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AGGIORNAMENTO
AL 31.12.2014 |
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Nel caso di "lavori
di somma urgenza" qual'è il soggetto che li può ordinare
e come si regolarizzano dal punto di vista contabile?? |
Un illuminante ed esaustivo parere della Corte dei Conti
(riportato a seguire) affronta la questione in ordine a diversi
quesiti posti da un comune. Prima, però, leggiamo cosa dispone
la normativa di riferimento: |
D.Lgs. 18.08.2000 n.
267 (nel testo in vigore sino al 31.12.2014) |
Art. 191. Regole per
l'assunzione di impegni e per l'effettuazione di spese
1. Gli enti locali possono
effettuare spese solo se sussiste l'impegno contabile registrato
sul competente intervento o capitolo del bilancio di previsione
e l'attestazione della copertura finanziaria di cui all'articolo
153, comma 5. Il responsabile del servizio, conseguita
l'esecutività del provvedimento di spesa, comunica al terzo
interessato l'impegno e la copertura finanziaria,
contestualmente all'ordinazione della prestazione, con
l'avvertenza che la successiva fattura deve essere completata
con gli estremi della suddetta comunicazione. Fermo restando
quanto disposto al comma 4, il terzo interessato, in mancanza
della comunicazione, ha facoltà di non eseguire la prestazione
sino a quando i dati non gli vengano comunicati.
2. Per le spese previste dai regolamenti economali l'ordinazione
fatta a terzi contiene il riferimento agli stessi regolamenti,
all'intervento o capitolo di bilancio ed all'impegno.
3. Per i lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal
verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile, la Giunta,
qualora i fondi specificamente previsti in bilancio si
dimostrino insufficienti, entro venti giorni dall'ordinazione
fatta a terzi, su proposta del responsabile del procedimento,
sottopone al Consiglio il provvedimento di riconoscimento della
spesa con le modalità previste dall'articolo
194, comma 1, lettera e), prevedendo la relativa copertura
finanziaria nei limiti delle accertate necessità per la
rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità.
Il provvedimento di riconoscimento e' adottato entro 30 giorni
dalla data di deliberazione della proposta da parte della
Giunta, e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se a
tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione
al terzo interessato e' data contestualmente all'adozione della
deliberazione consiliare.
(comma così sostituito dall'art. 3,
comma 1, lettera i), legge n. 213 del 2012)
4. Nel caso in cui vi è stata l'acquisizione di beni
e servizi in violazione dell'obbligo indicato nei commi 1, 2 e
3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della
controprestazione e per la parte non riconoscibile ai sensi
dell'articolo
194, comma 1, lettera e), tra il privato fornitore e
l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito
la fornitura. Per le esecuzioni reiterate o continuative detto
effetto si estende a coloro che hanno reso possibili le singole
prestazioni.
5. Agli enti locali che presentino, nell'ultimo rendiconto
deliberato, disavanzo di amministrazione ovvero indichino debiti
fuori bilancio per i quali non sono stati validamente adottati i
provvedimenti di cui all'articolo 193, è fatto divieto di
assumere impegni e pagare spese per servizi non espressamente
previsti per legge. Sono fatte salve le spese da sostenere a
fronte di impegni già assunti nei precedenti esercizi.
Art. 193. Salvaguardia degli equilibri di bilancio
1. Gli enti locali rispettano durante la gestione e nelle
variazioni di bilancio il pareggio finanziario e tutti gli
equilibri stabiliti in bilancio per la copertura delle spese
correnti e per il finanziamento degli investimenti, secondo le
norme contabili recate dal presente testo unico.
2. Con periodicità stabilita dal regolamento di contabilità
dell'ente locale, e comunque almeno una volta entro il 30
settembre di ciascun anno, l'organo consiliare provvede con
delibera ad effettuare la ricognizione sullo stato di attuazione
dei programmi. In tale sede l'organo consiliare dà atto del
permanere degli equilibri generali di bilancio o, in caso di
accertamento negativo, adotta contestualmente i provvedimenti
necessari per il ripiano degli eventuali debiti di cui
all'articolo 194, per il ripiano dell'eventuale disavanzo di
amministrazione risultante dal rendiconto approvato e, qualora i
dati della gestione finanziaria facciano prevedere un disavanzo,
di amministrazione o di gestione, per squilibrio della gestione
di competenza ovvero della gestione dei residui, adotta le
misure necessarie a ripristinare il pareggio. La deliberazione è
allegata al rendiconto dell'esercizio relativo.
3. Ai fini del comma 2 possono essere utilizzate per l'anno in
corso e per i due successivi tutte le entrate e le
disponibilità, ad eccezione di quelle provenienti
dall'assunzione di prestiti e di quelle aventi specifica
destinazione per legge, nonché i proventi derivanti da
alienazione di beni patrimoniali disponibili con riferimento a
squilibri di parte capitale. Per il ripristino degli equilibri
di bilancio e in deroga all'articolo
1, comma 169, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, l'ente
può modificare le tariffe e le aliquote relative ai tributi di
propria competenza entro la data di cui al comma 2.
(comma così modificato dall'art. 1,
comma 444, legge n. 248 del 2012)
4. La mancata adozione, da parte dell'ente, dei
provvedimenti di riequilibrio previsti dal presente articolo è
equiparata ad ogni effetto alla mancata approvazione del
bilancio di previsione di cui all'articolo 141, con applicazione
della procedura prevista dal comma 2 del medesimo articolo.
Art. 194. Riconoscimento di legittimità di debiti fuori
bilancio
1. Con deliberazione consiliare di cui all'articolo 193, comma
2, o con diversa periodicità stabilita dai regolamenti di
contabilità, gli enti locali riconoscono la legittimità dei
debiti fuori bilancio derivanti da:
a) sentenze esecutive;
b) copertura di disavanzi di consorzi, di aziende speciali e di
istituzioni, nei limiti degli obblighi derivanti da statuto,
convenzione o atti costitutivi, purché sia stato rispettato
l'obbligo di pareggio del bilancio di cui all'articolo 114 ed il
disavanzo derivi da fatti di gestione;
c) ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal codice
civile o da norme speciali, di società di capitali costituite
per l'esercizio di servizi pubblici locali;
d) procedure espropriative o di occupazione d'urgenza per opere di
pubblica utilità;
e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di
cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191, nei limiti degli
accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente,
nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di
competenza.
2. Per il pagamento l'ente può provvedere anche mediante un
piano di rateizzazione, della durata di tre anni finanziari
compreso quello in corso, convenuto con i creditori.
3. Per il finanziamento delle spese suddette, ove non possa
documentalmente provvedersi a norma dell'articolo 193, comma 3,
l'ente locale può far ricorso a mutui ai sensi degli articoli
202 e seguenti. Nella relativa deliberazione consiliare viene
dettagliatamente motivata l'impossibilità di utilizzare altre
risorse. |
D.P.R. 05.10.2010 n.
207 |
Art. 176. Provvedimenti in casi di somma urgenza
(art. 147, d.P.R. n. 554/1999)
1. In circostanze di somma urgenza che non consentono
alcun indugio, il soggetto fra il responsabile del procedimento
e il tecnico che si reca prima sul luogo, può disporre,
contemporaneamente alla redazione del verbale di cui
all'articolo 175 la immediata esecuzione dei lavori entro il
limite di 200.000 euro o comunque di quanto indispensabile per
rimuovere lo stato di pregiudizio alla pubblica incolumità.
2. L'esecuzione dei lavori di somma urgenza può essere
affidata in forma diretta ad uno o più operatori economici
individuati dal responsabile del procedimento o dal tecnico.
3. Il prezzo delle prestazioni ordinate è definito
consensualmente con l'affidatario; in difetto di preventivo
accordo si procede con il metodo previsto all'articolo 163,
comma 5.
4. Il responsabile del procedimento o il tecnico compila entro
dieci giorni dall'ordine di esecuzione dei lavori una perizia
giustificativa degli stessi e la trasmette, unitamente al
verbale di somma urgenza, alla stazione appaltante che provvede
alla copertura della spesa e alla approvazione dei lavori.
5. Qualora un'opera o un lavoro intrapreso per motivi di
somma urgenza non riporti l'approvazione del competente
organo della stazione appaltante, si procede alla liquidazione
delle spese relative alla parte dell'opera o dei lavori
realizzati. |
Ed ecco il parere della Corte dei
Conti: |
LAVORI
PUBBLICI: Sulla
questione dei lavori di somma urgenza: chi li può ordinare
e come si regolarizzano dal punto di vista
contabile.
I. Con il primo quesito,
premesso che l’inciso del comma 3
dell’art. 191 TUEL (“qualora i fondi specificamente
previsti in bilancio si dimostrino insufficienti”)
determina l’applicazione della procedura di
riconoscimento dei debiti fuori bilancio nel caso di
assenza o insufficienza di fondi, ma nulla dispone
nel caso in cui in bilancio vi siano risorse
sufficienti, il Sindaco chiede quando la Giunta
possa ritenere sussistenti i predetti fondi. In
particolare solo nel caso in cui esista in bilancio
una voce di spesa avente ad oggetto specificamente
somme urgenze oppure anche in presenza di un
capitolo di spesa avente un oggetto conforme alla
natura dei lavori eseguiti in somma urgenza.
La valutazione della sufficienza o
meno dei fondi per l’esecuzione di lavori di somma
urgenza dipende dalla strutturazione del singolo
bilancio, come approvato dal Consiglio comunale e
specificato, con il piano esecutivo di gestione,
dalla Giunta.
Pertanto il responsabile del procedimento,
competente all’ordinazione dei lavori (ex art. 176
DPR n. 207/2010), deve valutare (assieme al
responsabile del servizio economico e finanziario,
ex art. 153, comma 5, TUEL) la presenza di risorse
sufficienti negli interventi a lui assegnati o, se
necessario, promuovere la variazione del piano
esecutivo di gestione da parte della Giunta (ex art.
169 TUEL).
Nel caso in cui invece non vi siano nei capitoli o
interventi assegnati sufficienti risorse, per
reperirne di ulteriori, il responsabile del
servizio, ai sensi dell’art. 191, comma 3, del TUEL
deve proporre alla Giunta di investire della
competenza il Consiglio in aderenza ai principi
generali
(specificati, per il caso di specie dei lavori di
somma urgenza, dal novellato art. 191, comma 3).
II. Con il secondo quesito il Comune
chiede quale procedura debba seguire, considerato
che la regolarizzazione dell’ordinazione fatta senza
impegno era prevista dal testo previgente dell’art.
191, comma 3, riformulato nel 2012.
La Sezione ritiene che il dubbio
afferisca alla sola ipotesi in cui il bilancio
presenti disponibilità sufficienti.
In presenza in bilancio di fondi
sufficienti (come definiti nel precedente
paragrafo), il RUP (o altro tecnico competente, ai
sensi dell’art. 176 del DPR n. 207/2010)
contestualmente all’ordinazione dei lavori, deve
procedere all’assunzione di impegno ed alla
richiesta di attestazione della relativa copertura
al responsabile del servizio economico e finanziario
(ex art. 153, comma 5, TUEL), comunicando i relativi
estremi al terzo appaltatore (tendendo conto che,
come prevede l’art. 191, comma 1, TUEL, fino alla
ricezione di tale comunicazione quest’ultimo può
rifiutarsi di eseguire la prestazione).
III. Con il terzo quesito il Comune
chiede, ove sussista somma urgenza e vi sia un fondo
specificamente disponibile, se spetti al RUP
procedere tempestivamente ad assumere il relativo
impegno (con propria determinazione) oppure possa
farlo solo dopo l’atto deliberativo della Giunta (di
autorizzazione). In alternativa, il Sindaco chiede
se debba essere la Giunta stessa ad assumere
l’impegno.
E' possibile precisare che, ove le
risorse presenti sul pertinente intervento di
bilancio assegnato al responsabile del servizio
siano capienti, spetta a quest’ultimo assumere
l’impegno di spesa (in aderenza alla previsione
generale posta dall’art. 183, comma 9, del TUEL),
cui accede, ai fini della regolarizzazione
necessaria per la corretta ordinazione della spesa,
l’attestazione della copertura da parte del
responsabile del servizio economico e finanziario.
L’assunzione dell’impegno da parte del RUP prescinde
in tale ipotesi, come esposto, dall’intervento di
una delibera di Giunta (o di Consiglio), essendo già
presenti e disponibili a bilancio i relativi fondi.
IV. Con il quarto quesito il Comune
chiede se la Giunta, nel caso in cui non ritenga
sussistente la somma urgenza dichiarata dal RUP o,
ancora, in caso di inerzia o ritardo del RUP per un
intervento da quest’ultimo non qualificato come di
somma urgenza, possa, avendo adeguato stanziamento,
regolarizzare l’ordinazione fatta a terzi. E, in
questo caso, quale procedura debba essere seguita.
La Giunta può compiere tutti gli
atti rientranti, ai sensi dell'articolo 107, commi 1
e 2, del TUEL nelle funzioni degli organi di
governo. Quest’ultima disposizione rimette a statuti
e regolamenti i criteri per la direzione degli
uffici e dei servizi
(atti di normazione secondaria che devono
uniformarsi al principio per cui i poteri di
indirizzo e di controllo politico-amministrativo
spettano agli organi di governo, mentre la gestione
amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita
ai dirigenti), specificando che
comunque spetta ai dirigenti l'adozione degli atti e
dei provvedimenti che impegnano l'amministrazione
verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla
legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e
controllo politico-amministrativo degli organi di
governo dell'ente.
Di conseguenza solo nel caso in cui
lo statuto dell’ente abbia rimesso alla Giunta,
nell’esercizio della funzione di controllo
amministrativo, la possibilità di ordinare lavori di
somma urgenza in caso di inerzia o ritardo da parte
del competente responsabile del procedimento,
quest’ultima può esercitare (in via sostitutiva)
tale potere, seguendo per il resto la procedura
prevista dagli artt. 191 e 194 del TUEL (che, come
visto, va distinta secondo vi sia o meno capienza
nelle disponibilità di bilancio).
Naturalmente, in caso di ingiustificata inerzia o
ritardo da parte del RUP, potranno essere avviate
nei suoi confronti le ordinarie procedure di
responsabilità (penale, amministrativa,
disciplinare, dirigenziale).
V. Con il quinto quesito il Sindaco
chiede se, nel caso in cui sia superato il termine
di venti giorni, dato alla Giunta dall’art. 191,
comma 3, TUEL, si debba sempre procedere ad
applicare la procedura del riconoscimento dei debiti
fuori bilancio ex art. 194, comma 1, lett. e), TUEL.
La novella legislativa pone un preciso obbligo di
attivazione da parte della Giunta nel caso in cui, a
fronte dell’ordinazione dei lavori a terzi
effettuata dal RUP per rimuovere lo stato di
pregiudizio alla pubblica incolumità, i fondi
specificamente previsti in bilancio si dimostrino
insufficienti.
In questo caso, entro venti giorni dalla predetta
ordinazione, deve sottoporre al Consiglio il
provvedimento di riconoscimento della spesa con le
modalità previste dall'articolo 194, comma 1,
lettera e), TUEL, prevedendo la relativa copertura
finanziaria.
Nel caso in cui la Giunta non vi
provveda, l’art. 176, comma 5, del DPR n. 207/2010
impone, come già esposto, per il caso in cui
un'opera o un lavoro intrapreso per motivi di somma
urgenza non riporti l'approvazione del competente
organo della stazione appaltante, la liquidazione
delle spese relative alla sola parte dell'opera o
dei lavori realizzati.
In questo caso,
inoltre, sulla scorta della regola di carattere
generale posta dall’art. 194, comma 1, lett. e), il
Consiglio, ove investito della
procedura, deve mantenere responsabile della spesa
(ex art. 191, comma 4, TUEL) il solo funzionario
ordinatore ove ritenga assenti i presupposti per
l’ordinario riconoscimento di debito (utilità della
quota parte dei lavori effettuati e conseguente
arricchimento per l’ente locale).
VI. Con l’ultimo quesito il Sindaco
chiede se, nel caso di esercizio provvisorio,
concesso ai sensi dell’art. 163, comma 3, del TUEL,
sussistano limiti all’applicazione degli artt. 191,
comma 3, e 194 del TUEL.
Il dettato legislativo non pone
limiti all’applicazione degli artt. 191, comma 3, e
194 del TUEL in caso di esercizio provvisorio, se
non quelli esplicitati dal medesimo articolo 163,
comma 3, alcuni dei quali fissati in maniera
puntuale (misura non superiore mensilmente ad un
dodicesimo delle somme previste nel bilancio, salvo
le spese tassativamente regolate dalla legge), altri
suscettibili di margini di autonoma valutazione da
pare dei competenti organi dell’ente locale (le
spese non suscettibili di pagamento frazionato in
dodicesimi, fra le quali possono rientrare, valutate
le circostanze del caso concreto, quelle ordinate
per far fronte a lavori di somma urgenza).
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Il Sindaco del Comune di Arcola ha formulato una
richiesta di parere avente ad oggetto la corretta
interpretazione del nuovo testo dell’art. 191, comma
3, del TUEL, come sostituito dall’art. 3, comma 1,
lett. i), del d.l. n. 174/2012, convertito con legge
n. 213/2012.
Nello specifico evidenzia come l’inciso “qualora
i fondi specificamente previsti in bilancio si
dimostrino insufficienti”, contenuto nella
predetta norma, determina l’applicazione della
procedura del riconoscimento dei debiti fuori
bilancio nel caso specifico di assenza o
insufficienza di fondi, ma nulla dispone nel caso in
cui in bilancio vi siano i fondi previsti e con
sufficiente disponibilità. Sulla base di tale
premessa, il Sindaco pone vari quesiti, distinti
sostanzialmente in tre gruppi.
A) Il primo
si compone di due quesiti, con i quali chiede:
1) quando la Giunta possa ritenere sussistenti i predetti fondi,
se nel caso in cui esista in bilancio una voce di
spesa avente ad oggetto specificamente lavori di
somma urgenza oppure anche solo un capitolo di spesa
avente oggetto conforme alla natura dei lavori
eseguiti in somma urgenza;
2) quale procedura debba essere seguita, considerato che la
regolarizzazione dell’ordinazione fatta senza
impegno era prevista dal testo previgente dell’art.
191, comma 3, del TUEL, ora sostituito.
B) Il secondo gruppo
di quesiti attiene al coordinamento fra gli artt.
191-194 TUEL e l’art. 176 del DPR n. 207/2010
(Regolamento di esecuzione ed attuazione del d.lgs.
n. 163/2006, recante Codice dei contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture) che prevede
l’obbligo di trasmissione alla stazione appaltante,
da parte del responsabile del procedimento o del
tecnico, della relazione di somma urgenza, insieme
ad una perizia giustificativa, entro dieci giorni
dall’ordine di eseguire i lavori. In particolare
tale gruppo si suddivide in tre quesiti:
3) ove sussista somma urgenza e vi sia un fondo specificamente
disponibile con sufficiente capienza, se spetti al
RUP procedere ad assumere il relativo impegno con
propria determinazione oppure possa farlo solo dopo
l’atto deliberativo della Giunta che lo autorizzi in
tal senso. In alternativa, se debba essere la Giunta
stessa ad assumere l’impegno;
4) se la Giunta, nel caso in cui non ritenga sussistente la
somma urgenza dichiarata dal RUP o, anche, in caso
di inerzia o ritardo per un intervento non
qualificato dal RUP medesimo come di somma urgenza,
possa, avendo adeguato stanziamento, regolarizzare
l’ordinazione fatta a terzi, e quale sia la
procedura da seguire;
5) se, nel caso in cui sia superato il termine di venti giorni
dato alla Giunta dall’art. 191, comma 3, del TUEL,
si debba sempre procedere ad applicare la procedura
del riconoscimento dei debiti fuori bilancio ai
sensi del successivo art. 194, comma 1, lett. e).
C) Il terzo gruppo
si sostanzia, infine, in un solo quesito, con il
quale il Sindaco chiede:
6) se, nel caso di esercizio provvisorio, concesso ai sensi
dell’art. 163, comma 3, del TUEL, sussistano limiti
all’applicazione degli artt. 191, comma 3, e 194 del
TUEL.
...
Al fine di analizzare i quesiti avanzati dal Comune,
appare opportuna una breve premessa di carattere
generale.
Occorre ricordare, infatti, come l’art. 191, comma
1, del TUEL, “Regole per l'assunzione di impegni
e per l'effettuazione di spese”, dispone che gli
enti locali possono effettuare spese solo se
sussiste l'impegno contabile registrato sul
competente intervento o capitolo del bilancio di
previsione e l'attestazione della copertura
finanziaria da parte del responsabile del servizio
economico e finanziario (art. 153, comma 5, TUEL).
Il medesimo comma dispone, altresì, che il
responsabile del servizio, conseguita l'esecutività
del provvedimento di spesa, comunichi al terzo
interessato l'impegno e la copertura finanziaria,
contestualmente all'ordinazione della prestazione,
con l'avvertenza che la successiva fattura deve
essere completata con gli estremi della suddetta
comunicazione. Il terzo interessato, in mancanza
della comunicazione, ha facoltà di non eseguire la
prestazione sino a quando i dati non gli vengano
comunicati.
Il successivo comma 4 dell’art. 191 TUEL introduce
poi specifica sanzione per il caso in cui vi sia
stata l'acquisizione di beni e servizi in violazione
degli obblighi indicati nel comma 1 (oltre che nei
commi 2 e 3, di seguito esaminati) disponendo che il
rapporto obbligatorio intercorra, ai fini della
controprestazione (per la parte non riconoscibile ai
sensi del successivo articolo 194, comma 1, lettera
e), tra il privato fornitore e l'amministratore,
funzionario o dipendente che hanno consentito la
fornitura (per le esecuzioni reiterate o
continuative detto effetto si estende a coloro che
hanno reso possibili le singole prestazioni).
Lo scopo della norma è quello di proteggere il
bilancio degli enti locali dall’ordinazione di spese
in assenza della regolare assunzione di impegni e
della relativa copertura finanziaria. Tale tutela
opera non solo sul piano amministrativo, ma
soprattutto su quello civilistico, prevedendo la
norma che, in caso di sua violazione, gli effetti
del rapporto obbligatorio fra il funzionario
dell’ente e l’impresa privata rimangano a carico del
primo, senza riverberarsi sul patrimonio dell’ente.
Tutto ciò fatto salvo il caso in cui il Consiglio
(organo sovrano in materia di bilancio) riconosca
l’utilità delle prestazioni fornite e, nei limiti di
queste ultime, ritenga legittimo il debito assunto
riportandolo all’interno del bilancio dell’ente
(art. 194, comma 1, lett. e).
Il comma 3 dell’art. 191 del TUEL reca poi una
disciplina specifica per l’assunzione di impegni e
l’ordinazione di spese relativamente ai lavori di
somma urgenza.
Il testo del predetto comma, previgente alla
novella apportata dalla legge n. 213/2012,
disponeva che, per i lavori pubblici di somma
urgenza, cagionati dal verificarsi di un evento
eccezionale o imprevedibile, l'ordinazione fatta a
terzi fosse regolarizzata, a pena di decadenza,
entro trenta giorni (e comunque entro il 31 dicembre
dell'anno in corso se a tale data non era scaduto il
predetto termine). Il medesimo testo prevedeva che
la comunicazione al terzo interessato fosse data
contestualmente alla regolarizzazione.
In sostanza, alla luce della particolare tipologia
di spesa (lavoro di somma urgenza), la norma
prevedeva la possibilità di regolarizzare
l’ordinazione effettuata dal RUP (o da altro tecnico
legittimato dalle norme in materia di lavori
pubblici), ossia di assumere l’impegno sul
pertinente capitolo di bilancio e acquisire
l’attestazione della copertura finanziaria da parte
del servizio economico e finanziario, entro 30
giorni. Disponeva, inoltre, che la comunicazione al
terzo fornitore (che, ai sensi del primo comma,
nelle altre fattispecie di spesa viene effettuata
contestualmente all’ordinazione) venisse invece
effettuata contestualmente alla regolarizzazione
(una volta assunto l’atto di impegno e
l’attestazione della copertura finanziaria).
Tale discrasia temporale fra l’ordinazione dei
lavori (che abilita il terzo appaltatore
all’esecuzione) e la comunicazione della
regolarizzazione (che consolida il rapporto
obbligatorio fra l’ente e il terzo appaltatore)
risultava del resto conforme alla disciplina
generale dettata in tema di esecuzione di lavori di
somma urgenza. L’art. 176, comma 5, del DPR n.
207/2010 (Regolamento di esecuzione del codice dei
contratti pubblici, d.lgs. n. 163/2006) dispone,
infatti, che qualora un'opera o un lavoro intrapreso
per motivi di somma urgenza non riporti
l'approvazione del competente organo della stazione
appaltante (per quanto concerne gli enti locali
concretantesi nella regolarizzazione prevista
dall’art. 191, comma 3, del TUEL), si procede alla
liquidazione delle sole spese relative alla parte
dell'opera o dei lavori realizzati (nel caso di
specie, l’effetto sul bilancio dell’ente locale
discende da apposita previsione normativa).
Il nuovo testo dell’art. 191, comma 3, del d.lgs.
n. 267/2000, come sostituito dall’art. 3, comma 1,
lett. i), del d.l. n. 174/2012, convertito con legge
n. 213/2012, specifica l’ambito applicativo
della disposizione rispetto alla previgente
formulazione, prevedendo che, per i lavori pubblici
di somma urgenza, la Giunta, qualora i fondi
specificamente previsti in bilancio si dimostrino
insufficienti, entro venti giorni dall'ordinazione
fatta a terzi, su proposta del responsabile del
procedimento, sottoponga al Consiglio il
provvedimento di riconoscimento della spesa con le
modalità previste dall'articolo 194, comma 1,
lettera e), prevedendo la relativa copertura
finanziaria nei limiti delle accertate necessità per
la rimozione dello stato di pregiudizio alla
pubblica incolumità.
Il comma prosegue precisando che il provvedimento di
riconoscimento sia adottato dal Consiglio entro 30
giorni dalla data di deliberazione della proposta da
parte della Giunta (e comunque entro il 31/12
dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto il
predetto termine).
Infine, circa la comunicazione al terzo interessato,
la norma dispone che sia data contestualmente
all'adozione della deliberazione consiliare.
La novella legislativa ha disciplinato in maniera
specifica l’ipotesi (abbastanza ricorrente) in cui,
a fronte della necessità di ordinare lavori di somma
urgenza per prevenire il rischio di pericoli o
riparare il danno per l‘incolumità pubblica, i fondi
specificamente previsti in bilancio si dimostrino
insufficienti.
Mentre la formulazione originaria del comma non
distingueva le due ipotesi, lasciando nell’ombra la
disciplina da adottare nel caso in cui i fondi di
bilancio fossero incapienti, la nuova norma si
occupa proprio di tale ipotesi. Per quanto concerne,
invece, la fattispecie dell’ordinazione di lavori di
somma urgenza in presenza di adeguati fondi nel
bilancio, in assenza di specifica previsione
normativa, si deve ritenere che la fattispecie sia
regolata dalla disciplina generale in tema di
impegni e ordinazione di spesa (artt. 191, commi 1 e
4, e 194 TUEL) in combinato disposto con quella,
richiamata anche dal Comune istante, prevista nel
Regolamento attuativo del codice dei contratti
pubblici (art. 176 DPR n. 207/2010).
Il procedimento prefigurato dal legislatore nel
novellato art. 191, comma 3, del TUEL si sviluppa
secondo un iter che vede il RUP (o altro tecnico
abilitato), alla ricorrenza dei presupposti previsti
dalla legge (cfr. art. 176 DPR n. 207/2010),
ordinare al privato appaltatore l’esecuzione di
lavori di somma urgenza.
In questo caso, solo ove i fondi di bilancio si
rivelino insufficienti a coprire le relative spese
(come da accertamento condotto, ex art. 153 e 191
TUEL, dal responsabile del procedimento e dal
responsabile del servizio economico e finanziario),
la Giunta, entro 20 giorni dall’ordinazione dei
lavori, deve sottoporre al Consiglio una proposta di
riconoscimento della spesa ai sensi dell’art. 194,
comma 1, lett. e (norma che, come noto, disciplina
il riconoscimento dell’acquisizione di beni e
servizi, in violazione degli obblighi posti dai
commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191, in presenza di
dimostrata utilità ed arricchimento per l'ente)
prevedendo la relativa copertura finanziaria nei
limiti delle accertate necessità per la rimozione
dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità.
La norma, in sostanza, in assenza di adeguati
stanziamenti a bilancio, rimette al Consiglio,
organo sovrano in materia, la responsabilità di
verificare la necessità della spesa ordinata per la
rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica
incolumità e di approvare la relativa copertura
finanziaria proposta dalla Giunta (utilizzando le
risorse previste dall’art. 193, comma 3, e 194,
comma 3, del TUEL).
Nel caso in cui il Consiglio, invece, non provveda
al predetto riconoscimento, troverà applicazione il
citato art. 176, comma 5, del DPR n. 207/2010
(liquidazione al terzo appaltatore delle spese
relative alla parte dell'opera o dei lavori
realizzati). Queste ultime, inoltre, potrebbero
rimanere a carico del solo funzionario ordinatore in
assenza del riconoscimento, da parte del Consiglio
(ai sensi dell’ordinaria regola posta dall’art. 194,
comma 1, lett. e, del TUEL) dell’utilità di tale
quota parte di lavori e del conseguente
arricchimento per l’ente locale.
Effettuato tale sommaria illustrazione della
disciplina legislativa, è possibile procedere
all’esame specifico dei quesiti posti dal Comune.
I. Con il primo quesito, premesso che
l’inciso del comma 3 dell’art. 191 TUEL (“qualora
i fondi specificamente previsti in bilancio si
dimostrino insufficienti”) determina
l’applicazione della procedura di riconoscimento dei
debiti fuori bilancio nel caso di assenza o
insufficienza di fondi, ma nulla dispone nel caso in
cui in bilancio vi siano risorse sufficienti, il
Sindaco chiede quando la Giunta possa ritenere
sussistenti i predetti fondi. In particolare solo
nel caso in cui esista in bilancio una voce di spesa
avente ad oggetto specificamente somme urgenze
oppure anche in presenza di un capitolo di spesa
avente un oggetto conforme alla natura dei lavori
eseguiti in somma urgenza.
Sotto tale profilo va richiamata la normativa in
materia di struttura del bilancio e di competenza
alla relativa approvazione. L’art. 165 TUEL prevede,
al comma 5, che la spesa del bilancio degli enti
locali sia ordinata gradualmente in titoli,
funzioni, servizi ed interventi (in relazione,
rispettivamente, ai principali aggregati economici,
alle funzioni degli enti, ai singoli uffici che
gestiscono un complesso di attività ed alla natura
economica dei fattori produttivi nell'ambito di
ciascun servizio).
L’art. 165, comma 8, del TUEL dispone poi che a
ciascun servizio sia correlato un reparto
organizzativo, composto da persone e mezzi, cui è
preposto un responsabile e, a tale servizio, ai
sensi del successivo comma 9, è affidato, col
bilancio di previsione, un complesso di mezzi
finanziari (specificati negli interventi assegnati)
del quale risponde il responsabile del servizio (nel
caso di specie del servizio tecnico o di altro
competente all’ordinazione di lavori di somma
urgenza).
L’art. 169 TUEL dispone inoltre che, sulla base
dell’annuale bilancio di previsione, deliberato dal
Consiglio, l'organo esecutivo (Giunta) definisca il
piano esecutivo di gestione, determinando gli
obiettivi ed affidando gli stessi, unitamente alle
dotazioni necessarie, ai responsabili dei servizi.
Il piano esecutivo di gestione contiene inoltre
un’ulteriore graduazione, per quanto concerne la
spesa, degli interventi in capitoli.
Il bilancio, approvato sino al livello degli “interventi”
dal Consiglio comunale, è variabile dal medesimo
organo (e, in tal senso, dispone l’art. 175, comma
2, del TUEL), mentre le variazioni al piano
esecutivo di gestione sono di competenza della
Giunta (sempre simmetricamente alla competenza
all’approvazione, cfr. art. 169 TUEL).
La medesima strutturazione del bilancio è fatta
propria nel DPR n. 194/1996 (e allegati schemi di
bilancio).
Alla luce di quanto esposto, la
valutazione della sufficienza o meno dei fondi per
l’esecuzione di lavori di somma urgenza dipende
dalla strutturazione del singolo bilancio, come
approvato dal Consiglio comunale e specificato, con
il piano esecutivo di gestione, dalla Giunta.
Pertanto il responsabile del procedimento,
competente all’ordinazione dei lavori (ex art. 176
DPR n. 207/2010), deve valutare (assieme al
responsabile del servizio economico e finanziario,
ex art. 153, comma 5, TUEL) la presenza di risorse
sufficienti negli interventi a lui assegnati o, se
necessario, promuovere la variazione del piano
esecutivo di gestione da parte della Giunta (ex art.
169 TUEL).
Nel caso in cui invece non vi siano nei capitoli o
interventi assegnati sufficienti risorse, per
reperirne di ulteriori, il responsabile del
servizio, ai sensi dell’art. 191, comma 3, del TUEL
deve proporre alla Giunta di investire della
competenza il Consiglio in aderenza ai principi
generali
(specificati, per il caso di specie dei lavori di
somma urgenza, dal novellato art. 191, comma 3).
II. Con il secondo quesito il Comune chiede
quale procedura debba seguire, considerato che la
regolarizzazione dell’ordinazione fatta senza
impegno era prevista dal testo previgente dell’art.
191, comma 3, riformulato nel 2012.
Pur rilevando la mancata chiarezza del quesito
proposto, la Sezione ritiene che il
dubbio afferisca alla sola ipotesi in cui il
bilancio presenti disponibilità sufficienti.
Si tratta di una delle due fattispecie, non
esplicitate, presenti nell’originaria formulazione
del comma 3 dell’art. 191 TUEL (che, come visto, per
l’ordinazione di lavori di somma urgenza imponeva la
regolarizzazione entro trenta giorni, con
comunicazione contestuale al terzo interessato degli
estremi di impegno e attestazione di copertura
finanziaria).
Il dubbio posto dal Comune può essere risolto
applicando i principi di carattere generale, quali
esplicitati dal comma 1 dell’art. 191 TUEL (di cui
il comma 3 non è altro che una specificazione).
In presenza in bilancio di fondi sufficienti
(come definiti nel precedente paragrafo), il RUP (o
altro tecnico competente, ai sensi dell’art. 176 del
DPR n. 207/2010) contestualmente all’ordinazione dei
lavori, deve procedere all’assunzione di impegno ed
alla richiesta di attestazione della relativa
copertura al responsabile del servizio economico e
finanziario (ex art. 153, comma 5, TUEL),
comunicando i relativi estremi al terzo appaltatore
(tendendo conto che, come prevede l’art. 191 comma
1, TUEL, fino alla ricezione di tale comunicazione
quest’ultimo può rifiutarsi di eseguire la
prestazione).
III. Come accennato, il secondo gruppo di quesiti attiene al
coordinamento fra gli artt. 191 e 194 TUEL e l’art.
176 del DPR n. 207/2010, che prevede l’obbligo di
trasmissione alla stazione appaltante, da parte del
responsabile del procedimento o di altro tecnico
competente, della relazione di somma urgenza,
insieme alla perizia giustificativa, entro dieci
giorni dall’ordine di eseguire i lavori.
In particolare, con il terzo quesito
il Comune chiede, ove sussista somma urgenza
e vi sia un fondo specificamente disponibile, se
spetti al RUP procedere tempestivamente ad assumere
il relativo impegno (con propria determinazione)
oppure possa farlo solo dopo l’atto deliberativo
della Giunta (di autorizzazione). In alternativa, il
Sindaco chiede se debba essere la Giunta stessa ad
assumere l’impegno.
Sulla scorta di quanto sinora esposto, è possibile
precisare che, ove le risorse
presenti sul pertinente intervento di bilancio
assegnato al responsabile del servizio siano
capienti, spetta a quest’ultimo assumere l’impegno
di spesa (in aderenza alla previsione generale posta
dall’art. 183, comma 9, del TUEL), cui accede, ai
fini della regolarizzazione necessaria per la
corretta ordinazione della spesa, l’attestazione
della copertura da parte del responsabile del
servizio economico e finanziario.
L’assunzione dell’impegno da parte del RUP prescinde
in tale ipotesi, come esposto, dall’intervento di
una delibera di Giunta (o di Consiglio), essendo già
presenti e disponibili a bilancio i relativi fondi.
IV. Con il quarto quesito il Comune chiede
se la Giunta, nel caso in cui non ritenga
sussistente la somma urgenza dichiarata dal RUP o,
ancora, in caso di inerzia o ritardo del RUP per un
intervento da quest’ultimo non qualificato come di
somma urgenza, possa, avendo adeguato stanziamento,
regolarizzare l’ordinazione fatta a terzi. E, in
questo caso, quale procedura debba essere seguita.
In proposito vanno richiamate le regole procedurali
previste dall’art. 176 del DPR n. 207/2010 che
rimettono al “soggetto fra il
responsabile del procedimento e il tecnico che si
reca prima sul luogo” il potere di disporre
(contemporaneamente alla redazione del verbale di
cui al precedente art. 175) l’immediata esecuzione
dei lavori entro il limite di 200.000 euro o
comunque di quanto indispensabile per rimuovere lo
stato di pregiudizio alla pubblica incolumità.
Allo stesso modo l’art. 191, comma
3, del TUEL
(sia nella formulazione attuale che in quella
precedente) rimette l’iniziativa
dell’ordinazione dei lavori e dell’avvio
dell’eventuale procedura di regolarizzazione al
responsabile del procedimento, alla luce della
natura prettamente tecnica della relativa
valutazione (si ricorda, per inciso, che ai sensi
dell’art. 9 del DPR n. 207/2010, il responsabile del
procedimento nelle procedure di realizzazione di
lavori pubblici deve essere un tecnico, di regola
abilitato all’esercizio della professione).
La ripartizione appare in linea con l’attribuzione
delle competenze spettanti agli organi politici
rispetto a quelle dei dirigenti (o dei funzionari
negli enti in cui non è prevista la dirigenza),
delineata in linea generale dal d.lgs. n. 165/2011
e, nello specifico, dagli artt. 107 e 183 (definenti
le attribuzioni, amministrative e contabili, dei
dirigenti e dei responsabili dei servizi) e 48 del
TUEL (definente le competenze della Giunta).
Sotto tale ultimo profilo può ricordarsi
come la Giunta possa compiere tutti gli atti
rientranti, ai sensi dell'articolo 107, commi 1 e 2,
del TUEL nelle funzioni degli organi di governo.
Quest’ultima disposizione rimette a statuti e
regolamenti i criteri per la direzione degli uffici
e dei servizi
(atti di normazione secondaria che devono
uniformarsi al principio per cui i poteri di
indirizzo e di controllo politico-amministrativo
spettano agli organi di governo, mentre la gestione
amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita
ai dirigenti), specificando che
comunque spetta ai dirigenti l'adozione degli atti e
dei provvedimenti che impegnano l'amministrazione
verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla
legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e
controllo politico-amministrativo degli organi di
governo dell'ente
(sulla ripartizione di competenze fra dirigenti e
organi di governo dell’ente locale si rinvia a TAR
Puglia, Bari, n. 1131/2008; TAR Lazio, Roma, n.
1236/2012; TAR Campania, Napoli, n. 2610/2012).
Di conseguenza solo nel caso in cui
lo statuto dell’ente abbia rimesso alla Giunta,
nell’esercizio della funzione di controllo
amministrativo, la possibilità di ordinare lavori di
somma urgenza in caso di inerzia o ritardo da parte
del competente responsabile del procedimento,
quest’ultima può esercitare (in via sostitutiva)
tale potere, seguendo per il resto la procedura
prevista dagli artt. 191 e 194 del TUEL (che, come
visto, va distinta secondo vi sia o meno capienza
nelle disponibilità di bilancio).
Naturalmente, in caso di ingiustificata inerzia o
ritardo da parte del RUP, potranno essere avviate
nei suoi confronti le ordinarie procedure di
responsabilità (penale, amministrativa,
disciplinare, dirigenziale).
V. Con il quinto quesito il Sindaco chiede
se, nel caso in cui sia superato il termine di venti
giorni, dato alla Giunta dall’art. 191, comma 3,
TUEL, si debba sempre procedere ad applicare la
procedura del riconoscimento dei debiti fuori
bilancio ex art. 194, comma 1, lett. e), TUEL.
La novella legislativa pone un preciso obbligo di
attivazione da parte della Giunta nel caso in cui, a
fronte dell’ordinazione dei lavori a terzi
effettuata dal RUP per rimuovere lo stato di
pregiudizio alla pubblica incolumità, i fondi
specificamente previsti in bilancio si dimostrino
insufficienti. In questo caso, entro venti giorni
dalla predetta ordinazione, deve sottoporre al
Consiglio il provvedimento di riconoscimento della
spesa con le modalità previste dall'articolo 194,
comma 1, lettera e), TUEL, prevedendo la relativa
copertura finanziaria.
Nel caso in cui la Giunta non vi
provveda, l’art. 176, comma 5, del DPR n. 207/2010
impone, come già esposto, per il caso in cui
un'opera o un lavoro intrapreso per motivi di somma
urgenza non riporti l'approvazione del competente
organo della stazione appaltante, la liquidazione
delle spese relative alla sola parte dell'opera o
dei lavori realizzati.
In questo caso,
inoltre, sulla scorta della regola di carattere
generale posta dall’art. 194, comma 1, lett. e), il
Consiglio, ove investito della
procedura, deve mantenere responsabile della spesa
(ex art. 191, comma 4, TUEL) il solo funzionario
ordinatore ove ritenga assenti i presupposti per
l’ordinario riconoscimento di debito (utilità della
quota parte dei lavori effettuati e conseguente
arricchimento per l’ente locale).
VI. Con l’ultimo quesito il Sindaco chiede
se, nel caso di esercizio provvisorio, concesso ai
sensi dell’art. 163, comma 3, del TUEL, sussistano
limiti all’applicazione degli artt. 191, comma 3, e
194 del TUEL.
Il richiamato art. 163, comma 3, del TUEL dispone
che, ove la scadenza del termine per la
deliberazione del bilancio di previsione sia stata
fissata da norme statali in un periodo successivo
all'inizio dell'esercizio finanziario di riferimento
(come usualmente ormai da tempo avviene; da ultimo
il DM Interno del 29/04/2014 ha prorogato la
scadenza per la presentazione del bilancio di
previsione per il 2014 al 31/07/2014), l'esercizio
provvisorio si intende automaticamente autorizzato
sino a tale termine. In questo caso si applicano le
modalità di gestione previste dal comma 1 della
medesima norma, intendendosi come riferimento
l'ultimo bilancio definitivamente approvato.
Il predetto comma 1 dispone che, in caso di
esercizio provvisorio, gli enti locali possano
effettuare, per ciascun intervento, spese in misura
non superiore mensilmente ad un dodicesimo delle
somme previste nel bilancio, con esclusione di
quelle tassativamente regolate dalla legge o non
suscettibili di pagamento frazionato in dodicesimi.
Il dettato legislativo non pone
limiti all’applicazione degli artt. 191, comma 3, e
194 del TUEL in caso di esercizio provvisorio, se
non quelli esplicitati dal medesimo articolo 163,
comma 3, alcuni dei quali fissati in maniera
puntuale (misura non superiore mensilmente ad un
dodicesimo delle somme previste nel bilancio, salvo
le spese tassativamente regolate dalla legge), altri
suscettibili di margini di autonoma valutazione da
pare dei competenti organi dell’ente locale (le
spese non suscettibili di pagamento frazionato in
dodicesimi, fra le quali possono rientrare, valutate
le circostanze del caso concreto, quelle ordinate
per far fronte a lavori di somma urgenza)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere 09.05.2014 n. 31). |
IN EVIDENZA |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Sulla questione del riconoscimento –o meno-
dell’incentivo per la progettazione al R.U.P..
Un comune lombardo si è posto un interrogativo sicuramente
fondato, tenuto conto di cosa si è verificato all'inizio del corrente
anno in merito all'incentivo (30%) in materia di atti di
pianificazione urbanistica. Invero, nonostante i termini
della questione fossero sufficientemente chiari laddove si
contrapponeva la sola Sez. di controllo Veneto a tutto il
resto d'Italia, la Sez. controllo Liguria ha ritenuto
ugualmente necessario rimettere la controversia alla Sez. Autonomie la quale,
siccome notorio, ha sconfessato la tesi
della Sez. Veneto.
Ne caso di specie, invece, la contrapposizione è all'incirca
pari al 50% fra due tesi: 1) chi sostiene l’erogazione
dell’incentivo al R.U.P. sempre e
comunque e 2)
chi sostiene
l’erogazione dell’incentivo al R.U.P.
solo in caso di progettazione interna.
Il quesito posto è di seguito riportato:
Per
formulare compiutamente il quesito necessita operare una
breve premessa siccome rappresentata a seguire.
La recente legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n. 90/2014,
ha abrogato i commi 5 e 6 dell’articolo 92 del d.lgs.
12.04.2006 n. 163, in materia di incentivi per la
progettazione, e con l’art. “13-bis (Fondi per la
progettazione e l’innovazione)” ha introdotto all’art.
93 del codice degli appalti i nuovi commi 7-bis, 7-ter,
7-quater, 7-quinquies.
Nel recente
parere 01.10.2014 n. 247
di codesta spettabile Corte, in ordine alle novità in
materia di incentivo per la progettazione apportate dalla
suddetta legge 114/2014, si può leggere un passaggio che
desta perplessità e cioè: “Limitando l’analisi ai soli
quesiti avanzati dal comune istante, i punti fermi che il
regolamento interno deve rispettare (sull’impossibilità da
parte del regolamento di derogare a quanto previsto dalla
legge o di attribuire compensi non previsti, si rimanda al
parere 30.05.2012 n. 259 della Sezione) sono i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi
tassativamente indicati dalla norma (responsabile del
procedimento, incaricati della redazione del progetto, del
piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione
ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, di
un appalto di fornitura di beni o di servizi).
La norma non richiede, ai fini della legittima
erogazione, il necessario espletamento interno di una o più
attività (per
esempio, la progettazione), purché il regolamento ripartisca
gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità
attribuite e devolva in economia la quota relativa agli
incarichi conferiti a professionisti esterni;”.
La perplessità non sta tanto nell’affermazione in sé, che risulta
assolutamente condivisibile (La norma
non richiede, ai fini della legittima erogazione, il
necessario espletamento interno di una o più attività),
quanto nel fatto che la stessa non risulta pacifica ed
unanime fra le varie sezioni regionali di controllo della
Corte dei Conti, col potenziale rischio di svolgere
un’attività amministrativa cagionevole di danno erariale
laddove fosse erogato l’incentivo e, successivamente,
dichiarata la stessa illegittima da un eventuale
pronunciamento della sez. Autonomie della Corte dei Conti.
Invero, la questione che qui interessa è quella relativa al
riconoscimento –o meno- al R.U.P. (Responsabile Unico del
Procedimento) della quota-parte di incentivo prevista
dall’apposito regolamento comunale e la stessa risulta
controversa laddove alcune Corti regionali propendono per il
riconoscimento della quota-parte di incentivo sempre e
comunque ed altre propendono per la tesi secondo cui,
invece, spetti nel sol caso di progettazione interna.
E citiamo la figura del R.U.P. poiché fra quelle previste
dalla norma (il responsabile del procedimento, gli
incaricati della redazione del progetto, del piano
della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché loro collaboratori) è l’unica
che ricorre sempre e comunque, sia che la progettazione
venga affidata all’esterno dell’ente sia che la stessa venga
espletata all’interno.
Infatti, per quanto di nostra conoscenza:
1. sono per l’erogazione dell’incentivo
al R.U.P. sempre e comunque:
o Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 01.10.2014 n. 247
o Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 15.07.2014 n. 220
o Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 26.03.2014 n. 135
o Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 05.02.2014 n. 45
o Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere
18.04.2013 n. 18
o Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 24.10.2012 n. 453
o Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 24.10.2012 n. 452
o Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 08.10.2012 n. 425
2. sono per l’erogazione dell’incentivo
al R.U.P. solo in caso di progettazione interna:
o Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 02.10.2014 n. 197
o Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 28.02.2014 n. 39
o Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 19.12.2013 n. 434
o Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria,
parere 21.12.2012 n. 284
o Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 30.08.2012 n. 290
3. sono per l’erogazione dell’incentivo
(alle varie figure contemplate dal codice) solo in caso di
progettazione interna:
o Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 23.10.2012 n. 440
o Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana,
parere 27.09.2012 n. 256
o Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259
Orbene, non v’è dubbio che le due tesi contrapposte sono di fatto,
per la quasi totalità, ad opera della sezione di controllo
della Corte piemontese e della Corte lombarda e ciò non
garantisce la necessaria tranquillità nell’operare
quotidiano.
Siccome già anticipato in premessa, si condivide la tesi di codesta
Corte in ordine alla spettanza dell’incentivo (quota-parte)
al R.U.P. sempre e comunque, e cioè a prescindere che
la progettazione sia effettuata all’esterno ovvero
all’interno dell’ente poiché in entrambi i casi le
numerosissime incombenze di legge in capo a tale soggetto
devono essere comunque espletate.
Tuttavia, al di là di chiedere -con la presente nota- a codesta
spettabile Corte l’eventuale conferma –o meno- di quanto già
affermato col proprio parere citato in premessa, si chiede
altresì se non si ravvisi l’opportunità -se non addirittura
la necessità- di rimettere alla Sez. Autonomie il suddetto
contrasto interpretativo e ciò al fine di non incorrere in
attività amministrativa potenzialmente foriera di danno
erariale, siccome già operato dalla Corte dei Conti, Sez.
controllo Liguria (deliberazione
21.01.2014 n. 6),
in ordine alla (notoria) questione dell’incentivo sugli atti
di pianificazione ovverosia se quest’ultimi dovessero –o
meno- essere correlati all’esecuzione di un’opera pubblica
... poi definitivamente risolta con
deliberazione
15.04.2014 n. 7.
Nell’attesa di un cortese riscontro, si ringrazia e si porgono
distinti saluti.
La Sez. di controllo Lombardia si è così espressa:
...
la richiesta in esame deve ritenersi oggettivamente
inammissibile.
Per come formulata,
infatti, essa appare diretta non tanto ad ottenere
chiarimenti sull’interpretazione delle disposizioni di legge
richiamate (rispetto alla quale il comune istante non
manifesta alcun dubbio, dichiarando espressamente di
condividere i precedenti di questa Sezione) quanto piuttosto
a segnalare l’esistenza di un preteso contrasto tra gli
orientamenti manifestati in materia da diverse Sezioni
regionali di controllo della Corte dei conti.
La scrivente
Sezione, confermando il proprio orientamento, da ultimo
ribadito con il parere reso con il
parere 01.10.2014 n.
247,
ricorda che la facoltà riconosciuta a Regioni ed enti locali
dal citato art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131 è
limitata alla richiesta di pareri in materia di contabilità
pubblica nei termini sopra precisati.
Spetta viceversa esclusivamente alla Sezione investita della
richiesta, valutare, con riferimento allo specifico quesito
proposto, la sussistenza di contrasti interpretativi da
sottoporre alla Sezione delle Autonomie perché emani la
deliberazione di orientamento di cui all’art. 6, comma 4,
del decreto legge 10.10.2012, n. 174 convertito dalla legge
07.12.2012, n. 213.
Beh, non c'è che dire: una "non risposta" che
certamente non contribuisce a dormire sonni tranquilli.
Ma
se vogliamo vedere il bicchiere "mezzo pieno"
potremmo dire che -almeno in Lombardia- possiamo stare
(relativamente) rilassati, senza avere il terrore che la
Procura regionale della Corte dei Conti possa accusare di
avere elargito indebitamente l'incentivo al R.U.P. (sempre
e comunque):
infatti, col suddetto parere, è stato confermato il proprio
orientamento da ultimo ribadito col parere
parere 01.10.2014 n. 247.
Ma abbiamo un presentimento nefasto: presto o tardi che sia,
la questione sarà sicuramente rimessa alla Sez. Autonomie
-per dirimere il suddetto contrasto interpretativo- e
vedrete che la stessa sposerà la tesi propugnata dalla Sez.
Piemonte. Scommettiamo??
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 15.12.2014 n. 371). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Per
i comuni vige il divieto di effettuare qualsiasi spesa in
assenza di impegno contabile registrato dal ragioniere (o in
mancanza dal segretario) sul competente capitolo di bilancio
di previsione.
L'incarico di progettare l'opera pubblica affidato al
professionista non sfugge alla regola: l'ente locale non può
effettuare alcuna spesa se non c'è una delibera ad hoc che
l'autorizza e un relativo impegno contabile a bilancio da
comunicare ai terzi interessati: diversamente, dunque,
rispondono il sindaco o il dirigente che l'hanno consentito.
La previsione della clausola di copertura finanziaria nel
contratto stipulato con il professionista non può comunque
consentire di rinviare il momento in cui il comune deve
indicare l'ammontare della spesa e i mezzi per farvi fronte.
Insomma: non si può differire all'arrivo del finanziamento
l'osservanza delle modalità procedimentali previste per gli
enti locali. Nel caso in cui l'incarico è affidato senza
prima mettere nero su bianco l'impegno contabile e attestare
l'impegno finanziario ecco che si rompe il nesso di
immedesimazione organica con l'amministrazione, la quale non
può essere considerata responsabile, diversamente
dall'amministratore locale o dal funzionario pubblico. E
anche quando la provvista è a carico di un altro ente
l'obbligazione di pagamento resta sempre a carico del
comune, che è il soggetto finanziato.
Il divieto, per i Comuni, in base all’art. 23,
commi terzo e quarto, del D.L. 66/1989 convertito, con
modifiche, nella L. n. 144/1989
di effettuare qualsiasi spesa in assenza di impegno
contabile registrato dal Ragioniere (o dal Segretario, in
mancanza del ragioniere) sul competente capitolo del
bilancio di previsione, trova applicazione anche qualora la
spesa dell’Ente territoriale sia interamente finanziata da
altro Ente Pubblico, dovendo anche in tal caso avere luogo
la verifica della copertura della spesa nel bilancio del
Comune che assume l’impegno di spesa.
---------------
Il contratto d’opera professionale, con il
quale un Ente Pubblico territoriale abbia affidato la
progettazione di un’opera pubblica subordinando con apposita
clausola il pagamento del compenso al professionista alla
concessione di un finanziamento per la realizzazione
dell’opera da progettarsi, non si sottrae all’applicazione
dell’art. 23 commi terzo e quarto, del D.L. 66/1989
convertito, con modifiche nella L. n. 144/1989.
In particolare la previsione della clausola
c.d. di copertura finanziaria non consente di rinviare
all’ottenimento del finanziamento l’osservanza delle
modalità procedimentali, inderogabilmente dettate dalla
norma di cui all’art. 23 cit.; con la conseguenza che, in
difetto, il rapporto obbligatorio non è riferibile all’Ente,
intercorrendo -ai fini della contro prestazione- fra il
privato e l’amministratore o funzionario che abbia assunto
l’impegno.
---------------
… dovendo affermarsi i seguenti principi:
7.1 la norma di cui all’art. 23, commi
terzo e quarto, del D.L. n. 66 del 1989 convertito, con
modifiche nella L. n. 144 del 1989
(abrogato dall’art. 123, comma primo, lett. n), D.Lgs.
25/2/1995 n. 77, e sostituito dall’art. 35 del medesimo
decreto, poi modificato dall’art. 4 del D.Lgs. 15.09.1997 n.
342 e, quindi, abrogato dall’art. 274, lett. h), del D.Lgs.
18.08.2000 n. 267, e sostituito dall’art. 191 del medesimo
decreto) –dettando una disciplina che, nel dare applicazione
al disposto dell’art. 97 Cost., rende estraneo l’ente
pubblico all’attività posta in essere dal suo funzionario o
amministratore senza le modalità procedimentali previste–
viene ad incidere sull’efficacia del contratto,
collocandosi nell’area dell’ordinamento civile riservata
alla competenza esclusiva del legislatore statale ai sensi
dell’art. 117, secondo comma, lett. l), Cost. ed è,
pertanto, applicabile anche ai Comuni della Regione Sicilia,
a prescindere dal suo formale recepimento nella legislazione
regionale;
7.2 il divieto, per i Comuni, in base
all’art. 23, commi terzo e quarto, del D.L. 66 del 1989
convertito, con modifiche, nella L. n. 144 del 1989
(abrogato dall’art. 123, comma primo, lett. n), D.Lgs.
25.02.1995 n. 77, e sostituito dall’art. 35 del medesimo
decreto, poi modificato dall’art. 4 del D.Lgs. 15.09.1997 n.
342 e, quindi, abrogato dall’art. 274, lett. h), del D.Lgs.
18.08.2000 n. 267, e sostituito dall’art. 191 del medesimo
decreto) di effettuare qualsiasi spesa in
assenza di impegno contabile registrato dal Ragioniere (o
dal Segretario, in mancanza del ragioniere) sul competente
capitolo del bilancio di previsione, trova applicazione
anche qualora la spesa dell’Ente territoriale sia
interamente finanziata da altro Ente Pubblico, dovendo anche
in tal caso avere luogo la verifica della copertura della
spesa nel bilancio del Comune che assume l’impegno di spesa.
7.3 il contratto d’opera professionale, con
il quale un Ente Pubblico territoriale abbia affidato la
progettazione di un’opera pubblica subordinando con apposita
clausola il pagamento del compenso al professionista alla
concessione di un finanziamento per la realizzazione
dell’opera da progettarsi, non si sottrae all’applicazione
dell’art. 23 commi terzo e quarto, del D.L. 66 del 1989
convertito, con modifiche nella L. n. 144 del 1989
(abrogato dall’art. 123, comma primo, lett. n), D.Lgs.
25.02.1995 n. 77, e sostituito dall’art. 35 del medesimo
decreto, poi modificato dall’art. 4 del D.Lgs. 15.09.1997 n.
342 e, quindi, abrogato dall’art. 274, lett. h), del D.Lgs.
18.08.2000 n. 267, e sostituito dall’art. 191 del medesimo
decreto).
In particolare la previsione della clausola
c.d. di copertura finanziaria non consente di rinviare
all’ottenimento del finanziamento l’osservanza delle
modalità procedimentali, inderogabilmente dettate dalla
norma di cui all’art. 23 cit.; con la conseguenza che, in
difetto, il rapporto obbligatorio non è riferibile all’Ente,
intercorrendo -ai fini della contro prestazione- fra il
privato e l’amministratore o funzionario che abbia assunto
l’impegno (Corte
di Cassazione,
Sezz. unite civili,
sentenza
18.12.2014 n. 26657). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA:
Definizione di "centro abitato" ai fini della
necessità della licenza edilizia ante legge Ponte (765/1967)
ed in assenza del P. di F.
La c.d. legge-Ponte (765/1967) ha imposto -per la prima
volta- il previo rilascio della licenza edilizia sull'intero
territorio nazionale.
Sicché, laddove il manufatto è stato costruito nel 1965 ed
era in concreto inserito in un centro abitato -ancorché
posto al di fuori del centro storico- per ciò stesso
s’imponeva, pure in assenza di uno strumento urbanistico
generale, il possesso del titolo ad aedificandum di cui
all’art. 31 della legge n. 1150 del 17.08.1942 (c.d. legge
urbanistica ).
In particolare, l’Amministrazione sul punto ha avuto modo di
evidenziare come sulla base dei dati tecnici desumibili
dagli elaborati cartografici, all’epoca i terreni ora di
proprietà dell’appellante erano compresi in una zona
contrassegnata dalla presenza di case continue e vicine,
potendosi per tale situazione parlare di un centro abitato.
Com’è noto, la definizione di centro abitato non è
rinvenibile in termini univoci dovendosi fare riferimento a
criteri empirici elaborati dalla giurisprudenza, secondo cui
il centro abitato va individuato nella situazione di fatto
costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e
vicine, anche distante dal centro, ma suscettibile di
espansione.
L’appello si appalesa infondato, meritando l’impugnata
sentenza integrale conferma.
Oggetto di contestazione giudiziale sono gli atti con cui il
Comune di Forte dei Marmi ha denegato il condono edilizio
chiesto per due manufatti (prefabbricati in lamiera)
risalenti al 1965 e rigettato altresì l’autorizzazione alla
ristrutturazione degli stessi.
Col primo mezzo d’impugnazione rivolto specificatamente
avverso il diniego di sanatoria parte appellante fa in
sostanza valere la tesi che in realtà per i due manufatti
non vi sarebbe stato bisogno di titolo abilitativo essendo
la loro realizzazione precedente alla c.d. legge-Ponte
(1967) che ha imposto per la prima volta il previo rilascio
dell’autorizzazione comunale.
La tesi va disattesa, avendo il Comune prima e il Tar poi
convincentemente rilevato come i due manufatti insistevano
in area che all’epoca in questione (il 1965) era in concreto
inserita in un centro abitato ancorché posto al di fuori del
centro storico e per ciò stesso s’imponeva, pure in assenza
di uno strumento urbanistico generale, il possesso del
titolo ad aedificandum di cui all’art. 31 della legge
n. 1150 del 17.08.1942 (c.d. legge urbanistica ).
In particolare, l’Amministrazione sul punto ha avuto modo di
evidenziare come sulla base dei dati tecnici desumibili
dagli elaborati cartografici, all’epoca i terreni ora di
proprietà dell’appellante erano compresi in una zona
contrassegnata dalla presenza di case continue e vicine,
potendosi per tale situazione parlare di un centro abitato.
Com’è noto, la definizione di centro abitato non è
rinvenibile in termini univoci dovendosi fare riferimento a
criteri empirici elaborati dalla giurisprudenza, secondo cui
il centro abitato va individuato nella situazione di fatto
costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e
vicine, anche distante dal centro, ma suscettibile di
espansione e tale stato dei luoghi è proprio quello che
contrassegna la zona dove insiste l’area de qua sulla quale
si trovano i due manufatti così come rilevato in termini
squisitamente ricognitivi dall’Amministrazione con la
determina dirigenziale n. 301 del 10/04/2008 (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.10.2014 n. 5173 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Definizione
di "centro abitato" ai fini della necessità della
licenza edilizia ante legge Ponte (765/1967) ed in assenza
del P. di F.
La determina dirigenziale definisce, con effetto
ricognitivo, il perimetro del centro abitato con riferimento
al 1942 e sino all’anno precedente all’entrata in vigore
della legge n. 765/1967, al fine di chiarire per tale
periodo in quali zone, ai sensi dell’art. 31 della legge n.
1150/1942, occorreva la licenza edilizia nonostante la
mancanza di piano regolatore generale.
All’epoca in cui sono state ultimate le opere de quibus,
dichiarata dall’interessato e non contestata con l’impugnato
provvedimento, vigeva infatti il citato art. 31, il quale
imponeva la licenza edilizia, indipendentemente
dall’esistenza di un piano regolatore, a chiunque volesse
eseguire nuove costruzioni o modificare quelle esistenti
situate nei centri abitati.
Quest’ultimi vanno identificati nella situazione di fatto
esistente, costituita da case continue e vicine, con
interposte strade, piazze e simili, a prescindere
dall’esistenza di una delibera di perimetrazione antecedente
alla realizzazione del manufatto.
Con la prima censura il ricorrente sostiene che la
costruzione dei manufatti in argomento, risalendo al 1965
(ovvero essendo precedente all’entrata in vigore dell’art.
10 della legge n. 765/1967) e ricadendo al di fuori del
centro abitato, non richiede titolo edilizio; aggiunge che
non rileva l’individuazione del centro abitato di cui alla
determina comunale n. 301 del 10/04/2008, in quanto la
stessa descrive uno stato dei luoghi successivo all’abuso
edilizio commesso e, comunque, non può avere applicazione
retroattiva.
Il motivo è infondato.
La predetta determina definisce, con effetto ricognitivo, il
perimetro del centro abitato con riferimento al 1942 e sino
all’anno precedente all’entrata in vigore della legge n.
765/1967, al fine di chiarire per tale periodo in quali
zone, ai sensi dell’art. 31 della legge n. 1150/1942,
occorreva la licenza edilizia nonostante la mancanza di
piano regolatore generale.
All’epoca in cui sono state ultimate le opere de quibus,
dichiarata dall’interessato e non contestata con l’impugnato
provvedimento, vigeva infatti il citato art. 31, il quale
imponeva la licenza edilizia, indipendentemente
dall’esistenza di un piano regolatore, a chiunque volesse
eseguire nuove costruzioni o modificare quelle esistenti
situate nei centri abitati.
Quest’ultimi vanno identificati nella situazione di fatto
esistente, costituita da case continue e vicine, con
interposte strade, piazze e simili, a prescindere
dall’esistenza di una delibera di perimetrazione antecedente
alla realizzazione del manufatto (TAR Lombardia, Milano, II,
09/03/2009, n. 1768).
Orbene, la contestata determinazione n. 301/2008 si richiama
ad una cartografia del 1957 e delimita il centro abitato
quale risultante negli anni 1942, 1957 e 1969 (documento n.
11 depositato in giudizio dal deducente). Del resto, nella
stessa perizia tecnica prodotta dall’interessato (documento
n. 9) si afferma che la zona in questione è stata la prima
ad adattarsi dal punto di vista urbanistico ed edilizio, nel
dopoguerra, all’avvento del turismo nel Comune di Forte dei
Marmi
(TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 04.02.2011 n. 202 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Definizione di "centro abitato" ai fini della
necessità della licenza edilizia ante legge Ponte (765/1967)
ed in assenza del P. di F.
In assenza di una delibera di
perimetrazione, il centro abitato va identificato nella
situazione di fatto, in presenza di un aggregato di case
continue e vicine, con interposte strade, piazze e simili, o
comunque brevi soluzioni di continuità, in quanto la
perimetrazione dei centri abitati è necessaria solo quando
il tessuto dell'insediamento abitativo non sia di sicura
delimitazione.
Quanto alla questione sull’applicazione del Regolamento ai
soli insediamenti abitativi all’interno del centro abitato,
si deve osservare che le planimetrie prodotte dalla difesa
dell’Amministrazione Comunale (doc. 7 e 8) mostrano come il
fabbricato di cui si or dina la demolizione fosse collocato
già negli anni 60/70 in una zona altamente edificata, mentre
la produzione documentale del ricorrente, in cui l’area
sarebbe a latere della zona edificata, risale al 1900 e al
1945.
In assenza di una delibera di perimetrazione, il centro
abitato va identificato nella situazione di fatto, in
presenza di un aggregato di case continue e vicine, con
interposte strade, piazze e simili, o comunque brevi
soluzioni di continuità, in quanto la perimetrazione dei
centri abitati è necessaria solo quando il tessuto
dell'insediamento abitativo non sia di sicura delimitazione (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 09.03.2009 n. 1768 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
APPALTI:
Centrali di committenza - Pubblichiamo le FAQ relative al
seminario on-line Ifel del 12.12.2014.
Pubblichiamo alcune delle FAQ (domande e risposte) relative
al tema centrali di committenza. Le domande sono state poste
da alcuni Comuni nel corso del seminario on-line organizzato
da Ifel lo scorso 12 dicembre. Si precisa che si tratta di
un elenco di FAQ che Anci integrerà successivamente con
ulteriori risposte ai dubbi più frequenti e quindi, deve
ritenersi, come “work in progress”.
L’Ufficio Lavori Pubblici, Edilizia ed Urbanistica dell’Anci,
con un gruppo tecnico di esperti, predisporrà un “pacchetto”
documenti a supporto dei Comuni (schemi di convenzione,
regolamento, atti di organizzazione ecc) che verranno
inseriti sul sito dell’Associazione entro la prima metà del
mese di gennaio 2015 (link a www.anci.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Approvazione automatica degli atti di
aggiornamento del Catasto Terreni con contestuale
aggiornamento della mappa e dell’archivio censuario.
Circolare di accompagnamento alla procedura Pregeo 10
versione 10.6.0. (Agenzia delle Entrate,
circolare 29.12.2014 n. 30/E). |
EDILIZIA PRIVATA:
Aggiornamento degli importi previsti dal Decreto del
Direttore dell’Agenzia del Territorio 04.05.2007
disciplinante lo “Accesso al sistema telematico dell’Agenzia
del territorio per la consultazione delle banche dati
ipotecaria e catastale” (Agenzia delle Entrate,
provvedimento
provvedimento 17.12.2014 n. 160950 di
prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto:
Applicazioni disposizioni decreto 03.06.2014 n. 120
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare,
nota 15.12.2014 n. 1140 di prot.).
---------------
Albo gestori ambientali: 15.12.2014,
chiarimenti dal Comitato nazionale sul nuovo regime
d'iscrizione.
Con la circolare n. 1140 del 15.12.2014, il Comitato
nazionale dell'Albo gestori ambientali fornisce chiarimenti
su alcune disposizioni del decreto 03.06.2014, n. 120, che
disciplina il nuovo regime d'iscrizione all'Albo, in seguito
agli interrogativi avanzati dalle varie sezioni regionali.
Le indicazioni del Comitato riguardano: i requisiti per
l'iscrizione all'Albo (in particolare relativamente ai
soggetti condannati con sospensione condizionale della
pena); le variazioni della dotazione veicoli (che vanno
deliberate con urgenza e con precedenza sulle altre
domande); la variazione di sede legale di cui all'art. 18,
comma 4, del D.M. 120/2014; i provvedimenti disciplinari
(soprattutto in caso di omissione del pagamento del diritto
annuo di iscrizione, comportante la cancellazione
dall'Albo). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 53 del 31.12.2014, "Disposizioni
per l’attuazione della programmazione economico-finanziaria
regionale, ai sensi dell’articolo 9-ter della legge
regionale 31.03.1978, n. 34 (Norme sulle procedure della
programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della
Regione) – Collegato 2015" (L.R.
30.12.2014 n. 35). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 31.12.2014, "Approvazione
dei criteri di classificazione delle aziende agrituristiche
di Regione Lombardia ai sensi dell’articolo 9, comma 2,
della legge 20.02.2006, n. 96" (decreto
D.S. 23.12.2014 n. 12589). |
ENTI LOCALI: G.U.
30.12.2014 n. 301 "Differimento al 31.03.2015 del termine
per la deliberazione del bilancio di previsione 2015 degli
enti locali" (Ministero dell'Interno,
decreto 24.12.2014). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI
- VARI: G.U.
29.12.2014 n. 300, suppl. ord. n. 99, "Disposizioni per
la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato
(legge di stabilità 2015)" (Legge
23.12.2014 n. 190). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 29.12.2014, "Disposizioni
attuative quadro «Infrastrutture verdi a rilevanza ecologica
e di incremento della naturalità (comma 2-bis e seguenti,
art. 43, l.r. 12/2005)»"
(deliberazione
G.R. 19.12.2014 n. 2944). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
27.12.2014 n. 299, suppl. ord. n. 97, "Approvazione del
modello unico di dichiarazione ambientale per l’anno 2015" (D.P.C.M.
17.12.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 52 del 23.12.2014,
"Approvazione della nuova modulistica per la
presentazione della richiesta di autorizzazione unica (AU)
per la costruzione, installazione ed esercizio di impianti
di produzione di energia elettrica alimentati da fonti
rinnovabili e revoca della precedente modulistica, approvata
con decreto del 06.12.2013, n. 11674" (decreto
D.S. 19.12.2014 n. 12481). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 52 del 23.12.2014, "Disposizioni
in materia di vendita dei carburanti per autotrazione.
Modifiche al titolo II, capo IV della legge regionale
02.02.2010, n. 6 (Testo unico delle leggi regionali in
materia di commercio e fiere)" (L.R.
19.12.2014 n. 34). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE - PUBBLICO IMPIEGO:
Personale News (tratto da www.gianlucabertagna.it,
09.12.2014 n. 23).
---------------
Di interesse si leggano:
● M. Ferrari, IL FONDO PER LA
PROGETTAZIONE E L’INNOVAZIONE E IL RELATIVO REGOLAMENTO
● P. Aldigeri, ATTIVITÀ EXTRA
LAVORATIVE NON AUTORIZZATE
● MODELLI DELLA PROGETTAZIONE INTERNA:
1- Oggetto: Contratto decentrato sui criteri per la ripartizione
del fondo per la progettazione e l'innovazione
2- Oggetto: Regolamento per la ripartizione del fondo per la
progettazione e l'innovazione |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
A. Scialò e S. Giampietro,
Fresato d’asfalto “sottoprodotto”:
il Consiglio di Stato impone condizioni e limiti non
previsti dall’art. 184-bis del TUA (nota a Consiglio di
Stato, n. 4978 del 06.10.2014) (18.11.2014
- link a
www.lexambiente.it). |
URBANISTICA:
G. Cocchi,
Vincoli conformativi - vincoli espropriativi la terza via:
vincoli espropriativi ad effetto sospeso nel tempo (17.11.2014
- link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
Le Zone A ex D.M. 1444/1968 quali beni paesaggistici in
potenza, a cui il Codice dei beni culturali e del paesaggio
accorda anticipata tutela (17.11.2014 - link a
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Amendola,
Abbruciamento di scarti vegetali, inquinamento da leggi e
cassazione (24.10.2014 - link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
A. Verderosa,
Il Piano di Lottizzazione, la Convenzione di Lottizzazione
ed il lotto intercluso o residuale (20.10.2014
- link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
T. Millefiori,
Note minime sulla nuova disciplina del mutamento di
destinazione d’uso urbanisticamente “irrilevante”
contenuta nel d.l. 12.09.2014, n. 133 (“sblocca
Italia”) (10.10.2014 - link a
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI:
G. Aiello,
Anche per la Corte di Cassazione l’ordinanza di rimozione
avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti in stato di
abbandono, nonché il termine entro cui provvedere deve
essere firmata dal Sindaco e non dal dirigente del settore
(07.10.2014 - link a
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. Volpato,
Prime notazioni sugli abbruciamenti: il reato è legittimato! (19.09.2014
- link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
S. Deliperi,
Le valutazioni di compatibilità paesaggistica vanno
effettuate alla luce del vigente quadro normativo (16.09.2014
- link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
T. Millefiori,
Contributo per il rilascio del permesso di costruire:
tempus regit actum ed autotutela amministrativa nella
relativa quantificazione (nota a margine della sentenza del
C.d.S., Sez. IV, 12.06.2014, n. 3009) (03.09.2014
- link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
C. Manni,
Appunti sul concetto di vicinalità delle strade (13.08.2014
- link a
www.lexambiente.it). |
QUESITI & PARERI |
PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico
impiego.
Domanda
Nel pubblico impiego privatizzato è vietata la sottrazione
al dipendente delle sue funzioni?
Risposta
In materia di pubblico impiego privatizzato, l'art. 52,
comma 1, del dlgs 30.03.2001, n. 165, che sancisce il
diritto all'adibizione alle mansioni per le quali il
dipendente è stato assunto o ad altre equivalenti, ha
recepito, attese le perduranti peculiarità relative alla
natura pubblica del datore di lavoro, tuttora condizionato,
nell'organizzazione del lavoro, da vincoli strutturali di
conformazione al pubblico interesse e di compatibilità
finanziaria delle risorse, un concetto di equivalenza «formale»,
ancorato alle previsioni della contrattazione collettiva
indipendentemente dalla professionalità acquisita e non
sindacabile dal giudice.
Dove, tuttavia, vi sia stato, con la destinazione ad altre
mansioni, il sostanziale svuotamento dell'attività
lavorativa, la vicenda esula dall'ambito delle problematiche
sull'equivalenza delle mansioni, configurandosi la diversa
ipotesi della sottrazione pressoché integrale delle funzioni
da svolgere, vietata anche nell'ambito del pubblico impiego
(articolo ItaliaOggi Sette del
22.12.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Bonus
ristrutturazioni.
Domanda
La detrazione Irpef per lavori di ristrutturazione
autorizzati dal proprietario dell'immobile è possibile per
l'inquilino che ha sostenuto i relativi costi?
Risposta
Sì. Il bonus ristrutturazioni spetta, infatti, a chi
sostiene la spesa, sia esso il proprietario o altro
occupante l'immobile a vario titolo. L'inquilino
dell'immobile ristrutturato, pertanto, se ha sostenuto la
spesa e i bonifici e le fatture sono a lui intestate, potrà
ben usufruire della detrazione Irpef del 50%
(articolo ItaliaOggi Sette del
22.12.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
D.Lgs. 22.01.2004 n. 42. Art. 142, comma 1, lett. m).
Quesito
(MIBACT,
nota 01.12.2014 n. 9200 di prot.).
---------------
... questa Direzione regionale interrogava l'Ufficio
legislativo sulla nozione di "interesse archeologico" di cui
all'art. 142, comma l, lett. m) del decreto legislativo n.
42/2004, chiedendo, in particolare, se
«a
quest'ultima, possano essere riferiti non solo i contesti di
giacenza dei beni o delle testimonianze tradizionalmente
ascritte al novero delle cose che pertengono alle discipline
archeologiche (ovverossia databili dalla preistoria al IV
secolo d.c., cioè fino al periodo cosiddetto "tardo antico")
ma, altresì, tutti quei "contesti di giacenza" sui quali, a
prescindere dalla datazione delle cose in essi
ricomprendibili (e quali possano dunque risalire anche
all'età medievale o moderna), sia necessario tuttavia
intervenire con i metodi propri della stratigrafia
archeologica, secondo gli orientamenti che caratterizzano da
alcuni decenni l'insegnamento universitario, nell'ambito del
quale, è dato accertare la presenza di discipline quali
l'archeologia medievale, il cui ambito cronologico si spinge
ad abbracciare l'intero secolo XIV». |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
La ratio legis dell’intera
disciplina è quella di favorire l’ottimale utilizzo delle
professionalità interne ad ogni amministrazione e di
assicurare un risparmio di spesa sugli oneri che
l’amministrazione dovrebbe sostenere per affidare
all’esterno incarichi professionali di contenuto analogo.
