
Né può valere la dichiarazione postuma della commissione: in
base ai principi generali in materia e secondo pacifica
giurisprudenza, il verbale della commissione costituisce un
atto pubblico che è assistito da fede privilegiata, facendo
prova sino a querela di falso di quanto in esso attestato;
una volta che il verbale venga "chiuso", cioè confermato e
sottoscritto, esso diviene pertanto intangibile anche per
gli stessi componenti della Commissione, nel senso che il
potere che con la verbalizzazione è stato esercitato è
venuto meno, cioè si è consumato (TAR Campania Napoli,
sez. II, 21.05.2009, n. 2831; TAR Toscana Firenze,
sez. I, 21.03.2006 , n. 977; TAR Firenze, sez. II, 22.06.2010, n. 2031).
Può peraltro ammettersi che, nel caso in cui il verbale sia
inficiato da errori materiali, sia consentito operare le
opportune rettifiche, ma deve trattarsi di vero e proprio
errore materiale, cioè di una inesattezza percepibile ictu
oculi dal contesto dell'atto e tale da non determinare
alcuna incertezza in ordine alla individuazione di quanto
effettivamente rappresentato e avvenuto (TAR Lazio
Latina, sez. I, 10.01.2008, n. 28)
Tale ipotesi non si è però verificata nel caso in esame,
atteso che la commissione ha integrato con una dichiarazione
successiva il proprio giudizio, modificando quanto attestato
nel precedente verbale, "letto, confermato e sottoscritto"
dai commissari.
In ogni caso, anche a voler considerare valida la
dichiarazione, la commissione ha confermato di aver inteso
la formula “fornitura a proprie spese” come espressione di
volontà di trasferire la proprietà delle attrezzature al
termine dell’appalto, confermando che ha assegnato un
punteggio per un criterio non previsto dalla lex specialis e
per un impegno non espressamente e inequivocabilmente
assunto dall’offerente.
Ne consegue il punteggio massimo di 10 punti per la voce
migliorie del centro di cottura, non poteva essere
assegnato, poiché alla voce “fornitura a proprie spese” come
intesa dalla commissione, cioè trasferimento della proprietà
delle attrezzature al termine del contratto, non poteva
essere assegnato punteggio
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 28.02.2017 n. 289 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione impartito dal giudice con la
sentenza di condanna è suscettibile di revoca quando risulti
assolutamente incompatibile con atti amministrativi della
competente autorità, che abbiano conferito all'immobile una
diversa destinazione o ne abbiano sanato l'abusività (fermo
restando tra l'altro il potere-dovere del giudice
dell'esecuzione di verificare la legittimità dell'atto concessorio sotto il duplice profilo della sussistenza dei
presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e
di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio
del potere di rilascio).
Non sussiste infatti alcun diritto "assoluto" alla
inviolabilità del domicilio, desumibile dalle decisioni
della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, tale da
precludere l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un
immobile abusivo, finalizzato a ristabilire l'ordine
giuridico violato (dalla giurisprudenza CEDU si ricava, al
contrario, l'opposto principio dell'interesse
dell'ordinamento all'abbattimento -in luogo della confisca-
delle opere incompatibili con le disposizioni urbanistiche).
---------------
La sanzione dell'ordine di demolizione, prevista
dall'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sfugge alla
regola del giudicato penale ed è sempre riesaminabile in
sede esecutiva al fine di una eventuale revoca, che è
consentita solo in presenza di determinazioni della P.A. o
del giudice amministrativo incompatibili con l'abbattimento
del manufatto, ovvero quando sia ragionevolmente
prevedibile, in base ad elementi concreti e specifici, che
tali provvedimenti saranno adottati in breve tempo, non
potendo la tutela del territorio essere rinviata
indefinitamente.
Sì che del tutto correttamente il Procuratore generale ha
osservato -irrilevante essendo il momento di presentazione
dell'istanza di condono in rapporto alla condanna
giudiziale- che per neutralizzare l'ordine di demolizione
non è ovviamente sufficiente la, mera, possibilità che in
tempi lontani, e comunque non prevedibili come in specie,
siano emanati atti favorevoli alla parte ricorrente.
---------------
4.1. In ragione della loro stretta connessione, i motivi di
impugnazione possono essere esaminati congiuntamente.
In proposito, è invero principio del tutto consolidato che
l'ordine di demolizione impartito dal giudice con la
sentenza di condanna è suscettibile di revoca quando risulti
assolutamente incompatibile con atti amministrativi della
competente autorità, che abbiano conferito all'immobile una
diversa destinazione o ne abbiano sanato l'abusività (fermo
restando tra l'altro il potere-dovere del giudice
dell'esecuzione di verificare la legittimità dell'atto concessorio sotto il duplice profilo della sussistenza dei
presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e
di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio
del potere di rilascio) (Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci e altro, Rv. 260972).
Non sussiste infatti alcun diritto "assoluto" alla
inviolabilità del domicilio, desumibile dalle decisioni
della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, tale da
precludere l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un
immobile abusivo, finalizzato a ristabilire l'ordine
giuridico violato (dalla giurisprudenza CEDU si ricava, al
contrario, l'opposto principio dell'interesse
dell'ordinamento all'abbattimento -in luogo della confisca-
delle opere incompatibili con le disposizioni urbanistiche)
(Sez. 3, n. 18949 del 10/03/2016, Contadini e altro, Rv.
267024).
4.2. Ciò posto, dallo stesso contenuto del ricorso emerge
che la procedura di sanatoria pende da circa venti anni,
senza alcun apprezzabile risultato.
Né appare seriamente sostenibile, dati siffatti precedenti
ed anche al di là delle comunque non impegnative
dichiarazioni del tecnico comunale (al riguardo, nel
provvedimento impugnato si dà invece espressamente atto che
proprio dalle parole del funzionario pubblico poteva
addirittura desumersi che alcuna rapida definizione delle
pratiche edilizie era prevista), che essa possa concludersi
in tempi ragionevolmente pronosticabili.
Infatti la sanzione dell'ordine di demolizione, prevista
dall'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sfugge alla
regola del giudicato penale ed è sempre riesaminabile in
sede esecutiva al fine di una eventuale revoca, che è
consentita solo in presenza di determinazioni della P.A. o
del giudice amministrativo incompatibili con l'abbattimento
del manufatto, ovvero quando sia ragionevolmente
prevedibile, in base ad elementi concreti e specifici, che
tali provvedimenti saranno adottati in breve tempo, non
potendo la tutela del territorio essere rinviata
indefinitamente (Sez. 3, n. 25212 del 18/01/2012, Maffia, Rv.
253050).
Sì che del tutto correttamente il Procuratore generale ha
osservato -irrilevante essendo il momento di presentazione
dell'istanza di condono in rapporto alla condanna
giudiziale- che per neutralizzare l'ordine di demolizione
non è ovviamente sufficiente la, mera, possibilità che in
tempi lontani, e comunque non prevedibili come in specie,
siano emanati atti favorevoli alla parte ricorrente.
4.3. In ragione di ciò, non vi è alcuna possibilità,
pertanto, di confrontare l'ordine di demolizione con
provvedimenti di segno diverso, tali da metterne in dubbio
la perdurante piena efficacia.
4.4. Al riguardo, e con particolare attenzione al secondo
motivo di ricorso, è poi appena il caso di aggiungere che
-ferme le svolte considerazioni- non rileva il fatto
dell'inutile pendenza ventennale della procedura
amministrativa di sanatoria (tra l'altro, finora, ad
evidente esclusivo vantaggio del privato che ha goduto del
bene), atteso che, a fronte delle innegabili inefficienze di
pubbliche autorità, si pone in ogni caso l'obbligo di porre
in esecuzione un ordine di demolizione, nascente da una
sentenza irrevocabile di condanna.
5. I motivi di censura appaiono quindi manifestamente
infondati nella loro integralità, e ne va dichiarata
l'inammissibilità
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.02.2017 n. 8887). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di
demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione
amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto
alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le
sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28
della legge 24.11.1981, n. 689, che riguarda
unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva.
La demolizione del manufatto abusivo, anche se
disposta dal giudice
penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, qualora non sia stata
altrimenti eseguita,
ha natura di sanzione amministrativa, che assolve ad
un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un
obbligo di fare, imposto per
ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive
ed ha carattere reale,
producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il
bene, indipendentemente
dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso.
Per tali sue
caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena»
nel senso individuato
dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla
prescrizione stabilita
dall'art. 173 cod. pen..
Una
lettura sistematica
della disposizione, dunque, impone di ribadire la natura
amministrativa, e la
dimensione accessoria, ancillare, rispetto al procedimento
penale, della
demolizione, pur quando ordinata dal giudice penale; tant'è
che, pur integrando
un potere autonomo e non alternativo a quello dell'autorità
amministrativa, nel
senso che la demolizione deve essere ordinata dal giudice
penale anche qualora
sia stata già disposta dall'autorità amministrativa,
l'ordine 'giudiziale' di
demolizione coincide, nell'oggetto (l'opera abusiva) e nel
contenuto
(l'eliminazione dell'abuso), con l'ordine (o l'ingiunzione)
'amministrativo', ed è
eseguibile soltanto "se ancora non sia stata altrimenti
eseguita".
Pertanto, se la 'demolizione d'ufficio' e l'ingiunzione alla
demolizione sono
disposte dall'autorità amministrativa, senza che venga
revocata in dubbio la
natura amministrativa, e non penale, delle misure, e senza
che ricorra la
pertinenzialità ad un fatto-reato, in quanto, come si è
visto, la demolizione può
essere disposta immediatamente, senza neppure
l'individuazione dei
responsabili, non può affermarsi che la 'demolizione
giudiziale' -identica
nell'oggetto e nel contenuto- muti natura giuridica solo in
ragione dell'organo
che la dispone.
Anche perché è pacifico che l'ordine
'giudiziale' di demolizione è suscettibile di revoca da
parte del giudice penale allorquando divenga
incompatibile con provvedimenti amministrativi di diverso
tenore, in tal senso non
mutuando il
carattere tipico delle sanzioni penali, consistente nella
irretrattabilità, ed è
impermeabile a tutte le eventuali vicende estintive del
reato e/o della pena;
resta
eseguibile, qualora sia
stato impartito con la sentenza di applicazione della pena
su richiesta, anche nel
caso di estinzione del reato conseguente al decorso del
termine di cui all'art.
445, comma 2, cod. proc. pen.; non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta
all'irrevocabilità
della sentenza.
---------------
L'acquisizione gratuita dell'opera abusiva al patrimonio
disponibile del
Comune non è incompatibile con l'ordine di demolizione
emesso dal giudice con
la sentenza di condanna e con la sua successiva esecuzione
da parte del pubblico
ministero, a spese del condannato, sussistendo
incompatibilità solo nel caso in
cui l'ente locale stabilisca, con propria delibera,
l'esistenza di interessi pubblici al
mantenimento delle opere abusive, prevalenti rispetto a
quello del ripristino
dell'assetto urbanistico violato.
Oltre a ciò, il giudice,
nella sentenza di condanna, può subordinare il beneficio
della sospensione della
pena alla demolizione dell'opera abusiva, in quanto tale
ordine ha la funzione di
eliminare le conseguenze dannose del reato, né a tale
subordinazione è ostativa
l'avvenuta acquisizione dell'immobile al patrimonio del
comune, poiché anche
questa vicenda è finalizzata alla demolizione del manufatto
abusivamente
costruito.
---------------
4. I ricorsi sono inammissibili.
4.1. In relazione al primo profilo di censura, ed in ragione
della particolare struttura semplificata del presente
provvedimento, è del tutto opportuno e sufficiente ricordare
che è già stata anche
ritenuta manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale, per violazione
degli artt. 3 e 117 Cost., dell'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 per mancata previsione di un termine di
prescrizione dell'ordine di demolizione del manufatto
abusivo disposto con la sentenza di condanna, in quanto le
caratteristiche di detta sanzione amministrativa —che
assolve ad una funzione ripristinatoria del bene leso;
configura un obbligo di fare per ragioni di tutela del
territorio; non ha finalità punitive ed ha carattere reale,
producendo effetti sul soggetto che si trova in rapporto con
il bene, anche se non è l'autore dell'abuso—
non consentono
di ritenerla "pena" nel senso individuato dalla
giurisprudenza della Corte EDU, e, pertanto, è da escludere
sia la irragionevolezza della disciplina che la riguarda
rispetto a quella delle sanzioni penali soggette a
prescrizione, sia una violazione del parametro interposto di
cui all'art. 117 Cost. (Sez. 3, n. 41475 del 03/05/2016, Porcu, Rv. 267977).
Sì che va ribadito che l'ordine di
demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione
amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto
alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le
sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28
della legge 24.11.1981, n. 689, che riguarda
unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva (ad
es. Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Fornnisano, Rv.
264736).
4.2. La Corte infine richiama ed integralmente condivide
Sez. 3, n. 9949 del
20/01/2016, Di Scala -allo stato non massimata- che
appunto conclude nel
senso che la demolizione del manufatto abusivo, anche se
disposta dal giudice
penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, qualora non sia stata
altrimenti eseguita,
ha natura di sanzione amministrativa, che assolve ad
un'autonoma funzione
ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un
obbligo di fare, imposto per
ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive
ed ha carattere reale,
producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il
bene, indipendentemente
dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso.
Per tali sue
caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena»
nel senso individuato
dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla
prescrizione stabilita
dall'art. 173 cod. pen..
In ogni caso, ivi è comunque ribadito che l'art. 31 Testo
Unico dell'edilizia
disciplina l'ingiunzione alla demolizione delle opere
abusive, adottata dall'autorità
amministrativa nel caso non venga disposta la demolizione
d'ufficio; in caso di
inottemperanza, è prevista l'irrogazione di una sanzione
amministrativa
pecuniaria, e, comunque, l'acquisizione dell'opera abusiva
al patrimonio del
Comune, finalizzata alla demolizione 'in danno', a spese dei
responsabili
dell'abuso, salvo che con specifica deliberazione consiliare
non venga dichiarata
l'esistenza di prevalenti interessi pubblici, e sempre che
l'opera non contrasti con
rilevanti interessi urbanistici ed ambientali. Il comma 9
del medesimo art. 31
prevede che la demolizione venga ordinata dal giudice con la
sentenza di
condanna, "se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Una
lettura sistematica
della disposizione, dunque, impone di ribadire la natura
amministrativa, e la
dimensione accessoria, ancillare, rispetto al procedimento
penale, della
demolizione, pur quando ordinata dal giudice penale; tant'è
che, pur integrando
un potere autonomo e non alternativo a quello dell'autorità
amministrativa, nel
senso che la demolizione deve essere ordinata dal giudice
penale anche qualora
sia stata già disposta dall'autorità amministrativa,
l'ordine 'giudiziale' di
demolizione coincide, nell'oggetto (l'opera abusiva) e nel
contenuto
(l'eliminazione dell'abuso), con l'ordine (o l'ingiunzione)
'amministrativo', ed è
eseguibile soltanto "se ancora non sia stata altrimenti
eseguita".
Pertanto, se la 'demolizione d'ufficio' e l'ingiunzione alla
demolizione sono
disposte dall'autorità amministrativa, senza che venga
revocata in dubbio la
natura amministrativa, e non penale, delle misure, e senza
che ricorra la
pertinenzialità ad un fatto-reato, in quanto, come si è
visto, la demolizione può
essere disposta immediatamente, senza neppure
l'individuazione dei
responsabili, non può affermarsi che la 'demolizione
giudiziale' -identica
nell'oggetto e nel contenuto- muti natura giuridica solo in
ragione dell'organo
che la dispone. Anche perché è pacifico che l'ordine
'giudiziale' di demolizione è suscettibile di revoca da
parte del giudice penale allorquando divenga
incompatibile con provvedimenti amministrativi di diverso
tenore (Sez. 3, n.
47402 del 21/10/2014, Chisci, Rv. 260972), in tal senso non
mutuando il
carattere tipico delle sanzioni penali, consistente nella
irretrattabilità, ed è
impermeabile a tutte le eventuali vicende estintive del
reato e/o della pena (ad
esso non sono applicabili l'amnistia e l'indulto, cfr. Sez.
3, n. 7228 del
02/12/2010, dep. 2011, D'Avino, Rv. 249309);
resta
eseguibile, qualora sia
stato impartito con la sentenza di applicazione della pena
su richiesta, anche nel
caso di estinzione del reato conseguente al decorso del
termine di cui all'art.
445, comma 2, cod. proc. pen. (cfr. Sez. 3, n. 18533 del
23/03/2011, Abbate,
Rv. 250291); non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta
all'irrevocabilità
della sentenza (cfr. Sez. 3, n. 3861 del 18/01/2011, Baldinucci e altri, Rv.
249317).
Si tratta, dunque, della medesima sanzione amministrativa,
adottabile
parallelamente al procedimento amministrativo, la cui
emissione è demandata
(anche) al giudice penale all'esito dell'affermazione di
responsabilità penale, al
fine di garantire un'esigenza di celerità ed effettività del
procedimento di
esecuzione della demolizione.
4.3. In relazione all'ulteriore, e sostanzialmente connesso,
profilo di
censura, la giurisprudenza del tutto consolidata della Corte
è altresì nel senso
che l'acquisizione gratuita dell'opera abusiva al patrimonio
disponibile del
Comune non è incompatibile con l'ordine di demolizione
emesso dal giudice con
la sentenza di condanna e con la sua successiva esecuzione
da parte del pubblico
ministero, a spese del condannato, sussistendo
incompatibilità solo nel caso in
cui l'ente locale stabilisca, con propria delibera,
l'esistenza di interessi pubblici al
mantenimento delle opere abusive, prevalenti rispetto a
quello del ripristino
dell'assetto urbanistico violato (ex plurimis, Sez. 3, n.
42698 del 07/07/2015,
Marche, Rv. 265495; Sez. 3, n. 4962 del 28/11/2007, dep.
2008, Mancini, Rv.
238803; Sez. 3, n. 49397 del 16/11/2004, Sposato, Rv.
230652; Sez. 3, n. 3489
del 03/11/2000, Mosca, Rv. 217999).
Oltre a ciò, è stato ricordato anche dal Procuratore
generale che il giudice,
nella sentenza di condanna, può subordinare il beneficio
della sospensione della
pena alla demolizione dell'opera abusiva, in quanto tale
ordine ha la funzione di
eliminare le conseguenze dannose del reato, né a tale
subordinazione è ostativa
l'avvenuta acquisizione dell'immobile al patrimonio del
comune, poiché anche
questa vicenda è finalizzata alla demolizione del manufatto
abusivamente
costruito (Sez. 3, n. 32351 del 01/07/2015, Giglia e altro, Rv. 264252; Sez. 3,
n. 3685 del 11/12/2013, dep. 2014, Russo, Rv. 258517)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.02.2017 n. 8882). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di un abbaino è da qualificarsi quale "nuova
costruzione".
Nell'ambito delle opere edilizie, la semplice "ristrutturazione"
si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni
esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del
quale sussistano e rimangano inalterate le componenti
essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture
orizzontali, la copertura, mentre si verte in ipotesi di "nuova
costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in
tema di distanze vigente al momento della medesima, quando
la fabbrica comporti una variazione rispetto alle originarie
dimensioni dell'edificio e, in particolare, comporti aumento
della volumetria.
Nella specie, la Corte di Appello ha constatato che gli
abbaini hanno determinato un aumento di volumetria del
fabbricato di parte convenuta e, conseguentemente, ha
esattamente concluso che essi costituiscono nuova
costruzione.
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. — In accoglimento delle domande proposte da Fr.Ir. nei
confronti di Se.Wa., Se.Lu. e Fr.Br., il Tribunale di
Bolzano condannò i convenuti all'arretramento —fino alla
distanza legale— di due abbaini edificati dai medesimi nel
loro immobile e di un'antenna televisiva ivi installata,
nonché al risarcimento del danno; accertò inoltre il confine
tra i fondi delle parti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
...
2. — Col secondo motivo di ricorso, si deduce la
violazione e la falsa applicazione di norme di diritto,
nonché il vizio di motivazione della sentenza impugnata, per
avere la Corte territoriale qualificato gli abbaini come "nuove
costruzioni" in contrasto con la previsione dell'art. 52
del regolamento di esecuzione alla legge urbanistica
provinciale di Bolzano e per avere erroneamente ritenuto che
gli abbaini determinavano un aumento di volumetria del piano
sottostante al sottotetto.
Le doglianze non possono trovare accoglimento.
Il primo profilo, relativo al regolamento provinciale
risulta nuovo e, perciò, inammissibile, non avendo peraltro
parte ricorrente dedotto —come era suo onere— di aver posto
la questione a fondamento di apposito motivo di appello.
Il secondo profilo è infondato.
Invero, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione
del principio di diritto secondo cui, nell'ambito delle
opere edilizie, la semplice "ristrutturazione" si
verifica ove gli interventi, comportando modificazioni
esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del
quale sussistano e rimangano inalterate le componenti
essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture
orizzontali, la copertura, mentre si verte in ipotesi di "nuova
costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in
tema di distanze vigente al momento della medesima, quando
la fabbrica comporti una variazione rispetto alle originarie
dimensioni dell'edificio e, in particolare, comporti aumento
della volumetria (Cass., Sez. Un., n. 21578 del 2011).
Nella specie, la Corte di Appello ha constatato che gli
abbaini hanno determinato un aumento di volumetria del
fabbricato di parte convenuta (p. 19 sentenza impugnata) e,
conseguentemente, ha esattamente concluso che essi
costituiscono nuova costruzione.
La motivazione del giudizio di fatto circa la sussistenza di
aumento di volumetria è esente da vizi logici e giuridici e
rimane, pertanto, non sindacabile in sede di legittimità
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 17.02.2017 n. 4255). |
CONSIGLIERI COMUNALI: La
critica al politico che fa scattare il reato di
diffamazione. Offesa all'onore di consiglieri comunali. La
scriminante dell'esercizio del diritto di critica politica.
Era stato condannato in primo e secondo grado del reato di
diffamazione aggravata e al risarcimento dei danni un per
avere offeso l'onore di tre consiglieri comunali, facendo
affiggere per le strade principali di un Comune dei
manifesti in cui detti consiglieri erano indicati come
responsabili della sottrazione di 560 mila euro dal bilancio
comunale per motivazioni addotte dai "cinque cavalieri
della tavola ... rotonda" quali "problemi personali
che possono essere compresi, ma non possono essere
soddisfatti dall'amministrazione comunale ...".
La Corte di Cassazione, se da un lato ha annullato la
sentenza agli effetti penali per intervenuta prescrizione
del reato dall'altro ha, invece, confermato gli effetti
civili della condanna in quanto non ha riconosciuto la
sussistenza della scriminante dell'esercizio del diritto di
critica politica.
In particolare, la Corte, ha richiamato la giurisprudenza a
tenore della quale l'esercizio di tale diritto può rendere
non punibili espressioni anche aspre e giudizi di per sé
ingiuriosi, tesi a stigmatizzare comportamenti realmente
tenuti da un personaggio pubblico, ma non può scriminare la
falsa attribuzione di una condotta scorretta, utilizzata
come fondamento per l'esposizione a critica del personaggio
stesso: dunque, la critica politica -che nell'ambito della
polemica fra contrapposti schieramenti può anche tradursi in
valutazioni e commenti tipicamente "di parte", ossia
non obiettivi- deve pur sempre fondarsi sull'attribuzione di
fatti veri, in quanto nessuna interpretazione soggettiva,
che sia fonte di discredito per la persona che ne sia
investita, può ritenersi rapportabile al lecito esercizio
del diritto di critica, quando tragga le sue premesse da una
prospettazione dei fatti non vera.
Alla luce di tali principi, la Suprema Corte ha evidenziato
come nella vicenda in esame la Corte distrettuale ha dato
conto della falsa attribuzione alle persone offese di una
condotta scorretta, ricostruendo il significato offensivo
delle espressioni riportate nei manifesti non già
singolarmente considerate, ma collocate nel «complesso
dell'informazione rappresentato dal testo»: in tale
corretta prospettiva ricostruttiva dell'obbiettivo
significato del fatto comunicativo, il riferimento alla
"sottrazione" della cospicua somma dal bilancio comunale è
posto in correlazione, nei manifesti fatti affiggere
dall'imputato nelle strade principali del Comune, a "problemi
personali" dei consiglieri comunali, a loro volta
indicati come "cavalieri della tavola ... rotonda".
Nei termini indicati, conclude la Corte, "la deduzione
difensiva circa la riferibilità del contenuto dei manifesti
ad un'operazione di storno di bilancio dà corpo, al più, ad
un'interpretazione soggettiva di detto significato, laddove
la sua valenza lesiva della reputazione delle persone offese
fondata su una prospettazione dei fatti non vera è stata
congruamente argomentata valorizzando il collegamento
testuale della sottrazione all'esigenza di far fronte a
"problemi personali" dei consiglieri comunali, rappresentati
come partecipi alla "tavola ... rotonda" costituita,
all'evidenza, da risorse pubbliche" (commento tratto da
www.ilquotidianodellapa.it).
---------------
MASSIMA
In premessa, la Corte rileva che, considerato il periodo
di sospensione del corso della prescrizione e non risultando
il ricorso inammissibile, la fattispecie estintiva del reato
risulta perfezionata in data 02/12/2013.
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza
rinvio agli effetti penali per essere il reato estinto per
prescrizione, mentre il ricorso deve essere esaminato, a
norma dell'art. 578 cod. proc. pen., ai soli effetti civili.
Esso non è fondato.
I due motivi possono essere esaminati congiuntamente,
essendo entrambi volti al riconoscimento della sussistenza
della scriminate dell'esercizio del diritto
di critica politica.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare,
l'esercizio di tale diritto può rendere non punibili
espressioni anche aspre e giudizi di per sé ingiuriosi, tesi
a stigmatizzare comportamenti realmente tenuti da un
personaggio pubblico, ma non può scriminare la falsa
attribuzione di una condotta scorretta, utilizzata come
fondamento per l'esposizione a critica del personaggio
stesso (Sez. 5, n.
14459 del 02/02/2011 - dep. 11/04/2011, Contrisciani, Rv.
249935; Sez. 5, n. 24087 del 13/01/2004 - dep. 26/05/2004,
Boldrini, Rv. 228900): dunque, la critica
politica -che nell'ambito della polemica fra contrapposti
schieramenti può anche tradursi in valutazioni e commenti
tipicamente "di parte", ossia non obiettivi- deve pur
sempre fondarsi sull'attribuzione di fatti veri, in quanto
nessuna interpretazione soggettiva, che sia fonte di
discredito per la persona che ne sia investita, può
ritenersi rapportabile al lecito esercizio del diritto di
critica, quando tragga le sue premesse da una prospettazione
dei fatti non vera
(Sez. 5, n. 7419 del 03/12/2009 - dep. 24/02/2010,
Cacciapuoti, Rv. 246096).
La Corte distrettuale ha dato conto della falsa attribuzione
alle persone offese di una condotta scorretta, ricostruendo
il significato offensivo delle espressioni riportate nei
manifesti non già singolarmente considerate, ma collocate
nel «complesso dell'informazione rappresentato dal testo»:
in tale corretta prospettiva ricostruttiva dell'obbiettivo
significato del fatto comunicativo, il riferimento alla "sottrazione"
della cospicua somma dal bilancio comunale è posto in
correlazione, nei manifesti fatti affiggere dall'imputato
nelle strade principali del Comune, a "problemi personali"
dei consiglieri comunali, a loro volta indicati come "cavalieri
della tavola ... rotonda".
Nei termini indicati, la deduzione difensiva circa la
riferibilità del contenuto dei manifesti ad un'operazione di
storno di bilancio dà corpo, al più, ad un'interpretazione
soggettiva di detto significato, laddove la sua valenza
lesiva della reputazione delle persone offese fondata su una
prospettazione dei fatti non vera è stata congruamente
argomentata valorizzando il collegamento testuale della
sottrazione all'esigenza di far fronte a "problemi
personali" dei consiglieri comunali, rappresentati come
partecipi alla "tavola ... rotonda" costituita,
all'evidenza, da risorse pubbliche.
Prive di pregio sono le ulteriori deduzioni circa il
riferimento della sentenza impugnata ai lettori dei
manifesti, ossia la cittadinanza comunale, riferimento,
questo, congruamente volto a dar conto della valutazione
delle espressioni di cui all'imputazione sulla base di un
criterio di media convenzionale in rapporto alla personalità
dell'offeso e dell'offensore ed al contesto nel quale la
frase offensiva è stata diffusa (cfr. Sez. 5, n. 19070 del
27/03/2015 - dep. 07/05/2015, Foti, Rv. 263711; Sez. 5, n.
11632 del 14/02/2008 - dep. 14/03/2008, Tessarolo, Rv.
239479).
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza
rinvio agli effetti penali per essere il reato è estinto per
prescrizione, mentre, agli effetti civili, il ricorso deve
essere rigettato, con condanna del ricorrente alla rifusione
delle spese di parte civile liquidate come da dispositivo
(Corte di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 10.02.2017 n. 6332). |
APPALTI: Commissione
di gara illegittima se tra i componenti c’è un rapporto
gerarchico.
Riveste una particolare importanza la
sentenza 06.02.2017 n. 108
del TAR Marche in relazione ad alcune precisazioni in tema
di composizione della commissione di gara negli appalti da
aggiudicarsi secondo il criterio dell'offerta economicamente
più vantaggiosa.
In particolare per quanto attiene ad un preciso profilo di
incompatibilità –non di consueta considerazione da parte dei
giudici– determinato dal fatto che un commissario era, a sua
volta, anche superiore gerarchico di altro componente.
Circostanza che, secondo il giudice, incideva sulla libera
determinazione del componente «subordinato».
Le incompatibilità
Il nuovo codice degli appalti ha ampliato, dal punto di
vista soggettivo con il comma 4 dell'articolo 77, le ipotesi
di incompatibilità ritenendo –a differenza del comma 4
dell'articolo 84 del pregresso codice– che anche il
presidente di commissione, se risulta essere stato
interessato dalla redazione degli atti di gara (in qualità
di Rup) e/o dal contratto della cui aggiudicazione si
tratta, non possa far parte della commissione né, appunto,
presiederla. Circostanza questa, in ogni caso, destinata a
venir meno con la prevista modifica –a opera del decreto
correttivo del codice- del comma 3 dell'articolo 77 che
imporrà la nomina esterna del presidente della commissione
direttamente dall'Albo dei commissari.
Raramente, nella giurisprudenza è venuta in considerazione
una diversa –possibile– tipologia di incompatibilità
determinata dal fatto che un commissario, operando nel
servizio di altro componente della commissione responsabile
del servizio, potesse essere considerato come soggetto
potenzialmente «condizionato» dal fatto di essere
subordinato ad altro componente e quindi «influenzabile»
nelle proprie libere scelte per una sorta di timore
reverenziale (metus reverentialis) nei confronti del
superiore.
È questa la decisione del giudice marchigiano che ha
ritenuto persuasiva la censura del ricorrente di
incompatibilità – tra le altre - tra 2, dei tre, commissari
perché tra questi insisteva «un rapporto di dipendenza
gerarchica».
La decisione
Secondo il giudice, «per un principio generale
dell'ordinamento di settore, ma applicabile naturalmente
anche ai concorsi pubblici, ogni commissario deve essere
libero di svolgere in autonomia le proprie valutazioni, il
che sarebbe fortemente ostacolato dal fatto che uno dei
membri possa esercitare, anche inconsciamente, una qualche
“pressione” su uno o più degli altri componenti».
E uno «dei casi in cui tale “pressione” può manifestarsi si
verifica proprio quando fra i commissari vi sono rapporti di
dipendenza gerarchica».
Tra l'altro, il vizio deve ritenersi a valenza invalidante «ex
se, a prescindere quindi dal fatto che in concreto non sia
fornita la prova di uno sviamento di potere».
Si tratta di una decisione non completamente condivisibile
che rischia di incidere anche sulle normali dinamiche di
nomina delle commissioni di gara, spesso –anche per carenza
di organico– composte da soggetti presenti nello stesso
servizio interessato dall'appalto (articolo Quotidiano
Enti Locali & Pa del 23.02.2017).
---------------
MASSIMA
1. La cooperativa ricorrente ha preso parte alla
procedura ad evidenza pubblica indetta dalla Centrale Unica
di Committenza (C.U.C.) istituita presso l’Unione Montana
Alta Valle del Metauro per conto del Comune di Urbania,
avente ad oggetto l’affidamento del servizio di gestione
dell’asilo nido comunale per il periodo 1/9/2016-31/7/2018.
Alla gara hanno preso parte solo “La So.” e “Eu.As.” e
quest’ultima è risultata collocata al primo posto della
graduatoria finale con punti 86/100, mentre la ricorrente ha
conseguito punti 74,07/100. Prima di decretare
l’aggiudicazione, la C.U.C. ha sottoposto l’offerta di “Eu.”
a verifica di congruità.
2. Con il ricorso introduttivo “La So.” (gestore uscente del
servizio) censura il complessivo operato della C.U.C. e del
Comune di Urbania per i seguenti motivi:
- il RUP designato dalla C.U.C. è diverso da quello indicato nella
determina di indizione della gara;
- la commissione è stata nominata dalla C.U.C. e non dalla stazione
appaltante (ossia dal Comune di Urbania);
- la commissione di gara non era composta da membri esperti del
settore;
- fra due dei commissari sussiste un rapporto di dipendenza
gerarchica;
- il presidente della commissione ha svolto anche le funzioni di
RUP, in violazione dell’art. 77, comma 4, D.Lgs. n. 50/2016,
nonché del successivo comma 7;
- i punteggi attribuiti dalla commissione alle due offerte
risultano illogici e immotivati (e ciò anche in conseguenza
dell’assenza di specifica competenza in materia in capo ai
commissari);
- la valutazione della congruità dell’offerta della
controinteressata è stata svolta dal solo RUP e non dalla
commissione nel suo plenum;
- la valutazione di congruità, peraltro, non è stata in realtà
compiuta, essendosi il RUP limitato a verificare i
certificati del casellario giudiziale depositati
dall’aggiudicataria;
- è altresì illegittima l’esecuzione anticipata del servizio
disposta dal Comune, e ciò in quanto il ritardo nella
conclusione della gara è ascrivibile unicamente alla
stazione appaltante ed alla C.U.C.
La ricorrente ha proposto altresì la domanda di subentro (e
in via subordinata di risarcimento per equivalente monetario
del danno da mancata aggiudicazione) e la domanda
risarcitoria per i danni derivanti dalla consegna anticipata
del servizio alla controinteressata.
...
8. Ciò detto, vanno accolte le censure inerenti le modalità
di nomina del RUP e della commissione di gara, le quali,
come si dirà meglio infra, hanno valenza assorbente.
Nel merito, si osserva quanto segue.
8.1.
Il fatto che la presente gara sia stata bandita in
epoca immediatamente successiva all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 50/2016 ha certamente provocato qualche incertezza
circa le disposizioni da applicare al riguardo, e ciò anche
alla luce del parere reso dal Consiglio di Stato sulle Linee
guida predisposte dall’ANAC in materia di nomina del RUP
(vedasi il parere della Commissione Speciale n. 1767/2016).
Ciò peraltro non giustifica l’operato della C.U.C..
8.2. Va infatti considerato che, anche volendo applicare, ai
sensi dell’art. 77, comma 12, D.Lgs. n. 50/2016, le
disposizioni interne alla C.U.C., la nomina del RUP e della
commissione sono illegittime. In effetti, la convenzione
stipulata nel 2015 per l’istituzione e l’implementazione
della C.U.C. operante presso l’Unione Montana Alta Valle del
Metauro prevede che il RUP sia nominato dal Comune
interessato e che la commissione di gara sia formalmente
nominata dalla C.U.C. ma su designazione del Comune
interessato (art. 3, comma 4, e art. 4 della Convenzione).
Anche l’art. 31, comma 1, del D.Lgs. n. 50/2016 prevede che
il RUP sia designato dalla stazione appaltante.
E, del resto, con la determinazione comunale n. 51/2016 il
RUP era stato già nominato.
8.3. L’art. 31, comma 14, del D.Lgs. n. 50/2016 (secondo cui
“Le centrali di committenza e le aggregazioni di stazioni
appaltanti designano un RUP per le attività di propria
competenza con i compiti e le funzioni determinate dalla
specificità e complessità dei processi di acquisizione
gestiti direttamente”) disciplina una fattispecie
peculiare e non applicabile nella specie, visto che
l’appalto per cui è causa non presenta né particolari
difficoltà tecnico-amministrative né un importo
economicamente rilevante (si tratta, infatti, di un servizio
routinario erogato ormai da molti anni e oggetto, alla
scadenza dei vari contratti, di periodico rinnovo all’esito
di gara ad evidenza pubblica).