L’incentivo, infatti, può essere corrisposto al solo
personale dell’ente che abbia preso parte a determinate
attività e ciò in funzione incentivante e premiale per
l’espletamento di servizi altrimenti non rientranti nei
doveri propri d’ufficio.
La norma indica espressamente quali
beneficiari degli incentivi –da corrispondere “previo
accertamento positivo delle specifiche attività svolte”–
il responsabile del procedimento, gli incaricati della
redazione delle varie fasi progettuali, del piano della
sicurezza, della direzione dei lavori e del collaudo. Alle
figure professionali elencate si aggiungono “i loro
collaboratori”.
---------------
Ad avviso del Collegio non può escludersi,
in via di principio, la possibilità che i “collaboratori”
a cui fa riferimento la norma siano costituiti anche da
dipendenti appartenenti a profili amministrativi e
contabili.
Tuttavia, deve evidenziarsi che la maggior parte delle
attività incentivate dall’art. 92 cit. presenta un contenuto
squisitamente tecnico (progettazione preliminare, definitiva
ed esecutiva, redazione del paino di sicurezza, direzione
lavori, collaudo). In virtù del contenuto specialistico
delle prestazioni in parola, in caso di affidamento esterno
le stazioni appaltanti devono far ricorso a professionisti
esterni abilitati ed iscritti ai rispettivi albi
professionali (art. 90 del D.Lgs. 163/2006).
Ora, poiché come è già stato ricordato la ratio della
normativa in commento mira alla valorizzazione delle
professionalità interne ed a limitare il conferimento di
incarichi professionali, “i collaboratori” a cui fa
riferimento l’art. 92 cit. sono da individuare –di norma–
tra il personale del ruolo tecnico che di volta in volta
partecipa alla redazione dei vari elaborati (a titolo
esemplificativo: progetti e relative varianti, piano di
sicurezza, certificato di collaudo o di regolare esecuzione)
o al compimento di specifiche attività (direzione lavori e
relativa contabilità).
Discorso a parte meritano i collaboratori del responsabile
unico del procedimento (RUP).
Infatti, in base all’art. 10 del D.Lgs.
163/2006 (codice
dei contratti pubblici) e agli art. 9 e 10
del DPR 207/2010
(Regolamento di attuazione del codice dei contratti
pubblici) il RUP è titolare di una
pluralità di competenze che interessano tutte le fasi di
realizzazione dell’opera pubblica (progettazione,
affidamento dell’appalto, esecuzione dei lavori).
Nonostante per quanto riguarda i lavori
attinenti all’ingegneria e all’architettura il RUP deve
essere un tecnico
(cfr. art. 10, co. 5, del D. Lgs. 163/2006),
si evidenzia che non tutte le competenze del RUP
hanno un contenuto squisitamente tecnico. Infatti il RUP,
tra l’altro, indice la conferenza di servizi ai sensi della
L. 241/1990, propone la conclusione di accordi di programma,
cura il corretto e razionale svolgimento delle procedure,
segnala disfunzioni, impedimenti e ritardi, fornisce
all’organo di governo informazioni relative all’attuazione
dell’intervento, raccoglie e trasmette i dati
all’Osservatorio, proporne la risoluzione del contratto, la
transazione e la definizione bonaria delle controversie.
È evidente che per lo svolgimento di tali eterogenei compiti
il RUP può avvalersi anche di collaboratori appartenenti al
ruolo del personale amministrativo, purché in possesso delle
necessarie competenze professionali. Con l’ovvia conseguenza
che anche i predetti collaboratori possono essere ricompresi
nella ripartizione degli incentivi previsti dall’art. 92 cit..
Questa soluzione è coerente con il
contenuto dell’art. 10, co. 5, del DPR 207/2010. La norma
citata prevede la possibilità di costituire un ufficio di
supporto al RUP in caso di inadeguatezza dell’organico
dell’amministrazione aggiudicatrice. Tuttavia, a differenza
di quanto previsto per il RUP, per i componenti del predetto
ufficio di supporto non è richiesto il possesso di
professionalità tecniche.
Ciò posto, una soluzione interpretativa che vietasse di
destinare le risorse del Fondo a favore del personale
amministrativo impegnato nelle attività di supporto al RUP
favorendo in tal modo la costituzione di un ufficio esterno,
sarebbe contraria alla ratio e alle finalità della
norma.
---------------
Il Fondo
previsto dall’art. 92 cit. può essere destinato
esclusivamente alle specifiche figure professionali ivi
individuate, nonché ai loro collaboratori.
Non trova alcun fondamento normativo una diversa
interpretazione della norma tendente ad ampliare il novero
dei soggetti beneficiari.
Pertanto, i dipendenti –tecnici ed amministrativi- diversi
dal RUP, dal progettista, dal direttore lavori,
dall’incaricato del piano di sicurezza, dal collaudatore e
dai relativi collaboratori, benché svolgano attività
comunque connesse alla realizzazione di opere pubbliche
possono essere incentivati utilizzando soltanto gli ordinari
istituti contrattuali e le relative risorse finanziarie
stanziate in base alle norme dei vigenti Contratti
Collettivi Nazionali di Lavoro.
---------------
Il nuovo testo dell’art. 92 cit. così come
risultante dalle modifiche introdotte dal D.L. 90/2014 ha
espressamente previsto che i criteri di riparto del fondo
stabiliti dal regolamento che ciascuna amministrazione è
tenuta ad adottare escludano “le attività manutentive”.
L’interpretazione formatasi sulla precedente formulazione
dell’art. 92 cit. aveva già escluso dalle attività
remunerabili con l’incentivo in questione gli interventi di
manutenzione ordinaria, facendo salve le sole manutenzioni
straordinarie.
Infatti, secondo il riferito indirizzo
giurisprudenziale le manutenzioni straordinarie sarebbero
riconducibili (o comunque assimilabili) alla realizzazione
di opere pubbliche al compimento delle quali la norma
subordina l’erogazione dell’incentivo.
Il Collegio non ha motivi per discostarsi dal predetto
orientamento interpretativo ritenendo che la modifica al
testo dell’art. 92 cit. operata con il D.L. 90/2014 non
abbia inciso in modo restrittivo sul regime degli incentivi
relativi agli interventi di manutenzione straordinaria.
Infatti, premesso che nel sistema delineato dall’art. 92
cit. l’erogazione dell’incentivo è collegato alla
realizzazione di un’opera pubblica, si evidenzia che l’art.
3, co. 18, lett. a) e b), della legge 24.12.2003, n. 350
equipara espressamente gli interventi di manutenzione
straordinaria alla costruzione di nuove opere qualificandoli
come spese d’investimento per le quali, peraltro, è
consentito il ricorso all’indebitamento.
---------------
In data 12.11.2014 è pervenuta, per il tramite del CAL della
Regione Marche, una richiesta di parere formulata dal
Presidente della Provincia di Ancona ai sensi dell’art. 7,
comma 8, della L. 131/2003.
Il parere ha per oggetto la corretta interpretazione della
normativa in materia di incentivazione della progettazione
interna a favore del personale dipendente ai sensi dell’art.
92 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 (codice dei contratti
pubblici).
In particolare, il Presidente della Provincia pone a questa
Sezione tre differenti quesiti:
1) se tra i "collaboratori" del responsabile del
procedimento, degli incaricati della redazione del progetto,
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori e del
collaudo, possano rientrare i dipendenti che prestano,
nell'ambito della struttura competente alla realizzazione
dell'opera/lavoro, attività amministrativa e/o contabile
strettamente collegata ai lavori;
2) se tra i "collaboratori" destinatari delle
risorse del fondo possano inoltre rientrare:
a) il personale tecnico e amministrativo, assegnato alla
struttura competente alla realizzazione dell'opera/lavoro,
addetto ai procedimenti di esproprio delle aree sulle quali
verranno realizzate le opere/i lavori;
b) il personale tecnico, assegnato alla struttura competente
alla realizzazione dell'opera/lavoro, addetto alle attività
relative agli accatastamenti e ai frazionamenti delle aree
sulle quali verranno realizzate le opere/i lavori;
c) il responsabile della procedura di gara e i suoi
collaboratori;
3) se tra le attività escluse dalla ripartizione delle
risorse del fondo per la progettazione e l'innovazione
rientrino, oltre ai lavori di manutenzione ordinaria, anche
quelli di manutenzione straordinaria.
...
1. I dubbi interpretativi dell’Ente istante concernono la
corretta applicazione dell’art. 92, commi 7-bis e 7-ter, del
D.Lgs. 163/2006 introdotto dall’art. 13-bis del decreto
legge 24.06.2014, n. 90 convertito con modificazioni dalla
legge 11.08.2014, n. 114.
In particolare, i primi due quesiti concernono
l’individuazione della platea dei soggetti beneficiari degli
incentivi.
Il terzo quesito riguarda l’individuazione degli interventi
per i quali è possibile procedere allo stanziamento del
fondo per la progettazione e l’innovazione.
2. Il testo dell’art. 92 cit. di cui la Provincia di ancona
chiede l’interpretazione è stato recentemente inciso dalla
novella normativa della c.d. riforma Madia (D.L. 90/2014).
Infatti, l’art. 13 del D.L. 90/2014 ha abrogato i commi 5 e
6 dell’art. 92 cit. mentre l’art. 13-bis introdotto in sede
di conversione ha inserito, dopo il comma il 7, i commi
7-bis, 7-ter, 7-quater e 7-quinquies.
Per quanto riguarda l’individuazione dei soggetti
beneficiari degli incentivi, i commi 7-bis e 7-ter sono
sostanzialmente riproduttivi dell’abrogato comma 5.
Infatti, le citate disposizioni, stabiliscono: “7-bis. A
valere sugli stanziamenti di cui al comma 7, le
amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la
progettazione e l'innovazione risorse finanziarie in misura
non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di
gara di un'opera o di un lavoro; la percentuale effettiva è
stabilita da un regolamento adottato dall'amministrazione,
in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da
realizzare.
7-ter. L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo
per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per
ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri
previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa
del personale e adottati nel regolamento di cui al comma
7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati
della redazione del progetto, del piano della sicurezza,
della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli
oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di
riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle
responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da
svolgere, con particolare riferimento a quelle
effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica
funzionale ricoperta, della complessità delle opere,
escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo
rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e
dei costi previsti dal quadro economico del progetto
esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le
modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse
alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi
dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del
progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16
del regolamento di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d'asta
offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo del
presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione
dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti
elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d).
La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o
dal responsabile di servizio preposto alla struttura
competente, previo accertamento positivo delle specifiche
attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi
complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo
dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono
superare l'importo del 50 per cento del trattamento
economico complessivo annuo lordo. Le quote parti
dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai
medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno
all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del
predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente
comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.”
In base alle citate norme la misura complessiva
dell’incentivo deve essere stabilita da un regolamento
interno adottato da ogni amministrazione in considerazione
dell'entità e della complessità dell'opera da realizzare ma,
in ogni caso, entro il limite massimo del 2 per cento
dell’importo a base d’asta (co. 7-bis).
Il medesimo regolamento deve recepire le modalità ed i
criteri definiti in sede di contrattazione decentrata per la
ripartizione dell’incentivo tra il responsabile del
procedimento e gli incaricati della redazione del progetto,
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché tra i loro collaboratori. In particolare, i
criteri di ripartizione delle risorse devono tener conto
delle responsabilità connesse alle prestazioni da svolgere,
della complessità delle opere e dell'effettivo rispetto, in
fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi
previsti dal quadro economico del progetto esecutivo (co.
7-ter).
3. L’art. 92 del Codice dei contratti pubblici rubricato “Corrispettivi,
incentivi per la progettazione e fondi a disposizione delle
stazioni appaltanti”, contiene una serie di norme volte
a disciplinare l’assegnazione di specifici incentivi a
favore del personale dipendente del comparto impegnato nelle
varie attività professionali connesse alla realizzazione
delle opere pubbliche.
La ratio legis dell’intera
disciplina è quella di favorire l’ottimale utilizzo delle
professionalità interne ad ogni amministrazione e di
assicurare un risparmio di spesa sugli oneri che
l’amministrazione dovrebbe sostenere per affidare
all’esterno incarichi professionali di contenuto analogo.
L’incentivo, infatti, può essere corrisposto al solo
personale dell’ente che abbia preso parte a determinate
attività e ciò in funzione incentivante e premiale per
l’espletamento di servizi altrimenti non rientranti nei
doveri propri d’ufficio.
La norma indica espressamente quali
beneficiari degli incentivi –da corrispondere “previo
accertamento positivo delle specifiche attività svolte”–
il responsabile del procedimento, gli incaricati della
redazione delle varie fasi progettuali, del piano della
sicurezza, della direzione dei lavori e del collaudo. Alle
figure professionali elencate si aggiungono “i loro
collaboratori”.
Con il primo quesito l’Amministrazione provinciale
chiede di sapere se tra i predetti collaboratori possano
ricomprendersi anche i dipendenti che svolgono attività
amministrativa e/o contabile strettamente collegate ai
lavori.
Ad avviso del Collegio non può escludersi,
in via di principio, la possibilità che i “collaboratori”
a cui fa riferimento la norma siano costituiti anche da
dipendenti appartenenti a profili amministrativi e
contabili.
Tuttavia, deve evidenziarsi che la maggior parte delle
attività incentivate dall’art. 92 cit. presenta un contenuto
squisitamente tecnico (progettazione preliminare, definitiva
ed esecutiva, redazione del paino di sicurezza, direzione
lavori, collaudo). In virtù del contenuto specialistico
delle prestazioni in parola, in caso di affidamento esterno
le stazioni appaltanti devono far ricorso a professionisti
esterni abilitati ed iscritti ai rispettivi albi
professionali (art. 90 del D.Lgs. 163/2006).
Ora, poiché come è già stato ricordato la ratio della
normativa in commento mira alla valorizzazione delle
professionalità interne ed a limitare il conferimento di
incarichi professionali, “i collaboratori” a cui fa
riferimento l’art. 92 cit. sono da individuare –di norma–
tra il personale del ruolo tecnico che di volta in volta
partecipa alla redazione dei vari elaborati (a titolo
esemplificativo: progetti e relative varianti, piano di
sicurezza, certificato di collaudo o di regolare esecuzione)
o al compimento di specifiche attività (direzione lavori e
relativa contabilità).
Discorso a parte meritano i collaboratori del responsabile
unico del procedimento (RUP).
Infatti, in base all’art. 10 del D.Lgs.
163/2006 (codice
dei contratti pubblici) e agli art. 9 e 10
del DPR 207/2010
(Regolamento di attuazione del codice dei contratti
pubblici) il RUP è titolare di una
pluralità di competenze che interessano tutte le fasi di
realizzazione dell’opera pubblica (progettazione,
affidamento dell’appalto, esecuzione dei lavori).
Nonostante per quanto riguarda i lavori
attinenti all’ingegneria e all’architettura il RUP deve
essere un tecnico
(cfr. art. 10, co. 5, del D. Lgs. 163/2006),
si evidenzia che non tutte le competenze del RUP
hanno un contenuto squisitamente tecnico. Infatti il RUP,
tra l’altro, indice la conferenza di servizi ai sensi della
L. 241/1990, propone la conclusione di accordi di programma,
cura il corretto e razionale svolgimento delle procedure,
segnala disfunzioni, impedimenti e ritardi, fornisce
all’organo di governo informazioni relative all’attuazione
dell’intervento, raccoglie e trasmette i dati
all’Osservatorio, proporne la risoluzione del contratto, la
transazione e la definizione bonaria delle controversie.
È evidente che per lo svolgimento di tali eterogenei compiti
il RUP può avvalersi anche di collaboratori appartenenti al
ruolo del personale amministrativo, purché in possesso delle
necessarie competenze professionali. Con l’ovvia conseguenza
che anche i predetti collaboratori possono essere ricompresi
nella ripartizione degli incentivi previsti dall’art. 92 cit..
Questa soluzione è coerente con il
contenuto dell’art. 10, co. 5, del DPR 207/2010. La norma
citata prevede la possibilità di costituire un ufficio di
supporto al RUP in caso di inadeguatezza dell’organico
dell’amministrazione aggiudicatrice. Tuttavia, a differenza
di quanto previsto per il RUP, per i componenti del predetto
ufficio di supporto non è richiesto il possesso di
professionalità tecniche.
Ciò posto, una soluzione interpretativa che vietasse di
destinare le risorse del Fondo a favore del personale
amministrativo impegnato nelle attività di supporto al RUP
favorendo in tal modo la costituzione di un ufficio esterno,
sarebbe contraria alla ratio e alle finalità della
norma.
4. All’interno del quadro interpretativo delineato può
trovare soluzione anche il secondo quesito posto
dall’Amministrazione provinciale.
In particolare l’Ente istante chiede se il Fondo possa
essere utilizzato per incentivare il personale tecnico e
amministrativo:
a) addetto ai procedimenti di esproprio;
b) addetto alle attività relative agli accatastamenti e ai
frazionamenti;
c) responsabile o addetto allo svolgimento della procedura
di gara.
Come si è avuto modo di chiarire, il Fondo
previsto dall’art. 92 cit. può essere destinato
esclusivamente alle specifiche figure professionali ivi
individuate, nonché ai loro collaboratori.
Non trova alcun fondamento normativo una diversa
interpretazione della norma tendente ad ampliare il novero
dei soggetti beneficiari.
Pertanto, i dipendenti –tecnici ed amministrativi- diversi
dal RUP, dal progettista, dal direttore lavori,
dall’incaricato del piano di sicurezza, dal collaudatore e
dai relativi collaboratori, benché svolgano attività
comunque connesse alla realizzazione di opere pubbliche
possono essere incentivati utilizzando soltanto gli ordinari
istituti contrattuali e le relative risorse finanziarie
stanziate in base alle norme dei vigenti Contratti
Collettivi Nazionali di Lavoro.
5. Con l’ultimo quesito l’Amministrazione provinciale
chiede se gli interventi di manutenzione straordinaria
debbano essere esclusi dalla ripartizione delle risorse del
fondo per la progettazione e l'innovazione.
Il nuovo testo dell’art. 92 cit. così come
risultante dalle modifiche introdotte dal D.L. 90/2014 ha
espressamente previsto che i criteri di riparto del fondo
stabiliti dal regolamento che ciascuna amministrazione è
tenuta ad adottare escludano “le attività manutentive”.
L’interpretazione formatasi sulla precedente formulazione
dell’art. 92 cit. aveva già escluso dalle attività
remunerabili con l’incentivo in questione gli interventi di
manutenzione ordinaria, facendo salve le sole manutenzioni
straordinarie
(cfr. Sezione controllo Toscana
parere 19.03.2013 n. 15).
Infatti, secondo il riferito indirizzo
giurisprudenziale le manutenzioni straordinarie sarebbero
riconducibili (o comunque assimilabili) alla realizzazione
di opere pubbliche al compimento delle quali la norma
subordina l’erogazione dell’incentivo.
Il Collegio non ha motivi per discostarsi dal predetto
orientamento interpretativo ritenendo che la modifica al
testo dell’art. 92 cit. operata con il D.L. 90/2014 non
abbia inciso in modo restrittivo sul regime degli incentivi
relativi agli interventi di manutenzione straordinaria.
Infatti, premesso che nel sistema delineato dall’art. 92
cit. l’erogazione dell’incentivo è collegato alla
realizzazione di un’opera pubblica, si evidenzia che l’art.
3, co. 18, lett. a) e b), della legge 24.12.2003, n. 350
equipara espressamente gli interventi di manutenzione
straordinaria alla costruzione di nuove opere qualificandoli
come spese d’investimento per le quali, peraltro, è
consentito il ricorso all’indebitamento
(Corte dei Conti, Sez. controllo Marche,
parere 17.12.2014 n. 141). |
PATRIMONIO:
Impianti sportivi - Affidamento in gestione ad associazioni e società sportive dilettantistiche -
Possibilità di elargizione di contributi pubblici -
Condizioni e vincoli - Necessità di concessione dei beni
pubblici ad adeguate condizioni di remuneratività - Sussiste
- Enti locali - Divieto di sponsorizzazioni - Concessione
del patrocinio con partecipazione alle spese in favore di
associazione sportiva - Potrebbe configurare fattispecie di
sponsorizzazione.
Il divieto di erogazione di
contributi ricomprende l'attività prestata dai soggetti di
diritto privato menzionati dalla norma in favore
dell'Amministrazione Pubblica quale beneficiaria diretta;
risulta, invece, esclusa dal divieto di legge l'attività
svolta in favore dei cittadini, id est della "comunità
amministrata", seppur quale esercizio -mediato- di finalità
istituzionali dell'ente locale e dunque nell'interesse di
quest'ultimo.
---------------
La disposizione utilizza il termine
“sponsorizzazioni” in senso atecnico, risultando chiaro dal
contesto normativo che è vietata qualsiasi forma di
contribuzione intesa a valorizzare il nome o caratteristica
del comune ovvero eventi di interesse per la collettività
locale.
Non rientra invece nella nozione di “sponsorizzazione” la
spesa sostenuta dall’ente al fine di erogare o ampliare un
servizio pubblico, costituendo in tal caso il contributo
erogato a terzi una modalità di svolgimento del servizio.
Nelle determinazioni che in tal caso gli enti dovranno
assumere deve risultare nell’impianto motivazionale il fine
pubblico perseguito e la rispondenza delle modalità in
concreto adottate al raggiungimento della finalità sociale.
---------------
Ad essere vietati sarebbero in
generale gli accordi di patrocinio comportanti spese; ciò
che la norma tende ad evitare sarebbe dunque proprio la
concessione del patrocinio -che preveda oneri, da parte
delle amministrazioni pubbliche- ad iniziative organizzate
da soggetti terzi, ad esempio la sponsorizzazione di una
squadra di calcio.
Resterebbero invece consentite, salvi naturalmente ulteriori
specifici divieti di legge, le iniziative organizzate dalle
amministrazioni pubbliche, sia in via diretta, sia
indirettamente, purché per il tramite di soggetti
istituzionalmente preposti allo svolgimento di attività di
valorizzazione del territorio.
---------------
Qualora sussistano specifiche caratteristiche, la
concessione di un contributo elargito ad una associazione
sportiva potrebbe rientrare nel concetto di
sponsorizzazione.
E’ opportuno anche tener conto che la giurisprudenza
contabile ha talora ritenuto sussistente un danno erariale
laddove il bene sia concesso a condizioni economiche non
adeguatamente remunerative.
---------------
Il Comune di
Grottammare, con nota a firma del suo Sindaco, ha formulato,
ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. 131/2003, una
richiesta di parere in ordine alla possibilità di erogare
contributi annui, per gli oneri di gestione, a sostegno
dell'attività sportiva giovanile, a società sportive
dilettantistiche, affidatarie della gestione di impianti
sportivi di proprietà comunale, ai sensi dell'articolo
90, comma 25, della legge 27.12.2002, n. 289, a seguito
di stipula di convenzione che garantisce l'utilizzo della
struttura in funzione delle esigenze della collettività
locale, per tutta la durata della convenzione stessa,
precisando che l'attività svolta ha come destinataria
immediata la collettività locale e non l'Amministrazione.
...
La richiesta di parere investe la corretta interpretazione
dell'articolo 4, comma 6, del decreto legge 06.07.2012, n.
95, convertito dalla legge 07.08.2012, n. 135, e alla stessa
deve intendersi limitato.
L'art. 4, comma 6, del DL 95/2012 prevede che: "… Gli
enti di diritto privato …, che forniscono servizi a favore
dell'amministrazione stessa, anche a titolo gratuito, non
possono ricevere contributi a carico delle finanze pubbliche”,
escludendo tuttavia dal divieto, tra le altre, “… le
associazioni sportive dilettantistiche di cui all'articolo
90 della legge 27.12.2002, n. 289".
L’art. 90, comma 25, d.l. 95/2012, prevede che “nei casi
in cui l'ente pubblico territoriale non intenda gestire
direttamente gli impianti sportivi, la gestione è affidata
in via preferenziale a società e associazioni sportive
dilettantistiche, enti di promozione sportiva, discipline
sportive associate e Federazioni sportive nazionali, sulla
base di convenzioni che ne stabiliscono i criteri d'uso e
previa determinazione di criteri generali e obiettivi per
l'individuazione dei soggetti affidatari. Le regioni
disciplinano, con propria legge, le modalità di affidamento.”
La Regione Marche ha peraltro disciplinato la materia con
L.R. 5/2012, regolamentando negli artt. 18 e ss. le modalità
di affidamento.
La Sezione regionale di controllo per la Lombardia con
parere n. 89/2013/PAR in merito all'interpretazione della
norma oggetto di interpretazione ha osservato che “il
predetto divieto di erogazione di contributi ricomprende
l'attività prestata dai soggetti di diritto privato
menzionati dalla norma in favore dell'Amministrazione
Pubblica quale beneficiaria diretta; risulta, invece,
esclusa dal divieto di legge l'attività svolta in favore dei
cittadini, id est della "comunità amministrata", seppur
quale esercizio -mediato- di finalità istituzionali
dell'ente locale e dunque nell'interesse di quest'ultimo".
Questa Sezione ritiene di condividere l’orientamento della
Sezione Lombardia non sussistendo valide ragioni, del resto
non evidenziate neanche dallo stesse Ente, per
discostarsene.
Dal tenore letterale non si rinvengono quindi, in astratto,
preclusioni della disposizione in esame all’erogazione di
contributi pubblici; ciò non esclude, evidentemente, la
necessità del rispetto di ulteriori vincoli derivanti dalla
Legislazione vigente, anche regionale, e dei regolamenti
comunali.
A titolo meramente esemplificativo, con riferimento all’art.
6, comma 9, del decreto legge n. 78/2010 ed al relativo
divieto di spese di sponsorizzazione la Corte dei Conti,
Sez. reg. controllo, Lombardia, con
parere 10.01.2011 n. 6,
ha statuito che “La disposizione citata
utilizza il termine “sponsorizzazioni” in senso atecnico,
risultando chiaro dal contesto normativo che è vietata
qualsiasi forma di contribuzione intesa a valorizzare il
nome o caratteristica del comune ovvero eventi di interesse
per la collettività locale. Non rientra invece nella nozione
di “sponsorizzazione” la spesa sostenuta dall’ente al fine
di erogare o ampliare un servizio pubblico, costituendo in
tal caso il contributo erogato a terzi una modalità di
svolgimento del servizio. Nelle determinazioni che in tal
caso gli enti dovranno assumere deve risultare nell’impianto
motivazionale il fine pubblico perseguito e la rispondenza
delle modalità in concreto adottate al raggiungimento della
finalità sociale
(cfr. in ogni caso
parere 23.12.2010 n. 1075)”.
Sulla stessa linea interpretativa si pone Corte dei Conti
sez. reg. controllo, Puglia, deliberazione n. 163/2010, la
quale ha affermato che: “Ad essere
vietati sarebbero in generale gli accordi di patrocinio
comportanti spese; ciò che la norma tende ad evitare sarebbe
dunque proprio la concessione del patrocinio -che preveda
oneri, da parte delle amministrazioni pubbliche- ad
iniziative organizzate da soggetti terzi, ad esempio la
sponsorizzazione di una squadra di calcio; resterebbero
invece consentite, salvi naturalmente ulteriori specifici
divieti di legge, le iniziative organizzate dalle
amministrazioni pubbliche, sia in via diretta, sia
indirettamente, purché per il tramite di soggetti
istituzionalmente preposti allo svolgimento di attività di
valorizzazione del territorio”.
Pertanto, qualora sussistano specifiche
caratteristiche, la concessione di un contributo elargito ad
una associazione sportiva potrebbe rientrare nel concetto di
sponsorizzazione.
E’ opportuno anche tener conto che la giurisprudenza
contabile ha talora ritenuto sussistente un danno erariale
laddove il bene sia concesso a condizioni economiche non
adeguatamente remunerative
(tra le altre, cfr. Sez. giur. Toscana, 96/2014) (Corte
dei Conti, Sez. controllo Marche,
parere 04.12.2014 n. 133). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Incarichi esterni - Regolamento interno ente locale -
Incarichi meramente occasionali - Deroga all'evidenza
pubblica - Inammissibilità - Non conformità all'art. 7 tupi
- Ragioni.
La disposizione regolamentare
prevede che «Sono escluse dalle procedure comparative e
dagli obblighi di pubblicità le sole prestazioni
meramente occasionali che si esauriscono in una
prestazione episodica, non riconducibile a fasi di piani o
programmi del committente e che si svolge in maniera del
tutto autonoma, anche rientranti nelle fattispecie indicate
al comma 6 dell'art. 53 del D.Lgs. 165 del 2001».
La previsione non è conforme a legge.
In merito, peraltro, si osserva che l’occasionalità
è una caratteristica strutturale di tutti i provvedimenti di
incarico esterno, venuta meno la quale, in ragione del
carattere stabile del bisogno amministrativo che si intende
soddisfare, l’ente sarebbe tenuto a farvi fronte con un
impiego stabile ovvero ad esternalizzare in appalto.
Per tale ragione non pare corretta
l’astratta distinzione tra occasionalità e
“mera” occasionalità, in quanto non fornisce
alcun criterio discriminativo implicito o altrimenti
ricavabile dalla ratio sottesa all’art. 7 TUPI; piuttosto
essa appare prefigurare una clausola per deroghe de facto
alla regola della procedura comparativa, simile a quella
della soglia minima per valore, pacificamente ritenuta
illegittima da questa Corte.
Infatti, come nei casi delle soglie di valore di irrilevanza
ai fini della procedura comparativa, non si può che ribadire
che gli enti sono tenuti alla
stretta osservanza del principio dell’evidenza pubblica
nell’assegnazione degli incarichi. In altre parole, la
normativa primaria di cui all’art. 7, comma 6-bis, del
D.lgs. n. 165/2001 non consente alcuna deroga alle procedure
comparative, se non con successiva norma di pari rango, allo
stato attuale non esistente.
I soggetti pubblici destinatari
della norma possono, secondo i loro ordinamenti,
semplicemente adattare e indicare le modalità di selezione e
pubblicità delle procedure, non disciplinarne gli stessi
presupposti.
La doverosa osservanza della norma
primaria non consente, quindi, alcuna deroga da parte degli
ordinamenti delle singole amministrazioni tenute
all’osservanza della disciplina dell’art. 7 TUPI.
Diversamente opinando, invero, si consentirebbe agli enti
pubblici in questione di stabilire “ad libitum”, attraverso
i propri statuti e regolamenti, categorie che, per quantità
o qualità dell’incarico, sono sottratte alle procedure
concorsuali, così svuotando di contenuto, tra l’altro, la
stessa norma sul controllo (perché inibita a controllare la
spesa pubblica ogni qualvolta vengano poste eccezioni alle
procedure secondo parametri di merito non sottoposti a
controllo e variabili da ente a ente).
Ne conseguirebbe, quindi, che il controllo della Corte sulla
materia sarebbe limitato principalmente al corretto rispetto
della soglia prevista dalla normativa statutaria e
regolamentare, con aperta violazione dei principi di
imparzialità garantiti costituzionalmente.
---------------
La giurisprudenza della Corte ha da tempo individuato i
seguenti principi:
1) la disciplina dettata dall’art. 3, commi
da 54 a 57, della Legge n. 244/2007 stabilisce l’obbligo di
normazione regolamentare di limiti, criteri e modalità di
affidamento degli incarichi di collaborazione, studio e
ricerca, nonché di consulenza, a soggetti estranei
all’amministrazione. La competenza ad adottare i regolamenti
degli uffici e dei servizi appartiene alla Giunta, nel
rispetto dei criteri generali stabiliti dal Consiglio (art.
48, terzo comma, e art. 42, secondo comma, lett. a), del
TUEL);
2) l’art. 46 del D.L. n. 112/2008,
convertito nella Legge n. 133/2008, ha unificato gli
incarichi di collaborazione ad alto contenuto professionale
e gli incarichi di studio e consulenza, riconducendoli
all’interno della tipologia generale di collaborazione
autonoma, tutti caratterizzati dal grado di specifica
professionalità richiesta. Questi presupposti li distinguono
dalle collaborazioni “comuni”, il cui uso è vietato per lo
svolgimento delle funzioni ordinarie dell’ente;
3) quanto alla locuzione
“particolare e comprovata specializzazione universitaria”, è
stato chiarito che con essa si intende il possesso di
conoscenze specialistiche equiparabile a quello che si
otterrebbe con un percorso formativo di tipo universitario,
basato su conoscenze specifiche inerenti al tipo di attività
professionale oggetto dell’incarico. La specializzazione
richiesta, per essere “comprovata”, deve essere oggetto di
accertamento in concreto condotto sull’esame di documentati
curriculari. Il mero possesso formale di titoli non sempre è
sufficiente a comprovare l’acquisizione delle richieste
capacità professionali;
4) il nuovo testo dell’art. 7 del D.lgs. n.
165/2001 (TUPI) richiede, come presupposti di legittimità,
tutti i requisiti già ritenuti dalla giurisprudenza
contabile necessari per il ricorso ad incarichi di
collaborazione o di studio. In particolare, quello della
corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita
dall’ordinamento all’amministrazione conferente comporta che
si possa ricorrere a contratti di collaborazione solo con
riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla
legge, oltre che previste dal programma approvato dal
Consiglio ai sensi dell’art. 42 TUEL;
5) il comma 3 dell’art. 46 del D.L. n.
112/2008 ha eliminato l’obbligo di individuare nel
regolamento il livello massimo di spesa sostenibile,
prevedendo invece la fissazione del limite massimo annuale
nel bilancio preventivo. È pertanto necessario accertare, in
sede di conferimento, l’esistenza di un apposito
stanziamento di spesa ed il rispetto del suo limite;
6) quanto all’oggetto delle collaborazioni
autonome, si richiamano le considerazioni contenute nel
punto 6 della deliberazione SRC Lombardia n. 37/2008 del
04.03.2008, sull’inapplicabilità della disciplina a materia
già autonomamente regolamentata e sulla distinzione tra
incarico professionale ed appalto di servizi;
7) il conferimento dell’incarico deve
essere preceduto da procedure selettive di natura
concorsuale, adeguatamente pubblicizzate. In proposito si è
posto il problema del se, ed in quali limiti, sia consentito
l’affidamento diretto dell’incarico. In taluni casi, le
amministrazioni fanno riferimento ai limiti previsti nel
Codice dei contratti pubblici, D.lgs. n. 163/2006. Tuttavia,
la materia è estranea a quella degli appalti di lavori, di
beni o servizi e, pertanto, non può farsi ricorso a detti
criteri.
Deve invece affermarsi che il ricorso a procedure
concorsuali deve essere generalizzato e che può prescindersi
solo in circostanze del tutto particolari, come per esempio
procedura concorsuale andata deserta, unicità della
prestazione sotto il profilo soggettivo, assoluta urgenza
determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza
in relazione ad un termine prefissato o ad un evento
eccezionale;
8) l’atto di incarico deve contenere tutti
gli elementi costitutivi ed identificativi previsti per i
contratti della Pubblica Amministrazione, in particolare:
oggetto della prestazione, durata, modalità di
determinazione del corrispettivo, termini di pagamento,
verifiche del raggiungimento del risultato (indispensabile
in ipotesi di proroga o rinnovo);
9) in ogni caso, tutti i presupposti che
legittimano il ricorso alla collaborazione debbono trovare
adeguata motivazione nelle delibere o determinazioni di
incarico;
10) nel regolamento deve essere
espressamente precisato che le società partecipate debbono
osservare i principi e gli obblighi fissati in materia per
gli enti cui appartengono, nonché i criteri per il controllo
dell’ente locale sulla relativa osservanza.
---------------
In data 22.09.2014,
con nota prot. C.C. n. 4565, il Comune di Caserta (CE) ha
trasmesso alla Sezione Regionale di controllo per la
Campania la delibera di Giunta Comunale n. 144 del
21.03.2008, avente ad oggetto l’approvazione del nuovo
regolamento per il conferimento di incarichi “Regolamento
sull'Ordinamento degli Uffici e Servizi del Comune di
Caserta”, approvato con deliberazione di G.C. n. 560 del
19.07.02000 e s.m.i.
Sulla base dei criteri enunciati dalla giurisprudenza di
questa Corte in merito all’interpretazione dell’art. 7 del
D.lgs. n. 165/2001 (Testo unico del pubblico impiego, da ora
innanzi TUPI) e delle altre norme e principi in materia, il
Magistrato istruttore ha deferito la questione all’esame
collegiale della Sezione.
...
1. La
legge finanziaria per il 2008 (L. 24.12.2007, n. 244), nel
dettare le regole alle quali gli enti locali debbono
conformarsi per il conferimento di incarichi di
collaborazione, di studio e di ricerca, nonché di
consulenza, a soggetti estranei all’amministrazione, ha
previsto la necessaria emanazione, da parte di ciascun ente
locale, di norme regolamentari, da trasmettere alla
competente Sezione regionale della Corte dei conti entro
trenta giorni dall’adozione (obbligo esteso all’ipotesi di
modifiche future ai testi già approvati).
La Corte dei conti (cfr. SRC Lombardia, deliberazioni nn. 28
e 29/2008/PAR, 37/2008/REG e 224/2008) ha da tempo elaborato
i criteri interpretativi della normativa al fine di
stabilire, nell’esame dei regolamenti pervenuti, parametri
di verifica uniformi, nonché l’alveo giuridico in cui si
sostanzia la funzione di controllo.
Il comma 57 dell’art. 3 della legge n. 244/2007 obbliga gli
enti a trasmettere alla Corte dei conti le disposizioni
regolamentari inerenti agli incarichi di collaborazione
esterna, a qualunque titolo affidati. In base al dato
testuale, l’efficacia delle disposizioni regolamentari non è
subordinata al loro esame da parte della Corte, che non è
chiamata ad effettuare un controllo preventivo di
legittimità ma, nella logica di sistema, la trasmissione è
da ritenere finalizzata all’esercizio delle competenze
tipiche della magistratura contabile.
1.1. Al
riguardo, necessario punto di partenza è la considerazione
che le Sezioni regionali della Corte dei conti possono
svolgere, tra gli altri, vari controlli di natura “collaborativa”
nell'ambito dei quali il Legislatore, come ha riconosciuto
dalla la Corte costituzionale, è libero di assegnare
qualsiasi competenza, purché vi sia un fondamento
costituzionale rinvenibile, in base ad una lettura
adeguatrice rispetto al nuovo assetto della Repubblica,
nelle norme originariamente dettate per lo Stato, quali gli
artt. 100, 81, 97, primo comma, e 28 della Costituzione
(cfr. sentenza Corte cost. n. 179/2007).
Tali controlli “collaborativi” possono avere una
struttura aperta quanto ad oggetto e parametro di
valutazione (controlli eventuali ai sensi dell’art. 3 della
L. n. 20/1994, oggetto di specifica programmazione,
caratterizzati per l’allargamento del parametro a regole di
buona prassi, dall’esito meramente conformativo, nel senso
dell’autocorrezione dell’Amministrazione) ovvero possono
avere carattere “dicotomico” (Corte costituzionale n.
40/2014) in cui la Magistratura di controllo è chiamata a
valutare e decidere secondo lo schema tipico e naturale
della funzione magistratuale, ovvero secondo lo schema di
conformità/non conformità ad un parametro normativo, sia
esso afferente un’attività o un atto.
In assenza di specifiche conseguenze di legge, relativamente
alle irregolarità normative rilevate, resta fermo il dovere
di riesame delle criticità evidenziate dalla Corte dei Conti
da parte dell’Amministrazione al fine del ripristino della
regolarità amministrativa e contabile, come esplicitamente
affermato dalla Corte Costituzionale (sent. n. 198/2012),
con l’obbligo di porre in essere, in ossequio a costante
approdo della giurisprudenza, un procedimento di secondo
grado per rimuovere le ridette irregolarità (si ricade nella
casistica di “autotutela doverosa” che, come noto,
comprende «l'ipotesi di illegittimità dell'atto
dichiarata da sentenza passata in giudicato del giudice
ordinario, e quella di illegittimità dell'atto dichiarata da
un'autorità di controllo priva del potere di annullamento.
È, peraltro, pacifico in giurisprudenza che per gli atti che
esplicano effetti giuridici ripetuti nel tempo il principio
di legalità impone all'Amministrazione il loro adeguamento
in ogni momento al quadro normativo di riferimento. In tali
ipotesi l'interesse pubblico all'esercizio dell'autotutela è
"in re ipsa" e si identifica nella cessazione di ulteriori
effetti "contra legem" cfr. Consiglio di Stato VI, sentenza
17.01.2008, n. 106» TAR Campania, Napoli, Sez. IV,
sentenza 03.04.2012, n. 1527).
In alcuni di questi controlli, in presenza di presupposti
specifici (di norma determinate tipologie di “gravi
irregolarità”), il Legislatore ha previsto conseguenze
specifiche ed il superamento dell’effetto meramente
conformativo nel senso della necessità dell’autotutela
vincolata, prevedendo un effetto “interdittivo”,
rimesso ad un’ulteriore attività di accertamento della
Magistratura di controllo; effetto interdittivo, peraltro,
operante sul piano meramente finanziario e non su quello
della capacità dell’ente (autodichia e capacità negoziale).
È questo il caso della fattispecie dell’art. 148-bis TUEL,
comma 3, in ipotesi di mancanza o inidoneità delle misure di
autocorrezione adottate da un ente a valle di una pronuncia
specifica della Corte.
1.1.1.
In questo quadro, l’obbligo di trasmissione alla Corte dei
conti di atti e documenti, da parte degli enti locali, non
può essere fine a sé stesso, ma deve essere finalizzato allo
svolgimento delle specifiche funzioni, come già messo in
luce dalla Sezione (cfr. SRC Campania n. 221/2014/VSG e n.
21/2014/REG).
La trasmissione dei regolamenti deve quindi ritenersi
strumentale al più generale potere di controllo di cui
l’art. 1, commi da 166 a 172, della Legge n. 266 del 2005 e
all’art. 148-bis TUEL, introdotto dall’art. 3, comma 1,
lettera e), del D.L. n. 174/2012. Tali previsioni hanno
istituito ulteriori tipologie di controllo, estese alla
generalità degli enti locali e degli enti del Servizio
sanitario nazionale, ascrivibili a controlli di natura
preventiva finalizzati ad evitare danni irreparabili
all’equilibrio di bilancio.
Tali controlli si collocano, pertanto, su un piano
nettamente distinto rispetto al controllo sulla gestione
amministrativa di natura collaborativa in senso lato; la
Corte costituzionale, infatti, «Nel pronunciarsi sulla
conformità a Costituzione delle norme che disciplinano tale
tipologia di controllo, in relazione agli enti locali e agli
enti del Servizio sanitario nazionale (art. 1, commi da 166
a 172, della legge n. 266 del 2005), […] ha altresì
affermato che esso “è ascrivibile alla categoria del
sindacato di legalità e di regolarità, di tipo complementare
al controllo sulla gestione amministrativa” (sentenza n. 179
del 2007)» (sentenze n. 60 del 2013). Tali controlli,
come si anticipava, sono caratterizzati da un esito di tipo
“dicotomico” o binario di conformità al parametro
normativo.
Detto in altri termini, il Legislatore, accanto al controllo
generale di cui all’art. 1, commi da 166 a 172, della legge
n. 266 del 2005 e 148-bis TUEL, ha previsto forme di
controllo specifico, riguardanti determinate tipologie di
spese; ha così istituito il controllo sui regolamenti in
questione e, similmente, sugli incarichi oltre una
determinata soglia di importo (cfr. infra), come, più di
recente, sulle spese di rappresentanza (art. 16, comma 26,
del D.L. n. 138/2011, conv. nella Legge n. 148/2011).
Di conseguenza, anche il controllo sui regolamenti deve
essere svolto secondo schema “binario” di conformità
(C. cost., sent. n. 40/2014), dovendosi assumere a parametro
delle disposizioni regolamentari lo statuto dell’ente, i
limiti normativi di settore (in particolare l’art. 7 del
d.lgs n. 165/2001 e l’art. 110 TUEL) oltre ad ogni altra
disposizione legislativa che contenga indicazioni, anche di
natura finanziaria, riferite a questa materia.
1.2.
Fissati i parametri di raffronto, occorre verificare quali
siano gli effetti del controllo.
Al riguardo va ricordato che la Corte costituzionale,
ricostruendo il quadro complessivo dell’attività di
controllo della Corte dei conti nei confronti degli enti
locali, ha ritenuto ascrivibile al riesame di legalità e
regolarità (alla stessa maniera delle verifiche previste
dall’art. 1 comma 166 e seguenti della legge n. 166/2005)
anche il controllo ex art. 3, comma 57, della legge n.
244/2007, che ha la caratteristica, in una prospettiva non
più statica (come era il tradizionale controllo di
legalità), ma dinamica, di finalizzare il confronto tra
fattispecie e parametro normativo all’adozione di misure
correttive.
Tanto premesso, sotto il profilo sostanziale,
la giurisprudenza della Corte ha da tempo
individuato i seguenti principi:
1) la disciplina dettata dall’art. 3, commi
da 54 a 57, della Legge n. 244/2007 stabilisce l’obbligo di
normazione regolamentare di limiti, criteri e modalità di
affidamento degli incarichi di collaborazione, studio e
ricerca, nonché di consulenza, a soggetti estranei
all’amministrazione. La competenza ad adottare i regolamenti
degli uffici e dei servizi appartiene alla Giunta, nel
rispetto dei criteri generali stabiliti dal Consiglio (art.
48, terzo comma, e art. 42, secondo comma, lett. a), del
TUEL);
2) l’art. 46 del D.L. n. 112/2008,
convertito nella Legge n. 133/2008, ha unificato gli
incarichi di collaborazione ad alto contenuto professionale
e gli incarichi di studio e consulenza, riconducendoli
all’interno della tipologia generale di collaborazione
autonoma, tutti caratterizzati dal grado di specifica
professionalità richiesta. Questi presupposti li distinguono
dalle collaborazioni “comuni”, il cui uso è vietato
per lo svolgimento delle funzioni ordinarie dell’ente;
3) quanto alla locuzione “particolare e
comprovata specializzazione universitaria”, è stato
chiarito che con essa si intende il possesso di conoscenze
specialistiche equiparabile a quello che si otterrebbe con
un percorso formativo di tipo universitario, basato su
conoscenze specifiche inerenti al tipo di attività
professionale oggetto dell’incarico. La specializzazione
richiesta, per essere “comprovata”, deve essere
oggetto di accertamento in concreto condotto sull’esame di
documentati curriculari. Il mero possesso formale di titoli
non sempre è sufficiente a comprovare l’acquisizione delle
richieste capacità professionali;
4) il nuovo testo dell’art. 7 del D.lgs. n.
165/2001 (TUPI) richiede, come presupposti di legittimità,
tutti i requisiti già ritenuti dalla giurisprudenza
contabile necessari per il ricorso ad incarichi di
collaborazione o di studio. In particolare, quello della
corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita
dall’ordinamento all’amministrazione conferente comporta che
si possa ricorrere a contratti di collaborazione solo con
riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla
legge, oltre che previste dal programma approvato dal
Consiglio ai sensi dell’art. 42 TUEL;
5) il comma 3 dell’art. 46 del D.L. n.
112/2008 ha eliminato l’obbligo di individuare nel
regolamento il livello massimo di spesa sostenibile,
prevedendo invece la fissazione del limite massimo annuale
nel bilancio preventivo. È pertanto necessario accertare, in
sede di conferimento, l’esistenza di un apposito
stanziamento di spesa ed il rispetto del suo limite;
6) quanto all’oggetto delle collaborazioni
autonome, si richiamano le considerazioni contenute nel
punto 6 della deliberazione SRC Lombardia n. 37/2008 del
04.03.2008, sull’inapplicabilità della disciplina a materia
già autonomamente regolamentata e sulla distinzione tra
incarico professionale ed appalto di servizi;
7) il conferimento dell’incarico deve
essere preceduto da procedure selettive di natura
concorsuale, adeguatamente pubblicizzate. In proposito si è
posto il problema del se, ed in quali limiti, sia consentito
l’affidamento diretto dell’incarico. In taluni casi, le
amministrazioni fanno riferimento ai limiti previsti nel
Codice dei contratti pubblici, D.lgs. n. 163/2006. Tuttavia,
la materia è estranea a quella degli appalti di lavori, di
beni o servizi e, pertanto, non può farsi ricorso a detti
criteri.
Deve invece affermarsi che il ricorso a procedure
concorsuali deve essere generalizzato e che può prescindersi
solo in circostanze del tutto particolari, come per esempio
procedura concorsuale andata deserta, unicità della
prestazione sotto il profilo soggettivo, assoluta urgenza
determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza
in relazione ad un termine prefissato o ad un evento
eccezionale;
8) l’atto di incarico deve contenere tutti
gli elementi costitutivi ed identificativi previsti per i
contratti della Pubblica Amministrazione, in particolare:
oggetto della prestazione, durata, modalità di
determinazione del corrispettivo, termini di pagamento,
verifiche del raggiungimento del risultato (indispensabile
in ipotesi di proroga o rinnovo);
9) in ogni caso, tutti i presupposti che
legittimano il ricorso alla collaborazione debbono trovare
adeguata motivazione nelle delibere o determinazioni di
incarico;
10) nel regolamento deve essere
espressamente precisato che le società partecipate debbono
osservare i principi e gli obblighi fissati in materia per
gli enti cui appartengono, nonché i criteri per il controllo
dell’ente locale sulla relativa osservanza
(art. 18 del D.L. 112/2008, SRC Lombardia, n. 350/2011/PAR).
1.3.
Infine si rammentano i seguenti obblighi di
legge.
1.3.1.
L’art. 15 del d.lgs. n. 33 del 14.03.2013, rafforzando un
obbligo già a suo tempo disposto dall’art. 3, comma 54 della
Legge 24.12.2007, n. 244 (finanziaria per il 2008)
impone alle amministrazioni (anche gli enti locali)
che si avvalgono di collaboratori esterni o che
affidano incarichi di consulenza di pubblicare: a)
gli estremi dell'atto di conferimento dell'incarico; b) il
curriculum vitae; c) i dati relativi allo svolgimento di
incarichi o di attività professionali; d) i compensi,
comunque denominati, relativi al rapporto di consulenza o di
collaborazione, con l’indicazione dei soggetti percettori,
della ragione dell’incarico e dell’ammontare erogato.
Tale obbligo di pubblicità, è assolto
arricchendo i contenuti necessari dei siti web istituzionali
indicati dall’articolo 54 del decreto legislativo
07.03.2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale),
mediante l’inserimento dei richiamati dati nella home
page dei siti istituzionali degli enti, all’interno
dell’apposita sezione denominata “amministrazione
trasparente”
(cfr. art. 9 del medesimo d.lgs. n. 33/2013).
La medesima disposizione, ai commi 2 e 3, conferma e
rinsalda anche le conseguenze e le sanzioni previste dal
richiamato art. 3 della finanziaria 2008 per l’ipotesi di
mancata pubblicazione dei dati relativi all’affidamento a
titolo oneroso dei prefati incarichi a soggetti esterni alla
pubblica amministrazione.
In particolare, si prevedono, accanto al vincolo
sull’efficacia dei relativi atti di affidamento, le
conseguenti responsabilità disciplinari ed erariali in capo
ai dirigenti che danno corso al pagamento dei relativi
compensi: “la pubblicazione degli
estremi degli atti di conferimento di incarichi […] di
collaborazione o di consulenza a soggetti esterni a
qualsiasi titolo per i quali è previsto un compenso,
completi di indicazione dei soggetti percettori, della
ragione dell'incarico e dell'ammontare erogato, nonché la
comunicazione alla Presidenza del Consiglio dei Ministri -
Dipartimento della funzione pubblica dei relativi dati ai
sensi dell'articolo 53, comma 14, secondo periodo, del
decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 e successive
modificazioni, sono condizioni per l'acquisizione
dell'efficacia dell'atto e per la liquidazione dei relativi
compensi. Le amministrazioni pubblicano e mantengono
aggiornati sui rispettivi siti istituzionali gli elenchi dei
propri consulenti indicando l'oggetto, la durata e il
compenso dell'incarico. […]”
(comma 2) ”In caso di omessa
pubblicazione di quanto previsto al comma 2, il pagamento
del corrispettivo determina la responsabilità del dirigente
che l'ha disposto, accertata all'esito del procedimento
disciplinare, e comporta il pagamento di una sanzione pari
alla somma corrisposta, fatto salvo il risarcimento del
danno del destinatario ove ricorrano le condizioni di cui
all'articolo 30 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104.”
1.3.2.
Altrettanto importante è l’obbligo di sottoporre le
ipotesi di incarico al parere preventivo dei Revisori. Tale
obbligo è stato previsto dall’art. 1, comma 42, Legge n. 311
del 30.12.2004 (finanziaria per il 2005).
In proposito, a fronte di pronunciamenti inizialmente
orientati nel senso dell’intervenuta abrogazione della
disposizione (cfr. ad esempio, la delibera n. 4/2006/AUT
della Sezione delle Autonomie, di approvazione delle Linee
guida per l’attuazione dell’art. 1, comma 173 della Legge n.
266 del 2005) la successiva giurisprudenza
costante delle Sezioni regionali di controllo di questa
Corte si sono pronunciate per la permanenza in vigore
dell’art. 1, comma 42, della Legge n. 311/2004
(cfr. SRC Lombardia, deliberazioni nn. 213/2010; 506/2010;
cfr. anche SRC Piemonte 69/2011).
1.3.3.
Infine, si rammenta l’obbligo di invio alla
Corte dei conti degli gli incarichi di importo superiore a €
5.000,00: l’art. 1, comma 173, della Legge 23.12.2005, n.
266, infatti, ha previsto che gli atti di spesa relativi ai
precedenti commi 9, 10, 56 e 57 di importo superiore a €
5.000,00 devono essere trasmessi alla competente sezione
della Corte dei conti per l’esercizio del controllo
successivo sulla gestione, di tipo “dicotomico”, di
cui alla L. 266/2005.
Questa Corte ha già affermato che “l’accertamento
dell’illegittimità per il mancato rispetto di una o più dei
requisiti di Legge (talora verificabile nei limiti di
sindacabilità di scelte discrezionali) comporta, da un lato,
l’obbligo di rimuovere, ove possibile, l’atto con un
provvedimento di secondo grado e, dall’altro, la
responsabilità del soggetto che lo ha posto in essere”
(SRC Lombardia, n. 244/2008).
Anche in questo caso, come si è già sottolineato, il
Legislatore accanto al controllo generale di cui all’art. 1,
commi da 166 a 172, della legge n. 266 del 2005 e 148-bis
TUEL ha previsto forme di controllo specifico, riguardante
determinate tipologie di spese.
2. Nel
caso specifico, in merito al Regolamento del Comune di
Caserta, si osserva quanto segue, con riguardo alla
previsione di cui al 6§2. Tale disposizione
regolamentare prevede che «Sono escluse dalle procedure
comparative e dagli obblighi di pubblicità le sole
prestazioni meramente occasionali che si esauriscono
in una prestazione episodica, non riconducibile a fasi di
piani o programmi del committente e che si svolge in maniera
del tutto autonoma, anche rientranti nelle fattispecie
indicate al comma 6 dell'art. 53 del D.Lgs. 165 del 2001».
La previsione non è conforme a legge.
Sul punto, il Collegio non ignora che, in effetti, la
previsione è conforme al contenuto della Circolare n. 2/2008
della Presidenza del Consiglio.
In merito, peraltro, si osserva che l’occasionalità
è una caratteristica strutturale di tutti i provvedimenti di
incarico esterno, venuta meno la quale, in ragione del
carattere stabile del bisogno amministrativo che si intende
soddisfare, l’ente sarebbe tenuto a farvi fronte con un
impiego stabile ovvero ad esternalizzare in appalto
(cfr. supra, a proposito della ratio dell’art.
7 TUPI e la sua connessione con l’art. 36 dello stesso Testo
unico).
Per tale ragione non pare corretta
l’astratta distinzione tra occasionalità e “mera”
occasionalità, in quanto non fornisce alcun criterio
discriminativo implicito o altrimenti ricavabile dalla
ratio sottesa all’art. 7 TUPI; piuttosto essa appare
prefigurare una clausola per deroghe de facto alla
regola della procedura comparativa, simile a quella della
soglia minima per valore, pacificamente ritenuta illegittima
da questa Corte
(cfr. ex plurimis, Sez. centr. contr. leg. n.
12/2011).
Infatti, come nei casi delle soglie di valore di irrilevanza
ai fini della procedura comparativa, non si può che ribadire
che gli enti sono tenuti alla stretta
osservanza del principio dell’evidenza pubblica
nell’assegnazione degli incarichi. In altre parole, la
normativa primaria di cui all’art. 7, comma 6-bis, del
D.lgs. n. 165/2001 non consente alcuna deroga alle procedure
comparative, se non con successiva norma di pari rango, allo
stato attuale non esistente.
Pertanto, la conformità della norma regolamentare alla
Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri n.
2/2008 non esime la disposizione da censure, sia per la
natura dell’atto giuridico in questione, che non è una fonte
del diritto, sia per l’indiscussa giurisprudenza contabile,
la quale ha mostrato ripetutamente il proprio orientamento
restrittivo verso eccezioni “interpretative” alla
regola dell’evidenza pubblica.
In definitiva, atteso che la richiamata norma è espressione
dei principi costituzionali di buon andamento e di
imparzialità delle amministrazioni pubbliche –attraverso,
appunto, la previsione di procedura concorsuale per
l’affidamento di tali incarichi– se ne deve dedurre che
i soggetti pubblici destinatari della norma possono,
secondo i loro ordinamenti, semplicemente adattare e
indicare le modalità di selezione e pubblicità delle
procedure, non disciplinarne gli stessi presupposti.
La doverosa osservanza della norma primaria
non consente, quindi, alcuna deroga da parte degli
ordinamenti delle singole amministrazioni tenute
all’osservanza della disciplina dell’art. 7 TUPI.
Diversamente opinando, invero, si consentirebbe agli enti
pubblici in questione di stabilire “ad libitum”,
attraverso i propri statuti e regolamenti, categorie che,
per quantità o qualità dell’incarico, sono sottratte alle
procedure concorsuali, così svuotando di contenuto, tra
l’altro, la stessa norma sul controllo (perché inibita a
controllare la spesa pubblica ogni qualvolta vengano poste
eccezioni alle procedure secondo parametri di merito non
sottoposti a controllo e variabili da ente a ente).
Ne conseguirebbe, quindi, che il controllo della Corte sulla
materia sarebbe limitato principalmente al corretto rispetto
della soglia prevista dalla normativa statutaria e
regolamentare, con aperta violazione dei principi di
imparzialità garantiti costituzionalmente
(Corte dei Conti, Sez. controllo Campania,
parere 14.11.2014 n. 235). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Se
una dipendente del Comune, titolare
di posizione organizzativa, è stata nominata dall'assemblea
dei soci di una società totalmente partecipata da enti
locali quale membro del Consiglio di Amministrazione ed i
relativi compensi vengono liquidati dalla società
direttamente al Comune, alla luce del principio di
onnicomprensività della retribuzione, con riferimento
all'indennità di posizione organizzativa prevista dal CCNL
del comparto Regioni-Autonomie locali, nessun compenso
aggiuntivo può essere riconosciuto alla dipendente.
---------------
La norma prevede la possibilità di riassegnare le somme
pervenute all'amministrazione al Fondo per il finanziamento
del trattamento economico accessorio.
Tuttavia, in base alle disposizioni dell'art. 9, comma
2-bis, del d.l. n. 78/2010, convertito con legge n.
122/2010, e successive modifiche e integrazioni, il predetto
fondo per il periodo 2011-2014, non può superare il
corrispondente importo dell'anno 2010 ed è, comunque,
automaticamente ridotto in misura proporzionale alle
cessazioni del personale in servizio.
Conseguentemente, non v'è possibilità di incrementare il
fondo per il finanziamento del trattamento economico
accessorio, che andrebbe a vantaggio dei dipendenti non
incaricati di posizioni organizzativa, in misura pari alla
somma percepita dal comune a titolo di compenso per la
partecipazione, alle riunioni del CdA di società
partecipata, di una propria dipendente.
---------------
Il Sindaco del comune di Cermenate, con nota ricevuta
in data 03.10.2014, ha formulato una richiesta di parere
avente ad oggetto i compensi assembleari attribuiti per la
partecipazione di dipendenti pubblici ai consigli di
amministrazione.
Premette che l'art. 16 del d.l. n. 90/2014, convertito con
modificazioni nella legge n. 114/2014, nel sostituire l’art.
4, comma 4, del d.l. n. 95/2012, convertito con legge n.
135/2012, ha previsto che "i consigli di amministrazione
delle società controllate direttamente o indirettamente
dalle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma
2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive
modificazioni, che abbiano conseguito nell'anno 2011 un
fatturato da prestazione di servizi a favore di
amministrazioni pubbliche superiore al 90 per cento
dell'intero fatturato devono essere composti da non più di
tre membri, ferme restando le disposizioni in materia di
inconferibilità e incompatibilità di incarichi di cui al
decreto legislativo 08.04.2013, n. 39. A decorrere dal
01.01.2015, il costo annuale sostenuto per i compensi degli
amministratori di tali società, ivi compresa la
remunerazione di quelli investiti di particolari cariche,
non può superare l’80 per cento del costo complessivamente
sostenuto nell'anno 2013. In virtù del principio di
onnicomprensività della retribuzione, qualora siano nominati
dipendenti dell'amministrazione titolare della
partecipazione, o della società controllante in caso di
partecipazione indiretta o del titolare di poteri di
indirizzo e di vigilanza, fatto salvo il diritto alla
copertura assicurativa e al rimborso delle spese
documentate, nel rispetto del limite di spesa di cui al
precedente periodo, essi hanno l'obbligo di riversare i
relativi compensi all'amministrazione o alla società di
appartenenza e, ove riassegnabili, in base alle vigenti
disposizioni, al fondo per il finanziamento del trattamento
economico accessorio".
Tali disposizioni si applicano anche ai consigli di
amministrazione delle altre società a totale partecipazione
pubblica, diretta o indiretta.
Una dipendente del Comune, titolare di posizione
organizzativa, è stata nominata dall'assemblea dei soci di
una società totalmente partecipata da enti locali quale
membro del Consiglio di Amministrazione ed i relativi
compensi vengono liquidati dalla società direttamente al
Comune. Alla luce del principio di onnicomprensività della
retribuzione, con riferimento all'indennità di posizione
organizzativa prevista dal CCNL del comparto
Regioni-Autonomie locali, nessun compenso aggiuntivo,
ritiene l‘istante, può essere riconosciuto alla dipendente.
La norma sopra richiamata prevede la possibilità di
riassegnare le somme pervenute all'amministrazione al Fondo
per il finanziamento del trattamento economico accessorio.
Tuttavia, in base alle disposizioni dell'art. 9, comma
2-bis, del d.l. n. 78/2010, convertito con legge n.
122/2010, e successive modifiche e integrazioni, il predetto
fondo per il periodo 2011-2014, non può superare il
corrispondente importo dell'anno 2010 ed è, comunque,
automaticamente ridotto in misura proporzionale alle
cessazioni del personale in servizio.
Alla luce di tali premesse, il sindaco chiede un parere
circa la possibilità di incrementare il fondo per il
finanziamento del trattamento economico accessorio, che
andrebbe a vantaggio dei dipendenti non incaricati di
posizioni organizzativa, in misura pari alla somma percepita
dal comune a titolo di compenso per la partecipazione, alle
riunioni del CdA di società partecipata, di una propria
dipendente.
Ritiene, infatti, l’istante che tali risorse non vadano
considerate ai fini del limite stabilito dal citato art. 9,
comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, in quanto provenienti da
soggetti estranei all'amministrazione comunale, come già
avviene, ad esempio, per i fondi (e conseguenti compensi)
erogati dall'ISTAT per il censimento generale della
popolazione, le quote per il c.d. incentivo alla
progettazione ex art. 93, commi 7-bis e seguenti, del d.lgs.
n. 163/2006 (cfr. artt. 13 e 13-bis d.l. n. 90/2014,
convertito con legge n. 114/2014) ed i compensi
professionali erogabili agli avvocati interni a seguito di
sentenze favorevoli all'amministrazione.
...
L’art. 16 del d.l. n. 90/2014, convertito con legge n.
114/2014 (Nomina dei dipendenti nelle società partecipate),
nel sostituire il comma 4 dell'articolo 4 del d.l. n.
95/2012, convertito con legge n. 135/2012, ha previsto
quanto segue: “Fatta salva la facoltà di nomina di un
amministratore unico, i consigli di amministrazione delle
società controllate direttamente o indirettamente dalle
amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2,
del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive
modificazioni, che abbiano conseguito nell'anno 2011 un
fatturato da prestazione di servizi a favore di
amministrazioni pubbliche superiore al 90 per cento
dell'intero fatturato devono essere composti da non più di
tre membri, ferme restando le disposizioni in materia di
inconferibilità e incompatibilità di incarichi di cui al
decreto legislativo 08.04.2013, n. 39. A decorrere dal
01.01.2015, il costo annuale sostenuto per i compensi degli
amministratori di tali società, ivi compresa la
remunerazione di quelli investiti di particolari cariche,
non può superare l'80 per cento del costo complessivamente
sostenuto nell'anno 2013. In virtù del principio di
onnicomprensività della retribuzione, qualora siano nominati
dipendenti dell'amministrazione titolare della
partecipazione, o della società controllante in caso di
partecipazione indiretta o del titolare di poteri di
indirizzo e di vigilanza, fatto salvo il diritto alla
copertura assicurativa e al rimborso delle spese
documentate, nel rispetto del limite di spesa di cui al
precedente periodo, essi hanno l'obbligo di riversare i
relativi compensi all'amministrazione o alla società di
appartenenza e, ove riassegnabili, in base alle vigenti
disposizioni, al fondo per il finanziamento del trattamento
economico accessorio”.
Allo stesso modo il comma 5 del predetto d.l. n. 95/2012 è
stato sostituito, sempre dall’art. 16 del citato d.l. n.
90/2014, nei seguenti termini: “Fermo restando quanto
diversamente previsto da specifiche disposizioni di legge e
fatta salva la facoltà di nomina di un amministratore unico,
i consigli di amministrazione delle altre società a totale
partecipazione pubblica, diretta o indiretta, devono essere
composti da tre o da cinque membri, tenendo conto della
rilevanza e della complessità delle attività svolte. A tali
società si applica quanto previsto dal secondo e dal terzo
periodo del comma 4”.
Infine, sempre l’art. 16 in discorso precisa, quale regola
di diritto intertemporale, che “fatto salvo quanto
previsto in materia di limite ai compensi, le disposizioni
del comma 1 si applicano a decorrere dal primo rinnovo dei
consigli di amministrazione successivo alla data di entrata
in vigore del presente decreto”.
La disciplina dei compensi percepiti dai dipendenti di enti
locali nominati nei consigli d’amministrazione delle società
in mano pubblica è stata già oggetto di attenzione da parte
della Sezione in più occasioni. In particolare, nella
deliberazione n. 96/2013/PAR, emessa in riscontro a
specifico quesito proposto in ordine all’interpretazione del
previgente testo dell’art. 4, commi 4 e 5, del d.l. n.
95/2012, convertito con legge n. 135/2012, si è esaminato il
dubbio interpretativo proposto nel presente parere.
Come evidenziato nell’indicata deliberazione le ipotesi
contemplate dalla normativa sono due (i compensi erogati ai
dipendenti nominati nei consigli di amministrazione delle
società controllate, direttamente o indirettamente, da
pubbliche amministrazioni, che abbiano conseguito nell'anno
2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di
amministrazioni pubbliche superiore al 90 per cento
dell'intero fatturato; i compensi erogati ai dipendenti
nominati nei consigli di amministrazione delle altre società
a totale partecipazione pubblica diretta o indiretta),
assoggettate, tuttavia, in punto di destinazione e
distribuzione dei compensi, alla medesima disciplina.
Detti emolumenti, infatti, nel caso in cui nell’organo di
amministrazione della società partecipata sia nominato un
dipendente dell’ente locale socio non possono essere erogati
direttamente al funzionario o dirigente che espleta
l’incarico, ma devono essere versati alla pubblica
amministrazione designante, per poi confluire, ove
riassegnabili in base alle vigenti disposizioni, al fondo
per il finanziamento del trattamento economico accessorio.
Va precisato che, rispetto alla previgente disciplina, che
imponeva la nomina un predeterminato numero di dipendenti
dell’ente locale nei consigli d’amministrazione delle
società partecipate sopra indicate, l’art. 16 del d.l. n.
90/2014 ha reso facoltativa tale presenza (“qualora siano
nominati dipendenti dell'amministrazione titolare della
partecipazione”). Sotto tale profilo, si ricorda come la
predetta disposizione di coordinamento di finanza pubblica
si limiti a disciplinare le modalità di composizione dei
consigli d’amministrazione di società partecipate da enti
pubblici, nonché la quantificazione (cui pone un tetto) e
destinazione (cui impone l’obbligo di riversamento in caso
di nomina di dipendenti pubblici) dei compensi eventualmente
attribuiti.
Non impatta, invece, su altri aspetti della disciplina
legislativa in materia di pubblico impiego, per esempio in
punto di esigibilità della prestazione eventualmente
richiesta dall’amministrazione al proprio dipendente (che
troverà soluzione applicativa negli artt. 2, 52 e 53 del
d.lgs. n. 165/2001) o di concreta possibilità di confluenza
dei compensi versati nelle casse dell’amministrazione ai
fondi per la contrattazione integrativa (rimessa all’analisi
dei pertinenti contratti collettivi nazionali di comparto,
come già evidenziato nel parere della Sezione n. 96/2013).
Venendo nello specifico al dubbio posto dal comune istante,
appare opportuno richiamare il testo dell’art. 9, comma
2-bis, del d.l. n. 78/2010, introdotto dalla legge di
conversione n. 122/2010, che, dopo le modifiche apportate
dall’art. 1, comma 456, della legge n. 147/2013, così
recita: “A decorrere dal 01.01.2011 e
sino al 31.12.2014 l’ammontare complessivo delle risorse
destinate annualmente al trattamento accessorio del
personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle
amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il
corrispondente importo dell’anno 2010 ed è, comunque,
automaticamente ridotto in misura proporzionale alla
riduzione del personale in servizio. A decorrere dal
01.01.2015, le risorse destinate annualmente al trattamento
economico accessorio sono decurtate di un importo pari alle
riduzioni operate per effetto del precedente periodo”.
Le Sezioni Riunite della Corte dei conti, in sede
nomofilattica, si sono espresse sulla latitudine operativa
della disposizione (SSRR, QM 51/CONTR/11, 04.10.2011). Dal
predetto pronunciamento si evince come le
risorse da assoggettare a contenimento siano, in primo
luogo, quelle che confluiscono, in virtù dei vari contratti
collettivi nazionali di comparto, nel fondo destinato alla
contrattazione decentrata.
La Sezione Lombardia aveva già rilevato, nell’uniformarsi al
ridetto pronunciamento delle Sezioni Riunite in sede di
controllo (in aderenza alla funzione di orientamento
generale attribuita dalla legge, cfr. art. 17, comma 31,
d.l. n. 78/2009, convertito con legge n. 102/2009), come, in
base al predetto orientamento emergesse una nozione di “trattamento
accessorio” che lasciava aperte alcune problematiche
applicative (cfr. deliberazione n. 59/2012/PAR), per esempio
in tema di risorse per il lavoro straordinario (ritenute
dalla Sezione ugualmente soggette a limitazione, cfr.
deliberazioni n. 423/2012/PAR e n. 49/2013/PAR).
Nello stesso tempo, la scrivente Sezione regionale ha sempre
ribadito, sulla scorta di quanto statuito dalle Sezioni
Riunite nella citata deliberazione n. 51/CONTR/2011, del
quadro normativo di riferimento e della sua ratio,
che l’art. 9, comma 2-bis, in esame, è
disposizione che, in via di principio, non ammette deroghe o
esclusioni, in quanto la regola generale, voluta dal
legislatore, è di porre un limite alla crescita del
trattamento accessorio spettante ai dipendenti degli enti
pubblici.
Di recente la Sezione delle Autonomie, con la deliberazione
n. 26/2014/QMIG, ha aggiunto un importante tassello
all’interpretazione del disposto normativo, precisando, in
ordine a quanto statuito in precedenza nella deliberazione
delle Sezioni Riunite n. 51/2011/QM, come
la disciplina dell’art. 9, comma 2-bis, si applichi sia alle
risorse del bilancio imputate al fondo per la contrattazione
integrativa (come previsto e disciplinato dal CCNL), quanto
alle risorse direttamente stanziate nel bilancio dell’ente
destinate al trattamento accessorio del personale (nello
specifico, a copertura degli oneri relativi all’indennità di
posizione organizzativa nei Comuni privi di personale
dirigenziale).
La disposizione di cui all’art. 9, comma
2-bis, è inserita, infatti, in un complesso di norme volte a
perseguire analoghi obiettivi di riduzione della spesa di
personale, la cui funzione pratica, con riferimento alle
componenti del trattamento accessorio, si traduce in un
rafforzamento del limite posto alla loro crescita
complessiva a garanzia del contenimento della dinamica
retributiva del personale. Tale norma è da considerare,
conclude la Sezione delle Autonomie (come già avevano fatto
le Sezioni Riunite), di stretta
interpretazione e non consente limitazioni del suo nucleo
precettivo.
Le uniche eccezioni che le Sezioni Riunite
nella deliberazione n. 51/CONTR/2011
(opinione confermata nella recente pronuncia della Sezione
delle Autonomie n. 26/2014/QMIG) hanno
ritenuto non comprese nell’ambito applicativo dell’art. 9,
comma 2-bis, sono quelle destinate a remunerare prestazioni
professionali tipiche di dipendenti individuati o
individuabili, che, in alternativa, dovrebbero essere
acquisite attraverso il ricorso all’esterno, con possibili
costi aggiuntivi per il bilancio dei singoli enti
(caratteristica riconosciuta per le risorse finalizzate a
incentivare le prestazioni poste in essere per la
progettazione di opere pubbliche e per quelle tese a
remunerare le prestazioni professionali dell’avvocatura
interna).
Anche nella deliberazione n. 96/20132/PAR era stato
evidenziato come l’eventuale integrazione del fondo per la
contrattazione integrativa, già previsto dalla formulazione
previgente dell’art. 4, commi 4 e 5, del d.l. n. 95/2012,
convertito con legge n. 135/2012, doveva comunque osservare,
in concreto, i limiti previsti dalla legge per l’invarianza
del trattamento economico individuale (fisso ed accessorio),
nonché i tetti posti ai fondi per la contrattazione
integrativa (cfr. art. 9, commi 1 e 2-bis, del d.l. n.
78/2010, convertito con legge n. 122/2010).
La Sezione,
anche alla luce di quanto recentemente affermato dalla
Sezione delle Autonomie nella deliberazione n. 26/2014/QMIG,
ritiene di confermare il predetto orientamento, in
ragione dell’esposta ampia latitudine applicativa del
precetto posto dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n.
78/2010.
Non sembra ricorrere nello specifico,
inoltre, il presupposto, valorizzato dal comune istante,
dell’integrazione delle risorse del fondo a mezzo di
finanziamenti finalizzati provenienti da soggetti terzi
(che, per inciso, nella parallela materia dei tetti posti
all’ammontare complessivo della spesa di personale sono
stati limitati solo a quelli provenienti dall’Unione europea
o da privati, cfr. Sezione delle Autonomie, deliberazione n.
21/2014/QMIG).
Si tratterebbe, infatti, di risorse che
l’ente locale incassa da una società partecipata, che
consegue parte preponderante, se non totalitaria, del
proprio fatturato da commesse direttamente affidate dallo
stesso ente pubblico socio (e/o dagli enti soci) o da
servizi erogati alla cittadinanza in virtù di un
provvedimento di concessione direttamente attribuito
dall’ente socio (e/o dagli enti soci)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 25.11.2014 n. 325). |
APPALTI: Sussiste
la disapplicazione dell’obbligo di
richiedere i diritti di segreteria, ai sensi dell’art. 40
della legge 08.06.1962, n. 604, nell’ipotesi di stipula di
contratti stipulati a seguito del ricorso a gare telematiche
di acquisto.
---------------
Il sindaco del comune di Travedona Monate (VA) ha formulato
alla Sezione una richiesta di parere in materia di diritti
di segreteria e strumenti informatici di acquisto (art. 13
d.l. 52 del 06.07.2012, convertito dalla legge 94 del
06.07.2012) del seguente tenore: ”Qualora si debba
procedere alla sottoscrizione con atto pubblico
amministrativo per l'affidamento di un servizio o di un
lavoro, la cui gara è stata espletata attraverso la
piattaforma elettronica Sintel e quindi mediante strumenti
informatici di acquisto, sono dovuti, da parte della Ditta
aggiudicatrice i diritti di segreteria? Il mancato introito
in percentuale dei diritti di segreteria comporta un danno
erariale per il comune?”.
...
L’applicazione della disciplina in tema di utilizzo degli
strumenti informatici e telematici per l’acquisito di beni e
servizi da parte delle pubbliche amministrazioni locali,
appare scevra di dubbio interpretativi. La norma disciplina
esattamente il caso prospettato dall’amministrazione
interpellante. La normativa in tema di revisione della spesa
è inderogabile e cogente per gli enti destinatari,
trattandosi di espressa applicazione del principio di
coordinamento della finanza pubblica locale.
Le disposizioni introdotte con il D.L. 07.05.2012, n. 52
(c.d. primo decreto in tema di revisione della spesa) hanno
semplificato il ricorso agli strumenti telematici per
l’acquisto di beni o servizi da parte delle amministrazioni
locali. A seguito dell’obbligo di utilizzo delle gare
gestite con strumenti informatici (ad es. Sistema Sintel
predisposto da ARCA in Lombardia; Me.Pa.).
L’art. 13 del citato primo decreto “spending
review” ha testualmente previsto la disapplicazione
dell’obbligo di richiedere i diritti di segreteria, ai sensi
dell’art. 40 della legge 08.06.1962 n. 604, nell’ipotesi di
stipula di contratti stipulati a seguito del ricorso a gare
telematiche di acquisto
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 13.11.2014 n. 301). |
INCARICHI PROFESSIONALI: I
presupposti di legittimità per il ricorso ad incarichi di
collaborazione sono specificamente enucleati dall’art. 7 del
d.lgs. 30.03.2001, n. 165
(norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze
delle amministrazioni pubbliche).
I citati presupposti costituiscono la
codificazione di quanto ampiamente affermato dalla
giurisprudenza contabile in ordine al conferimento di atti
riferiti all’estesa tipologia di spese soggette a controllo
da parte della Sezione
(le consulenze, gli studi, le ricerche, le spese per
relazioni, rappresentanza, mostre, convegni, pubblicità).
In particolare, la disciplina vigente
prevede che:
a) l'oggetto della prestazione deve
corrispondere alle competenze attribuite dall'ordinamento
all'amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti
specifici e determinati e deve risultare coerente con le
esigenze di funzionalità dell'amministrazione conferente; è
stato in proposito chiarito che: “il requisito della
corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita
dall’ordinamento all’amministrazione conferente è
determinato dal poter ricorrere a contratti di
collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività
istituzionali stabilite dalla legge";
b) l'amministrazione deve avere
preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di
utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno.
Al proposito va rammentato che, in base ai principi generali
di organizzazione amministrativa, gli enti
pubblici devono di norma svolgere i compiti istituzionali
avvalendosi di proprio personale. Tale regola trae il suo
fondamento dal principio costituzionale di buon andamento
della pubblica amministrazione e il conferimento degli
incarichi di consulenza a professionisti esterni alla P.A.
si pone come eccezione in presenza di speciali e peculiari
condizioni. D’altro canto il legislatore ha ormai da ben
oltre un decennio previsto in linea generale l’eccezionalità
del ricorso a collaborazioni esterne condizionandolo
all’assenza di personale idoneo
(art. 7, co. 6, d.lgs. n. 165/2001),
ribadendo più volte tale regola e la necessità di fornire
adeguata motivazione in caso di ricorso all’esterno
dell’amministrazione;
c) la prestazione deve essere di natura
temporanea e altamente qualificata e deve soddisfare
esigenze straordinarie ed eccezionali; non è ammesso il
rinnovo; l'eventuale proroga dell'incarico originario è
consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare
il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore,
ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di
affidamento dell'incarico;
d) devono essere preventivamente
determinati durata, luogo, oggetto e compenso della
collaborazione;
e) deve sussistere il requisito
della “comprovata specializzazione anche universitaria”: le
amministrazioni, per esigenze cui non possono far fronte con
personale in servizio, possono conferire incarichi
individuali (con contratti di lavoro autonomo professionale,
occasionale o di collaborazione coordinata e continuativa) a
esperti muniti di tale requisito.
Si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione
universitaria in caso di stipulazione di contratti di
collaborazione di natura occasionale o coordinata e
continuativa per attività che debbano essere svolte da
professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che
operino nel campo dell'arte, dello spettacolo, dei mestieri
artigianali o dell’attività informatica nonché a supporto
dell’attività didattica e di ricerca, per i servizi di
orientamento, compreso il collocamento, e di certificazione
dei contratti di lavoro di cui al decreto legislativo
10.09.2003, n. 276, purché senza nuovi o maggiori oneri a
carico della finanza pubblica, ferma restando la necessità
di accertare la maturata esperienza nel settore.
Va inoltre aggiunto, sotto un profilo generale, che
in caso di conferimento di un incarico di studio o
di consulenza occorre altresì osservare i limiti di spesa
introdotti dall’art. 6, co. 7, d.l. 78/2010 convertito con
legge. n. 122/2010 e s.m.i..
---------------
L’Azienda Sanitaria Locale TO 2 (in seguito l’Azienda
Sanitaria), con nota pervenuta in data 11.02.2014 prot. n.
2131, ha trasmesso a questa Sezione Regionale di Controllo,
ai sensi dell’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n.
266, una serie di deliberazioni del Direttore Generale ed in
particolare la deliberazione n. 41 del 24.01.2014 (munita
dei pareri favorevoli del direttore sanitario e del
direttore amministrativo), avente ad oggetto l’affidamento
di un incarico di assistenza legale “a seguito di
richiesta di pagamento sanzioni amministrative per
prescrizioni in materia di sicurezza e salute sul lavoro”
a favore dell’….(omissis)… per un spesa di € 5.000,00 oltre
oneri accessori.
Per inciso va sottolineato che nell’ambito della predetta
trasmissione veniva altresì inoltrata la deliberazione n. 38
del 24.01.2014 avente ad oggetto la liquidazione di spese
legali a favore di un proprio dipendente quale rimborso
delle spese sostenute nell’ambito di un processo penale
all’esito di un giudizio definito positivamente per il
medesimo, ai sensi dell’art. 25 del CCNL del 1998-2001 del
relativo comparto, provvedimento in relazione al quale alcun
rilievo è stato mosso ma che –in questa sede- assume un
rilevanza indiretta in relazione ad un profilo inerente alla
concreta attiva posta in essere dalla P.A. a seguito
dell’atto oggetto di controllo.
Dall’esame della deliberazione n. 41/2014, come
rilevato con la prima nota istruttoria, si è evinto che
non risultava: la previa procedura comparativa per la scelta
dell’incaricato, la previa ricognizione dell’assenza di
strutture organizzative o professionalità interne all’ente
in grado di svolgere l’incarico, né l’avvenuta pubblicazione
sul sito web dell’incarico.
...
I.
L’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266, ha
previsto che gli atti di spesa relativi ai precedenti commi
9, 10, 56 e 57 di importo superiore a 5.000 euro devono
essere trasmessi alla competente sezione della Corte dei
conti per l'esercizio del controllo successivo sulla
gestione. La finalità di tale previsione normativa è
riconducibile all’accertamento, di tipo collaborativo, da
parte della Corte, dell’idoneità dell’attività
amministrativa posta in essere dagli enti controllati a
raggiungere determinati risultati, attraverso una verifica
della sua efficacia, efficienza ed economicità, che non può
comunque prescindere da un riscontro della conformità della
stessa a norme giuridiche.
La giurisprudenza contabile ha già affermato che ”l’accertamento
dell’illegittimità per il mancato rispetto di uno o più dei
requisiti di legge (talora verificabile nei limiti di
sindacabilità di scelte discrezionali) comporta da un lato
l’obbligo di rimuovere, ove possibile, l’atto con un
provvedimento di secondo grado e dall’altro la
responsabilità del soggetto che lo ha posto in essere”
(Sez. reg. contr. Lombardia, n. 244/2008).
Preliminarmente alla verifica di conformità alla legge
dell’incarico conferito dalla Azienda sanitaria occorre
rammentare che i presupposti di legittimità
per il ricorso ad incarichi di collaborazione sono
specificamente enucleati dall’art. 7 del d.lgs. 30.03.2001,
n. 165 (norme
generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche). I citati
presupposti costituiscono la codificazione di quanto
ampiamente affermato dalla giurisprudenza contabile in
ordine al conferimento di atti riferiti all’estesa tipologia
di spese soggette a controllo da parte della Sezione
(le consulenze, gli studi, le ricerche, le spese per
relazioni, rappresentanza, mostre, convegni, pubblicità), in
tal senso, si può richiamare il recente
parere 25.10.2013 n. 362 di questa Sezione).
In particolare, la disciplina vigente
prevede che:
a) l'oggetto della prestazione deve
corrispondere alle competenze attribuite dall'ordinamento
all'amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti
specifici e determinati e deve risultare coerente con le
esigenze di funzionalità dell'amministrazione conferente; è
stato in proposito chiarito che: “il requisito della
corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita
dall’ordinamento all’amministrazione conferente è
determinato dal poter ricorrere a contratti di
collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività
istituzionali stabilite dalla legge”
(Sez. contr. Reg. Lombardia,
parere
11.02.2009 n. 37,
nonché Sez. Reg. Lombardia, n. 244/2008);
b) l'amministrazione deve avere
preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di
utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno.
Al proposito va rammentato che, in base ai principi generali
di organizzazione amministrativa, gli enti
pubblici devono di norma svolgere i compiti istituzionali
avvalendosi di proprio personale. Tale regola trae il suo
fondamento dal principio costituzionale di buon andamento
della pubblica amministrazione e il conferimento degli
incarichi di consulenza a professionisti esterni alla P.A.
si pone come eccezione in presenza di speciali e peculiari
condizioni. D’altro canto il legislatore ha ormai da ben
oltre un decennio previsto in linea generale l’eccezionalità
del ricorso a collaborazioni esterne condizionandolo
all’assenza di personale idoneo
(art. 7, co. 6, d.lgs. n. 165/2001),
ribadendo più volte tale regola e la necessità di fornire
adeguata motivazione in caso di ricorso all’esterno
dell’amministrazione;
c) la prestazione deve essere di natura
temporanea e altamente qualificata e deve soddisfare
esigenze straordinarie ed eccezionali; non è ammesso il
rinnovo; l'eventuale proroga dell'incarico originario è
consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare
il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore,
ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di
affidamento dell'incarico;
d) devono essere preventivamente
determinati durata, luogo, oggetto e compenso della
collaborazione;
e) deve sussistere il requisito della “comprovata
specializzazione anche universitaria”: le
amministrazioni, per esigenze cui non possono far fronte con
personale in servizio, possono conferire incarichi
individuali (con contratti di lavoro autonomo professionale,
occasionale o di collaborazione coordinata e continuativa) a
esperti muniti di tale requisito.
Si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione
universitaria in caso di stipulazione di contratti di
collaborazione di natura occasionale o coordinata e
continuativa per attività che debbano essere svolte da
professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che
operino nel campo dell'arte, dello spettacolo, dei mestieri
artigianali o dell’attività informatica nonché a supporto
dell’attività didattica e di ricerca, per i servizi di
orientamento, compreso il collocamento, e di certificazione
dei contratti di lavoro di cui al decreto legislativo
10.09.2003, n. 276, purché senza nuovi o maggiori oneri a
carico della finanza pubblica, ferma restando la necessità
di accertare la maturata esperienza nel settore.
Va inoltre aggiunto, sotto un profilo generale, che
in caso di conferimento di un incarico di studio o
di consulenza occorre altresì osservare i limiti di spesa
introdotti dall’art. 6, co. 7, d.l. 78/2010 convertito con
legge. n. 122/2010 e s.m.i.
(salve particolari ipotesi.; es. la copertura della spesa
mediante finanziamenti aggiuntivi e specifici trasferiti da
altri soggetti pubblici o privati, cfr. sez. contr. Piemonte
parere 25.10.2013 n. 362).
II.
Esaurita questa breve ricognizione dei presupposti di
legittimità per il conferimento dell’incarico occorre
evidenziare che all’esito dei chiarimenti forniti dalla
Azienda Sanitaria a mezzo delle varie risposte e dei
documenti inviati nel corso dell’espletata istruttoria,
mentre per gli aspetti inerenti alla pubblicazione sul sito
web dell’ente risultano essere state fornite indicazioni
adeguate e sufficienti, non può dirsi ugualmente in ordine
alla procedura utilizzata per il conferimento dell’incarico.
Va inoltre evidenziato che problematiche risultano residuare
quanto alla previa ricognizione dell’assenza di strutture e
professionalità interne all’ente in grado di far fronte
all’incarico e ad ulteriori aspetti concernenti
l’affidamento dell’incarico in questione e la vicenda
sottostante.
Preliminarmente occorre puntualizzare la natura
dell’incarico conferito all’…(omissis)... nell’ambito del
controllo successivo esercitato da questa sezione. Va
infatti evidenziato che la deliberazione n. 41/2014, oggetto
del presente procedimento di controllo, trasmessa quale
incarico di assistenza legale come risultante dal tenore
letterale dell’oggetto e della stessa parte dispositiva, è
stata dunque rappresentata quale atto di conferimento di un
incarico esterno in ambito stragiudiziale. Tuttavia
all’esito dell’articolata attività istruttoria la natura
dello stesso incarico si è rivelata invero parzialmente
differente e la sottostante realtà si e dimostrata ben
diversa e molto più articolata di quanto ufficialmente e
sinteticamente riportato nel provvedimento assunto dal
Direttore Generale.
Invero l’analisi dei documenti e delle risposte istruttorie
ha consentito di accertare che per effetto della
deliberazione 41/2014 l’A.S.L. TO 2 ha incaricato
…(omissis)… di effettuare le opportune valutazioni e le
eventuali modifiche alle procedure afferenti la sicurezza
sui luoghi di lavoro dell’azienda sanitaria, consegnando
allo stesso la relativa documentazione (nota di risposta
pervenuta il 20.06.2014 prot. n. 6766), con riesame
dell’organizzazione delle deleghe (nota pervenuta il
26.02.2014, prot. n. 2615). Inoltre al legale è stato
conferito altresì un incarico in ambito giudiziale, ma
contrariamente a quanto dichiarato in sede di risposta
istruttoria, l’Azienda non ha incaricato l’…(omissis)… di
proporre un ricorso avverso le sanzioni amministrative
pecuniarie irrogate.
Invero quanto all’avvenuta proposizione di un ricorso in via
giurisdizionale amministrativa in nome e per conto dell’ASL
TO 2 non vi è alcuna documentazione. Di contro, dalla
lettura degli atti è emerso che l’…(omissis)… è stato
incaricato della difesa personale del Direttore Generale
nell’ambito del procedimento penale R.G.N.R. 1838/14, tanto
che lo stesso legale in data 20.03.2014 ha presentato una
memoria difensiva ex art. 367 c.p.p. all’autorità
inquirente. Dall’esame complessivo degli atti emerge dunque
che in realtà non sia stato presentato alcun ricorso in nome
e per conto dell’Azienda sanitaria avverso sanzioni
amministrative. In realtà nel caso di specie trattandosi di
sanzioni per violazione delle norme sulla sicurezza sui
luoghi di lavoro, viene in rilievo la disciplina di cui al
d.lgs. n. 81/2008, segnatamente gli artt. 29, 64 e 65 del
citato d.lgs., la cui violazione dà luogo (ex art. 301)
all’applicazione delle disposizioni in materia di
prescrizione ed estinzione del reato di cui agli articoli
20, e seguenti, del decreto legislativo 19.12.1994, n. 758.
Conseguentemente nella suddetta vicenda risultano essere
state riscontrate violazioni alla disciplina sulla sicurezza
sui luoghi di lavoro, che hanno dato luogo all’avvio di un
procedimento penale ovviamente nei confronti di una persona
fisica, come del resto esplicitato nelle avvertenze e
prescrizioni (punti 6-7-8-9-) al verbale di ispezione e
prescrizioni V45/13 dello Spresal dell’ASL TO4.
In conseguenza di ciò è quindi emerso che
con il provvedimento de quo all’…(omissis)… è stato
conferito un incarico composito in parte di natura
stragiudiziale correlato all’analisi ed alla revisione delle
procedure afferenti la sicurezza sui luoghi di lavoro
dell’azienda ed in parte di natura giudiziale, peraltro non
già per la rappresentanza e tutela dell’Azienda Sanitaria,
ma bensì per la difesa di una persona fisica nell’ambito del
procedimento scaturito dall’ispezione (sfociata nel verbale
V45/13) degli ufficiali di polizia giudiziaria dello Spresal
dell’ASL TO4.
Chiarita la natura del tutto peculiare dell’incarico in
questione occorre analizzare gli elementi problematici
afferenti al controllo sulla gestione del provvedimento
conferito con la deliberazione n. 41/2014.
II.1.
In primo luogo va evidenziato il fatto che
l’incarico in questione (in parte come detto di
natura stragiudiziale) è stato conferito in assenza di una
previa procedura comparativa.
In proposito si osserva che l’obbligo di
seguire procedure comparative per il conferimento degli
incarichi di collaborazione è puntualmente declinato nel
comma 6-bis del richiamato art. 7 D.Lgs. n. 165/2001. Tale
obbligo è considerato dalla giurisprudenza amministrativa un
adempimento essenziale per la legittima attribuzione di
incarichi di collaborazione; in proposito è stato affermato
che “il conferimento di incarichi di collaborazione
esterna da parte delle P.A. deve avvenire previo esperimento
di procedure para-selettive e non già in base alla sola
valutazione di idoneità del prescelto”
(TAR Puglia n. 494 del 19.02.2007).
Tale obbligo deve ritenersi generalizzato, in ossequio ai
principi generali di trasparenza, pubblicità e massima
partecipazione: la giurisprudenza amministrativa ha poi
ricordato che “l'affidamento di
incarichi di consulenza e/o di collaborazione da conferire a
soggetti esterni alla Pubblica amministrazione non può
prescindere dal preventivo svolgimento di una selezione
comparativa adeguatamente pubblicizzata”
(Cons. St., 28.05.2010, n. 3405) ed ancora: “qualsivoglia
pubblica amministrazione può legittimamente conferire ad un
professionista esterno un incarico di collaborazione, di
consulenza, di studio, di ricerca o quant’altro, mediante
qualunque tipologia di lavoro autonomo, continuativo o anche
occasionale, solo a seguito dell’espletamento di una
procedura comparativa previamente disciplinata ed adottata e
adeguatamente pubblicizzata, derivandone in caso di
omissione l’illegittimità dell’affidamento della prestazione
del servizio”
(TAR Piemonte, 29.09.2008 n. 2106; cfr. Corte Conti sez.
reg. contr. Lombardia,
parere
11.02.2009 n. 37;
parere 27.11.2012 n. 509 che ribadiscono i
principi in questione).
Anche a livello centrale la magistratura contabile ha avuto
modo di statuire che: “il comma 6-bis
dell’art. 7 del d.lgs. n. 165/2001, prevedendo l’obbligo per
le amministrazioni di disciplinare e rendere pubbliche le
procedure comparative per il conferimento di incarichi di
collaborazione, ha in concreto posto la necessità
dell’espletamento della procedura concorsuale, nella
considerazione che un simile modus operandi, implicando il
rispetto di precisi adempimenti procedurali e moduli
operativi, concorra a rendere l’operato dell’Amministrazione
conforme ai parametri di efficienza, efficacia, economicità
e trasparenza, costituzionalmente tutelati ex art. 97”
(Corte Conti, sez. centrale controllo prev. legittimità
Stato, 02.10.2012, n. 23; analogamente la stessa sezione
delibera 26.10.2011, n. 21).
Pertanto, il ricorso a procedure
comparative adeguatamente pubblicizzate può essere derogato
con affidamento diretto nei limitati casi individuati dalla
giurisprudenza:
a) procedura comparativa andata deserta;
b) unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo;
c) assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile
necessità della consulenza in relazione ad un termine
prefissato o ad un evento eccezionale, ricordando che la “particolare
urgenza” deve essere “connessa alla realizzazione
dell’attività discendente dall’incarico”
(ex plurimis,
parere 14.03.2012 n. 67 Sez. Contr. Lombardia).
In conseguenza di quanto detto dunque, come ripetutamente
chiarito dalla giurisprudenza contabile,
non può ritenersi legittima la previsione di affidamenti di
incarichi senza procedura comparativa al di sotto di una
soglia individuata in valore monetario (o di un numero
massimo di ore della prestazione richiesta al
collaboratore), poiché “la materia è del tutto estranea a
quella degli appalti di lavori, di beni o servizi, pertanto
non può farsi ricorso neppure per analogia a detti criteri”,
in particolare agli affidamenti in economia
(Corte Conti, Sez. contr. Reg. Lombardia,
parere
11.02.2009 n. 37;
Sez. contr. Prov. Trento, n. 2/2010 e n. 8/2010; cfr le
recenti Sez. contr. reg. Piemonte
parere 25.10.2013 n. 362;
parere 19.12.2013 n. 421).).
In proposito va rilevato il fatto che in passato questa
Sezione (parere
20.12.2012 n. 5) ha già avuto modo di affermare,
esaminando un regolamento comunale che prevedeva
l’osservanza di una procedura comparativa, resa pubblica con
pubblicazione all’albo pretorio, solo per incarichi di
importo superiore ad € 5.000,00, che una
siffatta disciplina “non risulta conforme a quanto
prevede l’art. 7, comma 6-bis, del D.lgs. n. 165/2001, come
introdotto dall’art 32 D.L. 223/2006 e relativa legge di
conversione, a mente del quale “Le amministrazioni pubbliche
disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri
ordinamenti, procedure comparative per il conferimento degli
incarichi di collaborazione”, senza lasciare spazio
all’introduzione di soglie di valore al di sotto delle quali
le procedure comparative non sono necessarie o non sono rese
pubbliche.”
La sezione piemontese puntualizzava altresì “Va
aggiunto che si è posto il problema del se e in quali limiti
sia consentito l’affidamento diretto dell’incarico senza
ricorrere a procedure concorsuali, in taluni casi facendo
riferimento ai limiti previsti nel codice degli appalti
pubblici. La materia, peraltro, è del tutto estranea a
quella degli appalti di lavori, di beni o servizi, cui,
quindi, non può farsi ricorso neppure per analogia. Va
quindi ribadito che il ricorso a procedure concorsuali deve
essere generalizzato, salve circostanze del tutto
particolari ed eccezionali (quali, ad es., la procedura
concorsuale andata deserta, l’unicità della prestazione
sotto il profilo soggettivo, l’assoluta urgenza determinata
dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione
ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale, ecc.)
(cfr. Sez. Lombardia Del. n. 379 del 26.06.2009)”
(cfr. di recente sez. controllo Piemonte,
parere 11.04.2014 n. 11).
Ancora va evidenziato che nella fattispecie l’azienda ha
riferito di aver formato un elenco di avvocati nell’ambito
del quale ha ritenuto di nominare per l’incarico in
questione l’…(omissis)… senza alcuna procedura comparativa
(nota pervenuta il 26.02.2014 prot. n. 2615). Tuttavia,
anche a seguito di puntuale richiesta di chiarimento, l’ASL
ha escluso l’esistenza di un testo regolamentare
disciplinante i criteri e le modalità di scelta del
collaboratore nell’ambito dell’elenco di avvocati, ribadendo
sostanzialmente la fiduciarietà quale fondamentale criterio
di selezione (cfr. nota pervenuta il 20.06.2014, prot. n.
6766).
Dunque alla luce di quanto detto è evidente
che l’ente riservandosi di scegliere di volta in volta i
soggetti esterni da incaricare sulla base di un criterio di
tipo fiduciario agisce in contrasto con il dettato
legislativo.
Ne consegue dunque che nel caso di specie
la procedura seguita dall’Amministrazione provinciale non
risulta conforme alla disciplina legislativa ed in
particolare alla previsione circa la necessità di una
procedura comparativa adeguatamente pubblicizzata.
II.2.
In secondo luogo l’amministrazione nel caso di specie
laddove ha conferito all’…(omissis)… altresì un incarico di
consulenza e supporto stragiudiziale in ordine alle
valutazioni ai fini delle “eventuali modifiche da
apportare alla procedura” circa la sicurezza sui luoghi
di lavoro (cfr. nota pervenuta il 20.6.2014 prot n. 6766),
avendo “anche chiesto di riesaminare l’organizzazione
sulle deleghe per la sicurezza sui luoghi di lavoro”
cfr. nota pervenuta il 26.02.2014 prot. n. 2615),
non ha chiarito adeguatamente se prima di procedere
all’avvio dell’iter procedimentale per l’affidamento
dell’incarico abbia effettuato una puntuale ricognizione
circa l’assenza di strutture organizzative o professionalità
interne all’ente in grado di far fronte all’esigenza sottesa
all’incarico in questione, dando ovviamente conto delle
eventuali modalità di espletamento di tale adempimento. In
secondo luogo neppure all’esito dell’istruttoria sono
chiaramente emerse le ragioni per le quali sia stata
necessitata la scelta di rivolgersi all’esterno della
struttura amministrativa, posto che ovviamente per tale
profilo l’assenza di un’avvocatura interna all’ente è del
tutto inconferente.
D’altro canto nella nota di risposta pervenuta il
26.02.2014, prot n. 2615, è stato di contro affermato che “all’interno
dell’azienda è presente una struttura organizzativa che si
occupa di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro,
svolge la propria attività in modo congruo e soddisfacente”.
Conseguentemente sotto tale profilo le dichiarazioni rese
nella citata risposta dal Direttore Generale e dal Dirigente
Responsabile appaiono in realtà comprovare il fatto che nel
caso di specie sia stato fatto ricorso all’esterno della
struttura per far fronte ad un’esigenza che, al contrario di
quanto asserito, avrebbe potuto essere fronteggiata con le
risorse interne.
Tale circostanza si riverbera indubbiamente sulla
legittimità della deliberazione di conferimento
dell’incarico a favore dell’…(omissis)…, non constando
affatto un presupposto essenziale affinché l’Amministrazione
potesse rivolgersi all’esterno della propria struttura. Del
resto che l’assenza di strutture
organizzative o professionalità interne all'ente in grado di
assicurare l’esigenza dell’ente sia requisito essenziale
pena l’illegittimità dell’incarico e causa di danno erariale
è pacifico, tanto che anche il legislatore ha anche avuto
modo di cristallizzare la suddetta regola a livello generale
ponendo tale elemento quale primo presupposto e incipit
della previsione normativa (cfr. art. 6, co. 1, d.lgs. n.
165/2001). Alla
luce delle argomentazioni sopra esposte in ordine
all’attribuzione dell’incarico in ambito stragiudiziale si
impone la trasmissione della presente delibera alla Procura
regionale per il Piemonte per quanto di propria competenza.
III.
Dall’analisi della vicenda oggetto di controllo va altresì
rilevato il fatto che nella fattispecie
l’Azienda ha conferito ad un legale l’incarico di difesa
personale del Direttore Generale nell’ambito di un
procedimento penale in palese violazione dei principi di
trasparenza, pubblicità, nonché dell’elementare principio di
corrispondenza delle condotte a quanto formalmente ed
ufficialmente contenuto negli atti amministrativi
autorizzativi.
Dall’istruttoria è inoltre emerso il pagamento da parte
dell’ASL di una sanzione pecuniaria irrogata al Direttore
Generale. Ciò comporta la trasmissione della presente al
rappresentante del Pubblico ministero presso questa Corte,
al responsabile per la prevenzione della corruzione,
nominato ai sensi della l. n. 190/2012, nonché all’Assessore
alla Sanità della Regione Piemonte.
In conclusione alle rilevate irregolarità/illegittimità
dell’attribuzione della collaborazione consegue l’obbligo
della Azienda Sanitaria di conformare la propria azione
amministrativa in materia di affidamento di incarichi alla
legge e di dare tempestivo riscontro alla Sezione delle
iniziative assunte
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 13.11.2014 n. 242). |
INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pa,
sì al patrocinio dei legali in pensione.
Corte conti Puglia. Vietati solo i pareri.
Le pubbliche amministrazioni possono
attribuire, a titolo gratuito con rimborso spese e al
massimo per un anno (non rinnovabile), incarichi
professionali di rappresentanza e patrocinio giudiziale
anche ad avvocati in pensione ex dipendenti poiché non
rientrano tra quelli di studio e consulenza vietati dalla
normativa per il taglio della spesa e la riforma della Pa.
Lo ha stabilito la Corte dei conti nel
parere 06.11.2014 n. 193 della Sezione regionale
di controllo per la Puglia su una richiesta interpretativa
presentata dal presidente della Regione Puglia, Nichi
Vendola.
I giudici hanno chiarito uno dei limiti applicativi del
divieto di conferire incarichi a soggetti già lavoratori
privati o pubblici collocati in quiescenza posto in capo a
tutte le amministrazioni dello Stato dalla cosiddetta
spending review bis (articolo 5, comma 9, Dl 95/2012,
convertito in legge 135/2012) e modifiche estensive della
riforma della Pa (articolo 6, Dl 90/2014, convertito in
legge 114/2014).
In particolare, ha spiegato il collegio, mentre nella
versione previgente, il divieto riguardava gli ex dipendenti
«che nell’ultimo anno avessero svolto funzioni e attività
corrispondenti a quelli oggetto dell’incarico da conferire,
a seguito della modifica introdotta con Dl 90/2014, il
divieto è stato esteso a tutti i soggetti “già lavoratori
privati o pubblici collocati in quiescenza”»,
interessando cioè «non solo gli ex dipendenti dell’ente,
ma tutti i lavoratori (dipendenti, lavoratori autonomi)
privati o pubblici (quindi, a prescindere dalla natura
dell’ex datore di lavoro) in quiescenza» e qualunque
incarico di studio e consulenza poiché «sul piano
oggettivo non più necessario che l’oggetto del conferimento
consista in attività o mansioni già svolte in precedenza».
La Sezione ha ritenuto che «in difetto di previsione
contraria sul piano normativo, gli incarichi professionali
di rappresentanza e patrocinio giudiziale rimangono estranei
alla nozione di incarichi di studio e consulenza»
definita negli ultimi anni da pronunce della stessa Corte
dei conti (deliberazione n. 6/2005, n. 6/2008, n. 131/2014).
In base a quest’ultime sono incarichi di consulenza «quelli
volti ad acquisire da un soggetto esperto un giudizio su una
determinata questione», quelli di studio invece sono «volti
a ricercare soluzioni su questioni inerenti all’attività di
competenza dell’amministrazione conferente, i cui risultati
verranno trasfusi in una relazione scritta finale».
Nella nozione di consulenza non rientra l’attività di
rappresentanza processuale e di difesa in giudizio, ma
l’incarico al legale se prevede la resa di un mero parere.
Il divieto, che vale anche per funzioni dirigenziali,
direttive o cariche in organi di governo delle Pa e degli
enti e società controllati (escluse le giunte degli enti
territoriali e gli organi elettivi degli enti pubblici
associativi), vale per tutti gli incarichi conferiti anche
dagli organi costituzionali dal 25.06.2014, data
dell’entrata in vigore della Riforma della Pa (articolo Il Sole 24 Ore del
27.12.2014). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sono
sottratti gli incarichi dirigenziali con contratto a tempo
determinato, conferibili dagli enti locali ex art. 110,
comma 1, del TUEL, ai vincoli assunzionali previsti
dall’articolo 9, comma 28, del d.l. 78/2010” mentre
dette assunzioni sono comunque soggette "ai seguenti
vincoli di spesa: rispetto del patto di stabilità (se
tenuto); riduzione o contenimento della spesa del personale;
contenimento nella percentuale normativamente prevista del
rapporto tra spesa del personale e spesa corrente”.
---------------
Con istanza n. 14311 del 02.07.2014, trasmessa dal
Presidente del Consiglio delle Autonomie Locali della
Liguria con nota n. 66 del 09.07.2014 ed assunta al
protocollo della Segreteria della Sezione regionale di
controllo della Corte dei conti per la Liguria l’11.07.2014
con il n. 0002461 –11.07.2014 – SC _ LIG - T85 – A, il
Sindaco del Comune di Varazze chiede di sapere se la spesa
sostenuta a seguito di stipula di un contratto ex art. 110,
comma 1, del d.lgs. 267/2000 debba rientrare nel limite del
60% delle cessazioni dell'anno precedente (limite
previsto per le assunzioni: a tempo indeterminato), nonché
nel limite delle assunzioni a tempo determinato (50% della
spesa sostenuta nel 2009), anche alla luce delle
modifiche introdotte dall'art. 11 del D.L. 90/2014.
Il Comune chiede infine se sia ipotizzabile stipulare il
contratto medesimo con orario di lavoro part-time,
considerata l'esclusività del rapporto di lavoro
dirigenziale con l'ente stesso.
...
Il quesito formulato dal comune di Varazze ha già trovato
soluzione nella delibera n. 12/2012 con cui la Sezione delle
Autonomie della Corte dei Conti si è espressa circa i limiti
cui devono sottostare le assunzioni di cui all’art. 110,
comma 1, del d.lgs, n. 267/2000.
E’ pur vero che la Sezione si è espressa sul testo dell’art.
110, comma 1, vigente prima della modifica intervenuta ad
opera della legge n. 114/2014 che all’art. 11, comma 1, ha
sostituito il comma 1 in esame.
La norma nel testo precedente stabiliva che “Lo statuto
può prevedere che la copertura dei posti di responsabili dei
servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta
specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo
determinato di diritto pubblico o, eccezionalmente e con
deliberazione motivata, di diritto privato, fermi restando i
requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire”.
Il comma 6-quater dell’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001 (come
riscritto dall’art. 4-ter, comma 13, del d.l. 02.03.2012 n.
16 convertito in legge 26.04.2012 n. 44) individuava poi il
numero complessivo degli incarichi conferibili da parte
degli enti locali ai sensi dell'articolo 110, comma 1 (con
soglie variabili, a seconda delle dimensioni di ciascun
Ente, dal 10% al 20%).
La nuova formulazione dell’art. 110, comma 1, ha da una
parte eliminato il riferimento alla natura di diritto
pubblico dei contratti stipulati e dall’altra ha individuato
nuovi limiti numerici alla conferibilità di detti incarichi
da parte degli enti locali.
Pertanto, ai fini della normativa sul
contenimento della spesa del personale, non vi sono
variazioni sostanziali, motivo per cui si possono tuttora
ritenere valide le conclusioni cui è pervenuta la Sezione
delle Autonome nella delibera citata (cui si rinvia per la
lettura integrale del testo).
In tale delibera la Sezione ha affermato il
carattere di specialità della norme in esame: “il
conferimento degli incarichi dirigenziali con contratto a
tempo determinato ex art. 110, comma 1, del TUEL, è norma
assunzionale speciale e parzialmente derogatoria rispetto al
regime vigente. Da ciò consegue che gli incarichi
conferibili con contratto a tempo determinato in
applicazione delle percentuali individuate dal … comma
6-quater dell’art. 19 del D.Lgs. 165/2001 riguardano solo ed
esclusivamente le funzioni dirigenziali e che a detti
incarichi non si applica la disciplina assunzionale
vincolistica prevista dall’art. 9, comma 28, del DL 78/2010”.
Ed ancora “dette speciali disposizioni assunzionali
sottraggono gli incarichi dirigenziali con contratto a tempo
determinato, conferibili dagli enti locali ex art. 110,
comma 1 del TUEL, ai vincoli assunzionali previsti dall’art.
9, comma 28, del DL 78/2010”.
La Sezione delle Autonomie infatti ha precisato come, per
evitare irragionevoli e irrealistiche riduzioni di spesa del
personale, le limitazioni previste dalle due disposizioni
non siano cumulabili ma attendano ad esigenze diverse
essendo stato creato un regime specifico e differenziato.
Infatti, se il legislatore avesse ritenuto applicabile agli
incarichi dirigenziali il limite del 50% della spesa
sostenuta nell’anno 2009 (art. 928 d.l. n.
78/2010) non avrebbe delineato un ulteriore limite essendo
già sufficientemente stringente quello esistente. Inoltre il
legislatore, se avesse voluto veramente cumulare i limiti,
avrebbe potuto utilizzare una clausola di salvaguardia della
disposizione già vigente. La ratio della distinzione,
secondo il Supremo organo nomofilattico, risiede nella
necessità di non sguarnire eccessivamente i ruoli
dirigenziali,
Pertanto è pienamente condivisibile
l’orientamento assunto dalla Sezione delle Autonomie
(già confermato da questa Sezione di controllo con delibera
n. 23/2014), per cui “dette speciali
disposizioni assunzionali sottraggono gli incarichi
dirigenziali con contratto a tempo determinato, conferibili
dagli enti locali ex art. 110, comma 1, del TUEL, ai vincoli
assunzionali previsti dall’articolo 9, comma 28, del d.l.
78/2010” mentre dette assunzioni sono comunque soggette
"ai seguenti vincoli di spesa: rispetto del patto di
stabilità (se tenuto); riduzione o contenimento della spesa
del personale; contenimento nella percentuale normativamente
prevista del rapporto tra spesa del personale e spesa
corrente”
(Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere 06.10.2014 n. 53). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Cagiona
danno erariale il dirigente che assegna a dipendente le
mansioni superiori non in via provvisoria ma oltre i limiti
temporali ammessi di legge.
La violazione del termine di affidamento di
mansioni superiori integra una violazione dell’espresso
dettato dell’art. 52 del D.lgs. n. 165/2000, vigente
all’epoca dei fatti, e la conseguente illiceità degli
stessi. Tale elemento
inficia le condotte sia del dirigente che ha conferito gli
incarichi, sia di quello che ha acquisito le competenze del
primo ed il potere di provvedere in merito agli incarichi
stessi durante il corso della loro durata.
Nel meccanismo di legge, l’attribuzione di superiori
mansioni dirigenziali è provvedimento temporaneo proprio
perché è preordinato esclusivamente a consentire la
copertura di carenze di organico durante il periodo
strettamente necessario (valutato ex lege in sei mesi-un
anno) per indire ed espletare le ordinarie procedure per la
loro copertura.
Tale temporaneità, pertanto, deve essere
necessariamente ed in concreto assicurata onde evitare il
consolidamento di posizioni che contrastano, prima ancora
che con le specifiche norme di legge sull’attribuzione degli
incarichi citate dalla Procura, con le ordinarie e generali
regole sull’organizzazione amministrativa, delle quali la
regola dell’assunzione per specifici profili professionali
tramite concorsi costituisce una regola generale, a garanzia
della quale il divieto di attribuzione stabile a mansioni
superiori (già espresso nell’art. 56 del D.lgs. n. 29/1993 e
poi confluito nell’attuale art. 52 del D.lgs. n. 165/2001) è
posto.
Di tale garanzia è fatto carico ai soggetti che, per
le loro competenze, sono in grado di incidere sull’esistenza
e sulla protrazione degli incarichi in questione, i quali
devono porre in essere le condizioni affinché gli incarichi
conferiti rimangano entro i limiti di legge.
---------------
Osserva preliminarmente il Collegio che la situazione
illecita che la Procura contesta ai convenuti, con
attribuzione di responsabilità di pari rilevanza sia sotto
il profilo causale che dell’elemento soggettivo, è che le
rispettive condotte (commissiva per la Campaner, omissiva
per il Gozzi) abbiano determinato una situazione di fatto
tale da integrare il diritto dei dipendenti incaricati di
mansioni dirigenziali a percepire somme a fronte di
incarichi conferiti oltre i termini di legge.
La tesi è fondata a fronte del chiaro disposto di legge, se
solo si osserva che gli incarichi in questione sono
perdurati ben oltre il termine di 12 mesi citato sopra,
senza che né nel primo semestre, né durante l’ulteriore
periodo di proroga semestrale, sussistesse la condizione,
che la legge prevede come necessaria per la stessa
possibilità di prorogare legittimamente gli incarichi
(altrimenti semestrali) della indizione delle procedure
concorsuali per il reclutamento del personale carente in
organico. La violazione del termine di affidamento di
mansioni superiori integra una violazione dell’espresso
dettato dell’art. 52 del D.lgs. n. 165/2000, vigente
all’epoca dei fatti, e la conseguente illiceità degli
stessi. Tale elemento, come si vedrà subito appresso,
inficia le condotte sia del dirigente che ha conferito gli
incarichi, sia di quello che ha acquisito le competenze del
primo ed il potere di provvedere in merito agli incarichi
stessi durante il corso della loro durata.
3.1 Nel meccanismo di legge, l’attribuzione di superiori
mansioni dirigenziali è provvedimento temporaneo proprio
perché è preordinato esclusivamente a consentire la
copertura di carenze di organico durante il periodo
strettamente necessario (valutato ex lege in sei mesi-un
anno) per indire ed espletare le ordinarie procedure per la
loro copertura.
Tale temporaneità, pertanto, deve essere
necessariamente ed in concreto assicurata onde evitare il
consolidamento di posizioni che contrastano, prima ancora
che con le specifiche norme di legge sull’attribuzione degli
incarichi citate dalla Procura, con le ordinarie e generali
regole sull’organizzazione amministrativa, delle quali la
regola dell’assunzione per specifici profili professionali
tramite concorsi costituisce una regola generale, a garanzia
della quale il divieto di attribuzione stabile a mansioni
superiori (già espresso nell’art. 56 del D.lgs. n. 29/1993 e
poi confluito nell’attuale art. 52 del D.lgs. n. 165/2001) è
posto.
Di tale garanzia è fatto carico ai soggetti che, per
le loro competenze, sono in grado di incidere sull’esistenza
e sulla protrazione degli incarichi in questione, i quali
devono porre in essere le condizioni affinché gli incarichi
conferiti rimangano entro i limiti di legge.
Cosa diversa, infatti, è che il fatto che tale elemento è
richiesto dalla legge, rispetto al fatto che un termine
temporale sia espressamente stabilito, in concreto, nei
singoli atti di conferimento. La previsione di legge (il
citato art. 52 del D.lgs. n. 165/2001) non incide
sull’effettiva esistenza ed efficacia degli incarichi che
perdurino anche oltre il termine massimo ivi previsto, ma
unicamente sulla loro illegittimità (ed illiceità)
concretando la previsione, leggibile “al contrario” dalla
disposizione stessa, che una proroga disposta o consentita
in assenza di tale condizione –l’indizione di procedure per
la copertura dei posti vacanti in organico- è illegittima.
Al contrario, una previsione della durata massima degli
incarichi, che sia contenuta nella stessa determinazione di
conferimento, incide direttamente sull’esistenza degli
incarichi stessi, determinandone la caducazione al termine
del periodo di durata previsto. Solo una tale previsione,
pertanto, è in grado di evitare il risultato, contrario alla
lettera ed allo spirito della legge, che dipendenti
dell’amministrazione siano adibiti a superiori mansioni
per un periodo superiore ai sei mesi in assenza
dell’indizione di ordinarie procedure per la copertura delle
carenze di organico che, asseritamente, gli incarichi sono
tesi a coprire e che, per legge, solo a fronte di tale
temporanea necessità trovano giustificazione.
E’ evidente che una tale garanzia non è stata assicurata
dalla conferente gli incarichi, Dott.ssa Campaner, la quale,
non avendo apposto alcun termine massimo di durata agli
incarichi da lei conferiti nelle determinazioni in
questione, ha fatto sì che questi continuassero a rimanere
efficaci anche oltre il termine di legge, determinando così
non solo la protrazione dei loro effetti ben oltre le
necessità alle quali la legge li condiziona, ma anche una
situazione di fatto stabile, per rimuovere la quale
diventava necessaria l’adozione di un’ulteriore
determinazione (di restituzione degli incaricati alle
pregresse mansioni). Tale mancata previsione, in altri
termini, se pure si accetti che essa non costituisca
un’illegittimità formale della determina di conferimento
degli incarichi, integra pur sempre un’illiceità sostanziale
dei conferimenti, che per tale mancata previsione sono
diventati stabili e destinati a permanere oltre il semestre
in assenza di espressa revoca.
Sul punto la norma è chiara, come è chiara la sua funzione
di “norma di chiusura“ del sistema, e di garanzia di regole
primarie e imperative che disciplinano l’accesso dei
dipendenti pubblici alle pubbliche funzioni, e sussiste
giurisprudenza unanime e costante nel tempo in merito ai
limiti di legittimità per il conferimento di incarichi di
mansioni superiori; la violazione, pertanto, è imputabile a
colpa grave della Dr.ssa Campaner, la quale, sia per il
bagaglio di esperienze professionali che per il ruolo
rivestito, doveva necessariamente esserne a conoscenza.
Considerando poi le circostanze, e cioè sia il fatto che non
si trattava propriamente di incarichi adottati a copertura
di posti vacanti in organico, bensì di assegnazioni ad
uffici dirigenziali che essa stessa ha individuato
risistemando la propria direzione a seguito del
trasferimento del coordinatore Dr. Patamia e creando sei
uffici dotati di autonomia dirigenziale prima inesistenti,
ed il fatto che ella sarebbe cessata dalle funzioni presso
quella Direzione solo poco più di un mese dopo, e pertanto
sapeva che avrebbe dovuto lasciare la situazione come ella
la stava determinando, la mancata previsione di un termine
finale alla durata degli incarichi rappresentava un elemento
che, in quella situazione specifica, era in grado di
determinare una esposizione grave al rischio di
consolidamento di posizioni illecite, come in concreto è poi
avvenuto.
3.2 Nell’ambito delle competenze e delle funzioni del
Dirigente succeduto alla Campaner, Dr. Gozzi, rientrava di
certo quella di compiere un’autonoma valutazione delle
condizioni di fatto sussistenti al momento della presa in
carico dell’ufficio e successivamente, per tutto il tempo in
cui gli incarichi hanno avuto espletamento, senza che possa
avere rilievo scusante che tali condizioni fossero state
valutate come idonei presupposti per il conferimento degli
incarichi da parte del precedente Direttore, e,
asseritamente, del D.G. dell’Istituto.
L’espressa previsione
di legge sulla necessaria temporaneità degli incarichi
costituisce, infatti, una valutazione del legislatore
dell’utilità degli incarichi medesimi, la quale, pertanto,
condiziona necessariamente la durata degli incarichi e
comportava l’obbligo di riportali entro i termini di legge,
qualora non ne fossero sussistite o ne fossero venute a
mancare le condizioni legittimanti, anche a fronte di quanto
deciso o consentito dai conferenti gli incarichi.
Un tale
obbligo il Gozzi non ha adempiuto, lasciando perdurare la
situazione di fatto, con l’esito giudiziale che qui si
contesta, nonostante egli sia succeduto alla conferente gli
incarichi neanche due mesi dopo le relative delibere, fatto
questo che gli avrebbe dato il tempo di operare in qualunque
altra direzione, prima che verso la revoca degli incarichi,
a tutela di quegli stessi interessi organizzativi che la sua
difesa richiama, sollecitando le decisioni di competenza di
altri uffici, o ponendo al D.G. la problematica della
risoluzione del conflitto tra quelle e l’esigenza
imprescindibile del rispetto della normativa sulla durata
dei conferimenti di mansioni superiori.
La delicata
questione delle esigenze organizzative come risolte dalle
decisioni della Campaner non poteva prevalere sic et
simpliciter sul disposto della norma imperativa, e, se il
dirigente non avesse voluto risolverla alla scadenza del
periodo di legge con la revoca degli incarichi, egli avrebbe
dovuto quantomeno porla per tempo, rappresentando l’opposta
esigenza del rispetto della legge, poiché non si era in
presenza di una singola attribuzione di funzioni
dirigenziali ma del permanere dell’organizzazione di una
intera struttura (come detto, sei uffici dirigenziali creati
dalla Campaner, che ha suddiviso l’Area Sviluppo e
Manutenzione Applicativi della D.C.S.I. in uffici
dirigenziali dotati di autonomia organizzativa) in una
perdurante condizione di illegittimità. L’omissione di
qualunque attività in merito, come sottolinea la Procura,
costituisce effettivamente un profilo di colpa grave,
essendo non solo contraria al chiaro ed inderogabile
disposto della norma, ma anche non giustificabilealla luce
dei fatti.
3.3 La circostanza che sulle determinazioni di incarico sia
stata apposta da parte del D.G Dr. Simi la sigla AS, o le
parole OK e CONCORDO, non costituisce una esimente, né per
la conferente gli incarichi, né per il suo successore, in
quanto entrambi erano i soggetti direttamente ed unicamente
investiti delle funzioni e competenze in merito
all’attribuzione degli incarichi di reggenza ed alla
relativa gestione, avendo detti provvedimenti diretta
efficacia solo per effetto della firma del dirigente
Generale della D.C.S.I. all’interno della quale essi sono
stati disposti.
La firma del D.G. dell’INPDAP, semmai, era
richiesta per l’attribuzione di incarichi dirigenziali di
direzione delle Direzioni Centrali dell’Istituto (come
infatti è stato per il trasferimento dell’Ing. Patamia,
responsabile dell’altra Area in cui era suddivisa la
D.C.S.I., in occasione del quale la relativa determinazione,
n. 57 del 30.05.2000, è stata firmata dal D.G. Simi), in
base all’art. 7 del D.P.R. n. 368 del 24.09.1997,
norma del Regolamento sull’organizzazione ed il
funzionamento dell’INPDAP che prevede le attribuzioni del
Direttore Generale.
Le stesse considerazioni valgono anche ad escludere la
responsabilità del Dr. Simi, contestata dall’accusa solo con
riferimento al preteso ruolo che di fatto egli avrebbe
assunto con l’apposizione delle suddette parole sulle
determinazioni, e che, per quanto detto, non assume invece
alcuna portata causale sulla fattispecie che si era così
venuta a creare. Il Dr. Simi deve pertanto essere assolto da
ogni addebito.
4. Quanto all’affermazione che gli incarichi non avrebbero
dato legittimamente titolo alla liquidazione di compensi,
non avendo di fatto avuto a contenuto l’espletamento di
funzioni dirigenziali, essa nel presente giudizio appare
priva di alcuna prova, oltre che di alcun rilievo giuridico,
poiché ai fini della maturazione dei relativi compensi il
giudice del lavoro (oltre che a valutare l’esistenza di
prove testimoniali in tal senso, con valutazione confermata
in appello) ha tenuto a riferimento, con criterio che il
Collegio perfettamente condivide, il contenuto delle
determinazioni di incarico e delle mansioni con esse
conferite; questo giudice concorda sia con tale criterio,
sia con le relative conclusioni, atteso che nella
determinazione di conferimento (n. 69/2000) gli incarichi
sono conferiti “a fronte di carenza di figure di livello
dirigenziale” e tendono pertanto a garantire l’espletamento
di funzioni inerenti tale profilo professionale, ed atteso
il contenuto dell’ordine di servizio n. 12 del 06.06.2000,
con la quale la stessa Campaner individua le mansioni e le
funzioni degli uffici dirigenziali in questione.
5.I convenuti oppongono, infine, che le somme liquidate ai
dipendenti in questione non costituiscono il corrispettivo
per le superiori mansioni dirigenziali, domanda che il
giudice del lavoro ha respinto, ma la liquidazione di
un’indennità prevista espressamente dalla contrattazione
collettiva per il personale direttivo al quale siano
conferite mansioni dirigenziali, per cui in realtà non vi
sarebbe alcun danno illecito.
Si fa riferimento alla previsione dei contratti integrativi
applicabili all’Istituto che prevede la liquidazione al
personale direttivo,di cui all’art. 15, comma 1, della legge
n. 88/1989, di una indennità di reggenza per il periodo nel
quale esso abbia espletato mansioni proprie di un ufficio
dirigenziale; ed in effetti, il giudice del lavoro ha
respinto la domanda alla liquidazione di altre voci
retributive proprie della dirigenza per l’esistenza di una
specifica disposizione, seppure contrattuale, applicabile
alla fascia dei funzionari direttivi, che retribuisce tali
funzioni per il periodo in cui sono svolte.
Rileva sul punto il Collegio che la circostanza che tale
emolumento sia previsto contrattualmente, fatto questo che
ha costituito titolo per il diritto dei dipendenti alla
liquidazione delle somme in questione, non comporta
necessariamente che sempre ed in ogni caso la sua
corresponsione sia lecita, nel senso che essa non
costituisca un danno erariale, come infatti accade nelle
ipotesi in cui l’incarico sia stato conferito o sia
proseguito in violazione dei termini di legge.
Espressamente, del resto, dispone il quinto comma dell’art.
52 citato, che sancisce la nullità dell’assegnazione a
mansioni superiori oltre il termine di legge e la
responsabilità del dirigente che ha disposto l'assegnazione,
che risponde personalmente “per il maggior onere
conseguente, se ha agito con dolo o colpa grave”,
disposizioni che sono destinate ad espletare i loro effetti
nell’ambito dei rapporti tra il soggetto che ha conferito
gli incarichi e l’amministrazione di appartenenza, senza
incidere sui diritti retributivi del lavoratore,
disciplinati dalla medesima disposizione con la previsione
che “al lavoratore è corrisposta la differenza di
trattamento economico con la qualifica superiore”.
Il fatto
che il giudice del lavoro abbia accolto solo parzialmente la
domanda dei lavoratori incaricati, accertando il loro
diritto all’indennità per funzioni dirigenziali e non
all’intera differenza con la retribuzione dei dirigenti, non
incide sul titolo illecito di tali differenze retributive ma
solo sulla quantificazione del danno, limitandolo a quanto
liquidato in applicazione della predetta disposizione.
Nella presente fattispecie, la remunerazione delle funzioni
dirigenziali affidate ai dipendenti in questione può dirsi
lecita solo con riferimento al primo semestre di durata
dell’incarico, in presenza degli altri presupposti ai quali
la legge condiziona la possibilità di conferimento di
mansioni superiori (presupposti che qui non sono stati posti
in questione), ma non per il semestre successivo, non
essendosi verificata la condizione dell’indizione delle
procedure per la copertura dei posti in organico, e per il
periodo ancora successivo, sino alla restituzione dei
dipendenti alle proprie funzioni.
Per tali successivi periodi, pertanto, la corresponsione di
tale emolumento costituisce un danno erariale, non
corrispondendo ad una situazione che l’ordinamento qualifica
come legittima.
Né da tale danno può ritenersi detraibile un utile in
dipendenza delle prestazioni di attività lavorativa
effettuate dai dipendenti incaricati delle funzioni
dirigenziali. Come detto, e come afferma l’unanime
giurisprudenza di questa Corte, la valutazione dell’utilità
dell’attribuzione di mansioni superiori è frutto di una
previsione legislativa, la quale richiede determinati
requisiti per l’attribuzione di tutti gli specifici profili
professionali nell’ambito della pubblica amministrazione, ma
ancor più per le funzioni dirigenziali (requisiti che sono
determinati dalle leggi in vigore al momento dei
fatti), delimita all’interno degli stretti ambiti sopra
descritti l’attribuzione temporanea di mansioni dirigenziali
ai soggetti che non ne sono in possesso, e nega rilevanza
alle assegnazioni di mansioni superiori disposte oltre i
casi previsti dalle citate disposizioni, al punto da
sancirne la nullità.
Tale valutazione non può essere pretermessa o sostituita dalla valutazione che ne faccia
l’amministrazione, e, in conseguenza, non può ritenersi
sussistente e valutabile alcun “utile”, né in dipendenza
diretta della prestazione contra legem, né sotto il profilo
prospettato dalla difesa, e cioè per il fatto che le
funzioni dirigenziali espletate dagli incaricati, pur oltre
i limiti di legge, sono state retribuite in misura minore di
quelle che avrebbero dovuto essere espletate da dirigenti
titolari, poiché solo a questi ultimi la legge riserva il
diritto alla corrispondente retribuzione
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio,
sentenza 10.09.2014 n. 665). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sul risarcimento del danno erariale per
aver falsificato le timbrature e, soprattutto, sul
risarcimento (più cospicuo) del conseguente e correlato
danno all'immagine dell'ente di appartenenza.
Ciò premesso,
passando ad esaminare il merito di tale pretesa, si osserva
che nel vigente ordinamento il “danno all’immagine”
ed “al prestigio” della Pubblica Amministrazione
–riconducibile alla categoria del danno “non patrimoniale”,
ex art. 2059 cod. civ.- consiste nella diminuita reputazione
dell’ente presso i consociati, o presso una certa platea di
consociati, conseguente alla lesione di diritti fondamentali
della persona, riconosciuti e garantiti dalla Costituzione
all’art. 2 e all’art. 97 per la “Pubblica Amministrazione”
nel suo complesso (Corte conti, Sez. III, n. 335 del 2009;
Cass. sentenze nn. 8827, 8828 del 2003, n. 12929 del 2007,
n. 26972 del 2008).
La giurisprudenza della Corte di cassazione, a conclusione
di un complesso percorso interpretativo, ha superato la
concezione che individuava tale danno nella lesione
dell’immagine in sé (danno evento), pervenendo ad una
configurazione dello stesso come conseguenza della predetta
lesione, rappresentata dalla diminuita considerazione che
l’ente ha presso i consociati (danno conseguenza).
Tale danno, secondo quanto affermato nella sopra citata
sentenza della Corte di cassazione n. 12929 del 2007,
risulta risarcibile “indipendentemente dal fatto che
l’incidenza negativa sull’agire delle persone fisiche che
rappresentano gli organi dell’ente abbia determinato un
danno in senso economico, cioè un danno patrimoniale”;
ed infatti, l’agire dell’ente con la consapevolezza di dover
superare la negatività connessa alla lesione dell’immagine
non potrà non risentirne in termini di efficacia, “onde
-a prescindere da eventuali riflessi economici- tale
conseguenza integra di per sé un danno non patrimoniale”
.
Alla luce dei principi affermati dalle Sezioni di appello
della Corte dei conti (ex plurimis, Sez. III, n.
143/2009; Sez. II n. 106/2008) e del surriferito più recente
orientamento della Corte di cassazione (successivo a SS.RR.
n. 10/QM/2003), le Sezioni Riunite di questa Corte hanno
rivisitato tale figura di danno erariale, precisando che <<il
danno all’immagine della Pubblica amministrazione ……..
coincide non già con il fatto lesivo (in ipotesi di condotta
di corruzione), ma con la lesione (perdita di prestigio),
che costituisce una “conseguenza” (art. 1223 c.c.) del fatto
lesivo>> (Corte conti, SS.RR. sent n. 1/2011/QM; cfr.,
Sezione Prima sent. n. 316 del 2011).
In proposito osserva, tuttavia, la Sezione che,
indipendentemente dalla configurazione del danno
all’immagine -come danno-evento o come danno-conseguenza–
attenendo tale pregiudizio ad un bene immateriale, la prova
è, in ogni caso, eminentemente presuntiva, potendo
costituire anche l’unica fonte per la formazione del
convincimento del giudice (Cass. sent. n. 26972 del 2008),
mentre la sua quantificazione va disposta in considerazione
della concreta dimensione della lesione stessa, da valutare
in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., non essendo
possibile l’esatta determinazione dell’ammontare di un danno
di tale natura (Corte conti, Sez. III, sent. n. 143/2009,
cit.; Cfr. Sez. Liguria, sent. n. 184 del 2012).
Tanto rappresentato, nel caso di specie, non può dubitarsi
che i ripetuti allontanamenti dal servizio del dott. L. per
motivi generalmente futili (recarsi a giocare una partita di
pallone) abbiano arrecato un gravissimo pregiudizio
all’immagine della ASL, ingenerando presso l’opinione
pubblica un notevole discredito nei riguardi dell’assistenza
sanitaria fornita dalla stessa.
Passando alla quantificazione di detto danno, la Sezione
ritiene di dovervi procedere in via equitativa, ai sensi
dell’art. 1226 c.c., tenendo conto dei criteri elaborati
dalla giurisprudenza della Corte dei conti, e, in special
modo, dalle Sezioni Riunite nella sentenza n. 10/QM/2003.
In particolare, nella specie vengono in considerazione:
- la rilevanza del servizio prestato e la posizione
rivestita dall’interessato nell’ambito dell’Azienda
sanitaria (medico titolare di una funzione sanitaria di
altissimo rilievo sociale esercitata con un ruolo apicale);
- la reiterazione di comportamenti socialmente riprovevoli e
penalmente rilevanti posti in essere essenzialmente per
motivi futili;
- la diffusività della notitia criminis a livello
locale, regionale e nazionale, i fatti essendo stati
riportati, come documentato dall’accusa, con ampio risalto e
a più riprese sia dalla stampa (“Il Secolo XIX”, “La
Repubblica-Il Lavoro”, “Il Corriere Mercantile”),
sia dall’informazione televisiva (come riportato dalla
Gazzetta del Lunedì del 04/02/2013, il caso è stato trattato
in termini fortemente polemici nella trasmissione televisiva
domenicale l’Arena su Rai 1, nel corso della quale sono
state mosse forti critiche nei confronti dell’Azienda
sanitaria e della sua dirigenza).
Tanto considerato, il collegio giudica congrua la
determinazione fatta dalla Procura in euro 20,000,00
(ventimila/00) del danno inferto all’immagine dell’Ente
(Corte
dei Conti, Sez. giurisdiz. Liguria,
sentenza 05.06.2014 n. 72). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il responsabile dell'UTC non può rimettere
unilateralmente il proprio incarico di P.O. nelle mani del
Sindaco (... per incompatibilità tra le parti). Semmai, il
Sindaco può procedere,
in presenza delle condizioni previste dall’ordinamento, alla
revoca
dell’affidamento della P.O. con motivazione
idonea e rigorosa (ad esempio in caso di valutazione
negativa circa il raggiungimento degli obiettivi gestionali
programmati o di determinati livelli di prestazione).
D'altro canto, le funzioni di
responsabile dell'Ufficio tecnico non presuppongono un
vigoroso vincolo fiduciario, trattandosi di compiti
prettamente tecnici, sicché il loro esercizio ben possono
continuare anche dopo il cambiamento della compagine
politica dell'ente. Di norma, per il conferimento
dell'incarico di Responsabile si procede con il
provvedimento motivato del Sindaco, tenendo conto
dell'”effettiva attitudine e capacità professionale” e,
cioè, di requisiti squisitamente tecnici.
Ed il Sindaco, comunque, di fronte alle
"dimissioni" da P.O. del responsabile dell'UTC non può
assumere una persona esterna all'ente (... che gli fa
comodo) ex art. 110 d.lgs. 267/2000 per ricoprire l'incarico
di responsabile dell'UTC. E se lo fa (ugualmente) cagiona un
danno erariale e paga di tasca propria.
La Procura regionale
addebita ai convenuti le somme corrisposte
dall’amministrazione comunale di Rapino all'arch. M.S.,
assunto con contratto di diritto privato a tempo
determinato, poi rinnovato nel tempo, per le funzioni di “Responsabile
dell'Ufficio tecnico” dell’ente, in precedenza svolte
dal Geom. G.M..
Si premette che il Comune di Rapino, avendo popolazione
inferiore ai 5.000 abitanti, ai sensi dell'art. 109 del
T.U.E.L., d.lgs. n. 267 del 2000, non annovera posizione
dirigenziale per l’esercizio delle citate funzioni; con
provvedimento del sindaco in data 30.12.1997, prot. n. 3723,
successivamente reiterato in data 11.03.1999 e 31.12.1999,
fino al decreto sindacale n. 2 in data 26.02.2009, il posto
di Responsabile dell’ufficio tecnico era stato conferito con
apposito incarico al dipendente M., con il riconoscimento in
suo favore della retribuzione di posizione.
In data 01.10.2009, il citato funzionario comunicava
formalmente al sindaco, sig. R.C., di “rimettere il
mandato di Responsabile dell'Ufficio Tecnico onde permettere
la nuova gestione dell'Ufficio” con effetti immediati.
A seguito di ciò, con atto della Giunta comunale n. 73, in
pari data, veniva deliberato (con voti favorevoli del
Sindaco C.R., del Vicesindaco O.A., e dell'assessore M.R.,
successivamente deceduta) l’affidamento della relativa
funzione a soggetto esterno all’apparato comunale, ai sensi
e per gli effetti dell'art. 110 del T.U.E.L. e dell'art. 54
del Regolamento di organizzazione degli Uffici e dei
Servizi.
Con successivo decreto sindacale n. 7 del 03.10.2009
l’incarico veniva conferito all'Architetto M.S., dal giorno
stesso e fino al 31.12.2009, per un compenso annuo di euro
20.000,00 oltre Inarcassa e I.V.A..
A supporto della scelta il provvedimento dava atto che il
professionista, provvisto di laurea in architettura era in
possesso dell'adeguata professionalità, avendo progettato e
diretto lavori pubblici di elevata complessità anche nel
territorio del Comune di Rapino, oltre ad aver ricoperto la
carica di Vice Sindaco dal 1999 al 2004.
Con successivo decreto n. 21 del 31.12.2009 il Sindaco C.,
richiamata la menzionata delibera di G.C. n. 73/2009,
conferiva nuovamente l'incarico all'Arch. S., con le stesse
mansioni di Responsabile dell'Ufficio tecnico comunale e con
il medesimo compenso, dall'01.01.2010 e fino al 30.06.2010.
Seguivano analoghi decreti sindacali di rinnovo
dell'incarico, n. 4 del 30.06.2010, n. 5 del 31.12.2010.
La successiva delibera di Giunta comunale n. 51 del 2011,
votata da tutti i convenuti, disponeva ulteriore affidamento
in favore del professionista, cui seguivano i decreti
sindacali n. 4 del 30.06.2011 e n. 3 del 30.06.2012 con
relativa stipula di contratti di diritto privato, tutti con
previsione del medesimo compenso già assentito in
precedenza.
Infine, con delibera n. 45 del 2012, cui partecipavano tutti
i convenuti, la Giunta attribuiva un terzo incarico al S.,
con le medesime modalità, confermato con successivo decreto
sindacale n. 12 del 2012.
In sintesi il rapporto con il professionista, che avrebbe
dovuto essere temporaneo, ebbe una durata di oltre tre anni.
Tanto premesso, la giurisprudenza ha enunciato i principi
sulla cui base è consentito l’affidamento di incarichi a
personale estraneo all’apparato tecno-burocratico (ex
multis: Sezione Abruzzo n. 260/2010, Sezione Terza di
appello n. 66/2012, Sezione controllo Lombardia delibera n.
1060/2010).
Il vigente ordinamento non annovera un generale divieto per
la pubblica amministrazione di ricorrere a collaborazioni
esterne o a contratti di durata o, ancora, a consulenze per
far fronte ad esigenze particolari; peraltro l’utilizzo di
dette risorse “….non può concretizzarsi se non nel
rispetto di determinate condizioni e limiti previsti
espressamente dal legislatore e, specificatamente, dall’art.
7 del Decreto legislativo 03.02.1993 n. 29 (“6. Ove non
siano disponibili figure professionali equivalenti, le
amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi
individuali ad esperti di provata competenza, determinando
preventivamente durata, luogo, oggetto e compenso della
collaborazione”), dall’art. 110 del TUEL (“1. Lo statuto può
prevedere che la copertura dei posti di responsabili dei
servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta
specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo
determinato di diritto pubblico o, eccezionalmente e con
deliberazione motivata, di diritto privato, fermi restando i
requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire.
2. Il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei
servizi, negli enti in cui è prevista la dirigenza,
stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono
essere stipulati, al di fuori della dotazione organica,
contratti a tempo determinato per i dirigenti e le alte
specializzazioni, fermi restando i requisiti richiesti per
la qualifica da ricoprire….Per obiettivi determinati e con
convenzioni a termine, il regolamento può prevedere
collaborazioni esterne ad alto contenuto di
professionalità”) e dall’art. 7 del Decreto legislativo
30/03/2001 n. 165 (“6. Per esigenze cui non possono far
fronte con personale in servizio, le amministrazioni
pubbliche possono conferire incarichi individuali ad esperti
di provata competenza, determinando preventivamente durata,
luogo, oggetto e compenso della collaborazione”).
I limiti contenuti nelle disposizioni sopra indicate trovano
la propria ratio nella necessità di evitare il conferimento
generalizzato di consulenze esterne, l'assunzione di
personale in assenza di condizioni legittimanti, l’aggravio
di costi inutili ed eccessivi per i pubblici bilanci e la
violazione di norme cogenti le quali richiedono, per
l'accesso alla pubblica amministrazione, una selezione di
più candidati preceduta da adeguata pubblicità del bando e
svolgimento di una procedura concorsuale. La giurisprudenza
ha, inoltre, da tempo, affermato il principio secondo cui
ogni ente pubblico deve provvedere ai propri compiti con la
propria organizzazione e il proprio personale e la
possibilità di far ricorso a personale esterno può essere
ammessa soltanto nei limiti e alle condizioni in cui la
legge lo preveda o anche quando sia impossibile provvedere
altrimenti ad esigenze eccezionali e impreviste, di natura
transitoria” (Sezione Terza d’appello n. 66/2012 cit.).
Orbene, osserva il Collegio che il M. ebbe a “rimettere
l'incarico” con la lettera del 01.10.2009 nelle mani del
Sindaco C., manifestazione di volontà che nel vigente
assetto ordinamentale non assume alcun valore legale, posto
che le funzioni di Responsabile dell'Ufficio tecnico erano
state motivatamente conferite nell’ambito della cura del
pubblico interesse di cui il Comune è portatore, con
apposita deliberazione e successivi decreti sindacali.
L’ordinamento, nel consentire ai Comuni privi di personale
con qualifica dirigenziale la facoltà di attribuire le
relative funzioni ai responsabili degli uffici o dei
servizi, ha inteso agevolare i comuni di minori dimensioni
demografiche e, quindi, dotati di minori risorse finanziarie
evitando loro di sobbarcarsi gli oneri di spesa concernenti
l'assunzione di personale di qualifica dirigenziale.
Si tratta di provvedimenti adottati in un perimetro
normativo nitidamente indirizzato a rendere funzionale
l’organizzazione degli enti pubblici, nella specie dei
comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti.
Nel delineato contesto, quindi, il dipendente non avrebbe
potuto abdicare con atto unilaterale alle funzioni di
Responsabile dell'Ufficio tecnico delle quali era già
investito, venendo in rilievo compiti relativi
all'organizzazione degli Uffici e dei Servizi dell'ente, in
osservanza dell'art. 109 del T.U.E.L.
In estrema sintesi il M. non avrebbe potuto rifiutare di
svolgere l’incarico di Responsabile dell'Ufficio tecnico,
venendo ad emersione non un diritto disponibile, quanto,
invece, un munus soggetto ad investitura da parte del
sindaco ai sensi dell'art. 50, comma 10, del T.U.E.L., come
tale irrinunciabile.
Di conseguenza anche il sindaco non avrebbe potuto prendere
atto delle “dimissioni” dall’incarico, ma soltanto
provvedere, in presenza delle condizioni previste
dall’ordinamento, alla revoca dell’affidamento con
motivazione idonea e rigorosa (ad esempio in caso di
valutazione negativa circa il raggiungimento degli obiettivi
gestionali programmati o di determinati livelli di
prestazione).
D'altro canto, le funzioni di responsabile dell'Ufficio
tecnico non presuppongono un vigoroso vincolo fiduciario,
trattandosi di compiti prettamente tecnici, sicché il loro
esercizio avrebbero potuto continuare anche dopo il
cambiamento della compagine politica dell'ente. Al riguardo,
l'art. 19 del Regolamento di Organizzazione comunale,
approvato con delibera di Giunta n. 7 del 27.02.1999 e
successive modifiche e integrazioni, per il conferimento
dell'incarico di Responsabile prescrive l’adozione di un
provvedimento motivato del Sindaco, tenendo conto dell'”effettiva
attitudine e capacità professionale” e, cioè, di
requisiti squisitamente tecnici.
Il successivo articolo 21 prevede la proroga di diritto,
all'atto della naturale scadenza, fino a quando non
intervenga la nuova nomina, e contempla i seguenti casi di
revoca:
a) inosservanza grave delle direttive del Sindaco;
b) inosservanza grave delle direttive dell'assessore di
riferimento;
c)inosservanza grave delle direttive e delle disposizioni
del Segretario comunale o del direttore generale;
d) mancato raggiungimento degli obiettivi assegnati nel
piano delle risorse, al termine di ciascun anno finanziario;
e) responsabilità grave o reiterata;
f) altri casi disciplinati dal contratto collettivo di
lavoro.
Si tratta, come accennato, di un sistema che rispecchia
pienamente l’organizzazione degli uffici e servizi degli
enti pubblici e che, nell’ambito della tutela del pubblico
interesse di cui ogni ente è responsabile, non prevede
iniziative del dipendente cui supinamente debba aderire
l’organo competente.
Sotto altro ma connesso profilo, si deve osservare che al
M., in relazione alla posizione organizzativa ricoperta, era
stata riconosciuta la retribuzione di posizione.
Detta componente retributiva riflette “il livello di
responsabilità attribuito con l’incarico di funzione”,
come statuito dalla giurisprudenza della Corte di cassazione
(Cass. 10.05.2007, n. 11084, 10.05.2013, n. 10559), e,
quindi, rappresenta il collegamento al livello di
responsabilità.
Viene, conseguentemente, ad emersione una situazione in cui
assume centralità la tutela dell’interesse al buon
funzionamento dell’amministrazione e non certo le scelte del
dipendente interessato. Alla stregua delle considerazioni
che precedono la delibera di Giunta municipale n. 73 del
01.10.2009, assunta nello stesso giorno della comunicazione
del M. si presentava illegittima, come tutte le delibere e i
decreti successivi, da un lato perché faceva discendere
dalle “dimissioni” (rectius: volontà di non
proseguire nell’esercizio di una funzione) la vacanza della
posizione organizzativa di responsabile dell'Ufficio
tecnico, non trattandosi di un “mandato” elettivo
(come risulta dall'incipit della proposta di deliberazione);
dall'altro perché faceva conseguire dalla supposta “vacanza”
la necessità di “attivare altri tipi di rapporti
contrattuali previsti dalla legge n. 267 del 2000”.
Infatti, anche ammessa e non concessa l'impossibilità per il
Comune di continuare ad avvalersi dell'operato del M., prima
di stipulare un contratto di cui all'art. 110 del T.U.E.L.
sarebbe stato doveroso, per la Giunta, individuare altre
possibili soluzioni, quali ad esempio la nomina del
Segretario comunale per il compimento di alcuni atti come
previsto all'art. 18, penultimo comma, del Regolamento di
Organizzazione.
Nessuna rilevanza assume, per quanto sopra detto, la
volontarietà o meno delle “dimissioni” del M.,
oggetto –ad altri fini- del giudizio davanti al Giudice del
Lavoro, né la sua richiesta di mobilità. Nel descritto e
caratterizzato contesto l’affermazione contenuta a pagina 3
della sentenza in data 21.10.2012 pronunciata dal Giudice,
secondo cui il dipendente “aveva la piena disponibilità
dei diritti nascenti dal conferimento della posizione
organizzativa”, non è condivisa dal Collegio, stante il
chiaro tenore letterale dell'art. 109 del T.U.E.L., e delle
previsioni contenute nel C.C.N.L. per il personale non
dirigente –richiamato e riportato nella stessa decisione–
ove è stabilito che gli incarichi per le posizioni
organizzative devono essere conferiti da parte degli enti
locali con atto scritto e motivato e possono essere revocati
con le stesse modalità, previo contraddittorio con il
dipendente nel caso di una valutazione non positiva del suo
operato (art. 9).
Si tratta, quindi di disciplina che esclude qualsiasi atto
unilaterale di “dimissioni” dall'incarico del
dipendente, fatta salva, ovviamente, la possibilità di
abbandonare l'impiego, circostanza non ricorrente nella
specie; il M., infatti, ha continuato ad operare come
dipendente del Comune di Rapino.
Il comportamento degli odierni convenuti, poi, è ancora più
grave ove si consideri che il M., a distanza di pochi mesi,
ha attivato il tentativo obbligatorio di conciliazione
lamentando l'illegittimità della sostituzione e affermando,
a ragione, l'irrilevanza della propria manifestazione di
volontà essendo, l'incarico, ricompreso nelle funzioni del
dipendente.
La Giunta e soprattutto il Sindaco C. avrebbero dovuto tener
conto di tale volontà e reintegrarlo nell'incarico, anziché
continuare a rinnovare l'oneroso contratto con l'arch. S..
Se fossero state sussistenti altre ragioni, quali la
asserita incompatibilità del dipendente, esse avrebbero
dovuto essere esplicitate in un atto di revoca del Sindaco
che aveva, a suo tempo, provveduto alla nomina del M.; atto
di ritiro che non è mai stato adottato, mentre la sanzione
disciplinare del dipendente è intervenuta soltanto nel 2011.
Insomma, la vicenda, come osservato dall’attore nella sua
requisitoria, sembra trovare la sua genesi in contrasti
maturati tra opposte fazioni politiche (il M., in
precedenza, era stato Sindaco di Rapino) che, peraltro,
hanno cagionato un rilevante danno all'amministrazione
comunale con l'assunzione non necessaria e immotivata,
perdurante nel tempo, di un professionista esterno per
svolgere compiti che avrebbero potuto essere adempiuti da un
soggetto che da più di un decennio li aveva portati a
termine, con il mero esborso dell'indennità di posizione
anziché di euro 20.000,00 annuali oltre accessori, come
quantificato dal Segretario comunale nella nota in data
27.03.2013.
A questo riguardo si sottolinea che nessun valore riveste la
sentenza del G.U.P. presso il Tribunale di Chieti n.
269/2013 in data 16.12.2013 di non luogo a procedere nei
confronti del C., dell'O. e del S. per il reato di abuso di
ufficio.
Infatti, la decisione, resa ai sensi dell'art. 423 c.p.p., è
inidonea al passaggio in giudicato, potendo essere revocata
ex art. 434 c.p.p.; del resto ai fini della consumazione del
reato contestato, la legge penale prescrive la sussistenza
del dolo specifico della finalità di arrecare un vantaggio
patrimoniale (nella specie al S.), elemento non necessario
per la configurabilità della responsabilità
amministrativo-contabile.
Ai fini del presente giudizio, poi, l’affermazione del
Giudice penale secondo cui l'operato dei convenuti è stato
legittimo “a fronte di una manifesta volontà di non
proseguire nella funzione prima ricoperta”, appare del
tutto trascurabile posto che, come si è detto, l’espressione
di detta determinazione –immediatamente mutata– era
assolutamente irrilevante andando ad incidere su atti di
nomina e di conferimento di funzione ( nella specie di
Responsabile dell'Ufficio tecnico), non solo disciplinati
dalla legge e dal regolamento comunale, ma anche di
esclusiva spettanza del Sindaco e della Giunta municipale e,
pertanto, al di fuori del perimetro dei diritti disponibili
del dipendente.