8.4.
Tenuto conto dei compiti particolarmente delicati che
il D.Lgs. n. 50/2016 attribuisce al RUP, nonché dell’essenza
stessa della figura (si noti, in particolare, l’aggettivo “unico”),
in uno stesso procedimento non possono coesistere due RUP e,
comunque, l’eventuale secondo RUP, ai sensi del citato art.
31, comma 14, è chiamato a svolgere solo le specifiche
attività per cui è stato nominato.
8.5. Quanto alla nomina della commissione, nella specie il
Comune di Urbania non risulta aver designato formalmente
alcuno dei tre componenti, per cui è stata violata la
predetta convenzione istitutiva della C.U.C.
A questo proposito va evidenziato che l’art. 3, comma 6,
della convenzione, a differenza di quanto opinato dalla
difesa delle amministrazioni resistenti, non pone alcuna
eccezione con riguardo alle gare da aggiudicare con il
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa,
essendo anche in quel caso prevista la designazione da parte
del Comune interessato.
8.6. E’ parzialmente fondata anche la censura relativa alla
competenza tecnica dei commissari chiamati a far parte della
commissione di gara.
In effetti, mentre è legittima la
presenza del segretario generale del Comune di Urbania (sia
per le sue indubbie competenze in materia di procedure ad
evidenza pubblica, sia perché lo stesso risulta aver diretto
ormai da qualche anno il Settore Sociale-Educativo dello
stesso Comune resistente), non altrettanto può dirsi per gli
altri due commissari.
Questo sotto due profili: quanto al geom. Di., non è stato
provato che lo stesso possegga specifiche competenze
professionali riguardo al servizio oggetto dell’appalto;
quanto al geom. Co., in aggiunta alle precedenti
considerazioni rileva il fatto che il medesimo è in rapporto
di subordinazione gerarchica con il geom. Di. (tale
circostanza, affermata in ricorso, non è stata infatti
smentita dalle amministrazioni intimate).
Per un principio generale dell’ordinamento di settore, ma
applicabile naturalmente anche ai concorsi pubblici, ogni
commissario deve essere libero di svolgere in autonomia le
proprie valutazioni, il che sarebbe fortemente ostacolato
dal fatto che uno dei membri possa esercitare, anche
inconsciamente, una qualche “pressione” su uno o più
degli altri componenti. Uno dei casi in cui tale “pressione”
può manifestarsi si verifica proprio quando fra i commissari
vi sono rapporti di dipendenza gerarchica. Il vizio ha
valenza invalidante ex se, a prescindere quindi dal
fatto che in concreto non sia fornita la prova di uno
sviamento di potere.
9. In vista della riedizione della gara, il Tribunale
ritiene altresì di osservare che la censura relativa
all’incompatibilità in cui versava il presidente della
commissione ai sensi dell’art. 77, comma 4, D.Lgs. n.
50/2016 va ritenuta infondata alla luce delle Linee guida
adottate dall’ANAC in data 26.10.2016.
Come è noto, e pur a fronte di un dettato normativo più
restrittivo rispetto alla formulazione del previgente art.
84, comma 4, del D.Lgs. n. 163/2006, in sede di parere il
Consiglio di Stato aveva censurato l’originaria formulazione
delle Linee guida (vedasi il punto “Pag. 3, par. 1.2.,
terzo periodo” del parere, in cui la Commissione
Speciale ha evidenziato che “…la disposizione che in tal
modo viene interpretata (e in maniera estremamente
restrittiva) è in larga parte coincidente con l’articolo 84,
comma 4, del previgente ‘Codice’ in relazione al quale la
giurisprudenza di questo Consiglio aveva tenuto un approccio
interpretativo di minor rigore, escludendo forme di
automatica incompatibilità a carico del RUP, quali quelle
che le linee-guida in esame intendono reintrodurre (sul
punto ex multis: Cons. Stato, V, n. 1565/2015). Pertanto,
non sembra condivisibile che le linee-guida costituiscano lo
strumento per revocare in dubbio (e in via amministrativa)
le acquisizioni giurisprudenziali…”).
L’ANAC si è adeguata al rilievo, tanto che nella stesura
definitiva le Linee guida (punto 2.2., ultimo periodo)
stabiliscono che “Il ruolo di RUP è, di regola,
incompatibile con le funzioni di commissario di gara e di
presidente della commissione giudicatrice (art. 77, comma 4,
del Codice), ferme restando le acquisizioni
giurisprudenziali in materia di possibile coincidenza”.
Peraltro, non potendosi escludere futuri révirement
giurisprudenziali, è consigliabile che in sede di
ripetizione della procedura il Comune e la C.U.C.
chiariscano nettamente le rispettive competenze circa
l’approvazione dei vari atti di gara, visto che
l’incompatibilità non sussiste laddove, ad esempio, il RUP
non abbia in alcun modo cooperato nella stesura del
capitolato tecnico o del bando.
10. Le censure inerenti l’omessa/errata valutazione
dell’anomalia dell’offerta dell’aggiudicataria sono
assorbite, sia perché la ricorrente non ha graduato i motivi
di ricorso, sia perché –come meglio si preciserà infra–
nella specie il Tribunale non è oggettivamente in grado di
valutare allo stato (ammesso che a ciò sia legittimato ex
officio) la maggiore satisfattività per la ricorrente
dell’accoglimento di una piuttosto che di un’altra censura.
11. In conclusione, la domanda impugnatoria va accolta, con
conseguente annullamento dell’aggiudicazione definitiva e
dell’affidamento del servizio in via d’urgenza disposto in
favore della controinteressata.
Questo secondo provvedimento non ha infatti valenza
autonoma, dovendosi dare quasi per scontato che in tanto il
servizio è stato affidato a “Eurotrend” in quanto la stessa
era risultata aggiudicataria provvisoria. In ogni altro
caso, infatti (deserzione della gara, annullamento in
autotutela del bando, ritardo nella conclusione della
procedura, etc.), il servizio sarebbe stato certamente
affidato in proroga al precedente gestore, ossia alla
cooperativa ricorrente.
12. A questo punto il problema si sposta alla verifica della
corretta modalità di esecuzione della presente sentenza.
12.1. Si deve premettere che dall’accoglimento delle censure
formulate dalla ricorrente (le quali, come detto, non sono
state graduate) non deriverebbe in nessun caso
l’accertamento della spettanza dell’aggiudicazione, visto
che:
- l’accoglimento delle doglianze relative alle modalità di nomina
del RUP e della commissione ed alla competenza dei
commissari ha quale effetto l’obbligo per la C.U.C. di
ripetere la gara (visto che le offerte sono ormai note e non
è quindi più assicurabile la genuinità del giudizio, nemmeno
se questo fosse affidato ad altra commissione);
- dall’accoglimento delle censure inerenti la omessa/errata
valutazione dell’anomalia e l’oggettiva insostenibilità
dell’offerta di “Eurotrend” sarebbe invece disceso l’obbligo
per la stazione appaltante di procedere alla (ri)valutazione
dell’anomalia, anche alla luce delle doglianze svolte dalla
ricorrente. Per giurisprudenza costante, infatti, in prima
battuta la valutazione de qua compete alla stazione
appaltante, il giudice essendo chiamato solo a stabilire se
tale valutazione è stata preceduta da adeguata istruttoria e
se essa risponde ai consueti canoni di adeguatezza e
logicità.
12.2. Diverso è il discorso per quanto concerne
l’annullamento dell’affidamento in via d’urgenza del
servizio, perché in questo caso l’effetto della sentenza
potrebbe esplicarsi in pieno, essendo solo due le ditte
partecipanti alla gara e non essendo stato rappresentato
alcun problema di ammissibilità di una o di entrambe le
offerte (per cui, allo stato, non vi è pericolo che il
servizio possa essere svolto da un operatore che non
possiede i requisiti morali e tecnici).
Peraltro, come il Tribunale ha già statuito per due volte in
sede cautelare, la valutazione circa l’ottimale gestione di
questa fase interinale non può che essere rimessa al Comune
di Urbania, e ciò anche alla luce del fatto che la
ricorrente ha sul punto formulato la domanda risarcitoria
(per cui i danni patrimoniali subiti di cui si chiede il
ristoro –in sé di importo non particolarmente rilevante-
sarebbero elisi in toto in caso di accoglimento della
domanda stessa).
Al riguardo il Tribunale, richiamando analogicamente l’art.
122 cod. proc. amm. (e ciò in quanto nella specie il
contratto non è stato ancora formalmente stipulato), non
ritiene di poter decretare la cessazione immediata della
gestione del servizio da parte della controinteressata,
soprattutto in ragione della particolare natura dell’utenza
e dell’indiscutibile esigenza di continuità gestionale.
12.3. In accoglimento della presente sentenza, pertanto, il
Comune di Urbania dovrà ripetere in tempi ragionevolmente
contenuti la procedura di gara, attenendosi ai principi di
diritto dianzi esposti.
Per la trattazione della domanda risarcitoria va invece
fissata l’udienza pubblica dell’08.11.2017
(TAR Marche,
sentenza 06.02.2017 n. 108 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso a costruire per le
verande, libertà alle pergotende.
La realizzazione di una veranda su balconi,
terrazzi, attici o giardini richiede il
permesso di costruire in quanto, dal punto
di vista edilizio, determina un aumento
della volumetria dell'edificio, perché è
caratterizzata da ampie superfici vetrate,
che all'occorrenza si aprono tramite
finestre scorrevoli o a libro.
La pergotenda rappresenta, invece, un
elemento di migliore fruizione dello spazio
esterno, stabile e duraturo. Tenuto conto
della sua consistenza, delle caratteristiche
costruttive e della funzione, una pergotenda
non costituisce un'opera edilizia soggetta
al previo rilascio del titolo abilitativo e
rientra all'interno della categoria delle
attività di edilizia libera.
Il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 25.01.2017 n. 306 si è espresso
riguardo alla definizione di pergolati,
verande, gazebo e pergotende. E in
particolare riprende per la prima volta la
definizione di veranda data dal regolamento
edilizio tipo, cioè «locale o spazio coperto
avente le caratteristiche di loggiato,
balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati
da superfici vetrate o con elementi
trasparenti e impermeabili, parzialmente o
totalmente apribili».
Il fatto in sintesi. Tizia presentava
ricorso al Tar contro l'ordinanza di
demolizione di una copertura e chiusura
perimetrale di un pergolato con teli
plastificati, fissati alla struttura. Il
sistema utilizzato per fissare i teli è
quello degli occhielli e chiavetta, con un
riquadro di materiale plastico come finestra
nella parte centrale, perché copertura e
chiusura perimetrale sono state realizzate
in assenza di titolo abilitativo. Il Tar ha
respinto il ricorso, ma il Consiglio di
stato lo ha accolto, classificando il
manufatto come una pergotenda, non
assoggettata al rilascio di un titolo
edilizio.
Il Consiglio di stato ha cercato
di chiarire la materia con delle
definizioni, pur ammettendo che «in
relazione ad alcune opere di limitata
consistenza e di limitato impatto sul
territorio (come pergolati, gazebo, tettoie,
pensiline e pergotende) non è sempre agevole
individuare il limite entro il quale esse
possono farsi rientrare nel regime
dell'edilizia libera o per cui è richiesta
una comunicazione o permesso di costruire»
(articolo ItaliaOggi
del 28.04.2017). |
APPALTI: Sull'illegittimità
del provvedimento con il quale la stazione appaltante
annulla d'ufficio la gara, senza aver dato prima alle
imprese partecipanti l'avviso dell'inizio del procedimento
di autotutela.
- "l'articolo 21-octies, comma 2, della legge 241/1990, oltre a riprendere
orientamenti
già vigenti, che consideravano il principio ivi espresso
come
immanente nel sistema, è norma di carattere processuale e
pertanto,
in quanto tale, applicabile anche ai procedimenti in corso o
già
definiti alla data di entrata in vigore della legge n. 15
del 2005, e
tuttavia, con riferimento alla mancata comunicazione di
avvio, la
disposizione in parola non può comunque, anche per
fattispecie anteriori,
essere applicata d'ufficio dal giudice, ma solo "ope
exceptionis"
da parte dell'amministrazione, alla quale incombe altresì
l'onere
di dimostrare che il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto
essere diverso";
- "con la presentazione della domanda di
partecipazione
alla gara per l'appalto-concorso e con la predisposizione e
l'inoltro dell'offerta, i soggetti concorrenti assumono una
posizione
differenziata e qualificata, per cui, ove l'amministrazione
che ha
bandito la gara intenda annullarla in autotutela, deve
provvedere, ai
sensi degli art. 7 e 8 l. n. 241/1990 a comunicare loro
l'avviso di
avvio del relativo procedimento, con la conseguenza che è
illegittimo,
per violazione dei canoni partecipativi di cui agli artt. 7
e 8, l. 07.08.1990 n. 241, il provvedimento con il quale la
stazione appaltante
annulla d'ufficio la gara, senza aver dato alle imprese
partecipanti
previo avviso d'inizio del procedimento di autotutela";
- "l'annullamento
in autotutela presuppone, oltre all'illegittimità dell'atto,
valide
ed esplicite ragioni di interesse pubblico ed il
provvedimento
deve intervenire entro un termine ragionevole e previa valutazione degli interessi dei destinatari dell'atto da
rimuovere, non potendo
l'autotutela essere finalizzata al mero ripristino della
legalità violata,
ma dovendo la medesima essere il risultato di un'attività
istruttoria
adeguata che dia conto della valutazione dell'interesse
pubblico e di
quello del privato che ha riposto affidamento nella
conservazione
dell'atto".
---------------
MASSIMA
2. Il motivo è fondato.
2.1. Va rilevato che, con la domanda proposta in prime cure,
An.Fe., chiedeva accertarsi l'illiceità del comportamento
del
Comune di Arcene -che aveva annullato in via di autotutela
per
motivi formali, con la delibera n. 435 del 18.11.1994,
la procedura
concorsuale per l'assegnazione della licenza di autonoleggio
da rimessa per autobus- e condannarsi l'ente al
risarcimento dei
danni subiti.
A seguito dell'espletamento dei tre gradi del
giudizio, il
Fe. provvedeva alla riassunzione della causa ex art.
392 cod.
proc. civ. in seguito alla pronuncia di questa Corte n.
3666/2006,
con la quale -sul presupposto che la delibera n. 435 del 18.11.1994 integrasse un atto di annullamento in via di autotutela
della
procedura concorsuale per l'assegnazione della predetta
licenza-
la causa veniva rinviata al giudice di merito per la
verifica della legittimità
di detto provvedimento, "sotto il profilo della necessità
della
comunicazione dell'avvio del procedimento" ex art. 7 della
legge
n. 241 del 1990, e sotto quello della natura discrezionale e
non vincolata
del provvedimento di autotutela, che comporta, pertanto,
"una valutazione comparativa tra l'interesse pubblico alla
rimozione
della illegittimità e l'interesse privato alla conservazione
dell'atto che
'medio tempore' ha prodotto effetti e suscitato legittime
aspettative".
2.2. Ebbene, sotto il primo profilo, va osservato che la
Corte di Appello
ha ancorato il rigetto del gravame, in sede di rinvio, sulla
giurisprudenza
amministrativa -precedente l'entrata in vigore della legge
n. 241 del 1990, ed applicabile ratione temporis- secondo
la
quale l'obbligo della comunicazione di avvio del
procedimento amministrativo
sussiste solo quando, in relazione alle ragioni che
giustificano
l'adozione del provvedimento, e a qualsiasi altro possibile
profilo, la comunicazione stessa apporti una qualche utilità
all'azione
amministrativa, affinché questa, sul piano del merito e
della legittimità,
riceva arricchimento dalla partecipazione del destinatario
del
provvedimento. Nei casi in cui, invece, anche con la
partecipazione
del privato il provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso,
viene meno l'obbligo della comunicazione di cui trattasi (C.
St.
7056/2005).
Di più, la Corte territoriale ha fatto, altresì,
applicazione
dell'art. 21-octies della legge n. 15 del 2005, sebbene
entrato in
vigore dopo i fatti per cui è causa e l'instaurazione del
giudizio di
primo grado, avvenuta nel 1994, affermando che "la validità
dell'indirizzo giurisprudenziale" succitato era stata
"pienamente confermato
(sic) dalla norma di cui all'art. 21-octies della legge n.
240
(sic) del 1990, introdotta dalla legge n. 15 del 2005".
Tale
disposizione
-al secondo comma- stabilisce, infatti, che "Non è
annullabile
il provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento
o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata
del provvedimento,
sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il
provvedimento
amministrativo non è comunque annullabile per mancata
comunicazione dell'avvio del procedimento qualora
l'amministrazione
dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato".
E sarebbe "incontestabile", secondo la Corte di merito, che
"nel caso
in esame non si sarebbe potuto pervenire ad un provvedimento
diverso
rispetto all'annullamento per autotutela della procedura di
assegnazione della licenza di autonoleggio da autorimessa di
autobus,
anche a fronte della eventuale partecipazione del Fe..
E
ciò per un duplice ordine di ragioni:
a) in considerazione
del fatto
che la mancata eliminazione dell'illegittimità del
procedimento di
assegnazione della licenza (approvazione della Giunta
Regionale in
data 27.07.1994, ossia dopo la pubblicazione del bando
di gara, e
mancato rispetto degli obblighi di pubblicità previsti
dall'art. 13 del
Regolamento Comunale) costituirebbe violazione
dell'interesse pubblico
al ripristino della legalità;
b) al fine di evitare ricorsi
di terzi
controinteressati, nel caso di omesso annullamento".
2.2.1. Orbene, è bensì vero che -secondo l'orientamento di
una
parte della giurisprudenza amministrativa- l'articolo 21-octies,
comma 2, della legge 241/1990 -oltre a riprendere
orientamenti
già vigenti, che consideravano il principio ivi espresso
come immanente
nel sistema- è norma di carattere processuale e pertanto,
in
quanto tale, applicabile anche ai procedimenti in corso o
già definiti
alla data di entrata in vigore della legge n. 15 del 2005.
E
tuttavia,
la medesima giurisprudenza ha avuto cura di precisare che,
con riferimento alla mancata comunicazione di avvio, la
disposizione in
parola non può comunque, anche per fattispecie anteriori,
essere
applicata d'ufficio dal giudice, ma solo "ope exceptionis"
da parte
dell'amministrazione, alla quale incombe altresì l'onere di
dimostrare
che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso
(cfr. C. St. 3048/2013).
Nel caso di specie, la Corte
territoriale
ha, per contro, applicato la disposizione in parola in
assenza
dell'eccezione suddetta - la cui proposizione non si rileva
in alcun
modo dall'impugnata sentenza, e senza dare conto, nella
decisione
impugnata, dell'eventuale esistenza di specifici e concreti
elementi
di prova (richiesi anche dalla giurisprudenza precedente la
legge n.
15 del 2005, che ha introdotto l'art. 21-octies) in ipotesi
forniti
dall'amministrazione sul piano della conformazione concreta
dell'oggetto del provvedimento, al di là del generico ed
astratto interesse
al ripristino della legalità, circa il fatto che il
contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso, anche nel
caso
in cui il Fe. fosse stato invitato a partecipare al
procedimento.
2.2.2. In mancanza di tali indispensabili precisazioni, non
desumibili
dalla decisione di appello, non possono che trovare
applicazione,
pertanto, nel caso di specie, i principi enunciati dalla
giurisprudenza
amministrativa con specifico riferimento alla fattispecie,
ricorrente
nel caso concreto, di annullamento di ufficio di una gara.
Si è, per
vero, affermato -al riguardo- che la presentazione della
domanda
di partecipazione alla gara per l'appalto-concorso e con la
predisposizione
e l'inoltro dell'offerta, i soggetti concorrenti assumono
una
posizione differenziata e qualificata.
Di conseguenza, ove
la medesima
amministrazione che ha bandito la gara intenda annullarla in
autotutela, deve provvedere, ai sensi degli art. 7 e 8 l. n.
241/1990
a comunicare loro l'avviso di avvio del relativo
procedimento, con la
conseguenza che è illegittimo, per violazione dei canoni
partecipativi
di cui agli artt. 7 e 8, l. 07.08.1990 n. 241, il
provvedimento con
il quale la stazione appaltante annulla d'ufficio la gara
dopo che erano
state espletate le formalità di apertura delle offerte ed
essa aveva avuto conoscenza delle ditte partecipanti, senza
aver dato a queste
ultime previo avviso d'inizio del procedimento di autotutela
(cfr.
C. St. 17/2009).
Nel caso concreto, per contro, la sentenza
impugnata
non ha fatto corretta applicazione di tali principi, e
soprattutto
di quanto statuito dalla decisione n. 3666/2006 di questa
Corte, secondo
la quale il giudice di rinvio avrebbe dovuto verificare la
legittimità
della delibera di annullamento della procedura concorsuale
"sotto il profilo della necessità della comunicazione
dell'avvio del
procedimento, ai sensi dell'art. 7 della legge 07.08.1990, n.
241".
La Corte di Appello si è, difatti, limitata ad
affermare che "anche
a fronte dell'eventuale partecipazione del Fe. alla
procedura"
il provvedimento di annullamento in via di autotutela non
avrebbe
potuto essere diverso, facendo riferimento -non a
specifiche
ragioni inerenti la concreta determinazione del
provvedimento, sul
piano del dispiegamento della funzione amministrativa di
autotutela- bensì operando un generico riferimento ad astratte
esigenze di
ripristino della legalità e ad ipotetiche, quanto
improbabili, azioni di
terzi.
2.3. Ma egualmente carente, sul piano del rispetto delle
statuizioni
contenute nella decisione rescindente di questa Corte n.
3666/2006,
si palesa l'impugnata sentenza quanto al profilo della
natura discrezionale
e non vincolata del provvedimento di autotutela, che in
quanto tale comporta, secondo quanto affermato nella
predetta decisione
di legittimità, "una valutazione comparativa tra l'interesse
pubblico alla rimozione della illegittimità e l'interesse
privato alla
conservazione dell'atto che 'medio tempore' ha prodotto
effetti e
suscitato legittime aspettative".
2.3.1. E' del tutto pacifico, infatti,
che l'annullamento in
autotutela
presuppone, oltre all'illegittimità dell'atto, valide ed
esplicite ragioni
di interesse pubblico ed il provvedimento deve intervenire
entro un
termine ragionevole e previa valutazione degli interessi dei
destinatari
dell'atto da rimuovere. L'autotutela non può essere, invero,
finalizzata
al mero ripristino della legalità violata, dovendo essere il
risultato di un'attività istruttoria adeguata, che dia conto
della valutazione
dell'interesse pubblico e di quello del privato che ha
riposto
affidamento nella conservazione dell'atto (cfr.,
ex plurimis,
C. St.
1265/2014; 2940/2014; 1798/2016).
2.3.2. Per converso, nel caso di specie, il Comune di Arcene
-con
comunicazione del 15.05.1993, trascritta nel ricorso (p.
3)- si
limitò a sospendere -non a denegare- la licenza di
autonoleggio
da rimessa per autobus (accordando al Fe. solo quella
di autonoleggio
da rimessa di autovetture), in attesa dell'approvazione
regionale.
Sopravvenuta, quindi, tale approvazione con provvedimento
n. 55279 del 27.07.1994, il Fe. sollecitava per due
volte
(in data 18.10.1994 ed in data 17.11.1994) il
Comune
al rilascio della predetta licenza. Con delibera n. 435 del
18.11.1994 l'ente pubblico comunicava, invece, il rigetto
dell'istanza
per le ragioni formali dianzi dette. Ciò posto, è evidente
che la Corte
territoriale, in sede di rinvio, avrebbe dovuto -in
ottemperanza a
quanto disposto da questa Corte nella sentenza n. 3666/2006
ed in
applicazione dei principi affermati dalla giurisprudenza
amministrativa
succitata- accertare quale interesse pubblico specifico e
concreto,
al di là di quello, insufficiente a giustificare
l'annullamento di un
atto amministrativo in via di autotutela, del ripristino
della legalità,
fosse stato -in ipotesi- posto dall'amministrazione
comunale a
fondamento dell'annullamento in questione.
La Corte di merito avrebbe dovuto, inoltre, operare -come
stabilito
da questa Corte- una valutazione comparativa "tra
l'interesse pubblico
alla rimozione della illegittimità e l'interesse privato
alla conservazione
dell'atto che 'medio tempore' ha prodotto effetti e
suscitato
legittime aspettative".
Per converso, il giudice di rinvio
non ha
in alcun modo evidenziato la sussistenza di un interesse
specifico e
concreto alla rimozione dell'atto in capo
all'amministrazione, diverso
da quelle generale ed astratto al ripristino della legalità,
né si è curata
di accertare se l'annullamento della procedura concorsuale,
solo
sospesa nelle more dell'approvazione regionale, e disposto
quando detta approvazione era stata ormai concessa, avesse
fatto venire
meno effetti già prodotti da tale atto o leso legittime
aspettative del
privato, come statuito dalla sentenza di questa Corte n.
3666/2006.
2.3. Per tutte le ragioni esposte, pertanto, la censura deve
essere
accolta.
3. L'accoglimento del ricorso comporta la cassazione
dell'impugnata
sentenza, con rinvio alla Corte di Appello di Brescia in
diversa composizione,
che dovrà procedere a nuovo esame della controversia
facendo applicazione dei seguenti principi di diritto:
- "l'articolo 21-octies, comma 2, della legge 241/1990, oltre a riprendere
orientamenti
già vigenti, che consideravano il principio ivi espresso
come
immanente nel sistema, è norma di carattere processuale e
pertanto,
in quanto tale, applicabile anche ai procedimenti in corso o
già
definiti alla data di entrata in vigore della legge n. 15
del 2005, e
tuttavia, con riferimento alla mancata comunicazione di
avvio, la
disposizione in parola non può comunque, anche per
fattispecie anteriori,
essere applicata d'ufficio dal giudice, ma solo "ope
exceptionis"
da parte dell'amministrazione, alla quale incombe altresì
l'onere
di dimostrare che il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto
essere diverso";
- "con la presentazione della domanda di
partecipazione
alla gara per l'appalto-concorso e con la predisposizione e
l'inoltro dell'offerta, i soggetti concorrenti assumono una
posizione
differenziata e qualificata, per cui, ove l'amministrazione
che ha
bandito la gara intenda annullarla in autotutela, deve
provvedere, ai
sensi degli art. 7 e 8 l. n. 241/1990 a comunicare loro
l'avviso di
avvio del relativo procedimento, con la conseguenza che è
illegittimo,
per violazione dei canoni partecipativi di cui agli artt. 7
e 8, l. 07.08.1990 n. 241, il provvedimento con il quale la
stazione appaltante
annulla d'ufficio la gara, senza aver dato alle imprese
partecipanti
previo avviso d'inizio del procedimento di autotutela";
- "l'annullamento
in autotutela presuppone, oltre all'illegittimità dell'atto,
valide
ed esplicite ragioni di interesse pubblico ed il
provvedimento
deve intervenire entro un termine ragionevole e previa valutazione degli interessi dei destinatari dell'atto da
rimuovere, non potendo
l'autotutela essere finalizzata al mero ripristino della
legalità violata,
ma dovendo la medesima essere il risultato di un'attività
istruttoria
adeguata che dia conto della valutazione dell'interesse
pubblico e di
quello del privato che ha riposto affidamento nella
conservazione
dell'atto" (Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 11.01.2017 n. 511). |
APPALTI:
Nelle gare il passato non conta.
Sentenza del tribunale amministrativo di
Lecce.
Grazie al nuovo codice dei contratti
pubblici l'impresa non può essere esclusa da
una gara d'appalto solo perché in passato è
scattata la risoluzione di un analogo
contratto in cui è parte ad opera di
un'altra amministrazione. A patto, però, che
la società abbia impugnato la precedente
decisione del comune: a differenza di quanto
accadeva con le vecchie norme, infatti, la
controversia sub iudice non integra «i gravi
requisiti professionali» che possono
determinare l'estromissione dalla procedura
a evidenza pubblica. E ciò anche se
l'azienda si è vista rigettare dal giudice
l'istanza cautelare che aveva proposto
nell'ambito della controversia instaurata
davanti al tribunale delle imprese.
Emerge dalla
sentenza 22.12.2016 n. 1935 dalla III
Sez. del TAR Puglia-Lecce.
Accolto il ricorso proposto dalla società
igiene ambientale esclusa dalla stazione
unica appaltante dalla procedura negoziata
per l'affidamento del servizio di raccolta
rifiuti nel comune: è annullata
l'aggiudicazione provvisoria dell'appalto
all'impresa controinteressata.
Il punto è
che un'amministrazione locale di un'altra
regione ha già sciolto un altro contratto
relativo alla gestione dei rifiuti rilevando
«gravi carenze» nell'esecuzione
dell'appalto. Ma ciò non basta a legittimare
l'esclusione perché l'articolo 80, quinto
comma lettera c) del decreto legislativo
50/2016 ha innovato la disciplina previgente
di cui all'articolo 38, primo comma lettera
f) del decreto legislativo 163/06: oggi
l'estromissione scatta solo se l'azienda
esclusa non si rivolge al giudice contro la
risoluzione del contratto precedente o la
sussistenza dei gravi motivi professionali
risulta «confermata a seguito di un
giudizio».
E dunque risulta irrilevante
anche il no all'istanza cautelare
pronunciata dal tribunale delle imprese. Né
si può disapplicare il nuovo codice dei
contratti per una presunta contrarietà alla
direttiva 2014/24/Ue, che pure è stata
recepita dal decreto legislativo 50/2016:
deve escludersi la normativa eurounitaria
sia self executing perché non ha un
carattere completo e dettagliato. Spese di
giudizio interamente compensate per la
novità del caso (articolo ItaliaOggi Sette
del 24.04.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: La
questione concernente la determinazione dell’an e del quantum
del contributo di costruzione comporta l’esplicazione, da
parte dell’Amministrazione, di un’attività priva di profili
di discrezionalità e attinente a posizioni giuridiche di
diritto soggettivo.
Conseguentemente, sono radicalmente inconfigurabili i vizi
di difetto di istruttoria e di motivazione.
E ciò in quanto le operazioni di corretta quantificazione
della misura del contributo “si esauriscono in una mera
operazione materiale che, se errata, può comportare soltanto
la violazione dei criteri fissati dalla normativa ovvero
dall'amministrazione con norme di natura regolamentare e,
quindi, la sussistenza del solo vizio di violazione di
legge, potendo l'interessato, sulla base dei predetti
criteri generali, contestare l'erroneità della
quantificazione operata dall'amministrazione, evidenziando
ad esempio l'erroneità dei calcoli ovvero dei presupposti di
fatto o di diritto”.
---------------
Nell’ordinamento giuridico vige la regola generale
dell’onerosità del permesso di costruire.
Si tratta di un principio introdotto dall’articolo 1 della
legge 28.01.1977, n. 10 –in base al quale “Ogni
attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia
del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa
relativi (...)”– e oggi sancito dall’articolo 11, comma 2,
del d.P.R. n. 380 del 2001, ove si conferma l’onerosità del
permesso.
A fronte di tale regime generale, la disciplina primaria
stabilisce una serie di ipotesi, indicate all’articolo 17
del d.P.R. n. 380 del 2001, di riduzione o di esonero dal
contributo di costruzione. Tali ultime previsioni normative
–secondo gli orientamenti espressi dalla giurisprudenza–
sono tuttavia da ritenere “tassative e di stretta
interpretazione”, proprio in quanto “derogatorie rispetto
alla regola della normale onerosità del permesso” e, inoltre, perché
qualificabili come esenzioni tributarie, come tali
costituenti eccezioni al principio costituzionale di
capacità contributiva.
Poste tali considerazioni, deve rilevarsi che –come
sopra detto– l’articolo 17, comma 3, lett. c) del d.P.R. n.
380 del 2001, invocato dalla ricorrente, contempla
anzitutto, quali trasformazioni edificatorie esonerate dal
contributo di costruzione, “gli impianti, le attrezzature,
le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli
enti istituzionalmente competenti”.
Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che, per
integrare la fattispecie normativa, è necessario il concorso
di due requisiti, l’uno di carattere oggettivo e l’altro di
carattere soggettivo.
Per effetto del primo, la costruzione deve riguardare opere
pubbliche o di interesse generale; per effetto del secondo,
le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente
competente.
La ratio della norma è
anzitutto quella di agevolare l'esecuzione di opere
destinate al soddisfacimento di interessi pubblici o dalle
quali la collettività possa comunque trarre una utilità. Il legislatore ha
quindi inteso evitare “l'imposizione degli oneri concessori
al soggetto che interviene per l'istituzionale attuazione
del pubblico interesse”; imposizione che “sarebbe altrimenti
intimamente contraddittoria, poiché verrebbe a gravare, sia
pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe
avvantaggiarsi dal loro pagamento”.
In tale prospettiva, la giurisprudenza ha altresì
chiarito –con riferimento al requisito soggettivo– che per
“enti istituzionalmente competenti” debbano intendersi i
soggetti pubblici, ovvero anche i soggetti privati, purché
l’opera sia realizzata per conto di un ente pubblico.
In particolare, con riferimento a questa seconda ipotesi,
“l’esenzione spetta soltanto qualora (come avviene nella
concessione di opera pubblica e in altre analoghe figure organizzatorie) lo strumento contrattuale utilizzato
consenta formalmente di imputare la realizzazione del bene
direttamente all’ente per conto del quale il privato abbia
operato. In altri termini, l’esenzione spetta solo se il
privato abbia agito quale organo indiretto
dell’amministrazione, come appunto nella concessione o nella
delega”.
E l’esattezza
della soluzione in base alla quale si richiede che l’opera
sia realizzata direttamente da enti pubblici ovvero da
soggetti che agiscono per conto di enti pubblici è
confermata non soltanto “dall'endiadi: "opere pubbliche o di
interesse generale", che rinvia ad una figura soggettiva
pubblica, ma dal fatto che nella sola seconda parte della
proposizione normativa, concernente le opere di
urbanizzazione, la disposizione reca la specifica
indicazione: "eseguite anche da privati". Ne esce quindi
caricata di ulteriore valore semantico la locuzione: "enti
istituzionalmente competenti", che non può riferirsi che ad
enti pubblici o a soggetti che agiscono per conto degli
stessi”.
---------------
E’ indubitabile che l’intervento di ristrutturazione
dell’Istituto di ricovero e cura costituisca un’opera di
interesse generale.
Non può, invece, ritenersi che l’Associazione ricorrente sia qualificabile quale “ente istituzionalmente
competente”.
Si tratta, infatti, di un soggetto che non ha natura
pubblica e che non ha agito per conto di una pubblica
amministrazione. E la mera circostanza che l’Istituto operi
in regime di accreditamento con il servizio sanitario
nazionale non comporta, di per sé, l’esistenza di un
rapporto organizzatorio con la pubblica amministrazione,
tale da determinare la riferibilità dell’opera realizzata a
un ente pubblico.
Sotto altro profilo, il Collegio ritiene altresì non
dirimente, al fine di qualificare l’Associazione come “ente
istituzionalmente competente”, la circostanza che si tratti
di un soggetto privo di finalità lucrative.
L’assenza di scopo di lucro è, infatti, una circostanza che
attiene unicamente alla funzionalità interna della persona
giuridica, la quale non potrà redistribuire gli eventuali
utili derivanti dall’attività svolta. Si tratta, tuttavia,
di un elemento che, in sé considerato, non è sufficiente a
determinare la riferibilità dell’opera a un ente pubblico,
che è quanto richiesto dalla norma al fine di rendere
operativa l’esenzione.
Tale conclusione trova conferma anche nella giurisprudenza
del Consiglio di Stato, la quale ha evidenziato che la
natura di ONLUS del soggetto che realizza l’intervento non
soddisfa il prescritto requisito soggettivo, laddove –come
avviene anche nel caso oggetto del presente giudizio– le
opere sono destinate a rimanere nella disponibilità del
privato, e non sono vincolate neppure a vedere conservata
nel tempo la loro funzione.
---------------
Deve rilevarsi che la disposizione
ex art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001 richiede, ai fini dell’esenzione
dal versamento del contributo di costruzione, non soltanto che
si sia in presenza di un’opera di urbanizzazione, ma che
questa sia altresì realizzata in attuazione di strumenti
urbanistici.
Nel caso oggetto del presente giudizio, l’Istituto di
ricovero e cura gestito dalla ricorrente è bensì
astrattamente riconducibile nel novero delle opere di
urbanizzazione secondaria –ai sensi dell’articolo 16, comma
8, del d.P.R. n. 380 del 2001– in quanto rientrante tra le
“attrezzature sanitarie”, ma non è stato realizzato in
attuazione dello strumento urbanistico.