Né, peraltro, possono valere a legittimare l'operato dei
convenuti prassi contra legem, invalse prima
dell'insediamento della nuova Giunta ed attribuite all'ex
sindaco M.G. e ad altri soggetti, come l'assunzione al di
fuori dell'organico di personale per attendere a specifiche
mansioni proprie dell'ente territoriale.
L’introduzione nel thema decidendi della controversia
della circostanza, peraltro priva di supporto probatorio,
dell’altrui illecito comportamento, non rende conforme
all’ordinamento l’omologo atteggiamento censurato dalla
Procura regionale e non può, quindi, configurare, come
sembrano sostenere le difese dei convenuti, una esimente
della ascritta responsabilità.
Infatti le rispettive condotte illecite e dannose non si
elidono tra loro, ma si sommano provocando un più
consistente depauperamento dell'ente.
Del resto se prima della vicenda in rassegna, gli
amministratori dell’ente avessero consumato illeciti
erariali, gli odierni convenuti non avrebbero dovuto
persistere nella medesima illecita attività, ma denunciarla
alla Procura regionale presso questa Sezione
giurisdizionale.
Così delineata e qualificata la condotta dei convenuti, va
da sé che dalla delibera n. 73/2009 e dai successivi decreti
sindacali di conferma del contratto (non ha rilevanza se
rinnovato o prorogato) senza soluzione di continuità e dalle
successive delibere di Giunta del 2011 e del 2012 e relativi
decreti, per il periodo dal 03.10.2009 al 30.06.2013, è
scaturito un pregiudizio erariale consistente nel pagamento
al S. di tutti gli emolumenti dovuti come da prospetto, non
contestato, contenuto nell'atto di citazione alle pagine 7
ed 8 per un importo totale di euro 68.800,00 per
retribuzioni oltre ad euro 19.466,68 per incentivi di
progettazione per un totale di euro 88.266,68.
Nella quantificazione del danno non incidono, attenuandone
la misura per i vantaggi conseguiti dalla collettività
amministrata, le somme che il Comune avrebbe dovuto
corrispondere al geom. M. a titolo di retribuzione di
posizione se il medesimo avesse continuato ad esercitare la
funzione di Responsabile dell’ufficio tecnico del comune.
La giurisprudenza della Corte dei conti, infatti, ha
statuito, in situazioni analoghe, che non è applicabile il
disposto dell'art. 1, comma 1-ter della legge n. 20 del 1994
posto che “ai fini della valutazione dei vantaggi di cui
alla citata norma, è comunque necessario che gli stessi
risultino debitamente comprovati non potendo essere
meramente ricollegati alla prestazione resa dal consulente o
dall’incaricato esterno” (Sezione Terza di appello n. 66
del 2012 riferita all'impugnazione della sentenza di questa
Sezione n. 260 del 2010) (Corte
dei Conti, Sez. giurisdiz. Abruzzo,
sentenza 17.04.2014 n. 36). |
PATRIMONIO:
Il vantaggio indiretto per il Comune esclude il danno
erariale.
Non determina alcun danno erariale il dirigente comunale che
concede un immobile del Comune in uso gratuito a
un'associazione privata se da ciò deriva un corrispettivo
indiretto all'ente come lo svolgimento di servizi e attività
di utilità pubblica, nonché obblighi di gestione e di
manutenzione dell'immobile in capo all'associazione stessa.
---------------
Il danno azionato
in giudizio deriverebbe, secondo la prospettazione di parte
attrice, dalla concessione a titolo gratuito di un immobile
del patrimonio del Comune di Cagliari a una associazione
privata.
In proposito, occorre preliminarmente osservare che
la normativa in materia di concessione di beni
pubblici prevede espressamente l'affidamento in concessione,
anche gratuita, o in locazione a canone ridotto di beni
immobili demaniali e patrimoniali, destinati ad uso diverso
da quello abitativo. In questi termini, dispone il D.P.R.
13.09.2005, n. 296
(che ha abrogato la legge n. 390 del 1986 e successive
modifiche), agli artt. 9, 10 e 11, con
riguardo a particolari categorie di immobili (tra cui quelli
d’interesse culturale) ed a specifiche tipologie di soggetti
(organizzazioni non lucrative di utilità sociale,
associazioni di promozione sociale) … per finalità di
interesse pubblico connesse all'effettiva rilevanza degli
scopi sociali perseguiti in funzione e nel rispetto delle
esigenze primarie della collettività e in ragione dei
principi fondamentali costituzionalmente garantiti, a fronte
dell'assunzione dei relativi oneri di manutenzione ordinaria
e straordinaria.
Con riguardo al patrimonio indisponibile
degli Enti locali, specifiche disposizioni stabiliscono:
- la concessione in uso di beni immobili
per il perseguimento di “scopi sociali” che in
concreto possono comportare la fissazione di canoni
inferiori a quelli di mercato
(art. 32, comma 8, della legge n. 724 del 1994);
- la previsione di canoni meramente
ricognitori (art.
3, comma 66, della legge n. 549 del 1995)
nella concessione di aree e di impianti sportivi in favore
delle associazioni o società sportive dilettantistiche e
senza scopo di lucro o agli enti di promozione sportiva;
- la concessione in comodato ad
associazioni di promozione sociale e ad organizzazioni di
volontariato, per lo svolgimento delle loro attività
istituzionali
(art. 32, comma 1, della legge n. 383 del 2000).
Alla stregua della disciplina di cui sopra va esaminata la
concessione del bene del patrimonio comunale denominato
Chiesetta Aragonese, il cui rilievo storico culturale non
appare, all’evidenza, suscettibile di un uso per scopi
commerciali o comunque economicamente lucrativi estranei a
finalità pubbliche nelle quali, viceversa, come previsto
dall’art. 2 della concessione, trova giustificazione
prevalente l’affidamento in uso.
Risulta dagli atti di causa e, in particolare, dalla
determinazione n. 9718, del 22.09.2010, che, stante la
necessità di provvedere a un servizio di gestione del bene
per garantirne la fruibilità e l’accesso al pubblico ed
evitare atti vandalici e il nuovo degrado del sito, è stato
richiesto, con nota del 27.07.2010, alle associazioni
interessate di presentare un progetto di gestione e utilizzo
della Chiesetta Aragonese.
Entro i termini stabiliti nella nota di cui sopra, hanno
partecipato alla selezione l’Associazione ISARDI e
l’Associazione CUM - Centro Universitario Musicale: al
progetto presentato dalla prima Associazione è stato
attribuito il punteggio di 8/10 e quello presentato dalla
seconda è stato valutato con il punteggio di 7/10 (doc. 83 e
84 allegati alla citazione). Si legge nella parte motiva
della determinazione che il progetto dell’Associazione
ISARDI è stato ritenuto meglio rispondente alle esigenze
dell’Amministrazione … in quanto prevede numerose attività,
non incentrate su un unico argomento, ma diversificate e
spazianti in più discipline, che, pur rispettando il valore
storico culturale del sito, rendono lo stesso maggiormente
fruibile da una molteplicità di cittadini.
Nella convenzione stipulata con
l’Associazione e approvata con il provvedimento in esame
–il quale prevede espressamente che la concessione del sito
non comporta oneri di alcun genere per l’Amministrazione
Comunale– viene stabilito che il
concessionario è obbligato:
- a garantire l’apertura al pubblico
dell’edificio della Chiesa Aragonese nei giorni e per le ore
previsti dal calendario concordato con il Servizio Cultura
del Comune, nonché in occasione di manifestazioni culturali,
e a presentare trimestralmente allo stesso Servizio una
dettagliata relazione sull’attività svolta e sul numero dei
visitatori (art.
2);
- a gestire gli impianti a servizio dei
locali concessi, assicurando la piena efficienza e
funzionalità degli impianti stessi e assumendo a proprio
carico la relativa responsabilità sia nei confronti del
Comune che dei terzi
(art. 5, c. 1);
- a farsi carico di tutte le spese
occorrenti al funzionamento della struttura: fornitura
dell’energia elettrica, riscaldamento, acqua potabile,
pulizia, rimozione dell’immondizia, e ogni altra spesa
necessaria all’esercizio stesso e, infine, a dotarsi di
arredi e attrezzature consone al sito e previa approvazione
del Servizio (art.
5, c. 2 e 3).
In convenzione si prevede, infine,
l’utilizzazione dell’immobile, oltre che per le finalità
culturali di cui all’art. 2, anche per le finalità
istituzionali dell’Associazione e per la realizzazione del
programma di attività culturali e didattiche presentato ai
fini della concessione
(art. 3): attività queste di interesse
dell’ente locale e svolte o da svolgersi senza oneri a
carico del Comune.
Nel periodo di circa un anno di vigenza della concessione,
l’Associazione interessata ha sostanzialmente assolto agli
obblighi dedotti in convenzione. In ogni caso, nessuno
specifico addebito è stato mosso al riguardo da parte
attrice, fatta eccezione per le spese relative alla
fornitura di energia elettrica sostenute dal Comune nel
periodo, a causa della mancata voltura dell’utenza: spese
che, peraltro, non sono state quantificate né hanno formato
oggetto della pretesa risarcitoria.
Il concreto soddisfacimento delle finalità della concessione
si evince proprio dalla determinazione n. 10218, in data
12.10.2011, di revoca della convenzione, nelle cui premesse
si da atto che con nota del 23.09.2011 era stato contestato
all’associazione il mancato rispetto delle prescrizioni di
cui agli artt. 2 e 3 della convenzione citata e, in
particolare, la mancata apertura della chiesa per diversi
giorni nella settimana dal 12 al 17.07.2011 e nei giorni 6 e
07.09.2011, senza previa tempestiva comunicazione al
pubblico e al Servizio del Comune concedente, e la mancata
presentazione della relazione trimestrale.
In disparte la considerazione che tali osservazioni sono
state formulate nell’imminenza del provvedimento di revoca
della concessione e, probabilmente proprio in funzione della
determinazione stessa, mentre in precedenza non risulta che
sia stato formulato alcun rilievo circa la regolarità e la
correntezza del servizio, vi è da dire che la mancata
apertura al pubblico del monumento per soli otto giorni
nell’arco di un anno, non appare sicuro indice di ulteriori
gravi inadempienze dell’Associazione nell’esecuzione del
rapporto concessorio.
Oltretutto, per quanto riguarda la gestione dell’immobile,
dalla relazione, in data 04.04.2012, redatta dal funzionario
tecnico incaricato dal Comune di verificare lo stato d’uso e
manutenzione del sito, emerge che, a parte la presenza di
macchie di umidità e di distacchi di tinteggiatura
all'interno della struttura e la rottura del vetro della
finestra del box esterno all’edificio (già esistente), non
sono stati rilevati danni dovuti all'uso rispetto alla
situazione del sito constatata all’atto della consegna
dell’01/10/2010.
Per quanto riguarda il danno erariale, che la Procura
attrice ha quantificato in € 13.041,60, pari alla somma
dovuta al Comune nel periodo intercorrente dal 24.09.2010 al
24.04.2012, sulla base della stima peritale redatta dal
tecnico del competente Servizio dell’Ente, la difesa ne ha
eccepito l’infondatezza, contestando l’asserita gratuità
della concessione d’uso del bene comunale perché l’obbligo
di pagare un canone era sostituito dall’onere a carico del
concessionario di effettuare molteplici prestazioni a favore
dell’amministrazione comunale, gran parte delle quali erano
estranee alle spese gestionali ordinarie e ai compiti di
ordinaria manutenzione, rappresentando attività che,
altrimenti, avrebbero dovuto essere svolte dal Comune, con
accollo dei relativi costi.
In ogni caso, ha dedotto la sua non attualità, in quanto il
Comune potrebbe ancora pretendere dall’associazione il
pagamento del proprio credito, non essendo ancora
intervenuto il termine prescrizionale dei cinque anni. Tale
ultima argomentazione non è conferente, ove appena si
consideri che, essendo stata espressamente prevista dal
provvedimento di approvazione della convenzione la gratuità
dell’assegnazione, nessun credito può vantare il Comune nei
confronti dell’associazione.
E’ viceversa coerente con la realtà, risultante dagli atti
di causa, l’assunto della sostanziale onerosità della
concessione.
Si è detto in precedenza che, in ragione
delle sue peculiarità storiche e culturali, il monumento
denominato Chiesetta Aragonese non è affatto assimilabile ad
immobile suscettibile di redditività e/o da destinare a
scopi economicamente lucrativi, rilevando piuttosto finalità
di fruizione pubblica. E’, dunque, fuor di dubbio che con la
sua concessione d’uso il Comune ha conseguito (o si è
ripromesso di conseguire per la durata della concessione) un
risparmio in termini di spese di gestione, di custodia e di
manutenzione del sito, specie con riguardo alle spese del
personale necessario per il compimento di tali attività,
raggiungendo nello stesso tempo lo scopo di consentire la
visita del monumento e di impedire atti vandalici e un nuovo
degrado del sito (considerata anche la sua recente
ristrutturazione).
La forma concessoria adottata si è rivelata
funzionale a garantire la cura del bene, a consentirne la
fruizione pubblica e a realizzare iniziative culturali e
sociali, senza alcun onere per le finanze dell’Ente.
Si può, pertanto, fondatamente ritenere che
la concessione di cui si tratta, ancorché conferita a titolo
formalmente gratuito, non sia stata priva di congruo
corrispettivo per la parte pubblica, in quanto sono stati
espressamente previsti a carico del concessionario servizi e
attività di utilità pubblica, e obblighi di gestione e di
manutenzione ordinaria e straordinaria dell’immobile
sicuramente comportanti oneri quantificabili anche
monetariamente.
Sotto questo profilo, nell’affidamento
della gestione della Chiesetta Aragonese all’Associazione
culturale ISARDI non è ravvisabile alcun danno patrimoniale
per l’amministrazione comunale, atteso che, come si è detto
più volte, l’amministrazione comunale, da un lato, ha potuto
soddisfare l’interesse alla fruizione pubblica del sito e,
dall’altro, ha conseguito l’altrettanto rilevante obiettivo
della gestione, della vigilanza e della tutela del
monumento, delle strutture annesse e dell'area verde
circostante, senza onere alcuno a carico del bilancio del
Comune.
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, si deve,
pertanto, pronunciare il proscioglimento del convenuto dalla
domanda attrice (Corte dei
Conti, Sez. giurisdiz. Sardegna,
sentenza
16.09.2013 n. 234). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA:
Automatizzazione al catasto. Variazioni con
registrazione immediata negli archivi.
Circolare dell'Agenzia delle entrate sulle
funzionalità del nuovo software Pregeo.
Procedimento di registrazione delle variazioni in catasto
terreni senza alcun intervento manuale, ma totalmente
automatizzato.
L'Agenzia delle entrate -direzione centrale catasto e
cartografia- ha presentato le funzionalità del nuovo
software (Pregeo 10.6) con la
circolare 29.12.2014 n. 30/E, che si
affianca alla procedura di approvazione automatica degli
atti di aggiornamento del catasto terreni, con contestuale
aggiornamento della mappa e dell'archivio censuario.
La precedente versione del software (10.5.0) si basava
sull'uso delle cosiddette «tipologie codificate» che
permettevano la predisposizione degli atti di aggiornamento,
solo nella metà dei casi, mentre la nuova versione permette
di registrare le variazioni al catasto terreni (CT) in
maniera totalmente automatica, evitando interventi manuali e
partendo dalla proposta del professionista tecnico,
dall'estratto di mappa e dal modello per il trattamento dei
dati censuari.
La nuova versione, da utilizzare per gli atti a far data dal
prossimo 02/01/2015, prevede l'esecuzione di tutti i
controlli, di natura formale e sostanziale, implementati e
consolidati, rispetto alla versione precedente, con
l'immediata registrazione degli esiti negli archivi
catastali, con la conseguenza che il nuovo programma,
garantisce un più elevato grado di automatizzazione,
semplificazione e trasparenza.
I professionisti tecnici, attualmente, devono presentare gli
atti di aggiornamento del catasto terreni, riferibili al
frazionamento, ai tipi di mappali per i nuovi fabbricati e
quant'altro, utilizzando un software che permette di inviare
le domande direttamente dallo studio, evitando lo
spostamento fisico dello stesso presso gli uffici
periferici; detta situazione è possibile, però, per un
numero ridotto di variazioni.
La versione in commento, invece, riconosce le variazioni
proposte e procede, in via del tutto automatica, alla
registrazione della generalità delle variazioni, garantendo
la completa trattazione delle dette variazioni catastali
riferibili ai terreni, con la contestuale registrazione (e,
di conseguenza, con contestuale aggiornamento) degli esiti
negli archivi catastali.
Per alcuni particolari atti di aggiornamento, la procedura
non risulta in grado di discriminare automaticamente i dati
da riportare nel modello, con la conseguenza che, una volta
che il modello risulta generato ma non coerente con la
variazione richiesta, il professionista potrà comunque
eseguire le necessarie correzioni, attenendosi a quanto
indicato in altro documento di prassi (circ. 3/T/2009).
Infine, l'Agenzia evidenzia che il modello destinato al
trattamento dei dati censuari, generato in automatico dal
software evoluto, resta una mera utility a disposizione del
professionista e che la responsabilità, sulla corretta
compilazione del modello, resta sempre in capo al redattore
stesso
(articolo ItaliaOggi del 30.12.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Ok al Mud del 2015, presentazione al 30 aprile.
Approvato il modello unico di dichiarazione ambientale (Mud)
per l'anno 2015. Vi provvede il dpcm 17.12.2014 (in Gazzetta
Ufficiale n. 299 del 27.12.2014, supplemento ordinario n.
97).
Il nuovo modello è stato adottato per consentire di
acquisire i dati relativi ai rifiuti di tutte le categorie
di operatori (Raee, rifiuti di imballaggi, accumulatori,
rottami metallici, rottami di vetro e di rame ecc.), in
attuazione anche della più recente normativa europea.
Il modello, che va a sostituire quello approvato con il dm
12.12.2013, dovrà essere utilizzato per le dichiarazioni da
presentare, entro il 30.04.2015, con riferimento all'anno
2014 e sino alla piena entrata in operatività del Sistri,
che, secondo quanto stabilito dal dm 20.03.2013, è scattata
con un calendario diversificato per tipologia di soggetti:
dal 01.10.2013 per i soli gestori, intermediari e
commercianti di rifiuti speciali pericolosi e per i nuovi
produttori di rifiuti pericolosi e dal 03.03.2014 per i
produttori iniziali di rifiuti pericolosi e per i comuni e
le imprese di trasporto di rifiuti urbani nella regione
Campania.
Il modello Mud va presentato presso la camera di commercio
competente per territorio, in cui ha sede l'unità locale,
cui si riferisce la dichiarazione. Il nuovo modello Unico di
dichiarazione ambientale è diviso in sei comunicazioni:
rifiuti, veicoli fuori uso, imballaggi, rifiuti da
apparecchiature elettriche ed elettroniche, rifiuti urbani e
assimilati e produttori di apparecchiature elettriche ed
elettroniche.
I soggetti che svolgono attività di solo trasporto e gli
intermediari senza detenzione devono invece presentare il
Mud alla camera di commercio della provincia nel cui
territorio vi è la sede legale dell'impresa cui la
dichiarazione si riferisce. Deve essere presentato un Mud
per ogni unità locale che sia obbligata dalla normativa
vigente
(articolo ItaliaOggi del 30.12.2014). |
ENTI LOCALI - TRIBUTI:
Lo scuolabus non è un autobus E la pubblicità è
vietata. Il ministro dei trasporti:
per farla serve una legge.
Non è possibile tappezzare gli scuolabus con pubblicità di
terzi a titolo oneroso perché il servizio di trasporto degli
alunni non ricade tra quelli ammessi nella deroga di legge
per taxi, noleggio con conducente, autobus e tram.
Il comune dovrà quindi attrezzarsi diversamente per
recuperare preziose risorse da dedicare al trasporto degli
alunni.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere
n. 4760/2014.
Un comune ha richiesto chiarimenti al dipartimento per i
trasporti terrestri sull'opportunità di collocare impianti
pubblicitari sugli scuolabus. A parere dell'organo tecnico
centrale questa pratica che potrebbe consentire ai comuni di
recuperare qualche risorsa di vitale importanza per le
economie scolastiche non è ancora ammessa dalla legge.
Ovvero completamente affrancata dai laccioli della
burocrazia.
Il codice stradale infatti ammette la possibilità di
effettuare pubblicità sui veicoli a titolo oneroso solo in
pochi casi. Tra questi ricadono i mezzi adibiti al trasporto
pubblico di linea di persone come autobus, tram e
metropolitane. Oppure taxi e veicoli a noleggio con
conducente disciplinati alla legge n. 21/1992. Ma non è
certo il caso degli scuolabus di proprietà comunale che
effettuano un trasporto di alunni in conto proprio.
Questa attività a parere dell'estensore non risulta
assimilabile ad alcuna delle categorie esentate dal generico
divieto di effettuazione di pubblicità onerosa per conto
terzi sui mezzi di trasporto. Anche se lo spirito della
legge in fondo potrebbe comunque essere rispettato, il
ministero non se la sente di forzare il rigido dettato
normativo ammettendo la possibilità di allestire impianti
pubblicitari a pagamento sugli scuolabus comunali.
Resta anche vero che la creatività degli amministratori
locali spesso oltrepassa di gran lunga il dettato normativo.
Dall'altra parte però il ministero guidato da Maurizio Lupi
non ha un interesse diretto e la sensibilità necessaria per
ammettere di allargare le maglie della legge con un parere.
Senza una modifica normativa, conclude la nota, sugli
scuolabus non si possono vendere spazi pubblicitari mentre
sui tram, sui veicoli ncc, sugli autobus e sui taxi si. E
pure sui veicoli delle onlus
(articolo ItaliaOggi del 30.12.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Catasto terreni più semplice.
Dal 2 gennaio diventa obbligatoria la versione evoluta di
Pregeo.
I chiarimenti delle Entrate. La circolare che illustra le
caratteristiche della nuova procedura di aggiornamento.
Nuove
procedure per il Catasto. Dal 2 gennaio diventa infatti
obbligatoria la procedura Pregeo 10 versione 10.6.0. I
chiarimenti sulla procedura sono stati forniti ieri
dall’agenzia delle Entrate con la
circolare 29.12.2014 n. 30/E.
Pregeo è la procedura informatica che l’agenzia delle
Entrate mette a disposizione dei professionisti per
predisporre gli atti di aggiornamento geometrico del Catasto
terreni, con la finalità di aggiornare la mappa catastale in
occasione delle nuove costruzioni ovvero per il
frazionamento di particelle di terreni, in vista di una
vendita parziale.
La release attualmente in uso della
procedura Pregeo 10 (Versione 10.5.1), rilasciata già da
circa quattro anni, ha costituito una svolta storica, un
vero cambio di filosofia in tema di approvazione degli atti
di aggiornamento cartografico. La novità ha riguardato
l’approvazione in automatico dei documenti di aggiornamento,
senza intervento manuale dell’operatore, e, tutto ciò, in
una delle operazioni tecniche più complesse dell’attività
catastale. Tuttavia la casistica dei tipi di aggiornamento,
molto articolata, nella prima fase di automazione del
processo ha consentito l’approvazione in forma completamente
automatica solo per il 50% dei casi.
Per incrementare
ulteriormente la quota percentuale di atti trattabili in
automatico è stato cambiato l’approccio del procedimento di
classificazione dei tipi. La nuova tassonomia degli atti
viene generata sulla base dell’enucleazione delle operazioni
catastali effettuate dall’atto di aggiornamento dall’insieme
delle possibili operazioni definite a priori:
-
demolizione di un fabbricato annesso a una particella o di
porzione di fabbricato;
-
demolizione totale di un fabbricato;
-
ampliamento di un fabbricato esistente;
-
inserimento di un nuovo fabbricato;
-
frazionamento di particelle;
-
fusione di particelle o di derivate di particelle;
-
aggiornamento di linee varie, simboli o testi;
-
aggiornamento relativo a subalterni di fabbricati rurali.
In particolare, la nuova procedura enuclea le operazioni
catastali contenute implicitamente in un atto di
aggiornamento sulla base del confronto di tipo geometrico
tra la “proposta di aggiornamento cartografico”, che il
professionista produce durante la predisposizione dell’atto
e l’estratto di mappa. Contestualmente la procedura esplica
tutti i controlli che competono alla tipologia determinata.
Resta semplificata anche l’attività del professionista cui è
demandato esclusivamente il compito di selezionare una
“macro categoria”, preventivamente alla disposizione
dell’atto, secondo uno schema ad albero, controllato dalla
procedura che è Ordinaria, Semplificata o Speciale.
La nuova
procedura nasce a coronamento di una sperimentazione
condotta in collaborazione con categorie professionali e
agenzia delle Entrate che ha coinvolto per i primi sei mesi
del 2014, cinque uffici provinciali–territorio. La nuova
procedura comprende tutti i controlli, formali e
sostanziali, già implementati nella vecchia procedura e
ormai funzionanti con un elevato grado di efficienza, oltre
a nuovi controlli e funzionalità aggiunte.
A partire dal 01.07.2014, la sperimentazione è stata estesa su tutto il
territorio nazionale e, quindi, è già stato possibile
presentare, facoltativamente, gli atti di aggiornamento
redatti con la nuova versione di Pregeo. Il nuovo sistema di
aggiornamento diventerà obbligatorio dal 02.01.2015 (articolo Il Sole 24 Ore del
30.12.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Restyling completo per il «Mud» 2015.
Ambiente. Rinnovato il modello di dichiarazione.
Anche il 2015
avrà un Mud (Modello unico di dichiarazione ambientale)
tutto nuovo. Risiede nel Dpcm 17.12.2014 («Gazzetta
Ufficiale» 299 del 27 dicembre) e sostituisce integralmente
il Dpcm 12.12.2013. Pertanto, per le dichiarazioni
effettuate entro il 30.04.2015 (e comunque «sino alla
piena entrata in operatività del Sistri») alle competenti Cciaa, per i rifiuti prodotti e gestiti nel 2014 e le
apparecchiature elettriche ed elettroniche (Aee) immesse sul
mercato, le imprese useranno questo nuovo modello. Dal 19.01.2015 sarà online la nuova versione del registro
nazionale dei produttori di Aee.
Le novità
Il nuovo Mud presenta le seguenti principali novità: i
cantieri temporanei o mobili (anche di bonifica) possono
utilizzare il modulo RE per i rifiuti prodotti fuori
dell’unità locale; gli imballaggi possono essere indicati
non solo con il codice 15 ma anche il 20. In tal modo il Mud
è stato costretto a prendere atto di un errore grave ma
molto diffuso nelle autorizzazioni. Inoltre, vanno
dichiarate solo le operazioni di recupero e di smaltimento
diverse da R13 (messa in riserva) e D15 (deposito
preliminare), successive a esse, poiché la loro indicazione
duplicava le quantità dichiarate. Le giacenze presenti nelle
operazioni R13 e D15 vanno divise, a beneficio dei bilanci
di massa.
In attesa del Sistri
Il Mud resta un punto fermo nella tracciabilità dei rifiuti
nonostante il clamore suscitato dal Sistri che aveva creato
non poca confusione anche sulle sanzioni relative al Mud,
poi chiarita dal Dl 101/2013. L’articolo 11 di questo
decreto legge ha modificato l’ambito di applicazione del
Sistri e previsto nuovi termini per l’adesione dei nuovi
obbligati. Quindi, fino alla piena operatività del Sistri,
il Mud dovrà essere presentato sia dai soggetti non
obbligati ad aderire al Sistri sia da quelli obbligati (si
veda la circolare del ministero dell’Ambiente 1/2013 sul
Sistri).
L’invio del Modello
Anche quest’anno il Mud è articolato in sei comunicazioni:
rifiuti; veicoli fuori uso; imballaggi (sezione Consorzi e
sezione Gestori rifiuti di imballaggio); rifiuti da
apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee); rifiuti
urbani, assimilati e raccolti in convenzione; produttori di
apparecchiature elettriche ed elettroniche (Aee).
Destinataria del Mud è la Cciaa della provincia ove ha sede
l’unità locale cui è riferita la dichiarazione (chi effettua
solo trasporto e gli intermediari senza detenzione lo
presentano alla Cciaa della provincia in cui l’impresa ha la
sede legale). Va presentato un Mud per ogni unità locale.
L’invio è esclusivamente telematico a eccezione della scheda
semplificata che può essere utilizzata da soggetti che,
nell’unità locale cui è riferita la dichiarazione, producono
fino a sette tipologie di rifiuti e, per ogni rifiuto, usano
non più di tre trasportatori e tre destinatari. In questo
caso è possibile scegliere fra trasmissione telematica e
cartacea (raccomandata senza ricevuta di ritorno). Le
dichiarazioni telematiche sono soggette al pagamento di un
diritto di segreteria pari a 10 euro per ogni unità locale
dichiarante (15 euro per le dichiarazioni su carta). Per la
comunicazione Aee non sono previsti diritti di segreteria.
Per la trasmissione telematica i dichiaranti devono
possedere un dispositivo contenente un certificato di firma
digitale (Smart Card o Carta nazionale dei Servizi o
Business Key). Se, nel 2014, non sono state effettuate
attività per le quali è prevista la comunicazione, non
occorre presentare un Mud in bianco (articolo Il Sole 24 Ore del
30.12.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Gestione rifiuti, regole chiare. Sanzioni solo per le
attività oggetto di irregolarità. In una circolare del Comitato nazionale dell'Albo le
indicazioni sulla nuova disciplina.
Piena valenza del provvedimento di sospensione condizionale
della condanna penale per l'iscrizione all'Albo, validità
temporale dell'autocertificazione per l'utilizzo immediato
di nuovi veicoli e sua esclusione per variazioni dei rifiuti
trasportati, limitazione delle sanzioni alle sole attività
oggetto di irregolarità.
Con la prima circolare sul dm MinAmbiente 120/2014 il
Comitato nazionale dell'Albo gestori ambientali fornisce le
indicazioni sulla nuova disciplina che dallo scorso 07.09.2014 interessa sia le imprese di raccolta,
trasporto, intermediazione e commercio di rifiuti che quelle
di bonifica dei siti inquinati.
Requisiti per l'iscrizione. La circolare 15.12.2014 n.
1140 chiarisce innanzitutto la valenza delle nuove
disposizioni di favore recate dall'articolo 10 del nuovo dm
120/2014 per l'iscrizione all'Albo da parte dei suddetti
soggetti che hanno riportato condanne penali.
In particolare, il Comitato nazionale precisa come in
presenza di condanna ostativa all'iscrizione, ma munita del
beneficio della sospensione condizionale della pena ex
articolo 166 del codice penale, la sezione dell'Albo debba
procedere all'iscrizione anche, dunque, se ancora non è
intervenuta l'estinzione del reato ai sensi del successivo
articolo 167 per il mancato decorso dei necessari termini
(previsto dal precedente articolo 163).
Tra le altre e nuove ipotesi di favore, si ricorda che il dm
120/2014 ammette l'iscrizione all'Albo anche nei casi in cui
siano decorsi almeno dieci anni dal passaggio in giudicato
della sentenza penale di condanna così come esclude tra le
cause di cancellazione l'intervenuta soggezione a stato di
liquidazione o di procedura concorsuale d'insolvenza
(rilevanti solo ai fini di prima iscrizione dell'impresa).
Variazioni. Il Comitato nazionale chiarisce i termini
dell'operatività delle variazioni relative a parco mezzi e
sede legale comunicate all'Albo. In relazione ai veicoli
preposti al trasporto rifiuti, l'articolo 18 del dm 120/2014
sancisce infatti che l'immediato utilizzo di nuovi mezzi sia
possibile previa comunicazione all'Albo a mezzo di
dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà ex dpr
445/2000 redatta secondo il modello adottato dal Comitato
nazionale (con delibera 03.09.2014 n. 5).
Tale
dichiarazione, ricorda però la circolare: è valida (ai sensi
della citata delibera) per un periodo massimo di 60 giorni
dalla data della sua presentazione; è utilizzabile solo per
modifiche della dotazione dei veicoli e non per le
variazioni relative ai codici «Eer» (ossia dei codici
previsti dall'«Elenco europeo rifiuti», allegati alla parte
IV del dlgs 152/2006 e meglio noti come codici «Cer»); non è
suscettibile di proroga e la sua scadenza senza
l'intervenuta delibera di variazione della competente
sezione locale (che pur deve pronunciarsi sul caso con
urgenza e precedenza) comporta la cancellazione del veicolo
dall'Albo (dunque, con l'impossibilità di poterlo
legittimamente utilizzare per il trasporto dei rifiuti).
In
relazione, invece, alla variazione per trasferimento della
sede legale dell'azienda chiarisce il Comitato nazionale
come sia sufficiente la comunicazione tramite «Pec» (ossia
via posta elettronica certificata) alla sezione regionale
del Registro delle imprese del territorio di destinazione.
La validità di tale dichiarazione anche ai fini della
variazione dell'iscrizione all'Albo gestori ambientali è
evidentemente fondata sul comma 3 del citato articolo 18 del
dm 120/2014, ove si stabilisce come «le variazioni
effettuate al registro delle imprese (_) relative alle
variazioni della ragione sociale, della sede legale, degli
organi sociali, delle trasformazioni societarie e delle
cancellazioni si intendono effettuate anche alla sezione
regionale competente e sono trasmesse d'ufficio per via
telematica dal registro delle imprese (_) alla sezione
regionale stessa che provvede entro 30 giorni a recepire le
modifiche dandone comunicazione alle imprese o agli enti
interessati».
Provvedimenti disciplinari. La circolare 1140/2014 precisa
come il mancato pagamento del diritto annuo d'iscrizione nei
termini previsti (ossia, entro il 30 aprile di ogni anno)
comporti, ai sensi del combinato disposto degli articoli 20
e 24 del dm 120/2014, in primis la sospensione dall'Albo
(dunque, con la conseguente impossibilità di effettuare
legittimamente le relative attività di gestione rifiuti) ed
eventualmente, laddove permanga per oltre 12 mesi
dall'adozione di tale prima sanzione, la cancellazione dallo
stesso.
Al riguardo l'Albo sottolinea come il computo del
suddetto termine (di 12 mesi) vada applicato anche ai
provvedimenti di sospensione intervenuti prima dell'entrata
in vigore del nuovo dm 120/2014 (dunque, ante 07.09.2014).
Le sanzioni, precisa però il Comitato nazionale,
devono essere irrogate esclusivamente per le attività svolte
nell'ambito della categoria d'iscrizione in relazione alla
quale si riscontrano irregolarità, per cui (si ritiene ad
avviso dello scrivente) i relativi provvedimenti inibitori
(di sospensione o cancellazione) non potranno riguardare le
eventuali categorie d'iscrizione in relazione alle quali
nessuna contestazione è opponibile. Ricordiamo infatti che
ai sensi del citato articolo 24, il diritto annuale è
declinato sulle diverse categorie di attività previste dal
dm 120/2014.
La nuova disciplina Albo gestori ambientali. Come anticipato
in apertura, dal 07.09.2014 le nuove regole sull'Albo
sono quelle sancite dal dm MinAmbiente 03.06.2014, n.
120, adottato in attuazione del dlgs 152/2006 (cosiddetto
«Codice ambientale») e pubblicato sulla G.U. 23.08.2014
n. 195, regolamento che da tale data sostituisce l'omonima
disciplina recata dal dm 28.04.1998 n. 406.
Al centro delle novità vi sono la telematizzazione delle
procedure burocratiche, l'obbligo di verifica permanente
delle capacità tecniche dei «responsabili tecnici» della
corretta gestione dei rifiuti, l'upgrade del novero dei
soggetti obbligati all'iscrizione, con l'aggiunta di tre
nuove categorie: «3-bis» (distributori, installatori di
apparecchiature elettriche ed elettroniche, trasportatori
dei relativi rifiuti ex dm 65/2010); «6» (trasporto
transfrontaliero di rifiuti); «7» (operatori logistici del
trasporto intermodale rifiuti).
E in tema di categorie
d'iscrizione si ricorda come con parere 954/2014 l'Agenzia
delle entrate abbia proprio negli scorsi giorni precisato
che la tassa governativa ex dpr 641/1972 è dovuta per ogni
singola attività di gestione rifiuti autorizzata dall'Albo
gestori ambientali (si veda ItaliaOggi Sette del
15/12/2014).
A dare attuazione alle nuove regole del Dm 120/2014 hanno
invece fino a oggi provveduto già ben otto delibere del
Comitato nazionale (si veda la tabella riportata in questa
stessa pagina, e a mente dello stesso decreto ministeriale,
per quanto da essere non previsto, continueranno comunque a
valere, fino all'adozione delle ulteriori disposizioni di
dettaglio, le compatibili e omonime norme adottate in base
alla pregressa disciplina (ossia, sotto il citato dm
406/1998)
(articolo ItaliaOggi Sette del
29.12.2014). |
CONDOMINIO: Telecamere, obiettivo sicurezza. Sì alla videosorveglianza
nei limiti dettati dalla privacy. Sul tema è intervenuta di recente anche la Corte di
giustizia Ue (causa C-212/13).
Telecamere consentite in condominio ma soltanto allo scopo
di tutelare la sicurezza delle persone e dei beni, con
ridotto ambito visivo e con il rispetto degli adempimenti
preliminari indicati dall'Autorità garante.
Una delle novità più innovative contenute nella legge di
riforma del condominio n. 220 del 2012 è stata quella che ha
legittimato l'installazione di impianti di videosorveglianza
sulle parti comuni e che ha specificato il procedimento
necessario per adottare tale soluzione. Infatti in
precedenza la videosorveglianza in ambito condominiale non
aveva una normativa specifica di riferimento e aveva
addirittura condotto alcuni giudici a negare la possibilità
delle videoriprese.
Tale lacuna normativa era stata segnalata dall'Autorità
garante della privacy, che aveva in più occasioni
evidenziato al governo e al parlamento l'assenza di una
puntuale disciplina capace di risolvere alcuni problemi
applicativi evidenziati nell'esperienza degli ultimi anni.
Non era risultato chiaro infatti se, pur applicando i
principi generali, l'installazione di sistemi di
videosorveglianza potesse essere decisa dai soli condomini o
se fosse necessario coinvolgere anche i conduttori del
caseggiato. In ogni caso il problema centrale era sempre
stato quello dell'individuazione del numero di voti
necessario per la relativa delibera assembleare, non essendo
chiaro se per l'installazione di detto impianto occorresse
l'unanimità o fosse sufficiente una determinata maggioranza.
Secondo una decisione di un giudice di merito l'assemblea di
condominio non avrebbe nemmeno potuto validamente deliberare
in materia, in quanto lo scopo della tutela dell'incolumità
delle persone e dei beni di proprietà dei condomini non
sarebbe rientrato tra le attribuzioni dell'organo
assembleare. Un'altra decisione di merito aveva poi
sottolineato che il singolo condomino, in mancanza di una
normativa ad hoc, non avrebbe avuto alcun potere di
installare, per sua sola decisione, delle telecamere idonee
a riprendere spazi comuni o addirittura spazi esclusivi di
proprietà di altri condomini.
Come detto la legge n. 220/2012 ha infine risolto ogni
dubbio sulla possibilità di effettuare riprese video nelle
parti comuni del condominio e ha confermato come le
deliberazioni concernenti l'installazione di impianti volti
a consentire la videosorveglianza possano essere approvate
dall'assemblea con un numero di voti che rappresenti la
maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore
dell'edificio (art. 1136, comma 2, c.c.). L'assemblea quindi
può certamente deliberare di introdurre nuovi impianti volti
a garantire i beni (comuni e individuali) ma anche
l'incolumità degli stessi condomini o loro familiari.
Nel votare la delibera in questione l'assemblea deve
comunque operare per il solo raggiungimento delle finalità
di tutela delle persone e dei beni comuni e non avere di
mira altri obiettivi che, viceversa, renderebbero il
trattamento dei dati intrinsecamente illegittimo (si pensi,
ad esempio, alla concorrente normativa sui c.d. atti
emulativi, ovvero su quelle attività poste in essere
all'unico o prevalente scopo di arrecare fastidio a terzi).
In casi del genere, come anche nel caso in cui l'assemblea
decidesse di non porre in essere gli adempimenti previsti
dalla legge e dei quali si dirà a breve, la delibera
favorevole all'installazione dell'impianto, anche se
approvata con la maggioranza di legge, potrebbe risultare
invalida.
Infatti l'amministratore di condominio, munito della
predetta deliberazione assembleare, è tenuto ad adottare
tutte le cautele previste dal provvedimento generale
dell'Autorità garante per la protezione dei dati personali
in materia di videosorveglianza dell'8 aprile 2010
(pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 99 del 22 aprile
2010). In particolare quest'ultimo è tenuto ad affiggere un
cartello informativo in un luogo visibile e aperto al
pubblico (si tratta di un facsimile che rappresenta il
disegno di una telecamera e che contiene un'informativa
semplificata e che si può scaricare dal sito internet della
medesima Authority, all'indirizzo www.garanteprivacy.it).
Detto avviso deve comunque essere integrato con almeno
un'altra informativa maggiormente circostanziata che informi
gli interessati circa le finalità delle riprese e
l'eventuale conservazione delle immagini, da collocarsi
sempre in un luogo di pubblico accesso, ad esempio
all'ingresso della portineria.
Nel caso in cui si decida di conservare le immagini riprese
dal sistema di videosorveglianza (scelta che richiede
l'implementazione di un'organizzazione specifica da parte
dell'amministratore) occorre poi stabilire i tempi minimi di
conservazione delle immagini (consentita, in ogni caso, per
un massimo di 24 ore) e individuare il personale abilitato a
visionare le stesse con atto di nomina di responsabile e
incaricato del trattamento. In questo caso occorre inoltre
anche chiedere all'Autorità garante la verifica preliminare
dell'impianto qualora si ricada in uno dei casi particolari
previsti dal predetto provvedimento generale.
L'inosservanza degli adempimenti in questione, oltre
all'eventuale invalidità della delibera assembleare, può
quindi condurre a responsabilità amministrative e perfino
penali in capo all'amministratore condominiale
(dettagliatamente previste dal dlgs 196/2003 per
l'illegittimo trattamento dei dati personali), oltre che
esporre i condomini a richieste di risarcimento da parte di
eventuali soggetti danneggiati.
Fermo quanto sopra, una volta ottenuta una valida
deliberazione assembleare che autorizzi l'installazione
dell'impianto, va da sé che per la rilevazione delle
immagini non sia più necessario richiedere e ottenere il
previo consenso dei condomini dissenzienti, degli inquilini
e degli altri soggetti terzi frequentatori dell'edificio
condominiale, perché le riprese in questione avranno come
obiettivo la tutela della sicurezza delle persone e dei beni
comuni, cioè di interessi che la legge, con l'utilizzo delle
precauzioni di cui sopra, considera prevalenti rispetto al
diritto alla riservatezza dei soggetti eventualmente
ripresi.
I singoli condomini possono poi liberamente installare delle
telecamere a uso privato nell'ambito della proprietà
esclusiva e delle relative pertinenze ma, in questo caso, il
raggio visuale dell'impianto deve essere limitato al
perimetro delle stesse. In caso contrario, come recentemente
ribadito dalla Corte di giustizia europea con la sentenza
dello scorso 11.12.2014 resa nella causa C-212/13, il
titolare del trattamento è tenuto a rispettare i medesimi
adempimenti di cui sopra (con particolare riferimento
all'informativa).
La sentenza in questione ha infatti indirettamente
confermato quanto già previsto dal citato provvedimento
generale dell'Autorità garante del 2010, chiarendo
ulteriormente che le videoriprese del proprietario di casa
possono considerarsi di utilizzo esclusivamente personale (e
dunque esenti dagli obblighi di legge) soltanto ove l'angolo
visuale delle riprese sia limitato agli spazi di pertinenza
esclusiva (classico l'esempio dell'area antistante
l'ingresso dell'appartamento o del box), con esclusione
delle parti comuni (cortili, pianerottoli, scale ecc.) e/o
di proprietà esclusiva di altri condomini
(articolo ItaliaOggi Sette del
29.12.2014). |
ENTI
LOCALI - VARI: CENTO «MEMO» NELL’AGENDA 2015.
Capitolo per capitolo le scadenze, i rincari e le
opportunità più rilevanti per cittadini, imprese e Pa.
Mentre le
famiglie si preparano a salutare la fine del 2014
augurandosi dodici mesi migliori, il governo -come peraltro
avviene ogni anno- si è impegnato nel gran rush finale per
portare a compimento la manovra finanziaria e i
provvedimenti collegati al Jobs act, con una serie di misure
che coinvolgono tutti, dai privati alle imprese, dai liberi
professionisti al settore pubblico. Ma le norme fissate
dalla legge di Stabilità e dai decreti approvati la scorsa
settimana non rappresentano che una parte delle tante novità
e scadenze che andranno ad affollare l’agenda 2015 degli
italiani e che derivano da altre fonti normative.
Il Sole 24 Ore -nel tradizionale lavoro di fine anno- ne
ha selezionati cento, suddividendoli in una ventina di
capitoli, dall’agricoltura ai trasporti: un nucleo di base
che è senz’altro destinato ad arricchirsi nel corso dei
prossimi mesi. Cento “memo” che comprendono rincari,
modifiche, agevolazioni, proroghe, conferme o cambi di rotta
che è bene memorizzare per non farsi cogliere impreparati ed
essere pronti a sfruttare le eventuali opportunità.
Sul fronte dei rincari, per esempio, mentre si può tirare un
sospiro di sollievo sulla Tasi e sull’Imu, è giusto
ricordare che c’è in vista un aumento delle tariffe idriche;
che le multe per le contravvenzioni stradali cresceranno a
partire proprio dal giorno di Capodanno; che sale al 20% la
tassazione sui rendimenti dei fondi complementari e che
cambiano le condizioni applicate ai minimi per le partite
Iva aperte dal 1° gennaio in poi. Sul fronte previdenziale,
stop fino al 2017 alle penalità per chi sceglie la pensione
anticipata prima dei 62 anni, ma aumento dei contributi per
agricoltori, commercianti e autonomi.
Quanto al lavoro, in
arrivo il riordino degli ammortizzatori sociali, gli sgravi
sulle assunzioni e un sistema di tutele crescenti per i
nuovi ingressi, mentre restano ancora bloccati i rinnovi
contrattuali nel pubblico impiego. Quanto all’accredito del
Tfr in busta paga sarà bene riflettere prima di richiederlo,
visto che è soggetto a tassazione ordinaria.
Tra le misure positive la proroga a tutto il 2015 dello
sconto fiscale per le ristrutturazioni edilizie e per il
miglioramento dell’efficienza energetica così come per
l’acquisto di mobili ed elettrodomestici, la stabilizzazione
del bonus Irpef di 80 euro, l’arrivo del bonus bebè e l’Iva
agevolata al 4% sugli e-book.
Ma dietro l’angolo non ci sono solo novità di tipo
economico: per esempio, chi sta per concludere le scuole
superiori deve sapere che la prossima estate cambierà
l’esame di maturità e chi si appresta ad acquistare un’auto
che da settembre entrano in vigore gli standard Euro 6 per
le nuove immatricolazioni (articolo Il Sole 24 Ore del
29.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Per i lavori l’obiettivo è la trasparenza online.
Sul sito del Comune modelli e piani urbanistici.
Procedimento amministrativo. Le informazioni reperibili per
avviare gli interventi.
Tutti on-line e
a portata di mano i documenti per edilizia e urbanistica.
È questa la conseguenza sul settore degli obblighi di
trasparenza imposti alle amministrazioni pubbliche dal
decreto legislativo 33/2013. Per effetto di questa normativa
legata all’anticorruzione, infatti, cittadini e imprese ora
devono trovare sui siti degli enti locali sia il corredo di
modelli e formulari necessari per i lavori sugli immobili,
sia tutte le cartografie e i piani urbanistici del proprio
Comune.
La trasparenza e la semplificazione risultano sempre più
legati all’uso dell’informatica e della telematica, che sono
progressivamente divenuti il principale mezzo di
facilitazione degli adempimenti burocratici per cittadini,
professionisti ed imprese.
La trasparenza costituisce oggi anche un fondamentale
strumento di contrasto dei fenomeni corruttivi e di
maladministration.
A questo scopo, sulla base di quanto previsto dalla legge
anticorruzione (la n. 190/2012), è stato emanato il Dlgs
33/2013, il cosiddetto “Codice della trasparenza”, che ha
disciplinato in modo organico gli svariati obblighi
d’inserimento in una apposita sezione dei propri siti
internet istituzionali denominata “Amministrazione
Trasparente”. Questa, a sua volta, si articola in
sotto-sezioni, ognuna caratterizzata da specifici contenuti,
ove andranno inseriti i documenti, le informazioni e i dati
previsti dai vari articoli del decreto n.33/2013.
I documenti vanno pubblicati per cinque anni, in formato di
tipo aperto -cioè in un formato che non richiede all'utente
l’utilizzo di un software a pagamento- e riutilizzabile,
tale quindi da consentire un successivo uso dei dati anche a
fini diversi da quello per cui sono stati inseriti. Ciò in
attuazione di quanto previsto dalla direttiva 2003/98/Ce
(cosiddetta direttiva Psi - Public sector information), da
noi recepita con il Dlgs 36/2006.
I modelli per l’edilizia
In particolare, l’articolo 35 stabilisce che ogni Pa debba
pubblicare in una apposita sotto-sezione tutti i dati
relativi ai procedimenti di propria competenza, inclusi
anche i modelli relativi all’attività edilizia (permesso di
costruire, Scia, Comunicazione inizio lavori e denuncia di
inizio attività).
Per ogni tipo di procedimento devono
essere pubblicate, tra l’altro: una breve descrizione, con
indicazione di tutti i riferimenti normativi utili e il
termine di conclusione; l’unità organizzativa responsabile
dell’istruttoria, il nome dei responsabili del procedimento
e del provvedimento, nonché quello del soggetto a cui è
attribuito, in caso di inerzia, il potere sostitutivo, i
relativi recapiti telefonici e casella di posta elettronica
istituzionale; l’indicazione dei procedimenti che possono
concludersi con un silenzio assenso e quelli per i quali il
provvedimento può essere sostituito da una dichiarazione
dell’interessato, come nel caso della Scia o della Dia.
Nella stessa sotto-sezione gli interessati dovranno trovare
anche: l’elenco degli atti e documenti da allegare
all’istanza, gli eventuali costi e la modulistica
necessaria, compresi i fac-simile per le autocertificazioni;
gli uffici ai quali rivolgersi per informazioni, i relativi
indirizzi, orari, modalità di accesso e recapiti telefonici,
nonché le caselle di posta elettronica istituzionale alle
quali presentare le istanze ed il link di accesso al
servizio on-line, ove sia già disponibile in rete, o i tempi
previsti per la sua attivazione.
I piani urbanistici
L’articolo 39 individua i contenuti della sotto-sezione
riguardante le attività di pianificazione e governo del
territorio, nella quale le Pa devono pubblicare i relativi
atti, tra cui i piani territoriali, i piani di
coordinamento, i piani paesistici, gli strumenti urbanistici
generali e di attuazione, nonché le loro varianti.
Per ciascuno di tali atti andranno anche pubblicati gli
schemi di provvedimento prima che siano portati
all’approvazione; le delibere di adozione o approvazione; i
relativi allegati tecnici.
La norma stabilisce che la pubblicazione è comunque
condizione per l’acquisizione dell’efficacia degli atti,
ferme restando le discipline di dettaglio previste dalla
vigente legislazione statale e regionale. Al riguardo l’Anac
(l’Autorità anticorruzione) ha chiarito che l’obbligo di
pubblicazione riguarda anche gli strumenti di governo del
territorio approvati prima dell’entrata in vigore del
decreto, tenuto conto della durata pluriennale di tali atti
e del loro impatto sulla collettività.
Ulteriore obbligo di pubblicazione nella medesima
sotto-sezione, da aggiornarsi in maniera continuativa, è poi
quello riguardante la documentazione relativa a ciascun
procedimento di presentazione e approvazione delle proposte
di trasformazione urbanistica di iniziativa privata o
pubblica in variante allo strumento urbanistico generale,
comunque denominato, nonché delle proposte di trasformazione
urbanistica d’iniziativa privata o pubblica in attuazione
dello strumento urbanistico generale vigente, che comportino
premialità edificatorie a fronte dell’impegno dei privati
alla realizzazione di opere di urbanizzazione extra oneri o
della cessione di aree o volumetrie per finalità di pubblico
interesse (articolo Il Sole 24 Ore del
29.12.2014). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Accesso civico per difendersi dal black out.
Gli strumenti. In caso di mancata pubblicazione.
Il Codice
della trasparenza (Dlgs 33/2013), nel riorganizzare una
serie di norme preesistenti, non si è limitato a sancire il
diritto dei cittadini alla conoscenza di documenti,
informazioni e dati oggetto di pubblicazione obbligatoria da
parte delle Pa, ma ha anche introdotto vari strumenti volti
a garantire l’effettività di questo diritto, primo fra tutti
l’obbligo di indicare, con riferimento ai singoli
procedimenti, quali siano gli strumenti di tutela,
amministrativa e giurisdizionale, riconosciuti dalla legge
in favore dell’interessato ed in che modo attivarli. Questo
sia nel corso del procedimento, sia nei confronti del
provvedimento finale, sia nei casi di adozione del
provvedimento oltre il termine predeterminato per la sua
conclusione (articolo 35, comma 1, lettera e).
Sono state
anche previste varie forme di responsabilità, disciplinari,
dirigenziali e contabili, in capo ai dirigenti e dipendenti
preposti ai vari procedimenti, nonché sanzioni
amministrative e pecuniarie nei confronti dei soggetti
individuati da ciascuna Pa come responsabili degli obblighi
di pubblicazione. Tutte queste garanzie sono ovviamente
valide anche per la trasparenza in materia di edilizia e
urbanistica (si veda l’altro articolo in pagina) e dunque
rendono più efficace l’obbligo di pubblicare on-line i
modelli per gli interventi edilizi o le cartografie legate
agli strumenti urbanistici.
Ma lo strumento più innovativo è però costituito
dall’accesso civico, che serve a garantire l’effettività del
diritto del cittadino alla trasparenza,
Il nuovo istituto si differenzia dal diritto di accesso
disciplinato dalla legge 241/1990, che riguarda i singoli
procedimenti e coinvolge i soli soggetti interessati al
relativo iter.
L’accesso civico, ai sensi dell’articolo 5 del Codice,
costituisce invece un rimedio ed è volto a contrastare
l’omissione da parte della Pa di dati, informazioni e
documenti che la legge impone di rendere accessibili. Il
diritto dei cittadini a conoscerli viene garantito
consentendo a tutti di richiedere all’amministrazione di
pubblicare gli elementi non presenti o incompleti nelle
varie articolazioni della sezione Amministrazione
trasparente del sito istituzionale.
La richiesta di accesso civico non è sottoposta a
limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del
richiedente, non deve essere motivata, è gratuita e si
presenta al responsabile della trasparenza della Pa
obbligata alla pubblicazione dei dati, che entro trenta
giorni procederà alla pubblicazione nel sito del documento e
lo trasmetterà al richiedente. In alternativa gli
comunicherà l’avvenuta pubblicazione, indicando il
collegamento ipertestuale a quanto richiesto.
Nei casi di ritardo o mancata risposta il richiedente può
ricorrere o al titolare del potere sostitutivo, oppure
direttamente alla magistratura amministrativa, competente in
via esclusiva a conoscere delle questioni in materia di
accesso e violazione degli obblighi di trasparenza, stando
in giudizio personalmente e senza necessità di farsi
assistere da un difensore. Il giudice procederà con rito
camerale, ordinando alla Pa, se del caso, di pubblicare la
documentazione richiesta; e ciò anche nel caso in cui gli
atti siano stati formati in epoca anteriore alla data di
entrata in vigore del Dlgs n. 33/2013, come chiarito dal Tar Campania-Napoli nella sentenza del
05.11.2014 n. 5671 (articolo Il Sole 24 Ore del
29.12.2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contratti decentrati più «liberi».
Saltano i tetti del 2010 e l’obbligo di riduzione dei fondi
per le cessazioni.
Personale. Sbloccati gli effetti economici delle vecchie
progressioni, ma la base di calcolo consolida i risparmi.
A partire dal
fondo per la contrattazione decentrata del 2015 non si
applicano più né il tetto del 2010 né il vincolo della
riduzione in misura proporzionale alla diminuzione del
personale in servizio. Nel contempo i fondi dovranno
consolidare le decurtazioni operate nel quadriennio
2011/2014 sulla base delle previsioni del Dl 78/2010,
articolo 9, comma 2-bis. Ed ancora, nella determinazione del
trattamento economico accessorio del personale, dei
dirigenti e dei responsabili non si applica il tetto di
quanto percepito nel 2010.
Nonostante la mancata approvazione del nuovo tentativo di
“sanatoria” dei vecchi decentrati, che non è stato accolto
nel testo finale della legge di stabilità, le novità sono
molte e le amministrazioni possono dare corso rapidamente
all’approvazione dei fondi, anche senza attendere il varo
del bilancio preventivo, e di conseguenza potranno stipulare
già nei primi mesi il contratto collettivo decentrato
integrativo.
Sono queste le principali indicazioni che si possono trarre
in materia di contrattazione decentrata dopo la legge di
stabilità del 2015. Indicazioni che arrivano soprattutto
dalle norme che non ci sono ,cioè dai mancati interventi di
proroga di disposizioni che quindi tramontano il prossimo 31
dicembre.
Si può affermare quindi che, fermo restando il prolungamento
anche per il prossimo anno del blocco della contrattazione
nazionale per i miglioramenti economici (prolungamento del
blocco cui si accompagna l’allungamento al 2018
dell’erogazione dell’indennità di vacanza contrattuale nella
misura in godimento dal 2010), la norma offre una
possibilità di parziale attenuazione dei suoi effetti
negativi sul trattamento accessorio dei dipendenti pubblici.
Infatti vengono meno sia il tetto al trattamento economico
individuale, sia l’obbligo di restare nel tetto del fondo
2010, sia il vincolo alla riduzione dello stesso in misura
proporzionale alla diminuzione del personale in servizio,
sia il blocco degli effetti economici delle progressioni
disposte nel periodo 2011/2014. Di conseguenza, saltano il
divieto di aumentare la indennità di posizione in assenza
della attribuzione di nuovi compiti, il tetto massimo della
spesa 2010 per le indennità dei responsabili di posizione
organizzativa negli enti senza dirigenti (tetto dettato in
via interpretativa dal recente parere della sezione
autonomie della Corte dei Conti n. 26/2014) e la
impossibilità di aumentare il fondo utilizzando gli
strumenti previsti dai contratto nazionale (quali
l’inclusione della Ria e degli assegni ad personam dei
cessati, gli aumenti ex articolo 15, commi 2 e 5, del
contratto nazionale del 01.04.1999 e gli incrementi
connessi a specifiche disposizioni di legge incentivanti il
salario accessorio dei dipendenti).
legislatore si è
comunque cautelato in termini di finanza pubblica
consolidando in modo permanente i risparmi conseguiti nel
quadriennio 2011/2014: la base su cui calcolare il fondo del
2015 è quella del 2014, quindi con tutte le decurtazioni
operate in applicazione del Dl 78/2010. Le conseguenze di
questa scelta sono due: in primo luogo il fondo del 2014, al
pari di quelli del 1999 e del 2004, diventa la base di
calcolo per quelli degli anni successivi, e la costituzione
del fondo 2015 è enormemente facilitata. Basta infatti
prendere come base le risorse decentrate del 2014 di parte
stabile. Nel contempo le amministrazioni hanno la
possibilità, usando correttamente gli istituti contrattuali,
di aumentare tale importo.
Sicuramente su queste scelte pesano i nodi irrisolti, anche
dopo la sanatoria della contrattazione decentrata contenuta
nel Dl 16/2014, sia per le modalità di costituzione del
fondo e del connesso recupero delle somme illegittimamente
inserite, sia per l’erogazione in modo illegittimo di
compensi, con i dubbi sulla necessità di dover operare dei
recuperi negli enti che non hanno rispettato tutti i
parametri di virtuosità previsti dal legislatore nella
gestione del personale.
In ogni caso non vi sono più alibi
per contrattazioni decentrate tardive, che sono il più delle
volte mere prese d’atto delle scelte di ripartizione del
fondo e depotenziano la possibilità di usare i contratti
locali come strumento di miglioramento della organizzazione
e della gestione delle risorse umane (articolo Il Sole 24 Ore del
29.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Sistri, tutto rinviato a fine 2015. Sospesi i
nuovi adempimenti e le relative sanzioni.
CONSIGLIO DEI MINISTRI/ Il dl Milleproroghe concede
altri due mesi ai Tar distaccati.
Arriva la proroga per il Sistri. Slitta, infatti, al
31.12.2015 il termine entro il quale le aziende che si
occupano di trasporto e smaltimento di rifiuti pericolosi,
dovranno lasciare il vecchio sistema di gestione. I soggetti
interessati, quindi, avranno altri 12 mesi di tempo per
abbandonare il vecchio sistema di tenuta dei registri di
carico e scarico, l'aggiornamento del catasto rifiuti e le
modalità di movimentazione tradizionali. A restare in vigore
solo le sanzioni relative al vecchio sistema di
tracciabilità mentre arriva la moratoria per la mancata
attuazione delle nuove regole.
Questa una delle disposizioni contenute nel dl Milleproroghe
approvato nel corso del consiglio dei ministri che si è
svolto mercoledì 24 dicembre. Boccata d'ossigeno per gli
addetti ai lavori. Con qualche giorno di ritardo rispetto al
previsto, nei giorni scorsi è arrivata la proroga per
l'applicazione del Sistri.
In origine, infatti, lo slittamento dei termini al
31.12.2015 doveva trovare spazio nella legge di stabilità.
Ipotesi, poi, naufragata a causa dei passaggi del ddl tra
Camera e Senato. Obiettivo della proroga, quello di
«consentire la tenuta in modalità elettronica dei registri
di carico e scarico e dei formulari di accompagnamento dei
rifiuti trasportati nonché l'applicazione delle altre
semplificazioni».
A trovare spazio all'interno del Milleproroghe anche norme
relative al comparto della giustizia amministrativa. Slitta,
infatti, dal luglio a settembre 2015 la soppressione delle
sezioni staccate dei Tar con sedi in comuni che non sono
sedi di corte d'appello. Slitta, di conseguenza dal 31 marzo
al 30.06.2015 il dovere da parte del Ministero della
giustizia di stabilire le modalità per il trasferimento del
contenzioso pendente presso le sezioni che saranno
soppresse.
A seguire a ruota, inoltre, anche lo slittamento dal primo
luglio al primo settembre 2015 dell'obbligo di deposito dei
ricorsi presso la sede centrale del Tar. Sempre sul fronte
processuale è stabilito lo slittamento dal primo gennaio al
1° luglio prossimo dell'obbligo di firma digitale di tutti
gli atti e i provvedimenti del giudice amministrativo
(articolo ItaliaOggi del
27.12.2014). |
TRIBUTI:
Imu agricola nel congelatore. Zone montane,
assoluta incertezza dei criteri applicativi.
Il Tar del Lazio ha stabilito la sospensione
delle nuove regole fino al 21 gennaio.
Per l'Imu agricola, l'unica certezza è il caos. A rendere
ancora più nebuloso il quadro è intervenuto, due giorni
prima di Natale, il decreto del presidente del Tar Lazio,
che ha congelato il dm del 28 novembre scorso con il quale è
stato ridefinito il perimetro dell'esenzione in favore dei
terreni collocati in comuni montani e parzialmente montani.
I giudici amministrativi hanno accolto in via preliminare il
ricorso presentato da Anci Umbria come capofila di una serie
di Anci regionali (Abruzzo, Liguria, Veneto), sospendendo
l'efficacia del provvedimento fino al 21.01.2015 (data in
cui è stata fissata l'udienza di merito).
A quel punto mancheranno poche ore alla scadenza per il
pagamento, fissata al 26 gennaio dal dl 185/2014 (destinato
a confluire nella legge di stabilità in corso di
pubblicazione).
Pur trattandosi di una decisione interlocutoria, le
motivazioni sembrano già ipotecare il verdetto finale: il
Tar, infatti, ha stigmatizzato la «assoluta incertezza
dei criteri applicativi, con particolare riguardo a quello
dell'altitudine». Ricordiamo, infatti, che il confine
fra chi deve pagare e chi no è fissato esclusivamente in
base a tale parametro, per di più misurato considerando solo
il centro e non la conformazione generale del territorio.
L'esenzione piena rimane solo nei municipi collocati a oltre
600 metri sul livello del mare, mentre fra 281 e 600 metri
sarà limitata ai terreni posseduti da coltivatori diretti o
imprenditori agricoli professionali. Fino a 280 metri,
invece, tutti dovrebbero presentarsi alla cassa versando
l'intera imposta dovuta per l'anno in corso. Il che porta a
risultati paradossali, come annota il Tar, ben potendo
essere assoggettato a imposizione un terreno posto a più di
600 metri in agro di comune posto notevolmente al di sotto
di tale altezza.
Che succederà ora? Secondo l'Anci Umbria, «le conseguenze
della decisione sono che in questo momento il governo deve
reintegrare il fondo di solidarietà comunale, tagliato per
350 milioni di euro e, soprattutto, che i contribuenti non
sono tenuti al momento al pagamento».
I due aspetti sono strettamente collegati: se l'Imu non
verrà pagata, i comuni si troveranno a bilancio un credito
(al momento accertato «convenzionalmente») del tutto
inesigibile. Il problema è che l'Esecutivo finora non è
stato in grado di individuare le coperture finanziarie per
tappare questo buco.
Senza soldi, l'unica soluzione pare essere un ulteriore
rinvio del termine per il versamento, in modo da guadagnare
il tempo necessario a ridefinire i parametri del tributo in
modo più sensato. Qualche ragionamento in questo senso è già
stato fatto in sede tecnica, ad esempio ipotizzando di
prendere in considerazione un'altitudine media. Ma ciò
avrebbe ridotto le stime di incasso (peraltro ampiamente
contestate dai comuni) al di sotto dei 300 milioni.
Sull'ulteriore slittamento della scadenza, pesano, però, i
rilievi della Ragioneria generale dello Stato, secondo cui
tale opzione avrebbe un impatto negativo sui saldi di
finanza pubblica dovuti al fatto che l'Ue non permette (se
non per brevi periodi) di accertare entrate future.
Peraltro, le nuove regole contabili (che diventeranno
obbligatorie per tutti gli enti dal 1° gennaio) consentono
di imputare ad un esercizio le entrate tributarie riscosse
nell'anno successivo, purché entro il termine per
l'approvazione del rendiconto. Se tale regola venisse
applicata al caso concreto, il rinvio potrebbe essere almeno
fino al 30 aprile
(articolo ItaliaOggi del
27.12.2014). |
ENTI LOCALI - VARI:
Multe più care da Capodanno.
Codice stradale, automatismi biennali.
Con il brindisi di Capodanno arriverà l'aumento automatico
biennale degli importi delle multe stradali più basso mai
registrato dall'entrata in vigore del nuovo codice,
inferiore all'1%. Per la regola degli arrotondamenti
resteranno quindi invariate la maggior parte delle sanzioni
più diffuse come il divieto di sosta e il mancato pagamento
del ticket. Aumenterà invece di qualche euro la sanzione
prevista per chi circola senza revisione o senza viva voce
con il telefonino.
Lo prevede l'automatismo biennale del codice stradale. Ai
sensi dell'art. 195 del codice, infatti, la misura delle
multe stradali è aggiornata ogni due anni in misura della
variazione dell'indice dei prezzi al consumo verificato
dall'Istat. Prendendo come riferimento tale indice il
ministero fissa i nuovi limiti delle sanzioni amministrative
pecuniarie che si applicano dal 1° gennaio dell'anno
successivo. Sulla base del dato pubblicato dall'Istat il 13
dicembre scorso quindi dal 01.01.2015 scatterà un aumento
dello 0,8% degli importi.
Questo incremento risulta essere il più basso in assoluto
degli ultimi 20 anni. Con il decreto di prossima emanazione
nel calcolo dei nuovi importi si applicherà la consueta
regola dell'arrotondamento all'unità di euro per eccesso se
la frazione decimale sarà pari o superiore a 50 centesimi di
euro oppure per difetto se inferiore. Per esemplificare come
cambieranno gli importi rispetto ad alcune infrazioni
stradali, con il nuovo anno la sanzione per il divieto di
sosta ordinario resterà stabile a 41 euro. Quelle per
l'eccesso di velocità aumenteranno di pochi euro. La più
moderata di 41 euro non subirà variazioni mentre quella
prevista per chi viola oltre 10 km/h ma non oltre 40 km/h il
limite salirà da 168 a 169 euro.
La sanzione per chi non usa le cinture di sicurezza salirà
di un euro, mentre quella prevista per chi guida usando il
telefonino senza auricolare o senza viva voce aumenterà da
160 a 161 euro. Un leggero ritocco in aumento anche per chi
sarà sorpreso a circolare senza revisione regolare. Dagli
attuali 168 a 169 euro. Per chi verrà invece sorpreso senza
copertura assicurativa la multa aumenterà da 841 a 848 euro
(articolo ItaliaOggi del
27.12.2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Province, «precari» prorogati Slittano gli
aumenti dei manager Pa.
Milleproroghe. Nel pacchetto soppressione dei Tar, Metro C
di Roma e passante di Torino.
Proroga di un anno dei contratti per
i lavoratori precari delle Province. Assunzioni da turn over
nella Pa per tutto il 2015. Slittamento alla fine del
prossimo anno degli aumenti dei compensi di una fetta dei
manager statali: componenti di Cda, organi di indirizzo,
direzione e controllo e organi collegiali degli enti
pubblici.
Sono queste le misure principali del capitolo pubblico
impiego del decreto “milleproroghe” varato la vigilia di
Natale dal Governo nella «versione più light della storia»,
come ha tenuto a sottolineare il premier Matteo Renzi.
Gli slittamenti dei termini sarebbero una ventina. Il testo
sarebbe ancora oggetto di alcune limature. Confermata (come
anticipato dal Sole 24 Ore il 23 e il 24 dicembre) la
proroga di un anno della privatizzazione della Croce rossa
italiana, il posticipo al 01.01.2016 della nuova
remunerazione delle farmacie. Analoga proroga per le
sanzioni legate al Sistri (sistema di tracciabilità dei
rifiuti).
Ad essere interessato dal mini-milleproroghe sono anche un
pacchetto di infrastrutture dello “Sblocca Italia” e
alcune misure sui trasporti: si va dalla settima proroga
fino a fine 2015 in materia di servizi pubblici non di linea
al completamento della copertura del passante ferroviario di
Torino, all’asse autostradale Trieste-Venezia fino alla
tratta della Metro C di Roma Colosseo-Piazza Venezia. Tutti
interventi, questi ultimi, per i quali lo slittamento di
vecchi di termini è di un anno (fine 2015 anziché 2014).
Tornando al capito pubblico impiego, l’inserimento in corsa
della proroga dei contratti dei precari delle Province è una
delle conseguenze della partita che si sta giocando tra
Governo e sindacati sugli esuberi da ricollocare per effetto
dell’attuazione della riforma Delrio. «Nessuno perde il
posto e si danno migliori servizi», ha affermato il
ministro Marianna Madia con un tweet annunciando mercoledì
scorso il varo della misura. C’è poi il prolungamento a
tutto il 2015 del termine del turn over per assumere a tempo
indeterminato a compensazione delle uscite avvenute nel
2013.
È prevista una norma ad hoc per il ministero dei Beni
culturali con la possibilità di attingere (fino al 2016), ai
fini delle assunzioni, dalle graduatorie degli idonei a
concorso. Il Dl fissa lo slittamento dal 1° luglio al
01.09.2015 del termine per la soppressione delle sezioni
distaccate dei Tar con sedi nei comuni senza Corte d’appello
e dal 1° gennaio al 01.07.2015 della scadenza relativa
all’avvio del processo amministrativo digitale.
Sul versante dell’istruzione è tra l’altro previsto la
possibilità per il ministero di erogare agli enti locali
fondi per l’edilizia scolastica anche nel corso del 2015. E
le università potranno chiamare come professore associato
chi ha superato l’abilitazione. Novità anche sul terreno “emergenze”
con il ricorso a misure integrative del Fondo delle
emergenze nazionali e la proroga fino a febbraio dei bandi
di gara e l’affidamento dei lavori contro il rischio
geologico.
Tra gli altri interventi, le proroghe degli standard Dvd-T2
nei sintonizzatori digitali per la tv e il divieto di
acquisizione da parte di chi controlla una o più reti tv di
partecipazioni in imprese editrici di giornali. Il decreto
interessa anche i poteri sostitutivi in materia di
approvazione del bilancio di previsione degli enti locali e
l’approvazione del bilancio 2014 delle Province,
l’operazione strade sicure e l’adeguamento antincendi degli
alberghi.
Infine le proroghe riguardanti i finanziamenti erogati dalla
Banca d’Italia e garantiti mediante cessione o pegno di
credito e la deroga ai requisiti di opponibilità della
garanzia nei confronti del debitore e dei terzi e la
determinazione dei criteri generali cui devono conformarsi
gli organismi di investimento collettivo del risparmio
italiani (articolo Il Sole 24 Ore del
27.12.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Per il Sistri sanzioni a partenza differita.
Ambiente. Prime indiscrezioni sulle disposizioni del
Milleproroghe.
Arriva sul filo di
lana, grazie al Dl Milleproroghe il sospirato slittamento al
31.12.2015 della moratoria delle sanzioni relative
all’operatività del Sistri. Invece, anche se il testo del Dl
non è ancora pubblicato in Gazzetta ufficiale, sembra certo
che le sanzioni relative alla mancata iscrizione e
all’omesso pagamento del contributo annuale si applicheranno
a decorrere dal 01.02.2015.
Si può quindi parlare di una doppia partenza delle sanzioni:
quelle all’articolo 260-bis, commi da 3 a 9 e all’articolo
260-ter del Codice ambientale si applicheranno a decorrere
dal 01.01.2016; invece le sanzioni previste dai commi 1 (per
l’omessa iscrizione «nei termini previsti») e 2
(pagamento del contributo «nei termini previsti») si
applicheranno dal 01.02.2015.
Sotto il profilo operativo, fino alla fine del 2015
continueranno ad applicarsi le regole e le sanzioni relative
al registro di carico e scarico e al formulario come
previste dal Dlgs 152/2006 nella versione vigente prima
della riforma del Dlgs 205/2010. Accanto a tali scritture le
imprese obbligate al Sistri dovranno operare anche mediante
tale sistema. La platea dei produttori è stata rimodulata
dal Dm 24.04.2014 nei seguenti termini:
- enti e imprese produttori iniziali di rifiuti pericolosi
da attività agricole e agroindustriali, di pesca
professionale e di acquacoltura, con più di 10 dipendenti,
che non conferiscano i rifiuti a circuiti organizzati di
raccolta;
- enti e imprese, con più di 10 dipendenti, produttori
iniziali di rifiuti pericolosi da attività di demolizione e
costruzione, da lavorazioni industriali, lavorazioni
artigianali, attività commerciali, attività di servizio e
attività sanitarie;
- enti ed imprese produttori iniziali di rifiuti speciali
pericolosi e che svolgono attività di stoccaggio (deposito
preliminare D15 e messa in riserva R13).
In ordine a tali tradizionali scritture ambientali, il Dl
Milleproroghe afferma che la proroga fino alla fine del 2015
viene concessa «al fine di consentire la tenuta in
modalità elettronica dei registri di carico e scarico e dei
formulari di accompagnamento dei rifiuti trasportati nonché
l’applicazione delle altre semplificazioni e le opportune
modifiche normative».
Fermo restando che è riconosciuta la necessità di modifiche
normative (non potrebbe essere diversamente), non appare
ragionevole ipotizzare che questa previsione, stante il
tenore letterale, possa obbligare alla tenuta di registri e
formulari solo in modalità elettronica. Sembra solo
incentivare la tenuta delle scritture informatiche per “familiarizzare”
con Sistri.
In ogni caso di tale previsione non si avvertiva la
necessità. Soprattutto nessuno sentiva la mancanza della
diversificazione della partenza sanzionatoria che, sin da
ora, procurerà più di un dissapore applicativo sul
territorio (articolo Il Sole 24 Ore del
27.12.2014). |
ENTI
LOCALI: Comuni, patto leggero con i servizi.
Per gli enti locali capofila di convenzioni misure in bilico.
Patto di stabilità più leggero ai comuni che gestiscono
funzioni e servizi in forma associata come capofila di
convenzioni. A prometterlo, la legge di Stabilità 2015
appena licenziata dal parlamento. Promessa che, però,
difficilmente sarà mantenuta.
La questione è sul tappeto da
tempo: i comuni capofila sostengono spese anche per gli
altri municipi convenzionati, con conseguente appesantimento
dei propri obiettivi di patto. Questi ultimi, come noto,
sono calcolati partendo dalla media degli impegni di spesa
corrente registrati in un triennio che dal prossimo anno
sarà il 2010-2012 (nel 2014, invece, si è considerato il
2009-2011).
Ai fini del calcolo, si assume quale base la
spesa lorda registrata a consuntivo, senza alcuna
esclusione, neppure per le spese sostenute dal capofila per
conto degli altri enti locali. Per ovviare, la stabilità
2015 prevede che, con decreto del Mef (da adottare previa
intesa in sede di conferenza stato-città e autonomie locali
e su proposta dell'Anci e dell'Upi), possano essere
rimodulati i target di patto per tenere conto, fra l'altro,
«dei maggiori oneri connessi all'esercizio della funzione di
ente capofila» (oltre che di una serie di altri fattori,
ossia le maggiori funzioni assegnate alle città
metropolitane, gli interventi di messa in sicurezza degli
edifici scolastici e del territorio e la presenza di
sentenze passate in giudicato a seguito di procedure di
esproprio o di contenziosi connessi a cedimenti
strutturali).