Invero, risulta agli atti del giudizio che
l’opera ricade in Zona F2, destinata a ospitare “Servizi
tecnologici e di interesse generale” e disciplinata
dall’articolo 53 delle NTA del Piano delle Regole; zona ove
sono localizzate “attrezzature pubbliche e/o private con
funzioni di interesse generale”.
Al riguardo, la difesa comunale ha ben evidenziato che gli
spazi per attrezzature pubbliche e collettive prescritti
dall’articolo 9 della legge regionale n. 12 del 2005 sono
classificati dallo strumento urbanistico non quale Zona F2,
ma come “ZONA F1 (aree di servizi di uso pubblico e
interesse comune)”, soggetta alla disciplina dell’articolo
52 delle NTA del Piano delle Regole. Solo tali spazi sono,
quindi, specificamente destinati a standard urbanistici.
Al contrario, le aree classificate come Zona F2 non sono
state prese in considerazione dallo strumento urbanistico al
fine della verifica della dotazione di aree di uso pubblico
a servizio di insediamenti residenziali e non danno luogo a
standard urbanistici. Si tratta, infatti, di aree che
comprendono compendi immobiliari aventi varia destinazione
(«Ambiti per servizi tecnologici», «Complesso
socio-assistenziale, sanitario, ospedaliero “La Nostra
Famiglia”», «Crossodromo Bodrone», «Villa Mira»), tutti
caratterizzati dal soddisfacimento di finalità di interesse
generale, ma non costituenti opere che il Comune ha reputato
necessarie al fine dell’urbanizzazione dell’ambito entro il
quale ricadono, tanto da non averle prese in considerazione
ai fini del calcolo della relativa dotazione di standard.
Si tratta, in altri termini, di compendi immobiliari
rispetto ai quali lo strumento urbanistico ha
sostanzialmente operato una ricognizione, qualificandoli
come attrezzature con funzioni di interesse generale, ma non
quali opere indispensabili per assicurare i servizi
necessari alla comunità insediata.
Da ciò derivano due considerazioni.
Sotto un primo profilo, poiché l’intervento oggetto del
presente giudizio non è posto a servizio dell’urbanizzazione
del territorio comunale, o di una porzione di questo, esso
non dà luogo a un’opera di urbanizzazione, pur rientrando
nelle categorie astrattamente indicate all’articolo 16,
comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001.
E invero, perché un’opera sia qualificabile come opera di
urbanizzazione secondaria è necessario che essa sia
direttamente funzionale a un ben preciso insediamento
urbano. E ciò in considerazione della circostanza che “le
opere di urbanizzazione secondaria hanno tendenzialmente una
dimensione comunale o infra-comunale, in quanto finalizzate
a migliorare il grado di fruibilità di uno specifico e
circoscritto insediamento urbano mediante la creazione da
parte dell’ente locale di determinate strutture di supporto
per servizi fruibili da quella comunità”.
Conseguentemente, un centro ospedaliero contemplato dallo
strumento urbanistico quale attrezzatura con funzioni di
interesse generale, ma non previsto quale dotazione di
standard a servizio di un ambito territoriale, di per sé non
è qualificabile come opera di urbanizzazione secondaria.
Sotto altro, concorrente, profilo, la circostanza che –come detto– il Piano di Governo del Territorio si sia
limitato a riconoscere la presenza sul territorio e
l’interesse generale di una congerie assai diversificata di
opere esistenti, indicandole con una medesima
classificazione, senza però prenderle in considerazione
quali dotazioni di servizi necessarie alla collettività,
implica che tali opere debbano bensì reputarsi conformi allo
strumento urbanistico, ma non attuative delle relative
previsioni. Si tratta infatti di opere che non devono, ma
possono essere presenti sul territorio comunale, per cui,
laddove le attività che in esse si svolgono dovessero essere
dismesse dai privati, non insorgerebbe l’obbligo per
l’Amministrazione di assicurare in altro modo la
soddisfazione delle dotazioni di servizi in favore della
comunità insediata.
La validità della predetta distinzione tra opere meramente
conformi, o specificamente attuative, del piano è stata, del
resto, anche di recente ribadita dalla giurisprudenza, la
quale ha esplicitamente affermato che la semplice
riconduzione all’astratta tipologia di opera di
urbanizzazione secondaria non può considerarsi sufficiente
ai fini dell’esenzione del contributo, essendo necessario
altresì che l’intervento sia attuativo di una specifica
previsione di piano.
E, in questo senso, non può ritenersi pertinente il
richiamo, operato dalla ricorrente, alla sentenza della IV
Sezione del Consiglio di Stato 12.05.2011, n. 2870, al
fine di sostenere che qualunque opera rientrante
astrattamente nel novero delle opere di urbanizzazione, e
realizzata in conformità allo strumento urbanistico, debba
beneficiare dell’esenzione. La fattispecie decisa dal
Consiglio di Stato riguardava, infatti, la costruzione di
un’opera che corrispondeva a una puntuale previsione dello
strumento urbanistico, il quale destinava specificamente
un’area a servizi ospedalieri e sanitari.
Come detto, nel caso oggetto del presente giudizio, l’opera
ricade, invece, in una zona avente una destinazione generica
ad attrezzature con funzioni di interesse generale, in
relazione alla quale il Comune ha operato una ricognizione
di strutture esistenti, pur classificandole come di
interesse generale, assicurando, per questa via, la mera
compatibilità delle stesse con lo strumento urbanistico,
senza però sancirne la necessità in relazione alle esigenze
attinenti alle dotazioni di servizi in favore della comunità
insediata.
---------------
... per l'accertamento della non debenza del contributo di
costruzione per l'esecuzione dell'intervento di
ristrutturazione edilizia oggetto del permesso di costruire
n. 39/2013 e per la conseguente condanna del Comune di
Bosisio Parini alla restituzione delle somme versate a tale
titolo dall’Associazione ricorrente, maggiorate degli
interessi legali maturati dalla data della domanda
giudiziale all'effettiva restituzione;
...
1. La ricorrente Associazione “La nostra famiglia” (di
seguito anche: l’Associazione) è un ente ecclesiastico
civilmente riconosciuto, avente carattere di organizzazione
non lucrativa di utilità sociale (ONLUS), che gestisce, nel
territorio del Comune di Bosisio Parini, l’Istituto di
ricovero e cura a carattere scientifico “Eugenio Medea” e un
centro di riabilitazione, operando, per entrambe tali
strutture, in regime di accreditamento con l’Azienda
sanitaria della Provincia di Lecco.
2. L’Associazione ha chiesto al Comune il rilascio di un
permesso di costruire per la ristrutturazione edilizia di un
padiglione dell’Istituto “Eugenio Medea”.
In data 03.10.2013, l’Amministrazione ha comunicato
l’emanazione del titolo edilizio, chiedendo tuttavia alla
parte istante di produrre il calcolo analitico degli oneri
dovuti per l’intervento, da corrispondersi prima del ritiro
del permesso di costruire.
L’Associazione ha a questo punto prodotto le proprie
controdeduzioni, ritenendo di non essere tenuta al
versamento del contributo di costruzione.
A seguito di interlocuzioni tra le parti, la Giunta
comunale, con deliberazione del 01.04.2015, n. 37, ha
infine ribadito di ritenere dovuta la corresponsione degli
oneri per il rilascio del titolo edilizio. L’Ufficio tecnico
comunale ha quindi emesso la nota del 15.04.2015, con la
quale è stato chiesto all’Associazione il versamento, a
titolo di contributo di costruzione, dell’importo
complessivo di euro 188.329,57; somma di cui la ricorrente
ha chiesto e ottenuto la rateizzazione, riservandosi
tuttavia di agire in giudizio per contestare la sussistenza
dell’obbligazione.
3. L’Associazione ha quindi proposto il presente ricorso,
con il quale ha chiesto a questo Giudice di accertare e
dichiarare che nessun contributo è dovuto per la
realizzazione dell’intervento di ristrutturazione,
condannando conseguentemente il Comune alla restituzione
delle somme già versate dalla ricorrente, maggiorate degli
interessi legali dal giorno della domanda giudiziale, previo
annullamento –occorrendo– degli atti comunali specificati
in epigrafe.
...
7. Il ricorso è infondato, per le ragioni che si espongono
di seguito.
8. L’Associazione sostiene di non essere tenuta al
versamento degli oneri per la realizzazione dell’intervento
di ristrutturazione edilizia, in base alle previsioni
dell’articolo 17, comma 3, lett. c), del decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2011, n. 380;
disposizione, questa, per la quale il contributo di
costruzione non è dovuto “per gli impianti, le attrezzature,
le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli
enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici”.
La ricorrente ritiene l’intervento pienamente riconducibile
entro il perimetro applicativo di entrambe fattispecie
contemplate dalla previsione normativa ora richiamata. Le
opere sarebbero, infatti, annoverabili tra “gli impianti, le
attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale
realizzate dagli enti istituzionalmente competenti” (primo
motivo di ricorso) e, comunque, costituirebbero anche “opere
di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione
di strumenti urbanistici” (secondo motivo).
Sotto altro profilo, la parte allega la violazione
dell’articolo 3 della legge n. 241 del 1990, nonché il vizio
di eccesso di potere per carenza di istruttoria, carenza di
motivazione e contraddittorietà, poiché l’Amministrazione
non avrebbe illustrato le ragioni per le quali ha ritenuto
di non aderire alle argomentazioni dell’Associazione in
ordine al ricorrere di un’ipotesi di esonero dal versamento
del contributo di costruzione (terzo motivo di ricorso).
9. Il Collegio ritiene, per ragioni di ordine logico, di
dover prendere le mosse da quest’ultima censura.
9.1 La doglianza non può trovare accoglimento, per la
ragione dirimente che la questione concernente la
determinazione dell’an e del quantum del contributo di
costruzione comporta l’esplicazione, da parte
dell’Amministrazione, di un’attività priva di profili di
discrezionalità (v., tra le ultime: Cons. Stato, Sez. IV, 18.05.2016, n. 2011) e attinente a posizioni giuridiche di
diritto soggettivo (ex multis: Cons. Stato, Sez. IV, 21.08.2013, n. 4208). Conseguentemente, sono radicalmente inconfigurabili i vizi di difetto di istruttoria e di
motivazione (Cons. Stato, Sez. IV, 10.03.2015, n. 1211).
E ciò in quanto le operazioni di corretta quantificazione
della misura del contributo “si esauriscono in una mera
operazione materiale che, se errata, può comportare soltanto
la violazione dei criteri fissati dalla normativa ovvero
dall'amministrazione con norme di natura regolamentare e,
quindi, la sussistenza del solo vizio di violazione di
legge, potendo l'interessato, sulla base dei predetti
criteri generali, contestare l'erroneità della
quantificazione operata dall'amministrazione, evidenziando
ad esempio l'erroneità dei calcoli ovvero dei presupposti di
fatto o di diritto” (Cons. Stato, Sez. V, 29.07. 2000, n.
4217; nello stesso senso: TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 08.09.2011, n. 2189).
9.2 Il terzo motivo di ricorso va quindi respinto.
10. Può passarsi, a questo punto, alla trattazione dei primi
due mezzi, con i quali –come detto– l’Associazione allega
di versare in entrambe le fattispecie contemplate
dall’articolo 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del
2001, e di aver pertanto diritto all’esenzione dal
contributo di costruzione.
11. Al riguardo, mette conto anzitutto di ricordare che
nell’ordinamento giuridico vige la regola generale
dell’onerosità del permesso di costruire.
Si tratta di un principio introdotto dall’articolo 1 della
legge 28.01.1977, n. 10 –in base al quale “Ogni
attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia
del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa
relativi (...)”– e oggi sancito dall’articolo 11, comma 2,
del d.P.R. n. 380 del 2001, ove si conferma l’onerosità del
permesso.
A fronte di tale regime generale, la disciplina primaria
stabilisce una serie di ipotesi, indicate all’articolo 17
del d.P.R. n. 380 del 2001, di riduzione o di esonero dal
contributo di costruzione. Tali ultime previsioni normative
–secondo gli orientamenti espressi dalla giurisprudenza–
sono tuttavia da ritenere “tassative e di stretta
interpretazione”, proprio in quanto “derogatorie rispetto
alla regola della normale onerosità del permesso” (Cons.
Stato, Sez. IV, 11.02.2016, n. 595) e, inoltre, perché
qualificabili come esenzioni tributarie, come tali
costituenti eccezioni al principio costituzionale di
capacità contributiva (TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 23.10.2014, n. 1111).
12. Poste tali considerazioni, deve rilevarsi che –come
sopra detto– l’articolo 17, comma 3, lett. c) del d.P.R. n.
380 del 2001, invocato dalla ricorrente, contempla
anzitutto, quali trasformazioni edificatorie esonerate dal
contributo di costruzione, “gli impianti, le attrezzature,
le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli
enti istituzionalmente competenti”.
12.1 Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che, per
integrare la fattispecie normativa, è necessario il concorso
di due requisiti, l’uno di carattere oggettivo e l’altro di
carattere soggettivo.
Per effetto del primo, la costruzione deve riguardare opere
pubbliche o di interesse generale; per effetto del secondo,
le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente
competente (ex multis: Cons. Stato, Sez. V, 11.01.2006,
n. 51; Id. 20.10.2004, n. 6818; Id., 10.07.2000, n.
3860).
La ratio della norma –è stato inoltre rilevato– è
anzitutto quella di agevolare l'esecuzione di opere
destinate al soddisfacimento di interessi pubblici o dalle
quali la collettività possa comunque trarre una utilità
(Cons. Stato, n. 51 del 2006, cit.). Il legislatore ha
quindi inteso evitare “l'imposizione degli oneri concessori
al soggetto che interviene per l'istituzionale attuazione
del pubblico interesse”; imposizione che “sarebbe altrimenti
intimamente contraddittoria, poiché verrebbe a gravare, sia
pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe
avvantaggiarsi dal loro pagamento” (così ancora Cons. Stato,
n. 51 del 2006, cit.).
12.2 In tale prospettiva, la giurisprudenza ha altresì
chiarito –con riferimento al requisito soggettivo– che per
“enti istituzionalmente competenti” debbano intendersi i
soggetti pubblici, ovvero anche i soggetti privati, purché
l’opera sia realizzata per conto di un ente pubblico.
In particolare, con riferimento a questa seconda ipotesi,
“l’esenzione spetta soltanto qualora (come avviene nella
concessione di opera pubblica e in altre analoghe figure organizzatorie) lo strumento contrattuale utilizzato
consenta formalmente di imputare la realizzazione del bene
direttamente all’ente per conto del quale il privato abbia
operato. (cfr. ex multis V Sez. n. 536 del 1999 e n. 1901
del 2000). In altri termini, l’esenzione spetta solo se il
privato abbia agito quale organo indiretto
dell’amministrazione, come appunto nella concessione o nella
delega” (Cons. Stato, n. 595 del 2016, cit.).
E –come pure rilevato dalla giurisprudenza– l’esattezza
della soluzione in base alla quale si richiede che l’opera
sia realizzata direttamente da enti pubblici ovvero da
soggetti che agiscono per conto di enti pubblici è
confermata non soltanto “dall'endiadi: "opere pubbliche o di
interesse generale", che rinvia ad una figura soggettiva
pubblica, ma dal fatto che nella sola seconda parte della
proposizione normativa, concernente le opere di
urbanizzazione, la disposizione reca la specifica
indicazione: "eseguite anche da privati". Ne esce quindi
caricata di ulteriore valore semantico la locuzione: "enti
istituzionalmente competenti", che non può riferirsi che ad
enti pubblici o a soggetti che agiscono per conto degli
stessi” (Cons. Stato, n. 51 del 2006, cit.).
12.3 Poste tali coordinate ermeneutiche, deve ritenersi che,
nel caso oggetto del presente giudizio, sia riscontrabile
soltanto il requisito oggettivo richiesto dalla previsione
normativa, ma non anche il requisito soggettivo.
E’ infatti indubitabile che l’intervento di ristrutturazione
dell’Istituto di ricovero e cura costituisca un’opera di
interesse generale (anche alla luce delle previsioni di
piano, delle quali si tratterà nello scrutinare il secondo
motivo di ricorso).
Non può, invece, ritenersi che l’Associazione “La nostra
famiglia” sia qualificabile quale “ente istituzionalmente
competente”.
Si tratta, infatti, di un soggetto che non ha natura
pubblica e che non ha agito per conto di una pubblica
amministrazione. E la mera circostanza che l’Istituto operi
in regime di accreditamento con il servizio sanitario
nazionale non comporta, di per sé, l’esistenza di un
rapporto organizzatorio con la pubblica amministrazione,
tale da determinare la riferibilità dell’opera realizzata a
un ente pubblico.
Sotto altro profilo, il Collegio ritiene altresì non
dirimente, al fine di qualificare l’Associazione come “ente
istituzionalmente competente”, la circostanza che si tratti
di un soggetto privo di finalità lucrative.
L’assenza di scopo di lucro è, infatti, una circostanza che
attiene unicamente alla funzionalità interna della persona
giuridica, la quale non potrà redistribuire gli eventuali
utili derivanti dall’attività svolta. Si tratta, tuttavia,
di un elemento che, in sé considerato, non è sufficiente a
determinare la riferibilità dell’opera a un ente pubblico,
che è quanto richiesto dalla norma al fine di rendere
operativa l’esenzione.
Tale conclusione trova conferma anche nella giurisprudenza
del Consiglio di Stato, la quale ha evidenziato che la
natura di ONLUS del soggetto che realizza l’intervento non
soddisfa il prescritto requisito soggettivo, laddove –come
avviene anche nel caso oggetto del presente giudizio– le
opere sono destinate a rimanere nella disponibilità del
privato, e non sono vincolate neppure a vedere conservata
nel tempo la loro funzione (Cons. Stato, n. 51 del 2006,
cit.).
12.4 In definitiva, alla luce delle considerazioni sin qui
esposte, il primo motivo di ricorso deve essere respinto.
13. E’ altresì infondato il secondo motivo, con il quale la
ricorrente afferma che l’intervento rientrerebbe comunque
nella seconda fattispecie contemplata dall’articolo 17,
comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto
annoverabile tra le “opere di urbanizzazione, eseguite anche
da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
13.1 Al riguardo, deve rilevarsi che la disposizione
normativa richiede, ai fini dell’esenzione, non soltanto che
si sia in presenza di un’opera di urbanizzazione, ma che
questa sia altresì realizzata in attuazione di strumenti
urbanistici.
Nel caso oggetto del presente giudizio, l’Istituto di
ricovero e cura gestito dalla ricorrente è bensì
astrattamente riconducibile nel novero delle opere di
urbanizzazione secondaria –ai sensi dell’articolo 16, comma
8, del d.P.R. n. 380 del 2001– in quanto rientrante tra le
“attrezzature sanitarie”, ma non è stato realizzato in
attuazione dello strumento urbanistico.
13.2 In particolare, risulta agli atti del giudizio che
l’opera ricade in Zona F2, destinata a ospitare “Servizi
tecnologici e di interesse generale” e disciplinata
dall’articolo 53 delle NTA del Piano delle Regole; zona ove
sono localizzate “attrezzature pubbliche e/o private con
funzioni di interesse generale”.
Al riguardo, la difesa comunale ha ben evidenziato che gli
spazi per attrezzature pubbliche e collettive prescritti
dall’articolo 9 della legge regionale n. 12 del 2005 sono
classificati dallo strumento urbanistico non quale Zona F2,
ma come “ZONA F1 (aree di servizi di uso pubblico e
interesse comune)”, soggetta alla disciplina dell’articolo
52 delle NTA del Piano delle Regole. Solo tali spazi sono,
quindi, specificamente destinati a standard urbanistici.
Al contrario, le aree classificate come Zona F2 non sono
state prese in considerazione dallo strumento urbanistico al
fine della verifica della dotazione di aree di uso pubblico
a servizio di insediamenti residenziali e non danno luogo a
standard urbanistici. Si tratta, infatti, di aree che
comprendono compendi immobiliari aventi varia destinazione
(«Ambiti per servizi tecnologici», «Complesso
socio-assistenziale, sanitario, ospedaliero “La Nostra
Famiglia”», «Crossodromo Bodrone», «Villa Mira»), tutti
caratterizzati dal soddisfacimento di finalità di interesse
generale, ma non costituenti opere che il Comune ha reputato
necessarie al fine dell’urbanizzazione dell’ambito entro il
quale ricadono, tanto da non averle prese in considerazione
ai fini del calcolo della relativa dotazione di standard.
Si tratta, in altri termini, di compendi immobiliari
rispetto ai quali lo strumento urbanistico ha
sostanzialmente operato una ricognizione, qualificandoli
come attrezzature con funzioni di interesse generale, ma non
quali opere indispensabili per assicurare i servizi
necessari alla comunità insediata.
Da ciò derivano due considerazioni.
13.3 Sotto un primo profilo, poiché l’intervento oggetto del
presente giudizio non è posto a servizio dell’urbanizzazione
del territorio comunale, o di una porzione di questo, esso
non dà luogo a un’opera di urbanizzazione, pur rientrando
nelle categorie astrattamente indicate all’articolo 16,
comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001.
E invero, perché un’opera sia qualificabile come opera di
urbanizzazione secondaria è necessario che essa sia
direttamente funzionale a un ben preciso insediamento
urbano. E ciò in considerazione della circostanza che “le
opere di urbanizzazione secondaria hanno tendenzialmente una
dimensione comunale o infra-comunale, in quanto finalizzate
a migliorare il grado di fruibilità di uno specifico e
circoscritto insediamento urbano mediante la creazione da
parte dell’ente locale di determinate strutture di supporto
per servizi fruibili da quella comunità” (Cons. Stato, n.
595 del 2016, cit.).
Conseguentemente, un centro ospedaliero contemplato dallo
strumento urbanistico quale attrezzatura con funzioni di
interesse generale, ma non previsto quale dotazione di
standard a servizio di un ambito territoriale, di per sé non
è qualificabile come opera di urbanizzazione secondaria.
13.4 Sotto altro, concorrente, profilo, la circostanza che –come detto– il Piano di Governo del Territorio si sia
limitato a riconoscere la presenza sul territorio e
l’interesse generale di una congerie assai diversificata di
opere esistenti, indicandole con una medesima
classificazione, senza però prenderle in considerazione
quali dotazioni di servizi necessarie alla collettività,
implica che tali opere debbano bensì reputarsi conformi allo
strumento urbanistico, ma non attuative delle relative
previsioni. Si tratta infatti di opere che non devono, ma
possono essere presenti sul territorio comunale, per cui,
laddove le attività che in esse si svolgono dovessero essere
dismesse dai privati, non insorgerebbe l’obbligo per
l’Amministrazione di assicurare in altro modo la
soddisfazione delle dotazioni di servizi in favore della
comunità insediata.
13.5 La validità della predetta distinzione tra opere
meramente conformi, o specificamente attuative, del piano è
stata, del resto, anche di recente ribadita dalla
giurisprudenza, la quale ha esplicitamente affermato che la
semplice riconduzione all’astratta tipologia di opera di
urbanizzazione secondaria non può considerarsi sufficiente
ai fini dell’esenzione del contributo, essendo necessario
altresì che l’intervento sia attuativo di una specifica
previsione di piano (Cons. Stato, Sez. IV, 18.05.2016,
n. 2011; TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 23.10.2014, n.
1111).
E, in questo senso, non può ritenersi pertinente il
richiamo, operato dalla ricorrente, alla sentenza della IV
Sezione del Consiglio di Stato 12.05.2011, n. 2870, al
fine di sostenere che qualunque opera rientrante
astrattamente nel novero delle opere di urbanizzazione, e
realizzata in conformità allo strumento urbanistico, debba
beneficiare dell’esenzione. La fattispecie decisa dal
Consiglio di Stato riguardava, infatti, la costruzione di
un’opera che corrispondeva a una puntuale previsione dello
strumento urbanistico, il quale destinava specificamente
un’area a servizi ospedalieri e sanitari.
Come detto, nel caso oggetto del presente giudizio, l’opera
ricade, invece, in una zona avente una destinazione generica
ad attrezzature con funzioni di interesse generale, in
relazione alla quale il Comune ha operato una ricognizione
di strutture esistenti, pur classificandole come di
interesse generale, assicurando, per questa via, la mera
compatibilità delle stesse con lo strumento urbanistico,
senza però sancirne la necessità in relazione alle esigenze
attinenti alle dotazioni di servizi in favore della comunità
insediata.
13.6 Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, si
conferma quindi il rigetto anche del secondo motivo di
impugnazione.
14. In conclusione, l’intero ricorso deve essere respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.11.2016 n. 2011 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Affinché
sia configurabile una «ristrutturazione edilizia», ai sensi
dell’art. 3, comma 1, lettera d), del testo unico n. 380 del
2001 è indispensabile che la demolizione e la ricostruzione
si verifichino «con la stessa volumetria» del manufatto
preesistente.
Del tutto legittimamente, il Comune appellato ha qualificato
le opere in questione come una «nuova costruzione», dal
momento che vi è stato l’ampliamento di un preesistente
manufatto, anche con modifica della «sagoma esistente»: si
applica dunque l’art. 3, comma 1, lettera e1), del medesimo
testo unico n. 380 del 2001 (quale disposizione primaria che
ha previsto la necessità del permesso di costruire per la
realizzazione della nuova costruzione).
---------------
Quando risulta la realizzazione di abusi edilizi, il
Comune «deve senza indugio emanare l’ordine di demolizione
per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive» e cioè
deve immediatamente emanare il provvedimento che ripristini
la legalità.
Tale principio si fonda sul dato testuale dell’art. 31,
comma 2, del testo unico n. 380 del 2001, per il quale «il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale,
accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso,
in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni
essenziali, determinate ai sensi dell’articolo 32, ingiunge
al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o
la demolizione».
---------------
Le questioni inerenti alla sussistenza dei presupposti di
applicabilità dell’art. 33, comma 2, del medesimo testo
unico (per il quale, «qualora, sulla base di motivato
accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino
dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il
responsabile dell’ufficio irroga una sanzione pecuniaria
pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile»)
riguardano una fase procedimentale successiva ed eventuale,
dal momento che il destinatario dell’ordine di demolizione
può preferire –entro il termine di novanta giorni, decorso
il quale si verifica il prospettato acquisto del bene da
parte dell’Amministrazione comunale– di adeguare la
situazione di fatto a quella di diritto e di non pagare la
somma corrispondente al doppio dell’aumento di valore
dell’immobile.
In altri termini, per l’applicabilità del medesimo art.
33, comma 2, occorre la sussistenza di alcuni presupposti,
tra cui proprio la previa emanazione dell’ordine di
demolizione, l’istanza tempestiva del destinatario
dell’ordine ed un «motivato accertamento dell’ufficio
tecnico comunale» sulla impossibilità materiale di
ripristinare lo stato dei luoghi, configurabile soltanto
quando «la demolizione, per le sue conseguenze materiali,
inciderebbe sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso»
legittimamente realizzato, il che non avviene –in linea di principio-
quando si tratta di eliminare opere realizzate in aggiunta a
un manufatto preesistente.
---------------
6.1. Con una adeguata motivazione, la sentenza impugnata ha
evidenziato che sul lastrico di copertura dell’edificio è
stato realizzato un manufatto del tutto diverso da quello
preesistente.
Affinché sia configurabile una «ristrutturazione edilizia»,
ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera d), del testo unico
n. 380 del 2001 è invece indispensabile che la demolizione e
la ricostruzione si verifichino «con la stessa volumetria»
del manufatto preesistente.
Del tutto legittimamente, il Comune appellato ha qualificato
le opere in questione come una «nuova costruzione», dal
momento che vi è stato l’ampliamento di un preesistente
manufatto, anche con modifica della «sagoma esistente»: si
applica dunque l’art. 3, comma 1, lettera e1), del medesimo
testo unico n. 380 del 2001 (quale disposizione primaria che
ha previsto la necessità del permesso di costruire per la
realizzazione della nuova costruzione), il che comporta
l’infondatezza delle censure di violazione delle norme sopra
indicate e la insussistenza dei dedotti profili di eccesso
di potere.
6.2. Quanto alla dedotta violazione dell’art. 33, comma 2,
del d.P.R. n. 380 del 2001, ritiene il Collegio che
anch’essa risulta infondata e va respinta (sicché non rileva
verificare se essa risulta inammissibile, in ragione delle
censure formulate in primo grado), poiché:
- quando risulta la realizzazione di abusi edilizi, il
Comune «deve senza indugio emanare l’ordine di demolizione
per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive» (cfr.
Consiglio Stato, Sez. VI, 30.03.2017, n. 1486; Sez. VI, 06.03.2017, n. 1060 e n. 1058; Sez. V, 11.07.2014, n.
3568; Sez. IV, 31.08.2010, n. 3955) e cioè deve
immediatamente emanare il provvedimento che ripristini la
legalità;
- tale principio si fonda sul dato testuale dell’art. 31,
comma 2, del testo unico n. 380 del 2001, per il quale «il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale,
accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso,
in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni
essenziali, determinate ai sensi dell’articolo 32, ingiunge
al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o
la demolizione»;
- le questioni inerenti alla sussistenza dei presupposti di
applicabilità dell’art. 33, comma 2, del medesimo testo
unico (per il quale, «qualora, sulla base di motivato
accertamento dell'ufficio tecnico comunale, il ripristino
dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il
responsabile dell’ufficio irroga una sanzione pecuniaria
pari al doppio dell'aumento di valore dell'immobile»)
riguardano una fase procedimentale successiva ed eventuale,
dal momento che il destinatario dell’ordine di demolizione
può preferire –entro il termine di novanta giorni, decorso
il quale si verifica il prospettato acquisto del bene da
parte dell’Amministrazione comunale– di adeguare la
situazione di fatto a quella di diritto e di non pagare la
somma corrispondente al doppio dell’aumento di valore
dell’immobile;
- in altri termini, per l’applicabilità del medesimo art.
33, comma 2, occorre la sussistenza di alcuni presupposti,
tra cui proprio la previa emanazione dell’ordine di
demolizione, l’istanza tempestiva del destinatario
dell’ordine ed un «motivato accertamento dell’ufficio
tecnico comunale» sulla impossibilità materiale di
ripristinare lo stato dei luoghi, configurabile soltanto
quando «la demolizione, per le sue conseguenze materiali,
inciderebbe sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso»
legittimamente realizzato (cfr. ex plurimis Consiglio di
Stato, Sez. VI, 30.03.2017, n. 1484; Sez. VI, 09.04.2013, n. 1912), il che non avviene –in linea di principio-
quando si tratta di eliminare opere realizzate in aggiunta a
un manufatto preesistente.
7. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 17.05.2017 n. 2347 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
proposizione d’istanza di accertamento di conformità, ai
sensi dell’art. 36 del d.P.R. 380/2001, successivamente
all’emissione dell’ordinanza di demolizione, lungi da
determinare tout court l’illegittimità della sanzione
adottata, incide unicamente sulla potestà del Comune di
portare ad immediata esecuzione la sanzione.
---------------
6. Col primo motivo d’appello, l’appellante ripropone la
medesima censura già dedotta in prime cure incentrata
sull’argomento che la presentazione d’istanza di
accertamento di conformità, in tempo successivo
all’emanazione dell’ordinanza di demolizione, condurrebbe
all’illegittimità della sanzione adottata.
7. Il motivo è infondato.
7.1 Va data continuità all’indirizzo giurisprudenziale, qui
condiviso, a mente del quale la proposizione d’istanza di
accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36 del d.P.R.
380/2001, successivamente all’emissione dell’ordinanza di
demolizione, lungi da determinare tout court l’illegittimità
della sanzione adottata, incide unicamente sulla potestà del
Comune di portare ad immediata esecuzione la sanzione (cfr.
Consiglio di Stato, sez, IV, 19.02.2008 n. 849)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 17.05.2017 n. 2338 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il lungo periodo di tempo intercorrente tra la
realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento
sanzionatorio è circostanza che non rileva ai fini della
legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso
affidamento circa la legittimità dell'opera che il protrarsi
del comportamento inerte del Comune avrebbe ingenerato nel
responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un
ipotizzato ulteriore obbligo, per l'Amministrazione
procedente, di motivare specificamente il provvedimento in
ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a
far demolire il manufatto, poiché la lunga durata nel tempo
dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza
il carattere abusivo.
Infatti, è di per sé ordinariamente irrilevante –ad
eccezione di casi particolari qui non sussistenti– il tempo
intercorrente tra la commissione di un abuso edilizio e
l’emanazione del provvedimento di demolizione.
Quando risulta realizzato un manufatto abusivo, e malgrado
il decorso del tempo, l’amministrazione deve senza indugio
emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver
riscontrato opere abusive: il provvedimento deve intendersi
sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata
abusività dell'opera, essendo “in re ipsa” l'interesse
pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione.
Da un lato, quando è realizzato un abuso edilizio non
è radicalmente prospettabile un legittimo affidamento.
Dall’altro, il proprietario non si può di certo dolere
del ritardo con cui l’amministrazione –a causa del mancato
accertamento dell’abuso o per la connivenza degli organi
pubblici pro tempore– abbia emanato il provvedimento che la
legge impone di emanare immediatamente.
La legge non ha mai attribuito rilievo sanante al ritardo
con cui l’Amministrazione emana l’atto conseguente alla
commissione dell’abuso edilizio, né si può affermare che
l’inerzia o la connivenza degli organi pubblici possano
comportare una sostanziale sanatoria, che la legge invece
disciplina solo in casi tassativi, o con leggi straordinarie
sul condono o con la normativa sull’accertamento di
conformità.
Inoltre, il procedimento di accertamento di conformità delle
opere promosso dal ricorrente esclude la sussistenza di
alcun affidamento, mentre l’interesse pubblico alla
rimozione delle opere abusive è in re ipsa.
---------------
Constatata l’esistenza di un abuso edilizio, l’ordine di
demolizione –e, in caso d’inottemperanza, l’acquisizione al
patrimonio del Comune– è atto vincolato che non richiede
alcuna specifica valutazione di ragioni d’interesse pubblico
e attuale alla demolizione, né comparazione con gli
interessi privati coinvolti, non essendo configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
d’illecito permanente che il tempo non può legittimare in
via di fatto.
---------------
8. Col secondo motivo, l’appellante lamenta che i giudici di
prime cure non hanno dato alcun rilievo all’affidamento
maturato sulla legittimità delle opere stante il lungo lasso
di tempo trascorso dall’avvenuta realizzazione di esse fino
al momento dell’adozione della sanzione impugnata.
9. Il motivo è infondato e va respinto.
9.1 I manufatti oggetto dei provvedimenti gravati consistono
in un fabbricato di circa 88, 00 mq, allo stato grezzo e due
manufatti, rispettivamente di 2,5 mq e 9,8 mq, ottenuti
dall’assemblaggio precario di elementi in legno e lamiera
grecata, realizzati –circostanza di fatto non contestata–
in assenza di titolo abilitativo.
9.2 Il lungo periodo di tempo intercorrente tra la
realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento
sanzionatorio è circostanza che non rileva ai fini della
legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso
affidamento circa la legittimità dell'opera che il protrarsi
del comportamento inerte del Comune avrebbe ingenerato nel
responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un
ipotizzato ulteriore obbligo, per l'Amministrazione
procedente, di motivare specificamente il provvedimento in
ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a
far demolire il manufatto, poiché la lunga durata nel tempo
dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza
il carattere abusivo.
Infatti, è di per sé ordinariamente irrilevante –ad
eccezione di casi particolari qui non sussistenti– il tempo
intercorrente tra la commissione di un abuso edilizio e
l’emanazione del provvedimento di demolizione.
9.3 Quando risulta realizzato un manufatto abusivo, e
malgrado il decorso del tempo, l’amministrazione deve senza
indugio emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di
aver riscontrato opere abusive: il provvedimento deve
intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione
dell'accertata abusività dell'opera, essendo “in re ipsa”
l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione
(cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 02.10.2014, n. 4892;
sez. V, 11.07.2014, n. 3568; sez. IV, 31.08.2010, n.
3955).
Da un lato, quando è realizzato un abuso edilizio non è
radicalmente prospettabile un legittimo affidamento. Dall’altro, il proprietario non si può di certo dolere del
ritardo con cui l’amministrazione –a causa del mancato
accertamento dell’abuso o per la connivenza degli organi
pubblici pro tempore– abbia emanato il provvedimento che la
legge impone di emanare immediatamente.
La legge non ha mai attribuito rilievo sanante al ritardo
con cui l’Amministrazione emana l’atto conseguente alla
commissione dell’abuso edilizio, né si può affermare che
l’inerzia o la connivenza degli organi pubblici possano
comportare una sostanziale sanatoria, che la legge invece
disciplina solo in casi tassativi, o con leggi straordinarie
sul condono o con la normativa sull’accertamento di
conformità.
Inoltre, il procedimento di accertamento di conformità delle
opere promosso dal ricorrente esclude la sussistenza di
alcun affidamento, mentre l’interesse pubblico alla
rimozione delle opere abusive è in re ipsa.
Costituisce orientamento giurisprudenziale consolidato, da
cui non sussistono giustificati motivi per qui discostarsi,
che constatata l’esistenza di un abuso edilizio, l’ordine di
demolizione –e, in caso d’inottemperanza, l’acquisizione al
patrimonio del Comune– è atto vincolato che non richiede
alcuna specifica valutazione di ragioni d’interesse pubblico
e attuale alla demolizione, né comparazione con gli
interessi privati coinvolti, non essendo configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
d’illecito permanente che il tempo non può legittimare in
via di fatto (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 13.05.2016 n.
1948; Id., sez. VI, 05.05.2016 n. 1774).
10. Conclusivamente l’appello deve essere respinto
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 17.05.2017 n. 2338 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ordine di demolizione di un immobile abusivo oggetto di
sequestro penale.
---------------
Edilizia
– Abusi – Demolizione immobile sottoposto a sequestro penale
– Invalidità ed inefficacia.
E’ invalido, e,
comunque, inefficace, l'ordine di demolizione, e i
conseguenti provvedimenti sanzionatori, di un immobile
abusivo colpito da sequestro penale ex art. 31, d.P.R.
06.06.2001, n. 380 (1).
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(1) La Sezione ha dato atto che l’indirizzo giurisprudenziale
prevalente, sia amministrativo (cfr. ex multis
Cons. St., sez. VI, 28.01.2016, n. 283), che
penale (Cass. pen., sez. III, 14.01.2009, n. 9186), ritiene
irrilevante la pendenza di un sequestro, ai fini della
legittimità dell’ordine di demolizione, della sua
eseguibilità e, quindi, della validità dei conseguenti
provvedimenti sanzionatori, sulla base della non
qualificabilità della misura cautelare reale quale
impedimento assoluto all’attuazione dell’ingiunzione, in
ragione della possibilità, per il destinatario dell’ordine,
di ottenere il dissequestro del bene ai sensi dell’art. 85
disp. att. c.p.p.
Da tale orientamento la Sezione si è però motivatamente
discostata per una serie di ragioni.
La prima argomentazione si fonda sul fatto che l’ordine di
demolizione di un immobile colpito da un sequestro penale
dovrebbe essere ritenuto affetto dal vizio di nullità, ai
sensi dell’art. 21-septies l. 07.08.1990, n. 241 (in
relazione agli artt. 1346 e 1418 c.c.), e, quindi,
radicalmente inefficace, per l’assenza di un elemento
essenziale dell’atto, tale dovendo intendersi la possibilità
giuridica dell’oggetto del comando. L’ordine di una condotta
giuridicamente impossibile si rivela privo di un elemento
essenziale e, come tale, affetto da invalidità radicale, e,
in ogni caso, inidoneo a produrre qualsivoglia effetto di
diritto.
A tale conclusione si ritiene potersi pervenire con riguardo
ai casi in cui –come in quello di specie– l’ordine di
demolizione (o di riduzione in pristino stato) sia stato
adottato nella vigenza di un sequestro penale (di qualsiasi
genere; ma sulla distinzione tra i diversi tipi di sequestro
del processo penale si tornerà infra).
A tale argomentazione la Sezione ha aggiunto che le misure
contemplate dall’art. 31, commi 3 e 4-bis, d.P.R. n. 380 del
2001, rivestono carattere chiaramente sanzionatorio e, come
tali, esigono, per la loro valida applicazione, l’ascrivibilità
dell’inottemperanza alla colpa del destinatario
dell’ingiunzione rimasta ineseguita, in ossequio ai canoni
generali ai quali deve obbedire ogni ipotesi di
responsabilità. Ma nella situazione considerata non è dato
ravvisare alcun profilo di rimproverabilità nella condotta
(necessariamente) inerte del destinatario dell’ordine di
demolizione, al quale resta, infatti, preclusa l’esecuzione
del comando da un altro provvedimento giudiziario che gli ha
sottratto la disponibilità giuridica e fattuale del bene.
L’irrogazione di una sanzione per una condotta che non può
in alcun modo essere soggettivamente ascritta alla colpa del
soggetto colpito dalla sanzione stessa, non può che essere
giudicata illegittima per il difetto del necessario elemento
psicologico della violazione.
Ha ancora affermato il giudice di appello che a quanto già
detto si aggiunge una ragione di equità: non può esigersi
–e, giuridicamente, non lo si può soprattutto in difetto di
un’espressa previsione di legge in tal senso, stante anche
il divieto di prestazioni imposte se non che per legge, ex
art. 23 Cost.– che il cittadino impieghi tempo e risorse
economiche per ottenere la restituzione di un bene di sua
proprietà, ai soli fini della sua distruzione (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 17.05.2017 n. 2337
- link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
3. – Risulta, in particolare, fondata l’argomentazione,
svolta soprattutto nel terzo motivo di appello, con cui la
società appellante sostiene l’inapplicabilità delle sanzioni
previste per l’inottemperanza a ordini di demolizione di
manufatti abusivi, nelle ipotesi, quale quella in esame, in
cui l’immobile sia sottoposto a sequestro penale.
La questione, quindi, si risolve nella disamina della
validità o dell’efficacia dei provvedimenti sanzionatori
adottati sulla base del rilievo dell’omessa esecuzione di
presupposti ordini di demolizione (o di riduzione in
pristino) di opere abusive, che esulano, tuttavia, dalla
disponibilità del destinatario dell’ordinanza rimasta
inattuata, in quanto sequestrati dal giudice penale.
Tale problema, tuttavia, implica anche la soluzione della
(logicamente) presupposta questione della validità (e
dell’efficacia) dell’ordine di demolizione, per la cui
inottemperanza sono state irrogate le misure sanzionatorie
previste dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001.
4. – Il Collegio non ignora che l’indirizzo
giurisprudenziale prevalente, sia amministrativo (cfr. ex
multis Cons. St., sez. VI, 28.01.2016, n. 283),
sia
penale (Cass. Pen., sez. III, 14.01.2009, n.9186),
ritiene irrilevante la pendenza di un sequestro, ai fini
della legittimità dell’ordine di demolizione, della sua
eseguibilità e, quindi, della validità dei conseguenti
provvedimenti sanzionatori, sulla base della non qualificabilità della misura cautelare reale quale
impedimento assoluto all’attuazione dell’ingiunzione, in
ragione della possibilità, per il destinatario dell’ordine,
di ottenere il dissequestro del bene ai sensi dell’art. 85 disp. att. c.p.p.; ma reputa di dissentire da tale
orientamento, per le ragioni di seguito sinteticamente
(tenendo conto, per quanto possibile, della forma
semplificata della presente sentenza) esposte.
5. – Con una prima, e, per certi versi, dirimente,
argomentazione, l’ordine di demolizione di un immobile
colpito da un sequestro penale dovrebbe essere ritenuto
affetto dal vizio di nullità, ai sensi dell’art.21-septies
l. n. 241 del 1990 (in relazione agli artt. 1346 e 1418
c.c.), e, quindi, radicalmente inefficace, per l’assenza di
un elemento essenziale dell’atto, tale dovendo intendersi la
possibilità giuridica dell’oggetto del comando.
In altri termini, l’ingiunzione che impone un obbligo di
facere inesigibile, in quanto rivolto alla demolizione di un
immobile che è stato sottratto alla disponibilità del
destinatario del comando (il quale, se eseguisse
l’ordinanza, commetterebbe il reato di cui all’art. 334
c.p.), difetta di una condizione costituiva dell’ordine, e
cioè, l’imposizione di un dovere eseguibile (C.G.A.R.S.,
Sezioni Riunite, parere n. 1175 del 09.07.2013 – 20.11.2014, sull’affare n. 62/2013).
In quest’ordine di idee, l’ordine di una condotta
giuridicamente impossibile si rivela, quindi, privo di un
elemento essenziale e, come tale, affetto da invalidità
radicale, e, in ogni caso, per quanto qui rileva, inidoneo a
produrre qualsivoglia effetto di diritto.
A tale conclusione si ritiene potersi pervenire con riguardo
ai casi in cui –come in quello di specie–
l’ordine di
demolizione (o di riduzione in pristino stato) sia stato
adottato nella vigenza di un sequestro penale (di qualsiasi
genere; ma sulla distinzione tra i diversi tipi di sequestro
del processo penale si tornerà infra).
6. – L’affermazione dell’eseguibilità dell’ingiunzione di
demolizione di un bene sequestrato, per quanto tralatiziamente ricorrente nella giurisprudenza
amministrativa, non può, infatti, essere convincentemente
sostenuta sulla base dell’assunto della configurabilità di
un dovere di collaborazione del responsabile dell’abuso, ai
fini dell’ottenimento del dissequestro e della conseguente
attuazione dell’ingiunzione.
Tale argomentazione dev’essere, infatti, radicalmente
rifiutata: sia perché riferisce a un’eventualità futura,
astratta e indipendente dalla volontà dell’interessato la
stessa possibilità (giuridica e materiale) di esecuzione
dell’ingiunzione, mentre, come si è visto, l’impossibilità
dell’oggetto attiene al momento genetico dell’ordine e lo
vizia insanabilmente all’atto della sua adozione; sia
perché, assiomaticamente, finisce per imporre al privato una
condotta priva di qualsivoglia fondamento giuridico
positivo; sia, infine, perché si risolve nella prescrizione
di una iniziativa processuale (l’istanza di dissequestro)
che potrebbe contraddire le strategie difensive liberamente
opzionabili dall’indagato (o dall’imputato) nel processo
penale, peraltro interferendo inammissibilmente
nell’esercizio di un diritto costituzionalmente protetto,
quale quello di difesa (basti porre mente, in proposito, al
caso che il mantenimento del sequestro penale –sub specie
probatorio, ex art. 253 c.p.p.– risulti funzionale ad
assicurare, per il seguito delle indagini o per il
dibattimento, la prova che quanto realizzato non fosse
abusivo, o non fosse conforme a quanto contestato o ritenuto
dalla pubblica accusa, ovvero avesse altre caratteristiche
scriminanti o anche solo attenuanti l’illiceità penale del
fatto ascritto).
7. – Si aggiunga, ancora, che le misure contemplate
dall’art. 31, commi 3 e 4-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001,
rivestono carattere chiaramente sanzionatorio e, come tali,
esigono, per la loro valida applicazione, l’ascrivibilità
dell’inottemperanza alla colpa del destinatario
dell’ingiunzione rimasta ineseguita, in ossequio ai canoni
generali ai quali deve obbedire ogni ipotesi di
responsabilità.
Sennonché, nella situazione considerata, non è dato
ravvisare alcun profilo di rimproverabilità nella condotta
(necessariamente) inerte del destinatario dell’ordine di
demolizione, al quale resta, infatti, preclusa l’esecuzione
del comando da un altro provvedimento giudiziario che gli ha
sottratto la disponibilità giuridica e fattuale del bene.
Come si vede, quindi, l’irrogazione di una sanzione (che di
questo si tratta) per una condotta che non può in alcun modo
essere soggettivamente ascritta alla colpa del soggetto
colpito dalla sanzione stessa, non può che essere giudicata
illegittima per il difetto del necessario elemento
psicologico della violazione.
8. – Fermo restando il carattere assorbente delle
considerazioni appena svolte, resta da aggiungere un
argomento, tutt’altro che secondario, di equità (ma, come
tosto si dirà, non solo equitativo): non può esigersi –e,
giuridicamente, non lo si può soprattutto in difetto di
un’espressa previsione di legge in tal senso, stante anche
il divieto di prestazioni imposte se non che per legge, ex
art. 23 Cost.– che il cittadino impieghi tempo e risorse
economiche per ottenere la restituzione di un bene di sua
proprietà, ai soli fini della sua distruzione.
Si tratta di un’argomentazione la cui valenza logica e
intuitiva esime da ogni ulteriore spiegazione, restando
immediatamente percepibile l’iniquità dell’imposizione di un
dispendioso onere di diligenza, finalizzato solo alla
distruzione del bene (ancora) di proprietà del destinatario
dell’ingiunzione.
Per ulteriori considerazioni critiche in proposito –se il
dissequestro, più o meno legittimamente, fosse negato, vi
sarebbe anche un onere di gravame? E fino a che grado? O
andrebbe riproposta l’istanza? E quando, e quante volte? –
può rinviarsi al cit. parere del C.G.A.R.S. n. 62/2013; del
quale però merita condividersi la conclusione, nel senso che
“la tesi [qui avversata] si appalesa, quindi, poco
approfondita in punto di diritto e apoditticamente
sostenuta”.
Essa implica, infatti, l’imposizione di un onere di
diligenza per il quale –al di là della sua assertiva
invocazione ad opera di alcune prospettazioni giuridiche,
che potrebbero forse sembrare più inopinatamente zelanti
nella repressione degli abusi edilizi che adeguatamente
attente al rispetto dei principi fondanti dell’ordinamento
giuridico (ivi incluso quello ex art. 23 Cost., che si è già
richiamato supra)– risulterebbe davvero complicato
rinvenire un convincente fondamento normativo positivo; che,
anzi, sembra da escludere, purché si tenga in adeguata
considerazione l’esigenza che le sanzioni (non solo quelle
penali: nemo tenetur se detergere; ma anche quelle
amministrative) siano, almeno tendenzialmente, strutturate
per essere applicate dai pubblici poteri, piuttosto che
autoeseguite a proprio danno dallo stesso soggetto
destinatario di esse.
9. – Nondimeno –sia per l’ipotesi che si ritenesse di poter
prescindere dalla più persuasiva prospettazione, che si è
sin qui illustrata, che qualifica in termini di nullità il
vizio che affligge l’ordinanza di demolizione emanata nella
pendenza del sequestro dell’immobile di cui trattasi; sia,
comunque, con riferimento ai casi in cui l’ordine
demolitorio o ripristinatorio sia stato adottato (e, in tal
caso, validamente) in un momento in cui il bene non fosse
sequestrato, ma venga invece sequestrato successivamente e
nella pendenza del termine assegnato per ottemperare
all’ingiunzione de qua– va ulteriormente indagato, per
completezza di sistema, il tema dell’incidenza del sequestro
penale (se non, in queste ipotesi, sulla validità)
sull’efficacia dell’ordine di demolire e, derivativamente,
sulla decorrenza o meno del termine a tal fine assegnato
fintanto che il sequestro permanga efficace.
Limitandocisi in questa sede a un mero richiamo delle
argomentazioni dogmatiche più approfonditamente svolte nel
più volte cit. parere del C.G.A.R.S. n. 62/2013 –in tema di
distinzione tra nullità, come difetto strutturale originario
di uno degli elementi essenziali dell’atto giuridico (sub
specie, qui, di possibilità dell’oggetto), e inefficacia,
allorché tali elementi essenziali (e qui, dunque, la ridetta
possibilità), originariamente sussistenti, vengano meno
successivamente in modo temporaneo o definitivo, in
quest’ultimo caso dandosi adito a una causa estintiva degli
efficacia dell’atto (per impossibilità sopravvenuta) e
invece nel primo solamente a una temporanea sospensione di
tale efficacia– occorre evidenziare che, finché il
sequestro perdura, la demolizione (anche se validamente
ingiunta: vuoi perché disposta anteriormente al sequestro,
ossia in un momento in cui il suo destinatario, essendo in bonis, aveva la possibilità giuridica di ottemperarvi; vuoi,
ipoteticamente, perché non si condivida la tesi, invero
dogmaticamente più coerente, della nullità per impossibilità
giuridica dell’oggetto del provvedimento che abbia ingiunto
la demolizione in costanza di sequestro) certamente non può
eseguirsi.
A questo semplice rilievo consegue necessariamente –e
perfino a prescindere dall’incoerente assunto, che pure si è
già confutato, secondo cui il destinatario dell’ordine demolitorio sarebbe tenuto ad attivarsi per chiedere il
dissequestro ai soli fini della demolizione: giacché
certamente non lo si potrebbe pure onerare del fatto del
terzo, ossia di ottenere tale risultato entro il termine di
90 giorni normalmente assegnatogli– che, per tutto il tempo
in cui il sequestro perdura (e, qui si aggiunge,
indipendentemente dalla condotta attiva o passiva serbata
dall’autore dell’abuso rispetto al sequestro stesso), la non
ottemperanza all’ordine di demolizione non può qualificarsi
non iure, appunto a causa della già rilevata oggettiva
impossibilità giuridica di procedervi.
Ciò non può non implicare, come conseguenza giuridicamente
necessaria, l’interruzione o, quantomeno, la sospensione del
decorso del termine assegnato per demolire, per tutto il
tempo in cui il sequestro rimane efficace.
Detto termine, dunque, inizierà nuovamente a decorrere –per
intero ovvero per la sua parte residua, secondo che si opti
per l’interruzione o per la sospensione di esso in costanza
di sequestro– solo allorché il sequestro venga meno, per
qualunque ragione.
Merita evidenziarsi che l’assunto, qui propugnato, che il
destinatario dell’ordine di demolizione non possa
considerarsi giuridicamente onerato di richiedere il
dissequestro per poter demolire non implica affatto né che
ciò gli sia precluso (potrebbe, infatti, avervi interesse,
per esempio per azzerare la situazione di abusivismo e poter
così richiedere ex novo un titolo edilizio urbanisticamente
conforme per riprendere l’attività edificatoria secundum
legem); né che il dissequestro non possa essere richiesto
all’Autorità giudiziaria penale da parte di chiunque altro
vi abbia interesse: ossia, in primis, dalla stessa
Amministrazione che abbia ingiunto (prima del sequestro,
secondo la tesi qui condivisa) o che intenda ingiungere (non
appena venuto meno il sequestro) la demolizione, con
l’effetto di far ripartire prima possibile il decorso del
termine per demolire e di far produrre, in difetto, le
ulteriori conseguenze (acquisitive) che la legge riconnette
all’inutile decorso di detto termine; ma anche, nei congrui
casi, ai soggetti pubblici e privati controinteressati al
mantenimento dell’opera edilizia abusiva, che abbiano
comunanza di intenti e di interessi con l’Amministrazione
procedente.
Infatti, il venir meno del sequestro –da chiunque provocato
o indotto, e anche se spontaneamente disposto dall’Autorità
giudiziaria procedente– consente ex se all’Amministrazione
di ingiungere, o di reiterare, la demolizione; ovvero
produce, parimenti in via automatica, l’effetto di far
cessare la causa di sospensione (o interruzione) del decorso
del termine entro cui deve essere eseguita la demolizione,
con ogni ulteriore conseguenza di legge in difetto.
Sicché, come ognun vede, si riduce a una mera petizione di
principio –non suffragata, però, da adeguati indici
normativi a suo supporto– l’assunto che il sistema non
possa prescindere dall’onerare il proprietario di
richiedere, contra se, il dissequestro al fine di demolire,
e che perciò tale onere sia necessariamente insito nel
sistema stesso.
Tutto all’opposto, non solo di tale onere non è dato
rinvenire alcun fondamento positivo –e neppure nell’art. 85 disp. att. al c.p.p., che viene solitamente invocato a tal
fine, giacché esso contempla un’ipotesi, e peraltro soltanto
“se l’interessato consente”, ma non radica alcun obbligo in
proposito– ma anzi i principi fondamentali dell’ordinamento
sembrano deporre nel senso della sua esclusione: viepiù ove
si consideri che la funzionalità dell’istituto in discorso
(ossia dell’ordine di demolizione) è comunque assicurata,
pur di fronte all’inerzia dell’Autorità giudiziaria
procedente, dalla facoltà di attivarsi per richiedere a
quest’ultima il dissequestro che deve riconoscersi
all’Amministrazione, oltre che a ogni altro soggetto che
possa vantare analogo interesse.
Beninteso, l’Autorità giudiziaria adita da un’istanza di
dissequestro, da chiunque proposta, potrebbe disporlo –benché “ai soli fini della demolizione”– solo laddove il
mantenimento del sequestro non sia (più) funzionale alle
pertinenti esigenze processuali penali: ossia,
fisiologicamente, solo in casi tendenzialmente abbastanza
limitati e particolari.
Come è noto, infatti, il codice di procedura penale conosce
essenzialmente tre tipologie di sequestro: quello (c.d.
probatorio penale) ex art. 253 c.p.p., che disciplina “il
sequestro del corpo del reato e delle cose pertinenti al
reato necessarie per l'accertamento dei fatti”; quello (c.d.
preventivo) ex art. 321 c.p.p., che è volto a prevenire “che
la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato
possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero
agevolare la commissione di altri reati”; e quello (c.d.
conservativo) ex art. 316 c.p.p., che è volto a evitare “che
manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento della
pena pecuniaria, delle spese di procedimento e di ogni altra
somma dovuta all’erario dello Stato”.
È del tutto evidente che solo il sequestro preventivo può
considerarsi normalmente “cedevole” rispetto alle esigenze
della demolizione (giacché essa tendenzialmente elide le
conseguenza del reato e ne previene la commissione di
ulteriori); laddove, almeno in linea di massima, le esigenze
probatorie del sequestro penale e quelle di garanzia del
sequestro conservativo dovrebbero essere considerate
prevalenti su ogni altra.
In tal senso pare in effetti disporre, abbastanza
univocamente, l’art. 262 c.p.p., che disciplina la “Durata
del sequestro e restituzione delle cose sequestrate” (“1.
Quando non è necessario mantenere il sequestro a fini di
prova, le cose sequestrate sono restituite a chi ne abbia
diritto, anche prima della sentenza. Se occorre, l'autorità
giudiziaria prescrive di presentare a ogni richiesta le cose
restituite e a tal fine può imporre cauzione. 2. Nel caso
previsto dal comma 1, la restituzione non è ordinata se il
giudice dispone, a richiesta del pubblico ministero o della
parte civile, che sulle cose appartenenti all'imputato o al
responsabile civile sia mantenuto il sequestro a garanzia
dei crediti indicati nell'articolo 316. 3. Non si fa luogo
alla restituzione e il sequestro è mantenuto ai fini
preventivi quando il giudice provvede a norma dell'articolo
321”).
Dall’esame congiunto dei suoi tre commi pare potersi
cogliere, dunque, una comprensibile prevalenza delle
esigenze sottese al c.d. sequestro probatorio penale,
rispetto alle quali sono accessorie quelle tutelate dal
sequestro conservativo; mentre risultano sostanzialmente
residuali quelle sottese al sequestro preventivo.
Nella misura in cui queste considerazioni colgano nel segno,
risulterebbe fortemente svalutata nel sistema la tematica
connessa alle istanze di dissequestro; il che costituirebbe
un ulteriore argomento esegetico nel senso della fallacia
delle tesi che non solo vorrebbero onerare (quantomeno
praeter legem) il destinatario dell’ordine demolitorio a
richiederlo, ma che tendono altresì a sanzionare
l’inottemperanza a tale preteso onere con l’acquisizione. La
quale, invece, sembra essere prevista dalla legge solo a
fronte di una condotta, parimenti omissiva, ma ben diversa:
ossia per chi, ovviamente potendolo giuridicamente fare, non
demolisca l’immobile (e non anche per chi, assertivamente
tenuto a chiedere al giudice il dissequestro, ometta di
formulare istanze in tal senso).
Sicché è anche il fondamentale principio di tipicità delle
sanzioni a ulteriormente confortare la conclusione cui il
Collegio qui perviene. |
URBANISTICA:
Rinegoziazione di una convezione di lottizzazione.
---------------
•
Piani di lottizzazione – Oneri di urbanizzazione – Ratio –
Differenza con i costi di costruzione.
•
Piani di lottizzazione – Oneri di urbanizzazione – Riduzione
per mancata realizzazione di tutta la volumetria
originariamente prevista – Conseguente riduzione oneri di
urbanizzazione – Esclusione.
•
Piani di
lottizzazione - Rinuncia alla realizzazione di un intervento
-. Offerta di cessione di area edificabile a scomputo dei
contributi di costruzione – Rinegoziazione secondo buona
fede – Obbligo di esaminare la proposta.
•
Gli oneri di urbanizzazione sono contributi dovuti ai Comuni
nei casi di modificazioni dell’assetto urbanistico-edilizio,
per partecipare alle spese che i Comuni sostengono per
l’urbanizzazione del loro territorio; i costi di
costruzione, invece, costituiscono una compartecipazione
comunale all'incremento di valore della proprietà
immobiliare del costruttore
(1).
•
Non è sufficiente rinunciare alla costruzione di uno dei
diversi edifici previsti in un piano di lottizzazione per
ottenere la riduzione degli oneri di urbanizzazione,
dovendosi al più chiedere una variante riduttiva del piano
di lottizzazione, modificando il layout della sua
configurazione, poiché il progetto delle urbanizzazioni
dipende dall’intera strutturazione del piano, a prescindere
dalla realizzazione o meno degli interventi edilizi in esso
pianificati
(2).
•
La rinuncia alla realizzazione di un intervento e l’offerta
del lottizzante di cedere al Comune l’area edificabile
(anche a scomputo dei contributi di costruzione) deve essere
presa in esame dal Comune, in virtù del principio del
diritto-obbligo alla rinegoziazione secondo buona fede, che
regola l’ambito delle convenzioni di lottizzazione e, più in
generale, quello degli strumenti privatistici a base
contrattuale o negoziale
(3).
---------------
(1) Ha ricordato
il Tar che gli oneri di urbanizzazione si dividono in
primaria e secondaria. I primi concorrono alla realizzazione
di strade, parcheggi, fognature, illuminazione pubblica,
verde pubblico, sistemi di distribuzione di acqua, energia,
gas. I secondi sono destinati a finanziare la realizzazione
di scuole, asili, centri civici, parchi urbani, impianti
sportivi, parcheggi pubblici. I criteri di applicazione,
fissati dalla normativa regionale e uniformi per tutto il
territorio regionale, indicano le modalità di applicazione e
i casi in cui ai Comuni è consentito modificare le entità
determinate dalla Regione.
I costi di costruzione sono invece dovuti ai Comuni nei casi
di nuova costruzione o ristrutturazione edilizia ed hanno un
valore misurato in percentuale variabile sul costo
standard
a metro quadro, fissato dalla Regione per le costruzioni di
edilizia agevolata.
(2) V.
Cons. St., sez. IV, 28.06.2016,
n. 2915.
(3) La premesso il Tar che il costo di costruzione, se è
vero che è commisurato alle volumetrie virtuali previste
nella lottizzazione, è altresì vero che non può prescindere
dall’effettiva realizzazione dell’intervento edilizio. Esso
richiede che vi sia un permesso di costruire e che il
conseguente l'intervento determini un aumento del carico
urbanistico (Tar
Napoli, sez. VIII, 07.04.2016, n. 1769)
ha aggiunto che l'art. 16 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 collega
il pagamento del costo di costruzione all'effettiva attività
edificatoria, in quanto gli oneri di costruzione
costituiscono una prestazione patrimoniale di natura
impositiva che trova la sua
ratio
giustificatrice nell'incremento patrimoniale che il titolare
del permesso di costruire consegue in dipendenza del
realizzando intervento edilizio.
Essendo il contributo in questione strettamente connesso al
concreto esercizio della facoltà di edificare, in misura
corrispondente all'entità e alla qualità del maggior carico
urbanistico conseguente alla realizzazione del fabbricato
assentito ed all'insieme dei benefici che la nuova opera ne
trae, la formazione del credito del Comune postula, quale
condizione di esigibilità, l'effettiva attività di
edificazione e comporta la corresponsione di un contributo
commisurato al costo di costruzione globalmente inteso, nel
senso che deve investire ed essere riferito all'intera
opera, per come assentita e realizzata (Tar
Lazio, sez. II quater, 12.05.2015, n. 6901).
Quanto alla rinegoziazione
delle convenzioni di lottizzazione, il Tar ha chiarito che è
la buona fede
in
executivis
che viene in rilievo, nonché la buona fede quale fonte di
eterointegrazione dell’accordo negoziale (artt. 1374 e 1375
c.c.). Il principio di rinegoziazione secondo buona fede ha,
infatti, un inevitabile impatto anche nei contratti e negli
accordi tra privati e Pubblica amministrazione. La
poliedrica clausola generale di buona fede, di cui la
rinegoziazione è una delle possibili declinazioni, è dotata
di straordinaria pervasività, ergendosi a regola non solo
del regolamento tra privati, ma come criterio generale dei
rapporti tra privati e P.A., al fine di preservare la
conservazione dell’equilibrio economico-giuridico fissato
nell’atto consensuale.
Anche in assenza di un’apposita clausola della convenzione
di lottizzazione che obblighi le parti a rinegoziare, è la
stessa struttura di
genus
dell’accordo sostitutivo di provvedimento,
ex
art. 11, l. 07.08.1990, n. 241, cui si può ricondurre la
species
della convenzione di lottizzazione, a imporre
all’Amministrazione pubblica di ponderare gli interessi
pubblici e privati coinvolti nel procedimento negoziato, non
solo nella fase genetica (l’accordo) ma anche nella fase
della sua esecuzione. Ciò anche in considerazione del fatto
che, tra i principi che reggono la negoziazione pubblica, vi
è quello di matrice comunitaria di “proporzionalità”,
a presidio del quale la rinegoziazione è evidentemente
predisposta
(TAR
Molise, sentenza 17.05.2017 n. 184 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Divieto per i cani di entrare nei parchi pubblici.
---------------
Sindaco – Ordinanza contingibile e urgente – Divieto
accesso ai cani nei parchi pubblici – In mancanza di
accertamento di emergenza sanitaria o di igiene pubblica.
E’ illegittima l’ordinanza sindacale
contingibile ed urgente che vieta l’accesso di cani, anche
accompagnati dai rispettivi conducenti, ad un parco
pubblico, per essere stata riscontrata “la presenza di
numerosi escrementi canini in ambito urbano comunale”, ove
sia mancato l’accertamento di un’emergenza sanitaria o di
igiene pubblica (1).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar che l’esercizio, da parte del sindaco, del
potere extra ordinem presuppone il requisito della
necessità di un intervento immediato, al fine di rimuovere
uno stato di grave pericolo per l'igiene e/o la salute
pubblica e caratterizzato da una situazione eccezionale e/o
imprevedibile da fronteggiare per mezzo di misure
straordinarie di carattere provvisorio e, pertanto, non
adeguatamente contrastabile tramite l'utilizzo degli
ordinari mezzi di carattere definitivo previsti
dall'ordinamento giuridico.
Le ordinanze contingibili e urgenti, derogando al principio
di tipicità dei provvedimenti amministrativi, impongono la
precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in
quanto solo in via temporanea può essere consentito l'uso di
strumenti extra ordinem, che permettono la
compressione di diritti ed interessi privati con mezzi
diversi da quelli tipici indicati dalla legge.
Nel caso all’esame del Tar il provvedimento impugnato, oltre
a non recare alcuna indicazione in ordine ai suoi limiti
temporali di efficacia, non è sorretto da una adeguata
istruttoria in ordine all’esistenza effettiva di
un’emergenza sanitaria o di igiene pubblica, tale
evidentemente non potendo considerarsi la mera rilevazione
di “escrementi canini in ambito urbano comunale”
Per completezza il Tar ha ricordato che la Regione Toscana,
con la legge n. 59 del 2009 ha disciplinato la “tutela
degli animali” da affezione, stabilendo all'art. 19 che
“ai cani accompagnati dal proprietario o da altro
detentore è consentito l'accesso a tutte le aree pubbliche e
di uso pubblico, compresi i giardini, i parchi e le spiagge;
in tali luoghi è obbligatorio l'uso del guinzaglio e della
museruola qualora previsto dalle norme statali”.
Stabilendo al secondo comma che è vietato l'accesso ai cani
solamente “in aree destinate e attrezzate per particolari
scopi, come le aree gioco per bambini, qualora a tal fine
sono chiaramente delimitate e segnalate con appositi
cartelli di divieto” (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 16.05.2017 n. 694
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
Il ricorso merita accoglimento.
Rivedendo con una più approfondita ponderazione quanto
ritenuto con l’ordinanza cautelare il Collegio è dell’avviso
che sussista la legittimazione a ricorrere
dell’associazione.
Si è infatti più volte affermato che, ai
sensi degli artt. 13 e 18, l. 08.07.1986, n. 349 —che
attribuiscono alle associazioni ambientalistiche
riconosciute, in via generale, la legittimazione processuale
per la tutela degli interessi di cui le stesse risultano
portatrici— sussiste sempre la legittimazione ad agire in
capo a un organismo associativo con finalità
ambientalistiche avverso provvedimenti lesivi degli
interessi diffusi o collettivi, perseguiti e protetti, tra i
quali rientra quello ad un corretto rapporto con gli animali
in genere e con gli addomesticati, in particolare
(TAR Molise, 17.02.2014 n. 104; TAR Puglia–Lecce, n.
732/2013; TAR Veneto, sez. III, 16.11.2010, n. 6045; ma
vedasi anche Cass. pen., sez. III, 04.10.2016 n. 52031, in
tema di legittimazione di tali associazioni a costituirsi
parte civile nei procedimenti relativi a reati commessi ai
danni di animali).
Nel caso concreto, l’art. 2 dello Statuto stabilisce che lo
scopo dell’associazione è quello di promuovere la difesa
della fauna ed il riconoscimento dei diritti soggettivi di
tutti gli animali e che, a tal fine, l’associazione “attua
o favorisce tutte le iniziative giuridiche, politiche,
culturali...idonee”.
Nel merito il ricorso è fondato, assumendo assorbente
rilievo quanto dedotto con il primo e terzo motivo in
relazione all’insussistenza dei presupposti di cui dell’art.
50, co. 5, d.lgs. n. 267/2000 e al difetto di istruttoria e
di motivazione.
Dispone la norma in parola che il sindaco può emettere
ordinanze contingibili e urgenti “in caso di emergenze
sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente
locale”.
La disposizione è pacificamente interpretata nel senso che
l’esercizio da parte del sindaco di tale potere
extra ordinem presuppone il requisito della necessità di
un intervento immediato, al fine di rimuovere uno stato di
grave pericolo per l'igiene e/o la salute pubblica e
caratterizzato da una situazione eccezionale e/o
imprevedibile da fronteggiare per mezzo di misure
straordinarie di carattere provvisorio e, pertanto, non
adeguatamente contrastabile tramite l'utilizzo degli
ordinari mezzi di carattere definitivo previsti
dall'ordinamento giuridico
(tra le più recenti, TAR Abruzzo, L'Aquila, 05.11.2015 n.
746; TAR Campania, sez. III, 01.06.2015 n. 3011; TAR
Lombardia, sez. III, 15.12.2014 n. 3039).
Si è altresì rilevato che, in quanto
derogano al principio di tipicità dei provvedimenti
amministrativi, le ordinanze contingibili e urgenti
impongono la precisa indicazione del limite temporale di
efficacia, in quanto solo in via temporanea può essere
consentito l'uso di strumenti "extra ordinem", che
permettono la compressione di diritti ed interessi privati
con mezzi diversi da quelli tipici indicati dalla legge
(TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 13.02.2015 n. 455).
Nel caso di specie, il provvedimento impugnato, oltre a non
recare alcuna indicazione in ordine ai suoi limiti temporali
di efficacia, non appare sorretto da una adeguata
istruttoria in ordine all’esistenza effettiva di
un’emergenza sanitaria o di igiene pubblica, tale
evidentemente non potendo considerarsi la mera rilevazione
di “escrementi canini in ambito urbano comunale”.
Per completezza d’argomentazione, pur non costituendo motivo
di ricorso, va rilevato che, come evidenziato dalla
ricorrente nella sua memoria conclusiva, la Regione Toscana,
con la legge n. 59/2009 ha disciplinato la “tutela degli
animali” da affezione, stabilendo all'art. 19 che “ai
cani accompagnati dal proprietario o da altro detentore è
consentito l'accesso a tutte le aree pubbliche e di uso
pubblico, compresi i giardini, i parchi e le spiagge; in
tali luoghi è obbligatorio l'uso del guinzaglio e della
museruola qualora previsto dalle norme statali”.
Stabilendo al secondo comma che è vietato l'accesso ai cani
solamente “in aree destinate e attrezzate per particolari
scopi, come le aree gioco per bambini, qualora a tal fine
sono chiaramente delimitate e segnalate con appositi
cartelli di divieto”.