Il punto è che la rimodulazione deve essere
definita a invarianza dell'obiettivo di comparto. Il che
significa che ogni sconto riconosciuto ai capofila dovrà
essere compensato da un simmetrico peggioramento del target
degli altri enti. E qui casca l'asino: è praticamente
impossibile, in così poco tempo, raccogliere dati aggiornati
sulle migliaia di convenzioni in essere. È assai probabile,
quindi, che il tutto si risolva in un nulla di fatto. Del
resto, in materia c'è un precedente poco confortante. Un
meccanismo analogo, infatti, è già previsto dall'art. 31,
comma 6-bis, della legge 183/2011 (introdotto dalla
Stabilità 2014): esso dispone la riduzione degli obiettivi
dei comuni capofila e il corrispondente aumento di quelli
degli altri comuni associati.
Anche in questo caso è il Mef
a dover effettuare le variazioni, sulla base dei dati
forniti dagli stessi comuni per il tramite dell'Anci.
Ebbene, lo scorso anno tale disciplina è rimasta lettera
morta, in quanto è mancato un presupposto essenziale, ossia
l'assenso da parte dei comuni non capofila al peggioramento
del proprio obiettivo. Del resto, per questi ultimi, il
target già include la propria quota di spesa, che essi
devono impegnare per erogare i rimborsi al capofila. Ecco
perché nessun sindaco ha sottoscritto l'accordo, la cui
necessità viene ora esplicitamente confermata dalla
Stabilità 2015.
Non è pensabile, quindi, che si riesca ad attuare in via
unilaterale (e nel giro di poco più di un mese) quello che
lo scorso anno non si è risusciti a fare mediante una
procedura concertata sul territorio. Se non si troverà una
quadra entro il 31 gennaio, gli obiettivi resteranno
invariati, con buona pace per i capofila. Il problema è
grave, anche perché la convenzione è una delle modalità
attraverso cui i comuni con meno di 5.000 abitanti (3.000 se
montani) dovranno obbligatoriamente gestire entro il
prossimo 31 dicembre tutte le proprie funzioni fondamentali.
Ciò rischia di penalizzare gli enti che, per adempiere a un
obbligo di legge, decideranno di utilizzare il più agile
strumento convenzionale rispetto a quello (più strutturato
ma più complesso da avviare) dell'unione
(articolo ItaliaOggi del
24.12.2014). |
APPALTI:
P.a., split payment da gennaio. Forniture con versamento Iva
a carico del destinatario.
FISCO/ Marcia indietro in caso di mancata autorizzazione da
parte dell'Europa.
Dal 1° gennaio, forniture alla pubblica amministrazione con
versamento dell'Iva a carico del destinatario. Il meccanismo
dello «split payment» sarà infatti subito operativo, senza
che si debba attendere la necessaria autorizzazione dell'Ue
a derogare alle regole della direttiva Iva. Se poi la deroga
non dovesse essere autorizzata, si tornerà indietro.
Questo
per effetto delle ultime modifiche al testo della legge di
stabilità 2015, nel testo finale scaturito dal
maxiemendamento governativo approvato la settimana scorsa
dal senato e oggi al via libera definitivo dalla camera.
Il nuovo metodo di pagamento dell'Iva. La legge introduce
nella normativa dell'Iva, contenuta nel dpr n. 633/72,
l'articolo 17-ter, il quale dispone che per le cessioni di
beni e per le prestazioni di servizi effettuate nei
confronti dello stato e dei suoi organi, anche dotati di
personalità giuridica, degli enti pubblici territoriali e
dei loro consorzi, delle camere di commercio, degli istituti
universitari, delle aziende sanitarie locali, degli enti
ospedalieri, degli enti pubblici di ricovero e cura aventi
prevalente carattere scientifico, degli enti pubblici di
assistenza e beneficenza e di quelli di previdenza, per i
quali i suddetti cessionari o committenti non sono debitori
d'imposta ai sensi delle disposizioni in materia di Iva,
l'imposta è in ogni caso versata dagli stessi
cessionari/committenti, secondo modalità e termini da
fissare con decreto del ministro dell'economia. Queste
disposizioni non si applicano alle prestazioni
professionali, o più esattamente ai «compensi per
prestazioni di servizi assoggettati a ritenute alla fonte a
titolo di imposta sul reddito». In pratica, quando l'ente
pubblico riceve la fattura, effettuerà due distinti
pagamenti:
- uno al fornitore, per l'importo imponibile (e le altre
eventuali somme dovute a titolo diverso dall'Iva);
- l'altro all'erario, per l'importo dell'Iva.
Il fornitore, da parte sua, continuerà comunque a indicare
normalmente nella fattura l'aliquota e l'ammontare dell'Iva
dovuta sull'operazione, ma specificherà che il relativo
pagamento dovrà essere effettuato all'erario direttamente
dal cessionario/committente; per esempio, potrà riportare
nella fattura l'indicazione «l'Iva esposta in questa fattura
deve essere versata all'erario dal destinatario ai sensi
dell'art. 17-ter, dpr n. 633/1972».
La decorrenza. Secondo il disegno di legge originario,
l'efficacia delle nuove disposizioni era subordinata al
rilascio, da parte del Consiglio, della necessaria
autorizzazione di deroga ai sensi dell'art. 395 della
direttiva Iva. Sennonché, probabilmente per un problema di
tempi causato dall'esigenza di attivare, nell'eventualità di
un rifiuto dell'autorizzazione, la clausola di salvaguardia
delle entrate (aumento delle accise sui carburanti) entro il
30.06.2015, il governo ha deciso di giocare d'anticipo,
prevedendo che, nelle more del rilascio della misura di
deroga da parte del Consiglio, le disposizioni trovano
comunque applicazione per le operazioni per le quali l'Iva è
esigibile a partire dal 01.01.2015.
Va da sé che qualora l'Ue dovesse rifiutare di autorizzare
questo inedito meccanismo speciale di riscossione dell'Iva,
oggetto di studio da parte della Commissione europea, si
dovrebbe tornare indietro, con tutte le connesse
problematiche. Adesso, per tutti gli operatori (imprese,
consulenti, software house), si apre una corsa contro il
tempo, essendo necessario apportare i dovuti adattamenti
alle procedure di fatturazione e contabilità in modo da
applicare le nuove regole fra dieci giorni.
Il ministero
dell'economia, da parte sua, dovrà stabilire le modalità di
versamento, probabilmente una versione speciale del modello
F24 enti pubblici, e i relativi termini. In proposito, la
legge prevede che, in caso di omissione o ritardato
versamento, i cessionari o committenti saranno soggetti alle
sanzioni dell'art. 13 del dlgs n. 471/1997; le somme dovute
saranno riscosse dall'agenzia delle entrate mediante l'atto
di recupero di cui all'art. 1, comma 421, legge n. 311/2004.
Fuori dallo «split payment» le operazioni soggette a
inversione contabile. Le disposizioni dell'art. 17-ter non
si applicheranno alle operazioni per le quali l'ente
cessionario/committente è debitore dell'Iva ai sensi della
normativa sull'imposta, ossia in tutti i casi in cui (i)
l'ente acquista il bene o il servizio in qualità di soggetto
passivo e (ii) l'operazione è sottoposta al particolare
regime dell'inversione contabile (es. subappalti, acquisti
intracomunitari ecc.): in tali casi, dunque, l'ente
continuerà ad assolvere l'imposta mediante l'integrazione e
registrazione in contabilità della fattura del fornitore
(articolo ItaliaOggi del
23.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Un pasticcio sulla mobilità dei dipendenti provinciali.
La mobilità dei dipendenti provinciali non deve essere
limitata dai vincoli al turnover di regioni ed enti locali.
Il disegno di legge di stabilità, nel definire, in
contraddizione con la legge Delrio, le modalità per il
trasferimento dei circa 20 mila dipendenti provinciali in
esubero, incappa in un errore tecnico: quello, cioè, di far
rientrare assunzioni per mobilità entro i vincoli di spesa
che sono riservati, invece, esclusivamente alle assunzioni
ex novo.
Il disegno di legge mischia la condizione dei vincitori dei
concorsi, con quella dei dipendenti provinciali. Nessun
dubbio c'è che i vincitori dei concorsi possano essere
assunti esclusivamente entro la soglia del turnover,
fissata, dopo l'entrata in vigore del dl 90/2014, nel 60%
del costo delle cessazioni dell'anno precedente. Si tratta,
infatti, dell'immissione di nuovi lavoratori nel comparto
pubblico, che crea una spesa a sua volta nuova, che si
intende contenere secondo, appunto, le restrizioni al
turnover.
Tuttavia, il disegno di legge induce regioni ed enti locali
ad assumere in mobilità, cioè per trasferimento, i 20 mila
dipendenti provinciali (dopo aver immesso in ruolo i
vincitori dei concorsi), assoggettando anche le assunzioni
per mobilità ai limiti di spesa per turnover.
Come detto, si tratta di un errore tecnico, che invece di
creare «tutele» per i dipendenti provinciali,
paradossalmente le elimina o riduce di gran lunga.
La mobilità non crea un nuovo e maggiore costo per il
comparto del pubblico impiego, in quanto sposta
semplicemente una spesa, prima in capo alle province, verso
un altro ente, regione o comune.
La Corte dei conti, Sezioni Riunite, col parere 59/2010,
basato sul parere 4/2010 della Funzione pubblica ha fondato
un pacifico indirizzo interpretativo secondo il quale, ferma
la vigenza dell'articolo 1, comma 47, della legge 311/2004,
«poiché l'ente che riceve personale in esito alle procedure
di mobilità non imputa tali nuovi ingressi alla quota di
assunzioni normativamente prevista, per un ovvio principio
di parallelismo e al fine di evitare a livello complessivo
una crescita dei dipendenti superiore ai limiti di legge,
l'ente che cede non può considerare la cessazione per
mobilità come equiparata a quelle fisiologicamente derivanti
da collocamenti a riposo».
Da 4 anni, dunque, nell'ordinamento si stabilisce che le
assunzioni per mobilità non «consumano» la quota disponibile
per il «turnover», cioè per le assunzioni dall'esterno.
Infatti, le Sezioni Riunite nel parere citato chiariscono
che solo una volta «espletate le procedure di mobilità
l'ente ricevente resta, infatti, libero di effettuare un
numero di assunzioni compatibile con il regime vincolistico
e con le vacanze residue di organico».
Pertanto, regioni ed enti locali possono effettuare tutte le
assunzioni per mobilità che ritengono, senza sottostare al
tetto del turnover.
È evidente, allora, che il Governo ha inserito il vincolo
del turnover, contraddicendo totalmente ad una normativa e
ad interpretazioni consolidate, per la semplice ragione che
la legge di Stabilità vìola le previsioni della legge Delrio,
la quale prevedeva che i trasferimenti del personale
provinciale addetto alle funzioni «non fondamentali» fossero
finanziati dalle province stesse. Il «taglio» di 3 miliardi
inferto, a regime, alle province, impedisce loro di
trasferire a regioni e comuni il finanziamento del costo dei
20 mila dipendenti provinciali (circa 820 milioni). Dunque,
il Governo, violando disposizioni normative e
interpretazioni della Corte dei conti, prevede che le
regioni ed i comuni finanzino la mobilità con risorse
«proprie», reperite dal turnover, anche se la mobilità col
turnover non ha assolutamente nessuna correlazione.
Un pasticcio ulteriore creato dalla legge di stabilità, che
rende la posizione dei 20 mila dipendenti provinciali molto
più a rischio di quanto dicano i tranquillizzanti comunicati
del governo, che in realtà omettono le conseguenze reali
discendenti dalla legge
(articolo ItaliaOggi del
23.12.2014). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI
- VARI: Legge
di stabilità 2015: tutte le novità
(articolo ItaliaOggi del
23.12.2014).
---------------
►
Compensazione crediti p.a. e cartelle - Anche nel
2015 sarà possibile per le imprese e i professionisti
compensare i crediti commerciali vantati verso la p.a. con
le somme iscritte a ruolo
►
Stop aumento Tasi
- Anche per il 2015 vengono rese applicabili da parte dei
comuni le stesse aliquote Tasi vigenti per il 2014
►
Ritenuta
ristrutturazioni - Dal 01.01.2015 salirà dal 4% all’8%
l'aliquota della ritenuta che banche e Poste devono operare
sui bonifici “parlanti” disposti dai contribuenti per
beneficiare delle detrazioni per ristrutturazioni e
riqualificazione energetica
►
Buoni pasto -
Dal 01.07.2015 la quota dei buoni pasto non sottoposta a
tassazione sale dagli attuali 5,29 euro a 7 euro al giorno.
I ticket dovranno essere predisposti in formato elettronico
►
Split payment
- Partirà dal 01.01.2015 lo split payment: per le operazioni
effettuate nei confronti di enti pubblici, al fornitore sarà
erogato il solo importo del corrispettivo, al netto dell’Iva
indicata in fattura (che sarà acquisita direttamente
dall’erario)
►
Riscossione enti
locali - Prorogato al 30.06.2015 il termine entro cui la
società Equitalia potrà continuare a riscuotere le entrate
dei comuni
►
Lotta evasione
comuni - Per il triennio 2015-2017, la quota
riconosciuta ai comuni per la compartecipazione all'azione
di contrasto all'evasione fiscale sarà pari al 55% delle
maggiori somme riscosse
►
5 per mille -
Stabilizzata dal 2015 della disciplina del 5 per mille
Irpef, con le attuali modalità di funzionamento e tetto
massimo fissato a 500 milioni di euro annui
►
Riduzione
partecipate - Regioni, comuni, università e autorità
portuali dovranno predisporre entro tre mesi un piano di
razionalizzazione delle società partecipate che gestiscono
servizi pubblici locali. L’obiettivo primario è eliminare le
micro-aziende e i “doppioni”. Il piano dovrà essere posto in
essere entro la fine del 2015
►
Personale
province - In arrivo la mobilità per il 50% del
personale delle province e per il 30% di quello delle città
metropolitane. Entro il 01.04.2015 ciascun ente potrà
deliberare una riduzione superiore (e predisporre le liste
del personale da mantenere). Gli esuberi saranno riassorbiti
gradualmente presso altri enti territoriali. Partirà dal
2017 «il collocamento in disponibilità», di durata biennale,
con riduzione dello stipendio del 20%. Eventuali cessazioni
del rapporto di lavoro saranno avviate a partire dal 2019,
previa concertazione con i sindacati
►
Bonus fiscali per
la casa - Prorogate a tutto il 2015 le detrazioni per
gli interventi di ristrutturazione edilizia e di
riqualificazione energetica, mantenendo le attuali misure
(rispettivamente 50% e 65%). Confermato anche il bonus
mobili
►
Auto inquinanti
- Dal 01.01.2019 su tutto il territorio nazionale sarà
vietata la circolazione di veicoli a motore di categoria
“euro 0” |
AMBIENTE-ECOLOGIA - PUBBLICO IMPIEGO: Pa, nuove assunzioni da turnover.
Nel milleproroghe anche l’allungamento dello stop agli
aumenti dei manager.
Assunzioni da
turn over nella Pa fino a fine 2015. Quattro mesi in più per
la chiamata degli associati «abilitati» nelle università e
due per la sopravvivenza delle sezioni distaccate dei Tar.
Proroga di un anno per l’applicazione delle sanzioni legate
al Sistri e per la rideterminazione verso l’alto dei
compensi ai manager Pa.
Sono alcuni degli slittamenti
contenuti nel tradizionale decreto milleproroghe di fine
anno (o proroga-termini per usare la nuova denominazione)
che era dato in agenda per il?Consiglio dei ministri di
lunedì prossimo. E che, salvo sorprese dell’ultim’ora,
dovrebbe arrivare sul tavolo di Palazzo Chigi già domani,
insieme ai due decreti attuativi sul Jobs act, al Dl Ilva e
al Dlgs sull’abuso del diritto.
La bozza di provvedimento messa a punto fino a ieri si
apriva con un cospicuo capitolo dedicato al pubblico
impiego. Le assunzioni a tempo indeterminato da turn over
ammesse dal decreto Madia e collegate alle cessazioni
avvenute nel 2013 verrebbero ammesse anche per tutto il 2015
anziché esaurirsi nel 2014. Con una norma ad hoc per il
ministero dei Beni culturali che avrebbe tempo fino a fine
2016 per attingere, sempre ai fini assunzionali, dalle
graduatorie degli idonei da concorso.
Sempre a proposito di decreto Madia va segnalata la proroga
dal 1° luglio al 01.09.2015 per la soppressione delle
sezioni staccate dei Tar con sede in comuni che non sono
sedi di corte d’appello (eccetto Bolzano) e dal 1° gennaio
al 01.07.2015 dell’avvio del processo amministrativo
digitale.
Novità all’orizzonte anche per il tetto ai manager. La
rideterminazione (in aumento) dei compensi ai componenti
degli organi di indirizzo, direzione e controllo, consigli
di amministrazione e organi collegiali nelle pubbliche
amministrazioni slitta da fine 2014 a fine 2015. Fino ad
allora varrà il “congelamento” a indennità e gettoni
previsto dal Dl 78 del 2010. E la stessa dead line verrebbe
fissata per applicare anche a Sogei, Gse e Consip la
stretta su personale e consulenze valida per la Pa. Consip
che avrà anche l’anno prossimo i finanziamenti per le
attività collegate al programma per la razionalizzazione
degli acquisti.
Le stesse pubbliche amministrazioni vedranno poi allungarsi
di un anno il blocco dell’adeguamento automatico dei canoni
di locazione passiva per gli immobili condotti dalle
amministrazioni pubbliche. Dagli anni «2012, 2013 e 2014» si
dovrebbe passare infatti a «2012, 2013, 2014 e 2015».
Altrettanto nutrito è il pacchetto di disposizioni dedicati
alle infrastrutture e ai trasporti. Si va dalla settima
proroga fino a fine in materia di servizi pubblici non di
linea alla cantierabilità entro fine 2015 (anziché 2014) di
una serie di opere pubbliche. Tra cui il completamento della
copertura del Passante ferroviario di Torino, l’Asse
autostradale Trieste-Venezia, la tratta Colosseo-Piazza
Venezia della Metro C di Roma.
Passando alle imprese va segnalato lo spostamento al 31.12.2015 di uno dei termini del sistema di
tracciabilità dei rifiuti. In particolare di quello previsto
per «consentire la tenuta in modalità elettronica dei
registri di carico e scarico e dei formulari di
accompagnamento dei rifiuti trasportati nonché
l’applicazione delle altre semplificazioni e le opportune
modifiche normative».
Ampio si annuncia pure il capitolo istruzione. Con due misure su tutte:
la chance per gli atenei di assumere fino al 31.10.2015
(e non più il 30 giugno) gli associati che hanno superato
l’abilitazione nazionale prevista dalla riforma Gelmini; la
possibilità per il ministero dell’Istruzione di erogare agli
enti locali i fondi per l’edilizia scolastica anche lungo
l’arco del 2015. laddove il termine originariamente previsto
era quello del 31.12.2014.
Una doppia proroga dovrebbe infine interessare anche le
emergenze. Da un lato, verrebbe spostata al 28.02.2015
la scadenza bandi di gara e per l’affidamento dei lavori
relativi a interventi contro il dissesto idrogeologico;
dall’altro, resterebbe in carica per tutto il 2015 il
commissario delegato per gli interventi di ripristino dai
danni provocati in Sardegna dall’alluvione del novembre
2013 (articolo Il Sole 24 Ore del
23.12.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Catasto online, costi ridotti.
Banche dati fiscali. Per le convenzioni.
Consultare il
catasto online costerà un po’ di meno.
Con il provvedimento 17.12.2014 n.
160950 di prot. del direttore dell’Agenzia delle Entrate sono stati variati
gli importi dei rimborsi delle convenzioni d’accesso alle
banche dati ipotecaria e catastale. In sostanza sono stati
eliminati i rimborsi da versare per le spese amministrative
(erano 200 euro una tantum) per la stipula delle convenzioni
e ridotti a 15 euro quelli annuali (erano 30 euro) previsti
per ogni password resa disponibile all’utente per la
consultazione. Resta invariata la consultazione diretta e
gratuita (senza convenzione) per il solo classamento (la
categoria catastale) e la rendita, purché si disponga degli
estremi di identificazione catastale.
Gli obiettivi della rimodulazione degli importi, spiegano le
Entrate, sono quelli di favorire l’accesso online ai servizi
ipotecari e catastali da parte di pubbliche amministrazioni,
imprese, professionisti e cittadini.
Una facilitazione particolarmente gradita: il servizio di
consultazione personale online consente in fatti alle sole
persone fisiche registrate a Entratel-Fisconline l’accesso
alla banca dati catastale e ipotecaria, a titolo gratuito e
in esenzione da tributi, relativamente agli immobili di cui
il soggetto richiedente risulti titolare, anche per quota,
del diritto di proprietà o di altri diritti reali di
godimento. La ricerca viene eseguita a livello nazionale con
esclusione delle province autonome di Trento e Bolzano (e,
per le ricerche ipotecarie, anche delle province di Trieste
e Gorizia e delle altre zone nelle quali vige il sistema del
libro fondiario).
Con la ricerca si possono ottenere: visura per immobile
attuale e storica, visura della mappa per la particella
terreni selezionata, visura planimetrica, ispezione
ipotecaria per l’unità immobiliare selezionata e per
soggetto . Il risultato della ricerca è l’elenco delle
formalità (trascrizioni, iscrizioni ed annotamenti) nel
quale il soggetto compare a favore o contro relativamente
all’immobile selezionato; da questo elenco è possibile
consultare le singole note (articolo Il Sole 24 Ore del
23.12.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Albero di Natale con il bollino. D'obbligo controllo e
tracciamento per i commercianti. In vigore dal 25.12.2014 il dlgs 178/2014 contro il
disboscamento illegale.
A contribuire alla lotta contro il disboscamento illegale
sarà l'albero di Natale. Scatta, infatti, proprio il 25.12.2014 l'operatività della nuova disciplina prevista
dal dlgs 30.10.2014, n. 178 per il contrasto a
importazione e commercializzazione di legno in violazione
delle norme applicabili nel paese d'origine.
Le nuove prescrizioni. Il dlgs 178/2014 (pubblicato sulla G.U. del 10.12.2014
n. 286) rende operative sul piano interno le norme del
regolamento (Ce) n. 2173/2005 sul sistema di licenze «Flegt»
per le importazioni di legname e del (connesso) regolamento
(Ue) n. 995/2010 (cd. «Timber Regulation») sul commercio
interno all'Ue di legno e prodotti da esso derivati,
affiancandovi (anche) un greve regime sanzionatorio.
Quella che ne deriva è una disciplina ibrida, risultante dal
combinato disposto delle norme comunitarie citate (alle
quali il dlgs 178/2014 espressamente si richiama) e dalle
regole (e sanzioni) nazionali aggiunte dallo stesso decreto
legislativo. Pilastri dell'architettura così costruita sono:
divieto d'importazione nell'Ue di legno proveniente da paesi
cd. «Vpa» (ossia aderenti al «Voluntary partnership
agreements» ex regolamento Ce del 2005) privo di licenza «Flegt»
(acronimo di «Forest law enforcement, governance and trade»);
obbligo per i soggetti interessati di iscrizione in un
apposito e istituendo «Registro nazionale degli operatori»;
divieto di commercializzare sul territorio legno (sia grezzo
che tagliato) e prodotti da esso derivanti (imballaggi
inclusi) considerati di provenienza illegale; obbligo di
adozione della «diligente verifica» di provenienza lecita
dei beni (cd. «due diligence»); obbligo di tracciare e
documentare lo spostamento dei beni lungo l'intera catena di
approvvigionamento.
L'operatività delle norme. In base al tenore del nuovo dlgs
178/2014 scatteranno dal 25.12.2014 i divieti di
importazione e commercializzazione «illegale», così come gli
obblighi di «due diligence», tracciamento e documentazione
degli spostamenti del legname (direttamente previsti dalle
norme Ue), mentre bisognerà attendere il decreto
ministeriale sul funzionamento del citato «Registro degli
operatori» (previsto entro il febbraio 2015) per l'opponibilità
del relativo obbligo di iscrizione ai soggetti interessati.
I soggetti interessati. Il divieto generale d'importazione
di legno illegale è rivolto a tutti i soggetti
potenzialmente interessati dall'attività, mentre destinatari
delle altre specifiche prescrizioni sono (a vario titolo)
due ben definite categorie di soggetti: gli «operatori»,
ossia coloro che immettono per la prima volta legno e
prodotti derivati nel mercato Ue (come proprietari boschivi,
importatori, imprese che utilizzano tali beni); i
«commercianti», ossia le persone che acquistano e rivendono
beni già in circolazione nel mercato interno (tra cui le
imprese di lavorazione e trasformazione).
Divieto importazione legno senza licenza «Flegt».
Preventivamente o contestualmente alla presentazione della
«dichiarazione di dogana» sarà obbligatorio mettere a
disposizione delle autorità nazionali la citata licenza «Flegt»
relativa al carico di legname (ai fini del controllo e
dell'immissione in libera pratica nell'Unione europea),
insieme al pagamento di un contributo (a copertura degli
oneri finanziari della p.a. e la cui entità sarà stabilita
con un altro dm entro lo stesso febbraio 2015, per poi
essere aggiornata ogni due anni).
Iscrizione in «Registro operatori». L'obbligo di iscrizione,
destinato esclusivamente ai soggetti che introducono per la
prima volta legno e prodotti derivati nel mercato Ue, dovrà
essere assolto aderendo al citato e istituendo registro
curato dal ministero delle politiche agricole alimentari e
forestali, unitamente al pagamento di un corrispettivo.
Divieto di commercio legno illegale. La prescrizione di
derivazione comunitaria, rivolta ai «commercianti» come più
sopra definiti, riguarda sia il legno che i prodotti
derivati ottenuti in violazione della legislazione del paese
di produzione (condotta che individua la cd. «provenienza
illegale» dei beni).
Obbligo di «due diligence». Direttamente definito dal
regolamento 995/2010/Ue (e dall'omonimo provvedimento
attuativo 607/2012/Ue) il sistema di «diligente verifica»
della provenienza lecita del legno impone agli «operatori»
tre fondamentali obblighi: acquisizione delle informazione
sulle fonti di approvvigionamento (paese di origine, dati
dei fornitori, esistenza di concessioni di taglio); adozione
di un sistema interno di valutazione dei rischi di
illegalità dell'approvvigionamento; attuazione di un piano
di attenuazione dei rischi eventualmente rilevati (tra cui
la richiesta d'informazioni aggiuntive sui fornitori).
Obbligo tracciamento del legno. Ex regolamento 995/2010/Ue
sia gli «operatori» che i «commercianti» dovranno garantire
e documentare, tramite la tenuta (e conservazione per almeno
cinque anni) dei «registri» previsti dalle citate norme Ue,
il tracciamento di tutti i passaggi subiti dal legno lungo
la catena di approvvigionamento (dunque, dal fornitore al
successivo destinatario).
Le sanzioni. A far scattare l'effettiva efficacia delle
prescrizioni comunitarie (così come a garantire l'osservanza
di quelle nazionali) è l'articolato sistema sanzionatorio
previsto dal nuovo dlgs 178/2014, sistema che punisce con
l'arresto fino a un anno, e la confisca obbligatoria del
corpo del reato, la violazione dei divieti di importazione e
commercializzazione, con sanzioni amministrative fino a 1
milione di euro (senza ammissione a pagamento in misura
ridotta) l'inosservanza degli obblighi «due diligence».
I controlli. È il ministero delle politiche agricole
l'autorità nazionale competente a coordinare le attività di
controllo sulla filiera, soggetto che in sinergia con
l'Agenzia delle dogane e del Corpo forestale dello stato
garantirà sia l'osservanza delle nuove norme che (per quanto
di competenza) l'irrogazione delle relative sanzioni
(articolo ItaliaOggi Sette del
22.12.2014). |
APPALTI: Responsabilità
solidale e appalti.
La scomparsa del
regime di responsabilità tributaria negli appalti non mette
al riparo il committente da conseguenze fiscali.
La
responsabilità solidale negli appalti esce di scena ma non
completamente. Il decreto sulle semplificazioni fiscali (Dlgs
175/2014) entrato in vigore il 13 dicembre, ha di fatto
eliminato il regime di responsabilità tributaria, tuttavia,
non si può affermare che il committente sia immune da
qualsiasi conseguenza di natura fiscale.
Da un lato, l’articolo 28, comma 1, del Dlgs 175/2014 ha disposto
l'abrogazione del sistema di verifica previgente,
disciplinato dall’articolo 35, commi da 28 a 28-ter, del Dl
223/2006. Dall’altro, il comma 2 dello stesso articolo,
intervenendo sull’articolo 29 della legge Biagi (che regola
la solidarietà retributiva e contributiva), dispone alcuni
oneri per il committente, se quest’ultimo è chiamato a
rispondere dei debiti dell’appaltatore.
La novità positiva è che committenti e appaltatori non
dovranno più preoccuparsi di richiedere le previste
certificazioni di regolarità dei versamenti delle ritenute,
evitando così di bloccare i pagamenti alle imprese in attesa
di ricevere l’attestazione prevista dalla norma (sino al 12
dicembre scorso).
Il vincolo di solidarietà fiscale che legava i soggetti
della filiera prevedeva pesanti oneri di verifica che gli
stessi dovevano effettuare per evitare di incappare nel
coinvolgimento solidale, in caso di inadempienza dei
soggetti a monte della catena dell’appalto.
Queste disposizioni erano entrate in vigore con il Dl
83/2012, nel perimetro di attività rilevanti ai fini Iva,
prevedendo un diverso grado di responsabilità e di rischio
economico rispettivamente per committente e appaltatore nei
confronti del subappaltatore.
Nel vecchio quadro, l’appaltatore si trovava nella posizione
di coobbligato in solido con il subappaltatore -che è il
debitore principale- per le ritenute sui redditi da lavoro
dipendente dovute da quest’ultimo (in materia di Iva la
responsabilità era stata cancellata dal Dl 69/2013), in
relazione alle prestazioni effettuate nell’ambito del
rapporto di subappalto e nel limite dell’ammontare del
corrispettivo dovuto, che non poteva quindi eccedere
l’importo che l’appaltatore deve corrispondere al
subappaltatore.
Il committente, pur non essendo chiamato a rispondere per il
debito erariale, doveva versare il corrispettivo
all’appaltatore solo dopo aver verificato che gli
adempimenti degli obblighi tributari già scaduti, relativi
al versamento delle ritenute fiscali sui redditi da lavoro
dipendente a carico dall’intera filiera dell’appalto,
fossero stati eseguiti correttamente. Viceversa, in caso di
mancato controllo, rischiava una sanzione amministrativa da
5mila a 200mila euro, se i versamenti fiscali in questione
fossero risultati irregolari.
Per entrambi i profili, il coinvolgimento era escluso se
l’appaltatore-committente acquisiva un’autocertificazione
resa in base al Dpr 445/2000 o un’asseverazione rilasciata
dai professionisti abilitati o dai Caf imprese, che
attestasse la regolarità dei versamenti.
Nonostante l’eliminazione di questi obblighi, la nuova
formulazione dell’articolo 29 del Dlgs 276/2003 prevede però
che il committente, chiamato in solido, se ha eseguito il
pagamento delle retribuzioni, sia comunque tenuto ad
assolvere tutti gli adempimenti previsti per i sostituti
d’imposta, in base al Dpr 600/1973, quindi, tra l’altro:
-
effettuare le ritenute sulle somme versate ai lavoratori
interessati e riversarle all’erario;
-
rilasciare il Cud e compilare il modello 770.
Peraltro, con non poche difficoltà poiché si tratta di dati
di cui lo stesso non è normalmente a conoscenza.
La disposizione si riferisce alle ipotesi in cui il
meccanismo della preventiva escussione si sia rivelato
infruttuoso: si ricorda, infatti, che il debitore solidale
(committente imprenditore o datore di lavoro), chiamato a
rispondere in sede giudiziale del pagamento unitamente
all’appaltatore e agli eventuali subappaltatori, può
proporre un’eccezione con la quale chiede che sia
preventivamente escusso il patrimonio di questi ultimi
(fatta salva la possibilità di richiedere la restituzione di
quanto pagato attraverso l’azione di regresso).
Anche con l’intervento del decreto sulle semplificazioni
fiscali, la materia deve ancora trovare un assetto organico
poiché sulla solidarietà contributiva non esiste un sistema
di verifica che consenta di mettere al riparo il committente
dal coinvolgimento solidale, sebbene lo stesso non abbia
commesso illeciti.
---------------
Oltre il fisco. Oneri invariati.
Rimane il vincolo sui contributi e le retribuzioni.
L’intervento
del decreto sulle semplificazioni fiscali (Dlgs 175/2014)
cambia il quadro della responsabilità solidale negli appalti
per quanto riguarda i profili fiscali ma non tocca i
riflessi in materia lavoristica, così come resta in capo al
committente il vincolo solidaristico come sostituto
d’imposta in caso emergano situazioni di «lavoro nero» nella
filiera dell’appalto. L’onere resta, in particolare, per gli
obblighi previdenziali e assicurativi dei lavoratori e per
le loro retribuzioni (articolo 29, comma 2, Dlgs 276/2003).
Nei rapporti di appalto e subappalto, è ancora in vigore,
quindi, la solidarietà retributiva e contributiva tra
committente, appaltatore e subappaltatori.
Quando scatta la solidarietà
Ma quando scatta la tutela solidaristica? Dopo le modifiche
avvenute con il Dl 5/2012, l’intervento più recente sul
campo è stato quello della legge 92/2012, che ha modificato
l’articolo 29 della legge Biagi: nel dettaglio, il
committente imprenditore, nei limiti dei due anni dalla
cessazione del contratto di appalto, è obbligato in solido
con l’appaltatore e gli eventuali subappaltatori, in
relazione ai trattamenti retributivi –comprese le quote del
Tfr– ai contributi previdenziali e ai premi assicurativi
dovuti in relazione per il periodo di esecuzione del
contratto; sono, invece, escluse dall’obbligazione le
sanzioni civili, che gravano solo sul responsabile
dell’inadempimento.
In caso di inadempienza dell’appaltatore/subappaltatore,
dunque, la norma chiama in causa il committente-appaltatore.
Per cercare di evitare il coinvolgimento nel regime della
solidarietà, è opportuno che, nell’ambito del contratto di
appalto, siano previste una serie di verifiche sulla
regolarità dell’appaltatore/subappaltatore. È necessario,
quindi, richiedere il Durc, copia delle comunicazioni
obbligatorie di instaurazione dei rapporti di lavoro (in
modo da escludere la presenza sull’appalto di lavoratori in
nero), copia in visione del Libro unico del lavoro, e così
via.
Oltre a questi passaggi, è fondamentale anche individuare
limiti di genuinità dell’appalto e realizzare gli
affidamenti con le metodologie corrette, proprio perché il
reticolo di responsabilità tra le parti del contratto si
presenta molto complesso.
Se, infatti, il processo di esternalizzazione non dovesse
essere stato costituito in maniera genuina, scattano le
sanzioni previste in caso di appalto illecito: si realizza
così una somministrazione di manodopera irregolare o
fraudolenta e la costituzione, in capo all’utilizzatore, del
rapporto di lavoro dei lavoratori impiegati
nell’appalto/subappalto.
L’appalto genuino
L’appalto si differenzia dalla somministrazione di lavoro
per specifici requisiti: deve sussistere una concreta entità
imprenditoriale -con conseguente rischio economico in capo
all’appaltatore- anche per l’esercizio del potere direttivo
e organizzativo nei confronti dei lavoratori utilizzati
nell’appalto. Inoltre, l’appaltatore deve essere dotato di
un ampio margine di autonomia rispetto al committente, nel
senso che la gestione materiale dei fattori produttivi deve
sottrarsi all’ingerenza di quest’ultimo (articolo Il Sole 24 Ore del
22.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
GIURISPRUDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO:
Mobbing, irrilevante il numero di dipendenti.
Non conta la quantità degli addetti in azienda, ma la
qualità delle condotte persecutorie poste in essere dai
vertici societari ai fini della rilevanza penale del
mobbing. E ciò anche se la vittima è un lavoratore che ha
un'anzianità di servizio non trascurabile e pare avere
sopportato a lungo le vessazioni dei capi: anche in
un'impresa che non è una bottega artigiana ma vanta ben
venticinque dipendenti, infatti, si può ben configurare il
reato ex articolo 572 c.p. a carico dei vertici societari
per la mortificazione e l'isolamento del singolo lavoratore;
conta infatti la sussistenza in azienda di un rapporto
«para-familiare», sul vecchio modello artigiano-apprendista,
che ad esempio può ben configurarsi quando c'è un
«padre-padrone» che gestisce i rapporti in modo del tutto
autoritario nell'ambito di un rigido schema relazione
«supremazia-subalternità».
È quanto emerge dalla
sentenza 22.12.2014 n. 53416
della VI Sez. penale della Corte di Cassazione.
Motivazione viziata.
Accolto il ricorso del procuratore generale presso la Corte
d'appello contro l'assoluzione pronunciata dal giudice di
secondo grado in favore del presidente e dell'amministratore
delegato della società riformando la decisione del
Tribunale.
Risulta sempre necessaria da parte del giudice un'indagine
da parte del giudice sulle effettive dinamiche delle
relazioni fra il titolare e dipendenti, anche se nelle
imprese più grandi i rapporti fra dirigenti e sottoposti
tendono a essere più superficiali e spersonalizzati
(articolo ItaliaOggi del 30.12.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
V'è l’esplicita
previsione normativa dell’obbligo di prestare idonee
garanzie finanziarie da parte di chi gestisce rifiuti e da
parte di chi effettua bonifiche (cfr. rispettivamente gli
artt. 208, comma 11, lett. g), e 242, comma 7, del Dlgs.
03.04.2006, n. 152), da considerarsi espressione della
necessità di garantire la corretta esecuzione ed il
completamento degli interventi che, se non portati
correttamente a termine, comportano l’impiego e l’esborso di
ingenti risorse pubbliche.
---------------
Deve ritenersi che non sia precluso all’Amministrazione di
imporre una garanzia anche per la fattispecie diversa ma
analoga dell’ordine di rimozione dei rifiuti illecitamente
abbandonati, atteso che, come è stato già affermato da
questa stessa Sezione in altra occasione “è vero che le
norme del D.Lgs. 152/2006 non prevedono espressamente la
possibilità per l’amministrazione di ordinare al presunto
debitore il rilascio di una fideiussione a garanzia dei
danni o delle opere da eseguire in sostituzione del
responsabile di violazioni di norme ambientali.
Tuttavia nulla vieta che l’amministrazione possa intimare,
pur senza disporre di un effettivo potere coercitivo, il
deposito, in via cautelare, di garanzie su somme che la
stessa amministrazione ritiene di ascrivere al danno
ambientale ovvero di dover essa stessa impiegare
nell’esercizio del potere sanzionatorio o surrogatorio per
gli interventi che la legge le impone di eseguire in danno
del responsabile (nello specifico a seguito della violazione
dell’art. 192 del D.Lgs. 152/2006).
Ciò, beninteso, a condizione che il provvedimento cui
inerisce la richiesta di garanzie fideiussorie preveda di
porre a carico (o ponga a carico) del soggetto onerato la
realizzazione di interventi previsti dalla legge a titolo di
sanzione per la violazione delle norme ambientali e in
particolare quando è previsto il potere di esecuzione in
danno del responsabile, e sussista un ragionevole rapporto
tra l’importo che l’amministrazione richiede e che è
garantito dalla fideiussione e quello stimato
dall’amministrazione come costo delle stesse operazioni o
ovvero come misura del danno ambientale”.
... per l'annullamento dell’ordinanza sindacale di avvio a
recupero e allo smaltimento e al ripristino dei luoghi n.
1393 del 05.06.2007;
...
Con il terzo motivo la parte ricorrente lamenta
l’illegittimità della previsione di una fideiussione a
garanzia della corretta esecuzione dei lavori di rimozione e
rirpistino.
In merito all’infondatezza della censura in linea generale
va rilevato che vi è l’esplicita previsione normativa
dell’obbligo di prestare idonee garanzie finanziarie da
parte di chi gestisce rifiuti e da parte di chi effettua
bonifiche (cfr. rispettivamente gli artt. 208, comma 11,
lett. g), e 242, comma 7, del Dlgs. 03.04.2006, n. 152),
da considerarsi espressione della necessità di garantire la
corretta esecuzione ed il completamento degli interventi
che, se non portati correttamente a termine, comportano
l’impiego e l’esborso di ingenti risorse pubbliche.
Pertanto deve ritenersi che non sia precluso
all’Amministrazione di imporre una garanzia anche per la
fattispecie diversa ma analoga dell’ordine di rimozione dei
rifiuti illecitamente abbandonati, atteso che, come è stato
già affermato da questa stessa Sezione in altra occasione
(cfr. Tar Veneto, Sez. III, 04.12.2009, n. 3460) “è
vero che le norme del D.Lgs. 152/2006 non prevedono
espressamente la possibilità per l’amministrazione di
ordinare al presunto debitore il rilascio di una
fideiussione a garanzia dei danni o delle opere da eseguire
in sostituzione del responsabile di violazioni di norme
ambientali.
Tuttavia nulla vieta che l’amministrazione possa intimare,
pur senza disporre di un effettivo potere coercitivo, il
deposito, in via cautelare, di garanzie su somme che la
stessa amministrazione ritiene di ascrivere al danno
ambientale ovvero di dover essa stessa impiegare
nell’esercizio del potere sanzionatorio o surrogatorio per
gli interventi che la legge le impone di eseguire in danno
del responsabile (nello specifico a seguito della violazione
dell’art. 192 del D.Lgs. 152/2006).
Ciò, beninteso, a condizione che il provvedimento cui
inerisce la richiesta di garanzie fideiussorie preveda di
porre a carico (o ponga a carico) del soggetto onerato la
realizzazione di interventi previsti dalla legge a titolo di
sanzione per la violazione delle norme ambientali e in
particolare quando è previsto il potere di esecuzione in
danno del responsabile, e sussista un ragionevole rapporto
tra l’importo che l’amministrazione richiede e che è
garantito dalla fideiussione e quello stimato
dall’amministrazione come costo delle stesse operazioni o
ovvero come misura del danno ambientale”.
Anche la censura di cui al terzo motivo deve pertanto essere
respinta
(TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 22.12.2014 n. 1560 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza rispetto all'interpretazione
dell'art. 10 L. n. 10/1977, ora art. 19 D.P.R. 380/2001,
relativamente all'esonero dal contributo, è stata sempre
restrittiva, ritenendo che la norma esoneri dalla
corresponsione del contributo solo i fabbricati strettamente
complementari ed asserviti alle esigenze proprie di un
impianto industriale e non già quegli edifici che non sono
di per sé destinati alla produzione di beni industriali
ovvero opere edilizie comunque suscettibili di essere
utilizzate al servizio di qualsiasi attività economica.
---------------
Con riferimento più specifico a fattispecie analoghe a
quella qui in esame, la giurisprudenza ha peraltro chiarito
che: “Si configura l'ipotesi di mutamento di destinazione
d'uso urbanisticamente rilevante, come tale soggetto al
preventivo rilascio del titolo concessorio, ogni volta che,
variando il soggetto che utilizza l'immobile e
conseguentemente l'attività che in esso viene svolta,
quest'ultima comporti un maggiore carico urbanistico
derivante dal passaggio ad una diversa categoria funzionale”
(nella fattispecie è stato ritenuto urbanisticamente
rilevante l'utilizzo di un capannone industriale come
magazzino per gestione di prodotti finiti, essendo
quest'ultima un'attività da considerare non come produttiva
ma di intermediazione commerciale e come tale legata quindi
al ciclo della commercializzazione).
Il ricorso deve essere ritenuto
infondato nella parte in cui si contesta la debenza delle
somme richieste dal Comune in ragione del cambio di
destinazione d’uso del fabbricato già costruito, dovendosi
ritenere che l’amministrazione abbia qui operato una
corretta e vincolata applicazione del disposto dell’art. 19
del D.P.R. 380/2001 e della Convenzione per l’attuazione del
Piano per gli insediamenti produttivi, stipulata tra il
Comune di Vescovana e la CO.SE.CON. il 16.11.2004.
Ed infatti il permesso di costruire del 01.01.2005 è
stato rilasciato alla Prologis, dante causa delle odierne
ricorrenti, sul presupposto della destinazione industriale
del realizzando edificio “destinato a deposito di merci e
materiali vari”; tant’è che tale rilascio è stato
subordinato dall’amministrazione al pagamento della sola
“quota del contributo per oneri di urbanizzazione relativa
all’incidenza per opere necessarie al trattamento dei
rifiuti solidi, liquidi e gassosi”.
Ciò in virtù dell’esonero dal pagamento del contributo per
costo di costruzione previsto dall’art. 19, comma 1, D.P.R.
380/2001 a beneficio delle costruzioni destinate alle
attività industriali, ed in conformità alla Convenzione del
16.11.2004, che aveva posto a carico della società
lottizzante (CO.SE.CON.) il soddisfacimento degli oneri di
urbanizzazione per gli interventi aventi destinazione
industriale.
Appare altresì evidente che nel momento in cui, in
conseguenza del mutamento della proprietà, l’attività di
immagazzinaggio di merci svolta nel capannone in questione
non è più legata ad una attività industriale, produttiva di
beni, bensì ad una attività esclusivamente commerciale come
quella indiscutibilmente svolta da D.M.O., allora si viene a
configurare un mutamento di destinazione d’uso del
fabbricato in questione rilevante a fini urbanistici.
Ed infatti, l’attività di commercio al minuto e all’ingrosso
(di prodotti per la casa, profumi, bigiotteria, cartoleria,
vestiario etc...) svolta da D.M.O. si estende e comprende
anche la fase di deposito di tali prodotti all’interno del
magazzino in questione, il quale costituisce una componente
dell’organizzazione dell’impresa commerciale esercitata da
D.M.O..
La giurisprudenza, peraltro, rispetto all'interpretazione
dell'art. 10 L. n. 10/1977, ora art. 19 D.P.R. 380/2001,
relativamente all'esonero dal contributo, è stata sempre
restrittiva, ritenendo che la norma esoneri dalla
corresponsione del contributo solo i fabbricati strettamente
complementari ed asserviti alle esigenze proprie di un
impianto industriale e non già quegli edifici che non sono
di per sé destinati alla produzione di beni industriali
ovvero opere edilizie comunque suscettibili di essere
utilizzate al servizio di qualsiasi attività economica
(Consiglio Stato, Sez. V, 21.10.1998, n. 1512; cfr.
TAR Lombardia Milano, Sez. II, 11.02.2002, n. 495).
Con riferimento più specifico a fattispecie analoghe a
quella qui in esame, la giurisprudenza ha peraltro chiarito
che: “Si configura l'ipotesi di mutamento di destinazione
d'uso urbanisticamente rilevante, come tale soggetto al
preventivo rilascio del titolo concessorio, ogni volta che,
variando il soggetto che utilizza l'immobile e
conseguentemente l'attività che in esso viene svolta,
quest'ultima comporti un maggiore carico urbanistico
derivante dal passaggio ad una diversa categoria funzionale”
(nella fattispecie è stato ritenuto urbanisticamente
rilevante l'utilizzo di un capannone industriale come
magazzino per gestione di prodotti finiti, essendo
quest'ultima un'attività da considerare non come produttiva
ma di intermediazione commerciale e come tale legata quindi
al ciclo della commercializzazione) cfr. C.d.S. sez. V
27.12.2011 n. 6411.
Non si può dubitare, dunque, della rilevanza sotto il
profilo del carico urbanistico del mutamento di destinazione
d'uso da industriale a commerciale.
Sulla base di tali presupposti, il Comune non poteva che
operare una vincolata applicazione dell’art. 19, comma 3, del
D.P.R. 380/2001, a tenore del quale, qualora la destinazione
d’uso delle opere per le quali si è goduto del pagamento di
una minore contribuzione in relazione all’uso industriale-artigianale venga comunque modificata, con o
senza attività edilizia, nel decennio successivo alla
ultimazione dei lavori, il titolare sarà tenuto al pagamento
del contributo di costruzione nella misura massima
corrispondente alla nuova destinazione impressa, con
riferimento temporale al momento dell’intervenuta
variazione.
E, d’altra parte, nel medesimo senso è da leggersi il punto
“J” delle premesse della Convenzione di attuazione del piano
per gli insediamenti produttivi, secondo cui: “con la
cessione del Comune di Vescovana delle aree a standards
primari e secondari, l’esecuzione delle relative opere ed
attrezzature e con le modalità previste dalla Convenzione
stipulata in data odierna, si adempie al soddisfacimento
degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria per gli
interventi aventi destinazione industriale. Per quanto
concerne le destinazioni d’uso commerciali e direzionali, la
differenza dell’onerosità delle opere di urbanizzazione
secondarie, a conguaglio, verrà versata dagli assegnatari al
Comune al momento del rilascio del permesso a costruire. Il
contributo per il costo di costruzione, se e dove previsto,
e la quota relativa all’asporto rifiuti e l’impatto
ambientale, sarà versata dai soggetti attuatari degli
interventi edilizi al Comune al momento del rilascio dei
permessi a costruire”.
Pertanto, anche sulla base degli accordi convenzionali il
passaggio delle costruzioni industriali ad una destinazione
commerciale avrebbe comportato il pagamento del conguaglio
per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione.
Pertanto, il primo motivo di ricorso deve essere ritenuto
infondato
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 18.12.2014 n. 1537 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Si ricorda, conformemente all’orientamento
costantemente seguito sul punto, che, quale principio di
carattere generale, l'annullamento giurisdizionale del
permesso di costruire provoca la qualificazione di abusività
delle opere edilizie realizzate in base ad esso, per cui il
Comune, stante l'efficacia conformativa della sentenza del
giudice amministrativo, oltre che costitutiva e
ripristinatoria, è obbligato a dare esecuzione al giudicato
adottando i provvedimenti consequenziali.
Tali provvedimenti non devono, peraltro, avere ad oggetto
necessariamente la demolizione delle opere realizzate,
prescrivendo l'art. 38 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, in
caso di annullamento del permesso di costruire, una nuova
valutazione da parte del dirigente del competente ufficio
comunale riguardo la possibilità di restituzione in
pristino; qualora la demolizione non risulti possibile, il
Comune dovrà irrogare una sanzione pecuniaria, nei termini
fissati dallo stesso art. 38.
L'effetto conformativo, che discende dal decisum di
annullamento, quindi, non comporta affatto per il Comune
l'obbligo sempre e comunque di disporre la demolizione di
quanto realizzato sulla base del titolo annullato, ma è
circoscritto al divieto, in caso di adozione di un nuovo
titolo edilizio, di riprodurre i medesimi vizi (formali o
sostanziali che siano) che detto titolo avevano connotato:
tanto evincendosi proprio dall'art. 38 d.P.R. 06.06.2001, n.
380, che disciplina proprio la sorte delle opere realizzate
sulla base di un permesso di costruire poi annullato.
Seguendo una lettura non restrittiva della disposizione in
esame, è stato osservato che in sede amministrativa, la
scelta comunale di dare applicazione all'art. 38, con
esclusione della sanzione demolitoria, laddove adeguatamente
motivata ed accompagnata dall'adeguamento ai vizi ed alle
indicazioni contenute nell'annullamento, appare quella
maggiormente rispettosa di tutti gli interessi coinvolti
nella singola controversia ed anche del principio di
proporzionalità dell'azione amministrativa, di diretta
derivazione dal diritto dell'Unione Europea, principio che
impone all'Amministrazione il perseguimento del pubblico
interesse col minor sacrificio possibile dell'interesse
privato.
Anche in sede di esame dottrinale dell'art. 38 è stato
evidenziato come la norma abbia introdotto, per i casi di
annullamento del titolo edilizio, una disciplina
sanzionatoria complessivamente più mite rispetto a quella
prevista per le ipotesi di opere realizzate in assenza, in
totale difformità o con variazioni essenziali rispetto al
titolo originario (cfr. ad es. art. 31 DPR 380 cit.), per le
quali è prevista la sola sanzione della demolizione,
potendosi applicare eccezionalmente la sanzione pecuniaria,
in luogo di quella demolitoria, per i soli interventi in
difformità parziale -ma non totale- rispetto al permesso di
costruire (cfr. art. 34). La peculiarità dell'art. 38 è
giustificata essenzialmente dalla necessità di tutela
dell'affidamento del soggetto che ha edificato in conformità
ad un titolo rivelatosi poi illegittimo.
Se è pur vero che, atteso l'evidente interesse pubblico alla
rimozione delle opere abusive, la demolizione può apparire,
anche in caso di annullamento giurisdizionale di un titolo
edilizio per vizi sostanziali, quale conseguenza per così
dire ordinaria, tuttavia lo stesso art. 38 ammette che, con
motivata relazione, alla restituzione in pristino si
sostituisca la sanzione pecuniaria.
E’ vero, peraltro, che tale sostituzione presuppone, sempre
secondo la norma citata, che la demolizione non sia
possibile. La corretta interpretazione di tale nozione di
"impossibilità" ha dato luogo a dibattiti in giurisprudenza
e dottrina; in proposito, appare ragionevole l'opzione
ermeneutica a mente della quale l'individuazione dei casi di
impossibilità non può arrestarsi alla mera impossibilità (o
grave difficoltà) tecnica, potendo anche trovare
considerazione ragioni di equità o al limite di opportunità.
Al riguardo, si è così ritenuto che, nel caso di opere
realizzate sulla base di titolo annullato, la loro
demolizione debba essere considerata quale extrema ratio,
privilegiando, ogni volta che ciò sia possibile, la
riedizione del permesso di costruire emendato dai vizi
riscontrati (cfr. ad es. CdS 1535/2010).
In definitiva, è quindi possibile concludere nel senso che
l'art. 38 rappresenta "speciale norma di favore" che
differenzia sensibilmente la posizione di colui che abbia
realizzato l'opera abusiva sulla base di titolo annullato
rispetto a coloro che hanno realizzato opere parimenti
abusive senza alcun titolo, tutelando l'affidamento del
privato che ha avviato i lavori in base a titolo ottenuto.
Ne consegue che -secondo il prevalente indirizzo
giurisprudenziale da cui il Collegio non ha motivo di
discostarsi- laddove sia sopravvenuto l’annullamento
giurisdizionale del titolo abilitativo, l'Amministrazione
non può dirsi vincolata ad adottare misure ripristinatorie,
dovendo anzi la scelta -tipicamente discrezionale quale essa
sia, nel senso della riedizione o della demolizione- essere
adeguatamente motivata.
Con il ricorso in oggetto e
per i motivi in esso dedotti, così come riassunti in fatto,
gli odierni istanti hanno chiesto l’annullamento del
provvedimento con il quale il Comune di Malcesine ha
disposto l’irrogazione della sanzione pecuniaria, in
alternativa all’ordine di demolizione, ai sensi dell’art. 38
del D.P.R. 380/2001, relativamente ad una serie di interventi
di ampliamento eseguiti sull’immobile identificato
nell’Hotel Venezia, di proprietà Mazzoldi, ampliamenti
realizzati in forza di un permesso di costruire
successivamente annullato in sede giurisdizionale.
Le censure dedotte da parte ricorrente a sostegno della
richiesta di annullamento si concentrano sull’insussistenza
delle ragioni poste a fondamento dell’applicazione della
sanzione pecuniaria, non essendo stato valutato
correttamente lo stato di fatto e con esso la possibilità di
dare luogo alla demolizione delle parti eseguite in forza
del titolo edilizio giudicato illegittimo.
Esaminate le doglianze dedotte e le controdeduzioni delle
difese resistenti, ritiene il Collego che il ricorso non sia
meritevole di accoglimento.
Va preliminarmente dato atto, attesa la documentazione
depositata in giudizio dal controinteressato, che, per
quanto riguarda specificatamente gli interventi di
ampliamento della facciata dell’edificio prospiciente il
lago di Garda, detti ampliamenti sono stati eliminati,
essendo stato riportato lo stato di fatto così come si
presentava all’epoca antecedente l’intervento.
Per quanto riguarda, invece, le valutazioni che hanno
determinato l’amministrazione ad accogliere, per la restante
parte dell’ampliamento realizzato, la richiesta di
applicazione dell’art. 38 presentata dal controinteressato,
si ricorda, conformemente all’orientamento costantemente
seguito sul punto (Consiglio di Stato Sez. VI, sent. n. 3571
del 13.06.2011), che, quale principio di carattere
generale, l'annullamento giurisdizionale del permesso di
costruire provoca la qualificazione di abusività delle opere
edilizie realizzate in base ad esso, per cui il Comune,
stante l'efficacia conformativa della sentenza del giudice
amministrativo, oltre che costitutiva e ripristinatoria, è
obbligato a dare esecuzione al giudicato adottando i
provvedimenti consequenziali.
Tali provvedimenti non devono, peraltro, avere ad oggetto
necessariamente la demolizione delle opere realizzate,
prescrivendo l'art. 38 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, in
caso di annullamento del permesso di costruire, una nuova
valutazione da parte del dirigente del competente ufficio
comunale riguardo la possibilità di restituzione in
pristino; qualora la demolizione non risulti possibile, il
Comune dovrà irrogare una sanzione pecuniaria, nei termini
fissati dallo stesso art. 38.
L'effetto conformativo, che discende dal decisum di
annullamento, quindi, non comporta affatto per il Comune
l'obbligo sempre e comunque di disporre la demolizione di
quanto realizzato sulla base del titolo annullato, ma è
circoscritto al divieto, in caso di adozione di un nuovo
titolo edilizio, di riprodurre i medesimi vizi (formali o
sostanziali che siano) che detto titolo avevano connotato:
tanto evincendosi proprio dall'art. 38 d.P.R. 06.06.2001,
n. 380, che disciplina proprio la sorte delle opere
realizzate sulla base di un permesso di costruire poi
annullato (cfr. ad es. Consiglio di Stato n. 4923/2012).
Seguendo una lettura non restrittiva della disposizione in
esame, è stato osservato che in sede amministrativa, la
scelta comunale di dare applicazione all'art. 38, con
esclusione della sanzione demolitoria, laddove adeguatamente
motivata ed accompagnata dall'adeguamento ai vizi ed alle
indicazioni contenute nell'annullamento, appare quella
maggiormente rispettosa di tutti gli interessi coinvolti
nella singola controversia ed anche del principio di
proporzionalità dell'azione amministrativa, di diretta
derivazione dal diritto dell'Unione Europea, principio che
impone all'Amministrazione il perseguimento del pubblico
interesse col minor sacrificio possibile dell'interesse
privato (cfr. in materia, in linea generale Consiglio di
Stato, sez. V n. 4733/2012 ed in materia di edilizia Tar
Lombardia n. 2944/2012).
Anche in sede di esame dottrinale dell'art. 38 è stato
evidenziato come la norma abbia introdotto, per i casi di
annullamento del titolo edilizio, una disciplina
sanzionatoria complessivamente più mite rispetto a quella
prevista per le ipotesi di opere realizzate in assenza, in
totale difformità o con variazioni essenziali rispetto al
titolo originario (cfr. ad es. art. 31 DPR 380 cit.), per le
quali è prevista la sola sanzione della demolizione,
potendosi applicare eccezionalmente la sanzione pecuniaria,
in luogo di quella demolitoria, per i soli interventi in
difformità parziale -ma non totale- rispetto al permesso
di costruire (cfr. art. 34). La peculiarità dell'art. 38 è
giustificata essenzialmente dalla necessità di tutela
dell'affidamento del soggetto che ha edificato in conformità
ad un titolo rivelatosi poi illegittimo.
Se è pur vero che, atteso l'evidente interesse pubblico alla
rimozione delle opere abusive, la demolizione può apparire,
anche in caso di annullamento giurisdizionale di un titolo
edilizio per vizi sostanziali, quale conseguenza per così
dire ordinaria, tuttavia lo stesso art. 38 ammette che, con
motivata relazione, alla restituzione in pristino si
sostituisca la sanzione pecuniaria.
E’ vero, peraltro, che tale sostituzione presuppone, sempre
secondo la norma citata, che la demolizione non sia
possibile. La corretta interpretazione di tale nozione di
"impossibilità" ha dato luogo a dibattiti in giurisprudenza
e dottrina; in proposito, appare ragionevole l'opzione
ermeneutica a mente della quale l'individuazione dei casi di
impossibilità non può arrestarsi alla mera impossibilità (o
grave difficoltà) tecnica, potendo anche trovare
considerazione ragioni di equità o al limite di opportunità.
Al riguardo, si è così ritenuto che, nel caso di opere
realizzate sulla base di titolo annullato, la loro
demolizione debba essere considerata quale extrema ratio,
privilegiando, ogni volta che ciò sia possibile, la
riedizione del permesso di costruire emendato dai vizi
riscontrati (cfr. ad es. CdS 1535/2010).
In definitiva, è quindi possibile concludere nel senso che
l'art. 38 rappresenta "speciale norma di favore" che
differenzia sensibilmente la posizione di colui che abbia
realizzato l'opera abusiva sulla base di titolo annullato
rispetto a coloro che hanno realizzato opere parimenti
abusive senza alcun titolo (TAR Puglia, Bari, sez. II,
27.02.2003, n. 873; Consiglio di Stato, sez. IV, 14.12.2002,
n. 7001, TAR Campania Napoli sez II 14.02.2011 n.
932), tutelando l'affidamento del privato che ha avviato i
lavori in base a titolo ottenuto.
Ne consegue che -secondo il prevalente indirizzo
giurisprudenziale da cui il Collegio non ha motivo di
discostarsi- laddove sia sopravvenuto l’annullamento
giurisdizionale del titolo abilitativo, l'Amministrazione
non può dirsi vincolata ad adottare misure ripristinatorie,
dovendo anzi la scelta -tipicamente discrezionale quale essa
sia, nel senso della riedizione o della demolizione- essere
adeguatamente motivata
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 18.12.2014 n. 1533 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ad oggi ed al fine di
applicare la deroga di cui all’art. 14 sopra citato, è
necessario non tanto avere a riferimento la qualità pubblica
o privata dei soggetti esecutori, quanto l’esistenza di un
nesso tra la destinazione dell’edificio ed un interesse
tipico e apprezzabile perseguito dall’Amministrazione.
Si è affermato, infatti, che l'art. 14, primo comma, del
D.p.r. n. 380 del 2001 stabilisce che i permessi di
costruire in deroga alle previsioni degli strumenti
urbanistici generali possono essere rilasciati, fra l'altro,
per la realizzazione di impianti di interesse pubblico e,
ciò, con la conseguenza che “anche impianti ed edifici
privati possono costituire oggetto di permesso di costruire
in deroga”.
Si è sostenuto, inoltre, che “gli immobili di interesse
pubblico possono anche essere di proprietà privata, purché
la loro destinazione assolva finalità di interesse pubblico.
Il permesso di costruire in deroga di cui all'art. 14 del
d.p.r. n. 380/2001 non è un atto dovuto a fronte della
realizzazione di opere di interesse pubblico, ma costituisce
un provvedimento discrezionale, emanato all'esito di una
comparazione dell'interesse alla realizzazione (o al
mantenimento dell'opera) con ulteriori interessi, come
quelli urbanistici, edilizi, paesistici e ambientali”.
Si è così affermata una nozione di interesse pubblico che
prescinde dalla natura pubblica o privata del bene per avere
a riferimento l’esistenza di una “fruibilità collettiva”,
ritenuta meritevole di tutela che, a sua volta, può
risultare compatibile anche con una destinazione commerciale
degli edifici.
Sul punto è dirimente
constatare come, ad oggi ed al fine di applicare la deroga
di cui all’art. 14 sopra citato, è necessario non tanto
avere a riferimento la qualità pubblica o privata dei
soggetti esecutori, quanto l’esistenza di un nesso tra la
destinazione dell’edificio ed un interesse tipico e
apprezzabile perseguito dall’Amministrazione.
Si è affermato, infatti (TAR Lombardia Milano Sez. II,
07.02.2014, n. 417), che l'art. 14, primo comma, del D.p.r.
n. 380 del 2001 stabilisce che i permessi di costruire in
deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici generali
possono essere rilasciati, fra l'altro, per la realizzazione
di impianti di interesse pubblico e, ciò, con la conseguenza
che “anche impianti ed edifici privati possono costituire
oggetto di permesso di costruire in deroga”.
Si è sostenuto, inoltre (TAR Calabria Catanzaro Sez. II,
11-03-2011, n. 375), che “gli immobili di interesse pubblico
possono anche essere di proprietà privata, purché la loro
destinazione assolva finalità di interesse pubblico. Il
permesso di costruire in deroga di cui all'art. 14 del
d.p.r. n. 380/2001 non è un atto dovuto a fronte della
realizzazione di opere di interesse pubblico, ma costituisce
un provvedimento discrezionale, emanato all'esito di una
comparazione dell'interesse alla realizzazione (o al
mantenimento dell'opera) con ulteriori interessi, come
quelli urbanistici, edilizi, paesistici e ambientali”.
Si è così affermata una nozione di interesse pubblico che
prescinde dalla natura pubblica o privata del bene per avere
a riferimento l’esistenza di una “fruibilità collettiva”,
ritenuta meritevole di tutela che, a sua volta, può
risultare compatibile anche con una destinazione commerciale
degli edifici (Consiglio di Stato dell’11.01.2006 n. 46)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 18.12.2014 n. 1532 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per un recente orientamento giurisprudenziale,
gli interventi di restauro e risanamento hanno una finalità
di conservazione e di valorizzazione dell'organismo
edilizio, attraverso la sostituzione anche di elementi
costitutivi di quest'ultimo, che tuttavia non può estendersi
sino alla realizzazione di superfici e volumetrie.
Si è, altresì, sostenuto che dall’'art. 3 del D.Lgs. n.
380/2001 emerge che il restauro “è teso alla conservazione
(e non alla trasformazione) dell'edificio con conseguente
mantenimento dei preesistenti elementi tipologici, formali e
strutturali e, quindi, della "identità fisica" dello stesso,
e che sono, essenzialmente, riconducibili a siffatta figura
i lavori di mero ripristino o rinnovo degli elementi
costitutivi del fabbricato consentendosi la realizzazione di
impianti connessi alle esigenze d'uso e quindi alla
"funzionalità" dell'immobile ed all'eliminazione, per la
medesima ragione di funzionalità degli elementi che si
prefigurano come estranei all'unità immobiliare”.
Non solo
risulta accertato che l’immobile era stato oggetto di una
ristrutturazione che ne aveva modificato gli aspetti
sostanziali, per altro con l’utilizzo di cemento armato
diretto a rinforzare gli elementi strutturali dell’edificio,
ma va rilevato come l’intervento ora contestato possa
comunque essere ricondotto alla nozione di restauro che, in
quanto tale, è oggi connotata da caratteristiche
parzialmente differenti rispetto al passato, circostanza
quest’ultima che fa ritenere insussistente la presunta
violazione dell’art. 29 del D.Lgs. 42/2004.
Per un recente orientamento giurisprudenziale (per tutti si
veda Consiglio di Stato Sez. V, 29.10.2014, n. 5337) gli
interventi di restauro e risanamento hanno una finalità di
conservazione e di valorizzazione dell'organismo edilizio,
attraverso la sostituzione anche di elementi costitutivi di
quest'ultimo, che tuttavia non può estendersi sino alla
realizzazione di superfici e volumetrie (Conferma della
sentenza del Tar Campania-Salerno, sez. II, n.
1594/2002).
Si è, altresì, sostenuto (TAR Campania Salerno Sez. II,
20.10.2011, n. 1694) che dall’'art. 3 del D.Lgs. n. 380/2001
emerge che il restauro “è teso alla conservazione (e non
alla trasformazione) dell'edificio con conseguente
mantenimento dei preesistenti elementi tipologici, formali e
strutturali e, quindi, della "identità fisica" dello stesso,
e che sono, essenzialmente, riconducibili a siffatta figura
i lavori di mero ripristino o rinnovo degli elementi
costitutivi del fabbricato consentendosi la realizzazione di
impianti connessi alle esigenze d'uso e quindi alla
"funzionalità" dell'immobile ed all'eliminazione, per la
medesima ragione di funzionalità degli elementi che si
prefigurano come estranei all'unità immobiliare”
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 18.12.2014 n. 1532 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di opere in violazione di norme
recepite dagli strumenti urbanistici locali, diverse da
quelle in materia di distanze, non comportano immediato e
contestuale danno per i vicini, il cui diritto al
risarcimento presuppone l’accertamento di un nesso tra la
violazione contestata e l’effettivo pregiudizio subito.
La prova di tale pregiudizio deve essere fornita dagli
interessati in modo preciso, con riferimento alla
sussistenza del danno ed all’entità dello stesso.
---------------
Il condominio che abbia acquistato in proprietà esclusiva lo
spazio destinato al parcheggio di un autoveicolo, ancorché
sito nel locale adibito ad autorimessa comune del
condominio, ha facoltà a norma dell’art. 841 cod. civ. di
recintarlo anche con la struttura di un cosiddetto box,
sempre che non gliene facciano divieto l’atto di acquisto o
il regolamento condominiale avente efficacia contrattuale e
non derivi un danno alle parti comuni dell’edificio ovvero
una limitazione al godimento delle parti comuni
dell’autorimessa.
2 – Le doglianze di cui sopra, non hanno pregio.
Non è ravvisarle alcuna delle violazioni di legge eccepite,
mentre le altre doglianze in buona sostanza afferiscono a
pretesi vizi di motivazione della sentenza (vecchio testo
dell’art. 360 n. 5), la cui denuncia ormai non è più
consentita a mente dall’art. 54 del d.l. 22.06.2012, n. 83,
convenuto in legge 07.08.2012, n. 134, pubblicato sulla G.U.
dell’11.8.2012, in vigore dal 12.8.2012 (applicabile nella
fattispecie in esame ex art. 54, comma 3 D.L. n. 83 cit.).
Invero in linea di principio, dev’essere condivisa la
pronuncia adottate dal tribunale nel punto in cui ha
ritenuta legittima la tramezzatura del posto auto
nell’autorimessa comune che è stato così trasformato in box,
avendo la corte fatto utile riferimento alla facoltà
concessa al proprietario, a norma dell’art. 841 c.c. di
recintare (chiudere) il proprio fondo “in qualunque tempo”.
Questa S.C. ha invero precisato che: “Il condominio che
abbia acquistato in proprietà esclusiva lo spazio destinato
al parcheggio di un autoveicolo, ancorché sito nel locale
adibito ad autorimessa comune del condominio, ha facoltà a
norma dell’art. 841 cod. civ. di recintarlo anche con la
struttura di un cosiddetto box, sempre che non gliene
facciano divieto l’atto di acquisto o il regolamento
condominiale avente efficacia contrattuale e non derivi un
danno alle parti comuni dell’edificio ovvero una limitazione
al godimento delle parti comuni dell’autorimessa” (Cass.
Sez. 2, Sentenza n. 5933 del 25/05/1991).
La corte d’appello ha escluso che nella fattispecie vi
fossero i suddetti elementi ostativi, esaminando nel
dettaglio le varie problematiche che al riguardo erano state
sollevate in riferimento ad all’inglobamento di alcune “cose”
di proprietà del condominio (chiusino d’ispezione della rete
fognante, 2 saracinesche dell’acqua potabile e tubature
passanti; un interruttore temporizzato e un punto luce del
garage). Al riguardo la soluzione proposta dal giudice
distrettuale potrebbe ritenersi adeguata e giuridicamente
corretta (“… il diritto degli appellanti di recingere il
fondo ex art. 948, 1122 c.c. sia da contemperare con il
concorrente diritto di servitù degli altri condomini ed il
concreto esercizio della stessa ai fini della manutenzione
degli impianti”), né è stata oggetto di una specifica
contestazione in riferimento al principio di diritto
richiamato nella sentenza.
La Corte ha inoltre adeguatamente valutato la questione
della non applicabilità del regolamento condominiale, con
riferimento all’epoca di entrata in vigore. Le censure mosse
in proposito, non possono più trovare ingresso perché non è
più censurabile la motivazione della sentenza.
3 – Invero si è prima fatto cenno che, a mente dell’art. 360, primo
comma, n. 5, c.p.c., come novellato dall’art. 54 del d.l.
22.06.2012, n. 83, convertito in legge 07.08.2012, n. 134,
deve ormai escludersi la sindacabilità in sede di
legittimità della correttezza logica della motivazione, di
idoneità probatoria di una determinata risultanza
processuale, non avendo più autonoma rilevanza il vizio di
contraddittorietà o insufficienza della motivazione (Cass.
Ordinanza n. 16300 del 16/07/2014).
Le S.U. al riguardo hanno precisato che: “La
riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c…..
deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici
dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al
“minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla
motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo
l’anomalia motivazionaie che si tramuta in violazione di
legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente
all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio
risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere
dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia
si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto
l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione
apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni
inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed
obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza
del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione"
(Cass. S. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).
Le S.U. hanno ulteriormente precisato in merito, che “L’art.
360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato
dall’art. 54 del d.l. 22.06.2012, n. 83, conv. in legge
07.08.2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio
specifico denunciarle per cassazione, relativo all’omesso
esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui
esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti
processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra
le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se
esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della
controversia).
Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni
degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n.
4, c.p.c. il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il
cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o
extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il
“quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione
processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo
restando che l’omesso esame di elementi istruttori non
integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto
decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia
stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché
la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze
probatorie" (Cass. S.U. Sentenza n. 8053 del
07/04/2014).
Nella fattispecie non ricorre l’ipotesi di cui all’art. 395
n. 5 c.p.c. (nuovo testo): il ricorrente non ha indicato il
fatto storico il cui esame sarebbe stato omesso dalla Corte
territoriale. In conclusione il ricorso principale dev’essere
disatteso.
B) RICORSO INCIDENTALE.
C.B. e Cr.Fi. con l’unico motivo, denunciano A) la
violazione e falsa applicazione dell’art. 1122 c.c. in
relazione al D.M. 16.02.1982 ed al D.M. 01.02.1986, che si
denunziano parimenti violati e falsamente applicati, in
relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c..
B) Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che
è stato oggetto di discussione tra le parti; conseguente
vizio della motivazione, in relazione all’art. 360 n. 5
c.p.c..
Le doglianze si riferiscono al punto della decisione che ha
ritenuto illegittimo ai sensi dell’art. 1122 c.c. il varco
creato nel muro per eccedere al locale di proprietà
esclusiva dei ricorrenti incidentali.
Invece secondo costoro tale varco deve ritenersi legittimo
in quanto lo stesso mette in comunicazione il box con un
vano non condominiale, (la cantina) non di proprietà del
condomino, ma degli stessi ricorrenti, per cui non può
derivare alcun pregiudizio alle parti comuni dell’edificio.
Insomma “il varco (per vero aperto non direttamente tra
box e cantina, ma tra ripostiglio e cantina), presidiato da
porta con congegno di auto chiusura, doveva essere ritenuto
legittimo perché conforme ai decreti ministeriali e doveva,
comunque, affermarsi, dalla Corte romana, a pena di
violazione delle norme denunziate violate, il diritto degli
allora appellanti di mantenerlo negli accorgimenti stabiliti
dal DM 01.02.1986″. In realtà la destinazione del locale
collegato (cantina) consentiva collegamento dei locali
suddetta secondo la normativa (DM 01.02.1986 e DM
16.02.1982).
La doglianza appare fondata nei limiti che si preciserà.
Invero la corte ha ritenuto il varco illegittimo ex art.
1122 c.c. facendo esclusivo riferimento al D.M. 01.02.1986
con le cui disposizioni sarebbe in contrasto. “Emerge
infatti (si legge a pag. 8 della sentenza) dalla risposta
della società PIM alla richiesta dell’amministratore del
condominio circa la legittimità della trasformazione del
posto auto in box, che il locale derivato da tale
trasformazione, ai sensi del D.M. 01/02/1986 è legittimo ove
non vi sia collegamento diretto con altro locale
dell’edificio, situazione che invece nella specie era stata
realizzata”.
Osserva in proposito il Collegio che la non rispondenza
dell’immobile alla normativa di cui al DM D.M. 01/0219/86
può avere rilievo solo sotto il profilo di legittimità
amministrativa, ma non significa anche che senz’altro rechi
danno alle parti comuni dell’edificio ai sensi dell’art.
1122 c.c.. È quest’ultimo un profilo che dovrà essere
oggetto di ulteriore indagini da parte del giudice di
rinvio.
Si veda al riguardo la giurisprudenza di questa Corte, sia
pure con riferimento ad una diversa fattispecie: “La
realizzazione di opere in violazione di norme recepite dagli
strumenti urbanistici locali, diverse da quelle in materia
di distanze, non comportano immediato e contestuale danno
per i vicini, il cui diritto al risarcimento presuppone
l’accertamento di un nesso tra la violazione contestata e
l’effettivo pregiudizio subito. La prova di tale pregiudizio
deve essere fornita dagli interessati in modo preciso, con
riferimento alla sussistenza del danno ed all’entità dello
stesso" (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 24387 del
01/12/2010).
Soltanto sotto questo specifico profilo, dunque, il ricorso
incidentale va accolto; in sede di rinvio si dovrà stabilire
se sussistono o meno ulteriori elementi per ritenere l’opera
in contrasto o meno con il disposto di cui all’art. 1122 c.c..