Ne discende, per le ragioni esposte che il ricorso va
accolto con il conseguente annullamento dell’atto impugnato. |
APPALTI: Anche
in tema di gare pubbliche, ai fini della decorrenza del
termine di impugnazione dei provvedimenti relativi ad una
gara pubblica, assume rilevanza l’effettiva “piena
conoscenza” dei provvedimenti stessi, ancorché sia acquisita
in fase di seduta pubblica o in un’altra circostanza e
anteriormente alla formale comunicazione di cui all’art. 79
del d.lgs. n. 163/2006 (ora art. 76 del d.lgs. n. 50/2016):
ciò perché la disposizione ora menzionata, se risponde al
fine di garantire piena conoscenza e certezza della data di
conoscenza in relazione agli atti di esclusione e di
aggiudicazione della gara, non prevede forme di
comunicazione esclusive o tassative e consente che la “piena
conoscenza” dell’atto sia acquisita con altre forme,
ovviamente con onere della prova a carico di chi eccepisce
l’avvenuta piena conoscenza con forme diverse da quelle
tipiche prescritte.
In definitiva, l’art. 79 cit. non incide sulle regole
processuali generali del processo amministrativo in tema di
decorrenza dei termini di impugnazione –dalla data della
notificazione, comunicazione o, comunque, piena conoscenza
dell’atto– ex art. 120, comma 5, c.p.a..
Un recente arresto ha richiamato la ratio acceleratoria
della disciplina processuale di cui all’art. 120 c.p.a.,
osservando che gli eventuali problemi di coordinamento con
la normativa regolante l’accesso agli atti possono essere
superati con il rimedio –prima ricordato– della proposizione
dei motivi aggiunti per profili di illegittimità conosciuti
successivamente, in virtù dell’integrale conoscenza degli
atti. La decisione in commento ha, peraltro, precisato che
qualsiasi profilo relativo ad eventuali impedimenti nel
prendere visione degli atti di gara, ai fini della
proposizione dell’impugnativa, va improntato al principio di
diligenza delle parti, che debbono attivarsi tempestivamente
onde ottenere l’accesso agli atti secondo i mezzi messi loro
a disposizione dall’ordinamento.
---------------
La suesposta eccezione di tardività va esaminata alla
stregua dei principi giurisprudenziali in tema di “piena
conoscenza” degli atti amministrativi lesivi.
In particolare, è orientamento consolidato in giurisprudenza
quello per il quale la piena conoscenza del provvedimento
–da cui decorre il termine decadenziale per proporre
ricorso– è integrata dalla cognizione dei suoi elementi
essenziali, del suo contenuto dispositivo e della sua
lesività rispetto agli interessi del ricorrente, senza che,
per contro, sia necessaria la completa acquisizione di tutti
gli atti del procedimento e del contenuto integrale della
determinazione conclusiva (cfr., ex plurimis, C.d.S.,
Sez. IV, 14.06.2016, n. 2565; id., Sez. V, 07.08.2015, n.
3881; id., Sez. III, 16.06.2015, n. 3025).
In altre parole, l’impugnazione va ancorata al momento in
cui in concreto si è verificata ed è stata apprezzata la
situazione di lesività, poiché la piena conoscenza del
provvedimento che l’ha causata non può reputarsi operante
oltre ogni limite temporale, visto che ciò renderebbe
l’attività della P.A. e le iniziative dei controinteressati
suscettibili di impugnazione sine die (C.d.S., Sez.
IV, 19.08.2016, n. 3645).
Nondimeno, è altrettanto pacifica la facoltà di proporre
motivi aggiunti, ove l’accesso agli atti abbia consentito di
avere conoscenza di ulteriori profili di illegittimità
dell’atto impugnato (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VI,
30.11.2015, n. 5398).
In ogni caso, la verifica della “piena conoscenza”
dell’atto lesivo da parte del ricorrente, ai fini di
individuare la decorrenza del termine di proposizione del
ricorso, deve essere estremamente cauta e rigorosa, non
potendo basarsi su mere supposizioni o su deduzioni, pur se
sorrette da apprezzabili argomentazioni logiche: essa deve
risultare incontrovertibilmente da elementi oggettivi, ai
quali il giudice deve riferirsi, nell’esercizio del suo
potere di verifica d’ufficio dell’eventuale irricevibilità
del ricorso, o che debbono essere rigorosamente indicati
dalla parte che, nel processo, eccepisca l’irricevibilità
del ricorso (C.d.S., Sez. IV, 22.11.2016, n. 4900; TAR
Sicilia, Catania, Sez. I, 09.01.2017, n. 25).
Gli ora visti principi ricevono integrale applicazione anche
in tema di gare pubbliche. Infatti, ai fini della decorrenza
del termine di impugnazione dei provvedimenti relativi ad
una gara pubblica, assume rilevanza l’effettiva “piena
conoscenza” dei provvedimenti stessi, ancorché sia
acquisita in fase di seduta pubblica o in un’altra
circostanza e anteriormente alla formale comunicazione di
cui all’art. 79 del d.lgs. n. 163/2006 (ora art. 76 del
d.lgs. n. 50/2016): ciò perché la disposizione ora
menzionata, se risponde al fine di garantire piena
conoscenza e certezza della data di conoscenza in relazione
agli atti di esclusione e di aggiudicazione della gara, non
prevede forme di comunicazione esclusive o tassative e
consente che la “piena conoscenza” dell’atto sia
acquisita con altre forme, ovviamente con onere della prova
a carico di chi eccepisce l’avvenuta piena conoscenza con
forme diverse da quelle tipiche prescritte. In definitiva,
l’art. 79 cit. non incide sulle regole processuali generali
del processo amministrativo in tema di decorrenza dei
termini di impugnazione –dalla data della notificazione,
comunicazione o, comunque, piena conoscenza dell’atto– ex
art. 120, comma 5, c.p.a. (cfr., ex multis, C.d.S.,
Sez. IV, 17.02.2014, n. 740; id., Sez. VI, 13.12.2011, n.
6531; TAR Sicilia, Catania, Sez. II, 11.10.2016, n. 2555).
Un recente arresto (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII,
02.02.2017, n. 696) ha richiamato la ratio
acceleratoria della disciplina processuale di cui all’art.
120 c.p.a., osservando che gli eventuali problemi di
coordinamento con la normativa regolante l’accesso agli atti
possono essere superati con il rimedio –prima ricordato–
della proposizione dei motivi aggiunti per profili di
illegittimità conosciuti successivamente, in virtù
dell’integrale conoscenza degli atti. La decisione in
commento ha, peraltro, precisato che qualsiasi profilo
relativo ad eventuali impedimenti nel prendere visione degli
atti di gara, ai fini della proposizione dell’impugnativa,
va improntato al principio di diligenza delle parti, che
debbono attivarsi tempestivamente onde ottenere l’accesso
agli atti secondo i mezzi messi loro a disposizione
dall’ordinamento
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 15.05.2017 n. 471 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
commissione di gara dev'essere composta da un numero dispari
di membri e costituisce un collegio perfetto.
E' ben noto al Collegio come, nel vigore
del d.lgs. n. 163/2006, la giurisprudenza abbia negato che
la regola sulla composizione della Commissione di gara
pubblica con un numero dispari di componenti non superiore a
cinque, costituisse espressione di un principio generale,
immanente nell’ordinamento e tale da implicare
l’illegittimità della costituzione di un collegio con un
numero pari di componenti, essendo numerose le ipotesi di
collegi, sia giurisdizionali che amministrativi, che
operano, o occasionalmente possono operare, in composizione
paritaria.
Tuttavia, il Collegio sottolinea come la regola in parola,
già presente nell’art. 21, comma 5, della l. n. 109/1994 e
poi ribadita dall’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163/2006,
sia stata riaffermata categoricamente –e senza deroghe di
sorta– dall’art. 77, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016,
cosicché non si vede come la procedura in esame –esperita
nel vigore del d.lgs. n. 50 cit.– potesse ad essa sottrarsi.
La ridetta regola, del resto, risponde agli obiettivi di
garantire il computo del quorum strutturale e soddisfare le
necessità di funzionamento del principio maggioritario ed è
coerente con il principio in base al quale i collegi
perfetti (com’è la Commissione di gara) sono sempre composti
da un numero dispari di membri.
In secondo luogo, l’affidamento alle due Sottocommissioni in
cui era suddivisa la Commissione, del compito di valutare,
rispettivamente, le offerte economiche e le offerte
tecniche, a sua volta integra violazione dei principi in
tema di funzionamento dei collegi perfetti, per cui i
ridetti collegi debbono operare con l’interezza dei propri
membri, dovendo le decisioni essere assunte dal plenum.
A tal proposito la giurisprudenza ha affermato che:
•
“la commissione giudicatrice di gare d’appalto costituisce
un collegio perfetto che deve operare con il plenum e non
con la semplice maggioranza dei suoi componenti; pertanto,
le operazioni di gara propriamente valutative, quali la
fissazione dei criteri di massima e la valutazione delle
offerte non possono essere delegate a singoli membri o a
sottocommissioni, tanto più quando di queste facciano parte
soggetti estranei alla commissione aggiudicatrice”;
•
“La regola della collegialità perfetta alla quale deve
attenersi la Commissione di gara può essere derogata ogni
qualvolta non si tratti di compiere atti a carattere
valutativo e discrezionale; con la conseguenza che è
possibile delegare a singoli membri o a sottocommissioni
attività preparatorie” o meramente materiali;
•
“L’attività della commissione di gara può essere svolta, in
special modo quando si tratti di esprimere valutazioni
(spesso complesse) sotto il profilo tecnico-qualitativo,
attraverso l’articolazione in sottocommissioni o gruppi di
lavoro incaricati di svolgere l’istruttoria sulle singole
offerte ovvero su parti dei progetti tecnici presentati dai
concorrenti: la garanzia della collegialità è preservata
dalla esigenza che le attività istruttorie preliminari siano
esaminate dalla commissione aggiudicatrice nella sua
integrale composizione, e in tale veste la commissione
proceda alla attribuzione dei punteggi alle singole offerte
o progetti”.
---------------
Nel merito il ricorso è fondato e da accogliere, in virtù
della fondatezza delle censure (di cui ai nn. 1, 2 e 3 del
ricorso) mosse alla composizione della Commissione
giudicatrice ed all’affidamento ad apposite Sottocommissioni
della valutazione delle offerte.
Invero, dalla documentazione in atti (cfr. il verbale del
07.09.2016, all. 11 al ricorso e doc. 5 della Fondazione) si
ricava che la Commissione di gara era composta da due
Consiglieri di Gestione della Fondazione (dr. Ga. ed arch.
Ap.) e da due Conservatori del Museo Archeologico “Eno
Bellis” e della Pinacoteca “Alberto Martini”
(dr.ssa Ma. e dr.ssa Bo.). Si ricava, altresì, che la
ridetta Commissione si è divisa in due Sottocommissioni, la
prima formata dai Consiglieri di Gestione, con incarico di
esaminare le offerte economiche, la seconda formata dai due
Conservatori, con incarico di esaminare le offerte tecniche.
In questo modo, tuttavia, si è violata anzitutto la regola
–già contenuta nell’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163/2006
ed ora riproposta dall’art. 77, comma 2, del d.lgs. n.
50/2016– che impone che la Commissione di gara sia
costituita da un numero dispari di commissari, non superiore
a cinque.
Sul punto è ben noto al Collegio come, nel vigore del d.lgs.
n. 163/2006, la giurisprudenza abbia negato che la regola
sulla composizione della Commissione di gara pubblica con un
numero dispari di componenti non superiore a cinque,
costituisse espressione di un principio generale, immanente
nell’ordinamento e tale da implicare l’illegittimità della
costituzione di un collegio con un numero pari di
componenti, essendo numerose le ipotesi di collegi, sia
giurisdizionali che amministrativi, che operano, o
occasionalmente possono operare, in composizione paritaria
(cfr. C.d.S., Sez. III, 03.10.2013, n. 4884; id.,
11.07.2013, n. 3730).
Tuttavia, il Collegio sottolinea come la regola in parola,
già presente nell’art. 21, comma 5, della l. n. 109/1994 e
poi ribadita dall’art. 84, comma 2, del d.lgs. n. 163/2006,
sia stata riaffermata categoricamente –e senza deroghe di
sorta– dall’art. 77, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016,
cosicché non si vede come la procedura in esame –esperita
nel vigore del d.lgs. n. 50 cit.– potesse ad essa sottrarsi.
La ridetta regola, del resto, risponde agli obiettivi di
garantire il computo del quorum strutturale e soddisfare le
necessità di funzionamento del principio maggioritario ed è
coerente con il principio in base al quale i collegi
perfetti (com’è la Commissione di gara) sono sempre composti
da un numero dispari di membri (cfr. C.d.S., Sez. V,
06.04.2009, n. 2143; TAR Lombardia, Brescia, Sez. II,
20.04.2011, n. 595; id., 05.03.2010, n. 1122).
In secondo luogo, l’affidamento alle due Sottocommissioni in
cui era suddivisa la Commissione, del compito di valutare,
rispettivamente, le offerte economiche e le offerte
tecniche, a sua volta integra violazione dei principi in
tema di funzionamento dei collegi perfetti, per cui i
ridetti collegi debbono operare con l’interezza dei propri
membri, dovendo le decisioni essere assunte dal plenum.
A tal proposito la giurisprudenza ha affermato che “la
commissione giudicatrice di gare d’appalto costituisce un
collegio perfetto che deve operare con il plenum e non con
la semplice maggioranza dei suoi componenti; pertanto, le
operazioni di gara propriamente valutative, quali la
fissazione dei criteri di massima e la valutazione delle
offerte non possono essere delegate a singoli membri o a
sottocommissioni, tanto più quando di queste facciano parte
soggetti estranei alla commissione aggiudicatrice” (cfr.
C.d.S., Sez. V, 09.06.2003, n. 3247).
“La regola della collegialità perfetta alla quale deve
attenersi la Commissione di gara può essere derogata ogni
qualvolta non si tratti di compiere atti a carattere
valutativo e discrezionale; con la conseguenza che è
possibile delegare a singoli membri o a sottocommissioni
attività preparatorie” o meramente materiali (v. TAR
Sicilia, Catania, Sez. III, 10.12.2009, n. 2009).
“L’attività della commissione di gara può essere svolta,
in special modo quando si tratti di esprimere valutazioni
(spesso complesse) sotto il profilo tecnico-qualitativo,
attraverso l’articolazione in sottocommissioni o gruppi di
lavoro incaricati di svolgere l’istruttoria sulle singole
offerte ovvero su parti dei progetti tecnici presentati dai
concorrenti: la garanzia della collegialità è preservata
dalla esigenza che le attività istruttorie preliminari siano
esaminate dalla commissione aggiudicatrice nella sua
integrale composizione, e in tale veste la commissione
proceda alla attribuzione dei punteggi alle singole offerte
o progetti” (cfr. TAR Piemonte, Sez. II, 26.10.2007, n.
3305)
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 15.05.2017 n. 471 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La Corte di giustizia dell’UE ritorna sulla questione della
legittimazione dell’impresa “non definitivamente”
esclusa dalla gara di appalto.
---------------
•
Unione europea
– Gara – Appalti pubblici – Offerte – Integrazione e
regolarizzazione – Differenze.
•
Unione europea
– Gara – Appalti pubblici – Offerente escluso –
Legittimazione a ricorrere – Condizioni.
•
Il principio di parità di trattamento degli operatori
economici stabilito dall’articolo 10 della direttiva
2004/17/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, che coordina le procedure di appalto degli enti
erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono
servizi di trasporto e servizi postali, deve essere
interpretato nel senso che esso osta a che, nell’ambito di
una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico,
l’amministrazione aggiudicatrice inviti un offerente a
presentare le dichiarazioni o i documenti la cui
comunicazione era richiesta dal capitolato d’oneri e che non
sono stati presentati nel termine stabilito per presentare
le offerte. Tale articolo non osta, invece, a che
l’amministrazione aggiudicatrice inviti un offerente a
chiarire un’offerta o a rettificare un errore materiale
manifesto contenuto in quest’ultima, a condizione che,
tuttavia, un tale invito sia rivolto a qualsiasi offerente
che si trovi nella stessa situazione, che tutti gli
offerenti siano trattati in modo uguale e leale e che tale
chiarimento o tale rettifica non possa essere assimilato
alla presentazione di una nuova offerta, circostanza che
spetta al giudice del rinvio verificare. (1)
•
La
direttiva 92/13/CE del Consiglio, del 25.02.1992, che
coordina le disposizioni legislative, regolamentari e
amministrative relative all’applicazione delle norme
comunitarie in materia di procedure di appalto degli enti
erogatori di acqua e di energia e degli enti che forniscono
servizi di trasporto nonché degli enti che operano nel
settore delle telecomunicazioni, come modificata dalla
direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio,
dell’11.12.2007, deve essere interpretata nel senso che, in
una situazione come quella di cui al procedimento
principale, in cui una procedura di aggiudicazione di un
appalto pubblico ha dato luogo alla presentazione di due
offerte e all’adozione, da parte dell’amministrazione
aggiudicatrice, di due decisioni in contemporanea recanti
rispettivamente rigetto dell’offerta di uno degli offerenti
e aggiudicazione dell’appalto all’altro, l’offerente
escluso, che ha presentato un ricorso avverso tali due
decisioni, deve poter chiedere l’esclusione dell’offerta
dell’offerente aggiudicatario, in modo tale che la nozione
di «un determinato appalto», ai sensi dell’articolo 1,
paragrafo 3, della direttiva 92/13, come modificata dalla
direttiva 2007/66, può, se del caso, riguardare l’eventuale
avvio di una nuova procedura di aggiudicazione di un appalto
pubblico. (2)
---------------
(1) I.- Con la prima massima in rassegna la Corte di
Giustizia torna sulla questione della compatibilità del
dovere di soccorso con il principio di parità di trattamento
e precisa che:
a) l’obbligo per l’amministrazione aggiudicatrice di rispettare il
principio di parità di trattamento degli offerenti, che ha
lo scopo di favorire lo sviluppo di una concorrenza sana ed
efficace tra le imprese che partecipano ad un appalto
pubblico implica, in particolare, che gli offerenti devono
trovarsi su un piano di parità sia al momento in cui
preparano le loro offerte sia al momento in cui queste sono
valutate da tale amministrazione aggiudicatrice;
b) il principio di parità di trattamento impone, segnatamente, che
tutti gli offerenti dispongano delle stesse possibilità
nella formulazione dei termini delle loro offerte e implica
quindi che queste siano sottoposte alle medesime condizioni
per tutti i concorrenti;
c) il principio di parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza
implicano che, in linea di principio, un’offerta non può
essere modificata dopo il suo deposito, né su iniziativa
dell’amministrazione aggiudicatrice né dell’offerente;
d) il principio di parità di trattamento non osta a che un’offerta
possa essere corretta o completata su singoli punti, qualora
quest’ultima necessiti in modo evidente un chiarimento o
qualora si tratti di correggere errori materiali manifesti,
fatto salvo tuttavia il rispetto di una serie di requisiti:
i) una richiesta di chiarimenti di un’offerta,
che può intervenire soltanto dopo che l’amministrazione
aggiudicatrice abbia acquisito conoscenza di tutte le
offerte, deve, in linea di principio, essere rivolta in modo
equivalente a tutti gli offerenti che si trovino nella
stessa situazione e deve riguardare tutti i punti
dell’offerta che richiedono un chiarimento;
ii) tale richiesta non può condurre, da parte
dell’offerente interessato, alla presentazione di quella che
in realtà sarebbe una nuova offerta;
iii) nell’esercizio del potere discrezionale di
cui dispone per quanto attiene alla facoltà di chiedere ai
candidati di chiarire la loro offerta, l’amministrazione
aggiudicatrice deve trattare i candidati in maniera uguale e
leale, di modo che, all’esito della procedura di selezione
delle offerte e tenuto conto del risultato di quest’ultima,
non possa apparire che la richiesta di chiarimenti abbia
indebitamente favorito o sfavorito il candidato o i
candidati cui essa è stata rivolta;
iv) una richiesta di chiarimenti non può,
tuttavia, ovviare alla mancanza di un documento o di
un’informazione la cui comunicazione era richiesta dai
documenti dell’appalto, poiché l’amministrazione
aggiudicatrice è tenuta ad osservare rigorosamente i criteri
da essa stessa fissati.
Dopo aver richiamato i principi espressi dalla propria
giurisprudenza come sopra sintetizzati, la Corte rimette al
giudice del rinvio la verifica in concreto se nelle
circostanze del procedimento principale (avente per oggetto
una gara per l’affidamento di servizi per la
digitalizzazione di archivi cartacei), la sostituzione
effettuata dalle imprese concorrenti (sostituzione con un
nuovo campione di microfilm di quello che esse avevano
allegato alla loro offerta e che non era conforme alle
specifiche del capitolato d’oneri) sia rimasta nei limiti
della rettifica di un errore manifesto inficiante l’offerta.
II.- Sul potere di soccorso in materia di gare di appalto e
sul principio di tassatività delle cause di esclusione, per
completezza si segnala:
e)
Corte giust. UE, sez. VI, 02.06.2016, C-27/15,
Pippo Pizzo,
oggetto della
News US in data 05.07.2016,
cui si rinvia per ogni ulteriore riferimento anche in
relazione alla disciplina nazionale;
f)
Corte giust. UE, sez. X, 06.11.2014, C-42/13,
Cartiera dell’Adda,
in
Urbanistica e
appalti,
2015, 137 con nota di PATRITO;
Dir. proc. amm.,
2015, 1006, con nota di MAMELI, cui si rinvia per ogni
ulteriore approfondimento;
g)
Tar per il Lazio, ordinanza sez. III, 03.10.2016, n. 10012
(oggetto della
News US in data 05.10.2017,
cui si rinvia per ogni ulteriore riferimento anche in
relazione alla disciplina nazionale), che ha rimesso alla
Corte di giustizia la questione della compatibilità, col
diritto europeo, della disciplina recata dal vecchio codice
degli appalti nella parte in cui ha previsto il c.d.
soccorso istruttorio oneroso;
h) l’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016 -Codice dei contratti
pubblici- nel testo novellato dal primo decreto delegato
correttivo 19.04.2017, n. 56 (su cui v. il parere reso da
Cons. Stato, comm. spec., 30.03.2017, n. 782).
(2) I. - La questione di cui alla seconda massima è stata
sollevata nel corso di una gara per l’affidamento del
servizio di digitalizzazione di archivi cartacei con due
soli partecipanti, in cui due imprese, concorrenti in ATI
(da quanto è dato intendere dalla motivazione), hanno
presentato entrambe ricorso avverso la decisione
dell’amministrazione aggiudicatrice di esclusione della loro
offerta impugnando al contempo la decisione di ammissione
dell’offerta dell’altra unica partecipante.
Il giudice del rinvio:
a) premette che l’operatore economico che ha presentato un’offerta
nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto
pubblico qualora la sua offerta sia ricusata, non ha un
interesse ad agire avverso la decisione di aggiudicazione
dell’appalto pubblico. Di conseguenza, se è vero che un
offerente quale l’ATI ricorrente ha certamente un interesse
a contestare una decisione che rifiuta la propria offerta,
nella misura in cui, in tal caso, lo stesso conservi una
possibilità che l’appalto gli sia aggiudicato, non ha più,
invece, interesse nella fase successiva del procedimento di
aggiudicazione dell’appalto dal momento in cui la sua
offerta sia stata definitivamente rigettata, perlomeno
nell’ipotesi in cui una pluralità di offerte sia stata
presentata e selezionata;
b) sulla scorta di tale premessa domanda se la nozione di «un
determinato appalto», ai sensi dell’articolo 1,
paragrafo 3, della direttiva 92/13, possa riguardare
l’eventuale avvio di una nuova procedura di aggiudicazione
di un appalto pubblico, atteso che l’articolo 1, paragrafo
3, della direttiva 92/13 prevede che gli Stati membri
provvedono a rendere accessibili le procedure di ricorso,
secondo le modalità che spetta agli Stati membri
determinare, a chiunque abbia o abbia avuto interesse ad
ottenere l’aggiudicazione di un «determinato appalto»
e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta
violazione.
II. -Sul punto la Corte, operando una sintesi delle proprie
precedenti pronunce rese sul tema, evidenzia:
c) di avere già statuito (sentenze
04.07.2013, n. 100, Fastweb,
in
Foro it.,
2015, IV, 311, n. con nota di CONDORELLI e
05.04.2016 C- 689/13, Puligenica,
id.,
2016, IV, 324, con nota di SIGISMONDI, cui si rinvia per
ogni riferimento di dottrina e giurisprudenza) che,
nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto
pubblico, gli offerenti hanno un analogo interesse legittimo
all’esclusione dell’offerta degli altri offerenti ai fini
dell’aggiudicazione dell’appalto indipendentemente dal
numero di partecipanti alla procedura e dal numero di
partecipanti che hanno presentato ricorso; da un lato,
infatti, l’esclusione di un offerente può far sì che un
altro offerente ottenga l’appalto direttamente nell’ambito
della stessa procedura; d’altro lato, nell’ipotesi di
un’esclusione di tutti gli offerenti e dell’indizione di una
nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico,
ciascuno degli offerenti potrebbe parteciparvi e, quindi,
ottenere indirettamente l’appalto;
d) innova il proprio indirizzo precisando che nell’ambito di una
procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico che ha
dato luogo alla presentazione di due sole offerte e
all’adozione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice,
di due decisioni in contemporanea, recanti rispettivamente
il rigetto dell’offerta di uno degli offerenti e
l’aggiudicazione dell’appalto all’altro
offerente, all’offerente che ha proposto ricorso deve essere
riconosciuto un interesse legittimo all’esclusione
dell’offerta dell’aggiudicatario per mancanza di conformità
di quest’ultima alle specifiche del capitolato d’oneri che
può portare, se del caso, alla constatazione
dell’impossibilità, per l’amministrazione aggiudicatrice, di
procedere alla scelta di un’offerta regolare;
e) ribadisce quanto affermato dalla
sentenza 21.12.2016, C- 355/15,
GesmbH,
nel senso che a un offerente la cui offerta sia stata
esclusa dall’amministrazione aggiudicatrice da una procedura
di aggiudicazione di un appalto pubblico può tuttavia essere
negato l’accesso a un ricorso avverso la decisione di
aggiudicazione di un appalto pubblico qualora la decisione
di esclusione di tale offerente sia stata confermata da una
decisione che ha acquisito autorità di cosa giudicata prima
che il giudice investito del ricorso avverso la decisione di
aggiudicazione dell’appalto si pronunci, in modo tale che
detto offerente debba essere considerato definitivamente
escluso dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto
pubblico in questione;
f) evidenzia che nel caso portato all’esame dal giudice del rinvio
le imprese ricorrenti hanno proposto ricorso avverso la
decisione che esclude la loro offerta e avverso la decisione
che aggiudica l’appalto,
adottate
contemporaneamente,
e non possono quindi essere ritenute definitivamente escluse
dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto pubblico; in
una situazione del genere, la nozione di «un determinato
appalto» ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 3, della
direttiva 92/13 può, dunque, riguardare anche l’avvio di una
nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico.
III. Per la ricostruzione del dibattito e per i riferimenti
di dottrina e di giurisprudenza sul controverso tema si
rinvia alle seguenti News US:
g)
04.01.2017 avente ad oggetto Corte UE 21.12.2016
GesmbH
(secondo cui «L’articolo
1, paragrafo 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio,
del 21.12.1989, che coordina le disposizioni legislative,
regolamentari e amministrative relative all’applicazione
delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione
degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come
modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo
e del Consiglio, dell’11.12.2007, dev’essere interpretato
nel senso che esso non osta a che a un offerente escluso da
una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico con
una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice divenuta
definitiva sia negato l’accesso ad un ricorso avverso la
decisione di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui
trattasi e la conclusione del contratto, allorché a
presentare offerte siano stati unicamente l’offerente
escluso e l’aggiudicatario e detto offerente sostenga che
anche l’offerta dell’aggiudicatario avrebbe dovuto essere
esclusa»);
h)
07.04.2016 avente ad oggetto Corte UE
05.04.2016, Puligienica cit.,
(secondo
cui «L’articolo
1, paragrafi 1, terzo comma, e 3, della direttiva 89/665/CEE
del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative relative
all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di
aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di
lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio dell’11.12.2007, deve
essere interpretato nel senso che osta a che un ricorso
principale proposto da un offerente, il quale abbia
interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato
appalto e che sia stato o rischi di essere leso a causa di
una presunta violazione del diritto dell’Unione in materia
di appalti pubblici o delle norme che traspongono tale
diritto, e diretto a ottenere l’esclusione di un altro
offerente, sia dichiarato irricevibile in applicazione di
norme processuali nazionali che prevedono l’esame
prioritario del ricorso incidentale presentato dall’altro
offerente»);
i)
19.01.2017 avente ad oggetto Corte cost., 245 del 2016
pubblicata altresì
in
Foro it.,
2017, I, 75, secondo cui è inammissibile, salvo casi
eccezionali, l’impugnativa di una procedura di gara da parte
di una impresa che non vi abbia partecipato o chiesto di
partecipare;
l)
04.04.2017 avente ad oggetto Tar per la Liguria ordinanza n.
263 del 2017
(secondo cui «Va
rimessa alla Corte di giustizia dell’Unione Europea la
seguente questione pregiudiziale: se gli artt. 1, parr. 1, 2
e 3, e l’art. 2, par. 1, lett. b), della direttiva n. 89/665
CEE, avente ad oggetto il coordinamento delle disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative relative
all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di
aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di
lavori, ostino ad una normativa nazionale che riconosca la
possibilità di impugnare gli atti di una procedura di gara
ai soli operatori economici che abbiano presentato domanda
di partecipazione alla gara stessa, anche qualora la domanda
giudiziale sia volta a sindacare in radice la procedura,
derivando dalla disciplina della gara un’altissima
probabilità di non conseguire l’aggiudicazione»)
(Corte
giust. comm. ue, sez. VIII, sentenza 10.05.2017, n.
C-131/16, Archus
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Illegittima la mancata notifica ai controinteressati nel
caso di permesso di costruire in deroga al PGT..
Per fondare la
legittimazione e l’interesse ad agire di un’azione di
annullamento rivolta avverso un permesso di costruire è
sufficiente l’elemento della vicinitas, intesa come
situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno
oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato. Ne consegue
che, in sua presenza, non è necessario accertare
concretamente se i lavori assentiti dall'atto impugnato
comportino un effettivo pregiudizio per il ricorrente.
Ritiene il Collegio che questi principi possano essere
applicati anche in caso di permesso di costruire in deroga,
posto che trattasi pur sempre di atto autorizzatorio
riguardante una specifica opera, il cui impatto sul carico
urbanistico influisce normalmente sugli interessi dei
proprietari dei fondi finitimi.
Ciò premesso si deve osservare che i ricorrenti sono
proprietari di immobili residenziali collocati in un
complesso condominiale che, contrariamente da quanto
sostiene la controinteressata, è posto in prossimità della
struttura oggetto dell’atto impugnato: ritiene infatti il
Collegio che la distanza di cinquanta metri sia tutt’altro
che eccessiva e non faccia dunque perdere il carattere della
prossimità necessario per fondare la legittimazione e
l’interesse ad agire.
---------------
La disciplina riguardante i permessi di costruire rilasciati
in deroga alle previsioni contenute negli strumenti
urbanistici è contenuta nell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del
2001 e nell’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005.
Stabilisce il secondo comma del suindicato art. 14 che
dell’avvio del procedimento instaurato per il rilascio di
tale tipologia di permessi è dato avviso agli interessati ai
sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990. Disposizione
analoga è contenuta nell’art. 40, ultimo comma, della legge
regionale n. 12 del 2005.
Queste norme costituiscono deroga al principio generale,
secondo il quale, per il rilascio del permesso di costruire,
non è di regola necessario l’invio della comunicazione di
avviso di avvio del procedimento ai proprietari dei fondi
finitimi che potrebbero avere interesse contrario alla
realizzazione dell’opera.
La deroga si spiega in quanto, mentre per il rilascio del
permesso di costruire ordinario non è necessaria alcuna
attività di comparazione degli interessi coinvolti, dovendo
l’amministrazione semplicemente valutare la conformità
dell’intervento alla normativa urbanistico-edilizia vigente,
nei casi di permesso di costruire in deroga
l’amministrazione deve invece effettuare una scelta
discrezionale che si sostituisce a quella effettuata in sede
di pianificazione, per il perfezionarsi della quale è dunque
necessario l’apporto collaborativo dei vari soggetti
portatori degli interessi coinvolti, così come avviene
appunto per le scelte urbanistiche effettuate in sede di
redazione del piano di governo del territorio.
E proprio perché il procedimento volto al rilascio di un
permesso di costruire in deroga presenta, sul piano
funzionale, caratteristiche simili a quello di approvazione
di una variante al piano urbanistico, è necessario
consentire una ampia partecipazione allo stesso
procedimento, così come avviene per i procedimenti
finalizzati all’approvazione delle varianti. Ne consegue
che, nell’individuare i soggetti interessati ai sensi
dell’art. 14, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 e
dell’art. 40, ultimo comma, della legge regionale n. 12 del
2005, non si possono utilizzare criteri restrittivi,
dovendosi dare alle due norme ampia applicazione.
---------------
Viene dedotta la violazione dell’art. 14 del d.P.R. n. 380
del 2001 e dell’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005
in quanto l’Amministrazione -senza autorizzare espressamente
una deroga alle previsioni di piano riguardanti le
destinazioni funzionali- permetterebbe la realizzazione di
una struttura avente destinazione contrastante con le
previsioni dello strumento urbanistico, violando peraltro in
tal modo le suddette norme che, a dire dei ricorrenti, non
ammetterebbero la possibilità di assentire deroghe alle
destinazioni di piano impresse alle aree.
La censura è fondata per le ragioni di seguito esposte.
L’area interessata dal permesso di costruire impugnato
ricade in zona asservita a verde pubblico, disciplinata
dall’art. PS11 delle NTA del Piano dei Servizi. In base a
tale norma, nella suddetta zona sono insediabili “punti di
ristoro”.
Invero, in mancanza di esplicita definizione contenuta nella
normativa regionale e/o di piano, al concetto di “punto di
ristoro” non possano essere ricondotti i veri e propri
ristoranti, giacché si deve ritenere che, in un’area
destinata a verde pubblico, lo strumento di pianificazione
intenda consentire l’insediamento di strutture aventi
impatto urbanistico poco significativo che non costituiscano
esse stesse polo di attrazione, ma siano esclusivamente
funzionali a rendere più godibile la fruizione del parco. Si
deve pertanto ritenere che nel concetto di “punto di
ristoro” possano rientrare solo le strutture di dimensioni
contenute, dove si somministrano bevande e, tutt’al più,
cibi di veloce preparazione e consumazione.
A contrario non è utile il richiamo all’art. 30 delle NTA
del Piano delle Regole, in quanto neppure tale norma
fornisce la definizione specifica di “punto di ristoro”.
Ne consegue che la destinazione dell’opera oggetto degli
atti impugnati, destinata ad ospitare un vero e proprio
ristorante, non è compatibile con le previsioni di piano
anche per il profilo della destinazione funzionale.
Va a questo punto rilevato che la delibera di Consiglio
comunale non ha autorizzato la deroga alla destinazione
funzionale, ma ha esclusivamente autorizzato la deroga al
parametro riguardante il rapporto massimo di copertura.
Si deve pertanto rilevare che -indipendentemente dalla
risoluzione delle problematiche astratte circa la
possibilità, per i permessi di costruire in deroga, di
derogare alle previsioni di piano attinenti alle
destinazioni funzionali delle aree (problematica che involge
anche questioni di carattere costituzionale stante la non
conformità sul punto dell’art. 40 della legge regionale n.
12 del 2005 con l’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001, il
quale per gli aspetti che vengono qui in rilievo sembrerebbe
dettare norme di principio)- sul piano concreto, l’opera
oggetto del presente giudizio non possa comunque essere
realizzata, e ciò proprio in quanto, con la suddetta
delibera, il Comune (evidentemente ritenendo erroneamente
che l’opera stessa fosse, sotto il profilo funzionale,
conforme allo strumento urbanistico) non ha autorizzato
alcuna deroga alle destinazioni d’uso.
Coglie pertanto nel segno la doglianza del ricorrente nella
parte in cui deduce appunto l’illegittimità degli atti
impugnati per aver essi assentito la realizzazione di
un’opera non conforme alle previsioni contenute nello
strumento urbanistico che disciplinano le destinazioni d’uso
delle aree.
---------------
In base all’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001 ed all’art.
40 della legge regionale n. 12 del 2005, il permesso di
costruire in deroga agli strumenti di pianificazione può
essere rilasciato esclusivamente per la realizzazione di
impianti ed edifici pubblici o di interesse pubblico.
La giurisprudenza ha precisato che, siccome le norme fanno
riferimento, non solo alle opere pubbliche, ma anche agli
interventi di interesse pubblico, il permesso di costruire
in deroga può essere rilasciato anche per la realizzazione
di edifici privati per i quali sussista appunto un interesse
pubblico alla loro realizzazione.
La giurisprudenza afferma inoltre che la deliberazione di
consiglio comunale che assente tale tipologia di interventi
deve essere specificamente motivata con riguardo al profilo
dell’interesse pubblico, dovendo le amministrazioni dare
conto, nel corpo motivazionale dell’atto, delle superiori
ragioni che le inducono ad introdurre un regime distonico
rispetto alle previsioni di piano le quali, per loro natura,
dovrebbero aver delineato un quadro armonico degli assetti
del territorio, assetti che potrebbero venire invece
compromessi dalle disposizioni derogatorie.
Si deve ancora aggiungere che, fra le ragioni che possono
sostenere la scelta, vi può anche essere quella di ovviare a
situazioni di degrado.
Va però rilevato che, a parere del Collegio, nel caso
specifico, il riferimento alla situazione di degrado
contenuta nel provvedimento impugnato (nel quale si
evidenzia che la struttura precaria attualmente esistente,
oltre che non contestualizzata con l’ambiente, arreca
disturbo alla quiete pubblica) non fornisce adeguato
supporto motivazionale alla scelta operata, giacché non si
spiegano le ragioni per le quali, invece di intervenire sul
piano sanzionatorio, si è preferito intervenire con un
permesso di costruire in deroga, e ciò sebbene la situazione
di degrado cui si intende ovviare è stata proprio causata
dall’utilizzo inappropriato della terrazza di cui trattasi.
In altre parole, la delibera impugnata avrebbe dovuto
spiegare le ragioni per le quali, invece di vietare
l’utilizzo di una struttura considerata fonte di degrado, si
sia ritenuto che solo l’ampliamento del ristorante esistente
costituisca elemento di valorizzazione dell’area e della
globalità del quartiere, tanto da assurgere al rango di
interesse pubblico preminente che giustifica addirittura la
deroga al vigente strumento urbanistico.
Questi aspetti non sono stati illustrati nel corpo
motivazionale del provvedimento impugnato; si deve pertanto
ritenere che la motivazione in esso contenuta sia
effettivamente inadeguata.
---------------
1. Con il ricorso introduttivo viene impugnata la
deliberazione di Consiglio comunale del Comune di Basiglio
n. 24 del 10.06.2016, con la quale è stata accolta la
domanda presentata dalla società AD. s.r.l., finalizzata
all’ottenimento di una deroga, ai sensi dell’art. 40 della
legge regionale n. 12 del 2005 e dell’art. 14 del d.P.R. n.
380 del 2001, per la realizzazione di un intervento edilizio
non conforme allo strumento urbanistico.
2. L’intervento consiste nella chiusura di una terrazza di
pertinenza di un ristorante, mediante la sostituzione delle
strutture rimovibili con altra tipologia di strutture di
carattere fisso.
...
9. Deve preliminarmente esaminarsi l’eccezione di
inammissibilità del ricorso e dei motivi aggiunti sollevata
dalla controinteressata secondo la quale i ricorrenti
sarebbero privi di legittimazione ed interesse ad agire.
10. In proposito va osservato che, secondo un pacifico
orientamento giurisprudenziale, dal quale il Collegio non ha
motivo per discostarsi, per fondare la legittimazione e
l’interesse ad agire di un’azione di annullamento rivolta
avverso un permesso di costruire è sufficiente l’elemento
della vicinitas, intesa come situazione di stabile
collegamento giuridico con il terreno oggetto
dell'intervento costruttivo autorizzato. Ne consegue che, in
sua presenza, non è necessario accertare concretamente se i
lavori assentiti dall'atto impugnato comportino un effettivo
pregiudizio per il ricorrente (cfr. Consiglio di Stato, sez.
IV, 19.11.2015, n. 5278; Id., sez. III, 17.11.2015, n. 5257;
TAR Piemonte Torino, sez. II, 15.11.2016, n. 1407; TAR
Sicilia Catania, sez. I, 18.01.2016, n. 164).
11. Ritiene il Collegio che questi principi possano essere
applicati anche in caso di permesso di costruire in deroga,
posto che trattasi pur sempre di atto autorizzatorio
riguardante una specifica opera, il cui impatto sul carico
urbanistico influisce normalmente sugli interessi dei
proprietari dei fondi finitimi.
12. Ciò premesso si deve osservare che i ricorrenti sono
proprietari di immobili residenziali collocati in un
complesso condominiale che, contrariamente da quanto
sostiene la controinteressata, è posto in prossimità della
struttura oggetto dell’atto impugnato: ritiene infatti il
Collegio che la distanza di cinquanta metri sia tutt’altro
che eccessiva e non faccia dunque perdere il carattere della
prossimità necessario per fondare la legittimazione e
l’interesse ad agire.
13. Per questa ragione l’eccezione in esame va respinta.
14. Con il primo motivo viene dedotta la violazione
dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto
l’Amministrazione ha omesso di inviare ai ricorrenti la
comunicazione di avviso di avvio del procedimento.
15. In proposito si osserva quanto segue.
16. La disciplina riguardante i permessi di costruire
rilasciati in deroga alle previsioni contenute negli
strumenti urbanistici è contenuta nell’art. 14 del d.P.R. n.
380 del 2001 e nell’art. 40 della legge regionale n. 12 del
2005.
17. Stabilisce il secondo comma del suindicato art. 14 che
dell’avvio del procedimento instaurato per il rilascio di
tale tipologia di permessi è dato avviso agli interessati ai
sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990. Disposizione
analoga è contenuta nell’art. 40, ultimo comma, della legge
regionale n. 12 del 2005.
18. Queste norme costituiscono deroga al principio generale,
secondo il quale, per il rilascio del permesso di costruire,
non è di regola necessario l’invio della comunicazione di
avviso di avvio del procedimento ai proprietari dei fondi
finitimi che potrebbero avere interesse contrario alla
realizzazione dell’opera (cfr. sul punto TAR Piemonte, sez.
II, 14.03.2014, n. 448).
La deroga si spiega in quanto, mentre per il rilascio del
permesso di costruire ordinario non è necessaria alcuna
attività di comparazione degli interessi coinvolti, dovendo
l’amministrazione semplicemente valutare la conformità
dell’intervento alla normativa urbanistico-edilizia vigente,
nei casi di permesso di costruire in deroga
l’amministrazione deve invece effettuare una scelta
discrezionale che si sostituisce a quella effettuata in sede
di pianificazione, per il perfezionarsi della quale è dunque
necessario l’apporto collaborativo dei vari soggetti
portatori degli interessi coinvolti, così come avviene
appunto per le scelte urbanistiche effettuate in sede di
redazione del piano di governo del territorio.
19. E proprio perché il procedimento volto al rilascio di un
permesso di costruire in deroga presenta, sul piano
funzionale, caratteristiche simili a quello di approvazione
di una variante al piano urbanistico, è necessario
consentire una ampia partecipazione allo stesso
procedimento, così come avviene per i procedimenti
finalizzati all’approvazione delle varianti. Ne consegue
che, nell’individuare i soggetti interessati ai sensi
dell’art. 14, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 e
dell’art. 40, ultimo comma, della legge regionale n. 12 del
2005, non si possono utilizzare criteri restrittivi,
dovendosi dare alle due norme ampia applicazione.
20. Ciò premesso si deve osservare che il Comune di Basiglio
non ha inviato ai ricorrenti la comunicazione di avviso di
avvio del procedimento culminato con l’adozione dell’atto
impugnato, e ciò sebbene questi soggetti risiedano in
prossimità della struttura interessata dall’intervento.
21. Ritiene il Collegio che questa omissione costituisca una
evidente violazione dell’art. 14, secondo comma, del d.P.R.
n. 380 del 2001 e che, quindi, la censura in esame sia da
condividere.
22. A contrario non vale eccepire, come fa la
controinteressata, che fra la struttura oggetto
dell’intervento e le abitazioni dei ricorrenti è interposto
un parco comunale. In proposito è, infatti, sufficiente
rilevare che il parco comunale è di dimensioni contenute,
tanto è vero che, come riconosce la stessa controinteressata,
le abitazioni più prossime sono collocate a distanza
inferiore a cinquanta metri dalla struttura; ad una distanza
che permette ai residenti di percepirne appieno l’impatto
visivo nonché di percepirne le propagazioni rumorose che da
essa promanano.
23. Si deve pertanto ritenere che i ricorrenti rivestano la
qualifica di soggetti interessati ai sensi del secondo comma
dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001; ne consegue, che,
come anticipato, l’Amministrazione avrebbe dovuto inviare
loro la comunicazione prevista dalla suddetta norma.
24. Va quindi ribadita la fondatezza della censura.
25. Con il secondo motivo del ricorso introduttivo ed
il primo motivo dei motivi aggiunti (rubricato sub 2), viene
dedotta la violazione dell’art. 14 del d.P.R. n. 380 del
2001 e dell’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005 in
quanto, con l’atto impugnato, l’Amministrazione -senza
autorizzare espressamente una deroga alle previsioni di
piano riguardanti le destinazioni funzionali- permetterebbe
la realizzazione di una struttura avente destinazione
contrastante con le previsioni dello strumento urbanistico,
violando peraltro in tal modo le suddette norme che, a dire
dei ricorrenti, non ammetterebbero la possibilità di
assentire deroghe alle destinazioni di piano impresse alle
aree.
26. La censura è fondata per le ragioni di seguito esposte.
27. L’area interessata dal permesso di costruire impugnato
ricade in zona asservita a verde pubblico, disciplinata
dall’art. PS11 delle NTA del Piano dei Servizi.
28. In base a tale norma, nella suddetta zona sono
insediabili “punti di ristoro”.
29. Tanto premesso, va osservato che, secondo il Collegio,
in mancanza di esplicita definizione contenuta nella
normativa regionale e/o di piano, al concetto di “punto
di ristoro” non possano essere ricondotti i veri e
propri ristoranti, giacché si deve ritenere che, in un’area
destinata a verde pubblico, lo strumento di pianificazione
intenda consentire l’insediamento di strutture aventi
impatto urbanistico poco significativo che non costituiscano
esse stesse polo di attrazione, ma siano esclusivamente
funzionali a rendere più godibile la fruizione del parco. Si
deve pertanto ritenere che nel concetto di “punto di
ristoro” possano rientrare solo le strutture di
dimensioni contenute, dove si somministrano bevande e,
tutt’al più, cibi di veloce preparazione e consumazione (in
questo senso si veda Consiglio di Stato, sez. IV,
06.08.2013, n. 4148).
30. A contrario non è utile il richiamo all’art. 30 delle
NTA del Piano delle Regole, in quanto neppure tale norma
fornisce la definizione specifica di “punto di ristoro”.
31. Ne consegue che la destinazione dell’opera oggetto degli
atti impugnati, destinata ad ospitare un vero e proprio
ristorante, non è compatibile con le previsioni di piano
anche per il profilo della destinazione funzionale.
32. Va a questo punto rilevato che la delibera di Consiglio
comunale n. 24 del 10.06.2016 non ha autorizzato la deroga
alla destinazione funzionale, ma ha esclusivamente
autorizzato la deroga al parametro riguardante il rapporto
massimo di copertura.
33. Si deve pertanto rilevare che -indipendentemente dalla
risoluzione delle problematiche astratte circa la
possibilità, per i permessi di costruire in deroga, di
derogare alle previsioni di piano attinenti alle
destinazioni funzionali delle aree (problematica che involge
anche questioni di carattere costituzionale stante la non
conformità sul punto dell’art. 40 della legge regionale n.
12 del 2005 con l’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001, il
quale per gli aspetti che vengono qui in rilievo sembrerebbe
dettare norme di principio)- sul piano concreto, l’opera
oggetto del presente giudizio non possa comunque essere
realizzata, e ciò proprio in quanto, con la suddetta
delibera, il Comune (evidentemente ritenendo erroneamente
che l’opera stessa fosse, sotto il profilo funzionale,
conforme allo strumento urbanistico) non ha autorizzato
alcuna deroga alle destinazioni d’uso.
34. Coglie pertanto nel segno la doglianza del ricorrente
nella parte in cui deduce appunto l’illegittimità degli atti
impugnati per aver essi assentito la realizzazione di
un’opera non conforme alle previsioni contenute nello
strumento urbanistico che disciplinano le destinazioni d’uso
delle aree.
35. Preme al Collegio precisare che a contrario non è
neppure utile invocare l’art. 23-bis, primo comma, lett.
a-bis), del d.P.R. n. 380 del 2001 (che esclude la rilevanza
urbanistica dei mutamenti di destinazione d’uso che comunque
non sottraggono ai fabbricati la destinazione
turistico-ricettiva), atteso che il terzo comma di tale
norma fa salve le diverse disposizioni contenute negli
strumenti urbanistici e che, per le ragioni sopra
illustrate, si deve escludere che lo strumento urbanistico
del Comune di Basiglio abbia inteso assentire l’insediamento
di veri e propri ristoranti nell’area oggetto del presente
giudizio.
36. Per tutte queste ragioni deve essere ribadita la
fondatezza della censura in esame.
37. Con il terzo motivo del ricorso introduttivo e
con il secondo motivo dei motivi aggiunti (rubricato sub 3),
viene ancora dedotta la violazione dell’art. 14 del d.P.R.
n. 380 del 2001 e dell’art. 40 della legge regionale n. 12
del 2005 in quanto, a dire dei ricorrenti, le ragioni di
interesse pubblico addotte a fondamento della decisione di
concedere la deroga sarebbero del tutto inadeguate.
38. Anche questa censura è fondata per le ragioni di seguito
esposte.
39. In base all’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001 ed
all’art. 40 della legge regionale n. 12 del 2005, il
permesso di costruire in deroga agli strumenti di
pianificazione può essere rilasciato esclusivamente per la
realizzazione di impianti ed edifici pubblici o di interesse
pubblico.
40. La giurisprudenza ha precisato che, siccome le norme
fanno riferimento, non solo alle opere pubbliche, ma anche
agli interventi di interesse pubblico, il permesso di
costruire in deroga può essere rilasciato anche per la
realizzazione di edifici privati per i quali sussista
appunto un interesse pubblico alla loro realizzazione (cfr.,
Consiglio di Stato, sez. IV, 12.12.2005 n. 7031; id., sez V,
29.10.2002 n. 5913; TAR Puglia Lecce, sez. I, 23.09.2016, n.
1475; TAR Lombardia Milano, sez. II, 07.02.2014, n. 417).
41. La giurisprudenza afferma inoltre che la deliberazione
di consiglio comunale che assente tale tipologia di
interventi deve essere specificamente motivata con riguardo
al profilo dell’interesse pubblico, dovendo le
amministrazioni dare conto, nel corpo motivazionale
dell’atto, delle superiori ragioni che le inducono ad
introdurre un regime distonico rispetto alle previsioni di
piano le quali, per loro natura, dovrebbero aver delineato
un quadro armonico degli assetti del territorio, assetti che
potrebbero venire invece compromessi dalle disposizioni
derogatorie (Consiglio di Stato, sez. V, 05.09.2014, n.
4518; id., 20.12.2013, n. 6136; id., sez. IV, 23.07.1999, n.
4664; id., 03.02.1981, n. 128).
42. Si deve ancora aggiungere che, fra le ragioni che
possono sostenere la scelta, vi può anche essere quella di
ovviare a situazioni di degrado.
43. Va però rilevato che, a parere del Collegio, nel caso
specifico, il riferimento alla situazione di degrado
contenuta nel provvedimento impugnato (nel quale si
evidenzia che la struttura precaria attualmente esistente,
oltre che non contestualizzata con l’ambiente, arreca
disturbo alla quiete pubblica) non fornisce adeguato
supporto motivazionale alla scelta operata, giacché non si
spiegano le ragioni per le quali, invece di intervenire sul
piano sanzionatorio, si è preferito intervenire con un
permesso di costruire in deroga, e ciò sebbene la situazione
di degrado cui si intende ovviare è stata proprio causata
dall’utilizzo inappropriato della terrazza di cui trattasi.
44. In altre parole, la delibera impugnata avrebbe dovuto
spiegare le ragioni per le quali, invece di vietare
l’utilizzo di una struttura considerata fonte di degrado, si
sia ritenuto che solo l’ampliamento del ristorante esistente
costituisca elemento di valorizzazione dell’area e della
globalità del quartiere, tanto da assurgere al rango di
interesse pubblico preminente che giustifica addirittura la
deroga al vigente strumento urbanistico.
45. Questi aspetti non sono stati illustrati nel corpo
motivazionale del provvedimento impugnato; si deve pertanto
ritenere che la motivazione in esso contenuta sia
effettivamente inadeguata.
46. Le censure in esame sono, quindi, fondate (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 09.05.2017 n. 1045 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Strumenti urbanistici: il valore delle osservazioni dei
proprietari interessati
Le osservazioni formulate dai
proprietari interessati costituiscono un mero apporto
collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e
non danno luogo a peculiari aspettative; pertanto, il loro
rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo
sufficiente che siano state esaminate e ritenute, in modo
serio e ragionevole, in contrasto con gli interessi e le
considerazioni generali poste a base della formazione del
piano regolatore generale.
D’altra parte, su un piano più generale, le scelte
effettuate dall'Amministrazione nell'adozione degli
strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito
sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano
inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché
anche la destinazione data alle singole aree non necessita
di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai
criteri generali, di ordine tecnico- discrezionale, seguiti
nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente
l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al
progetto di modificazione al prg., salvo che particolari
situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in
favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di
specifiche considerazioni.
In questo senso, le uniche evenienze, che richiedono una più
incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici
generali sono date dal superamento degli standards minimi di
cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni
urbanistiche complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona
di determinate aree, dalla lesione dell'affidamento
qualificato del privato, derivante da convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il
Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di
silenzio-rifiuto su una domanda di concessione e, infine,
dalla modificazione in zona agricola della destinazione di
un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non
abusivo.
---------------
Con la seconda parte dell’unico motivo di impugnazione (che
per ragioni logiche conviene esaminare in via prioritaria)
gli appellanti deducono il difetto di motivazione che
vizierebbe l’atto impugnato, in quanto la Regione non ha
specificamente ed esaurientemente esternato le ragioni in
base alle quali l’osservazione da loro proposta –pur
favorevolmente esitata dal comune– non è stata accolta.
Il mezzo non merita positiva considerazione.
La Giurisprudenza di
questa Sezione ha infatti da tempo chiarito che le
osservazioni formulate dai proprietari interessati
costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione
degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari
aspettative; pertanto, il loro rigetto non richiede una
dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state
esaminate e ritenute, in modo serio e ragionevole, in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste a base della formazione del piano regolatore generale
(cfr. fra le recenti IV Sez. nn. 3643 del 2016 e 874 del
2017).
D’altra parte, su un piano più generale, le scelte
effettuate dall'Amministrazione nell'adozione degli
strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito
sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano
inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità, sicché
anche la destinazione data alle singole aree non necessita
di apposita motivazione oltre quella che si può evincere dai
criteri generali, di ordine tecnico- discrezionale, seguiti
nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente
l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al
progetto di modificazione al prg., salvo che particolari
situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in
favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di
specifiche considerazioni.
In questo senso, le uniche evenienze, che richiedono una più
incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici
generali sono date dal superamento degli standards minimi di
cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni
urbanistiche complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona
di determinate aree, dalla lesione dell'affidamento
qualificato del privato, derivante da convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il
Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di
silenzio-rifiuto su una domanda di concessione e, infine,
dalla modificazione in zona agricola della destinazione di
un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non
abusivo.
Dal momento che gli appellanti non rientrano in alcuna delle
descritte situazioni differenziate il mezzo in parola va
quindi conclusivamente disatteso.
Sotto un diverso profilo gli appellanti osservano che
l’inserimento del loro fondo nella zona di espansione
(all’interno della quale l’edificazione è consentita ai
sensi delle NTA comunali solo previa redazione di un piano
di lottizzazione di misura eccedente quella del fondo
stesso) si dimostra illogica e irrazionale in quanto la zona
circostante, infatti, è già densamente edificata.
Anche questo mezzo non merita positiva considerazione in
quanto in primo luogo investe il merito di scelte
discrezionali coinvolgenti il governo del territorio e
riservate all’Amministrazione, come tali insindacabili in
sede giurisdizionale (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.05.2017 n. 2089 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
modifica normativa dell'art. 21-nonies della Legge n.
241/1990, introdotta dall'art. 6, comma 1, lett. d), n. 1)
della Legge n. 124/2015 -che prevede un regime temporale
rigido di annullabilità dell'atto amministrativo (18 mesi)-
si applica ai provvedimenti in autotutela di provvedimenti
di primo grado adottati successivamente all'entrata in
vigore della norma.
---------------
...
per l'annullamento
della determinazione del Responsabile del V Settore –
Tecnico del Comune di Mercogliano 04.11.2015 n. 166 –
Registro Generale n. 416 del 03.12.2015, recante
"annullamento in autotutela del permesso di costruire
n. 17/2006 del 05/04/2006 e succ. variante del 19/12/2006 e di
tutti gli atti preordinati, connessi, collegati e
conseguenti", notificato a Banco Popolare il 18.12.2015, nonché di eventuali atti connessi e presupposti.
...
Il ricorso è infondato.
I. Non convince il primo mezzo, col quale parte ricorrente
lamenta la violazione dell’art. 21-nonies della l. n. 241/1990
per essere stato emesso l’impugnato provvedimento del 03.12.2015 ben oltre il termine di diciotto mesi
contemplato da detta norma con la modifica introdotta
dall’art. 6 della legge n. 124/2015. Il lasso di tempo
decorso non sarebbe comunque ragionevole, riferendosi l’atto
a permessi di costruire rilasciati nel 2006 e quindi
risalenti a circa dieci anni prima.
L’infondatezza si deve
al fatto che la modifica normativa dell'art. 21-nonies della
Legge n. 241/1990, introdotta dall'art. 6, comma 1, lett.
d), n. 1) della Legge n. 124/2015 -che prevede un regime
temporale rigido di annullabilità dell'atto amministrativo-
si applica ai provvedimenti in autotutela di provvedimenti
di primo grado adottati successivamente all'entrata in
vigore della norma (TAR Napoli, sez. II, 12.09.2016, n. 4229).
La vicenda di causa risulta quindi estranea all’alveo
applicativo della norma invocata da parte ricorrente, in
considerazione della data cui risalgono i permessi di
costruire annullati. Il decorso di circa due lustri dalla
data di adozione di questi, a sua volta, non rileva stante
la particolare pregnanza dell’interesse pubblico sotteso
all’atto impugnato, come si esporrà al capo che segue. Il
motivo in esame è quindi infondato
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 08.05.2017 n. 869 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Niente
spoils system per l'incarico tecnico-professionale
affidato dal Sindaco ad un soggetto esterno al Comune.
1)
nell'ambito del lavoro alle dipendenze delle
Pubbliche Amministrazioni, con riguardo agli incarichi
dirigenziali, sulla base alla giurisprudenza della Corte
costituzionale affermatasi a partire dalle sentenze n. 103 e
n. 104 del 2007 e ormai consolidata, le uniche ipotesi in
cui l'applicazione dello "spoils system" può essere ritenuta
coerente con i principi costituzionali di cui all'art. 97
Cost. sono quelle nelle quali si riscontrano i requisiti
della "apicalità" dell'incarico nonché della "fiduciarietà"
della scelta del soggetto da nominare, con la ulteriore
specificazione che la "fiduciarietà", per legittimare
l'applicazione del suindicato meccanismo, deve essere intesa
come preventiva valutazione soggettiva di consonanza
politica e personale con il titolare dell'organo politico,
che di volta in volta viene in considerazione come
nominante.
Pertanto, il meccanismo non è applicabile in caso di
incarico di tipo tecnico-professionale che non comporta il
compito di collaborare direttamente al processo di
formazione dell'indirizzo politico, ma soltanto lo
svolgimento di funzioni gestionali e di esecuzione rispetto
agli indirizzi deliberati dagli organi di governo dell'Ente
di riferimento. In questa caso, infatti, la "fiduciarietà"
della scelta del soggetto da nominare non si configura come
preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e
personale con il titolare dell'organo politico nominante;
2) l'interpretazione costituzionalmente
orientata al rispetto dell'art. 97 Cost., come inteso dalla
consolidata giurisprudenza costituzionale in materia di "spoils
system", del combinato disposto degli artt. 51 e 110, commi
3, primo periodo, e 4, del d.lgs. n. 267 del 2000 con l'art.
19 del d.lgs. n. 165 del 2001, porta ad escludere che un
incarico di tipo tecnico-professionale, che non implica il
compito di collaborare direttamente al processo di
formazione dell'indirizzo politico dell'Ente di riferimento
(nella specie: Comune), che sia stato affidato dal Sindaco
di un Comune, con un contratto prevedente la coincidenza del
termine finale del rapporto con "lo scadere del mandato
elettorale del Sindaco", possa essere oggetto di anticipata
cessazione da parte del Comune stesso a causa della morte
improvvisa del Sindaco persona fisica nominante,
sull'assunto del "carattere fiduciario" dell'incarico
medesimo
---------------
III - Esame delle censure
3. L'esame congiunto di tutti i motivi di censura - reso
opportuno dalla loro intima connessione - porta
all'accoglimento del ricorso, per le ragioni di seguito
esposte.
...
4. Deve essere chiarito che, nella presente controversia, si
discute dell'incarico di funzioni di dirigente dei Settori
Urbanistica, Lavori pubblici, Programmazione e progettazione
originariamente attribuito all'attuale ricorrente nel marzo
1999 fino allo scadere del mandato elettorale del sindaco
dal Sindaco del Comune di Reggio Calabria, incarico
confermato con la stessa durata nel maggio 2001 dopo le
elezioni comunali svoltesi "medio tempore", di cui lo stesso
Comune nel maggio 2002 ha disposto l'anticipata cessazione,
in conseguenza dell'improvviso decesso del Sindaco persona
fisica che aveva conferito l'incarico.
La principale questione controversa è quella di stabilire se
l'art. 110, commi 3 e 4, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267
(d'ora in poi: TUEL) possa consentire di applicare nella
specie il meccanismo dello "spoils system" che comporta la
cessazione anticipata dell'incarico e se tale risultato
possa, o meno, considerarsi conforme alla clausola del
contratto accessorio al provvedimento di conferimento
dell'incarico ove si è stabilito che il termine finale del
rapporto doveva coincidere con "lo scadere del mandato
elettorale del sindaco".
5. La soluzione di tale questione comporta la ricostruzione
di una complessa vicenda normativa e fattuale.
Tale ricostruzione è stata effettuata dalla Corte d'appello
di Reggio Calabria muovendo dalla premessa secondo cui in
base all'art. 110, comma 3, del d.lgs. 18.08.2000, n.
267 (d'ora in poi: TUEL) sarebbe consentita la cessazione
automatica degli incarichi dirigenziali non apicali del tipo
qui considerato al venire meno del "rapporto fiduciario" con
il Sindaco persona fisica che ha provveduto al relativo
conferimento, sicché in caso di improvviso decesso del
Sindaco prima della fine del relativo mandato a detti
incarichi potrebbe applicarsi il meccanismo dello "spoils
system".
6. Tale premessa è erronea in quanto non trova riscontro né
nella lettera e nella "rado" della suindicata disposizione,
né nella consolidata giurisprudenza in materia di "spoils
system" della Corte costituzionale (di cui si dirà più
avanti) condivisa da questa Corte di cassazione, alla quale
il Collegio intende dare continuità.
Ne risultano prive di base, e quindi infondate, tutte le
ulteriori statuizioni che -partendo dalla suindicata
premessa- hanno condotto la Corte territoriale al rigetto
dell'appello proposto da Gi.Ro.Fi., a partire
dalla interpretazione della clausola del contratto di lavoro
dirigenziale originariamente stipulato dall'appellante con
il Comune di Reggio Calabria l'11.03.1999 -il cui
contenuto, come si è detto, è stato confermato con decreto
n. 102 del 28.05.2001, successivo a nuove elezioni
comunali svoltesi "medio tempore"- ove si era stabilito che
il termine finale del rapporto dovesse coincidere con "lo
scadere del mandato elettorale del Sindaco".
7. A tale ultimo riguardo va, in particolare, sottolineato
come la interpretazione data dalla Corte territoriale alla
suddetta clausola del contratto "de quo", oltre ad essere il
"portato" di una erronea interpretazione della disciplina
generale in materia di incarichi conferiti dalle
Amministrazioni Pubbliche effettuata senza alcuna
considerazione dei principi affermati in materia da una
giurisprudenza costituzionale ormai decennale, risulta anche
essere stata effettuata senza il dovuto rispetto dei criteri
di ermeneutica contrattuale dettati dal codice civile (artt.
1362 e ss. cod. civ.).
8. Per chiarezza espositiva si ritiene opportuno procedere,
in primo luogo, a delineare, per sommi capi il quadro
normativo di riferimento, partendo dal duplice presupposto
secondo cui, diversamente da quanto si afferma nella
sentenza impugnata:
a) è indubbia l'applicabilità agli enti
locali della disciplina in materia di incarichi dirigenziali
dettata per il lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni
Pubbliche dal relativo TU (d'ora in poi: TUPI), a partire
dall'originario d.lgs. n. 29 del 1993 fino all'attuale
d.lgs. n. 165 del 2001 e s.m.i.;
b) agli incarichi affidati
a soggetti esterni alla Amministrazione si applica, in linea
di massima, la medesima disciplina dettata per gli incarichi
dati a dipendenti dell'Amministrazione, tranne che per gli
aspetti intrinsecamente incompatibili ovvero specificamente
diversificati.
8.1. Invero, a norma dell'art. 1 del TUPI le
disposizioni contenute in tale TU "disciplinano
l'organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di
impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche"
(comma 1), intendendosi per amministrazioni pubbliche, tra
le altre, "le amministrazioni dello Stato, le Regioni, le
Province e i Comuni" (comma 2). Tali disposizioni
"costituiscono principi fondamentali ai sensi dell'art. 117
Cost." (comma 3) e, in quanto tali, devono trovare
applicazione pure nell'ambito delle Amministrazioni degli
enti locali. In epoca successiva ai fatti per cui è
controversia ciò è stato reso palese attraverso la
sostituzione dell'originario comma 6 dell'art. 7 dello
stesso TUPI -disposizione questa inserita nel Titolo I
("Principi generali")- con i commi 6, 6-bis e 6-ter
dell'articolo, che poi sono stati ulteriormente modificati.
È stato così chiarito, al comma 6, che le amministrazioni
pubbliche, per esigenze cui non possono far fronte con
personale in servizio, possono conferire incarichi
individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura
occasionale o coordinata e continuativa ad esperti di
provata competenza, soltanto in presenza dei presupposti di
legittimità ivi indicati e si è aggiunto che "i regolamenti
di cui all'art. 110, comma 6, del TU di cui al d.lgs. 18.08.2000, n. 267 si adeguano ai principi di cui al comma
6" (vedi: comma 6-ter, introdotto con decorrenza dal 12.08.2006, dal d.l. n. 223 del 2006, art. 32, convertito,
con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006, richiamato
da Cass. 13.01.2014, n. 478, cui si rinvia per
eventuali ulteriori approfondimenti).
8.2. Parallelamente, gli artt. 88 e 111 del TUEL hanno
previsto, rispettivamente, che:
a) "all'ordinamento degli
uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi i
dirigenti" si applicano, oltre a quelle del TUEL, le
disposizioni del d.lgs. 03.02.1993, n. 29 e successive
modificazioni ed integrazioni e quindi, nel tempo, quelle
del d.lgs. n. 165 del 2001 (art. 88);
b) con particolare
riguardo alla disciplina della dirigenza, gli enti locali,
nell'esercizio della propria potestà regolamentare e
statutaria, devono adeguare i propri statuti e i regolamenti
oltre che ai principi dettati dal TUEL e anche a quelli
stabiliti del capo II ("Dirigenza") del d.lgs. n. 29 del
1993 e s.m.i. cit.
Peraltro, anche in questo ambito, tale soluzione è stata
definitivamente ribadita con il d.lgs. 27.10.2009, n.
150, art. 40 -avente decorrenza 15.11.2009, quindi
successiva ai fatti per cui è controversia- ove è stato
nuovamente stabilito che le disposizioni dei commi 6 (come
modificato) e 6-bis dell'art. 19 cit. -comprendenti la
norma sulla durata degli incarichi- si applicano alle
amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, e cioè a tutte
le Amministrazioni pubbliche, tra cui le Regioni, le
Province e i Comuni (vedi comma 6-ter dell'art. 19 cit.).
8.3. Comunque, deve essere precisato che i suindicati
interventi legislativi chiarificatori
successivi ai fatti di causa sono stati qui richiamati
soltanto per completezza -e per dare conto
dell'evoluzione del quadro normativo- in quanto
l'applicabilità agli enti locali del regime degli
incarichi esterni dettato dal TUPI era già indubbia da
quando la relativa normativa è entrata
originariamente in vigore.
In particolare, dell'applicabilità, in aggiunta alla
normativa dettata dal TUEL, dell'art. 19
del TUPI (rubricato: "Incarichi di funzioni dirigenziali"),
non poteva dubitarsi da quando è entrato in vigore l'art.
111 del TUEL (13.10.2000), visto che il suddetto art.
19 è
compreso tra le norme del Capo II del TUPI richiamate
dall'art. 111 stesso.
8.4. In base all'indicato art. 19 del TUPI (nel testo
applicabile "ratione temporis") gli
incarichi di funzione dirigenziale, che non comportano la
direzione degli uffici di livello
dirigenziale generale, come quello "de quo" (come si dirà
più avanti):
a) sono conferiti a tempo
determinato;
b) "hanno durata non inferiore a due anni e non
superiore a sette anni, con
facoltà di rinnovo" (comma 2);
c) sono revocati nelle
previste ipotesi di responsabilità
dirigenziale per inosservanza delle direttive generali e per
i risultati negativi dell'attività
amministrativa e della gestione ovvero in caso di
risoluzione consensuale del contratto
individuale (comma 7).
L'art. 110, comma 4, TUEL prevede come ulteriore specifica
ipotesi di risoluzione di
diritto del contratto a tempo determinato in argomento,
quella del "caso in cui l'ente locale
dichiari il dissesto o venga a trovarsi nelle situazioni
strutturalmente deficitarie".
Anche in questo ambito si sono avuti ulteriori interventi
del legislatore, successivi ai fatti
di causa. Così il d.l. n. 155 del 2005, art. 14-sexies,
convertito con modificazioni dalla legge n.
168 del 2005, nel modificare l'art. 19 cit. circa le
modalità del conferimento degli incarichi
dirigenziali, ha stabilito, tra l'altro, che la loro durata
non possa essere inferiore a tre anni né
eccedere il termine di cinque anni. In tal modo la durata
massima degli incarichi disciplinati
dall'art. 19 cit. è stata allineata a quella prevista dal
TUEL, il cui art. 110, comma 3, nel primo
periodo, stabilisce che gli incarichi a contratto -qual'è
quello per cui è controversia- non
possono avere durata superiore al mandato elettivo del
sindaco (o del presidente della
Provincia) in carica.
Ebbene, pure la suddetta modifica legislativa, evidentemente
diretta ad equiparare il più
possibile la disciplina degli incarichi esterni conferiti
dalle diverse Amministrazioni pubbliche
pure dal punto di vista della durata, offre un ulteriore
elemento ermeneutico -di tipo evolutivo- volto a confermare che il significato da attribuire alla
suindicata disposizione dell'art. 110,
comma 3, del TUEL non può che essere quello, e solo quello,
di indicare nel quinquennio la
durata massima degli incarichi.
8.5. Quanto al CCNL del Comparto Regioni ed Enti Locali Area
della Dirigenza 1998-2001, all'art. 13 (Affidamento e revoca degli incarichi),
nel sostituire l'art. 22 del CCNL del 10.04.1996:
a) ribadisce che gli enti, con gli atti
previsti dai rispettivi ordinamenti, adeguano le
regole sugli incarichi dirigenziali ai principi stabiliti
dall'art. 19, commi 1 e 2, del TUPI, "con
particolare riferimento ai criteri per il conferimento e la
revoca degli incarichi e per il passaggio
ad incarichi diversi nonché per relativa durata che non può
essere inferiore a due anni, fatte
salve le specificità da indicare nell'atto di affidamento e
gli effetti derivanti dalla valutazione
annuale dei risultati";
b) aggiunge che "la revoca
anticipata dell'incarico rispetto alla scadenza
può avvenire solo per motivate ragioni organizzative e
produttive o per effetto dell'applicazione
del procedimento di valutazione dei risultati".