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 16.12.2014 n. 26426 -
link a http://renatodisa.com). |
VARI:
Il notaio incaricato di redigere l’atto pubblico
di trasferimento immobiliare, il quale abbia compitato la
dichiarazione a fini INVIM, sottoscritta dal venditore,
riportando quanto da questi dichiarato rispetto ai valori
finali e iniziali, e abbia provveduto alla relativa
registrazione senza avvertire la parte delle conseguenze
derivanti da dichiarazioni non veritiere, almeno quando è
ragionevolmente probabile che quelle fornite dalla parte non
lo siano, pone in essere un comportamento non conforme alla
diligenza qualificata richiesta dalla particolare
qualificazione tecnico/giuridica della prestazione
professionale –oggetto dell’incarico conferito dal cliente e
quindi ricompresa nel rapporto di prestazione di opera
professionale (artt. 1176, 2230 e segg. cod. civ.) e nel
contempo intrecciata alle peculiari funzioni notarili
pubblicistiche– atteso che tra i mezzi e i comportamenti
rientranti nella prestazione professionale cui il notaio si
è obbligato vi è quello di fornire consulenza tecnica alla
parte, finalizzata non solo al raggiungimento dello scopo
privatistico e pubblicistico tipico al quale Tatto rogando è
preordinato, ma anche a conseguire gli effetti vantaggiosi
eventualmente previsti dalla normativa fiscale e a
rispettare gli obblighi imposti da tale normativa; con la
conseguenza di rispondere dei danni originati da tale
comportamento anche nella sola ipotesi di colpa lieve.
4.2.5. Va esaminato un ulteriore profilo che emerge, seppure
in modo confuso, dalla sentenza impugnata, laddove la stessa
sembra voler alludere ad una diversa responsabilità del
notaio a seconda della parte che ha conferito l’incarico,
sino ad arrivare ad ipotizzare un diverso atteggiarsi
dell’obbligo professionale se il notaio incaricato sia stato
designato dalla controparte (cfr. sintesi della sentenza nel
p.1).
La giurisprudenza della Corte, infatti, ha chiarito che, ai
fini della individuazione della responsabilità professionale
del notaio nella stipulazione dell’atto pubblico di vendita,
sempre che dal comportamento del professionista siano
derivati danni, non ha alcun rilievo che l’incarico di
redigere l’atto pubblico sia stato conferito, e remunerato,
da una delle parti, sussistendo la responsabilità
professionale nei confronti di tutte le parti dell’atto
rogato sulla base dell’art. 1411 cod. civ. per quella parte
che non lo ha conferito (Cass. n. 14865 del 2013).
4.2.6. In conclusione, può enunciarsi il seguente principio
di diritto: “Il notaio incaricato di redigere l’atto
pubblico di trasferimento immobiliare, il quale abbia
compitato la dichiarazione a fini INVIM, sottoscritta dal
venditore, riportando quanto da questi dichiarato rispetto
ai valori finali e iniziali, e abbia provveduto alla
relativa registrazione senza avvertire la parte delle
conseguenze derivanti da dichiarazioni non veritiere, almeno
quando è ragionevolmente probabile che quelle fornite dalla
parte non lo siano, pone in essere un comportamento non
conforme alla diligenza qualificata richiesta dalla
particolare qualificazione tecnico/giuridica della
prestazione professionale –oggetto dell’incarico conferito
dal cliente e quindi ricompresa nel rapporto di prestazione
di opera professionale (artt. 1176, 2230 e segg. cod. civ.)
e nel contempo intrecciata alle peculiari funzioni notarili
pubblicistiche– atteso che tra i mezzi e i comportamenti
rientranti nella prestazione professionale cui il notaio si
è obbligato vi è quello di fornire consulenza tecnica alla
parte, finalizzata non solo al raggiungimento dello scopo
privatistico e pubblicistico tipico al quale Tatto rogando è
preordinato, ma anche a conseguire gli effetti vantaggiosi
eventualmente previsti dalla normativa fiscale e a
rispettare gli obblighi imposti da tale normativa; con la
conseguenza di rispondere dei danni originati da tale
comportamento anche nella sola ipotesi di colpa lieve” (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.12.2014 n. 26369 -
link a http://renatodisa.com). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il
conferimento di tali posizioni organizzative al personale
non dirigente delle pubbliche amministrazioni inquadrato
nelle aree esula dall’ambito degli atti amministrativi
autoritativi (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 2) e si
iscrive nella categoria degli atti negoziali, adottati con
la capacità e i poteri del datore di lavoro (D.Lgs. citato
art. 5, comma 2; art. 63, commi 1 e 4), in particolare
configurandosi l’attività della Amministrazione
–nell’applicazione della disposizione contrattuale– non come
esercizio di un potere di organizzazione, ma come
adempimento di un obbligo di ricognizione e di
individuazione degli aventi diritto.
Siffatta qualificazione comporta che le relative
controversie siano devolute alla giurisdizione ordinaria.
Invero, “Detti atti rientrano nel novero degli atti di
micro-organizzazione, costituenti esplicazione della
capacità e dei poteri del privato datore di lavoro, giusta
l’art. 5, comma 2, del D.Lgs. 20.03.2011, n. 165, sottratti
per definizione alla cognizione del giudice amministrativo,
in quanto inerenti a posizioni di diritto soggettivo”.
... per l'annullamento della determinazione del Sindaco del
Comune di Fiscaglia n. 1 del 03.07.2014 per la parte che
attiene alla nomina della ricorrente nella posizione
organizzativa del Servizio Personale, connessa alla sua
rimozione dal Servizio Ragioneria del medesimo Comune ed
allo speculare spostamento del contro interessato dal
Servizio Personale al Servizio Ragioneria.
...
Secondo giurisprudenza consolidata il conferimento di tali
posizioni organizzative al personale non dirigente delle
pubbliche amministrazioni inquadrato nelle aree esula
dall’ambito degli atti amministrativi autoritativi (D.Lgs.
n. 165 del 2001, art. 2, comma 2) e si iscrive nella
categoria degli atti negoziali, adottati con la capacità e i
poteri del datore di lavoro (D.Lgs. citato art. 5, comma 2;
art. 63, commi 1 e 4), in particolare configurandosi
l’attività della Amministrazione –nell’applicazione della
disposizione contrattuale– non come esercizio di un potere
di organizzazione, ma come adempimento di un obbligo di
ricognizione e di individuazione degli aventi diritto.
Siffatta qualificazione comporta che le relative
controversie siano devolute alla giurisdizione ordinaria.
“Detti atti rientrano nel novero degli atti di
micro-organizzazione, costituenti esplicazione della
capacità e dei poteri del privato datore di lavoro, giusta
l’art. 5, comma 2, del D.Lgs. 20.03.2011, n. 165, sottratti
per definizione alla cognizione del giudice amministrativo,
in quanto inerenti a posizioni di diritto soggettivo (Cons.
Stato, Sez. V, 15.02.2010, n. 815)” (cfr. TAR Liguria,
Genova, Sez. II, 10.11.2010 n. 10259; in termini, TAR
Campania, Napoli, 07.10.2010, n. 17996; TAR Abruzzo,
L’Aquila, Sez. I, 28.02.2013, n. 214 e Cass. 8836/2010).
Pertanto il ricorso è inammissibile per difetto di
giurisdizione, salvi gli effetti della “traslatio judicii”
in caso di riproposizione al giudice ordinario nei sensi e
nei termini di cui all’art. 11 del C.p.a.
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 16.12.2014 n. 1238 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI:
Quanto alla natura ingiuriosa della parola
“scemo”, le frasi volgari e offensive sono idonee a
integrare gli estremi del reato (di oltraggio) anche se
siano divenute di uso corrente in particolari ambienti
perché l’abitudine al linguaggio volgare e genericamente
offensivo proprio di determinati ceti sociali non toglie
alle dette frasi la loro obiettiva capacità di ledere il
prestigio del pubblico ufficiale, con danno della pubblica
amministrazione da esso rappresentata.
1. Il ricorso é infondato; per quanto riguarda la prima
censura, è sufficiente precisare che la valutazione
frazionata dell’attendibilità del teste persona offesa è
stata giustificata con il fatto che sull’ingiuria –intesa
come dato di fatto oggettivo– vi è stata l’ammissione
dell’imputato, mentre per quanto riguarda le minacce non vi
è stato alcun riscontro.
2. Quanto alla concessione della scriminante della
provocazione, non può certo ritenersi tale il mancato
raggiungimento di un accordo transattivo, di cui peraltro
non si dice nemmeno a chi dei due contendenti sia
addebitabile e per quale motivo (rendendo, pertanto, sul
punto il ricorso aspecifico).
3. Infine, quanto alla natura ingiuriosa della parola “scemo”,
occorre ricordare che Le frasi volgari e offensive sono
idonee a integrare gli estremi del reato (di oltraggio)
anche se siano divenute di uso corrente in particolari
ambienti perché l’abitudine al linguaggio volgare e
genericamente offensivo proprio di determinati ceti sociali
non toglie alle dette frasi la loro obiettiva capacità di
ledere il prestigio del pubblico ufficiale, con danno della
pubblica amministrazione da esso rappresentata (nella
fattispecie era stata ritenuta oltraggiosa la frase “vieni
qui scemo, cretino”; cfr. Sez. 6, n. 6431 del
25/02/1989, CATALDI, Rv. 181175) (Corte
di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 15.12.2014 n. 52082 -
link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA
PRIVATA:
E' illegittima un'ordinanza di demolizione dato
il contenuto indeterminato della stessa.
Risulta infatti impossibile ricostruire se i
manufatti in questione rientrino appunto in quelli che si
possono realizzare liberamente o costituiscano invece abuso
sanzionabile.
... per l’annullamento, previa sospensione, dell’ordinanza
20.11.2013 n. 176 e prot. n. 178937, notificata il 26.11.2013, con la quale il Responsabile dell’area
tecnica del Comune di Iseo ingiunge alla ditta Campeggio ... S.n.c. quale
proprietaria dell’area di demolire opere abusive realizzate
sull’area del Campeggio stesso sita alla locale via Cave 14,
distinta al catasto comunale al foglio 3, mappali 1 e 18;
...
- che con l’ordinanza meglio descritta in epigrafe (doc. 2
ricorrente, copia di essa) si ordina la demolizione di una
serie di manufatti ritenuti abusivi realizzati all’interno
del campeggio gestito dalla parte ricorrente;
- che i manufatti in questione potrebbero in astratto
rientrare nel concetto di “manufatti leggeri…installati, con
temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno di strutture
ricettive all'aperto, in conformità alla normativa regionale
di settore, per la sosta ed il soggiorno di turisti” che
rientrano nell’attività edilizia libera secondo l’art. 3,
comma 1, punto e.5, del T.U. 06.06.2001 n. 380, come
modificato dall’art. 41, comma 4, del d.l. 21.06.2013
n. 69, convertito, con modificazioni, dalla l. 09.08.2013
n. 98 e, successivamente, dall'art. 10-ter, comma 1, del d.l.
28.03.2014, n. 47, convertito, con modificazioni, dalla l.
23.05.2014 n. 80;
- che peraltro ciò non si può affermare, né escludere, senza
una esatta disamina del concreto assetto dei manufatti
contestati, che va ricostruito attraverso una corretta e
completa istruttoria;
- che viceversa il provvedimento impugnato descrive i
manufatti contestati in termini generici, dato che parla di
“realizzazione sulle piazzole di preingressi consistenti in
costruzioni in legno o in lamiera coibentata (circa 60) e
n. 8 tende alloggio posizionate su basamento a terra o pedana
rialzata … collocazione sulle predette piazzole di strutture
di materiale ferroso infisse al terreno funzionali alla
copertura delle roulotte e preingressi e pavimentazione
esterna in lastre di pietra o altro materiale non
filtrante…… collocazione di roulotte sulle piazzole, in
parte prive di targa di immatricolazione, di sistemi idonei
a garantirne la mobilità e la circolazione in sicurezza su
strada, non diretti a soddisfare esigenze meramente
temporanee…” (doc. 2 ricorrente, cit.);
- che in tali termini risulta fondato e assorbente il primo
motivo di ricorso, incentrato sul contenuto indeterminato
dell’ordinanza in parola. Risulta infatti impossibile
ricostruire se i manufatti in questione rientrino appunto in
quelli che si possono realizzare liberamente o costituiscano
invece abuso sanzionabile;
- che quindi il ricorso è fondato e va accolto, con
l’annullamento dell’ordinanza impugnata
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 13.12.2014 n. 1383 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Permesso di costruire - Impianto di radiotelecomunicazioni su lastrico solare condominiale.
E' illegittimo il diniego dell'istanza
di sanatoria presentata per aver costruito un traliccio per
l'installazione di antenne di radiotelecomunicazioni sul
lastrico solare condominiale laddove la giurisprudenza ha
chiarito che:
- il traliccio per l'installazione di antenne di
radiotelecomunicazioni è stato costruito su un lastrico
solare di proprietà comune a tutti i condomini delle diverse
unità immobiliari che costituiscono l'edificio: il lastrico
solare, ai sensi dell'art. 1117 del codice civile, è parte
comune dell'edificio se dal titolo di proprietà non risulta
il contrario. Per la realizzazione dell'intervento oggetto
della presente istanza, pertanto, è richiesto il consenso
esplicito di lutti i proprietari che, a tutt'oggi, non
risulta essere stato rilasciato;
- ai sensi dell’art. 1102 c.c. “Ciascun partecipante può
servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la
destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di
farne parimenti uso secondo il loro diritto…”: non vi è
prova che l’impianto per cui è causa pregiudichi l’uso e il
godimento del lastrico solare da parte degli altri condomini
o impedisca loro di installare antenne o impianti simili.
... per l'annullamento del "provvedimento di diniego
dell'istanza di rilascio del titolo abilitativo in sanatoria"
n 1445//RIPCOND2003 a firma del dirigente del Settore
Urbanistica e Assetto del Territorio Ufficio Condono
Edilizio, del 05.06.2008, notificato il 27.06.2008, con il
quale è stata respinta l'istanza di rilascio del titolo
abilitativo in sanatoria relativa al "traliccio per
l'installazione di antenne di radiotelecomunicazioni"
ubicato in Brindisi alla Viale Duca degli Abruzzi n. 26,
nonché di ogni altro atto presupposto, connesso e/o
conseguente a detto provvedimento.
...
Nel merito il ricorso è fondato nei termini e per le ragioni
di seguito indicate.
Il titolo in sanatoria richiesto dalla società ricorrente
non è stato negato dal Comune per ragioni pubblicistiche
(es. assenza dei presupposti, insanabile contrasto delle
violazioni poste in essere con la disciplina urbanistica e/o
ambientale), ma per ragioni squisitamente privatistiche.
Il provvedimento impugnato è, infatti, così motivato “Il
traliccio per l'installazione di antenne di
radiotelecomunicazioni è stato costruito su un lastrico
solare di proprietà comune a tutti i condomini delle diverse
unità immobiliari che costituiscono l'edificio: il lastrico
solare, ai sensi dell'art. 1117 del codice civile, è parte
comune dell'edificio se dal titolo di proprietà non risulta
il contrario. Per la realizzazione dell'intervento oggetto
della presente istanza, pertanto, è richiesto il consenso
esplicito di lutti i proprietari che, a tutt'oggi, non
risulta essere stato rilasciato".
La trascritta motivazione appare al Collegio inidonea a
sorreggere l’impugnato provvedimento di diniego considerato
che, benché l’impianto in questione sia ormai installato da
quasi un trentennio, non risultano agli atti denunce,
esposti o lamentele presentate dai condomini. La S.C. ha
chiarito che “Né l'assemblea dei condomini né il
regolamento da questa approvato possono vietare
l'installazione di singole antenne ricetrasmittenti, in
quanto in tale modo non vengono disciplinate le modalità di
uso della cosa comune, ma viene ad essere menomato il
diritto di ciascun condomino all'uso del tetto di copertura,
incidendo sul diritto di proprietà comune dello stesso”
(Cassazione Civile, Il Sezione, 05.06.1998, n. 5517).
Ai sensi dell’art. 1102 c.c. “Ciascun partecipante può
servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la
destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di
farne parimenti uso secondo il loro diritto…”: non vi è
prova che l’impianto per cui è causa pregiudichi l’uso e il
godimento del lastrico solare da parte degli altri condomini
o impedisca loro di installare antenne o impianti simili (TAR
Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 10.12.2014 n. 3050 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
E' legittima l'esclusione dalla gara d'appalto laddove
l’esclusione stessa non è dipesa dal
fatto che il reato di cui al decreto penale in questione sia
stato ritenuto dall’Amministrazione “grave” ed “incidente
sulla moralità professionale” ai sensi del comma 1 dell’art.
38 del D.Lgs. n. 163/2006, ma in quanto il legale
rappresentante della ditta consorziata ha omesso di
dichiarare l’esistenza della suddetta condanna, in
violazione del comma 2 dell’art. 38 del codice dei
contratti.
---------------
E' noto il principio in forza del quale spetta alla Stazione
appaltante valutare il precedente penale dichiarato e
congruamente motivare in ordine ai requisiti della incidenza
sulla moralità professionale e della gravità del reato
stesso, ma certo tale valutazione di rilevanza/irrilevanza
del precedente –sia in termini di incidenza sulla moralità
professionale che di gravità- non può essere compiuta dal
concorrente, che non può operare alcun filtro in sede di
dichiarazioni rilasciate ex art. 38 D.Lgs. n. 163/2006, con
la conseguenza che è onere di questi dichiarare tutti i
precedenti penali ex art. 38, la cui valutazione, nei
termini sopra riferiti, è riservata in via esclusiva alla
stazione appaltante.
---------------
A prescindere dalla espressa previsione della lex specialis
di gara, giova ricordare come sia stato di recente rilevato
che “anche in assenza di un'espressa comminatoria nella lex
specialis, stante la eterointegrazione con la norma di
legge, l'inosservanza dell'obbligo di rendere al momento
della presentazione della domanda di partecipazione le
dovute dichiarazioni previste dall'art. 38 del D.lgs. n. 163
del 2006 comporta l'esclusione del concorrente, senza che
sia consentito alla stazione appaltante disporne la
regolarizzazione o l'integrazione, non trattandosi di
irregolarità, vizio o dimenticanza di carattere puramente
formale".
La tesi della ricorrente non è
condivisibile.
Invero, il provvedimento di esclusione impugnato risulta
essere fondato sulla circostanza che il Presidente del
C.d.A. della ditta ... srl, consorziata della ricorrente,
ha omesso di dichiarare “la sussistenza di una condanna in
violazione delle disposizioni dell’art. 38 del D.Lgs.
163/2006”. Pertanto, l’esclusione non è dipesa dal fatto che
il reato di cui al decreto penale in questione sia stato
ritenuto dall’Amministrazione “grave” ed “incidente sulla
moralità professionale” ai sensi del comma 1 dell’art. 38
del D.Lgs. n. 163/2006, ma in quanto il legale
rappresentante della ditta consorziata ha omesso di
dichiarare l’esistenza della suddetta condanna, in
violazione del comma 2 dell’art. 38 del codice dei
contratti.
Non pare fuori luogo ricordare che il citato comma 2
dell’art. 38 dispone che “Il candidato o il concorrente
attesta il possesso dei requisiti mediante dichiarazione
sostitutiva in conformità alle previsioni del testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
documentazione amministrativa, di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445, in cui
indica tutte le condanne penali riportate, ivi comprese
quelle per le quali abbia beneficiato della non menzione. Ai
fini del comma 1, lettera c), il concorrente non è tenuto ad
indicare nella dichiarazione le condanne per reati
depenalizzati ovvero dichiarati estinti dopo la condanna
stessa, né le condanne revocate, né quelle per le quali è
intervenuta la riabilitazione”; a tale proposito è stato
autorevolmente rilevato che trattasi di
“dichiarazione/prescrizione essenziale che prescinde dalla
stazione appaltante perché attiene ai principi di lealtà e
affidabilità contrattuale e professionale che presiedono
agli appalti e ai rapporti con la stazione stessa, né si
rilevano validi motivi per non effettuare tale
dichiarazione, posto che spetta comunque all'Amministrazione
la valutazione circa la gravità o meno del reato”, e
ancora che “Le procedure concorsuali, infatti, perseguono
il rispetto rigoroso delle regole poste ad assicurare
l'imparzialità e la parità di trattamento in tutte le loro
fasi, per cui spetta al concorrente il dovere della
diligenza nella osservanza delle disposizioni di legge e
concorsuali proprio ai fini della tutela dell'interesse al
concorso” (Consiglio di Stato, sez. III, 24.06.2014, n.
3198).
D’altra parte, è noto il principio in forza del quale spetta
alla Stazione appaltante valutare il precedente penale
dichiarato e congruamente motivare in ordine ai requisiti
della incidenza sulla moralità professionale e della gravità
del reato stesso, ma certo tale valutazione di
rilevanza/irrilevanza del precedente –sia in termini di
incidenza sulla moralità professionale che di gravità- non
può essere compiuta dal concorrente, che non può operare
alcun filtro in sede di dichiarazioni rilasciate ex art. 38 D.Lgs. n. 163/2006, con la conseguenza che è onere di questi
dichiarare tutti i precedenti penali ex art. 38, la cui
valutazione, nei termini sopra riferiti, è riservata in via
esclusiva alla stazione appaltante (Consiglio di Stato, sez.
V, 05.09.2014, n. 4528; id., sez. III, n. 3198/2014
cit.; id., sez. IV, 25.03.2014, n. 1456; id., sez. V, 27.01.2014, n. 400; id., sez. V,
06.03.2013, n. 1378).
---------------
In ogni caso
ed a prescindere dalla espressa previsione della lex
specialis di gara, giova ricordare come sia stato di recente
rilevato che “anche in assenza di un'espressa comminatoria
nella lex specialis, stante la eterointegrazione con la
norma di legge, l'inosservanza dell'obbligo di rendere al
momento della presentazione della domanda di partecipazione
le dovute dichiarazioni previste dall'art. 38 del D.lgs. n.
163 del 2006 comporta l'esclusione del concorrente, senza
che sia consentito alla stazione appaltante disporne la
regolarizzazione o l'integrazione, non trattandosi di
irregolarità, vizio o dimenticanza di carattere puramente
formale" (Cons. St., sez. III, 02.07.2013, n. 3550; 14.12.2011, n. 6569) (Consiglio di Stato, sez. V,
05.09.2014, n. 4528, cit.).
Nemmeno è possibile ritenere che le previsioni del
disciplinare e del modulo predisposto dalla Stazione
appaltante fossero irragionevoli, attesa la conformità delle
suddette previsioni al disposto di cui all’art. 38, comma 2,
del D.Lgs. n. 163/2006
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 12.12.2014 n. 1524 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Sul cambio di
destinazione d’uso senza opere da residenza a uffici.
(a) il caso in esame è regolato dal
principio di liberalizzazione delle destinazioni d’uso
stabilito dagli art. 51 e 52 della LR 12/2005. In mancanza
di espressi divieti contenuti nello strumento urbanistico,
il passaggio a un diverso tipo di utilizzazione deve
ritenersi sempre ammissibile;
(b) questo non significa però che sia anche a costo zero. In
realtà, la liberalizzazione delle destinazioni d’uso non
assicura da sola la gratuità del passaggio da una
destinazione all’altra. Per ottenere questo risultato sono
necessarie tre condizioni:
(1) il cambio deve essere effettivamente senza opere;
(2) la nuova destinazione d’uso non deve alterare il fabbisogno di
aree a standard;
(3) il cambio deve distanziarsi temporalmente dai lavori che
comportano il versamento del contributo di costruzione
(nuova edificazione, ristrutturazione);
(c) nello specifico, la prima condizione (assenza di
opere) non è posta in dubbio. Se il Comune avesse accertato
nuove opere avrebbe potuto richiamare l’art. 44, comma 12,
della LR 12/2005, che impone il conguaglio rispetto alla
nuova destinazione d’uso, limitatamente alla parte di
edificio interessata dai lavori;
(d) per quanto riguarda la seconda condizione
(invarianza del fabbisogno di aree a standard), il
provvedimento impugnato afferma che il cambio di
destinazione d’uso comporterebbe un maggiore carico
urbanistico. Questa formula si può interpretare nel senso
che la presenza di uffici in luogo della precedente
abitazione renderebbe necessario acquisire nuove aree a
standard o inserire nuovi servizi di interesse pubblico in
quelle esistenti. Si tratta però di un’affermazione
imprecisa e generica;
(e) l’imprecisione consiste nel mettere in relazione il
fabbisogno di standard urbanistici e gli oneri di
urbanizzazione, che sono e devono invece rimanere concetti
separati, trattandosi di costi che hanno titoli diversi e si
sommano tra loro. Non è possibile chiedere il pagamento
degli oneri di urbanizzazione affermando (o sottintendendo)
che sono dovuti per adeguare gli standard urbanistici;
(f) la genericità dell’affermazione del Comune emerge dal
fatto che i maggiori standard ipotizzati non sono descritti
in dettaglio. Il provvedimento impugnato sembra ritenere
ovvio che in un passaggio come quello in esame la nuova
destinazione d’uso richieda maggiori aree a standard.
Un simile onere economico non può tuttavia essere imposto
sulla base di semplici presunzioni. L’art. 51, comma 2,
della LR 12/2005 affida al PGT il compito di individuare in
quali casi i cambi destinazione d'uso, se attuati con opere
edilizie, comportino una variazione del fabbisogno di aree a
standard.
Per i cambi senza opere il successivo comma 3 precisa che
l’adeguamento delle aree a standard è necessario
esclusivamente quando la nuova destinazione d’uso preveda
l’insediamento di esercizi commerciali non costituenti
esercizi di vicinato. Anche volendo lasciare aperta la
possibilità che, per particolari esigenze pubbliche,
l’adeguamento sia necessario in ulteriori casi, si
tratterebbe comunque di fattispecie da disciplinare
puntualmente all’interno del PGT;
(g) per quanto riguarda infine la terza condizione
(adeguato intervallo temporale), l’art. 52, comma 3, della
LR 12/2005 fissa in dieci anni dall’ultimazione dei lavori
il periodo entro il quale l’amministrazione può chiedere
l’integrazione del contributo di costruzione con riferimento
alla nuova destinazione d’uso. Nel caso in esame tale
termine è ampiamente scaduto;
(h) si osserva in proposito che l’integrazione del
contributo di costruzione è un diritto potestativo pubblico
che attiene al rapporto intercorrente tra l’amministrazione
e il proprietario dell’edificio. Tale rapporto è soggetto a
riequilibrio qualora l’edificio, entro dieci anni dalla fine
dei lavori (costruzione o ristrutturazione), acquisti
stabilmente una destinazione d’uso che, se introdotta fin
dall’inizio, avrebbe incrementato il costo del titolo
edilizio.
L’adeguamento funziona peraltro in una sola direzione,
perché se poi si ritorna a una destinazione meno onerosa
l’art. 52, comma 3, della LR 12/2005 non contempla alcun
obbligo di rimborso. Oltre i dieci anni dalla fine dei
lavori il proprietario può invece effettuare il cambio senza
subire conseguenze economiche. La norma tende infatti a
disincentivare i comportamenti opportunistici, che non si
possono più presumere dopo un così lungo intervallo
temporale.
... per l'annullamento del provvedimento del dirigente della
Divisione Gestione del Territorio prot. n. U0012300-Pg del 09.02.2007, con il quale è stato determinato il
contributo per oneri di urbanizzazione primaria e secondaria
in relazione al cambio di destinazione d’uso da residenza a
uffici in un edificio di via S. Francesco d’Assisi;
...
1. La ricorrente L.C.M. è comproprietaria nel
Comune di Bergamo di una unità immobiliare di 207,31 mq
collocata al terzo piano di un edificio (mappale n. 2732)
situato in via S. Francesco d’Assisi.
2. In data 08.02.2007 la ricorrente ha comunicato al
Comune il cambio di destinazione d’uso senza opere da
residenza a uffici. Non è contestato che la prima
destinazione sussistesse fin dal momento della realizzazione
dell’edificio, che è risalente nel tempo (almeno cento anni,
secondo la ricorrente).
3. Il dirigente della Divisione Gestione del Territorio con
provvedimento del 09.02.2007 ha stabilito che,
trattandosi di una variazione comportante un maggiore carico
urbanistico, doveva essere versato il contributo di
costruzione, e precisamente gli oneri di urbanizzazione
primaria (€ 6.614,42) e quelli di urbanizzazione secondaria
(€ 3.301,19). Gli importi corrispondono alla differenza tra
gli oneri della nuova destinazione d’uso e quelli della
destinazione originaria.
4. Contro il suddetto provvedimento la ricorrente ha
presentato impugnazione con atto notificato il 14.04.2007 e depositato il 20.04.2007.
Le censure possono essere sintetizzate e ordinate come
segue:
(i) violazione dell’art. 52, comma 3, della LR 11.03.2005 n. 12, che prevede il versamento del contributo di
costruzione corrispondente alla nuova destinazione d’uso
solo per le variazioni effettuate entro i dieci anni
successivi all'ultimazione dei lavori;
(ii) manifesta
irragionevolezza, in quanto il cambio di destinazione d’uso
senza opere, da un lato, non altera il fabbisogno di aree a
standard, e dall’altro, essendo subordinato a semplice
comunicazione preventiva, non è collegato a un titolo
edilizio che imponga il versamento del contributo di
costruzione. Oltre all’annullamento del provvedimento
impugnato è stato chiesto il risarcimento del danno.
5. Il Comune si è costituito in giudizio chiedendo la
reiezione del ricorso, ed evidenziando che la ricorrente non
ha mai versato l’importo richiesto.
6. Con memoria depositata il 26.09.2014 la ricorrente
ha rinunciato alla domanda risarcitoria, confermando la
mancata riscossione coattiva dell’importo richiesto.
7. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si
possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) il caso in esame è regolato dal principio di
liberalizzazione delle destinazioni d’uso stabilito dagli
art. 51 e 52 della LR 12/2005. In mancanza di espressi
divieti contenuti nello strumento urbanistico, il passaggio
a un diverso tipo di utilizzazione deve ritenersi sempre
ammissibile;
(b) questo non significa però che sia anche a costo zero. In
realtà, la liberalizzazione delle destinazioni d’uso non
assicura da sola la gratuità del passaggio da una
destinazione all’altra. Per ottenere questo risultato sono
necessarie tre condizioni:
(1) il cambio deve essere
effettivamente senza opere;
(2) la nuova destinazione d’uso
non deve alterare il fabbisogno di aree a standard;
(3) il
cambio deve distanziarsi temporalmente dai lavori che
comportano il versamento del contributo di costruzione
(nuova edificazione, ristrutturazione);
(c) nello specifico,
la prima condizione (assenza di opere)
non è posta in dubbio. Se il Comune avesse accertato nuove
opere avrebbe potuto richiamare l’art. 44, comma 12, della LR
12/2005, che impone il conguaglio rispetto alla nuova
destinazione d’uso, limitatamente alla parte di edificio
interessata dai lavori;
(d) per quanto riguarda
la seconda condizione (invarianza
del fabbisogno di aree a standard), il provvedimento
impugnato afferma che il cambio di destinazione d’uso
comporterebbe un maggiore carico urbanistico. Questa formula
si può interpretare nel senso che la presenza di uffici in
luogo della precedente abitazione renderebbe necessario
acquisire nuove aree a standard o inserire nuovi servizi di
interesse pubblico in quelle esistenti. Si tratta però di
un’affermazione imprecisa e generica;
(e) l’imprecisione consiste nel mettere in relazione il
fabbisogno di standard urbanistici e gli oneri di
urbanizzazione, che sono e devono invece rimanere concetti
separati, trattandosi di costi che hanno titoli diversi e si
sommano tra loro. Non è possibile chiedere il pagamento
degli oneri di urbanizzazione affermando (o sottintendendo)
che sono dovuti per adeguare gli standard urbanistici;
(f) la genericità dell’affermazione del Comune emerge dal
fatto che i maggiori standard ipotizzati non sono descritti
in dettaglio. Il provvedimento impugnato sembra ritenere
ovvio che in un passaggio come quello in esame la nuova
destinazione d’uso richieda maggiori aree a standard.
Un
simile onere economico non può tuttavia essere imposto sulla
base di semplici presunzioni. L’art. 51, comma 2, della LR
12/2005 affida al PGT il compito di individuare in quali
casi i cambi destinazione d'uso, se attuati con opere
edilizie, comportino una variazione del fabbisogno di aree a
standard.
Per i cambi senza opere il successivo comma 3
precisa che l’adeguamento delle aree a standard è necessario
esclusivamente quando la nuova destinazione d’uso preveda
l’insediamento di esercizi commerciali non costituenti
esercizi di vicinato. Anche volendo lasciare aperta la
possibilità che, per particolari esigenze pubbliche,
l’adeguamento sia necessario in ulteriori casi, si
tratterebbe comunque di fattispecie da disciplinare
puntualmente all’interno del PGT;
(g) per quanto riguarda infine
la terza condizione (adeguato
intervallo temporale), l’art. 52, comma 3, della LR 12/2005
fissa in dieci anni dall’ultimazione dei lavori il periodo
entro il quale l’amministrazione può chiedere l’integrazione
del contributo di costruzione con riferimento alla nuova
destinazione d’uso. Nel caso in esame tale termine è
ampiamente scaduto;
(h) si osserva in proposito che l’integrazione del
contributo di costruzione è un diritto potestativo pubblico
che attiene al rapporto intercorrente tra l’amministrazione
e il proprietario dell’edificio. Tale rapporto è soggetto a
riequilibrio qualora l’edificio, entro dieci anni dalla fine
dei lavori (costruzione o ristrutturazione), acquisti
stabilmente una destinazione d’uso che, se introdotta fin
dall’inizio, avrebbe incrementato il costo del titolo
edilizio.
L’adeguamento funziona peraltro in una sola
direzione, perché se poi si ritorna a una destinazione meno
onerosa l’art. 52, comma 3, della LR 12/2005 non contempla
alcun obbligo di rimborso. Oltre i dieci anni dalla fine dei
lavori il proprietario può invece effettuare il cambio senza
subire conseguenze economiche. La norma tende infatti a
disincentivare i comportamenti opportunistici, che non si
possono più presumere dopo un così lungo intervallo
temporale.
8. Il ricorso deve quindi essere accolto, con il conseguente
annullamento del provvedimento impugnato. Occorre poi
prendere atto della rinuncia alla domanda risarcitoria
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 10.12.2014 n. 1358 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
1. Escussione. Cauzione provvisoria. Imprese non
aggiudicatarie. Carenza requisiti generali dichiarati.
Clausola contenuta nel bando. Legittimità. Art. 48, comma 1,
D.Lgs. 163/2006. Funzione della cauzione. Natura giuridica
della cauzione.
1.1. È legittima la clausola,
contenuta in atti di indizione di procedure di affidamento
di appalti pubblici, che preveda l’escussione della cauzione
provvisoria anche nei confronti di imprese non risultate
aggiudicatarie, ma solo concorrenti, in caso di riscontrata
assenza del possesso dei requisiti di carattere generale di
cui all’art. 38 del codice dei contratti pubblici.
1.2. La legittimità degli atti di indizione di procedure di
affidamento di appalti pubblici, che contengano clausole
recanti la comminatoria di escussione della cauzione
provvisoria anche nei confronti di imprese non
aggiudicatarie, per le quali sia stata accertata la carenza
del possesso di requisiti di carattere generale si ricava
dal dato normativo.
Infatti, l’art. 48, co. 1, secondo periodo, del D.Lgs. n.
163/2006 prevede che, qualora l’impresa concorrente in sede
di controllo a campione, non confermi le dichiarazioni
contenute nella domanda di partecipazione o nell’offerta, le
stazioni appaltanti procedono all’esclusione del concorrente
dalla gara, all’escussione della relativa cauzione
provvisoria e alla segnalazione del fatto all’Autorità.
L’escussione della cauzione, dunque, non presuppone in via
esclusiva il fatto dell’aggiudicatario, ma trova spazio
applicativo anche quando per il concorrente, pur se non
aggiudicatario, risulti non corrispondente al vero quanto
dichiarato in occasione della rappresentazione di requisiti
generali ovvero speciali.
1.3. La legittimità delle clausole del bando recanti la
comminatoria di escussione della cauzione provvisoria nei
confronti di imprese non aggiudicatarie, per le quali sia
stata accertata la carenza del possesso di requisiti di
carattere generale si ricava altresì dalla funzione della
cauzione provvisoria e dalla previsione del suo
incameramento, nonché dalla natura giuridica della cauzione
provvisoria.
1.4. La cauzione provvisoria costituisce parte integrante
dell'offerta e non mero elemento di corredo della stessa.
Essa ha la finalità di responsabilizzare i partecipanti in
ordine alle dichiarazioni rese, di garantire la serietà e
l’affidabilità dell’offerta, nonché di escludere da subito i
soggetti privi delle richieste qualità volute dal bando. La
presenza di dichiarazioni non corrispondenti al vero,
infatti, altera di per sé la gara quantomeno per un aggravio
di lavoro della stazione appaltante, chiamata a vagliare
anche concorrenti inidonei o offerte prive di tutte le
qualità promesse.
1.5. L’escussione della cauzione provvisoria costituisce la
conseguenza della violazione dell’obbligo di diligenza
gravante sull’offerente, tenuto conto che gli operatori
economici, con la domanda di partecipazione, sottoscrivono e
si impegnano ad osservare le regole della relativa procedura
delle quali hanno piena contezza. Essa corrisponde a una
misura autonoma ed ulteriore rispetto alla esclusione dalla
gara ed alla segnalazione all’Autorità di vigilanza e dà
luogo, mediante l’anticipata liquidazione dei danni subiti
dall’amministrazione, a un distinto rapporto giuridico fra
quest’ultima e l’imprenditore (tanto che si ammette
l’impugnabilità della sola escussione se ritenuta realmente
ed esclusivamente lesiva dell’interesse dell’impresa).
1.6. La cauzione provvisoria deve essere ricondotta
all’istituto della caparra confirmatoria (art. 1385 c.c.)
avente la funzione di dimostrare la serietà dell’intento di
stipulare il contratto sin dal momento delle trattative o
del perfezionamento dello stesso, sia perché è finalizzata a
confermare la serietà di un impegno da assumere in futuro,
sia perché tale qualificazione risulta la più coerente con
l’esigenza, rilevante contabilmente, di non vulnerare
l’amministrazione costringendola a pretendere il maggior
danno.
1.7. In sostanza, la cauzione provvisoria rappresenta una
misura di indole patrimoniale, priva di carattere
sanzionatorio amministrativo nel senso proprio, che
costituisce l’automatica conseguenza della violazione di
regole e doveri contrattuali espressamente accettati. Alla
cauzione provvisoria non sono applicabili i principi di
legalità e di tassatività, i quali operano con esclusivo
riferimento alle sanzioni in senso proprio e non anche con
riferimento a misure di indole patrimoniale liberamente
contenute negli atti di indizione, accettate dai
concorrenti, non irragionevoli né illogiche, rispondenti
all’autonomia patrimoniale delle parti, non contrarie a
norme imperative e anzi agganciate alla ratio rinvenibile
nelle disposizioni del codice
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
Consiglio di Stato,
Adunanza Plenaria,
sentenza 10.12.2014 n. 34 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Gli atti che il pubblico ufficiale o l’incaricato
di pubblico servizio deve compiere senza ritardo non sono
quelli genericamente correlati a ragioni di giustizia o di
sicurezza pubblica o di ordine pubblico o di igiene e
sanità, ma solo quegli atti che, per dette ragioni, devono
essere “immediatamente” posti in essere.
L’art. 328 co. 1 c.p. non punisce la generica negligenza del
pubblico ufficiale, ma il “rifiuto consapevole” di specifici
atti o interventi amministrativi da adottarsi senza ritardo
per la tutela di beni e interessi pubblici connessi alle
peculiari funzioni degli agenti.
Con la conseguenza che il “rifiuto” può emergere, oltre che
da una esplicita richiesta, anche da una evidente
sopravvenienza di situazioni che richiedano oggettivamente
un intervento, sicché –di fronte ad una “urgenza
sostanziale” indotta da dati oggettivi portati a conoscenza
del pubblico ufficiale– la “inerzia omissiva” dello stesso
assume “intrinseca valenza di rifiuto” idonea ad integrare
il reato.
1. Tutti e due i ricorsi meritano accoglimento per la palese
fondatezza dei motivi di censura segnatamente in punto di
dolo del contestato reato di omissione di atti di ufficio ex
art. 328 co. 1 c.p., motivi cui non può far velo
l’intervenuta prescrizione del reato.
2. Per vero la ricostruzione della stessa materialità della
contestata fattispecie di cui all’art. 328, co. 1, c.p.
operata dai giudici di merito appare carente per come
ritenuta manifestata dai contegni omissivi, che dopo la
riforma della norma incriminatrice (legge n. 86/1990)
debbono assumere la connotazione del “rifiuto” del
compimento di un atto urgente (da compiersi, come recita la
norma, “senza ritardo”), riferiti –nelle loro
rispettive e diverse posizioni funzionali– al sindaco S. e
al dirigente P..
Se la nozione di “rifiuto indebito” di un determinato
atto pubblico si sostanzia nella espressione di volontà del
pubblico ufficiale agente di non compiere l’atto senza che
tale determinazione sia sorretta da un giustificato motivo,
sì che il rifiuto presuppone in linea di principio una
specifica richiesta (di fonte pubblica o privata) di quel
particolare atto, deve riconoscersi che il percorso
decisorio delle due conformi sentenze di merito sembra
confinare nell’ombra l’analisi della efficienza causale dei
supposti rifiuti del sindaco e del dirigente comunale
rispetto alla soluzione urgente del problema del percolato
della discarica (omissis).
Le sentenze di primo e di secondo grado danno giustamente
rilievo al tempo decorso dall’emergere della contingente
urgenza del problema del percolato (gennaio 2005), quale
prova o traccia della componente costitutiva della
fattispecie rappresentata dal ritardo, ma lasciano in
secondo piano la disamina alternativa degli interventi
comunque attuati, nelle rispettive qualità, dal sindaco e
dal dirigente comunale.
Al riguardo ben poco è dato arguire dalla sentenza impugnata
sul valore riconoscibile, quanto allo S., alla delibera
comunque adottata dalla Giunta comunale l’08.11.205 per la
bonifica e messa in sicurezza dell’intera discarica dismessa
di (omissis) e, quanto al P., alla sua decisione (divenuto
in concreto e in fatto il responsabile o referente
amministrativo della questione percolato, ad onta della
latitudine del suo formale profilo professionale) di far
rivedere prima dell’estate 2005 l’originario progetto di
intervento del prof. M., dando specifico incarico all’ing.
R. (con gli esiti ricordati nella narrativa in fatto).
3. Vero è che, come anche affermato dalla giurisprudenza di questa
Corte, le sollecitazioni o richieste di intervento, che
costituiscono –come detto– presupposto della condotta di
rifiuto contemplata dall’art. 328, co. 1, c.p., possono
concretizzarsi nella stessa immanente “urgenza” di
intervento sottesa alla situazione di pericolo (nel caso di
specie per l’igiene e la sanità pubblici) di cui si impone
la rimozione per mezzo di uno specifico atto o intervento
pubblico (cfr.: Sez. 6, n. 35526 del 06.07.2011, Romano, Rv.
250876; Sez. 6, n. 19759 del 05.04.2013, De Rosa, Rv.
255167).
Ciò non esclude, tuttavia, che la indicata nozione stessa di
rifiuto penalmente rilevante ben possa essere elisa o
contraddetta, allorché l’atto di ufficio o di servizio, pur
diverso da quello preteso o di per sé imposto dalla
situazione di pericolo (per le espresse ragioni contemplate
dall’art. 328, co. 1, c.p.), produca utili effetti pratici
ai fini della rimozione del pericolo e, quindi, della tutela
del pubblico interesse sotteso alla ipotizzabile situazione
di pericolo. Effetti equiparabili a quelli derivanti
dall’atto oggetto delle richieste o sollecitazioni giunte al
pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.
Di tal che in un simile caso, pur tenendo ferma la storicità
del rifiuto di un determinato atto, il contegno alternativo
(commissivo) tenuto dall’agente rende il suo contegno
omissivo (rifiuto) privo del necessario connotato di
ingiustizia che solo può farlo qualificare come “indebito”
per gli effetti di cui all’art. 328, co. 1, c.p.,
impregiudicati gli eventuali connessi profili (e i relativi
limiti del sindacato giurisdizionale) di discrezionalità
tecnica e amministrativa propri della peculiarità dell’atto
che si assume “dovuto”.
4. Ad ogni buon conto, pur volendosi dare per dimostrata la
realizzazione nei comportamenti dello S. e del P. delle
condotte tipiche del rifiuto di un atto del loro ufficio,
non può non constatarsi come –a tacer d’altro– gravemente
deficitaria e senz’altro contraddittoria si mostri l’analisi
dell’elemento soggettivo del reato ascritto ai due
ricorrenti. Analisi davvero sommaria e in buon a sostanza
soltanto assertiva, che finisce per avvalorare il paradosso
enunciato nel ricorso P., secondo cui i giudici di appello
hanno finito per ritenere il dolo del reato integrato da una
sorta di sua impropria immanenza nella stessa e sola
condotta tipica (dolus in re ipsa), astenendosi dal
verificare (come sollecitavano gli appelli di ambedue gli
imputati) se ed in quale misura i rifiuti di propri atti o
interventi attribuiti allo S. e al P. possano configurarsi
come indebiti (ex multis: Sez. 4, n. 19358 del
06.03.2007, Masotti, Rv. 236609; Sez. 6, n. 42589 del
26.02.2009, Rv. 245000).
La verità è che i giudici di appello incorrono nel medesimo
errore prospettico alimentato dalla sentenza di primo grado.
Nella decisione del Tribunale di Reggio Calabria si
puntualizza (pag. 26) che gli atti che il pubblico ufficiale
o l’incaricato di pubblico servizio deve compiere senza
ritardo non sono quelli genericamente correlati a ragioni di
giustizia o di sicurezza pubblica o di ordine pubblico o di
igiene e sanità, ma solo quegli atti che, per dette ragioni,
devono essere “immediatamente” posti in essere.
L’art. 328 co. 1 c.p., si aggiunge, non punisce la generica
negligenza del pubblico ufficiale, ma il “rifiuto
consapevole” di specifici atti o interventi
amministrativi da adottarsi senza ritardo per la tutela di
beni e interessi pubblici connessi alle peculiari funzioni
degli agenti. Con la conseguenza che il “rifiuto” può
emergere, oltre che da una esplicita richiesta, anche da una
evidente sopravvenienza di situazioni che richiedano
oggettivamente un intervento, sicché –di fronte ad una “urgenza
sostanziale” indotta da dati oggettivi portati a
conoscenza del pubblico ufficiale– la “inerzia omissiva”
dello stesso assume “intrinseca valenza di rifiuto”
idonea ad integrare il reato.
Tali enunciati criteri sono corretti e conformi alla
consolidata giurisprudenza di legittimità sul tema.
Congruamente i giudici di primo grado li hanno applicati per
motivare ex adverso (cioè per difetto di prova della
sussistenza degli indici di riconoscimento del “rifiuto”)
l’assoluzione dei due odierni ricorrenti dai profili di
accusa (capi A e C della rubrica) riguardanti la bonifica e
messa in sicurezza della dismessa discarica di (omissis)
nella sua globalità.
Illogicamente, però, tali pertinenti canoni valutativi non
sono stati osservati per giudicare il contegno degli
imputati collegabile alla soluzione del contingente problema
del percolato prodotto dalla discarica, nella cui disamina
si attribuisce un peso determinante o –meglio– esclusivo, a
sostegno della colpevolezza dei prevenuti, al solo fattore
del tempo trascorso dalla conoscenza del problema del
percolato fino alla adozione delle misure risolutive dello
specifico problema, tralasciando di soffermarsi sugli
interventi intermedi (o, se si preferisce, interlocutori e
di acquisizioni di dati di conoscenza tecnica) pure
oggettivamente attuati dai due imputati.
Con il che l’analisi del dolo del contestato reato, cioè
della deliberata volontarietà degli ipotizzati rifiuti di
atti urgenti, si traduce in una fallace e irrazionale
valorizzazione di una mera e teorica negligenza; vale a dire
di profili eventuali di colpa estranei alla nozione di dolo
definita dagli artt. 42 e 43, co. 1, c.p. in punto di
previsione e volontarietà dei prefigurati rifiuti, per
quanto di rispettiva pertinenza funzionale, di atti urgenti
dello S. e del P..
5. La discrasia o l’errore prospettico, mutuati per intero dalla
impugnata sentenza di appello sul presupposto della totale
condivisibilità della indagine ricostruttiva dei fatti
sviluppata dalla sentenza di primo grado, sembra trovare
–per altro– a sua volta una causa prossima nella
pregiudiziale scissione (come già precisato), non del tutto
logica, delle problematiche del risanamento o bonifica
globali della discarica dismessa e della rimozione del
percolato. Ciò sebbene, come ripetutamente si sottolinea nel
ricorso del P. , si trattasse di due aspetti dello stesso
unico problema della messa in sicurezza dell’intera
discarica non più utilizzabile e non apparisse revocabile in
dubbio fino a sfiorare l’ovvietà che, come debbono
riconoscere gli stessi giudici di appello, il problema
contingente e pur grave del percolato avrebbe potuto trovare
reale e definitiva soluzione soltanto rimuovendo la causa
della sua formazione, cioè operando la generale bonifica
della discarica e della massa di rifiuti da cui era stata
saturata.
6. Alcune semplici osservazioni, desumibili dalla sentenza di
appello, confermano la lacunosità del vaglio dell’elemento
soggettivo del reato compiuto sia per la posizione dello S.
che per quella del P.; lacunosità non altrimenti colmabile
(vuoi per la completezza delle fonti di conoscenza acquisite
nel corso dell’istruttoria dibattimentale di primo grado;
vuoi per la sopravvenuta prescrizione del reato).
Ciò senza sottacere che impropriamente la sentenza di
appello “recupera”, a sostegno della confermata
responsabilità dei due imputati, elementi pregressi e
antecedenti alla data di commissione del reato ascritto ai
due ricorrenti (fissata dalla stessa sentenza alla data del
20.1.2005), rievocando ad esempio la nota indirizzata dal
custode della discarica G. al sindaco S. il 07.10.2004, vale
a dire elementi integranti le altre due imputazioni ascritte
ai prevenuti (capi A e C) e ormai “coperti” dal loro
definitivo proscioglimento in primo grado.
Appare fuori luogo, innanzitutto, supporre la natura
volontaria della presunta inerzia del sindaco S., nonostante
la delibera dallo stesso fatto adottare dalla Giunta
comunale il 18.11.2005 per la bonifica della discarica, in
definitiva attribuendo allo stesso sindaco una sorta di
inerzia di secondo grado o derivata dalla presunta inerzia
riferibile al dirigente preposto al settore (P.), non
fornendosi spiegazioni sulle ragioni per cui non sarebbe “sostenibile”
che con l’indicata delibera di Giunta il sindaco potesse
intendere di aver affrontato e risolto la questione del
percolato.
Al sindaco si imputa altresì di non avere adottato una
ordinanza contingibile e urgente senza chiarire l’effettiva
sussistenza dei presupposti normativi per un intervento di
tal tipo. Parimenti si stigmatizza l’inerzia del P.,
censurandosene il giudizio sulla ritenuta opportunità di
provvedere ad una soluzione radicale dei problemi ambientali
posti dalla discarica quale unico mezzo per eliminare anche
il correlativo problema del percolato.
Giudizio di opportunità ricadente in tutta evidenza
nell’area della discrezionalità funzionale
dell’amministrazione dell’ente pubblico, sorretta nel caso
di specie da ampia motivazione. Motivazione che ben può
anche ritenersi erronea, ma che per certo non può dare corpo
al dolo del reato di cui all’art. 328, co. 1, c.p., in guisa
da far qualificare come indebito il supposto “rifiuto”,
se tale lo si voglia definire, di provvedere sul problema
del percolato indipendentemente dall’intervento radicale
sull’intera discarica.
Ribadito che la natura indebita del rifiuto costituisce un
elemento strutturale della fattispecie criminosa ex art.
328, co. 1, c.p., diviene in tal modo, in secondo luogo e
con specifico riguardo alla posizione del P., un fuor
d’opera l’argomento rimarcato dalla sentenza di appello, per
cui (riconosciuta la logicità della esigenza di bonificare
la discarica per eliminare la causa del percolato, destinato
altrimenti a riprodursi in breve tempo dopo parcellari
interventi di momentanea rimozione) la soluzione prefigurata
dall’ing. R., la cui rinnovata verifica sullo stato della
discarica e degli utili interventi da pianificare si deve
proprio all’iniziativa del non inerte dirigente P., avrebbe
condotto ad eliminare o evitare futuri fenomeni di
sversamento del percolato (dalle vasche di contenimento
della discarica), ma non anche ad eliminare il percolato già
formatosi dopo la dismissione della discarica. Argomento che
in definitiva, oltre che intrinsecamente irrazionale, prova
troppo, perché dimostra come l’iniziale “rifiuto” del
P. di attuare un intervento limitato all’eliminazione del
solo percolato già esistente non fosse sorretto da un
atteggiamento volitivo qualificato dalla volontà di agire
contra legem.
Né la supposta illegittimità del preteso rifiuto può essere
desunta a posteriori, alla luce di un improprio dolo
susseguente (quasi che il P. abbia voluto il fatto tipico
del pregresso rifiuto soltanto dopo averlo realizzato,
benché non lo volesse contestualmente alla sua espressione),
penalmente irrilevante e in ogni caso non riferibile al
reato di cui all’art. 328, co. 1, c.p., in ragione
dall’avvenuto affidamento (novembre 2006) da parte dello
stesso P. dell’incarico di smaltire il solo percolato già
esistente.
È superfluo aggiungere che la norma incriminatrice non
sanziona penalmente la generica inerzia o la scarsa
sensibilità istituzionale del pubblico ufficiale, ma un
rifiuto consapevole di atti da adottarsi senza ritardo per
la tutela di beni o interessi pubblici. Con la conseguenza
che l’elemento soggettivo del reato di rifiuto di un atto di
ufficio urgente deve sussistere al momento della condotta
tipica, cioè al momento in cui si manifesta il contegno
omissivo (dolo c.d. concomitante), perché per la
configurabilità del reato è necessario che il pubblico
ufficiale agente abbia consapevolezza del suo contegno
omissivo, dovendo rappresentarsi e volere la realizzazione
di un evento contra ius. Con l’effetto che tale
requisito di illiceità speciale circoscrive la rilevanza
penale della condotta omissiva alle sole forme di diniego di
adempimento che non rinvengano alcuna logica giustificazione
in base alle norme disciplinanti il correlativo dovere di
azione (cfr. ex plurimis: Sez. 6, n. 10390 del
24.01.2008, Magaldi, Rv. 238927; Sez. 6, n. 8996 del
11.02.2010, Notarpietro, Rv. 246410).
Traendo le conclusioni della precedente disamina, la palese
insussistenza nei comportamenti dei due ricorrenti del dolo
del reato loro ascritto impone una decisione di legittimità
liberatoria e l’annullamento senza rinvio della impugnata
sentenza di appello con la formula del fatto non costituente
reato. (Corte
di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 09.12.2014 n. 51149 -
link a http://renatodisa.com). |
APPALTI:
Lo svolgimento in seduta riservata delle
operazioni di gara sia per le aste elettroniche che per le
procedure telematiche è infatti giustificato dalla
particolarità della procedure, che consente una piena
tracciabilità delle operazioni, nonché dalla natura
essenzialmente quantitativa e vincolata dei criteri di
valutazione, dovendo la Commissione valutare se le
caratteristiche tecniche delle offerte siano coerenti con le
previsioni di gara e poi attribuire il punteggio previsto, e
dalla segretezza dell’identità dei candidati fino all’ultima
offerta.
Dette modalità sono idonee a soddisfare l’interesse pubblico
alla trasparenza ed imparzialità che devono caratterizzare
le procedure di gara pubbliche, nel rispetto dei principi di
tutela della par condicio che sono tesi a tutelare i
principi di pubblicità e trasparenza che governano la
disciplina comunitaria e nazionale in materia di appalti
pubblici di cui alla sentenza dell’Adunanza Plenaria di
questo Consiglio 31.07.2012, n. 31.
Del resto, secondo condivisibile giurisprudenza, le modalità
di svolgimento dell'asta elettronica potrebbe presentare
rischi di alterazione del confronto concorrenziale, qualora
gli offerenti potessero comunicare tra loro nel corso della
speciale procedura; conseguentemente, qualora non fosse
assicurata una adeguata riservatezza, sussisterebbe la
possibilità di accordi non consentiti, sicché la circostanza
che la prima valutazione completa delle offerte pervenute
abbia luogo in seduta riservata, consente di introdurre dei
momenti di segretezza, ulteriori rispetto a quelli
riguardanti altre procedure, nelle quali le offerte sono
immodificabili a seguito dell’apertura delle buste
contenenti la documentazione amministrativa e l’offerta
tecnica.
11.- L’appello è infondato.
12.- Con il primo motivo di gravame è stato dedotto che il
TAR ha ritenuto che la riservatezza delle sedute sia un
principio desumibile dall’art. 85, comma 7, del d.lgs. n.
163 del 2006 e che sia applicabile a tutte le procedure
elettronico–telematiche, con inapplicabilità del principio
di pubblicità delle sedute perché la particolare procedura
rende tracciabile e stabile la documentazione di gara.
Ma la procedura di cui trattasi sarebbe stata una procedura
negoziata che prevedeva il solo invio della documentazione
in formato elettronico e non una vera e propria procedura
elettronico telematica; unico elemento elettronico sarebbe
stata la fase di presentazione delle offerte ex artt. 74 e
77 del d.lgs. n. 163 del 2006, mentre la procedura negoziata
si sarebbe svolta con le stesse modalità delle altre
procedura negoziate, con un unico rilancio.
La tesi che la sola tracciabilità della documentazione
offerta mediante invio in formato elettronico potesse
soddisfare i principi di pubblicità e trasparenza di cui
all’art. 2 del d.lgs. n. 163 del 2006 sarebbe smentita dai
principi affermati con la sentenza della Adunanza Plenaria
del Consiglio di Stato n. 31 del 2012, secondo cui il
principio di pubblicità non è confinato alla mera garanzia
della tracciabilità delle offerte, e, in quanto corollario
del principio generale di trasparenza, ad esso dovrebbe
essere assicurata la massima latitudine (in conformità ai
principi di cui alla direttiva 2004/18/CE, all’art. 3). Da
ciò deriverebbe che le deroghe a tale principio dovrebbero
essere espressamente previste.
Nel caso di procedura prevista con sedute tutte riservate
non vi potrebbe neppure essere certezza, per ipotesi, che la
Commissione abbia proceduto ad esaminare prima le offerte
tecniche e poi quelle economiche o che non abbia stilato la
graduatoria delle offerte tecniche dopo l’apertura delle
offerte economiche.
Peraltro nel caso di specie in seduta riservata sarebbe
stata proposta una interpretazione dei criteri di
valutazione tecnica tale da aver inciso sull’attribuzione
dei punteggi.
Posto che l’art. 85, comma 7, del d.lgs. n. 163 del 2006 è
applicabile alle sole aste elettroniche [e le ragioni della
deroga al principio di pubblicità risiederebbero nel
particolare iter procedurale che le caratterizza, perché
nella seconda fase dell’asta (relativa al miglioramento
delle offerte) è assicurata la massima trasparenza, essendo
garantita, tramite il dispositivo elettronico, la
possibilità di conoscere la propria posizione in graduatoria
per poter migliorare l’offerta] la procedura de qua non
potrebbe essere considerata una vera a propria asta
elettronica, dal momento che non soddisferebbe alcuno dei
parametri previsti da detto art. 85 del d.lgs. n. 163 del
2006 (valutazione delle offerte automatica mediante un mezzo
elettronico, invito simultaneo per via elettronica a
presentare nuovi prezzi o nuovi valori con indicazione di
ora, data e tempo d’asta); essa sarebbe solo una procedura
negoziata con invio delle offerte in formato elettronico.
Ciò posto sarebbe ininfluente la circostanza che la lettera
di invito aveva previsto che l’apertura delle offerte
dovesse avvenire in forma privata, in quanto la relativa
disposizione (peraltro impugnata) non poteva giustificare
l’operato della Commissione, che avrebbe dovuto ad essa
derogare per rimediare ad una previsione contraria alla
legge. Peraltro essa disposizione si riferirebbe alla sola
apertura delle offerte e non alle ulteriori fasi di lettura
dei punteggi tecnici, economici e di aggiudicazione
provvisoria, che, in assenza di indicazioni della lex
specialis, avrebbero dovuto invece essere svolte in
seduta pubblica.
12.1.- Va osservato in proposito che il TAR ha sostenuto che
la lettera di invito alla gara di cui trattasi faceva
riferimento a buste chiuse elettroniche e che comunque essa
si è svolta, sulla base del regolamento interno della Hera
s.p.a., in forma telematico elettronica, con applicabilità
del principio di cui all’art. 85, comma 7, del d.lgs. n. 163
del 2006, per il quale, nelle aste di tipo elettronico, sono
ammesse in seduta riservata, oltre alla fase di apertura
delle buste, anche le successive operazioni.
Ritiene il Collegio che le sopra riportate censure formulate
dalla appellante società a dette tesi, nel principale e
sostanziale assunto che quella di specie non sarebbe stata
una vera e propria procedura elettronico telematica ma una
procedura negoziata che prevedeva il solo invio della
documentazione in formato elettronico, siano incondivisibili.
Invero il bando di gara, a pagina 8 [avviso di gara, punto
IV.2.2)], qualifica espressamente la procedura come un’asta
elettronica, prevista dall’art. 3, n. 15, del d.lgs. n. 163
del 2006 e riguardo alla quale l’art. 85, comma 3, dello
stesso d.lgs. stabilisce quando può essere utilizzata.
Al riguardo l’appello, dopo aver indicato in epigrafe tra
gli atti impugnati il bando “nella parte in cui viene
indicato il ricorso all’asta elettronica”, ha affermato
che esso non conteneva alcun riferimento alle norme e alla
procedura dell’asta elettronica e non prevedeva alcun
sistema di attribuzione automatica del punteggio tecnico ed
economico, sicché la procedura sarebbe stata qualificabile
come negoziata, caratterizzata dal solo invio della
documentazione in formato elettronico.
Tali tesi non sono condivisibili innanzi tutto perché, una
volta qualificata la procedura de qua come un’asta
elettronica, non era necessaria alcuna indicazione espressa
delle norme che la prevedono e comunque perché quello di
specie è consistito proprio in un procedimento basato su un
dispositivo elettronico di presentazione di nuovi prezzi,
dopo una prima valutazione completa delle offerte,
classificate mediante un trattamento automatico (come
previsto da detto art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 163 del
2006, per le aste elettroniche), con formazione di una
graduatoria prima dell’ultimo rilancio, che ha comportato
una automatica definizione della graduatoria.
Era quindi applicabile alla procedura di cui trattasi il
comma 7 di detto articolo 85, che prevede che “Prima di
procedere all'asta elettronica, le stazioni appaltanti
effettuano, in seduta riservata, una prima valutazione
completa delle offerte pervenute con le modalità stabilite
nel bando di gara e in conformità al criterio di
aggiudicazione prescelto e alla relativa ponderazione”.
Peraltro detto art. 85, al comma 13, stabilisce che per
l'acquisto di beni e servizi, alle condizioni di cui al
comma 3, le stazioni appaltanti possono stabilire di
ricorrere a procedure di gara interamente gestite con
sistemi telematici, disciplinate con il regolamento nel
rispetto delle disposizioni di cui al presente codice.
In base a tali disposizioni per le procedure telematiche
valgono le stesse norme previste per le aste elettroniche ed
è quindi ad esse applicabile anche detto comma 7 del più
volte citato art. 85 (in base al quale le stazioni
appaltanti effettuano la prima valutazione delle offerte
pervenute in forma riservata). L’art. 295 del d.P.R. n. 207
del 2010 stabilisce infatti che “Le stazioni appaltanti
possono stabilire che l'aggiudicazione di una procedura
interamente gestita con sistemi telematici avvenga con la
presentazione di un'unica offerta ovvero attraverso un'asta
elettronica alle condizioni e secondo le modalità di cui
all'articolo 85 del codice”, confermando che detta
norma, e quindi anche il suo comma 7, è applicabile alle
procedure telematiche.
Quindi la procedura di cui trattasi è stata legittimamente
svolta in forma riservata, quand’anche venisse qualificata
come telematica.
Lo svolgimento in seduta riservata delle operazioni di gara
sia per le aste elettroniche che per le procedure
telematiche è infatti giustificato dalla particolarità della
procedure, che consente una piena tracciabilità delle
operazioni, nonché dalla natura essenzialmente quantitativa
e vincolata dei criteri di valutazione, dovendo la
Commissione valutare se le caratteristiche tecniche delle
offerte siano coerenti con le previsioni di gara e poi
attribuire il punteggio previsto, e dalla segretezza
dell’identità dei candidati fino all’ultima offerta.
Dette modalità sono idonee a soddisfare l’interesse pubblico
alla trasparenza ed imparzialità che devono caratterizzare
le procedure di gara pubbliche (Consiglio di Stato, sez. V,
29.10.2014, n. 5377), nel rispetto dei principi di tutela
della par condicio che sono tesi a tutelare i principi di
pubblicità e trasparenza che governano la disciplina
comunitaria e nazionale in materia di appalti pubblici di
cui alla sentenza dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio
31.07.2012, n. 31.
Del resto, secondo condivisibile giurisprudenza (TAR Lazio,
Roma, sez. I, 14.02.2014, n. 1835), le modalità di
svolgimento dell'asta elettronica potrebbe presentare rischi
di alterazione del confronto concorrenziale, qualora gli
offerenti potessero comunicare tra loro nel corso della
speciale procedura; conseguentemente, qualora non fosse
assicurata una adeguata riservatezza, sussisterebbe la
possibilità di accordi non consentiti, sicché la circostanza
che la prima valutazione completa delle offerte pervenute
abbia luogo in seduta riservata, consente di introdurre dei
momenti di segretezza, ulteriori rispetto a quelli
riguardanti altre procedure, nelle quali le offerte sono
immodificabili a seguito dell’apertura delle buste
contenenti la documentazione amministrativa e l’offerta
tecnica (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 05.12.2014 n. 6018 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Secondo un principio generale assolutamente
pacifico invalso sia presso la giurisprudenza del g.o. che
del g.a. anche quando la P.A. agisce "iure privatorum", è
richiesta, ai sensi degli artt. 16 e 17 del r.d. 18.11.1923,
n. 2440, come per ogni altro contratto stipulato dalla P.A.,
la forma scritta "ad substantiam", che è strumento di
garanzia del regolare svolgimento dell'attività
amministrativa nell'interesse del cittadino e della
collettività, costituendo remora ad arbitrii e agevolando
l'espletamento della funzione di controllo, e quindi
espressione dei principi d'imparzialità e buon andamento
della P.A. ex art. 97 Cost..
---------------
Per giurisprudenza altrettanto consolidata da cui il
Collegio non ha ragione per discostarsi, in tema di
espropriazione per pubblica utilità, il negozio di cessione
volontaria posto in essere da un'amministrazione pubblica si
deve ritenere soggetto all'osservanza di tutti gli
adempimenti richiesti dall'evidenza pubblica per le p.a.,
primo fra tutti il requisito della forma scritta a pena di
nullità, che può ritenersi osservato solo in presenza di un
documento che contenga in modo diretto la volontà negoziale,
essendo stato redatto al fine specifico di manifestare la
stessa, e dal quale si deve, pertanto, poter desumere la
concreta instaurazione del rapporto con le indispensabili
determinazioni in ordine alle prestazioni da svolgersi da
ciascuna delle parti.
Ne consegue che, nel vigore del t.u. approvato con il r.d.
n. 383 del 1934 (n.d. ma anche in vigore del t.u.
espropriazioni) ad integrare la stipulazione del suddetto
negozio non può bastare l'accettazione di una proposta di
vendita o di acquisto del bene fatta dall'uno o dall'altro
contraente, essendo indispensabile la presenza di un
documento scritto stipulato, con il procedimento e le
formalità previste dagli art. 87 ss. e 251 ss. del citato
testo unico, dal rappresentante legale dell'amministrazione
e dall'espropriato, e contenente l'enunciazione degli
elementi essenziali del contratto stesso, nonché l'accordo
su di essi dei contraenti.
---------------
Ne discende l’assoluta inidoneità, in seno al procedimento
espropriativo, della mera accettazione della proposta di
cessione volontaria (con accettazione della relativa
indennità) fatta dal proprietario espropriando, trattandosi
di deliberazioni di valenza meramente interna rispetto al
non concluso procedimento di trasferimento in via bonaria
della proprietà.
5.1. Deve anzitutto condividersi l’assunto della
difesa della ricorrente in merito alla carenza in capo al
Comune di Terni del titolo di proprietà alla data (17.11.2006) di perfezionamento della convenzione inerente
la cessione in diritto di superficie delle aree comprese nel
piano PEEP.
Infatti non può ritenersi acquisita la proprietà per effetto
delle deliberazioni G.C. nn. 121 del 16.03.2006 e 366 del
29.06.2006 con le quali l’Amministrazione ha soltanto
manifestato la volontà di addivenirne all’acquisto mediante
cessione bonaria stante la disponibilità in tal senso
manifestata dai proprietari espropriandi, rinviando al
Dirigente dell’Ufficio Contratti la predisposizione
dell’atto di acquisizione e di apposita convenzione.
5.2. Secondo un principio generale assolutamente pacifico
invalso sia presso la giurisprudenza del g.o. che del g.a.
anche quando la P.A. agisce "iure privatorum", è richiesta,
ai sensi degli artt. 16 e 17 del r.d. 18.11.1923, n.
2440, come per ogni altro contratto stipulato dalla P.A., la
forma scritta "ad substantiam", che è strumento di garanzia
del regolare svolgimento dell'attività amministrativa
nell'interesse del cittadino e della collettività,
costituendo remora ad arbitrii e agevolando l'espletamento
della funzione di controllo, e quindi espressione dei
principi d'imparzialità e buon andamento della P.A. ex art.
97 Cost. (ex multis Cassazione civ. sez. II, 23.04.2014,
n. 9219; id. sez. VI 21.08.2014, n. 18107; id. sez. I, 04.06.2014 n. 12536; id. sez. I, 20.03.2014, n. 6555;
TAR Lombardia Milano sez. III, 05.05.2014, n. 1152;
Consiglio di Stato sez. V, 15.12.2005, n. 7147; id.
sez. V, 24.09.2003, n. 5444)
5.3. Per giurisprudenza altrettanto consolidata da cui il
Collegio non ha ragione per discostarsi, in tema di
espropriazione per pubblica utilità, il negozio di cessione
volontaria posto in essere da un'amministrazione pubblica si
deve ritenere soggetto all'osservanza di tutti gli
adempimenti richiesti dall'evidenza pubblica per le p.a.,
primo fra tutti il requisito della forma scritta a pena di
nullità, che può ritenersi osservato solo in presenza di un
documento che contenga in modo diretto la volontà negoziale,
essendo stato redatto al fine specifico di manifestare la
stessa, e dal quale si deve, pertanto, poter desumere la
concreta instaurazione del rapporto con le indispensabili
determinazioni in ordine alle prestazioni da svolgersi da
ciascuna delle parti.
Ne consegue che, nel vigore del t.u.
approvato con il r.d. n. 383 del 1934 (n.d. ma anche in
vigore del t.u. espropriazioni) ad integrare la stipulazione
del suddetto negozio non può bastare l'accettazione di una
proposta di vendita o di acquisto del bene fatta dall'uno o
dall'altro contraente, essendo indispensabile la presenza di
un documento scritto stipulato, con il procedimento e le
formalità previste dagli art. 87 ss. e 251 ss. del citato
testo unico, dal rappresentante legale dell'amministrazione
e dall'espropriato, e contenente l'enunciazione degli
elementi essenziali del contratto stesso, nonché l'accordo
su di essi dei contraenti (così Cassazione civ. sez. I, 27.04.2011 n. 9390; id. 29.07.2009 n. 17686; 20.09.2001, n.11864; TAR Sicilia-Catania sez. III,
14.04.2010, n. 1043).
5.4. Ne discende l’assoluta inidoneità, in seno al
procedimento espropriativo, della mera accettazione della
proposta di cessione volontaria (con accettazione della
relativa indennità) fatta dal proprietario espropriando,
trattandosi di deliberazioni di valenza meramente interna
rispetto al non concluso procedimento di trasferimento in
via bonaria della proprietà.
5.5. Sul punto del tutto errata poi è la pretesa della
difesa comunale di ritener concluso il contratto di cessione
volontaria per effetto dell’invocata applicazione dell’art.
17 del R.D. 2440/1923 nella parte in cui consente, per i
contratti a trattativa privata, la stipulazione “per mezzo
di corrispondenza, secondo l'uso del commercio, quando sono
conclusi con ditte commerciali”.
Trattasi all’evidenza di forma di conclusione del contratto
semplificata, del tutto derogatoria e valevole per i soli
contratti con ditte commerciali ovvero per i contratti
conclusi in regime di economia (Cassazione civ. sez. I, 07.12.2004, n. 22973; id. sez. I, 29.07.2009 n.
17686) -giusto lo stesso richiamo operato dall’art. 334
comma 2, del d.P.R. 05.10.2010 n. 207 in tema di cottimo
fiduciario- e non estensibile ai contratti, quale la
cessione volontaria disciplinata dall’art. 45. del t.u.
espropriazioni, aventi effetto reale traslativo della
proprietà di beni immobili, in alternativa al decreto di
esproprio, per i quali è ineludibile, come detto, la
redazione per iscritto in un unico atto contenente la
sottoscrizione del privato e del rappresentante dell’ente
pubblico legittimato ad esprimerne all’esterno la volontà
(Cassazione civ. sez. I, 29.07.2009 n. 17686).
5.6. Deve dunque affermarsi la sussistenza della
responsabilità precontrattuale del Comune resistente, dal
momento che quest’ultimo ha violato il canone generale di
correttezza e buona fede nelle trattative contrattuali, in
particolare astendendosi dall’informare la ricorrente -come
suo pacifico obbligo ex artt. 1337-38 c.c.- in merito alla
carenza di idoneo titolo di proprietà a salvaguardia
dell’altrui interesse negoziale, circostanza che ben avrebbe
potuto essere valutata dalla ricorrente al fine del non
perfezionamento del contratto di cessione del diritto di
superficie
(TAR Umbria,
sentenza 05.12.2014 n. 605 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Nella materia della responsabilità
precontrattuale il pregiudizio risarcibile è circoscritto
nei limiti dello stretto interesse negativo (contrapposto
all'interesse all'adempimento), rappresentato sia dalle
spese inutilmente sopportate nel corso delle trattative in
vista della conclusione del contratto sia dalla perdita di
ulteriori occasioni per la stipulazione con altri di un
contratto altrettanto o maggiormente vantaggioso; consegue
che la disposizione di cui all'art. 1337 c.c. non può essere
invocata per il risarcimento dei danni che si sarebbero
evitati e dei vantaggi che si sarebbero conseguiti con la
stipulazione ed esecuzione del contratto.
---------------
Quanto al danno non patrimoniale -che la ricorrente
quantifica in 500.000,00 euro- anche quando sia determinato
dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come nel
caso di specie di lesione del diritto alla reputazione
professionale dell’impresa ricorrente, esso non è in re ipsa,
ma costituisce un danno conseguenza, che deve essere
allegato e provato da chi ne domandi il risarcimento.
Per la quantificazione del danno all'immagine di una persona
giuridica, se è vero che si può ricorrere anche a criteri
equitativi, comunque non ci si può sottrarre al principio
dell'onere della prova a carico di parte attrice, anche
mediante presunzioni, dovendosi ritenersi che, al riguardo,
un elemento essenziale sia il cd. clamor fori, cioè la
diffusione della notizia nei mass-media, e comunque la più o
meno grande risonanza dell'evento, che genera nei
consociati.
6. Tanto premesso in ordine all’illiceità del
comportamento serbato dall’Amministrazione, deve
evidenziarsi l’inammissibilità o comunque l’infondatezza
della domanda risarcitoria in quanto parte ricorrente
chiede, anzitutto, il risarcimento di danni patrimoniali
tutti ascrivibili all’”interesse contrattuale positivo”
ovvero all’utilità che la ricorrente avrebbe conseguito con
la stipulazione ed esecuzione del contratto.
Nella fattispecie, infatti, tutti i danni patrimoniali di
cui si chiede ristoro attengono al c.d. interesse
contrattuale positivo (condizioni maggiormente onerose per
accedere al mutuo per la realizzazione degli interventi, il
grave ritardo nell’avanzamento dei lavori, il mancato
introito degli acconti dovuti dai promissari acquirenti
degli immobili, l’impossibilità di stipulare nuovi contratti
per il periodo dal 01.04.2008 al 11.12.2008 con
soggetti interessati all’acquisto degli immobili in
costruzione) ovvero pregiudizi non risarcibili mediante
l’azione esercitata innanzi al Tribunale civile di cui il
presente giudizio costituisce prosecuzione.
Per giurisprudenza pacifica da cui il Collegio non ha
ragione per discostarsi, nella materia della responsabilità
precontrattuale il pregiudizio risarcibile è circoscritto
nei limiti dello stretto interesse negativo (contrapposto
all'interesse all'adempimento), rappresentato sia dalle
spese inutilmente sopportate nel corso delle trattative in
vista della conclusione del contratto sia dalla perdita di
ulteriori occasioni per la stipulazione con altri di un
contratto altrettanto o maggiormente vantaggioso; consegue
che la disposizione di cui all'art. 1337 c.c. non può essere
invocata per il risarcimento dei danni che si sarebbero
evitati e dei vantaggi che si sarebbero conseguiti con la
stipulazione ed esecuzione del contratto (ex multis
Cassazione civ. sez. III, 14.02.2000, n. 1632;
Consiglio di Stato sez. VI, 01.02.2013, n. 633).
6.1. Ne consegue l’inammissibilità o comunque l’infondatezza
della domanda di condanna al risarcimento di tutti i danni
patrimoniali allegati, non avendo chiesto la società
ricorrente il ristoro dell’interesse negativo.
6.2. Quanto al danno non patrimoniale -che la ricorrente
quantifica in 500.000,00 euro- anche quando sia determinato
dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come nel
caso di specie di lesione del diritto alla reputazione
professionale dell’impresa ricorrente, esso non è in re ipsa,
ma costituisce un danno conseguenza, che deve essere
allegato e provato da chi ne domandi il risarcimento (ex multis Cassazione civile sez. VI, 24.09.2013, n.
21865; id. sez. III, 30.09.2014, n. 20558).
Per la quantificazione del danno all'immagine di una persona
giuridica, se è vero che si può ricorrere anche a criteri
equitativi, comunque non ci si può sottrarre al principio
dell'onere della prova a carico di parte attrice, anche
mediante presunzioni, dovendosi ritenersi che, al riguardo,
un elemento essenziale sia il cd. clamor fori, cioè la
diffusione della notizia nei mass-media, e comunque la più o
meno grande risonanza dell'evento, che genera nei consociati
(TAR Sicilia-Catania sez. IV, 26.09.2013, n.
2274; TAR Lazio-Roma sez. II, 07.01.2013, n. 67)
(TAR Umbria,
sentenza 05.12.2014 n. 605 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ad eccezione dei soli interventi di semplice
manutenzione ordinaria, qualsiasi intervento edilizio in
zona sismica, comportante o meno l’esecuzione di opere in
conglomerato cementizio armato, deve essere:
(a) previamente denunciato al competente ufficio al fine di
consentire i preventivi controlli,
(b) necessita del rilascio del preventivo titolo
abilitativo,
(c) il progetto deve essere redatto da un professionista
abilitato ed allegato alla denuncia di esecuzione dei
lavori,
(d) questi ultimi devono essere parimenti diretti da un
professionista.
1. Il ricorso è fondato nei limiti e sulla base delle
considerazioni che seguono.
2. Quanto al primo motivo, occorre premettere che l’articolo 93
T.U.E. prescrive, tra l’altro, che nelle zone sismiche, di
cui all’articolo 83 T.U.E., chiunque intenda procedere a
costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni è tenuto a darne
preavviso scritto allo sportello unico, che provvede a
trasmettere al competente ufficio tecnico della regione
copia della domanda e del progetto che ad esso deve essere
allegato.
L’articolo 94 T.U.E. prescrive poi che nelle località
sismiche non si possono iniziare lavori senza la preventiva
autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della
regione.
L’inosservanza delle predette disposizioni è sanzionata
dall’articolo 95 T.U.E. e costituisce l’addebito ascritto
dell’imputata ai capi b) e c) della rubrica con l’unica
sottolineatura che competerà al giudice del rinvio accertare
se vi sia sovrapposizione tra l’addebito di cui al capo b) e
quello di cui al capo d) per essere stata elevata o meno la
contestazione dell’omesso preavviso dei lavori allo
sportello unico.
2.1. Il preavviso allo sportello unico (cui va depositato il
progetto) adempie, infatti, ad una funzione informativa, in
relazione all’attività da intraprendere, in modo da
assicurare la vigilanza sulle costruzioni in zone sismiche e
garantire la cooperazione fra le amministrazioni coinvolte
nel procedimento e gli interessati.
La giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di precisare
che, nelle zone sismiche, l’obbligo di informativa e di
produzione degli atti progettuali non è limitato in
relazione alle dimensioni e alle caratteristiche dell’opera,
ma riguarda tutte le opere indicate dalla disposizione
normativa, nessuna esclusa e dunque anche le opere c.d. “minori”,
perché diversamente verrebbe frustrato il fine di rendere
possibile il controllo preventivo e documentale
dell’attività edilizia nelle zone sismiche (Sez. 3, n. 8140
del 06/07/1992, Di Scala, Rv. 191390).
Sul punto, è stato anche affermato che le prescrizioni per
le costruzioni in zona sismica si applicano a qualsiasi
manufatto indipendentemente dai materiali impiegati e dalle
relative strutture in quanto nelle zone dichiarate sismiche
ricorre l’esigenza di maggiore rigore e proprio l’eventuale
impiego di materiali strutturali meno solidi rende ancor più
necessari i controlli e le cautele prescritte (Sez. 3, n.
38142 del 26/09/2001, Tucci R., Rv. 220269) sicché’ ricorre
il reato antisismico nel caso di opere realizzate nelle zone
sismiche senza adempimento dell’obbligo di denuncia e di
presentazione dei progetti allo sportello unico (articolo 94
T.U.E.) e senza la preventiva autorizzazione scritta del
competente ufficio tecnico della regione (articolo 94 T.U.E.),
a nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle
relative strutture (Sez. 3, n. 30224 del 21/06/2011,
Floridia, Rv. 251284).
2.2. Siccome gli obblighi previsti dagli articoli 93 e 94 T.U.E.
sono finalizzati a consentire il controllo preventivo della
pubblica amministrazione, non rileva, ai fini della
sussistenza del reato, l’effettiva pericolosita’ o meno
della costruzione realizzata, in violazione degli
adempimenti e in assenza delle prescritte autorizzazioni,
perché le contravvenzioni previste dalla normativa
antisismica, rientrando nel novero dei reati di pericolo
presunto, puniscono inosservanze formali, con la conseguenza
che neppure la verifica postuma dell’assenza del pericolo ed
il rilascio del provvedimento abilitativo incidono sulla
illiceità della condotta, in quanto gli illeciti sussistono
in relazione al momento di inizio dell’attività (Sez. 3, n.
5738 del 13/05/1997, Petroni, Rv. 208299).
Va ricordato che la normativa antisismica è ispirata a
preservare la pubblica incolumità in zone particolarmente
soggette al verificarsi di movimenti tellurici,
prescrivendo, da un lato, necessari obblighi burocratici e
particolari prescrizioni tecniche costruttive e costituendo,
dall’altro, un’anticipazione della tutela dell’interesse cui
appresta protezione (pubblica incolumità).
Ne consegue che, in materia urbanistica ed edilizia, le
disposizioni legislative regionali, espressione del potere
concorrente con quello dello Stato in materia, devono non
solo rispettare i principi fondamentali stabiliti in materia
edilizia-urbanistica dalla legislazione statale, ma devono
anche essere interpretate in modo da non collidere con i
medesimi (Sez. 3, n. 28560 del 26/03/2014, Alonzo, Rv.
259938).
2.3. La sentenza impugnata, come fondatamente lamenta il
ricorrente, non si è uniformata ai richiamati principi di
diritto e neppure ha spiegato se il deliberato della Giunta
regionale delle Marche (n. 836 del 25.05.2009) –che
sembrerebbe, contrariamente ai principi fissati dalla
legislazione statale e contenuti nel testo unico
dell’edilizia, distinguere gli interventi non sulla base
della natura dell’intervento stesso (costruzioni,
riparazioni, sopraelevazioni ex articolo 93 T.U.E.) ma solo
sulla base delle caratteristiche costruttive– rispetti i
principi fondamentali stabiliti in materia
edilizio–urbanistica dalla legislazione statale ovvero se
collida con essi, come in sostanza ritenuto dal ricorrente,
posto che, in ogni caso, l’intervento si è risolto nella
realizzazione di una “costruzione”, dovendosi anche
ricordare che la disciplina edilizia antisismica e delle
costruzioni, attenendo tali materie alla sicurezza statica
degli edifici, rientra come tale nella competenza esclusiva
dello Stato ex articolo 117, comma secondo, Cost. (Sez. 3,
n. 16182 del 28/02/2013, Crisafulli ed altro, Rv. 255254).
3. Quanto al secondo motivo, è sufficiente osservare che le
costruzioni nelle zone sismiche sono disciplinate dal capo 4
del T.U.E. e, per quanto qui interessa, le disposizioni, ai
fini dell’osservanza delle prescrizioni contenute in detto
capo, non distinguono tra opere in conglomerato cementizio
armato o non armato o a struttura metallica, richiedendo
l’adempimento delle prescrizioni prescritte dalla legge e
ciò indipendentemente dal materiale utilizzato per la
realizzazione dell’opera perché, come e’ stato in precedenza
precisato, è richiesto un maggiore rigore nel controllo
delle costruzioni realizzate nelle zone esposte al rischio
sismico.
L’articolo 93 T.U.E. stabilisce, al comma 2, che (quanto
alle costruzioni, riparazioni, sopraelevazioni nelle zone
sismiche) va allegato, alla comunicazione allo sportello
unico, il progetto debitamente firmato da un professionista
(ingegnere, architetto, geometra, perito edile) iscritto
all’albo mentre l’articolo 94, comma 4, T.U.E. dispone che i
lavori devono essere diretti da uno dei professionisti sopra
indicati.
Ne deriva che, ad eccezione dei soli interventi di semplice
manutenzione ordinaria, qualsiasi intervento edilizio in
zona sismica, comportante o meno l’esecuzione di opere in
conglomerato cementizio armato, deve essere: (a) previamente
denunciato al competente ufficio al fine di consentire i
preventivi controlli, (b) necessita del rilascio del
preventivo titolo abilitativo, (c) il progetto deve essere
redatto da un professionista abilitato ed allegato alla
denuncia di esecuzione dei lavori, (d) questi ultimi devono
essere parimenti diretti da un professionista abilitato
conseguendone, in difetto, la violazione del Decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, articolo 95,
(Sez. 3, n. 34604 del 17/06/2010, Todaro, Rv. 248330) e
ciascuna violazione, risolvendosi nell’inosservanza di
specifiche prescrizioni, costituisce un titolo autonomo di
reato.
Anche se errata la qualificazione giuridica data ai fatti
contestati ai capi d) ed e) della rubrica (ai quali fatti
non si applicano le norme contenute nel capo 2 del T.U.E.
bensì quelle di cui al capo IV, ricadendo la costruzione del
muro in zona sismica), è, per il resto, fondata la doglianza
sollevata dal ricorrente circa l’inidoneo affidamento che il
giudice ha fatto sul contenuto della deposizione del
testimone per inferire che, essendo le opere di conglomerato
cementizio sprovviste di armatura, l’imputata fosse
esonerata dagli obblighi indicati nei capi d) ed e) della
rubrica.
Al tribunale competeva dunque di qualificare correttamente
in iure i fatti e non di decretarne l’insussistenza (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.12.2014 n. 50624 -
link a http://renatodisa.com). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
1. Concorsi pubblici. Principio dell’anonimato. Segno di
riconoscimento. Idoneità. Intenzionalità.
1.1. La regola dell'anonimato nelle
prove scritte per i pubblici concorsi, posta a garanzia del
principio di imparzialità dell'azione amministrativa, deve
dirsi violata soltanto allorquando ricorrano due concorrenti
elementi ovvero l'idoneità del segno di riconoscimento e il
suo utilizzo intenzionale.
Quanto alla prima delle due condizioni (l'idoneità del segno
di riconoscimento), ciò che rileva non è tanto
l'identificabilità dell'autore dell'elaborato attraverso un
segno a lui personalmente riferibile, quanto piuttosto
l'astratta idoneità del segno a fungere da elemento di
identificazione, e ciò ricorre quando la particolarità
riscontrata assuma un carattere “oggettivamente e
incontestabilmente anomalo” rispetto alle ordinarie modalità
di estrinsecazione del pensiero e di elaborazione dello
stesso in forma scritta, in tal caso a nulla rilevando che
in concreto la Commissione o singoli componenti di essa
siano stati o meno in condizione di riconoscere
effettivamente l'autore dell'elaborato.
Quanto alla seconda delle due condizioni, invece, è da
escludere un automatismo tra astratta possibilità di
riconoscimento e violazione della regola dell'anonimato,
dovendo emergere elementi atti a provare in modo inequivoco
l'intenzionalità del concorrente di rendere riconoscibile il
proprio elaborato.
1.2. In un concorso caratterizzato dalla partecipazione di
pochissimi concorrenti, la valutazione del c.d. segno di
riconoscimento deve effettuarsi con maggior rigore.
1.3. Lo sbarramento di un foglio così come del resto il
richiamo per la prosecuzione della lettura dell'elaborato
alla c.d. bella copia alla minuta, non risulta di per sé
anomalo ovvero idoneo a rappresentare la volontà del
candidato di rendersi riconoscibile dalla Commissione.
Trattasi invero di segni non di rado apposti dai candidati
in sede di stesura degli elaborati, finalizzati alla
speditezza e alla precisione delle operazioni di correzione,
senza alcun carattere di anomalia rispetto alle ordinarie
modalità di estrinsecazione del pensiero e di elaborazione
dello stesso in forma scritta.
1.4. L’aver il candidato comunicato pubblicamente e ad alta
voce l’apposizione della barratura di un foglio è
comportamento incompatibile con l’intenzione di rendere
riconoscibile il proprio elaborato, la quale presuppone al
contrario un comportamento percepibile solo dai componenti
della Commissione e non dagli altri candidati.
Il ricorso è fondato e va accolto.
Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, la
regola dell'anonimato nelle prove scritte per i pubblici
concorsi, posta a garanzia del principio di imparzialità
dell'azione amministrativa, deve dirsi violata soltanto
allorquando ricorrano due concorrenti elementi ovvero
l'idoneità del segno di riconoscimento e il suo utilizzo
intenzionale (ex multis TAR Lazio-Roma sez. III,
07.05.2014, n. 4733; Consiglio di Stato sez. V, 17.01.2014,
n. 202)
Quanto alla prima delle due condizioni (l'idoneità del segno
di riconoscimento), ciò che rileva non è tanto
l'identificabilità dell'autore dell'elaborato attraverso un
segno a lui personalmente riferibile, quanto piuttosto
l'astratta idoneità del segno a fungere da elemento di
identificazione, e ciò ricorre quando la particolarità
riscontrata assuma un carattere “oggettivamente e
incontestabilmente anomalo” rispetto alle ordinarie
modalità di estrinsecazione del pensiero e di elaborazione
dello stesso in forma scritta, in tal caso a nulla rilevando
che in concreto la Commissione o singoli componenti di essa
siano stati o meno in condizione di riconoscere
effettivamente l'autore dell'elaborato (TAR Lazio Roma sez.
III, 07.05.2014, n. 4733; Consiglio di Stato sez. V,
17.01.2014, n. 202; id. sez. V, 11.01.2013, n. 102; TAR
Campania-Salerno 26.03.2012, n.568).
Quanto alla seconda delle due condizioni, invece, è da
escludere un automatismo tra astratta possibilità di
riconoscimento e violazione della regola dell'anonimato,
dovendo emergere elementi atti a provare in modo inequivoco
l'intenzionalità del concorrente di rendere riconoscibile il
proprio elaborato (TAR Lazio Roma sez. III, 07.05.2014, n.
4733; TAR Umbria 29.01.2014, n. 75; Consiglio di Stato sez.
V, 01.04.2011, n. 2025).
Muovendo dalle suesposte considerazioni, da cui il Collegio
non ha ragioni per discostarsi, è da escludersi nel caso di
specie la violazione del principio di anonimato.
Anzitutto, lo sbarramento di un foglio così come del resto
il richiamo per la prosecuzione della lettura dell'elaborato
alla c.d. bella copia alla minuta, non risulta di per sé
anomalo ovvero idoneo a rappresentare la volontà del
candidato di rendersi riconoscibile dalla Commissione.
Trattasi invero di segni non di rado apposti dai candidati
in sede di stesura degli elaborati, finalizzati alla
speditezza e alla precisione delle operazioni di correzione,
senza alcun carattere di anomalia rispetto alle ordinarie
modalità di estrinsecazione del pensiero e di elaborazione
dello stesso in forma scritta.
Quanto poi all’elemento dell’intenzionalità, osserva il
Collegio come l’aver il candidato comunicato pubblicamente e
ad alta voce l’apposizione della barratura di un foglio è
comportamento incompatibile con la suddetta intenzionalità,
la quale presuppone al contrario un comportamento
percepibile solo dai componenti della Commissione e non
dagli altri candidati. Non può pertanto desumersi da tale
circostanza alcuna intenzionalità di rendere riconoscibile
il proprio elaborato.
Se è vero che in un concorso quale quello in esame
caratterizzato dalla partecipazione di pochissimi
concorrenti (tre) la valutazione del c.d. segno di
riconoscimento deve effettuarsi con maggior rigore (TAR
Sardegna sez. II, 13.02.2013, n.127) non emergono elementi
atti a provare in modo inequivoco l’intenzionalità del
concorrente di rendere riconoscibile il proprio elaborato.
Tali dichiarazioni pubbliche avrebbero invece dovuto
sollecitare l’intervento (di cui non vi è traccia nei
verbali impugnati) della Commissione al fine di prevenire
eventuali possibili segni di riconoscimento, a tutela
dell’imparzialità, della par condicio e del favor
partecipationis si da meritare adesione sul punto anche
le ulteriori doglianze avverso l’operato della Commissione
poiché dalla normativa in materia di concorsi pubblici (vedi
in particolare l’art. 6 del D.P.R. 03.05.1957 n. 686) il
divieto di comunicazione concerne unicamente le
comunicazioni tra i candidati, ma non già dei candidati con
la Commissione, a cui è di norma sempre possibile rivolgersi
per chiarimenti.
Ne consegue l’illegittimità dell’operato della Commissione,
con conseguente obbligo per la medesima di procedere alla
correzione della prova scritta del ricorrente nonché di
esprimere il giudizio comparativo finale a doverosa
conclusione del concorso avviato, pur con salvezza delle
ulteriori determinazioni da parte dell’Amministrazione, nel
rispetto dei criteri di cui in motivazione (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
TAR Umbria,
sentenza 03.12.2014 n. 585 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Deve essere considerata illegittima la condanna
alla demolizione del manufatto, nel caso in cui siano state
abbattute mura perimetrali in contrasto con il permesso a
effettuare semplici lavori di ristrutturazione.
E’, viceversa, fondato il quinto motivo di doglianza.
Osserva, infatti, la Corte che il Tribunale di Genova, come
già dianzi accennato, ha riqualificato il fatto attribuito
alla (OMISSIS), derubricandolo da violazione del Decreto del
Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 44,
lettera b), a violazione della lettera a) della medesima
norma di legge, essendo stata in tal senso qualificata la
condotta relativa all’abbattimento di un muro perimetrale
del quale era stata autorizzata la mera manutenzione.
Sulla base di tale rilievo deve osservarsi che il Decreto
del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo
31, il quale prevede la ingiunzione alla demolizione delle
opere abusive, riguarda gli “interventi eseguiti in
assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con
variazione essenziali”; interventi questi puniti, in
sede penale, ai sensi del medesimo Decreto Legislativo n.
380 del 2001, articolo 44, comma 1, lettera b) ovvero
lettera c).
E’, pertanto, evidente che il citato Decreto Legislativo n.
380, articolo 31, comma 9, nell’imporre al giudice l’obbligo
di ordinare, con la sentenza di condanna, la demolizione
delle opere di cui al presente articolo si riferisce
esclusivamente al tipo di abusi edilizi previsti
dall’intitolazione dell’articolo medesimo, meglio descritti
nel comma 1, con riferimento all’ipotesi della totale
difformità dal permesso di costruire (interventi “che
comportano la realizzazione di un organismo edilizio
integralmente diverso per caratteristiche tipologiche,
planovolumetriche e di utilizzazione da quello oggetto del
permesso stesso, ovvero l’esecuzione di voltimi edilizi
oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un
organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza o
autonomamente utilizzabile”).
Non rientrano, pertanto, nella previsione normativa
dell’articolo 31, gli abusi minori, puniti ai sensi del
Decreto Legislativo n. 380 del 2001, articolo 44, lettera
a). Per tali violazioni le sanzioni amministrative
costituite dal ripristino dello stato dei luoghi o dalla
irrogazione di una sanzione pecuniaria sostitutiva, ai sensi
del predetto Decreto Legislativo n. 380, articolo 34,
restano di esclusiva competenza della pubblica
amministrazione, mentre l’autorità giudiziaria può solo
irrogare la pena dell’ammenda comminata dalla norma avente
carattere penale (nel medesimo senso: Corte di cassazione,
Sezione 3 penale, 14.11.2011, n. 41423) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.12.2014 n. 49991 -
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EDILIZIA
PRIVATA:
La circostanza che il vincolo (nella specie:
istituzione di un Parco) sia sopravvenuto rispetto
all'edificazione (abusiva) non può condurre a considerare
del tutto inesistente un vincolo di inedificabilità totale,
ricadendo nella previsione di carattere generale contenuta
nel primo comma dell'art. 32 della legge n. 47/1985, secondo
cui il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria
per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è
subordinato al parere favorevole delle amministrazioni
preposte alla tutela del vincolo stesso, parere che va
acquisito a prescindere dal requisito della anteriorità
dell'opera rispetto al vincolo.
In attuazione del principio tempus regit actum, invero,
l'obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla
tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del
vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di
sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del
vincolo. E appare altresì evidente che tale valutazione
corrisponde alla esigenza di vagliare l'attuale
compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati
abusivamente.
Non sussiste ragione per
discostarsi dal consimile precedente della Sezione,
intervenuto nei confronti dello stesso Ente Parco del
Cilento nello stesso territorio di Castellabate (Cons.
Stato, VI, 17.01.2014, n. 231) o di altri ancora seppure di
altra Sezione (Cons. Stato, IV, 19.03.2014, n. 1338).
Con l’indicata decisione, questa Sezione ha infatti
–richiamando il precedente di cui a Cons. Stato, Ad. plen.,
22.07.1999, n. 20 sul vincolo sopravvenuto all'edificazione-
affermato che “la circostanza che il vincolo (nella
specie: istituzione di un Parco) sia sopravvenuto rispetto
all'edificazione non può condurre a considerare del tutto
inesistente un vincolo di inedificabilità totale, ricadendo
nella previsione di carattere generale contenuta nel primo
comma dell'art. 32 della legge n. 47/1985, secondo cui il
rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per
opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è
subordinato al parere favorevole delle amministrazioni
preposte alla tutela del vincolo stesso, parere che va
acquisito a prescindere dal requisito della anteriorità
dell'opera rispetto al vincolo. In attuazione del principio
tempus regit actum, invero, l'obbligo di pronuncia da parte
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in
relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui deve
essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere
dall'epoca d'introduzione del vincolo. E appare altresì
evidente che tale valutazione corrisponde alla esigenza di
vagliare l'attuale compatibilità, con il vincolo, dei
manufatti realizzati abusivamente”.
Nella fattispecie, in coerenza con detta giurisprudenza,
posta la pacifica sopravvenienza all’abuso dell’istituzione
dell’Ente Parco del Cilento e del Vallo di Diano, nonché
l’assenza di valutazione concreta e attuale della
compatibilità dell’intervento abusivo, che non è riducibile
al mero richiamo dei contenuti astratti discendenti dal
vincolo, la sentenza impugnata appare corretta e,
conseguentemente, le censure dedotte devono essere rigettate
perché infondate (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 01.12.2014 n. 5927 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Titolato ad ottenere il permesso di costruire non
è solo il proprietario del bene, ma anche il titolare di
diritti reali o personali che abbia, per effetto di questi,
la facoltà di eseguire i lavori (con particolare riguardo
all’idoneità della servitù di passaggio a legittimare il
titolare a richiedere la concessione edilizia cfr. Cons.
Stato, Sez. IV, 16/03/2012 n. 1513 e 08/06/2011 n. 3508).
Nel caso di specie, la servitù di passaggio a favore del
fondo di pertinenza delle parti ricorrenti, abilita queste
ultime ad ottenere il permesso di costruire, in coerenza col
contenuto del diritto, limitatamente ai lavori concernenti
la strada, ma non con riguardo a quelli inerenti la posa in
opera della condotta idrica, ancorché da realizzare sullo
stesso tracciato stradale oggetto della servitù di
passaggio.
Dispone l’art. 11, comma 1, del
D.P.R. 06/06/2001 n. 380: “Il permesso di costruire è
rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia
titolo per richiederlo”.
In base a tale norma la giurisprudenza ha ritenuto che
titolato ad ottenere il permesso di costruire sia non solo
il proprietario del bene, ma anche il titolare di diritti
reali o personali che abbia, per effetto di questi, la
facoltà di eseguire i lavori (cfr., fra le tante, Cons.
Stato, Sez. V, 02/02/2012 n. 568 e 28/05/2001 n. 2881; TAR
Campania–Salerno, Sez. II, 08/07/2013 n. 1500; con
particolare riguardo all’idoneità della servitù di passaggio
a legittimare il titolare a richiedere la concessione
edilizia cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16/03/2012 n. 1513 e
08/06/2011 n. 3508).
Nel caso di specie, la servitù di passaggio a favore del
fondo di pertinenza delle parti ricorrenti, abilitava queste
ultime ad ottenere il permesso di costruire, in coerenza col
contenuto del diritto, limitatamente ai lavori concernenti
la strada, ma non con riguardo a quelli inerenti la posa in
opera della condotta idrica, ancorché da realizzare sullo
stesso tracciato stradale oggetto della servitù di
passaggio.
Infatti, relativamente a tale ultimo intervento (per il
quale sarebbe occorsa una servitù di acquedotto) le parti
istanti erano prive di qualunque titolo che le abilitasse a
conseguire il permesso di costruire.
Conseguentemente l’avversato provvedimento di autotutela
risulta illegittimo nella parte in cui travolge, quanto al
mappale 197, l’intera concessione edilizia, anziché
limitarsi ad annullarla con riguardo ai soli lavori di posa
della tubazione
(TAR Sardegna,
Sez. II,
sentenza 27.11.2014 n. 1026 -
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EDILIZIA
PRIVATA:
Dispone l’art. 21–nonies, comma 1, della L.
07/08/1990 n. 241: “Il provvedimento amministrativo
illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi
di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere
annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse
pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei controinteressati,
dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo
previsto dalla legge …”.
Dalla trascritta norma si ricava che il legittimo esercizio
del potere di autotutela è, tra l’altro, subordinato ad una
congrua motivazione dell’interesse pubblico e ad una
ponderazione comparativa di questo, con il contrario
interesse del destinatario dell'atto.
Vero è che un orientamento giurisprudenziale, seguito anche
da questa Sezione, afferma che l'annullamento d'ufficio di
una concessione edilizia (ora permesso di costruire) non
necessiti di un'espressa e specifica motivazione sul
pubblico interesse al ritiro, configurandosi questo
nell'interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica.
Tuttavia, deve ritenersi che il principio di diritto
espresso nel menzionato orientamento, riguardi le ipotesi in
cui il titolo edilizio emesso, contrasti con la normativa
urbanistica sotto il profilo oggettivo, nel senso che
consenta la realizzazione di un intervento, da questa,
invece, vietato.
Viceversa, quando, come nella fattispecie, non è in
contestazione la realizzabilità dell’opera in sé, ma la
legittimazione di colui che ha richiesto il titolo
abilitativo ad ottenerlo, l’interesse pubblico all’esercizio
del potere di autotutela, assume una consistenza meno
pregnante, per cui va espressamente valutato e
comparativamente ponderato con l’interesse del privato
destinatario dell’atto al suo mantenimento in vita.
Col secondo motivo le parti
ricorrenti deducono l’illegittimità del disposto
annullamento parziale in conseguenza dell’omessa motivazione
in ordine all’interesse pubblico al ritiro e alla sua
prevalenza su quello privato al mantenimento dell’atto.
La censura e fondata.
Dispone l’art. 21–nonies, comma 1, della L. 07/08/1990 n.
241: “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai
sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al
medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato
d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico,
entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi
dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo
ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge …”.
Dalla trascritta norma si ricava che il legittimo esercizio
del potere di autotutela è, tra l’altro, subordinato ad una
congrua motivazione dell’interesse pubblico e ad una
ponderazione comparativa di questo, con il contrario
interesse del destinatario dell'atto (cfr., da ultimo,
proprio in materia di annullamento della concessione
edilizia, Cons. Stato, Sez. IV, 14/05/2014 n. 2468).
Vero è che un orientamento giurisprudenziale, seguito anche
da questa Sezione, afferma che l'annullamento d'ufficio di
una concessione edilizia (ora permesso di costruire) non
necessiti di un'espressa e specifica motivazione sul
pubblico interesse al ritiro, configurandosi questo
nell'interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica (da ultimo, TAR Sardegna, Sez. II,
16/10/2013 n. 651; Cons. Stato, Sez. IV, 30/07/2012 n. 4300
e Sez. V, 03/06/2013 n. 3037).
Tuttavia, deve ritenersi che il principio di diritto
espresso nel menzionato orientamento, riguardi le ipotesi in
cui il titolo edilizio emesso, contrasti con la normativa
urbanistica sotto il profilo oggettivo, nel senso che
consenta la realizzazione di un intervento, da questa,
invece, vietato.
Viceversa, quando, come nella fattispecie, non è in
contestazione la realizzabilità dell’opera in sé, ma la
legittimazione di colui che ha richiesto il titolo
abilitativo ad ottenerlo, l’interesse pubblico all’esercizio
del potere di autotutela, assume una consistenza meno
pregnante, per cui va espressamente valutato e
comparativamente ponderato con l’interesse del privato
destinatario dell’atto al suo mantenimento in vita.
Poiché nel caso che occupa tale valutazione comparativa è
del tutto mancata, l’atto di ritiro risulta inficiato dal
vizio dedotto con la censura in esame.
Peraltro, giova rilevare che la suddetta motivazione era,
nella specie, tanto più necessaria, poiché, quando la
concessione edilizia è stata rimossa, i lavori con la stessa
autorizzati erano già stati ultimati
(TAR Sardegna,
Sez. II,
sentenza 27.11.2014 n. 1026 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Ricade nel reato di corruzione propria non solo
l’accordo illecito che prevede lo scambio tra il denaro o
altra utilità e un determinato o ben determinabile atto
contrario ai doveri di ufficio, ma anche l’accordo avente
per oggetto una pluralità di atti, non preventivamente
fissati, ma pur sempre “determinabili per genus mediante il
riferimento alla sfera di competenza o all’ambito di
intervento del pubblico ufficiale” o –più schiettamente e
senza perifrasi– i pagamenti eseguiti “in ragione delle
funzioni esercitate dal pubblico ufficiale, per retribuirne
i favori”, così da ricomprendervi l’ipotesi del c.d.
asservimento della funzione pubblica agli interessi privati.
Le conclusioni cui è pervenuto il Tribunale sono soltanto in
parte corrette.
L’interpretazione giurisprudenziale dell’articolo 319 c.p.,
cui si è attenuto il giudice del riesame e che questo
collegio condivide e ribadisce, è costante e consolidata nel
tempo, a partire dalle prime decisioni risalenti agli anni
Novanta (Sez. 6, 17.02.1996, Cariboni, rv 204440; idem,
05.03.1996, Magnano, rv 205076; idem, 05.02.1998, Lombardi,
rv 210381; idem, 13.08.1996, Pacifico, rv 206122; idem,
25.3.1999, Di Pinto, rv 213884) fino alle più recenti (Sez.
F., 25.08.2009 n. 34834, Ferro, rv 245182; Sez. 6,
16.05.2012 n. 30058, Di Giorgio, rv 253216). Attraverso
un’interpretazione estensiva della relazione tra
promessa-dazione e atto di ufficio, si è affermato che
ricade nel reato di corruzione propria non solo l’accordo
illecito che prevede lo scambio tra il denaro o altra
utilità e un determinato o ben determinabile atto contrario
ai doveri di ufficio, ma anche l’accordo avente per oggetto
una pluralità di atti, non preventivamente fissati, ma pur
sempre “determinabili per genus mediante il riferimento
alla sfera di competenza o all’ambito di intervento del
pubblico ufficiale” o –più schiettamente e senza
perifrasi– i pagamenti eseguiti “in ragione delle
funzioni esercitate dal pubblico ufficiale, per retribuirne
i favori”, così da ricomprendervi l’ipotesi del c.d.
asservimento della funzione pubblica agli interessi privati.
Valutando poi gli effetti dell’entrata in vigore della legge
n. 190/2012, questa Corte ha affermato che “il nuovo
testo dell’articolo 318 c.p., non ha proceduto ad alcuna
abolitio criminis, neanche parziale, delle condotte previste
dalla precedente formulazione e ha, invece, determinato
un’estensione dell’area di punibilità, configurando una
fattispecie di onnicomprensiva monetizzazione del munus
pubblico, sganciata da una logica di formale sinallagma e
idonea a superare i limiti applicativi che il vecchio testo,
pur nel contesto di un’interpretazione ragionevolmente
estensiva, presentava in relazione alle situazioni di
incerta individuazione di un qualche concreto comportamento
pubblico oggetto di mercimonio” (Sez. 6, 11.01.2013 n.
19189, Abbruzzese, rv 255073).
In effetti la riscrittura dell’articolo 318 cod. pen. ha
portato nell’assetto del delitto di corruzione un’importante
novità: il baricentro del reato non è più l’atto di ufficio
da compiere o già compiuto, ma l’esercizio della funzione
pubblica. Dalla rubrica nonché dal testo dell’articolo 318,
è scomparso ogni riferimento all’atto dell’ufficio e alla
sua retribuzione e, a seguire, ogni connotazione circa la
conformità o meno dell’atto ai doveri d’ufficio e, ancora,
alla relazione temporale tra l’atto e l’indebito pagamento.
Ciò significa che è stata abbandonata la tradizionale
concezione che ravvisava la corruzione nella compravendita
dell’atto che il pubblico ufficiale ha compiuto o deve
compiere, per abbracciare un nuovo criterio di punibilità
ancorato al mero esercizio delle sue funzioni o dei suoi
poteri, a prescindere dal fatto che tale esercizio assuma
carattere legittimo o illegittimo e, quindi, senza che sia
necessario accertare l’esistenza di un nesso tra la dazione
indebita e uno specifico atto dell’ufficio.
La riforma ha inteso adeguare il nostro ordinamento penale
ai superiori livelli di tutela raggiunti da altri
ordinamenti Europei (in particolare, quello tedesco) e al
contempo colmare lo iato tra diritto positivo e diritto
vivente formatosi per l’interpretazione estensiva data dalla
giurisprudenza di legittimità al concetto di atto di
ufficio, dilatato fino al punto di ritenere sufficiente, per
la sua determinabilità, il solo riferimento alla sfera di
competenza o alle funzioni del pubblico ufficiale che riceve
il denaro.
Il comando contenuto nella nuova fattispecie è estremamente
chiaro: il pubblico funzionario in ragione della funzione
pubblica esercitata non deve ricevere denaro o altre utilità
e, specularmente, il privato non deve corrisponderglieli.
Tali divieti, secondo la logica del pericolo presunto,
mirano a prevenire la compravendita degli atti d’ufficio e
fungono da garanzia del corretto funzionamento e
dell’imparzialità della pubblica amministrazione.
Il nuovo reato di cui all’articolo 318 c.p., in forza della
novità del riferimento all’esercizio della funzione, ha
esteso l’area di punibilità dall’originaria ipotesi della
retribuzione del pubblico ufficiale per il compimento di un
atto conforme ai doveri d’ufficio a tutte le forme di
mercimonio delle funzioni o dei poteri del pubblico
ufficiale, salva l’ipotesi in cui sia accertato un nesso di
strumentante tra dazione o promessa e il compimento di un
determinato o ben determinabile atto contrario ai doveri
d’ufficio, ipotesi, quest’ultima, espressamente contemplata
dall’articolo 319 c.p., modificato dalla novella soltanto
nella parte attinente alla misura della pena.
Ne deriva che i fenomeni di corruzione sistemica conosciuti
dall’esperienza giudiziaria come “messa a libro paga del
pubblico funzionario” o “asservimento della funzione
pubblica agli interessi privati” o “messa a disposizione
del proprio ufficio”, tutti caratterizzati da un accordo
corruttivo che impegna permanentemente il pubblico ufficiale
a compiere od omettere una serie indeterminata di atti
ricollegabili alla funzione esercitata, finora sussunti
–alla stregua del consolidato orientamento giurisprudenziale
sopra richiamato– nella fattispecie prevista dall’articolo
319 c.p., devono ora, dopo l’entrata in vigore della Legge
n. 190 del 2012, essere ricondotti nella previsione del
novellato articolo 318 c.p., sempre che i pagamenti
intervenuti non siano ricollegabili al compimento di uno o
più atti contrari ai doveri d’ufficio.
In altre parole, considerato che la nuova figura di reato
prevista dall’articolo 318, e quella di cui all’articolo 319
c.p., sono caratterizzate l’una dall’assenza l’altra dalla
presenza di un atto contrario ai doveri di ufficio, volendo
individuare quale sia la norma penale applicabile, occorrerà
previamente accertare se l’asservimento della funzione sia
rimasto tale o sia sfociato nel compimento di un atto
contrario ai doveri d’ufficio.
Nella prima ipotesi il fatto sarà sussunto nella nuova
fattispecie di reato descritta dall’articolo 318 c.p., che,
elevando a fatto tipico uno dei tanti fenomeni di corruzione
propria prima compresi nell’articolo 319 c.p., ha assunto
–rispetto ai fatti commessi ante riforma– il ruolo di norma
speciale destinata a succedere nel tempo a quella generale,
perché la pena comminata dall’articolo 318, è, nel minimo
edittale (un anno di reclusione, anziché due), più
favorevole al reo.
Nell’ipotesi, invece, che l’asservimento della funzione
abbia prodotto il compimento di un atto contrario ai doveri
d’ufficio, il fatto resterà sotto il regime dell’articolo
319 c.p., e sarà punito, ove commesso prima dell’entrata in
vigore della novella, con la pena –più lieve– prevista ante
riforma, in ossequio alla regola dell’articolo 2 c.p., comma
4.
Questa soluzione è stata criticata, rilevando che, in tal
modo, verrebbe irragionevolmente punito con pena meno grave
il pubblico ufficiale che vende l’intera funzione rispetto a
colui che vende soltanto un singolo atto (Cass., Sez. 6,
15.10.2013 n. 9883, Terenghi, rv 258521). L’argomentazione
però non è condivisibile, perché non rispecchia la realtà
normativa come sopra ricostruita. Invero l’articolo 318 cod.
pen., in quanto punisce genericamente la vendita della
funzione, si atteggia come reato di pericolo, mentre
l’articolo 319 c.p., perseguendo la compravendita di uno
specifico atto d’ufficio, è reato di danno. Nel primo caso
la dazione indebita, condizionando la fedeltà e imparzialità
del pubblico ufficiale che si mette genericamente a
disposizione del privato, pone in pericolo il corretto
svolgimento della pubblica funzione; nell’altro, la dazione,
essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di
uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, realizza
una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando
quindi una pena più severa.
Per completezza va detto che, nel nuovo regime, il rapporto
tra articolo 318 c.p., e articolo 319 c.p., da alternativo
che era (cioè fondato sulla distinzione tra atto conforme o
atto contrario ai doveri d’ufficio), e’ ora divenuto da
norma generale a norma speciale. Si tratta di specialità
unilaterale per specificazione, perché, mentre l’articolo
318 c.p., prevede e punisce la generica condotta di vendita
della pubblica funzione, l’articolo 319 c.p., enuclea un
preciso atto, contrario ai doveri di ufficio, oggetto di
illecito mercimonio.
Va precisato, infine, che la nuova figura di reato prevista
dall’articolo 318 c.p., può atteggiarsi, sotto il profilo
della consumazione, come reato eventualmente permanente.
Invero, se a realizzare la fattispecie penale e’ sufficiente
l’azione istantanea dell’accettazione della promessa del
denaro (o di altra utilità) o della sua ricezione,
nell’ipotesi che le dazioni indebite siano plurime, trovando
esse ragione giustificativa nel fattore unificante
dell’esercizio della funzione pubblica, non si realizzeranno
tanti reati quante sono le dazioni, ma un unico reato la cui
consumazione comincia con la prima dazione e si protrae nel
tempo fino all’ultima (Corte
di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 26.11.2014 n. 49226 -
link a http://renatodisa.com). |
SICUREZZA LAVORO:
Il contratto di appalto non solleva da precise
dirette responsabilità il committente allorché lo stesso
assuma una partecipazione attiva nella conduzione e
realizzazione dell’opera, in quanto, in tal caso, rimane
destinatario degli obblighi assunti dall’appaltatore,
compreso quello di controllare direttamente le condizioni di
sicurezza del cantiere.
Nonostante l’apprezzabile sforzo dimostrativo anche il
secondo motivo non può trovare accoglimento.
In sede di legittimità si è reiteratamente precisato,
giudicando della responsabilità dei garanti in relazione ad
infortuni sul lavoro, quali siano le condizioni ricorrendo
le quali il committente resta esonerato dalla penale
responsabilità.
Non potendo esigersi da questi un controllo pressante,
continuo e capillare sull’organizzazione e sull’andamento
dei lavori ceduti in appalto, ai fini della configurazione
della responsabilità del committente occorre verificare in
concreto quale sia stata l’incidenza della sua condotta
nell’eziologia dell’evento, a fronte delle capacità
organizzative della ditta scelta per l’esecuzione dei
lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da
eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la
scelta dell’appaltatore o del prestatore d’opera, alla sua
ingerenza nell’esecuzione dei lavori oggetto di appalto o
del contratto di prestazione d’opera, nonché alla agevole ed
immediata percepibilità da parte del committente di
situazioni di pencolo.
Di conseguenza, il contratto di appalto non solleva da
precise e dirette responsabilità il committente allorché lo
stesso assuma una partecipazione attiva nella conduzione e
realizzazione dell’opera, in quanto, in tal caso, rimane
destinatario degli obblighi assunti dall’appaltatore,
compreso quello di controllare direttamente le condizioni di
sicurezza del cantiere (cfr., fra le tante, Cass. Sez. 4, n.
3563 del 18/01/2012, Sez. 4, n. 14407 del 07/12/2011, dep.
2012; Sez. 4, n. 1479 del 13/11/2009, dep. 2010).
Nel caso di specie, il (OMISSIS), così assumendo ruolo di
garanzia in favore dei terzi, si era obbligato personalmente
con il comune di Catania al rispetto scrupoloso delle
cautele prevenzionali del caso e in special modo ad apporre
la completa segnaletica di pericolo prevista. Inoltre, le
opere non erano di esclusiva competenza della (OMISSIS),
stante che la committente si era riservata di fornire la
conduttura, e l’opera di saldatura dei relativi tranci, di
pari passo con l’andamento dello scavo, sorgendo, così,
all’evidenza una esigenza di coordinamento, vigilanza e
verifica certamente esuberante rispetto ai poteri del nudo
committente.
Da questa speciale ingerenza, giustificata dalla parzialità
dell’appalto e dagli obblighi assunti nei confronti del
comune di Catania, deriva la sussistenza del ruolo di
garanzia nei confronti degli utenti della strada in capo
all’imputato, ovviamente, nell’eventuale concorso di
responsabilità altrui.
Questo nucleo motivazionale essenziale risulta essere stato
colto dalla Corte territoriale, dovendosi considerare
erroneo, ma ininfluente, il riferimento alla condotta di
mera verifica circa l’andamento dei lavori e la nomina del
direttore dei lavori, compatibili, invece, con i diritti del
committente derivanti dal contratto d’appalto (Corte
di Cassazione, sez. IV penale,
sentenza 19.11.2014 n. 47751 -
link a http://renatodisa.com). |
CONDOMINIO: Sì
alla nuova entrata fai-da-te. Legittima l'apertura di varchi
nell'androne condominiale. La
Cassazione: niente autorizzazione assembleare ma va
garantito l'uso del bene comune.
I condomini possono aprire dei varchi nei muri comuni per
rendere più facile l'accesso ai locali di proprietà
esclusiva a condizione che ciò non comporti una limitazione
alla pari facoltà di utilizzo del bene comune riconosciuta
agli altri comproprietari e che non sia messa a rischio la
stabilità, la sicurezza e il decoro architettonico
dell'edificio.
In casi del genere al condomino non necessita alcuna
autorizzazione assembleare ma ove, viceversa, l'assemblea
abbia vietato l'intervento, lo stesso è tenuto a impugnarla
nell'ordinario termine di decadenza per ottenerne
l'annullamento.
Questo quanto chiarito dalla Corte di Cassazione con la
recente sentenza 14.11.2014 n. 24295.
Nel caso in questione una condòmina proprietaria di due
locali adiacenti, siti al piano terra e con ingresso unico
dall'androne di uno dei due fabbricati dei quali si
componeva lo stabile condominiale era stata proprio
costretta a impugnare la delibera con cui l'assemblea si era
opposta all'apertura di un nuovo ingresso nell'androne del
secondo edificio.
Scopo della condòmina era ovviamente quello di garantire un
accesso autonomo anche al secondo dei locali di proprietà
esclusiva in modo da dividerlo dal primo e meglio
valorizzarlo. Sia in primo che in secondo grado era stata
accolta la domanda di annullamento della delibera impugnata,
poiché i giudici avevano evidenziato come l'assemblea
condominiale nel caso di specie non avesse avuto alcun
valido motivo per vietare alla condòmina di fare un uso più
intenso del muro comune. Di qui il ricorso in Cassazione
proposto dal condominio avverso la sentenza di appello.
Anche la Corte di cassazione, però, ha dato ragione alla
comproprietaria, condannando il condominio alle spese del
giudizio di legittimità. I supremi giudici, infatti, dopo
aver richiamato il noto principio di cui all'art. 1102 c.c.
relativo all'utilizzo dei beni comuni, hanno ritenuto
infondata anche l'ulteriore eccezione proposta dal
condominio e relativa al rischio che praticando tale
apertura si costituisse in capo a soggetti estranei alla
compagine condominiale una servitù di passaggio su beni
condominiali.
Infatti, come evidenziato dalla Suprema corte, il limite
all'apertura di varchi nei muri comuni motivato dal rischio
di costituzione di servitù di passaggio è invocabile
soltanto nel caso in cui l'intervento edilizio comporti un
collegamento diretto tra distinti immobili di proprietà del
medesimo privato ma facenti parte di diversi compendi
immobiliari (si pensi a locali che, seppure adiacenti,
facciano parte di stabili condominiali differenti).
Al contrario, come rilevato dai giudici di legittimità, nel
caso di specie la condòmina si era limitata a chiedere
l'apertura di un nuovo ingresso per il proprio immobile sito
interamente nel medesimo condominio e al solo scopo di
realizzare un utilizzo più intenso dell'androne comune,
senza quindi escludere gli altri comproprietari dall'uso del
bene in questione.
E ciò, come anticipato, del tutto in linea con il
consolidato orientamento della Suprema corte secondo il
quale, in tema di comunione e condominio, ciascun
comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune una
utilità maggiore e più intensa di quella che ne viene tratta
dagli altri comproprietari purché non venga alterata la
destinazione del bene o compromesso il diritto al pari uso
da parte di quest'ultimi. In particolare, hanno precisato i
giudici, per stabilire se l'uso più intenso da parte del
singolo sia da ritenere consentito ai sensi dell'art. 1102
c.c. non deve aversi riguardo all'uso concreto del bene
operato dagli altri condomini in un determinato momento, ma
a quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno.
L'uso deve ritenersi in ogni caso consentito se l'utilità
aggiuntiva tratta dal singolo comproprietario non sia
diversa da quella derivante dalla destinazione originaria
del bene e sempre che esso non dia luogo a servitù a carico
del medesimo bene comune.
---------------
Senza consenso altrui il muro è
modificabile per utilità aggiuntive.
Ciascun condomino, senza bisogno del consenso degli altri
partecipanti, può apportare al muro comune quelle modifiche
che consentano di trarre dal bene un'utilità aggiuntiva
rispetto a quella ricavata agli altri. Costituisce, quindi,
utilizzazione lecita della cosa comune ogni intervento sul
muro perimetrale o delle scale, come l'apertura di una
finestra o di una porta, l'ingrandimento o lo spostamento di
vedute preesistenti, la trasformazione di finestre in
balconi ecc..
E ancora è consentito abbattere una porzione (limitata) di
muro condominiale per sostituirlo con porte scorrevoli o
ricostruirlo in modo diverso, purché continui a svolgere la
sua funzione. Tuttavia la Cassazione ha ritenuto legittima
anche l'apertura di due porte su muri comuni per mettere in
comunicazione l'unità immobiliare in proprietà esclusiva di
un condomino con il garage comune: tali opere, infatti,
rientrano pur sempre nell'ambito del concetto di uso (più
intenso) del bene comune.
Naturalmente le aperture possono essere anche con affaccio
sul cortile comune o sul cavedio (cortile interno), la cui
essenziale finalità di dare aria e luce agli immobili
circostanti giustifica la volontà di ciascun condomino di
godere a pieno di tali benefici. È importante però che le
modifiche siano compatibili con la ragionevole previsione
dell'utilizzazione che in concreto faranno gli altri
condomini della stessa parte condominiale.
Si deve poi considerare che l'apertura di varchi nel muro
perimetrale da parte di un condomino è legittima purché non
influisca sulla statica del fabbricato condominiale
compromettendone la stabilità o pregiudicandone la sicurezza
e, soprattutto, non comprometta il decoro architettonico
dell'edificio. Se questi limiti vengono rispettati, le opere
in questione non sono vietate, perché non modificano la
destinazione delle parti comuni. È chiaro però che, in
relazione alle aperture praticate, il condomino interessato
dovrà comunque accollarsi le maggiori spese di manutenzione
e/o di gestione del muro comune causate dalla propria
iniziativa (tinteggiature, ristrutturazioni ecc.).
- Aperture nei muri comuni: il ruolo
dell'assemblea.
L'assemblea non potrebbe vietare indiscriminatamente di
aprire varchi sul muro comune in quanto una tale facoltà
deve essere riconosciuta a ciascun proprietario, salvi
soltanto i limiti sopra detti, cioè sempreché non si creino
pregiudizi alla possibilità degli altri condomini di godere
del bene comune. Tuttavia, per evitare contestazioni o
azioni giudiziarie da parti degli altri partecipanti al
condominio, il singolo dovrebbe chiedere l'autorizzazione
dell'assemblea che, se concessa, costituirebbe il
riconoscimento della legittimità dell'uso più intenso dei
muri comuni.
Naturalmente se è richiesta l'apertura di una porta di
accesso all'appartamento sul pianerottolo condominiale,
qualora il caseggiato sia composto da due scale, sarà
sufficiente che il consenso venga prestato dai soli
appartenenti alla scala interessata. È possibile però che il
condomino veda respinta la richiesta di praticare le nuove
aperture per problemi alla riservatezza e al rispetto delle
distanze: in tal caso al condomino non rimane che impugnare
la decisione assembleare.
Il giudice poi deciderà nel rispetto del principio di
solidarietà che è alla base dei rapporti condominiali,
richiedendo un costante equilibrio tra le esigenze e gli
interessi di tutti i condomini. In ogni caso è inutile
pretendere di fare aperture nei muri comuni ove l'assemblea,
con la maggioranza prevista per le innovazioni, abbia
imposto a tutti i condomini un divieto generalizzato di
poter aprire nuovi accessi sul muro comune. Tale decisione,
infatti, è assolutamente legittima, vietandosi soltanto un
uso specifico del bene comune.
- Aperture e limitazioni nel regolamento di
condominio. È
pienamente legittimo che norme di un regolamento di
condominio, aventi natura contrattuale (in quanto
predisposte dall'unico originario proprietario dell'edificio
e accettate con i singoli atti di acquisto dai condomini
ovvero adottate in sede assembleare con il consenso unanime
di tutti i condomini), possano prevedere limiti ai diritti
dei condomini sulle parti comuni.
Ne discende che legittimamente dette norme contrattuali
possono arrivare a imporre ai singoli condomini il divieto
di modificare le parti comuni e l'aspetto generale
dell'edificio esistente al momento della sua costruzione: in
tal caso non è possibile aprire varchi neppure se a
maggioranza l'assemblea autorizzi l'intervento (serve
l'unanimità, cioè il consenso di tutti i condomini, nessuno
escluso).
- Le aperture illecite.
Merita di essere ricordato infine che le aperture praticate
dal condomino nel muro comune per mettere in collegamento
locali di sua proprietà posti nell'edificio condominiale con
altro immobile estraneo al condominio costituiscono
certamente un uso indebito della cosa comune, alterando la
destinazione del muro e incidendo sulla sua funzione di
recinzione, potendo inoltre dar luogo a una servitù di
passaggio a carico della proprietà condominiale.
Alla luce di tali principi si deve affermare che l'apertura
praticata dal singolo condomino nel muro perimetrale
dell'edificio condominiale, in corrispondenza del proprio
box, per dare accesso a un'area di proprietà esclusiva,
pertinenziale, comunque, ad altro condominio, non può farsi
rientrare nel cosiddetto uso legittimo della cosa comune.
Del resto bisogna considerare anche il rischio concreto che
tale apertura venga utilizzata da soggetti estranei al
condominio, compresi eventuali malintenzionati (articolo
ItaliaOggi Sette del 22.12.2014). |
PUBBLICO
IMPIEGO: L’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato ha enunciato il principio
secondo il quale l’utilizzazione della graduatoria dei
canditati utilmente collocati in graduatoria è da preferire
rispetto all’indizione di un nuovo concorso, salvo che
ricorrano particolari ragioni che rendano opportuno il
ricorso a questa seconda forma di reclutamento del
personale, (ragioni) che debbono essere esplicitate
dall’Amministrazione con congrua motivazione.
Pur ripudiando l’orientamento giurisprudenziale
precedentemente dominante, che riconosceva
all’Amministrazione ampia discrezionalità nella decisione di
indire un nuovo concorso senza necessità di particolare
motivazione, (orientamento fondato) sul presupposto che la
nomina degli idonei nei posti vacanti fosse una facoltà e
non un obbligo, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
ha tuttavia ribadito l’impossibilità di configurare un
diritto soggettivo pieno alla assunzione degli idonei
mediante scorrimento della graduatoria, che sorgerebbe per
il solo fatto della vacanza e disponibilità dei posti in
organico.
Dopo aver evidenziato che la più recente disciplina del
pubblico impiego configura lo scorrimento delle graduatorie
concorsuali valide ed efficaci come la regola generale per
la copertura dei posti vacanti nella dotazione organica e ne
rafforza il ruolo di modalità ordinaria di provvista del
personale, in relazione alla finalità primaria di ridurre i
costi gravanti sulle amministrazioni per la gestione delle
procedure selettive, e che, conseguentemente, la decisione
della Amministrazione di indire un nuovo concorso richiede
una apposita e approfondita motivazione che dia conto del
sacrificio imposto ai concorrenti idonei e della sussistenza
di preminenti esigenze di interesse pubblico, l’Adunanza
plenaria fa rilevare, infatti, che tale regola generale non
è assoluta ed incondizionata, atteso che in alcuni casi la
determinazione di procedere al reclutamento del personale
mediante nuove procedure concorsuali risulta pienamente
giustificabile, con conseguente attenuazione dell’obbligo di
motivazione (concorsi previsti con cadenza periodica da
speciali disposizioni; stabilizzazione del personale
precario; modifica sostanziale della disciplina applicabile
alla procedura concorsuale, rispetto a quella riferita alla
graduatoria ancora efficace, con particolare riferimento al
contenuto delle prove d’esame ed ai requisiti di
partecipazione; etc.).
Nel merito, la questione dedotta in giudizio attiene al
rapporto tra lo scorrimento di una graduatoria concorsuale
ancora valida ed efficace e l’indizione di una procedura di
mobilità per la copertura di un posto vacante in organico.
Occorre premettere che l’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato, con sentenza n. 14/2011, ha enunciato il principio
secondo il quale l’utilizzazione della graduatoria dei
canditati utilmente collocati in graduatoria è da preferire
rispetto all’indizione di un nuovo concorso, salvo che
ricorrano particolari ragioni che rendano opportuno il
ricorso a questa seconda forma di reclutamento del
personale, (ragioni) che debbono essere esplicitate
dall’Amministrazione con congrua motivazione.
Pur ripudiando l’orientamento giurisprudenziale
precedentemente dominante, che riconosceva
all’Amministrazione ampia discrezionalità nella decisione di
indire un nuovo concorso senza necessità di particolare
motivazione, (orientamento fondato) sul presupposto che la
nomina degli idonei nei posti vacanti fosse una facoltà e
non un obbligo (ex plurimis, Consiglio di Stato, sez.
IV, 16.06.2011 n. 3660; Consiglio di Stato, sez. IV,
03.12.2010 n. 8519; Consiglio di Stato, sez. IV, 27.07.2010
n. 4910; Consiglio di Stato, sez. V, 19.11.2009 n. 8369;
Consiglio di Stato, sez. V, 19.11.2009 n. 7243), l’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato ha tuttavia ribadito
l’impossibilità di configurare un diritto soggettivo pieno
alla assunzione degli idonei mediante scorrimento della
graduatoria, che sorgerebbe per il solo fatto della vacanza
e disponibilità dei posti in organico (Consiglio di Stato,
Adunanza plenaria, 28.07.2011 n. 14).
Dopo aver evidenziato che la più recente disciplina del
pubblico impiego configura lo scorrimento delle graduatorie
concorsuali valide ed efficaci come la regola generale per
la copertura dei posti vacanti nella dotazione organica e ne
rafforza il ruolo di modalità ordinaria di provvista del
personale, in relazione alla finalità primaria di ridurre i
costi gravanti sulle amministrazioni per la gestione delle
procedure selettive, e che, conseguentemente, la decisione
della Amministrazione di indire un nuovo concorso richiede
una apposita e approfondita motivazione che dia conto del
sacrificio imposto ai concorrenti idonei e della sussistenza
di preminenti esigenze di interesse pubblico, l’Adunanza
plenaria fa rilevare, infatti, che tale regola generale non
è assoluta ed incondizionata, atteso che in alcuni casi la
determinazione di procedere al reclutamento del personale
mediante nuove procedure concorsuali risulta pienamente
giustificabile, con conseguente attenuazione dell’obbligo di
motivazione (concorsi previsti con cadenza periodica da
speciali disposizioni; stabilizzazione del personale
precario; modifica sostanziale della disciplina applicabile
alla procedura concorsuale, rispetto a quella riferita alla
graduatoria ancora efficace, con particolare riferimento al
contenuto delle prove d’esame ed ai requisiti di
partecipazione; etc.) (TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 12.11.2014 n. 5814 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Abusi edilizi. Ingiunzione a demolire. Inottemperanza.
Acquisizione area di sedime. Competenza. Spetta a
responsabile di settore dell'AC. Conservazione dell'opera
abusiva. Valutazione del Consiglio Comunale. È soltanto
eventuale.
1. In materia edilizia e di
repressione degli abusi, ogni provvedimento, ivi compreso
quello di acquisizione dell'area di sedime ex art. 31 d.P.R.
n. 380/2001, spetta al responsabile del settore comunale a
cui sono affidati i relativi compiti.
2. L'acquisizione dell'area di sedime incisa da manufatto
abusivo ex art. 31 d.P.R. n. 380/2001 non deve essere
preceduta dalla valutazione del Consiglio comunale sulla
possibilità di utilizzare l’opera per scopi di pubblica
utilità, atteso il carattere dovuto dell’atto (conseguente
all’inottemperanza all’ordine di demolizione), preordinato
alla rimozione dell’opera e che solo in via eventuale e
successiva può formare oggetto di determinazione dell’organo
consiliare, che ne disponga la conservazione per l’esistenza
di prevalenti interessi pubblici.
Infondata è la censura secondo cui è stata acquisita un’area
maggiore di quella su cui insiste l’abuso.
L’art. 31, terzo comma, del D.P.R. n. 380/2001 stabilisce
che: <<L'area acquisita non può comunque essere superiore
a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente
costruita>>.
Nella specie, considerato che il container e il campo di
calcetto abusivo hanno una superficie complessiva di mq.
872, è legittima l’acquisizione dell’area della particella
1048 di mq. 1.083 (questa di proprietà esclusiva della
ricorrente, come da sua esplicita ammissione: cfr. la
relazione di perizia stragiudiziale depositata).
Quanto all’esproprio dell’ANAS, la circostanza che gli abusi
ricadano sulla particella 1047 di proprietà demaniale (cfr.
ancora la relazione di perizia stragiudiziale depositata
dalla ricorrente) non esclude la necessità di acquisire, in
danno dell’autore dell’abuso, i beni realizzati senza titolo
e che gli appartengono, in quanto distinti dal suolo
espropriato su cui insistono.
Ciò al fine della loro demolizione, non spontaneamente
eseguita (salva la possibilità di conservazione e di
utilizzo per scopi di pubblica utilità), considerato anche
che l’espropriazione del suolo non può comportare l’effetto
di riversare sull’espropriante la responsabilità per
l’attività edilizia abusiva.
Quanto al profilo di incompetenza dedotto con l’ultimo
motivo, la giurisprudenza amministrativa è pacifica nel
ritenere che ogni provvedimento in materia edilizia e di
repressione degli abusi spetta al responsabile del settore
comunale a cui sono affidati i relativi compiti (cfr., per
tutte, la sentenza della Sez. IV di questo Tribunale del
22.01.2014 n. 417 e Cons. Stato – Sez. IV, 27.10.2011 n.
5758).
Né può sostenersi che l’acquisizione debba essere preceduta
dalla valutazione del Consiglio comunale sulla possibilità
di utilizzare l’opera per scopi di pubblica utilità, atteso
il carattere dovuto dell’atto (conseguente
all’inottemperanza all’ordine di demolizione), preordinato
alla rimozione dell’opera e che solo in via eventuale e
successiva può formare oggetto di determinazione dell’organo
consiliare, che ne disponga la conservazione per l’esistenza
di prevalenti interessi pubblici (cfr. l’art. 31, quinto
comma, D.P.R. n. 380/2001: <<L'opera acquisita è demolita
con ordinanza del dirigente o del responsabile del
competente ufficio comunale a spese dei responsabili
dell'abuso, salvo che con deliberazione consiliare non si
dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e
sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi
urbanistici o ambientali>>) (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 10.11.2014 n. 5783
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
1. Gare pubbliche. Appalti di servizi. Requisiti speciali
di partecipazione. Dimostrazione di aver svolto servizi
analoghi. Nozione.
1.1. Nelle gare pubbliche per
l'affidamento di appalti di servizi, ove la lex specialis di
gara richieda ai concorrenti la dimostrazione di aver svolto
nel triennio precedente alla pubblicazione del bando servizi
analoghi a quelli oggetto dell'appalto, non si intende far
riferimento a “servizi identici”: la ratio di tale
interpretazione risiede nella tendenziale ottica di apertura
al mercato che deve soprintendere ad ogni procedura ad
evidenza pubblica.
1.2. L’esclusione dalla valutazione, come servizio non
analogo a quello oggetto della gara di appalto, di un
servizio che nondimeno con quello presenti alcuni aspetti in
comune deve fondarsi su di una motivazione logica, puntuale
e ragionale, coerentemente del resto alla finalità che
giustifica la richiesta ai concorrenti di una gara di
appalto di documentare il pregresso svolgimento di servizi
non identici, ma solo analoghi a quelli oggetto
dell’appalto, finalità rintracciabile nell’acquisizione da
parte dell’amministrazione appaltante dell’adeguata
conoscenza della precedente attività svolta dai concorrenti
e nella conseguente possibilità di apprezzare, in concreto,
la loro specifica attitudine alla effettiva, puntuale e
compiuta realizzazione delle prestazioni oggetto della gara,
costituendo le precedenti esperienze significativi elementi
sintomatici in tal senso.
1.3. Nelle gare pubbliche, per “servizi analoghi” vanno
intesi quelli attinenti allo stesso settore dell’appalto da
aggiudicare, ma concernenti, in riferimento allo specifico
oggetto della procedura, tipologie diverse ed eterogenee.
2. (segue): dimostrazione del possesso di requisito speciale
(aver svolto servizi analoghi). Schede contabili.
Sufficienza.
2.1. L’art. 42, comma 3-bis, e l'art. 48
del d.lgs 12.04.2006 n. 163 consentono agli operatori
economici, in un’ottica di semplificazione e speditezza
dell’azione amministrativa, di fornire alla stazione
appaltante la scheda contabile, quale idonea dichiarazione
finalizzata alla prova dei requisiti inerenti allo
svolgimento dei servizi oggetto dell’appalto. In ogni caso,
qualora l’ente aggiudicatore dovesse ritenerlo opportuno o
necessario ai fini della definizione della gara, può
chiedere un’integrazione della documentazione contabile
fornita.
2.2. Non va escluso dalla gara pubblica di appalto di
servizi, l'operatore economico che, al fine di dimostrare il
possesso di requisiti speciali di partecipazione, abbia
fornito, dapprima, una scheda contabile e, in sede di
verifica ex art. 48 d.lgs. 12.04.2006 n. 163, l’elenco
delle fatture emesse in occasione dell’esecuzione dei
servizi analoghi a quelli oggetto dell’appalto.
3. Offerte anomale. Valutazione della Stazione Appaltante.
Discrezionalità. Sindacato giurisdizionale. Limiti.
3.1. Nella materia della impugnazione delle
determinazioni amministrative in materia di valutazione
delle giustificazioni in ordine alla anomalia dell’offerta,
il giudice amministrativo incontra limiti assai severi. Il
sindacato sulla discrezionalità tecnica, tipico della
valutazione dell’anomalia dell’offerta, non può sfociare
nella sostituzione dell’opinione del giudice a quella
espressa dall’organo dell’Amministrazione, a meno che non
venga considerata errata sul piano della tecnica seguita,
essendo compito del giudice verificare se il potere
amministrativo si sia esercitato con utilizzo delle regole
conforme a criteri di logicità, congruità e ragionevolezza.
3.2. Non va esclusa dalla gara di appalto di servizi,
l'impresa che, in sede di verifica dell'anomalia
dell'offerta, abbia fornito uno schema dettagliato dei tempi
e dei costi del servizio offerto, nonché del numero
specifico di ore necessarie a svolgerlo.
Il motivo non è fondato.
Al riguardo risulta opportuno richiamare quanto
correttamente è stato affermato dal giudice di primo grado.
Per quanto concerne il primo profilo di doglianza sollevato,
infatti, la stazione appaltante, nel richiamare i “servizi
analoghi” all’art. 9, lett. g), del disciplinare di
gara, non ha voluto far riferimento a “servizi identici”:
la ratio di tale interpretazione risiede nella
tendenziale ottica di apertura al mercato che deve
soprintendere ad ogni procedura ad evidenza pubblica.
La giurisprudenza d’altronde risulta costantemente orientata
nel senso di considerare che “l’esclusione dalla
valutazione, come servizio non analogo a quello oggetto
della gara di appalto, di un servizio che nondimeno con
quello presenti alcuni aspetti in comune [...] deve fondarsi
su di una motivazione logica, puntuale e ragionale,
coerentemente del resto alla finalità che giustifica la
richiesta ai concorrenti di una gara di appalto di
documentare il pregresso svolgimento di servizi non
identici, ma solo analoghi a quelli oggetto dell’appalto,
finalità rintracciabile nell’acquisizione da parte
dell’amministrazione appaltante dell’adeguata conoscenza
della precedente attività svolta dai concorrenti e nella
conseguente possibilità di apprezzare, in concreto, la loro
specifica attitudine alla effettiva, puntuale e compiuta
realizzazione delle prestazioni oggetto della gara,
costituendo le precedenti esperienze significativi elementi
sintomatici in tal senso” (Cons. Stato, sez. V,
08.04.2014 n. 1668; id., sez. III, 25.06.2013, n. 3437).
Pertanto, risulta corretto affermare che per “servizi
analoghi” vadano intesi quelli attinenti allo stesso
settore dell’appalto da aggiudicare, ma concernenti, in
riferimento allo specifico oggetto della procedura,
tipologie diverse ed eterogenee.
Quanto al secondo profilo di censura, va innanzitutto
richiamato l’art. 42, co. 3-bis, del d.lgs. 12.04.2006 n.
163, secondo cui “le stazioni appaltanti provvedono a
inserire nella Banca dati nazionale dei contratti pubblici
di cui all’art. 6-bis del presente Codice [...] la
certificazione attestante le prestazioni di cui al comma 1,
lettera a), del presente articolo”. In secondo luogo, ai
sensi dell’art. 48 del Codice dei Contratti, in sede di
verifica dell’anomalia dell’offerta, la stazione appaltante
può ottenere la prova documentale dei requisiti dichiarati.
Le richiamate disposizioni consentono agli operatori
economici, in un’ottica di semplificazione e speditezza
dell’azione amministrativa, di fornire alla stazione
appaltante la scheda contabile, quale idonea dichiarazione
finalizzata alla prova dei requisiti inerenti allo
svolgimento dei servizi oggetto dell’appalto. In ogni caso,
qualora l’ente aggiudicatore dovesse ritenerlo opportuno o
necessario ai fini della definizione della gara, può
chiedere un’integrazione della documentazione contabile
fornita.
Nel caso di specie, pertanto, deve affermarsi la piena
regolarità e legittimità dell’operato di Ecologia Italiana
s.r.l. la quale, al fine di dimostrare il possesso dei
requisiti sanciti nell’art. 9, lett. g), del disciplinare di
gara, ha fornito, dapprima, una scheda contabile e, in sede
di verifica ex art. 48 d.lgs. 12.04.2006 n. 163, l’elenco
delle fatture emesse in occasione dell’esecuzione dei
servizi analoghi a quelli oggetto dell’appalto.
2. Parte appellante censura la decisione del TAR per la
Campania anche in merito alle statuizioni relative agli atti
del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta
dell’aggiudicataria: in effetti, la Guido Tortora s.r.l.
afferma che la verifica dell’offerta avrebbe dovuto condurre
all’esclusione della Ecologia Italiana s.r.l., in virtù di
tre considerazioni: in primo luogo, il bando di gara
prevedeva, a pena di esclusione, l’applicazione del CCNL
dell’area nettezza urbana e non quello dell’area tessile, di
gran lunga più favorevole rispetto al primo; in secondo
luogo, la controinteressata avrebbe fornito un calcolo del
costo medio orario del lavoro non comprensiva di alcuni
oneri contributivi e retributivi; in terzo luogo, il costo
orario fornito in sede di giustificazione dalla Ecologia
Italiana s.r.l., sarebbe rapportato ad un tempo di impiego
del personale inferiore rispetto a quello previsto
nell’offerta tecnica.
Il motivo non è fondato.
Viene in rilievo, al riguardo, la disposizione contenuta
nell’art. 9, lett. i), del disciplinare di gara secondo cui
il concorrente “dichiara di aver formulato l’offerta
tenendo conto degli obblighi derivanti dall’applicazione del
CCNL di categoria e di impegnarsi al rispetto del medesimo
per tutta la durata contrattuale”.
Tale disposizione, come sostenuto dal TAR Campania, non dev’essere
interpretata nel senso di subordinare la partecipazione alla
gara, all’applicazione del CCNL del settore nettezza urbana.
Il richiamo al CCNL “di categoria”, infatti, può
essere relazionato all’inquadramento dei lavoratori
all’interno dell’organico aziendale.
A ben vedere, questo tipo di interpretazione è coerente e si
pone in sintonia con le osservazioni effettuate in relazione
ai “servizi analoghi”: in effetti, la ratio
sottesa alle esaminate disposizioni del disciplinare di gara
è la stessa ed è individuabile nel favor partecipationis.
Se, da un lato, si ammette la possibilità di partecipazione
alla procedura, di imprese che svolgono servizi attinenti
allo smaltimento di rifiuti genericamente inteso, risulterà
senz’altro probabile che alla medesima procedura prendano
parte imprese che, a seconda del proprio specifico oggetto
sociale, applicano ai propri lavoratori CCNL di categorie
differenti. Diversamente ragionando, invece, ad una
procedura concernente lo smaltimento di rifiuti derivanti da
raccolta differenziata, potrebbero partecipare solamente
imprese che abbiano già svolto questa specifica attività e
che, pertanto, applichino il solo CCNL del settore nettezza
urbana: ciò determinerebbe essenzialmente una violazione dei
principi cardine, nazionali ed europei, che regolano
l’intera materia delle procedure ad evidenza pubblica.
In relazione agli altri profili di doglianza, giova
premettere che “nella materia della impugnazione delle
determinazioni amministrative in materia di valutazione
delle giustificazioni in ordine alla anomalia dell’offerta,
il giudice amministrativo incontra limiti assai severi che
la giurisprudenza non cessa di applicare. Tra le tante
pronunce di orientamento coincidente, si ricorda
l’affermazione per cui il sindacato sulla discrezionalità
tecnica, tipico della valutazione dell’anomalia
dell’offerta, non può sfociare nella sostituzione
dell’opinione del giudice a quella espressa dall’organo
dell’Amministrazione, a meno che non venga considerata
errata sul piano della tecnica seguita, essendo compito del
giudice verificare se il potere amministrativo si sia
esercitato con utilizzo delle regole conforme a criteri di
logicità, congruità e ragionevolezza” (Cons. St., sez.
VI, 04.06.2004 n. 3500; id. sez. V, 21.09.2005, n. 4947).
Ciò posto, va evidenziato come la Ecologia Italiana s.r.l.,
in sede di chiarimenti, ha fornito, come già rilevato in
primo grado, uno schema dettagliato dei tempi e dei costi
del servizio offerto, nonché del numero specifico di ore
necessarie a svolgerlo. In generale, può affermarsi che tali
giustificazioni appaiono senz’altro conformi ai richiamati
principi di ragionevolezza, logicità e congruità.
In effetti, i calcoli forniti dalla controinteressata hanno
permesso all’amministrazione aggiudicatrice di quantificare
in modo attendibile il valore per minuto dell’appalto da
eseguire: il valore finale di 124.800 è la risultante di una
media di lavoro di otto ore giornaliere, per cinque giorni
settimanali, per cinquantadue settimane.
Tale parametro va considerato in relazione al suo precipuo
fine di quantificare il costo del lavoro rispetto alle
singole operazioni richieste: per tale motivo il mancato
computo delle ore lavorative del sabato non può incidere
sulla ragionevolezza del parametro sopra esposto.
All’interno del calcolo del valore considerato, non vengono
computate ferie, assenze per malattie, festività e
tredicesima mensilità, in quanto, come giustamente affermato
dal giudice di prime cure, “il prospetto dei dipendenti
allegato ai verbali di gare prevede un generico costo annuo,
comprensivo anche di voci di costo ulteriori rispetto al
trattamento di base” (pag. 8 sentenza appellata).
In definitiva, non può essere condiviso l’assunto di parte
appellante circa la conformità, alle prescrizioni del bando
di gara, dell’offerta della Ecologia Italiana s.r.l., che ha
analiticamente e ragionevolmente giustificato la propria
offerta in sede di verifica ex art. 48 d.lgs. 12.04.2006 n.
163 (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
11.11.2014 n. 5530
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Fonti legislative. Declaratoria di incostituzionalità.
Effetti sugli atti amministrativi privati del fondamento
normativo. Nullità. Non sussiste. Annullabilità in sede
giurisdizionale o in via di autotutela.
Nel caso in cui un atto amministrativo sia stato emanato
sulla base di una legge o atto avente forza di legge poi
dichiarato incostituzionale, il venir meno del presupposto
normativo di un atto per sopravvenuta declaratoria di
incostituzionalità non ne comporta la caducazione "ipso
iure", essendo necessaria la sua rimozione con un
provvedimento giurisdizionale o in via di autotutela qualora
esso sia divenuto inoppugnabile.
Dell’applicabilità del predetto
principio giurisprudenziale potrebbe dubitarsi ove l'atto
adottato dalla p.a. avesse un contenuto normativo, dettando
una disciplina generale ed astratta riferita ad una serie di
situazioni future astrattamente ripetibili per un
indeterminato numero di volte (una volta venuto meno il
presupposto legislativo dell'atto regolamentare dovrebbe
negarsi che esso possa dispiegare la propria efficacia
normativa anche per il futuro, determinando un permanente
contrasto fra la norma secondaria e la legge o per di più
con la Costituzione).
2. Quanto al primo motivo di censura, ivi si sostiene che la
delibera di Consiglio Comunale n. 10 del 12.06.2007 ad
oggetto “Approvazione progetto definitivo relativo ai
lavori di realizzazione Variante SS 266" sarebbe
radicalmente nulla in quanto approvata ai sensi dell’art. 98
d.l.vo n. 163/2006 posto che detta norma “fondante”
in ultimo citata era stata dichiarata incostituzionale
(Corte Cost. sent. n. 401 del 19-23.11.2007).
2.1. In contrario senso, osserva il Collegio che è ben vero
che il fondamento normativo della detta delibera si rinviene
nella suindicata norma dichiarata costituzionalmente
illegittima dalla Consulta: sennonché, avveduta
giurisprudenza – che il Collegio condivide e fa propria –
correttamente ritiene che il venir meno del presupposto
normativo di un atto per sopravvenuta declaratoria di
incostituzionalità non ne comporta la caducazione "ipso
iure", essendo necessaria la sua rimozione con un
provvedimento giurisdizionale o in via di autotutela qualora
esso sia divenuto inoppugnabile (Consiglio Stato sez. IV,
22.03.2001 n. 1695; TAR Lombardia Milano Sez. I, Sent.,
26.04.2013, n. 1097).
Dell’applicabilità del predetto principio giurisprudenziale
potrebbe dubitarsi ove l'atto adottato dalla p.a. avesse un
contenuto normativo, dettando una disciplina generale ed
astratta riferita ad una serie di situazioni future
astrattamente ripetibili per un indeterminato numero di
volte (una volta venuto meno il presupposto legislativo
dell'atto regolamentare dovrebbe negarsi che che esso possa
dispiegare la propria efficacia normativa anche per il
futuro, determinando un permanente contrasto fra la norma
secondaria e la legge o per di più con la Costituzione).