Per quel che si è detto - contrariamente a quanto sostenuto
nella sentenza impugnata -
non può certamente dubitarsi che la suddetta disciplina
contrattuale abbia portata generale,
ma va anche aggiunto che essa si limita a chiarire il
significato della disciplina legislativa e a
confermare l'obbligo degli Enti locali di adeguamento della
propria disciplina sugli incarichi
dirigenziali a quella prevista dal TUPI.
9. A tutto questo va aggiunto che la Corte territoriale -nell'affermare che le sentenze
della Corte costituzionale n. 161 del 2008 e n. 103 del
2007, richiamate dall'appellante ai fini della prospettata
questione di legittimità costituzionale, riguardano
fattispecie non equiparabili
a quella di cui si discute nel presente giudizio- non ha
considerato che, al di là dell'incidente di
costituzionalità, comunque tali sentenze si inseriscono
nella copiosa giurisprudenza della Corte
costituzionale che, a partire proprio dalla sentenza n. 103
del 2007 e dalla coeva sentenza n.
104 del 2007, ha riscontrato profili di illegittimità
costituzionale in alcune discipline legislative
in materia di "spoils system" e, nel contempo, ne ha meglio
delineato i connotati, precisando
che la decadenza automatica -in assenza di valutazioni
concernenti i risultati raggiunti,
condotte nel rispetto del principio del giusto procedimento- risulta in contrasto con l'art. 97
Cost., sotto il duplice profilo della tutela
dell'imparzialità e del buon andamento della pubblica
amministrazione oltre che del principio di continuità
dell'azione amministrativa.
Questo complesso cammino ha portato il Giudice delle leggi a
precisare che le uniche
ipotesi in cui l'applicazione dello "spoils system" può
essere ritenuta coerente con i principi
costituzionali sono quelle nelle quali si riscontrano i
requisiti della "apicalità" dell'incarico
nonché della "fiduciarietà" della scelta del soggetto da
nominare, con la ulteriore specificazione
che tale "fiduciarietà", per legittimare l'applicazione
dell'indicato meccanismo, deve essere
intesa come preventiva valutazione soggettiva di consonanza
politica e personale con il titolare
dell'organo politico, che di volta in volta viene in
considerazione come nominante.
In assenza di tali requisiti, il meccanismo si pone in
contrasto con l'art. 97 Cost., in
quanto la sua applicazione viene a pregiudicare la
continuità, l'efficienza e l'efficacia dell'azione
amministrativa, oltre a comportare la sottrazione al
titolare dell'incarico, dichiarato decaduto,
delle garanzie del giusto procedimento (in particolare la
possibilità di conoscere la motivazione
del provvedimento di decadenza), poiché la rimozione del
dirigente risulterebbe svincolata
dall'accertamento oggettivo dei risultati conseguiti.
9.1. In questo ambito più volte (sentenze n. 228 del 2011,
n. 224 e n. 34 del 2010, n.
390 e n. 351 del 2008, n. 104 e 103 del 2007) la Corte
costituzionale ha affermato
l'incompatibilità con l'art. 97 Cost. di disposizioni di
legge prevedenti meccanismi di decadenza
automatica dalla carica, dovuti a cause estranee alle
vicende del rapporto instaurato con il
titolare e non correlati a valutazioni concernenti i
risultati conseguiti da quest'ultimo, quando
tali meccanismi siano riferiti non al personale addetto ad
uffici di diretta collaborazione con
l'organo di governo (sentenza n. 304 del 2010) oppure a
figure apicali, per le quali risulti
decisiva la personale adesione agli orientamenti politici
dell'organo nominante, ma ai titolari di
incarichi dirigenziali che comportino l'esercizio di
funzioni amministrative di attuazione
dell'indirizzo politico, anche quando tali incarichi siano
conferiti a soggetti esterni (sentenze n.
246 del 2011, n. 81 del 2010 e n. 161 del 2008).
Nel dichiarare l'illegittimità costituzionale di
disposizioni regionali che prevedevano la
decadenza automatica di figure tecnico- professionali
incaricate non già del compito di
collaborare direttamente al processo di formazione
dell'indirizzo politico, ma di perseguire gli
obiettivi definiti dagli atti di pianificazione e indirizzo
degli organi di governo locali (sentenze n.
20 del 2016, n. 27 del 2014, n. 152 del 2013, n. 228 del
2011, n. 104 del 2007 e, ancora, n.
34 del 2010) la Corte ha dato rilievo al fatto che "le
relative nomine richiedano il rispetto di
specifici requisiti di professionalità, che le loro funzioni
abbiano in prevalenza carattere tecnico-gestionale"
e che i loro rapporti istituzionali con gli organi politici
dell'Ente non siano diretti,
bensì mediati da una molteplicità di livelli intermedi
(sentenza n. 20 del 2016).
9.2. In sintesi se si tratta di figure tecnico-professionali
incaricate non già del compito di
collaborare direttamente al processo di formazione
dell'indirizzo politico, ma chiamate a
svolgere soltanto funzioni gestionali e di esecuzione
rispetto agli indirizzi deliberati dagli organi
di governo dell'Ente di riferimento il meccanismo dello "spoils
system" non è applicabile anche se la nomina è avvenuta fiduciariamente, perché in questo caso la "fiduciarietà"
della scelta del
soggetto da nominare non si configura come preventiva
valutazione soggettiva di consonanza
politica e personale con il titolare dell'organo politico
(vedi, da ultimo: sentenza n. 269 del
2016).
10. Poiché nella presente controversia si discute
dell'utilizzabilità del meccanismo dello
"spoils system" (dovuto al decesso del Sindaco nominante)
per un incarico di funzioni
dirigenziali di tipo tecnico-professionale (dirigenza dei
Settori Urbanistica, Lavori pubblici,
Programmazione e progettazione), ne risulta l'assoluta
pertinenza della suddetta
giurisprudenza costituzionale, alla quale si è conformata la
giurisprudenza di questa Corte
(vedi, per tutte: Cass. 22.07.2008, n. 20177; Cass. 09.06.2009, n. 13232; Cass. 10.02.2015, n. 2555; Cass. 18.02.2016, n. 3210;
Cass. 15.07.2016, n. 14593).
All'applicazione dei principi affermati da tale
giurisprudenza alla presente fattispecie
consegue che:
a) l'art. 110, comma 3, TUEL non può certamente essere
inteso nel senso di consentire
l'applicabilità dello "spoils system" ad incarichi non
apicali e di tipo tecnico-professionale, a
meno che non sia dimostrato che la "fiduciarietà" iniziale
si configuri come preventiva
valutazione soggettiva di consonanza politica e personale
tra l'incaricato del titolare dell'organo
politico di cui si tratta;
b) a tale risultato ermeneutico si perviene in base
all'obbligo dell'interprete di intendere
tutte le norme in materia di "spoils system" in senso
costituzionalmente orientato al rispetto
dell'art. 97 Cost., come interpretato dalla Corte
costituzionale;
c) in particolare, rispetto a tale interpretazione è
incompatibile l'attribuzione
all'espressione "in carica" posta alla fine della prima
frase dell'art. 110, comma 3, cit. -il cui
testo completo, per quanto interessa, è il seguente: "3. I
contratti di cui ai precedenti commi
non possono avere durata superiore al mandato elettivo del
sindaco ... in carica"- del
significato di consentire la decadenza automatica
dall'incarico tutte le volte in cui il sindaco per
una qualunque ragione e, quindi, anche per il suo decesso
improvviso, non sia più in carica, in
quanto questo equivarrebbe a legittimare il ricorso al
meccanismo dello "spoils system" anche
in ipotesi nella quali ciò si porrebbe in contrasto con
l'art. 97 della Costituzione, come
interpretato dalla giurisprudenza costituzionale;
d) di conseguenza, la su riportata norma non può che essere
intesa come diretta a
stabilire un limite oggettivo é chiaro di durata massima
degli incarichi di cui si tratta (la cui
durata minima è quella stabilita dell'art. 19 TUPI),
attraverso un implicito riferimento al
precedente art. 51 TUEL, ove è stabilita la durata
quinquennale del mandato elettivo "de quo";
e) nello stesso modo devono, quindi, intendersi tutti gli
atti che per gli incarichi in parola
fanno riferimento alla durata del mandato, quindi anche la
clausola contrattuale con la quale si
è stabilito che il termine finale del rapporto in oggetto
doveva coincidere con "lo scadere del
mandato elettorale del Sindaco".
11. A proposito di questa clausola vi è da aggiungere che la
Corte territoriale,
nell'interpretarla, non ha neppure tenuto conto dei principi
affermati da questa Corte in merito
all'interpretazione delle clausole contrattuali.
11.1. Una prima inesattezza rinvenibile al riguardo nella
sentenza impugnata è
rappresentata dalla mancata considerazione della normativa
sui contratti di lavoro a termine
nella parte in cui stabilisce la necessità di fissare il
termine finale del rapporto. In base a tale disciplina, in
linea generale, la suddetta scadenza può anche non essere
fissata in una data
determinata purché sia comunque determinabile (Cass. 02.03.1994, n. 2047; Cass. 20.02.1990, n. 1234).
Ma ciò certamente non significa che si possa trattare di una
data "variabile", determinata
ad esclusiva discrezione della parte datoriale.
E, tanto meno, una simile legittima scelta può legittimare
la creazione di ipotesi di
risoluzione anticipata del contratto stipulato con una P.A.
per un incarico dirigenziale che non
trovino alcun riscontro nelle disposizioni normative di
riferimento, come è avvenuto nella
specie, avendo la Corte territoriale -per giustificare la
propria decisione sul punto- richiamato
il comma 4 dell'art. 110 del TUEL mentre tale disposizione
non fa alcun riferimento, neppure
implicito, al decesso improvviso del Sindaco, per la
risoluzione di diritto, visto che testualmente
stabilisce: "4. Il contratto a tempo determinato è risolto
di diritto nel caso in cui l'ente locale
dichiari il dissesto o venga a trovarsi nelle situazioni
strutturalmente deficitarie".
Di conseguenza, anche in questa ottica, in conformità sia
con l'art. 97 Cost. sia con la
giurisprudenza di questa Corte, l'espressione usata dai
contraenti per indicare il momento
finale del rapporto non poteva che essere intesa nel senso
di ricalcare la norma di cui all'art.
110, comma 3, TUEL, e quindi nel senso stabilire un termine
finale certo di durata del rapporto
(in armonia con quanto stabilito dal TUPI), tanto più
considerando l'avvenuto prolungamento
dell'originario termine biennale operato con il decreto 05.07.2001, che la Corte territoriale
considera pacifico.
11.2. In ogni caso, in base al principio di utilità, la
clausola stessa deve essere
interpretata nel senso che possa produrre un effetto valido
e conforme alla legge piuttosto che
in senso contrario (arg. ex Cass. 20.03.2012, n. 8295).
11.3. Inoltre, secondo la consolidata e condivisa
giurisprudenza di questa Corte
l'interpretazione del contratto, dal punto di vista
logico-giuridico è un percorso circolare, il
quale impone all'interprete di:
(a) compiere l'esegesi del
testo, considerandone il contenuto
nella sua interezza e interpretando le clausole le une per
mezzo delle altre, onde valutare il
senso complessivo dell'atto;
(b) ricostruire in base ad essa
l'intenzione delle parti;
(c)
verificare se l'ipotesi di "comune intenzione" ricostruita
sulla base del testo sia coerente con le
parti restanti del contratto e con la condotta delle parti,
il tutto facendo puntuale applicazione i
dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. cod.
civ. (vedi, da ultimo: Cass. 10.05.2016, n. 9380; Cass. 15.07.2016, n. 14432; Cass.
09.12.2014, n. 25840).
12. Per concludere, nella sentenza impugnata, l'affermata
utilizzabilità dello "spoils
system" al caso di specie:
a) con riguardo alla ricostruzione del quadro normativo di
riferimento, risulta il frutto
della mancata applicazione della consolidata giurisprudenza
costituzionale e di legittimità in
materia di cessazione anticipata degli incarichi
dirigenziali nel lavoro pubblico, dalla quale
agevolmente su desume l'inapplicabilità del suddetto
meccanismo.
Ciò in quanto l'incarico di cui si tratta, oltre a non
essere apicale, risulta pacificamente
essere stato conferito per svolgere compiti di tipo
tecnico-professionale nell'esercizio di
funzioni meramente gestionali, sicché la fiduciarietà della
scelta operata dal Sindaco
nominante, titolare dell'organo politico "de quo", non
risulta essersi basata su una preventiva
valutazione soggettiva di consonanza politica e personale
tra il nominante e il soggetto
incaricato né si deduce che l'incarico sia stato attribuito
per svolgere compiti di collaborazione
diretta al processo di formazione del relativo indirizzo
politico.
Inoltre, pure dai numerosi riscontri positivi ottenuti dal
Ro.Fi. in sede di
valutazione è facile arguire che, tutt'al più, si sia
trattato di una "fiducia" nella preparazione
tecnico-professionale dell'incaricato allo svolgimento delle
diverse funzioni via via affidategli,
con l'obbligo di perseguire in veste neutrale risultati ed
obiettivi indicati dall'Amministrazione in
conformità con gli indirizzi deliberati dagli organi di
governo dell'Ente;
b) con riguardo alla interpretazione della clausola relativa
alla durata del contratto
accessorio al provvedimento di conferimento dell'incarico,
risulta viziata altresì dalla mancata
applicazione corretta degli artt. 1362 e ss. cod. civ., che
invece avrebbe consentito di dare alla
clausola stessa il significato di attribuire al contratto
una durata quinquennale, come stabilito
dalla normativa di riferimento (in particolare dall'art.
110, comma 3, TUEL, primo periodo, cit.,
interpretato in conformità con l'art. 97 Cost.).
IV — Conclusioni
14. In sintesi, per le ragioni dianzi esposte il ricorso
deve essere accolto, con assorbimento di ogni altro profilo
di censura.
La sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, con
rinvio, anche per le spese del presente giudizio di
cassazione, alla Corte d'appello di Reggio Calabria, in
diversa composizione, che si atterrà, nell'ulteriore esame
del merito della controversia, a tutti i principi su
affermati e, quindi, anche ai seguenti:
1) nell'ambito del lavoro alle dipendenze delle
Pubbliche Amministrazioni, con riguardo agli incarichi
dirigenziali, sulla base alla giurisprudenza della Corte
costituzionale affermatasi a partire dalle sentenze n. 103 e
n. 104 del 2007 e ormai consolidata, le uniche ipotesi in
cui l'applicazione dello "spoils system" può essere
ritenuta coerente con i principi costituzionali di cui
all'art. 97 Cost. sono quelle nelle quali si riscontrano i
requisiti della "apicalità" dell'incarico nonché
della "fiduciarietà" della scelta del soggetto da
nominare, con la ulteriore specificazione che la "fiduciarietà",
per legittimare l'applicazione del suindicato meccanismo,
deve essere intesa come preventiva valutazione soggettiva di
consonanza politica e personale con il titolare dell'organo
politico, che di volta in volta viene in considerazione come
nominante.
Pertanto, il meccanismo non è applicabile in caso di
incarico di tipo tecnico-professionale che non comporta il
compito di collaborare direttamente al processo di
formazione dell'indirizzo politico, ma soltanto lo
svolgimento di funzioni gestionali e di esecuzione rispetto
agli indirizzi deliberati dagli organi di governo dell'Ente
di riferimento. In questa caso, infatti, la "fiduciarietà"
della scelta del soggetto da nominare non si configura come
preventiva valutazione soggettiva di consonanza politica e
personale con il titolare dell'organo politico nominante
(vedi, da ultimo: Corte cost. sentenza n. 269 del 2016);
2) l'interpretazione costituzionalmente orientata
al rispetto dell'art. 97 Cost., come inteso dalla
consolidata giurisprudenza costituzionale in materia di "spoils
system", del combinato disposto degli artt. 51 e 110,
commi 3, primo periodo, e 4, del d.lgs. n. 267 del 2000 con
l'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, porta ad escludere che
un incarico di tipo tecnico-professionale, che non implica
il compito di collaborare direttamente al processo di
formazione dell'indirizzo politico dell'Ente di riferimento
(nella specie: Comune), che sia stato affidato dal Sindaco
di un Comune, con un contratto prevedente la coincidenza del
termine finale del rapporto con "lo scadere del mandato
elettorale del Sindaco", possa essere oggetto di
anticipata cessazione da parte del Comune stesso a causa
della morte improvvisa del Sindaco persona fisica nominante,
sull'assunto del "carattere fiduciario" dell'incarico
medesimo
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 05.05.2017 n. 11015). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
secondo comma dell’art. 34 prevede, come è noto,
l’applicazione della sanzione pecuniaria pari al doppio del
costo di costruzione e non specifica espressamente in capo a
quali soggetti la sanzione debba essere applicata.
La questione è tuttavia risolta in termini inequivoci
dall’art. 29 del T.U. Edilizia, ai cui sensi possono essere
sanzionati il titolare del permesso di costruire, il
committente, il costruttore ed il direttore dei lavori, che
sono responsabili “ai fini e per gli effetti delle norme
contenute nel presente capo”. L’ultimo periodo del primo
comma dell’art. 29 specifica, poi, che essi soltanto sono
“tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e
solidalmente alle spese per l’esecuzione in danno, in caso
di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo
che dimostrino di non essere responsabili dell’abuso”.
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha affermato
che ogni sanzione amministrativa, anche in materia edilizia,
va comminata nei confronti del responsabile dell’abuso
edilizio contestato, che ai sensi dell’art. 29 T.U. Edilizia
non è soltanto il costruttore, ma anche il committente,
mentre il proprietario non autore dell’abuso e non
committente delle opere può ritenersi responsabile soltanto
ove emerga un suo coinvolgimento doloso o colposo nella
realizzazione dei lavori.
Ne discende, per tale profilo, l’illegittimità
dell’ingiunzione di pagamento disposta nei confronti dei
ricorrenti, che sono rimasti estranei alla commissione
dell’abuso edilizio e non sono riconducibili ad alcuna delle
figure tassativamente indicate dalla legge, non essendo
titolari della concessione edilizia per la costruzione
dell’immobile, né committenti, né costruttori, né direttori
dei lavori.
----------------
... per l'annullamento della determinazione 02.01.2017, n. 3,
del Responsabile del Settore Tecnico e di Pianificazione del
Territorio del Comune di Sangano (comunicata in data
14.01.2017), con la quale è stata applicata nei confronti dei
sig.ri Ba.An., Ba.Ro., Ga.Ch. e Ve.Da., ai sensi dell'art. 34, c. 2, D.P.R.
380/2001, la sanzione pecuniaria di Euro 62.433,41 a titolo
di ‘fiscalizzazione' per la realizzazione di opere in
parziale difformità dalla concessione edilizia n. 55/1973
ed, in particolare, per l'ampliamento di 35,93 mq. della
superficie dell'edificio di civile abitazione ubicato in via
.. n. 1 - via ... (doc. 9);
...
5. Il ricorso è fondato e va accolto, e viene definito con
sentenza in forma semplificata alla luce di recenti
decisioni della Sezione che si sono pronunciate su
fattispecie analoghe a quella qui in esame in senso conforme
alla tesi sostenuta dai ricorrenti con il secondo motivo di
ricorso, che assume valore assorbente.
5.1. Si tratta delle sentenze n. 1204/2013 del 15.11.2013 e n. 500/17 del 13.04.2017. Ha osservato la Sezione
che “Il secondo comma dell’art. 34 prevede, come è noto,
l’applicazione della sanzione pecuniaria pari al doppio del
costo di costruzione e non specifica espressamente in capo a
quali soggetti la sanzione debba essere applicata.
La questione è tuttavia risolta in termini inequivoci
dall’art. 29 del T.U. Edilizia, ai cui sensi possono essere
sanzionati il titolare del permesso di costruire, il
committente, il costruttore ed il direttore dei lavori, che
sono responsabili “ai fini e per gli effetti delle norme
contenute nel presente capo”. L’ultimo periodo del primo
comma dell’art. 29 specifica, poi, che essi soltanto sono
“tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e
solidalmente alle spese per l’esecuzione in danno, in caso
di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo
che dimostrino di non essere responsabili dell’abuso”.
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha affermato
che ogni sanzione amministrativa, anche in materia edilizia,
va comminata nei confronti del responsabile dell’abuso
edilizio contestato, che ai sensi dell’art. 29 T.U. Edilizia
non è soltanto il costruttore, ma anche il committente,
mentre il proprietario non autore dell’abuso e non
committente delle opere può ritenersi responsabile soltanto
ove emerga un suo coinvolgimento doloso o colposo nella
realizzazione dei lavori (cfr. TAR Emilia Romagna, Bologna,
sez. II, 26.09.2007 n. 2205; TAR Lazio, Sez. I-quater,
10.05.2010 n. 10469).
Ne discende, per tale profilo, l’illegittimità
dell’ingiunzione di pagamento disposta nei confronti dei
ricorrenti, che sono rimasti estranei alla commissione
dell’abuso edilizio e non sono riconducibili ad alcuna delle
figure tassativamente indicate dalla legge, non essendo
titolari della concessione edilizia per la costruzione
dell’immobile, né committenti, né costruttori, né direttori
dei lavori”.
5.2. In senso analogo si è pronunciato anche TAR Liguria,
sez. I, 05.07.2011, n. 1051 (in aggiunta ai precedenti
già citati).
5.3. Tali principi, da cui il collegio non ha motivi per
discostarsi, si attagliano perfettamente al caso qui in
esame.
Nel caso di specie, infatti, è pacifico che i
ricorrenti non sono i soggetti responsabili dell’abuso
accertato dall’amministrazione comunale, né rientrano tra i
soggetti di cui all’art. 29 del D.P.R. n. 380/2001 (titolare
del permesso di costruire, committente, costruttore,
direttore dei lavori). Essi hanno acquistato la proprietà
delle rispettive unità immobiliari solo in anni recenti, tra
il 1984 e il 2008, mentre l’abuso edilizio è stato posto in
essere all’epoca di realizzazione dell’intero fabbricato,
tra il 1973 e il 1974, e comunque certamente prima del 1984,
come dimostra il primo atto pubblico di vendita posto in
essere dai titolari della concessione edilizia, sig.ri Gi. e Ru., (atto a rogito Notaio Pi. in
data 28.06.1984, rep. n. 18858/7979, docc. 3 e 3-bis),
che già aveva ad oggetto due unità immobiliari al piano
terreno, in luogo dell’unica assentita dall’amministrazione,
e due unità immobiliari al primo piano, nella stessa
conformazione plano-volumetrica accertata attualmente dal
Comune di Sangano e fatta oggetto del provvedimento
sanzionatorio.
5.4. Da tali considerazioni discende, pertanto,
l’illegittimità del provvedimento impugnato, il quale è
stato adottato nei confronti di soggetti privi della
qualificazione soggettiva richiesta dall’art. 34, comma 2, DPR
380/2001 ai fini dell’irrogazione della sanzione pecuniaria
ivi prevista
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 21.04.2017 n. 540 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Legittimo il provvedimento di revoca del passo carrabile se
il garage diventa ufficio.
Non è possibile mantenere un passo carrabile di fronte ad un
ufficio che in precedenza era adibito a locale destinato al
ricovero dei veicoli. Anche se saltuariamente questo
manufatto viene utilizzato per ricoverare veicoli a due
ruote.
Ai sensi dell’art. 46, comma 2, lett.
B), del Dpr 495/1992 “il passo carrabile deve consentire
l'accesso ad un'area laterale che sia idonea allo
stazionamento dei veicoli”.
Proprio il tenore di detta disposizione dimostra che il
locale in riferimento al quale viene concesso il passo
carrabile deve essere utilizzato esclusivamente per il
rimessaggio di autoveicoli, finalità quest’ultima che
esclude che gli stessi locali possano legittimamente essere
utilizzati a fini commerciali.
Altrettanto evidente è che l’avvenuto utilizzo ai fini
commerciali non è suscettibile di venir meno laddove risulti
dimostrato che gli stessi locali siano utilizzati, nelle ore
serali, per il rimessaggio di motorini, risultando detta
circostanza del tutto ininfluente rispetto alla destinazione
d’uso impressa dalla stessa ricorrente.
----------------
... per l'annullamento:
- del provvedimento dirigenziale n. 2016/DD/08491 del
01.12.2016, notificato il 21.12.2016, con il quale è stata
disposta “la revoca della concessione per l'esercizio di
passo carrabile n. 6947 del 01/06/1996” e intimata “la
riconsegna del cartello n. 6947 di Passo Carrabile (…)
nonché il ripristino (…) dello stato dei luoghi (rifacimento
marciapiede in corrispondenza del n. civico 12/r)”;
- di ogni altro atto presupposto, attuativo e/o comunque
connesso a tale provvedimento, se lesivo, ivi compresi:
a) la comunicazione di inizio del procedimento di revoca della
concessione passo carrabile n. 6947/1996, a firma del
Responsabile della Direzione Nuove Infrastrutture e
Mobilità, P.O. Z.T.L., Aree Pedonali e Autorizzazioni;
b) la comunicazione del 30.01.2017, Responsabile della Direzione
Nuove Infrastrutture e Mobilità, P.O. Z.T.L., Aree Pedonali
e Autorizzazioni, di conferma della provvedimento di revoca.
...
Con il presente ricorso la Sig.ra Ca.Al. ha impugnato il
provvedimento dirigenziale n. 2016/DD/08491 del 01.12.2016,
notificato il 21.12.2016, con il quale è stata disposta “la
revoca della concessione per l’esercizio di passo carrabile
n. 6947 del 01/06/1996” e intimata “la riconsegna del
cartello n. 6947”, unitamente all’impugnazione degli
atti ad esso presupposti, tra i quali, la comunicazione del
30.01.2017 del Comune Firenze di conferma della
provvedimento di revoca.
...
Il ricorso è infondato e va respinto.
Con i due motivi di gravame, la cui sostanziale analogia
delle argomentazioni proposte consente una trattazione
unitaria, si sostiene che l’Amministrazione comunale avrebbe
ingenerato l’affidamento circa l’ammissibilità del
mantenimento del passo carrabile anche in presenza di locali
utilizzati ad uso “uffici” e, ancora, la violazione
dell’art. 46, comma 2, lett. b), del Dpr 495/1992.
Al riguardo va rilevato che, nel corso della voltura del
2005, era stata la stessa Sig.ra Ca. a dichiarare che
l’autorimessa e/o lo spazio aperto a cui si accede con il
passo carrabile “è permanentemente e continuativamente
destinato a ricovero di veicoli e che in caso di cambiamenti
nella destinazione d’uso questi saranno tempestivamente
comunicati”.
L’autorizzazione per il passo carrabile è stata dunque
rilasciata sul presupposto della veridicità delle
dichiarazioni rese dalla Sig.ra Ca. e in funzione di una
precisa utilizzazione dei locali, circostanze queste ultime
che sono state smentite dagli accertamenti posti in essere.
In particolare dal verbale del 21.09.2016 si desume che,
contrariamente a quanto affermato, dal passo carrabile si
accedeva ad un’agenzia di assicurazioni e, quindi, non a
locali adibiti al ricovero di veicoli, ma a locali
utilizzati a ufficio (circostanza comprovata dalla
documentazione in atti ed in particolare dal contratto di
locazione sottoscritto dalla ricorrente e dal materiale
fotografico allegato al ricorso).
Ciò premesso è evidente che, a fronte dell’insussistenza dei
presupposti per il mantenimento del passo carrabile, il
Comune di Firenze non avrebbe potuto che adottare il
provvedimento di revoca ora impugnato.
Si consideri, infatti, che, ai sensi dell’art. 46, comma 2,
lett. B), del Dpr 495/1992 “il passo carrabile deve
consentire l'accesso ad un'area laterale che sia idonea allo
stazionamento dei veicoli”.
Proprio il tenore di detta disposizione dimostra che il
locale in riferimento al quale viene concesso il passo
carrabile deve essere utilizzato esclusivamente per il
rimessaggio di autoveicoli, finalità quest’ultima che
esclude che gli stessi locali possano legittimamente essere
utilizzati a fini commerciali (in questo senso si veda TAR
Toscana Firenze Sez. III, 17.02.2006, n. 485).
Altrettanto evidente è che l’avvenuto utilizzo ai fini
commerciali non è suscettibile di venir meno laddove risulti
dimostrato che gli stessi locali siano utilizzati, nelle ore
serali, per il rimessaggio di motorini, risultando detta
circostanza del tutto ininfluente rispetto alla destinazione
d’uso impressa dalla stessa ricorrente.
In definitiva l’infondatezza delle censure dedotte consente
di respingere il ricorso (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza
12.04.2017 n. 560 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire
e formazione
del silenzio assenso
“La formazione del silenzio-assenso
sulla domanda di permesso a costruire postula che l'istanza
sia assistita da tutti i presupposti di accoglibilità, non
determinandosi ope legis l'accoglimento dell'istanza ogni
qualvolta manchino i presupposti di fatto e di diritto
previsti dalla norma, tenendo presente che il
silenzio-assenso non può formarsi in assenza della
documentazione completa prescritta dalle norme in materia
per il rilascio del titolo edilizio, in quanto l'eventuale
inerzia dell'Amministrazione nel provvedere non può far
guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non
potrebbero mai conseguire in virtù di un provvedimento
espresso”; e tanto perché “il silenzio equivale al
provvedimento amministrativo, e ciò non incide in senso
abrogativo sull’esistenza del regime autorizzatorio, che
rimane inalterato, ma introduce una modalità semplificata di
conseguimento dell’autorizzazione”.
In particolare, poi, costituisce requisito essenziale, ai
fini della formazione del provvedimento silenzioso, la
dichiarazione del progettista abilitato che assevera la
conformità del progetto alla disciplina urbanistica vigente
“poiché rappresenta la motivazione interna del provvedimento
favorevole al privato e può giustificare, in un’ottica di
semplificazione, l’inerzia dell’Amministrazione e il
conseguente assenso tacito su un progetto apparentemente
conforme alla disciplina urbanistica”; ragion per cui, “non
può ritenersi formato il silenzio-assenso nell'ipotesi in
cui il progettista si sia limitato ad affermare
genericamente la compatibilità dell'intervento rispetto alla
vigente normativa ed abbia omesso qualsiasi attestazione
sulla sua conformità urbanistica, stante da un lato
l'insussistenza di una equivalenza tra i differenti concetti
della conformità e della compatibilità (quest'ultima,
infatti, postula un apprezzamento valutativo, sia pure alla
stregua di regole tecniche) e, dall'altro, la necessità che
le dichiarazioni siano rese in maniera chiara ed inequivoca
dal progettista, soprattutto in considerazione delle
relative responsabilità, anche sul piano penale”, atteso
anche che “La formazione del silenzio assenso sulle domande
di concessione edilizia ha carattere limitato ed è
subordinato alla esistenza di uno strumento urbanistico
vigente ed adeguato alle prescrizioni ed agli standard
introdotti dalla l. n. 765 del 1967, nonché di una
programmazione urbanistica di dettaglio, tale da non
lasciare all'amministrazione alcuno spazio di
discrezionalità, neppure sotto il profilo tecnico”.
Peraltro, va evidenziato che “della presenza di tutta la
documentazione deve essere data prova, alla stregua degli
ordinari principi processuali (art. 64, comma 1, c.p.a.),
dalla parte ricorrente, trattandosi di documentazione la cui
copia è attualmente nella sua disponibilità o è virtualmente
accessibile mediante l'impiego degli strumenti
procedimentali o processuali previsti dall'ordinamento”.
---------------
Oggetto della domanda demolitoria proposta in questa sede è
la nota prot. n. 5245/2012 del 05/12/2012, con cui il Comune
di Cautano - Sportello Unico per l'Edilizia ha inviato a
Ma.Lu. [la quale, in data 04.07.2012, aveva
presentato un’istanza (prot. n. 3181) per il rilascio di un
permesso di costruire volto al “mutamento di destinazione
d’uso per uso residenziale del nucleo familiare del
proprietario, L.R. n. 19/2009 mod. dalla L.R. n. 1/2011 art.
6-bis (piano casa bis)”, in relazione a cui, peraltro, già
vi era stata una richiesta di integrazione documentale (con
nota prot. n. 3352 del 05.07.2012), riscontrata positivamente
dall’interessata il successivo 03.08.2012 (prot. n. 3701)] la
seguente comunicazione: “in riferimento alla domanda di PDC
in oggetto, la Commissione Edilizia nella seduta del
26/11/2012 ha rinviato la pratica con osservazioni e per
acquisire relazione tecnica asseverata sui titoli
abilitativi pregressi con allegati grafici”; contestualmente
evidenziandosi che "nel caso di mancata
integrazione”l’Ufficio“trascorso il termine perentorio di 60
giorni dalla data della ricezione” avrebbe archiviato
l’istanza edilizia.
A sostegno di detta domanda, parte ricorrente prospetta un
unico, articolato motivo di ricorso.
Ciò posto, va preliminarmente rilevato che, pur avendo la
citata nota natura di atto infraprocedimentale, la sua
impugnazione risulta ammissibile per essere essa
suscettibile di determinare un arresto del procedimento
edilizio attivato dalla Matarazzo, con conseguente lesione
dell’interesse legittimo di costei, in caso di mancata
produzione da parte sua di una “relazione tecnica asseverata
sui titoli abilitativi pregressi con allegati grafici”
(richiesta di cui appunto viene contestata qui la
legittimità).
Nel merito, va disattesa la censura incentrata sull’asserito
sostanziarsi, secondo il modulo previsto dall’art. 20 DPR
380/2001 (nella formulazione applicabile ratione temporis),
del silenzio assenso sulla presentata domanda di permesso di
costruire.
Va premesso, invero, conformemente a condivisibile
giurisprudenza, che “La formazione del silenzio-assenso
sulla domanda di permesso a costruire postula che l'istanza
sia assistita da tutti i presupposti di accoglibilità, non
determinandosi ope legis l'accoglimento dell'istanza ogni
qualvolta manchino i presupposti di fatto e di diritto
previsti dalla norma, tenendo presente che il silenzio-assenso non può formarsi in assenza della documentazione
completa prescritta dalle norme in materia per il rilascio
del titolo edilizio, in quanto l'eventuale inerzia
dell'Amministrazione nel provvedere non può far guadagnare
agli interessati un risultato che gli stessi non potrebbero
mai conseguire in virtù di un provvedimento espresso” (così
TAR Campania-Napoli n. 110 del 29.02.2016; nonché cfr. TAR Puglia-Lecce n. 3342 del 19.01.2015); e tanto perché “il
silenzio equivale al provvedimento amministrativo, e ciò non
incide in senso abrogativo sull’esistenza del regime autorizzatorio, che rimane inalterato, ma introduce una
modalità semplificata di conseguimento dell’autorizzazione”
(così TAR Puglia-Bari n. 37 del 14.01.2016).
In particolare, poi, costituisce requisito essenziale, ai
fini della formazione del provvedimento silenzioso, la
dichiarazione del progettista abilitato che assevera la
conformità del progetto alla disciplina urbanistica vigente
“poiché rappresenta la motivazione interna del provvedimento
favorevole al privato e può giustificare, in un’ottica di
semplificazione, l’inerzia dell’Amministrazione e il
conseguente assenso tacito su un progetto apparentemente
conforme alla disciplina urbanistica” (così TAR Abruzzo-Pescara n. 486 del
03.12.2014); ragion per cui, “non
può ritenersi formato il silenzio-assenso nell'ipotesi in
cui il progettista si sia limitato ad affermare
genericamente la compatibilità dell'intervento rispetto alla
vigente normativa ed abbia omesso qualsiasi attestazione
sulla sua conformità urbanistica, stante da un lato
l'insussistenza di una equivalenza tra i differenti concetti
della conformità e della compatibilità (quest'ultima,
infatti, postula un apprezzamento valutativo, sia pure alla
stregua di regole tecniche) e, dall'altro, la necessità che
le dichiarazioni siano rese in maniera chiara ed inequivoca
dal progettista, soprattutto in considerazione delle
relative responsabilità, anche sul piano penale” (così TAR Campania-Napoli n. 2281 del
03.05.2013), atteso anche che “La
formazione del silenzio assenso sulle domande di concessione
edilizia ha carattere limitato ed è subordinato alla
esistenza di uno strumento urbanistico vigente ed adeguato
alle prescrizioni ed agli standard introdotti dalla l. n.
765 del 1967, nonché di una programmazione urbanistica di
dettaglio, tale da non lasciare all'amministrazione alcuno
spazio di discrezionalità, neppure sotto il profilo
tecnico” (così Cons. di Stato sez. V, n. 3796 del
17.07.2014).
Peraltro, va evidenziato che “della presenza di tutta la
documentazione deve essere data prova, alla stregua degli
ordinari principi processuali (art. 64, comma 1, c.p.a.),
dalla parte ricorrente, trattandosi di documentazione la cui
copia è attualmente nella sua disponibilità o è virtualmente
accessibile mediante l'impiego degli strumenti
procedimentali o processuali previsti dall'ordinamento”
(così TAR Lazio-Roma n. 9267 del 09.08.2016).
Orbene, nella fattispecie in esame, dalla prodotta copia
della “richiesta di permesso di costruire inoltrata in data
04.07.2012 prot. n. 3181 e documentazione allegata” (cfr.
indice della produzione di parte ricorrente) presentata al
Comune di Cautano, risultano sì essere state allegate alla
pratica edilizia, una “relazione tecnica” e una “relazione
paesaggistica”, entrambe a firma dell’architetto Co.Ca., ma le stesse non risultano essere munite della
formale asseverazione prescritta dall’art. 20, co. 1, DPR
380/2001, specificamente richiesta quanto alla “conformità
del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed
adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre
normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell'attività edilizia e, in particolare, alle norme
antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie
nel caso in cui la verifica in ordine a tale conformità non
comporti valutazioni tecnico-discrezionali, alle norme
relative all'efficienza energetica”; come pure non emerge
la presentazione della “attestazione concernente il titolo
di legittimazione” pure richiesta dal medesimo articolo: e
appunto tali carenze portano ad escludere che sussistessero
i presupposti per la formazione dell’invocato silenzio-assenso.
E’ fondata, viceversa, l’ulteriore censura incentrata
sull’assunto che la richiesta di integrazione documentale
sarebbe in violazione degli artt. 9-bis e 20 co. 5 DPR
380/2001.
Deve, infatti, convenirsi con la difesa di parte
ricorrente, allorché evidenzia che i “titoli abilitativi
pregressi” relativi al fabbricato oggetto del progettato
intervento sono atti già in disponibilità
dell’Amministrazione procedente, ovvero da questa
acquisibili autonomamente, per cui la richiesta di una
“relazione tecnica asseverata” in ordine ad essi, “con
allegati grafici” risulta del tutto ultronea e dilatoria;
come anche dimostrato dalla circostanza che si tratta di una
seconda richiesta di integrazione documentale, laddove
appunto il comma 5 del ricordato art. 20 DPR 380/2001
consente un’unica interruzione procedimentale per acquisire
“documenti che integrino o completino la documentazione
presentata”.
Non sussiste, infine, la necessità di esaminare la censura
incentrata sull’asserzione della non necessità, per
l’intervento de quo, del previo rilascio di una
autorizzazione paesaggistica, non figurando tale
problematica tra le ragioni ostative ad una positiva
conclusione del procedimento edilizio.
Pertanto, l’atto impugnato va annullato, salvi comunque
rimanendo gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione
procedente in ordine alla definizione della pratica edilizia
in questione (TAR Campania-Napoli,
Sez. VIII,
sentenza 03.04.2017 n. 1776 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Non
vi è dubbio che il proprietario del terreno sul quale terzi
abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo
incontrollato non possa andare incontro a una responsabilità
di posizione, in difetto di elementi di diretta
partecipazione al reato o di un contributo materiale o
morale nell'illecita gestione dei rifiuti.
I reati di realizzazione e gestione di discarica non
autorizzata e stoccaggio di rifiuti tossici e nocivi senza
autorizzazione hanno natura di reati permanenti, che possono
realizzarsi soltanto in forma commissiva; ne consegue che
essi non possono consistere nel mero mantenimento della
discarica o dello stoccaggio da altri realizzati, pur in
assenza di qualsiasi partecipazione attiva e in base alla
sola consapevolezza della loro esistenza, salvo che risulti
integrata una condotta concorsuale mediante condotta
omissiva, nei casi in cui il soggetto aveva l'obbligo
giuridico di impedire la realizzazione od il mantenimento
dell'evento lesivo.
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel
ritenere che, in materia di rifiuti, non è configurabile in
forma omissiva il reato di cui all'art. 256, comma secondo,
D.Lgs. n. 152 del 2006, nei confronti del proprietario di un
terreno sul quale terzi abbiano abbandonato o depositato
rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso in cui non si
attivi per la rimozione dei rifiuti, poiché tale
responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo
giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento
dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo
ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti.
---------------
1. I ricorsi sono infondati.
2. Come ha correttamente argomentato il procuratore Generale
non vi è
dubbio che il proprietario del terreno sul quale terzi
abbiano abbandonato o
depositato rifiuti in modo incontrollato non possa andare
incontro a una
responsabilità di posizione, in difetto di elementi di
diretta partecipazione al
reato o di un contributo materiale o morale nell'illecita
gestione dei rifiuti.
I reati
di realizzazione e gestione di discarica non autorizzata e
stoccaggio di rifiuti
tossici e nocivi senza autorizzazione hanno natura di reati
permanenti, che
possono realizzarsi soltanto in forma commissiva; ne
consegue che essi non
possono consistere nel mero mantenimento della discarica o
dello stoccaggio da
altri realizzati, pur in assenza di qualsiasi partecipazione
attiva e in base alla sola
consapevolezza della loro esistenza (Sez. U, n. 12753 del
05/10/1994,
Zaccarelli, Rv. 199385), salvo che risulti integrata una
condotta concorsuale
mediante condotta omissiva, nei casi in cui il soggetto
aveva l'obbligo giuridico di impedire la realizzazione od il
mantenimento dell'evento lesivo (Sez. F, n. 44274
del 13/08/2004, Preziosi, Rv. 230173).
Sul punto, come ricorda lo stesso ricorrente, la
giurisprudenza di legittimità
è ferma nel ritenere che, in materia di rifiuti, non è
configurabile in forma
omissiva il reato di cui all'art. 256, comma secondo, D.Lgs.
n. 152 del 2006, nei
confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi
abbiano abbandonato o
depositato rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso in
cui non si attivi per la
rimozione dei rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste
solo in presenza di un
obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il
mantenimento dell'evento
lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia
atti di gestione o
movimentazione dei rifiuti (Sez. 3, n. 50997 del 07/10/2015, Cucinella, Rv.
266030).
Nel caso in esame, tuttavia, l'accusa ipotizza che gli
indagati abbiano
realizzato o comunque gestito una discarica non autorizzata
sul proprio terreno.
Va ricordato che, in sede di riesame del sequestro
probatorio, il tribunale è
chiamato a verificare l'astratta configurabilità del reato
ipotizzato, valutando il
"fumus commissi delicti" in relazione alla congruità degli
elementi rappresentati,
non già nella prospettiva di un giudizio di merito sulla
concreta fondatezza
dell'accusa, bensì con esclusivo riferimento alla idoneità
degli elementi, su cui si
fonda la notizia di reato, a rendere utile l'espletamento di
ulteriori indagini per
acquisire prove certe o ulteriori del fatto, non altrimenti
esperibili senza la
sottrazione del bene all'indagato o il trasferimento di esso
nella disponibilità
dell'autorità giudiziaria (Sez. 3, n. 15254 del 10/03/2015, Previtero, Rv. 263053)
sicché, in materia di riesame del vincolo probatorio, il
sindacato del giudice non
può investire la concreta fondatezza dell'accusa, ma è
circoscritto alla verifica
dell'astratta possibilità di sussumere il fatto in una
determinata ipotesi di reato e
al controllo circa la qualificazione dell'oggetto
sequestrato come corpus delicti e,
quindi, all'esistenza di una relazione di immediatezza tra
il bene stesso e l'illecito
penale.
Ciò posto, il tribunale ha osservato i suddetti principi ed
ha anche dato atto
tanto delle finalità probatorie perseguite dal pubblico
ministero quanto della
serietà del progetto investigativo finalizzato ad eseguire
ulteriori accertamenti
già delegati alla polizia giudiziaria con atto del 18.12.2015, con la
conseguenza che la doglianza formulata non ha alcun
fondamento né sotto il
profilo del fumus e neppure riguardo alle perseguite
finalità probatorie.
3. I ricorsi vanno pertanto rigettati
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.03.2017 n. 14503). |
URBANISTICA:
I Piani urbanistici attuativi devono contenere le
indicazioni anche per gli edifici pubblici.
E' da ritenersi illegittimo il Piano
urbanistico attuativo che prevede la riqualificazione di
un'area dismessa quantificando gli standard di parcheggio
con esclusivo riferimento alle destinazioni private
(residenze, uffici e negozi), senza indicazioni per quanto
riguarda gli edifici pubblici.
Con riferimento ai piani di attuazione
degli strumenti urbanistici generali, ai sensi della
disposizione contenuta nell'art. 22 l.r. Lombardia 51/1975,
(come modificata dalla l.r. n. 1/2001), che indica, la
dotazione minima delle attrezzature pubbliche e di interesse
pubblico o generale dei nuovi insediamenti, sommando le
singole superfici di parcheggi realizzati in tipologia
multipiano, è legittimo individuare la superficie
complessiva destinata a parcheggio.
In particolare, sia il d.m. 02.04.1968, n. 1444, sia la l.r.
Lombardia n. 51 del 1975, nel disciplinare la materia degli
standards urbanistici a livello comunale, prevedono che
negli strumenti urbanistici sia assicurata una dotazione
globale minima, inderogabile, di aree per attrezzature
pubbliche e di uso pubblico, rapportata all'entità degli
insediamenti residenziali rimettendo alla potestà
discrezionale dell'amministrazione in relazione alle
effettive esigenze locali di derogare ai parametri interni
di distribuzione della stessa dotazione fra quattro
categorie di opere (la prima delle quali concerne
l'istruzione superiore): è pertanto illegittima la
determinazione del fabbisogno delle aree da destinare alle
attrezzature scolastiche operata, nel rispetto dei predetti
criteri di ripartizione, senza valutare l'effettiva esigenza
di vincolare nuove aree ai predetti fini in presenza di
strutture scolastiche private già esistenti e funzionanti.
---------------
7.4. Infine, è fondata la censura con la quale l’appellante
lamenta che il TAR avrebbe dovuto rilevare come fosse
corretta la scelta dell’amministrazione di rinunciare alla
realizzazione del P.I.I. stante la sua illegittimità per
violazione dell’art. 22, l.r. Lombardia, n. 51/1975, nella
parte in cui, pur avendo contemplato la formazione di
rilevanti strutture che generano fabbisogno di parcheggi,
quali il nuovo municipio e la sala espositiva biblioteca,
non prevedeva contestualmente la formazione degli standard
di supporto.
Al riguardo, infatti, deve essere richiamata la copiosa
giurisprudenza di questo Consiglio (Cons. St., Sez. IV,
16.12.2003, n. 8234) che ha precisato come con riferimento
ai piani di attuazione degli strumenti urbanistici generali,
ai sensi della disposizione contenuta nell'art. 22 cit.,
(come modificata dalla l.r. n. 1/2001), che indica, la
dotazione minima delle attrezzature pubbliche e di interesse
pubblico o generale dei nuovi insediamenti, sommando le
singole superfici di parcheggi realizzati in tipologia
multipiano, è legittimo individuare la superficie
complessiva destinata a parcheggio.
In particolare, sia il d.m. 02.04.1968, n. 1444, sia la l.r.
Lombardia n. 51 del 1975, nel disciplinare la materia degli
standards urbanistici a livello comunale, prevedono che
negli strumenti urbanistici sia assicurata una dotazione
globale minima, inderogabile, di aree per attrezzature
pubbliche e di uso pubblico, rapportata all'entità degli
insediamenti residenziali rimettendo alla potestà
discrezionale dell'amministrazione in relazione alle
effettive esigenze locali di derogare ai parametri interni
di distribuzione della stessa dotazione fra quattro
categorie di opere (la prima delle quali concerne
l'istruzione superiore): è pertanto illegittima la
determinazione del fabbisogno delle aree da destinare alle
attrezzature scolastiche operata, nel rispetto dei predetti
criteri di ripartizione, senza valutare l'effettiva esigenza
di vincolare nuove aree ai predetti fini in presenza di
strutture scolastiche private già esistenti e funzionanti
(Cons. St., Sez. IV, 09.04.1984, n. 226) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.02.2017 n. 488 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Agente degradato.
Svilire la professionalità di un agente di polizia può
configurare mobbing e dare luogo al risarcimento del danno.
Il comune non può mortificare un agente di polizia
municipale sottraendogli ogni attività e relegandolo in un
ufficio cimiteriale. In questo caso scatterà addirittura il
mobbing e l'amministrazione sarà costretta a risarcire il
danno patito dallo sfortunato operatore.
Al fine di configurare
il mobbing lavorativo, questa Corte ha
affermato che devono ricorrere:
a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio -illeciti o
anche leciti se considerati singolarmente- che, con intento
vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo
miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente
da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche
da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo
dei primi;
b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità
del dipendente;
c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio
subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica
e/o nella propria dignità;
d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di
tutti i comportamenti lesivi.
---------------
1. Il primo motivo denuncia violazione degli artt. 4 e 6
d.lgs. 165/2001 per avere la Corte di
appello ritenuto illegittime le delibere della giunta
comunale del luglio 2004, con cui il Ba.
venne inquadrato nella qualifica Istruttore Amministrativo;
tali determinazioni avevano ad
oggetto modifiche della pianta organica, materia che esula
dalla competenza dirigenziale.
Dal
secondo all'ottavo motivo il ricorso denuncia vizi di
motivazione, così sintetizzabili: 2-3)
omessa motivazione in ordine alla necessità, da parte del
Comune, nell'esercizio dello ius
variandi, di rinvenire una collocazione adeguata al
dipendente giudicato inidoneo ai servizi
esterni; 4) contraddittoria motivazione in ordine alla
disamina e valutazione delle deposizioni
dei testi Ba. e Be. in merito alla ritenuta
inattività lavorativa in cui sarebbe stato
lasciato il dipendente; 5) erronea valutazione di
inattendibilità del teste Ma.; 6)
contraddittorietà della sentenza nella valorizzazione della
deposizione della teste Be. a
fronte della deposizione del teste Ba.; 7) motivazione
contraddittoria circa la deposizione
del teste Barone in merito all'assegnazione della sede di
lavoro del Ba. presso gli "uffici
cimiteriali"; 8) omessa motivazione in ordine alla
circostanza che il Ba. per circa tre anni
(dal 1998 al 2001) svolse regolarmente la propria attività
in qualità di vigile urbano addetto
anche ai servizi esterni.
2. Al punto nove, parte ricorrente contesta la sussistenza
del mobbing, deducendo che il
Ba. prestò regolare servizio per un triennio senza nulla
lamentare, ma nell'immediatezza
del verbale della Commissione medica si rifiutò di prestare
servizio esterno anche in via
sporadica; il Comune chiese la revoca della qualifica di
Agente di Polizia Municipale, non avendo necessità di un
agente che prestasse servizio interno e procedette ad
inquadrare il
Ba. quale Istruttore Amministrativo; d) lo stesso viene
successivamente assegnato
all'Ufficio Tributi. Alla stregua dei fatti, non vi erano
elementi per affermare l'esistenza di un
intento persecutorio o di vessazioni poste in essere dal
Comune ai danni del proprio
dipendente.
3. Il ricorso è infondato.
4. Quanto alla questione di diritto oggetto del primo
motivo, deve rilevarsene l'inammissibilità
per essere il ricorso carente dei requisiti di indicazione e
di allegazione, di cui agli artt. 366,
primo comma, n. 6 c.p.c. e 369, secondo comma, n. 4 c.p.c.
non risultando le delibere vertenti
sullo ius variandi trascritte né in tutto né in parte e non
essendo indicata la sede della loro
produzione in giudizio (ex plurimis, Cass. n. 26174 del
2014, n. 2966 del 2014, n. 15628 del
2009; cfr. pure Cass. Sez. Un. n. 28547 del 2008; Cass. n.
22302 del 2008, n. 4220 del 2012,
n. 8569 del 2013 n. 14784 del 2015 e, tra le più recenti,
Cass. n. 6556 del 14.03.2013, n.
16900 del 2015).
Vi è un duplice onere a carico del
ricorrente, quello di produrre il documento
e quello di indicarne il contenuto. Il primo onere va
adempiuto indicando esattamente nel
ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di
parte si trovi il documento in questione;
il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo
nel ricorso il contenuto del
documento. La violazione anche di uno soltanto di tali oneri
rende il ricorso inammissibile.
4.1. Il motivo è inammissibile anche per altra ragione:
l'illegittimità dell'atto è stata valutata
dalla Corte di appello anche (e soprattutto) per il
demansionamento in cui il mutamento di
assegnazione si espresse. Valutando il complesso delle
acquisizioni istruttorie, la Corte di
merito ha rilevato che sin da settembre/ottobre 2004 il Ba., nella nuova posizione
assegnata, venne dapprima relegato a compiti esecutivi non
riconducibili a profili della
categoria di inquadramento (area C), ma riferibili
addirittura a mansioni di area A, e
successivamente venne privato del tutto delle mansioni.
4.2. Esula quindi dall'oggetto del giudizio ogni
problematica sull'equivalenza delle mansioni in
relazione all'art. 52 d.lgs. n. 165/2001 e dell'esercizio
dello ius variandi datoriale in relazione alla
dedotta esigibilità di tutte le mansioni ascrivibili a
ciascuna categoria. Il Ba. non venne
adibito alle mansioni proprie del profilo assegnato di
Istruttore Amministrativo, ma ad altre
(ben inferiori) non riconducibili a da quelle proprie della
categoria di appartenenza. Del pari, la
sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere
costituisce ipotesi vietata anche
nell'ambito del pubblico impiego (Cass. n. 11835 del 2009,
n. 11405 del 2010, nonché Cass. n.
687 del 2014).
5. Per il resto, il ricorso sostanzialmente tende a proporre
una diversa valutazione dei fatti con
formulazione, in definitiva, di una richiesta di
duplicazione del giudizio di merito.
Costituisce principio
consolidato che il ricorso per cassazione conferisce al
giudice di legittimità non il
potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda
processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo
la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza
giuridica e della coerenza logico-formale,
delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale
spetta, in via esclusiva, il compito di
individuare le fonti del proprio convincimento, di
controllarne l'attendibilità e la concludenza, di
scegliere, tra le complessive risultanze del processo,
quelle ritenute maggiormente idonee a
dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando
così liberamente prevalenza all'uno o
all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi
tassativamente previsti dalla legge.
5.1. Nella specie, la Corte di merito ha ricostruito, alla
stregua delle risultanze della prova
testimoniale e documentale, i numerosi elementi atti a
configurare, nel loro concorso, il
mobbing lavorativo. Come questa Corte ha affermato, a tal
fine devono ricorrere:
a) una serie
di comportamenti di carattere persecutorio -illeciti o
anche leciti se considerati singolarmente- che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro
la vittima in modo miratamente
sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte
del datore di lavoro o di un suo
preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al
potere direttivo dei primi;
b)
l'evento lesivo della salute, della personalità o della
dignità del dipendente;
c) il nesso
eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito
dalla vittima nella propria integrità
psico-fisica e/o nella propria dignità;
d) l'elemento
soggettivo, cioè l'intento persecutorio
unificante di tutti i comportamenti lesivi (Cass. 17698 del
2014).
5.2. La ricostruzione della vicenda operata dal giudice di
merito è agevolmente sussumibile
nella fattispecie astratta così definita. La soluzione si
fonda su un giudizio valutativo immune
da vizi logici e adeguato a sorreggere la decisione, dovendo
altresì osservarsi che il controllo di
logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360 n.
5 c.p.c., non equivale alla revisione del
"ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto
il giudice del merito ad una
determinata soluzione della questione esaminata, posto che
una simile revisione, in realtà, non
sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe
sostanzialmente in una sua nuova
formulazione, contrariamente alla funzione assegnata
dall'ordinamento al giudice di legittimità.
5.3. Ne consegue che risulta del tutto estranea all'ambito
del vizio di motivazione ogni
possibilità per la Corte di Cassazione di procedere ad un
nuovo giudizio di merito attraverso
l'autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti
di causa. Né, ugualmente, la stessa
Corte realizzerebbe il controllo sulla motivazione che le è
demandato, ma inevitabilmente
compirebbe un (non consentito) giudizio di merito, se -confrontando la sentenza con le
risultanze istruttorie- prendesse in considerazione fatti
probatori diversi o ulteriori rispetto a
quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua
decisione, accogliendo il ricorso
"sub specie" di omesso esame di un punto (v. Cass. n.
3161/2002).
5.4. Deve poi osservarsi, quanto alle censure vertenti sulla
omessa considerazione di fatti
ritenuti decisivi, che costituisce fatto (o punto) decisivo
ai sensi del'art. 360, primo comma, n.
5, c.p.c. (nel testo anteriore alle modifiche apportate
dall'art. 54, comma 1, lett. b, del D.L. 22.06.2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L.
07.08.2012, n. 134), quello la cui
differente considerazione è idonea a comportare, con
certezza, una decisione diversa (Cass.
n. 18368 del 31.07.2013); la nozione di decisività
concerne non il fatto sulla cui ricostruzione
il vizio stesso ha inciso, bensì la stessa idoneità del
vizio denunciato, ove riconosciuto, a
determinarne una diversa ricostruzione e, dunque, inerisce
al nesso di casualità fra il vizio della
motivazione e la decisione, essendo peraltro necessario che
il vizio, una volta riconosciuto
esistente, sia tale che, se non fosse stato compiuto, si
sarebbe avuta una ricostruzione del
fatto diversa da quella accolta dal giudice del merito e non
già la sola possibilità o probabilità di
essa. (v., ex plurimis, Cass. n. 3668 e 20612 del 2013).
5.5. Nella specie, i dedotti vizi di motivazione non
corrispondono al modello enucleabile negli
esposti termini dal n. 5 del citato art. 360 c.p.c., poiché,
si sostanziano nel ripercorrere
criticamente il ragionamento decisorio svolto dal giudice
del rinvio; nel valutare le stesse
risultanze istruttorie da quest'ultimo esaminate; nel trarne
implicazioni e spunti per la
ricostruzione della vicenda in senso difforme da quello
esposto nella sentenza impugnata; nel
desumerne apprezzamenti circa la maggiore o minore valenza
probatoria di alcun elementi
rispetto ad altri. Essi, dunque, incidono sull'intrinseco
delle opzioni nelle quali propriamente si
concreta il giudizio di merito, risultando per ciò stesso
estranee all'ambito meramente
estrinseco entro il quale è circoscritto il giudizio di
legittimità (v. ex plurimis Cass. n. 6288 del
2011).
6. Il ricorso va, pertanto, respinto. Nulla va disposto
quanto alle spese del giudizio di
legittimità, in mancanza di attività difensiva dell'intimato
(Corte di
Cassazione, Sez. Lavoro,
sentenza 27.01.2017 n. 2142). |
EDILIZIA PRIVATA: Che
la regola sancita dall’art. 31, nono comma, della legge
17.08.1942, n. 1150 (secondo cui “chiunque può prendere
visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e
dei relativi atti di progetto e ricorrere contro il rilascio
della licenza edilizia in quanto in contrasto con le
disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le
prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani
particolareggiati di esecuzione”) non abbia inteso
introdurre una forma di azione popolare, è affermazione
troppo consolidata per richiedere il sostegno di specifici
precedenti.
Sebbene l’art. 31 sia stato formalmente abrogato dall’art.
136, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 380 del 2001, in
ordine all’impugnazione dei titoli edilizi -secondo
l’orientamento ormai consolidato di questo Consiglio di
Stato, che da quella disposizione si sviluppa- deve essere
riconosciuta una posizione qualificata e differenziata solo
in favore dei proprietari di immobili siti nella zona in cui
la costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una
situazione di "stabile collegamento" con la stessa.
Di conseguenza, è legittimato a impugnare il titolo edilizio
ad altri rilasciato il soggetto in questa situazione che,
dolendosi del mancato rispetto di una servitù di non
edificazione gravante sul terreno della controparte e della
perdita di valore di mercato dell’immobile di proprietà,
censuri l’alterazione dello stato dei luoghi e la violazione
dell’ordine urbanistico, indipendentemente dalla circostanza
dell’aver fornito la prova che i lavori contestati abbiano
provocato uno specifico danno e, in particolare, una
diminuzione del valore economico dei beni, costituendo
questa una questione di merito irrilevante sulla condizione
dell'azione.
---------------
Non è consentito al giudice di anticipare alla fase dello
scrutinio della sussistenza dell’interesse (e della
legittimazione) a ricorrere la verifica del rispetto o meno
dell'assetto prodotto dall'intervento contestato, perché è
sufficiente l'astratta prospettazione della suscettibilità
del contrasto con siffatto assetto ad arrecare pregiudizio a
coloro che siano titolari di immobili ubicati nella zona
ovvero che con la stessa abbiano comunque, anche a titolo
diverso, uno stabile collegamento a consentire di
riconoscerne l’interesse, oltre che la legittimazione
attiva, al ricorso giurisdizionale avverso le scelte
compiute.
---------------
25.1. Quanto al primo motivo, non ha pregio
l’eccezione di carenza di interesse in capo all’originario
ricorrente, già vagliata e respinta dal TAR e riproposta in
questo grado di giudizio.
25.1.1. Che la regola sancita dall’art. 31, nono comma,
della legge 17.08.1942, n. 1150 (secondo cui “chiunque
può prendere visione presso gli uffici comunali, della
licenza edilizia e dei relativi atti di progetto e ricorrere
contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in
contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o
con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani
particolareggiati di esecuzione”) non abbia inteso
introdurre una forma di azione popolare, è affermazione
troppo consolidata per richiedere il sostegno di specifici
precedenti.
25.1.2. Sebbene l’art. 31 sia stato formalmente abrogato
dall’art. 136, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 380 del
2001, in ordine all’impugnazione dei titoli edilizi -secondo
l’orientamento ormai consolidato di questo Consiglio di
Stato, che da quella disposizione si sviluppa- deve essere
riconosciuta una posizione qualificata e differenziata solo
in favore dei proprietari di immobili siti nella zona in cui
la costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una
situazione di "stabile collegamento" con la stessa.
Di conseguenza, è legittimato a impugnare il titolo edilizio
ad altri rilasciato il soggetto in questa situazione che,
dolendosi del mancato rispetto di una servitù di non
edificazione gravante sul terreno della controparte e della
perdita di valore di mercato dell’immobile di proprietà,
censuri l’alterazione dello stato dei luoghi e la violazione
dell’ordine urbanistico, indipendentemente dalla circostanza
dell’aver fornito la prova che i lavori contestati abbiano
provocato uno specifico danno e, in particolare, una
diminuzione del valore economico dei beni, costituendo
questa una questione di merito irrilevante sulla condizione
dell'azione (cfr. per tutte, in termini, sez. VI,
15.06.2010, n. 3744; sez. IV, 08.07.2013, n. 3596; sez. IV,
18.11.2014, n. 3596; sez. IV, 12.11.2015, n. 5160; sez. IV,
06.06.2016, n. 2395; sez. IV, 26.07.2016, n. 3330).
25.1.3. In definitiva, non è consentito al giudice di
anticipare alla fase dello scrutinio della sussistenza
dell’interesse (e della legittimazione) a ricorrere la
verifica del rispetto o meno dell'assetto prodotto
dall'intervento contestato, perché è sufficiente l'astratta
prospettazione della suscettibilità del contrasto con
siffatto assetto ad arrecare pregiudizio a coloro che siano
titolari di immobili ubicati nella zona ovvero che con la
stessa abbiano comunque, anche a titolo diverso, uno stabile
collegamento a consentire di riconoscerne l’interesse, oltre
che la legittimazione attiva, al ricorso giurisdizionale
avverso le scelte compiute (cfr. sez. IV, 12.06.2013, n.
3257)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.10.2016 n. 4380 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio è dell’avviso che il modulo
procedimentale prefigurato dall’art. 8 del d.P.R. n.
160/2010 sia strutturalmente analogo -per quanto qui
interessa- a quello a suo tempo previsto dall’abrogato art.
5 del d.P.R. n. 447/1998, sicché può essere utilmente
richiamata per l’uno la giurisprudenza formatasi sull’altro.
La necessità dell’assenso regionale, espressa nella
disposizione dell’art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010,
era infatti implicita in quella dell’art. 5, comma 2, del
d.P.R. n. 447/1998, perché, se non era richiesta
l'approvazione della Regione, le attribuzioni di
quest’ultima erano comunque fatte salve dalla partecipazione
alla conferenza di servizi nei termini previsti
dall'articolo 14, comma 3-bis, della legge 07.08.1990, n.
24, nel testo all’epoca vigente.
Deve dunque dirsi che:
a) benché l’assenso della Regione (o dell’ente delegato, nel caso
di specie la Provincia) sia essenziale al completamento
dell’iter (art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010), la
Regione stessa è solo uno dei soggetti pubblici che prendono
parte alla Conferenza di servizi contemplata dalle
disposizioni ricordate;
b) il parere regionale ha natura di atto endo o infra
procedimentale, la cui efficacia vincolante non incide sulla
natura propria di questo, che -come detto- rimane un atto
interno nell’ambito di un procedimento unico. Solo il parere
contrario, producendo un arresto definitivo che termina
nella sostanza il procedimento, ha un’autonoma efficacia
lesiva, riveste carattere provvedimentale e, in quanto tale,
può essere immediatamente impugnato dal destinatario;
c) l’atto conclusivo del procedimento che si articola nella
Conferenza non ha carattere decisorio ma costituisce una
proposta di variante dello strumento urbanistico
(espressamente l’art. 5, comma 2, del d.P.R. n. 447/1998;
implicitamente l’art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010);
d) secondo entrambi le disposizioni ora citate, la deliberazione
definitiva -nel senso di aderire o no a tale proposta-
spetta al Consiglio comunale;
e) il Comune è dunque la sola Autorità emanante, necessariamente
destinata a essere evocata in giudizio;
f) poiché alla Regione (o alla Provincia) non è attribuito
nell'ambito del procedimento alcun potere decisorio, non è
necessario notificare ad essa la domanda impugnatoria della
deliberazione del Consiglio comunale che approva la variante
del P.R.G. in forma semplificata, e parimenti, essendo un
atto endoprocedimentale l'assenso da essa espresso alla
variante nel corso della Conferenza di servizi, non occorre
neppure che lo stesso venga impugnato.
---------------
Per giurisprudenza costante, la procedura semplificata di
variante urbanistica ha carattere eccezionale e derogatorio
della disciplina generale, sicché non può trovare
applicazione al di fuori delle ipotesi specificamente
previste dalla norma, e i presupposti fattuali, da cui si
assume nascere l’esigenza di tale variante, vanno accertati
con in modo oggettivo con il dovuto rigore.
Secondo la normativa vigente, la variante semplificata può
essere adottata “nei comuni in cui lo strumento urbanistico
non individua aree destinate all'insediamento di impianti
produttivi o individua aree insufficienti, fatta salva
l'applicazione della relativa disciplina regionale” (art. 8
del d.p.r. n. 160/2010, cit.).
---------------
26. Del pari
infondati sono i motivi dell’appello n. 4840/2016.
26.1 Non ha pregio il primo motivo, con il quale il
Comune appellante rinnova un’eccezione di inammissibilità
del ricorso di primo grado, già rigettata dal TAR e fondata
sull’omessa notifica alla Provincia di Perugia dell’atto
introduttivo del giudizio.
26.1.1. Condividendo pienamente le osservazioni del
Tribunale regionale sul punto, il Collegio è dell’avviso che
il modulo procedimentale prefigurato dall’art. 8 del d.P.R.
n. 160/2010 sia strutturalmente analogo -per quanto qui
interessa- a quello a suo tempo previsto dall’abrogato art.
5 del d.P.R. n. 447/1998, sicché può essere utilmente
richiamata per l’uno la giurisprudenza formatasi sull’altro.
26.1.2. La necessità dell’assenso regionale, espressa nella
disposizione dell’art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010,
era infatti implicita in quella dell’art. 5, comma 2, del
d.P.R. n. 447/1998, perché, se non era richiesta
l'approvazione della Regione, le attribuzioni di
quest’ultima erano comunque fatte salve dalla partecipazione
alla conferenza di servizi nei termini previsti
dall'articolo 14, comma 3-bis, della legge 07.08.1990, n.
24, nel testo all’epoca vigente.
26.1.3. Deve dunque dirsi che:
a) benché l’assenso della Regione (o dell’ente delegato, nel caso
di specie la Provincia) sia essenziale al completamento
dell’iter (art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010), la
Regione stessa è solo uno dei soggetti pubblici che prendono
parte alla Conferenza di servizi contemplata dalle
disposizioni ricordate;
b) il parere regionale ha natura di atto endo o infra
procedimentale, la cui efficacia vincolante non incide sulla
natura propria di questo, che -come detto- rimane un atto
interno nell’ambito di un procedimento unico. Solo il parere
contrario, producendo un arresto definitivo che termina
nella sostanza il procedimento, ha un’autonoma efficacia
lesiva, riveste carattere provvedimentale e, in quanto tale,
può essere immediatamente impugnato dal destinatario (per
una problematica analoga -riguardo al ruolo
dell’autorizzazione paesaggistica nel procedimento di
rilascio di un titolo edilizio- Cons. Stato, sez. VI,
12.06.2008, n. 2903; sez. IV, 12.02.2015, n. 738);
c) l’atto conclusivo del procedimento che si articola nella
Conferenza non ha carattere decisorio ma costituisce una
proposta di variante dello strumento urbanistico
(espressamente l’art. 5, comma 2, del d.P.R. n. 447/1998;
implicitamente l’art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010);
d) secondo entrambi le disposizioni ora citate, la deliberazione
definitiva -nel senso di aderire o no a tale proposta-
spetta al Consiglio comunale (Cons. Stato, sez. IV,
10.08.2011, n. 4768; sez. IV, 02.10.2012, n. 5187; sez. V,
11.04.2013, n. 1972; sez. IV, 26.05.2014, n. 2667);
e) il Comune è dunque la sola Autorità emanante, necessariamente
destinata a essere evocata in giudizio;
f) poiché alla Regione (o alla Provincia) non è attribuito
nell'ambito del procedimento alcun potere decisorio, non è
necessario notificare ad essa la domanda impugnatoria della
deliberazione del Consiglio comunale che approva la variante
del P.R.G. in forma semplificata, e parimenti, essendo un
atto endoprocedimentale l'assenso da essa espresso alla
variante nel corso della Conferenza di servizi, non occorre
neppure che lo stesso venga impugnato (Cons. Stato, n. 2667
del 2014, cit.).
26.1.3. Da ciò, appunto, il rigetto dell’eccezione.
26.2. E’ anche infondato il secondo motivo.
26.2.1. Per giurisprudenza costante, la procedura
semplificata di variante urbanistica ha carattere
eccezionale e derogatorio della disciplina generale, sicché
non può trovare applicazione al di fuori delle ipotesi
specificamente previste dalla norma, e i presupposti
fattuali, da cui si assume nascere l’esigenza di tale
variante, vanno accertati con in modo oggettivo con il
dovuto rigore (Cons. Stato, sez. IV, 03.03.2006, n. 1038;
sez. IV, 25.06.2007, n. 3593; sez. IV, 15.07.2011, n. 4308;
sez. IV, 08.01.2016, n. 27).
26.2.2. Secondo la normativa vigente, la variante
semplificata può essere adottata “nei comuni in cui lo
strumento urbanistico non individua aree destinate
all'insediamento di impianti produttivi o individua aree
insufficienti, fatta salva l'applicazione della relativa
disciplina regionale” (art. 8 del d.p.r. n. 160/2010,
cit.).
26.2.3. Nel caso di specie, è noto che il capannone
industriale preesisteva e non è stata data alcuna
convincente spiegazione circa l’effettiva necessità di un
ampliamento degli spazi per l’attività di distribuzione di
energia per i veicoli a trazione elettrica.
26.2.4. Sembra piuttosto doversi dire che il Comune, messo
sull’avviso dall’ordinanza cautelare della Sezione n.
3150/2011 (che, resa in relazione al ricorso n. 4654/2011,
ha accolto la domanda cautelare, ma al solo scopo di
mantenere la res integra, considerando tuttavia
prima facie la sentenza appellata esente dalle censure
proposte), abbia inteso utilizzare la speciale procedura
della variante semplificata per un fine improprio, cioè
quello di sanare un insediamento abusivo.
26.2.5. Sono dunque fondate le censure di violazione di
legge e di eccesso di potere per sviamento dalla funzione
tipica, sicché il secondo motivo dell’appello va parimenti
respinto.
26.3. Tanto premesso, non occorre neppure esaminare il terzo
motivo del gravame, essendo acclarata l’illegittimità del
provvedimento impugnato. Tale motivo, per ragioni di
economia processuale, resta perciò assorbito (Cons. Stato,
ad. plen., 27.04.2015, n. 5)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.10.2016 n. 4380 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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