La delibera, quindi, non è affatto nulla: era contestabile,
ma la possibilità di tale contestazione risente delle
disposizioni processuali in materia di tempestiva –o meno-
proposizione del ricorso, il che postula la compiuta
disamina delle ulteriori censure mentre il primo motivo
dell’appello, per quanto sinora rappresentato, deve essere
senz’altro disatteso (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
11.11.2014 n. 5526
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
1. Principio del "tempus regit actum". Legittimità degli
atti amministrativi. Disciplina del procedimento
amministrativo. Fase procedimentale. Jus superveniens.
1.1. Costituisce principio generale
costantemente predicato dalla pacifica giurisprudenza
amministrativa quello per cui “la legittimità di un
provvedimento amministrativo si deve accertare con
riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al
momento della sua emanazione, secondo il principio del "tempus
regit actum", con conseguente irrilevanza di provvedimenti
successivi che non possono in alcun caso legittimare ex post
precedenti atti amministrativi”.
La giurisprudenza civile di legittimità, a propria volta,
ritiene il detto canone valutativo principio di
imprescindibile applicazione.
1.2. L'applicabilità delle norme nell'ambito del
procedimento amministrativo è regolata dal principio "tempus
regit actum", con la conseguenza che ogni atto o fase del
procedimento trova disciplina nelle disposizioni di legge o
di regolamento vigenti alla data in cui ha luogo ciascuna
sequenza procedimentale.
1.3. Lo "jus superveniens" è pienamente operativo con
riguardo a procedimenti suddivisi in varie fasi coordinate,
salvo che incida su situazioni giuridiche già consolidate.
Va premesso
che costituisce principio generale costantemente predicato
dalla pacifica giurisprudenza amministrativa quello per cui
“la legittimità di un provvedimento amministrativo si
deve accertare con riferimento allo stato di fatto e di
diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo
il principio del "tempus regit actum", con conseguente
irrilevanza di provvedimenti successivi che non possono in
alcun caso legittimare ex post precedenti atti
amministrativi” (Cons. Stato Sez. IV, 21.08.2012, n.
4583).
La giurisprudenza civile di legittimità, a propria volta,
ritiene il detto canone valutativo principio di
imprescindibile applicazione (ex multis: Cass. civ.
Sez. VI, 22-02-2012, n. 2672).
Lo stesso principio (con qualche temperamento) si applica al
fluire procedimentale laddove medio tempore muti il quadro
normativo che governa il procedimento.
Anche l'applicabilità delle norme nell'ambito del
procedimento amministrativo è regolata dal principio "tempus
regit actum" con la conseguenza che ogni atto o fase del
procedimento trova disciplina nelle disposizioni di legge o
di regolamento vigenti alla data in cui ha luogo ciascuna
sequenza procedimentale. (TAR Calabria, Catanzaro sezione I,
01.10.2007, n. 1420). Quel TAR osserva pure, del tutto
condivisibilmente che "lo "jus superveniens" è pertanto
pienamente operativo con riguardo a procedimenti suddivisi
in varie fasi coordinate, ..., salvo che incida su
situazioni giuridiche già consolidate." (TAR Lazio Roma
Sez. III-bis, Sent., 13.09.2012, n. 7732).
Ne discende la assoluta irrilevanza nella vicenda
processuale per cui è causa delle sopravvenute modifiche
normative che hanno interessato il d.Lgs. n. 163/2006 in
quanto successive alla emanazione del bando e dell’adozione
della statuizione espulsiva (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
11.11.2014 n. 5524
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Appalti. Requisiti di partecipazione. Moralità
professionale. Obbligo dichiarativo delle condanne
riportate.
Nelle gare d'appalto le valutazioni in
ordine alla gravità delle eventuali condanne riportate dai
concorrenti e la loro incidenza sulla moralità professionale
spettano esclusivamente alla amministrazione appaltante e
non già ai concorrenti, i quali sono pertanto tenuti ad
indicare tutte le condanne riportate, non potendo essi
operare alcun "filtro" in sede di domanda/dichiarazione di
partecipazione alla gara, ciò implicando un giudizio
inevitabilmente soggettivo inconciliabile con la finalità
della norma di cui all'art. 38, punto 1, lett. 1), d.Lgs.
12.04.2006, n. 163.
2. Ciò premesso ritiene il Collegio che la disamina
dell’incartamento processuale induce a ritenere che la
condotta tenuta da parte appellante fu gravemente decettiva
se non anche fraudolenta, e che nessuna delle critiche
appellatorie sia condivisibile.
2.1. Il bando di gara obbligava l’offerente (id est:
i soggetti della compagine tenuti all’obbligo ex art. 38 del
TU contratti pubblici) a dichiarare tutte le condanne
subìte.
Ciò mercé una autodichiarazione.
Tale obbligo declaratorio omnicomprensivo, era perfettamente
in linea con l’orientamento della giurisprudenza a più
riprese affermato ancora di recente, secondo il quale (Cons.
Stato Sez. IV, 25.03.2014, n. 1456, Cons. Stato Sez. IV,
22.03.2012, n. 1646) nelle gare d'appalto le valutazioni in
ordine alla gravità delle eventuali condanne riportate dai
concorrenti e la loro incidenza sulla moralità professionale
spettano esclusivamente alla amministrazione appaltante e
non già ai concorrenti, i quali sono pertanto tenuti ad
indicare tutte le condanne riportate, non potendo essi
operare alcun "filtro" in sede di
domanda/dichiarazione di partecipazione alla gara, ciò
implicando un giudizio inevitabilmente soggettivo
inconciliabile con la finalità della norma di cui all'art.
38, punto 1, lett. 1), d.Lgs. 12.04.2006, n. 163 (d.lgs. n.
163/2006 - Codice degli appalti).
2.2. A fronte della chiarissima specificazione contenuta nel
bando, e comunque dell’orientamento conforme della
giurisprudenza di cui s’è detto, non v’era dubbio che
l’appellante fosse tenuto a dichiarare tutte le condanne
riportate.
2.3. Callidamente, l’appellante ha aggirato tale obbligo: ha
evitato di rendere la detta autodichiarazione; ha prodotto
un certificato del casellario rilasciato su richiesta del
privato che non riportava una delle condanne subite,
apparentemente utilizzandolo quale “equipollente della
richiesta autodichiarazione”.
Che si sia trattato di una condotta tesa ad eludere
l’obbligo di legge e del bando, e che la buona fede sia del
tutto esclusa, è dimostrato pienamente dal fatto che:
a) la condanna non menzionata nel certificato prodotto era
stata resa ex art. 444 cpp. e, quindi, su richiesta
dell’appellante medesimo e/o con il suo consenso;
b) egli quindi ne conosceva benissimo l’esistenza (qualche
dubbio, invece, forse, si sarebbe potuto avere nell’ipotesi
di decreto penale di condanna non tempestivamente opposto);
c) a tutto concedere, ammesso che l’intendimento originario
non fosse fraudolento ed egli volesse soltanto surrogare con
la detta produzione la richiesta autodichiarazione,
l’appellante al momento della produzione del certificato ben
conosceva che lo stesso mancava di completezza rispetto alla
prescrizione della lex specialis ed avrebbe dovuto
integrarla (condotta che si è ben guardato dal compiere).
In altre parole: quantomeno al momento in cui –richiesto ed
ottenuto il certificato che aveva intenzione di produrre in
luogo di ottemperare puramente e semplicemente alla
prescrizione del bando- venne in possesso del certificato
predetto, l’appellante ben sapeva che esso non recava
menzione di una condanna riportata.
E ben sapeva quindi che, producendo il detto certificato
incompleto, violava (non più soltanto formalmente ma anche
nella sostanza) una esplicita prescrizione del bando, tanto
da impegnarsi in una più complessa ed “onerosa”
condotta (quella di richiedere un certificato alla
competente amministrazione) piuttosto che rendere una
semplice autodichiarazione, come previsto dal bando.
Pare al Collegio evidente che la detta condotta fosse
preordinata ad eludere l’obbligo predetto, e volesse
giovarsi della incompletezza del certificato prodotto, non
rischiando però, al contempo, di incorrere nel reato di
false dichiarazioni: alla stregua di tale volutamente
articolata ed elusiva condotta, collidente frontalmente con
la prescrizione della lex specialis, sono recessive
tutte le considerazioni in punto di omessa gravità della
condanna, della circostanza che la condanna non dichiarata
era identica o simile ad altra nota alla stazione appaltante
e non ritenuta ostativa, etc.
In disparte, infatti, che è ben diversa, anche sotto il
profilo soggettivo e della complessiva affidabilità,la
posizione di chi abbia riportato una sola condanna rispetto
a quella di chi ne abbia riportato più d’una (circostanza,
questa, dimostrativa di una serialità di condotte illecite)
appare infatti del tutto assorbente, sotto il profilo
valutativo la strumentale violazione del bando e la palese
finalizzazione della stessa ad eludere la prescrizione di
legge: ciò per tacere della inconferenza di tutte le
considerazioni in punto di non “volontarietà” della
condotta.
Lo si ripete: ammessa (e non concessa) una supposta buona
fede iniziale (che si nega, comunque, atteso che non si vede
perché, se non al fine di evitare di incorrere nel reato di
false dichiarazioni impunemente omettendo di dichiarare la
seconda condanna l’appellante si fosse premurato di
richiedere un certificato, pur potendosi limitare a rendere
l’autodichiarazione), al momento della produzione del
certificato l’appellante ben sapeva che esso rappresentava
una condizione (una sola condanna subita) non vera: la non
veridicità intenzionale emerge in modo manifesto, e bene ha
fatto la stazione appaltante ad adottare la statuizione
espulsiva (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
11.11.2014 n. 5524
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APPALTI:
Cauzione provvisoria. Finalità. Esclusione di concorrente
per difetto dei requisiti generali di ammissione.
Incameramento. Legittimità.
1. L’art. 75, comma 6, cod.
contratti prevede la possibilità per la stazione appaltante
di incamerare la cauzione provvisoria in tutte le ipotesi di
mancata sottoscrizione del contratto per fatto
dell’affidatario e la sua natura è di tipo sanzionatorio.
Sebbene, in origine, nelle procedure ad evidenza pubblica
per la scelta del contraente la cauzione avesse avuto la
funzione di garantire l’Amministrazione per il caso in cui
l’affidatario non si presentasse poi a stipulare il relativo
contratto (cfr. art. 332 legge n. 2248/ 1865, allegato F;
gli artt. 2 e 4 DPR n. 1063 del 1962; art. 30 legge 109 del
1994), nel vigore del codice dei contratti, la cauzione è
stata considerata come condizione volta a garantire
l’affidabilità dell’offerta (non solo in vista
dell’aggiudicazione) nonché la serietà e la correttezza del
procedimento di gara.
2. L’incameramento della cauzione provvisoria va configurato
come misura sanzionatoria costituente conseguenza automatica
del provvedimento di esclusione. Nell’ipotesi di mancata
sottoscrizione del contratto “per fatto dell’affidatario”
deve farsi rientrare non solo il rifiuto di stipulare, ma
anche il rilevato difetto dei requisiti generali previsti
dall’art. 38 codice contratti.
3. Va incamerata la cauzione laddove un concorrente risulti
privo del requisito di ordine generale relativo alla
regolarità della posizione tributaria, a nulla rilevando che
la lex specialis della gara avesse limitato a due sole
diverse ipotesi la possibilità di irrogazione della sanzione
de qua, la norma di cui all’art. 75, comma 6°, codice
contratti ha infatti un chiara valenza eterointegrativa, dal
contenuto coercitivo e immediatamente applicabile, che va ad
integrare in maniera automatica la disciplina di gara,
attese appunto la ratio sottesa alla cauzione (garanzia
della gara) e la natura giuridica riconducibile
all’incameramento della stessa (sanzione automatica del
provvedimento di esclusione) in relazione alla intervenuta,
accertata ipotesi di difetto di requisiti generali di
ammissione alla gara.
L’art. 75, comma VI, del dlgs n. 163/2006 prevede la
possibilità per la stazione appaltante di incamerare la
cauzione provvisoria in tutte le ipotesi di mancata
sottoscrizione del contratto per fatto dell’affidatario e la
sua natura è di tipo sanzionatorio.
Nelle procedure ad evidenza pubblica per la scelta del
contraente la cauzione ha avuto, in base all’allora vigente
normativa, la funzione di garantire l’Amministrazione per il
caso in cui l’affidatario non si presentasse poi a stipulare
il relativo contratto (vedi art. 332 legge n. 2248/1865,
allegato F; gli artt. 2 e 4 DPR n. 1063 del 1962; art. 30
legge 109 del 1994 (legge Merloni) .
Recentemente però, sia in tempi antecedenti l’entrata in
vigore del Codice dei Contratti sia in ispecie in vigenza
del dlgs n. 163/2006, la cauzione è stata considerata come
condizione volta a garantire l’affidabilità dell’offerta
(non solo in vista dell’aggiudicazione) nonché la serietà e
la correttezza del procedimento di gara (Cons. Stato Sez. V
15/11/2001 n. 5843; idem 28/06/2004; Adunanza Plenaria n.
8/2005).
Conseguentemente l’incameramento della cauzione provvisoria
è stato configurato come misura sanzionatoria costituente
conseguenza automatica del provvedimento di esclusione
(Cons. Stato Sez. V 10/09/2012 n. 4778); ed inoltre,
circostanza decisamente rilevante, in sede di attività
esegetica riguardante la interpretazione del citato art. 75,
comma VI, dlgs n. 163/2006 è stato affermato il principio
per cui nell’ipotesi di mancata sottoscrizione del contratto
“per fatto dell’affidatario” deve farsi rientrare non
solo il rifiuto di stipulare, ma anche il rilevato difetto
dei requisiti generali previsti dall’art. 38 del suindicato
dlgs n. 163/2006, tra cui quello (interessante la Società
appellata ) relativo alla regolarità della posizione
tributaria, come fondatamente contestato dalla stazione
appaltante e correttamente rilevato dal TAR (cfr. Cons.
Stato Ad. Pl. 04/05/2012 n. 8; Cons. Stato Sez. V 17/01/2014
n. 169; questa Sezione 24/03/2014 n. 1389).
Alla luce della regula iuris venutasi a formare, non
appare condivisibile invocare da parte del primo giudice,
quale ragione di esclusione di applicazione
dell’incameramento, la normativa specifica prevista dalla
lex specialis della gara de qua che limitava a due sole
diverse ipotesi la possibilità di irrogazione della sanzione
in questione
Invero, la norma di cui all’art. 75, comma VI, del dlgs ha
un chiara valenza eterointegrativa, dal contenuto coercitivo
e immediatamente applicabile, che va appunto ad integrare in
maniera automatica la disciplina di gara, attese appunto la
ratio sottesa alla cauzione (garanzia della gara) e
la natura giuridica riconducibile all’incameramento della
stessa (sanzione automatica del provvedimento di esclusione)
in relazione alla intervenuta, accertata ipotesi di difetto
di requisiti generali di ammissione alla gara.
Né appare condivisibile l’argomentazione svolta dalla parte
resistente in ordine al ritenuto illegittimo incameramento
della cauzione con riferimento a tutti i lotti di cui
constava la gara, laddove ai fini all’esame non è possibile
procedere (come erroneamente ha inteso far valere la difesa
di Eurosoggiorni srl) ad un frazionamento della procedura
selettiva.
Invero, alla luce di quanto sin qui illustrato non rileva
che Eurosoggiorni si sia aggiudicato il solo lotto 7,
poiché, come già detto, la cauzione provvisoria attiene
all’ammissione alla gara, dovendo accompagnare l’offerta che
si presenta, quale condizione di affidabilità della stessa e
a tutela della procedura selettiva, e se così è appare
evidente che la sanzione non può non riguardare la cauzione
prestata per la gara intesa nella sua interezza e quindi in
relazione anche a tutti i lotti della procedura selettiva
rispetto ai quali va verificato il possesso dei requisiti
generali (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
Consiglio di Stato., Sez. IV,
sentenza
11.11.2014 n. 5516
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ATTI
AMMINISTRATIVI:
Ricorso giurisdizionale. Sospensione feriale dei termini.
Domanda cautelare. Formulazione successivamente a tale
periodo. Ricevibilità.
La deroga alla sospensione del decorso dei
termini processuali relativi alle giurisdizioni ordinarie ed
a quelle amministrative dal 1° agosto al 15 settembre, ai
sensi della Legge 7.10.1969 n. 742, prevista per la fase
cautelare del giudizio opera esclusivamente nel senso di
consentire anche in periodo feriale la trattazione della
domanda cautelare nel rispetto dei termini ordinari all'uopo
previsti, mentre non produce alcun effetto con riguardo ai
termini di notifica e deposito del ricorso introduttivo e ad
ogni altro successivo termine processuale finalizzato alla
trattazione del gravame nel merito.
Invero, tale deroga è
volta soltanto a dare all'interessato la facoltà di proporre
l'impugnativa immediatamente, anche durante il periodo
feriale, se ritenga urgente l'esame cautelare, ovvero
successivamente alla scadenza di tale periodo, ferma
comunque la possibilità di formulare la domanda cautelare.
Va rigettata l’eccezione di irricevibilità del presente
ricorso, notificato il data 12.10.2013 avverso l’epigrafato
provvedimento di aggiudicazione, pubblicato in data
28.08.2013, poiché la deroga alla sospensione del decorso
dei termini processuali relativi alle giurisdizioni
ordinarie ed a quelle amministrative dal 1° agosto al 15
settembre, ai sensi della Legge 7.10.1969 n. 742, prevista
per la fase cautelare del giudizio opera esclusivamente nel
senso di consentire anche in periodo feriale la trattazione
della domanda cautelare nel rispetto dei termini ordinari
all'uopo previsti, mentre non produce alcun effetto con
riguardo ai termini di notifica e deposito del ricorso
introduttivo e ad ogni altro successivo termine processuale
finalizzato alla trattazione del gravame nel merito.
Invero, tale deroga è volta soltanto a dare all'interessato
la facoltà di proporre l'impugnativa immediatamente, anche
durante il periodo feriale, se ritenga urgente l'esame
cautelare, ovvero successivamente alla scadenza di tale
periodo, ferma comunque la possibilità di formulare la
domanda cautelare (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 11.11.2014 n. 1849
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APPALTI:
1. Gare pubbliche. Valutazione di anomalia delle offerte.
Istituzione di commissione tecnica. Competenza. Non
appartiene in via esclusiva al RUP.
Ai sensi dell’art. 88, comma 1-bis, codice
contratti, la stazione appaltante, ove lo ritenga opportuno,
può istituire una commissione al fine di valutare la
congruità delle offerte, l’inciso “stazione appaltante” va
inteso nel senso che non sussiste in capo al RUP, pur
normalmente di ausilio alla commissione tecnica incaricata
di valutare la congruità dell'offerta, alcuna competenza
specifica a procedere alla nomina di una commissione
tecnica, potendovi provvedere altro funzionario competente,
idoneo a rappresentare la stazione appaltante.
2. Offerte anomale. Valutazione. È riservata alla stazione
appaltante. Sindacato in sede giurisdizionale. Limiti.
Nelle gare d’appalto, in sede di verifica
dell’anomalia dell’offerta, il giudizio della stazione
appaltante costituisce esplicazione paradigmatica di
discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di
illogicità manifesta o di erroneità fattuale.
3. (segue): giudizi di verifica di congruità delle offerte.
Natura globale e sintetica. Necessità.
Nelle procedure di evidenza pubblica, il
giudizio di verifica della congruità di un’offerta anomala
ha natura globale e sintetica sulla serietà dell’offerta nel
suo insieme, con conseguente irrilevanza di singole voci di
scostamento.
4. (segue): tabelle ministeriali sul costo del lavoro.
Mancato rispetto. Non costituisce circostanza decisiva.
4.1. Il giudizio di anomalia non può essere
desunto automaticamente dal mancato rispetto delle tabelle
ministeriali, richiamate dall'art. 87, comma 2, lett. g), del
codice dei contratti pubblici, poiché i costi medi del
lavoro, indicati nelle tabelle predisposte dal Ministero del
Lavoro, in base ai valori previsti dalla contrattazione
collettiva, non costituiscono parametri inderogabili ma
costituiscono indici del giudizio di adeguatezza
dell'offerta, fermo restando il rispetto del trattamento
salariale minimo, che resta inderogabile.
4.2. L'eventuale scostamento dai minimi tabellari non
costituisce, di per sé, presupposto per l'automatica
esclusione dell'offerta, ma implica che le giustificazioni
presentate dal concorrente assumano rilievo quali indici del
giudizio di congruità dell'offerta in sede di valutazione
dell'anomalia della medesima, fermo restando che un maggiore
scostamento costituisce indice di maggiore anomalia
dell’offerta.
4.3. Possono essere considerate anormalmente basse le
offerte che si discostino in modo evidente dai costi medi
del lavoro indicati nelle tabelle predisposte dal Ministero
del Lavoro, ma va esclusa l'anomalia ove sia dimostrato che
il concorrente (nella specie, società cooperativa), benefici
di agevolazioni previdenziali e fiscali.
2. Con il primo mezzo, la ricorrente deduce che la
Commissione Tecnica non sarebbe stata nominata non dal
R.U.P. ma, con Determinazione n. 7 del 29.07.2013, dal
-OMISSIS-, che avrebbe altresì rivestito la funzione di
Presidente della Commissione di gara. Inoltre, dopo il
deposito del parere da parte della Commissione Tecnica, non
avrebbe provveduto la Commissione di gara ad esprimere la
valutazione definitiva sulla congruità delle giustificazione
della offerta della controinteressata “Adiss Multiservice
sca”, ma il -OMISSIS-, con la Determinazione n. 112 del
09.08.2013.
L’art. 11, comma 5, del D.Lgs. n. 163/2006, prevede che la
stazione appaltante, “previa verifica dell’aggiudicazione
provvisoria, ai sensi dell’art. 12, comma 1, provvede
all’aggiudicazione definitiva”.
Invero, il -OMISSIS-, quale organo competente ad adottare
l’aggiudicazione definitiva ed a provvedere al controllo
della regolarità degli atti di gara, può procedere alla
nomina di una commissione tecnica, ai fini della valutazione
della congruità dell’offerta della prima classificata.
Conseguentemente, non può ritenersi che la legge abbia posto
un obbligo di rivalutazione e di riesame, in capo alla
Commissione di Gara, a seguito di un’attività di verifica
con esito positivo, anche al fine di evitare un aggravio
procedimentale.
2. Con il secondo mezzo, la ricorrente società deduce che,
nella specie, in violazione dell'art. 88, comma I-bis, del
D.L.vo 163/2006, alla istituzione ed alla nomina della
Commissione Tecnica avrebbe provveduto, con l’impugnata
Determinazione n. 7/20013, -OMISSIS-, che però, nel
contempo, avrebbe anche ricoperto le funzioni di Presidente
della Commissione di Gara, con conseguente incompatibilità.
L’art. 84, 3° comma, del D.Lgs. 12/04/2006, n. 163 prevede
che, di norma, che un -OMISSIS- della stazione appaltante
possa essere anche nominato Presidente di una Commissione di
Gara.
L’art. 88, comma 1-bis, del D.Lgs. 12/04/2006, n. 163
stabilisce: “La stazione appaltante, ove lo ritenga
opportuno, può istituire una commissione secondo i criteri
stabiliti dal regolamento per esaminare le giustificazioni
prodotte; ove non le ritenga sufficienti ad escludere l'incongruita'
dell'offerta, richiede per iscritto all'offerente le
precisazioni ritenute pertinenti”.
L’inciso “stazione appaltante” va inteso nel senso
che non sussiste in capo al RUP, pur normalmente di ausilio
alla commissione tecnica incaricata di valutare la congruità
dell'offerta, alcuna competenza specifica a procedere alla
nomina di una commissione tecnica, potendovi provvedere
altro funzionario competente, idoneo a rappresentare la
stazione appaltante.
Invero, non è revocabile in dubbio che, nel novero delle
competenze assommabili in capo al -OMISSIS-, possano essere
ricomprese tutte le funzioni amministrative direttamente
riferibili alla direzione di gara ed alla verifica tecnica
del suo corretto svolgimento (ex plurimis: Cons.
Stato, Sez. V, 18.09.2003 n. 5322; 14.02.2003 n. 805).
Pertanto, la censura non merita adesione.
3. Con il terzo mezzo, la ricorrente deduce che
l’Amministrazione avrebbe erroneamente ritenuto congrua
l’offerta della ditta aggiudicataria, con particolare
riferimento alle valutazioni concernenti il costo del
lavoro.
Va premesso che, nelle gare d’appalto, in sede di verifica
dell’anomalia dell’offerta, il giudizio della stazione
appaltante costituisce esplicazione paradigmatica di
discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di
illogicità manifesta o di erroneità fattuale (ex plurimis:
Cons. Stato, Sez. VI, 07.09.2012 n. 4744; TAR Sardegna,
Cagliari, sez. I, 05.04.2012 n. 348).
Nelle procedure di evidenza pubblica, il giudizio di
verifica della congruità di un’offerta anomala ha natura
globale e sintetica sulla serietà dell’offerta nel suo
insieme, con conseguente irrilevanza di singole voci di
scostamento (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. IV,
23.07.2012 n. 4206; Cons. Stato, Sez VI, 07.09.2012 n. 4744;
Cons. Stato, Sez. III, 13.09.2012 n. 4877).
A tale stregua, il giudizio di anomalia non può essere
desunto automaticamente dal mancato rispetto delle tabelle
ministeriali, richiamate dall'art. 87, comma 2, lett. g),
del codice dei contratti pubblici, poiché i costi medi del
lavoro, indicati nelle tabelle predisposte dal Ministero del
Lavoro, in base ai valori previsti dalla contrattazione
collettiva, non costituiscono parametri inderogabili ma
costituiscono indici del giudizio di adeguatezza
dell'offerta, fermo restando il rispetto del trattamento
salariale minimo, che resta inderogabile.
Sotto questo profilo, pertanto, l'eventuale scostamento dai
minimi tabellari non costituisce, di per sé, presupposto per
l'automatica esclusione dell'offerta, ma implica che le
giustificazioni presentate dal concorrente assumano rilievo
quali indici del giudizio di congruità dell'offerta in sede
di valutazione dell'anomalia della medesima, fermo restando
che un maggiore scostamento costituisce indice di maggiore
anomalia dell’offerta (ex plurimis: Cons. Stato: Sez.
IV, 23.07.2012, n. 4206; Sez. V, 27.05.2014 n. 2752; Sez.
III, 26.01.2012 n. 343).
In tale ottica, possono essere considerate anormalmente
basse le offerte che si discostino in modo evidente dai
costi medi del lavoro indicati nelle tabelle predisposte dal
Ministero del Lavoro, ma, nella specie, le giustificazioni
rese dalla controinteressata, con gli allegati del
26.03.2013, le integrazioni e chiarimenti forniti alle
giustificazioni del 03.05.2013 ed le precisazioni rese nel
contraddittorio del 21.05.2013 non evidenziano profili di
macroscopica illogicità, tenendo conto che i costi applicati
dalla Adiss saranno: categoria D1 € 15,90; categoria D3 €
17,94, categoria D2 € 18,45, categoria E € 20,30), tenuto
altresì conto delle agevolazioni previdenziali e fiscali di
cui usufruiscono le cooperative.
Inoltre, la controinteressata “Adiss Multiservice sca”
evidenzia che la "paga base", presentata nella sua
offerta economica, è la paga contrattuale stabilita dal CCNL
di settore, per cui non vi sono, nella specie, violazioni
dei minimi tabellari (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 11.11.2014 n. 1849
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
1. Ordinanza di rimozione di rifiuti. Violazione divieto
di deposito o abbandono rifiuti nocivi commessa dal
locatario. Art. 192, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006.
Responsabilità solidale del proprietario del sito.
Imputabilità soggettiva.
1.1. Ai sensi dell’art. 192, comma
3, del D.Lgs. n. 152/2006, è tenuto a procedere alla
rimozione dei rifiuti -in solido con l’autore della
violazione- il proprietario dell’area al quale la
violazione del divieto di deposito o abbandono di rifiuti
sia imputabile a titolo di dolo o colpa.
E anche la giurisprudenza ha affermato la necessità di un
ruolo in termini quanto meno di “colpa” del proprietario non
autore o coautore dell’accumulo/abbandono dei rifiuti.
1.2. La mera “titolarità giuridica” del bene è elemento
insufficiente per compiere un’imputazione di responsabilità,
in modo automatico per (il solo) status. L’obbligo di
rimozione deve invece trovare fondamento in “elementi
ulteriori caratterizzanti la condotta del proprietario”;
solo in tal caso il proprietario del sito diventa
imputabile, unitamente a colui che ha posto in essere la
condotta illecita.
1.3. Nel caso in cui la violazione del divieto di
deposito/abbandono di rifiuti sia perpetrata dall’impresa
affittuaria di un’area, il proprietario che eserciti poteri
di accesso all’area medesima in forza di peculiari
disposizioni contrattuali che prevedono l’utilizzazione del
sito anche da parte della proprietà, è nelle condizioni di
poter conoscere ed apprezzare la natura e la tipologia dei
materiali accumulati, nonché i rischi per l’ambiente
derivanti dall’attività svolta dall’affittuaria.
La
“frequentazione” del sito determina quindi una
consapevolezza dello stato dei luoghi che si traduce
nell’insorgenza di responsabilità a titolo di “colpa” in
capo al proprietario del sito, che dunque risponderà in
concorso con l’autore materiale dell’illecito.
1.4. Il proprietario di un'area interessata dalla presenza
di rifiuti, acquisita consapevolezza del fatto, deve
attivarsi immediatamente per la loro rimozione anche agendo
in giudizio nei confronti del locatario. Sul proprietario
grava dunque un “onere di controllo” sull’attività svolta
dall’affittuario.
L’ordinanza sindacale impugnata è stata assunta ai sensi
dell’art. 192, comma 3, del D.Lgs. 152/2006, ed è
finalizzata alla “RIMOZIONE” dell’accumulo di
materiali e rifiuti tossici nel terreno.
I materiali si riferiscono all’attività svolta nell’ambito
dell’ impianto di produzione di conglomerati bituminosi
gestito dalla ditta Sarcobit. Nel 2009 la Sarcobit ha poi
affittato il ramo d’azienda alla CAIS srl e tale contratto è
stato confermato dal Fallimento Sarcobit.
L’attività Sarcobit-Cais si svolge su terreno concesso in
affitto (dal 1979) dall’odierno ricorrente Ruggiu.
L’ordinanza impugnata ha per oggetto l’organizzazione del
trasporto in discarica di materiali già accumulati in loco e
derivanti dall’attività svolta da Sarcobit-Cais.
In particolare ciò lo si ricava dalle premesse della
precedente ordinanza 1/2013, ove si rammenta che il Nucleo
Operativo ecologico dei Carabinieri aveva verificato (il
17.01.2013) che la bonifica da sversamento sul suolo di olio
combustibile (verificatosi nel luglio 2012) era stata solo
parzialmente eseguita con l’asportazione del primo strato di
asfalto, con insaccamento del materiale all’interno di 13
big bags, che si trovano però ancora “stoccati” in
una porzione di area limitrofa a quella oggetto
dell’intervento e mai concretamente avviati allo
smaltimento. La ditta esterna incaricata (SEN AMBIENTE) si
era limitata alla bonifica del terreno (nel luglio 2012) con
l’insaccamento dei rifiuti, lasciati abbandonati nell’area,
senza procedere al conseguente doveroso smaltimento.
L’oggetto delle attività da compiere sono state
sufficientemente indicate nell’ordinanza, nei 3 punti
indicati a pag. 3 del provvedimento:
- avvio allo smaltimento rifiuti a seguito della bonifica
dell’area interessata allo sversamento di olio combustibile
(13 big bags stoccati);
- bonifica della vasca di contenimento e delle porzioni di
terreno limitrofe al muretto di contenimento;
- ripristino dei luoghi con rimozione dei due cumuli di
circa 4.000 mc. di rifiuti costituiti da miscele bituminose.
Il contenuto del provvedimento era dunque specifico e
determinato, in termini di <rimozione dei materiali
inquinanti presenti sull’area>.
Trattandosi di ordinanza emanata in applicazione dell’art.
192, comma 3, del D.Lgs. 152/2006 saranno esaminati i primi
6 vizi, sviluppati in relazione a questo presupposto
normativo (“RIMOZIONE RIFIUTI”), non essendo stata
imposta dal Sindaco una attività di “bonifica”, ma di
mero ripristino dello stato dei luoghi, con rimozione del
materiale inquinante accumulato sull’area.
1 e 2) Il ricorrente sostiene di essere proprietario “estraneo
e incolpevole” in riferimento alle attività svolte dalla
Sarcobit-Cais.
La norma e la giurisprudenza elaborata in materia implica la
necessaria “imputabilità soggettiva” della condotta
del proprietario dell’area, affermando la necessità di un
ruolo in termini quanto meno di “colpa” del
proprietario non autore o coautore dell’accumulo/abbandono
dei rifiuti.
Si richiama sul punto la giurisprudenza, anche di questo
Tar:
- Tar Sardegna, I, 05.06.2012 n. 560 e le pronunzie ivi
citate del Consiglio di Stato Sez. V n. 1384 04.03.2011;
Sez. II n. 2518 14.07.2010; V sez. n. 1612 del 19.03.2009;
TAR Lazio Sez. II-ter n. 2388 del 18.03.2011; Tar Emilia
Romagna, Parma, n. 281 dell’08.06.2010; TAR Lazio Sez. II
3582 del 10.05.2005;
- Dunque “In base all'art. 192 del D.Lgs. n. 152/2006, in
caso di abbandono e deposito di rifiuti, si deve affermare
l'obbligo del recupero smaltimento e ripristino dello stato
dei luoghi all'autore dell'abuso, in solido con il
proprietario e con i titolari di diritti reali o personali
di godimento dell'area ai quali tale violazione sia
imputabile a titolo di dolo o di colpa”. (C.S. Sez. V n.
4073 del 25.06.2010; Sez. V, n. 807 del 04.03.2008) .
- “L'art. 14 del D.Lvo. 05/02/1997, n. 22 oggi sostituito
dall'art. 192, co. 3, del D.Lvo. 03/04/2006, n. 152 ("Norme
in materia ambientale") prevede la <corresponsabilità
solidale del proprietario> o del titolare di diritti
personali o reali di godimento sull'area ove sono stati
abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, con il
conseguente suo obbligo di provvedere allo smaltimento ed al
ripristino, ma solo in quanto la violazione sia imputabile
anche a quei soggetti a titolo di <dolo o colpa>” (C.S.
sez. IV n. 84 del 13.01.2010, che ha riformato TAR Campania,
Napoli, sez. I, n. 1291/2002).
La mera “titolarità giuridica” del bene è dunque
elemento insufficiente per compiere un’imputazione di
responsabilità, in modo automatico per (il solo) status.
L’obbligo di rimozione deve trovare fondamento in “elementi
ulteriori caratterizzanti la condotta del proprietario”.
Solo in tal caso diventa anch’esso imputabile, unitamente a
colui che ha posto in essere la condotta illecita.
Nel caso in esame il proprietario dell’area era nelle
condizioni di poter conoscere ed apprezzare la natura e la
tipologia dei materiali accumulati, nonché i rischi per
l’ambiente derivanti dall’attività svolta dall’affittuaria
Sarcobit.
Ciò in considerazione della sua presenza sui luoghi derivata
dall’esercizio delle attività ivi esercitate (deposito
materiale, fornitura materiali alla Sarcobit).
La “frequentazione” del sito (stante il contenuto del
contratto di affitto), per gli accumuli/depositi e per le
forniture di inerti determina una consapevolezza dello stato
dei luoghi che si traduce nell’insorgenza di responsabilità
a titolo di “colpa” in capo al
proprietario-fornitore-utilizzatore in proprio del sito.
Ne consegue la possibilità di individuare anche il
proprietario come destinatario dell’ordine di rimozione dei
materiali bituminosi lavorati dalla società Sarcobit-Cais.
Il ricorrente aveva, infatti, estesi poteri di accesso ai
luoghi e poteva inoltre verificare le modalità di esercizio
delle attività svolte dalla Sarcobit-Cais.
L’essere “fornitore” in esclusiva di materiale (come
risulta dal contratto d’affitto) sebbene non implicasse una
collaborazione nell’attività, che rimane propria della sola
società esercente l’impianto, pur tuttavia consentiva la
piena conoscenza dello stato dei luoghi e dell’avvenuto
stoccaggio dei materiali inquinanti.
Si è dunque concretizzata una corresponsabilità in ordine
alla permanenza dei rifiuti in loco, con tollerata
conoscenza, da parte della proprietà, dell’illecito accumulo
dei residui inquinati da rimuovere.
La Cassazione, sez. III civile, del 22.03.2011 n. 6525 ha
affermato che “Il proprietario di un'area interessata
dalla presenza di rifiuti, acquisita consapevolezza del
fatto, deve attivarsi immediatamente per la loro rimozione
anche agendo in giudizio nei confronti del locatario.
Viceversa, l'accordo stipulato con il locatario per
eliminare i rifiuti entro un certo termine, anche se breve,
fa sorgere in capo al proprietario una corresponsabilità
insieme all'autore materiale dell'illecito ai sensi
dell'art. 14 d.lgs. n. 22 del 1997”.
In capo al proprietario dell’area sussisteva dunque la
conoscenza dello stato di fatto, avendo egli pieno accesso
al sito, in forza di peculiari disposizioni contrattuali che
lo legavano con Sarcobit e che prevedevano l’utilizzazione
delle aree anche da parte della proprietà.
Sulla base di tali elementi il Collegio ritiene che
sussistevano i presupposti per l’individuazione della
responsabilità in “concorso” del proprietario nel
deposito e accumulo dei rifiuti nocivi, compiuto dalle ditte
produttrici.
Sul proprietario gravava un “onere di controllo”
sull’attività svolta dalla società Sarcobit-Cais ,
rivelatasi illecita sotto l’aspetto ambientale.
In sostanza, a giudizio del Collegio è rinvenibile, nel caso
in esame, una “corresponsabilità solidale” a carico
del proprietario, a titolo di <colpa>, per l’inerzia
nella rimozione dei rifiuti.
Nell’esame della condotta non è sufficiente la mera diffida,
del gennaio 2010, inviata dal proprietario al fallimento
Sarcobit, per l’esecuzione delle operazioni di bonifica del
sito (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza
11.11.2014 n. 928
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
1. Domanda di accesso agli atti. Requisiti.
Determinatezza. Specificità. Motivazione.
1.1. La domanda di accesso deve
avere un oggetto determinato o quanto meno determinabile, e
non può essere generica; in particolare, essa deve riferirsi
a specifici documenti e non può pertanto comportare la
necessità di un’attività di elaborazione di dati da parte
del soggetto destinatario della richiesta.
1.2. L'istanza di accesso deve essere finalizzata alla
tutela di uno specifico interesse giuridico di cui il
richiedente è portatore. Essa, dunque, non può essere uno
strumento di controllo generalizzato dell’operato della
pubblica amministrazione ovvero del gestore di pubblico
servizio nei cui confronti l’accesso viene esercitato; né
può essere un mezzo per compiere una indagine o un controllo
ispettivo, cui sono ordinariamente preposti organi pubblici,
perché in tal caso nella domanda di accesso è assente un
diretto collegamento con specifiche situazioni
giuridicamente rilevanti.
1.3. Chiunque inoltri una richiesta di accesso è tenuto ad
indicare la propria posizione legittimante al fine della
tutela di situazioni giuridicamente rilevanti e deve,
altresì, fornire la motivazione della richiesta stessa.
2. Diritto di accesso. Presupposti. Titolarità. Interesse
giuridicamente rilevante. Tutela. Rapporto di strumentalità
tra l’interesse e la documentazione richiesta.
2.1. Il diritto di accesso non si
configura mai come un’azione popolare (fatta eccezione per
il peculiare settore dell’accesso ambientale), ma postula
sempre un accertamento concreto dell’esistenza di un
interesse differenziato della parte che richiede i
documenti.
2.2. Anche se il diritto di accesso è volto ad assicurare la
trasparenza dell'attività amministrativa e a favorirne lo
svolgimento imparziale (come recita l'art. 22, l. n.
241/1990), rimane fermo che l'accesso è consentito soltanto
a coloro ai quali gli atti stessi, direttamente o
indirettamente si rivolgono, e che se ne possano
eventualmente avvalere per la tutela di una posizione
soggettiva; la quale, anche se non deve assumere
necessariamente la consistenza del diritto soggettivo o
dell'interesse legittimo, deve essere però giuridicamente
tutelata non potendo identificarsi con il generico ed
indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento
dell' attività amministrativa.
2.3. Ai fini della sussistenza del presupposto legittimante
per l'esercizio del diritto di accesso deve esistere un
interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede
l'accesso, che il medesimo soggetto intende perseguire e
tutelare nelle sedi opportune, ed un rapporto di
strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui
si chiede l'ostensione.
Tale nesso di strumentalità deve,
peraltro, essere inteso in senso ampio, posto che la
documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo
utile per la difesa dell'interesse giuridicamente rilevante,
e non strumento di prova diretta della lesione di tale
interesse.
4.- Gioverà ricordare che la giurisprudenza amministrativa,
in materia di accesso agli atti, risulta consolidata sulle
seguenti posizioni, sinteticamente rassegnate da Cons. St.
n. 555 del 2006, che in questa sede si richiamano, quale
riferimento utile per delimitare le coordinate della materia
in esame:
- la domanda di accesso deve avere un oggetto determinato o
quanto meno determinabile, e non può essere generica;
- la domanda di accesso deve riferirsi a specifici documenti
e non può pertanto comportare la necessità di un’attività di
elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario
della richiesta (C. Stato, sez. VI, 20.05.2004, n. 3271; C.
Stato, sez. VI, 10.04.2003, n. 1925; C. Stato, sez. V,
01.06.1998, n. 718);
- la domanda di accesso deve essere finalizzata alla tutela
di uno specifico interesse giuridico di cui il richiedente è
portatore (C. Stato, sez. VI, 30.09.1998, n. 1346);
- la domanda di accesso non può essere uno strumento di
controllo generalizzato dell’operato della pubblica
amministrazione ovvero del gestore di pubblico servizio nei
cui confronti l’accesso viene esercitato (C. Stato, sez. IV,
29.04.2002, n. 2283; C. Stato, sez. VI, 17.03.2000, n.
1414);
- la domanda di accesso non può essere un mezzo per compiere
una indagine o un controllo ispettivo, cui sono
ordinariamente preposti organi pubblici, perché in tal caso
nella domanda di accesso è assente un diretto collegamento
con specifiche situazioni giuridicamente rilevanti (C.
Stato, sez. IV, 29.04.2002, n. 2283; Tar Lazio, sez. II,
22.07.1998, n. 1201);
- il diritto di accesso non si configura mai come un’azione
popolare (fatta eccezione per il peculiare settore
dell’accesso ambientale), ma postula sempre un accertamento
concreto dell’esistenza di un interesse differenziato della
parte che richiede i documenti.
In particolare, l’interesse alla conoscenza non può essere
negato a priori, ma va provato, di volta in volta,
considerando accuratamente tutti i concreti profili della
richiesta di accesso.
Pertanto, anche se il diritto di accesso è volto ad
assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa e a
favorirne lo svolgimento imparziale (come recita l'art. 22,
l. n. 241/1990), rimane fermo che l'accesso è consentito
soltanto a coloro ai quali gli atti stessi, direttamente o
indirettamente si rivolgono, e che se ne possano
eventualmente avvalere per la tutela di una posizione
soggettiva; la quale, anche se non deve assumere
necessariamente la consistenza del diritto soggettivo o
dell'interesse legittimo, deve essere però giuridicamente
tutelata non potendo identificarsi con il generico ed
indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento
dell' attività amministrativa.
4.a.- Ad ulteriore integrazione di quanto sopra, va
precisato che la giurisprudenza ha esplorato con attenzione
il versante dello specifico interesse giuridico di cui il
richiedente è portatore (C. Stato, sez. VI, 30-09-1998, n.
1346), soffermandosi, in particolare, sulla necessaria
correlazione tra l’interesse all’accesso e gli atti alla cui
ostensione è finalizzata.
4.a.1.- Quanto allo specifico interesse, si richiama ex
multis Cons. St. n. 5873 del 2004 che di seguito si
riporta, in quanto condiviso: “Orbene, per avere un
interesse qualificato ed una legittimazione ad accedere alla
documentazione amministrativa è necessario trovarsi in una
posizione differenziata ed avere una titolarità di posizione
giuridicamente rilevante, che significa non titolarità di un
diritto soggettivo o di un interesse legittimo (ossia
posizioni giuridiche soggettive piene e fondate) ma di una
posizione giuridica soggettiva allo stato anche meramente
potenziale. Tale limite… è dato dalla necessità di evitare
che l'accesso si trasformi in azione popolare, poichè il
diritto di accesso ai documenti della Pubblica
amministrazione non può essere trasformato in uno strumento
di “ispezione popolare”, “esplorativo” e “di vigilanza”
utilizzabile al solo scopo di sottoporre a verifica
generalizzata l'operato dell'Amministrazione (cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 22/10/2002, n. 5818). Alla luce di tali
premesse, deve concludersi nel senso che ai fini della
sussistenza del presupposto legittimante per l'esercizio del
diritto di accesso deve esistere un interesse giuridicamente
rilevante del soggetto che richiede l'accesso, che il
medesimo soggetto intende perseguire e tutelare nelle sedi
opportune, ed un rapporto di strumentalità tra tale
interesse e la documentazione di cui si chiede l'ostensione.
Tale nesso di strumentalità deve, peraltro, essere inteso in
senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve
essere, genericamente, mezzo utile per la difesa
dell'interesse giuridicamente rilevante, e non strumento di
prova diretta della lesione di tale interesse (cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 22/10/2002, n. 5814)”.
4.a.2.- Quanto alla necessaria correlazione tra l’interesse
all’accesso e gli atti alla cui ostensione è finalizzata, si
richiama, in particolare, Tar Lazio, Roma, n. 594 del 2008
che di seguito si riporta in quanto condiviso: “Dunque,
anche nell'attuale disciplina legislativa e regolamentare in
materia di accesso alla documentazione amministrativa (cfr.,
nuova formulazione dell'art. 22 citato e conseguente
regolamento approvato con d.P.R. 12.04.2006 n. 184) conserva
piena applicazione l'assunto per cui, se è vero che
l'accertamento dell'interesse all'accesso alla
documentazione amministrativa va effettuato con riferimento
alle finalità che il richiedente dichiara di perseguire e
che non devono essere svolti al riguardo apprezzamenti circa
la fondatezza o l'ammissibilità della domanda o della
censura che sia stata proposta, nondimeno deve sempre
sussistere un nesso logico-funzionale tra il fine dichiarato
dal ricorrente medesimo e la documentazione da lui
richiesta, con la conseguenza che il titolare del preteso
diritto di accesso deve esporre non soltanto le ragioni per
cui intende accedere alla documentazione anzidetta ma
comprovare -ove necessario, anche giudizialmente- la
coerenza di tali ragioni con gli scopi alla cui
realizzazione il diritto di accesso è preordinato (cfr., TAR
Veneto Venezia, sez. I, 16.10.2006, n. 3444).
In termini generali, può, pertanto, affermarsi che chiunque
inoltri una richiesta di accesso è tenuto ad indicare la
propria posizione legittimante al fine della tutela di
situazioni giuridicamente rilevanti e deve, altresì, fornire
la motivazione della richiesta stessa (cfr., TAR Lazio,
Roma, 18.05.1995, n. 866; TAR Puglia, Bari, 02.11.1995, n.
1066; TAR Lazio, Roma, 26.04.2000, n. 3418; TAR Puglia,
Bari, III, 07.05.2007, n. 1263; TAR Lazio, Roma, III,
15.01.2007, n. 197; TAR Veneto, Venezia, I, 16.10.2006, n.
3444).
Al riguardo, l’orientamento giurisprudenziale è consolidato
nel ritenere che l'esercizio di accesso agli atti della
P.A., ai sensi dell'art. 22 l. n. 241 del 1990, non è
finalizzato alla verifica dell'efficienza
dell'amministrazione stessa ed è, pertanto, inammissibile il
relativo ricorso ove non si dimostri il diretto collegamento
con specifiche situazioni giuridicamente rilevanti del
soggetto ricorrente.
In definitiva, l'accesso agli atti amministrativi è
consentito soltanto a coloro che vi abbiano interesse,
potendosene eventualmente avvalere per la tutela di una
posizione soggettiva giuridicamente rilevante, non
identificabile con il generico interesse di ogni cittadino
al buon andamento dell'attività amministrativa.” (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza
10.11.2014 n. 1871
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EDILIZIA
PRIVATA:
1. Abusi edilizi. Ingiunzione a demolire. Inottemperanza.
Attività conseguente. È doverosa. Omissione. Ricorso avverso
il silenzio da parte di proprietario di fondo confinante con
quello inciso da abusi. Legittimazione. Sussiste.
1.1. Ove l'A.C. abbia adottato
ingiunzione a demolire opere abusive, omettendo però di
assumere atti e provvedimenti sanzionatori contemplati
dall’art. 31, commi 3, 4, 5 e 6 del D.P.R. n. 380/2001,
procedendo altresì ad acquisire al patrimonio comunale i
manufatti abusivi e l’area di sedime, il proprietario di
un'area o di un fabbricato, sulla cui sfera giuridica incide
dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori
e repressivi relativi ad abusi edilizi da parte dell'organo
preposto, è titolare di un interesse legittimo all'esercizio
di detti poteri e può pretendere, se non vengono adottate le
misure richieste, un provvedimento che ne spieghi le
ragioni.
1.2. Successivamente all'emanazione dell'ingiunzione a
demolire ex art. 31 d.P.R. n. 380/2001, sussiste in capo
all'A.C. l'obbligo di adottate i provvedimenti e le attività
sanzionatorie di cui all’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, una
volta decorsi i 90 giorni accordati per la spontanea
rimozione delle opere contestate come abusivamente
realizzate con l’ordinanza a demolire.
1.3. Nell’attuale democrazia amministrativa fondata sulla
piena interlocuzione dialettica fra Potere pubblico e
cittadini, a fronte della richiesta del privato
(legittimante qualificato) volta ad ottenere un
comportamento materiale da parte della amministrazione,
quale quello di eseguire concretamente un ordine demolitorio
relativamente ad opere la cui abusività è stata in
precedenza acclarata, la silente inerzia serbata
dall'amministrazione è certamente da qualificarsi
illegittima.
2. (segue): domanda di sanatoria. Presentazione. Obbligo di
interlocuzione a carico della PA nei confronti del
proprietario del fondo confinante con quello inciso da
abusi. Sussiste.
Laddove risulti che, successivamente alla
notifica dell'ingiunzione a demolire, il proprietario del
bene abusivo abbia presentato domanda di accertamento di
conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001, l'A.C. avrebbe
dovuto notiziare il privato, che aveva ritualmente
sollecitato l'esercizio dei poteri di polizia edilizia,
dell'avvenuta presentazione della domanda di sanatoria e,
quindi, la medesima A.C., una volta scaduto il termine per
pronunciarsi sulla stessa in modo espresso ovvero per il
maturarsi del silenzio diniego, avrebbe dovuto dare corso
agli adempimenti di competenza.
La presentazione della
domanda di sanatoria non elide l’obbligo della
amministrazione di interloquire fattivamente con gli
interessati in ordine agli sviluppi di quella pratica
amministrativa.
7.1. L’eccezione è infondata e da disattendere poiché il
Collegio, sul punto, ritiene di dover aderire
all’orientamento giurisprudenziale secondo cui “il
proprietario di un'area o di un fabbricato, sulla cui sfera
giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei
poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi
da parte dell'organo preposto, è titolare di un interesse
legittimo all'esercizio di detti poteri e può pretendere, se
non vengono adottate le misure richieste, un provvedimento
che ne spieghi le ragioni” (cfr. Cons. St., IV,
02.02.2011 n. 744).
8. Deve essere anche disattesa l’istanza di sospensione del
presente giudizio in attesa della definizione di quello
recante il numero R.G. 850/2014, richiesta dal
controinteressato ai sensi dell’art. 295 c.p.c. in quanto
non sussiste alcun nesso di pregiudizialità necessaria tra i
predetti processi. Infatti, il presente giudizio verte sulla
legittimità del silenzio serbato dalla P.A.
sull’istanza-diffida presentata dai ricorrenti ed è
indipendente rispetto al giudizio avente ad oggetto la
legittimità dell’ordinanza di demolizione emessa nei
confronti del controinteressato.
9. Nel merito il ricorso è fondato e meritevole di
accoglimento.
9.1. Con la nota prot. n. 7884 del 26.03.2014 i ricorrenti
hanno diffidato il Comune resistente ad adottate i
provvedimenti e le attività sanzionatorie di cui all’art. 31
del D.P.R. n. 380/2001 nei confronti di Enrico Pia, essendo
decorsi i 90 giorni accordati per la spontanea rimozione
delle opere contestate come abusivamente realizzate con
l’ordinanza n. 473 del 14.11.2013.
9.2. A fronte della predetta nota è rilevabile un'inerzia
imputabile all'amministrazione comunale dato che, come
documentato in atti, la stessa avrebbe dovuto adottare gli
atti consequenziali alla ordinanza di demolizione volti alla
eliminazione degli abusi edilizi.
Non vi è dubbio che –nell’attuale democrazia amministrativa
fondata sulla piena interlocuzione dialettica fra Potere
pubblico e cittadini– a fronte della richiesta del privato
(legittimante qualificato) volta ad ottenere un
comportamento materiale da parte della amministrazione,
quale quello di eseguire concretamente un ordine demolitorio
relativamente ad opere la cui abusività è stata in
precedenza acclarata, la silente inerzia serbata
dall'amministrazione è certamente da qualificarsi
illegittima (cfr. Tar Campania, Napoli, VIII, 06.08.2013, n.
4099).
9.3. Né il Collegio ritiene di poter accedere alla tesi del
Comune secondo la quale non sarebbe configurabile alcun
inerzia e alcun inadempimento della P.A. per il fatto che il
controinteressato ha presentato in data 25.02.2014 con nota
prot. 5303 istanza di accertamento di conformità ex art. 36
del D.P.R. n. 380/2001 e che alla data della diffida dei
ricorrenti (26.03.2014) non era ancora decorso il termine di
60 giorni per pronunciarsi sulla stessa.
Premesso che l'obbligo di provvedere in maniera espressa
consiste nel compimento degli adempimenti di cui all'art. 31
del D.P.R. n. 380 del 2001 conseguenti all'emanazione
dell'ingiunzione di demolizione e diretti alla conclusione
del procedimento repressivo dell'abusivismo edilizio, il
Collegio rileva che l’amministrazione avrebbe dovuto
comunque notiziare i ricorrenti della presentazione della
rammentata domanda di sanatoria e, quindi, una volta scaduto
il termine per pronunciarsi sulla stessa in modo espresso
ovvero per il maturarsi del silenzio diniego, avrebbe dovuto
dare corso agli adempimenti di competenza.
9.4. Il Collegio rileva, infine, che l’accertamento
dell’inottemperanza all’ordinanza di demolizione,
intervenuto il 22.03.2014, non è atto idoneo alla
soddisfazione degli interesse dei ricorrenti in quanto si
tratta per pacifica giurisprudenza di atto di natura
endoprocedimentale che non esprime la volontà della P.A. e
che non conclude, pertanto, il procedimento sanzionatorio.
9.5. Con riguardo, infine, alla fondatezza della pretesa dei
ricorrenti volta a portare ad esecuzione l'ingiunzione di
demolizione n. 473/2013 il Collegio ritiene di non potersi
pronunciare sulla stessa in considerazione anche della
presentata domanda di accertamento di conformità che
tuttavia, giova ribadirlo, è del tutto indipendente dalla
valutazione del silenzio in quanto non elide l’obbligo della
amministrazione di interloquire fattivamente con gli attuali
ricorrenti in ordine agli sviluppi di quella pratica
amministrativa.
10. Per tali considerazioni il ricorso è meritevole di
accoglimento con conseguente declaratoria dell'obbligo del
Comune di Vico Equense a provvedere in modo espresso e
motivato nel termine di giorni 30 dalla notificazione o
comunicazione della presente sentenza (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 07.11.2014 n. 5755 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Opere pubbliche. Progetto definitivo. Approvazione.
Dichiarazione di pubblica utilità implicita. Progetto
esecutivo. Approvazione. Lesività ex se dell'espropriando.
Non sussiste.
Laddove la dichiarazione di pubblica
utilità sia implicita nell'approvazione del progetto
definitivo, ai sensi dell'art. 12 del d.P.R. 08.06.2001,
n. 327 (T.U. Espropriazione per p.u.), il successivo livello
di progettazione esecutiva costituisce una fase accessoria e
irrilevante ai fini della lesività per l'espropriando, che
ha già subito il vincolo espropriativo e nei cui confronti
il decreto di esproprio già può essere emesso sulla base del
solo progetto definitivo.
Non può predicarsi, nelle anzi dette ipotesi, un onere di
impugnativa anche del progetto esecutivo a pena di
improcedibilità dell'impugnazione già proposta dell'atto
comportante la dichiarazione di pubblica utilità.
Deve in proposito evidenziarsi che ai sensi dell’art. 19,
comma 2, del d.P.R. 327/2001 “L’approvazione del progetto
preliminare o definitivo da parte del consiglio comunale
costituisce adozione della variante allo strumento
urbanistico” e che ai sensi dell’art. 12, comma 3, L.R.
3/2005 non é necessaria l’approvazione regionale per le
varianti urbanistiche derivanti dalla approvazione di
progetti di opere pubbliche, di guisa che la delibera da
parte del consiglio comunale rende la variante
immediatamente definitiva.
Neppure parte appellante contesta la circostanza che la
delibera di C.C. n. 62/2010 ha prodotto da quel momento una
variante allo strumento urbanistico generale vigente ed ha
contestualmente comportato l’imposizione del vincolo
preordinato all’esproprio. Proprio ai sensi della
disposizione richiamata da parte appellante il decreto di
esproprio è legittimo laddove in un atto di natura ed
efficacia equivalente, e sul bene da espropriare sia stato
apposto il vincolo preordinato all'esproprio e purché vi sia
stata la dichiarazione di pubblica utilità.
La giurisprudenza, in proposito (sebbene ad altri fini) ha
avuto cura di precisare che (Cons. Stato Sez. IV,
10.02.2014, n. 613) “laddove la dichiarazione di pubblica
utilità sia implicita nell'approvazione del progetto
definitivo, ai sensi dell'art. 12 del d.P.R. 08.06.2001, n.
327 (T.U. Espropriazione per p.u.), il successivo livello di
progettazione esecutiva costituisce una fase accessoria e
irrilevante ai fini della lesività per l'espropriando, che
ha già subito il vincolo espropriativo e nei cui confronti
il decreto di esproprio già può essere emesso sulla base del
solo progetto definitivo. Non può predicarsi, nelle anzi
dette ipotesi, un onere di impugnativa anche del progetto
esecutivo a pena di improcedibilità dell'impugnazione già
proposta dell'atto comportante la dichiarazione di pubblica
utilità”.
L’art. 9 del TU Espropriazione, a propria volta, prevede che
“1. Un bene è sottoposto al vincolo preordinato
all'esproprio quando diventa efficace l'atto di approvazione
del piano urbanistico generale, ovvero una sua variante, che
prevede la realizzazione di un opera pubblica o di pubblica
utilità.
2. Il vincolo preordinato all'esproprio ha la durata di
cinque anni. Entro tale termine, può essere emanato il
provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica
utilità dell'opera.
3. Se non è tempestivamente dichiarata la pubblica utilità
dell'opera, il vincolo preordinato all'esproprio decade e
trova applicazione la disciplina dettata dall'articolo 9 del
testo unico in materia edilizia approvato con decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380.
4. Il vincolo preordinato all'esproprio, dopo la sua
decadenza, può essere motivatamente reiterato, con la
rinnovazione dei procedimenti previsti nel comma 1 e tenendo
conto delle esigenze di soddisfacimento degli standard.“.
Da tale composito quadro normativo discende, ad avviso del
Collegio, che non può certo tacciarsi di illegittimità il
decreto di esproprio conforme alla variante regolarmente
approvata (sul punto, premesso che l’odierna parte
appellante non ha formulato alcuna censura nel presente
grado di giudizio, la su richiamata sentenza della Sesta
Sezione del Consiglio di Stato, n. 893/2013 è categorica, ed
ancor di più lo era stata la sentenza di primo grado del Tar
n. 00463/2012) ma, semmai, si potrebbe porre, come
lucidamente colto in quel giudizio innanzi alla Sesta
Sezione, uno speculare ed inverso problema di legittimità
del P.U.G., ove la vigente variante non fosse stata recepita
dal Piano Urbanistico Generale.
La detta questione, tuttavia, non soltanto è totalmente
estranea all’odierno giudizio ma, in ogni caso, non potrebbe
comportare conseguenze tali da invalidare il contestato
decreto di esproprio, del tutto coerente con la prescrizione
di cui alla variante generale e con il vincolo di pubblica
utilità apposto (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
07.11.2014 n. 5496
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
1. Lottizzazione. Convenzioni edilizie. Inadempimento di
obblighi convenzionali. Finalità di pubblico interesse.
Giurisdizione del G.A. Sussiste.
1.1. Le convezioni o gli atti d’obbligo
stipulati fra Comune e privati destinatari di concessioni
edilizie non hanno specifica autonomia come fonte negoziale
di regolamento dei contrapposti interessi, con la
conseguenza che le controversie ad esse relative, rientrando
nel campo urbanistico, sono devolute alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo di cui all’art. 16
della legge n. 10/1977.
1.2. Le controversie riguardanti gli adempimenti degli
obblighi derivanti da convenzioni edilizie connesse a
lottizzazioni appartengono alla giurisdizione amministrativa
in base all’art. 11 della legge n. 241/1990.
1.3. Qualora si discuta in ordine a inadempimenti di
obblighi convenzionali di natura edilizio- urbanistica
assunti in esecuzione di obblighi che per legge hanno
finalità di pubblico interesse, è indubbio che dette
convenzioni si inseriscano in un modulo procedimentale di
diritto pubblico, tale per cui le controversie che
intervengono in subiecta materia appartengono
necessariamente alla giurisdizione amministrativa.
Avuto riguardo all’oggetto del presente contenzioso,
l’eccezione di difetto di giurisdizione si rivela
palesemente fallace.
Volendo prendere le mosse proprio dalla “valenza
privatistica” della convenzione di lottizzazione come
sostenuta dalla parte appellante, è il caso di far rilevare
che la Corte Suprema di Cassazione, in sede di regolamento
di giurisdizione, ha avuto modo di precisare che “le
convezioni o gli atti d’obbligo stipulati fra il Comune e i
privati destinatari di concessioni edilizie non hanno
specifica autonomia come fonte negoziale di regolamento dei
contrapposti interessi, con la conseguenza che le
controversie ad esse relative rientrando nel campo
urbanistico sono devolute alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo di cui all’art. 16 della legge n.
10/1977" (Cass. SS.UU. Civili 20/04/2007 n. 9360).
E’ sempre la stessa Cassazione a Sezioni Unite a ritenere
che “in punto di giurisdizione, le controversie
riguardanti gli adempimenti degli obblighi derivanti da
convenzioni edilizie connesse a lottizzazioni appartengono
alla giurisdizione amministrativa in base all’art. 11 della
legge n. 241/1990" (Cass. Sezioni Unite Civili
15/12/2000 n. 1262).
Avuto riguardo poi all’aspetto più specificatamente
pubblicistico, tenuto conto che nel caso che occupa si
controverte in sostanza di inadempimenti di obblighi
convenzionali di natura edilizio- urbanistica assunti in
esecuzione di obblighi che per legge hanno finalità di
pubblico interesse, è indubbio che le dette convenzioni si
inseriscono in un modulo procedimentale di diritto pubblico,
per cui le controversie che intervengono in subiecta
materia appartengono necessariamente alla giurisdizione
amministrativa (Cons. Stato Sez. IV 22/01/2010 n. 214; Cons.
Stato Sez. V 05/04/2011 n. 5711) (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
07.11.2014 n. 5487 -
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ATTI
AMMINISTRATIVI:
1. Actio ad exhibendum. Presupposti. Interesse. Autonomia
del diritto all'accesso rispetto all'impugnazione dell'atto
lesivo. Diritto all'ostensione di atti inoppugnabili.
Sussiste.
1.1. L'interesse alla cosiddetta
“actio ad exhibendum” costituisce una nozione diversa e più
ampia rispetto all'interesse all'impugnativa e non
presuppone necessariamente una posizione soggettiva,
qualificabile in termini di diritto soggettivo o di
interesse legittimo, per cui la legittimazione all'accesso
va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti del
procedimento oggetto dell'accesso abbiano spiegato, o siano
idonei a spiegare, effetti diretti o indiretti nei suoi
confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione
giuridica.
1.2. L'autonomia del diritto di accesso, inteso come
interesse ad un bene della vita distinto e separato rispetto
alla situazione legittimante all'impugnativa dell'atto,
comporta che esso debba essere consentito anche in presenza
di una situazione divenuta inoppugnabile.
1.3. Il rimedio speciale previsto a tutela del diritto di
accesso deve essere accordato anche se l'interessato non può
più agire in sede giurisdizionale, per cui il giudice,
chiamato a decidere su tale domanda, deve verificare solo i
presupposti legittimanti la richiesta di accesso e non anche
la possibilità di utilizzare gli atti richiesti in un
giudizio
2. (segue): accesso c.d. defensionale. Bilanciamento tra
diritto di difesa e privacy. Deroga al regime di tutela dei
dati personali. Contemperamento in sede di giudizio.
Specialità e preminenza delle norme che regolano il
processo. Sussiste.
2.1. In tema di bilanciamento tra diritto
di accesso e tutela della privacy, l'accesso cosiddetto
“defensionale”, propedeutico alla miglior tutela delle
proprie ragioni in un eventuale giudizio, già pendente o da
introdurre, ovvero nell'ambito di un procedimento
amministrativo, riceve protezione preminente
dall'ordinamento, atteso che, ai sensi dell'art. 24, ultimo
comma, della legge n. 241 del 1990, esso prevale, in linea
di principio, su eventuali interessi contrapposti e, in
particolare, sull'interesse alla riservatezza dei terzi, ivi
comprese le antagoniste ragioni di riservatezza o di
segretezza tecnica o commerciale, sempre che non trasmodi
fino ad incidere negativamente sui dati personali sensibili
od ultrasensibili di soggetti terzi.
2.2. In tema di bilanciamento tra diritto di accesso e
tutela della privacy, la disciplina generale in tema di
trattamento dei dati personali subisce deroghe ed eccezioni
quando si tratta di far valere in giudizio il diritto di
difesa, le cui modalità di attuazione risultano disciplinate
dal codice di rito.
2.3. In tema di bilanciamento tra diritto di accesso e
tutela della privacy, in sede di giudizio devono trovare
composizione le diverse esigenze (di tutela della
riservatezza e di corretta esecuzione del processo), ove non
coincidenti, con la conseguenza che, alle disposizioni che
regolano il processo, deve essere attribuita natura speciale
rispetto a quelle contenute nel codice della privacy e nei
confronti di esse.
La tutela del diritto di accesso, prevista dagli art. 22 e
segg. della legge 07.08.1990 n. 241, come modificata con
legge 11.02.2005 n. 15 nonché con legge 18.06.2009 n. 69, è
preordinata al perseguimento di rilevanti finalità di
pubblico interesse, intese a favorire la partecipazione e ad
assicurare l'imparzialità e la trasparenza dell'attività
amministrativa, in attuazione dei principi di democrazia
partecipativa, di pubblicità e trasparenza dell'azione
amministrativa, riconducibili all'art. 97 Cost., e, a
livello comunitario, si inserisce nel più generale diritto
all'informazione dei cittadini, rispetto all'organizzazione
e alla attività soggettivamente amministrativa, quale
strumento di prevenzione e contrasto sociale ad abusi ed
illegalità della P.A. (conf: Cons. St., Ad. Plen.,
18.04.2006 n. 6).
L'art. 22, comma 1, lett. b), della legge n. 241 del 1990
definisce gli interessati come: "tutti i soggetti
privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o
diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso".
Il successivo art. 24, comma 3°, della suddetta legge n. 241
del 1990 dispone: "non sono ammissibili istanze di
accesso preordinate ad un controllo generalizzato
dell'operato delle pubbliche amministrazioni".
Invero, l'accesso è consentito soltanto ai soggetti cui gli
atti, direttamente o indirettamente, si riferiscono, i quali
se ne possano, eventualmente, avvalere per la tutela di una
posizione soggettiva, che, pur non dovendo assumere
necessariamente la consistenza di diritto soggettivo o di
interesse legittimo, deve essere, comunque, giuridicamente
tutelata, senza che possa trasmodare nel generico ed
indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento
dell'attività amministrativa.
In tale ottica, è stato precisato che la
domanda di accesso:
a) deve avere un oggetto determinato o,
quanto meno, determinabile, e non può essere generica;
b) deve riferirsi a specifici documenti,
senza che possa implicare alcuna attività di elaborazione di
dati (ex
plurimis Cons. Stato: Sez. VI, 20.05.2004, n. 3271; Sez.
IV, 09.08.2005, n. 4216, Sez. VI, 10.04.2003, n. 1925);
c) deve essere finalizzata alla tutela di
uno specifico interesse, di cui il richiedente deve essere
portatore;
d) non può essere uno strumento di
controllo generalizzato dell'operato della P.A.
(ex plurimis: Cons. Stato: Sez. VI, 12.01.2011 n.
116; Sez. IV n. 2283/2002; Sez. VI, n. 1414/2000, TAR
Campania-Salerno, Sez. II, 02.02.2011 n. 187);
e) non può assumere il carattere di una
indagine o di un controllo ispettivo, cui sono
ordinariamente preposti organi pubblici
(ex plurimis: Cons. Stato, Sez. IV, 29.04.2002, n.
2283; TAR Lazio-Roma, Sez. II, 22.07.1998, n. 1201).
L'interesse alla cosiddetta “actio ad exhibendum”
costituisce, dunque, una nozione diversa e più ampia
rispetto all'interesse all'impugnativa e non presuppone
necessariamente una posizione soggettiva, qualificabile in
termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo, per
cui la legittimazione all'accesso va riconosciuta a chiunque
possa dimostrare che gli atti del procedimento oggetto
dell'accesso abbiano spiegato, o siano idonei a spiegare,
effetti diretti o indiretti nei suoi confronti,
indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica.
L'autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad
un bene della vita distinto e separato rispetto alla
situazione legittimante all'impugnativa dell'atto, comporta
che esso debba essere consentito anche in presenza di una
situazione divenuta inoppugnabile (ex plurimis: Cons.
Stato, Sez. VI, 27.10.2006 n. 6440).
Ciò significa che il rimedio speciale previsto a tutela del
diritto di accesso deve essere accordato anche se
l'interessato non può più agire in sede giurisdizionale, per
cui il giudice, chiamato a decidere su tale domanda, deve
verificare solo i presupposti legittimanti la richiesta di
accesso e non anche la possibilità di utilizzare gli atti
richiesti in un giudizio (conf.: Cons. Stato, Sez. VI,
21.05.2009 n. 3147).
L'affermazione del principio di trasparenza comporta una
tendenziale riduzione della tutela della altrui
riservatezza, salvo che l'accesso non sia correlato a dati
sensibili in senso stretto.
Con il D.Lgs. n. 196 del 30.06.2003 (“Codice in materia
di protezione dei dati personali”), sono stati
introdotti principi in materia di tutela e di riservatezza
dei dati, intesi ad affermare che:
a) i “dati personali” sono costituiti da tutte le
informazioni relative a persone fisiche o giuridiche, enti e
associazioni, che consentano l’identificazione diretta o
indiretta di questi stessi soggetti (es.: i dati anagrafici
ed economici, le immagini, i suoni e i codici identificativi
riconducibili a un individuo);
b) i “dati sensibili” sono costituiti da tutti quei
dati idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le
convinzioni religiose, fìlosofiche o di altro genere, le
opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati,
associazioni od organizzazioni a carattere religioso,
politico, filosofico o sindacale, ma anche quei dati idonei
a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale, che
possono essere trattati, dai soggetti privati soltanto con
il consenso scritto dell’interessato e con la previa
autorizzazione del Garante;
c) i “dati giudiziari” sono costituiti da tutti quei
dati idonei a rivelare provvedimenti in materia di
casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni
amministrative, dipendenti da reato e dei relativi carichi
pendenti o la qualità di imputato o di indagato, il cui
trattamento è ammesso solo se autorizzato da espressa
disposizione di legge o provvedimento del Garante, che ne
specifichi le finalità, i tipi di dati e le operazioni
autorizzate.
La disciplina normativa, pur contemplando la tutela della
riservatezza dei terzi, prevede espressamente che non
possono essere sottratti all'accesso i documenti, la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per difendere gli
interessi giuridici del richiedente (ex plurimis:
Cons. Stato, Sez. IV, 19.01.2012 n. 231; Cons. Stato, Sez.
IV, 12.03.2009 n. 1455).
Invero, l'accesso cosiddetto “defensionale”,
propedeutico alla miglior tutela delle proprie ragioni in un
eventuale giudizio già pendente o da introdurre, ovvero
nell'ambito di un procedimento amministrativo, riceve
protezione preminente dall'ordinamento, atteso che, ai sensi
dell'art. 24, ultimo comma, della legge n. 241 del 1990,
esso prevale, in linea di principio, su eventuali interessi
contrapposti e, in particolare, sull'interesse alla
riservatezza dei terzi, ivi comprese le antagoniste ragioni
di riservatezza o di segretezza tecnica o commerciale,
sempre che non trasmodi fino ad incidere negativamente sui
dati personali sensibili od ultrasensibili di soggetti terzi
(conf.: TAR Lazio Roma, Sez. III, 19.11.2012, n. 9513; Corte
Cass.: sent. n. 15327 del 2009; sent. n. 3358 del 2009; n.
12285 del 2008; n. 10690 del 2008 e n. 8239 del 2003).
In sintesi, devesi ritenere che la disciplina generale in
tema di trattamento dei dati personali subisca deroghe ed
eccezioni quando si tratti di far valere in giudizio il
diritto di difesa, le cui modalità di attuazione risultano
disciplinate dal codice di rito.
Ciò comporta che, in tale sede, devono trovare composizione
le diverse esigenze (di tutela della riservatezza e di
corretta esecuzione del processo), ove non coincidenti, con
la conseguenza che, alle disposizioni che regolano il
processo, deve essere attribuita natura speciale rispetto a
quelle contenute nel codice della privacy e nei confronti di
esse (conf.: Cass. Civ. Sez. Un. 08.02.2011 n. 3034) (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 07.11.2014 n. 1756
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Strada privata. Adibizione al pubblico transito. Indici
probatori.
1. Va ritenuto attestato l'uso
pubblico di strada privata che risulti asfaltata, servita da
impianti a rete ed aperta al pubblico transito in base ad
atti formali dell'Amministrazione, dotati, fino a querela di
falso, di fede privilegiata ex art. 2700 c.c.
2. Al fine di escludere che una strada privata sia adibita a
pubblico transito non rileva il fatto che sia senza uscita,
atteso che anche un mero cortile, se aperto al pubblico
ed al traffico automobilistico indifferenziato dà luogo ad
un "uso pubblico" (art. 2 cod. str.) tale da giustificare
l'intervento dell'Amministrazione (nella fattispecie
risultava che la strada senza uscita fosse stata asfaltata
dal Comune; immettesse in un tratto viario che a sua volta
incrocia con una "via comunale"; fosse manutenzionata dal
Comune e fosse servita di tutti i servizi pubblici necessari
per l'abitabilità e/o agibilità degli immobili
prospicienti).
3. Laddove risulti che qualsiasi cittadino possa di fatto
accedere liberamente alla strada\cortile di proprietà
privata, a piedi o con automezzi, e che parimenti possa
uscirne per immettersi nella viabilità comunale, ciò è
sufficiente per ritenere che il tratto viario de quo abbia
in effetti una funzione di libero collegamento dell'area in
questione con le pubbliche vie circostanti e sia destinato
al transito di un numero indifferenziato di persone uti
cives, e non uti singuli.
4. Affinché possa considerarsi esistente una servitù
pubblica di passaggio su di una strada realizzata in area
privata occorre che essa: a) sia utilizzata da una
collettività indeterminata di persone e non soltanto da quei
soggetti che si trovano in una posizione qualificata
rispetto al bene gravato; b) sia concretamente idonea a
soddisfare, attraverso il collegamento anche indiretto alla
pubblica via, esigenze di interesse generale; c) sia oggetto
di interventi di manutenzione da parte della Pubblica
amministrazione.
5. L'adibizione ad uso pubblico di una strada (o comunque di
un'area) può anche avvenire mediante la c.d. dicatio ad
patriam, per effetto del comportamento del proprietario che
metta il bene a disposizione dei cittadini, oppure con l'uso
del bene da parte della collettività indifferenziata
protratto per lungo tempo, di guisa che il bene stesso venga
ad assumere caratteristiche analoghe a quelle di un bene
demaniale.
Dunque, la prova dell'uso pubblico dell'area (che l'AGO ha
riconosciuto in effetti essere di proprietà privata, in
relazione a talune clausole contrattuali in cui si parla di
uno "spazio di isolamento e di accesso" ai realizzati
o realizzandi fabbricati), risulta attestata in atti formali
dell'Amministrazione, dotati, fino a querela di falso, di
fede privilegiata ex art. 2700 c.c.; atti ai quali questo
Decidente non può che attenersi, quale che sia stata la
valutazione fattane dall'AGO in altre controversie rese
inter alios.
Né può rilevare il fatto che la strada di proprietà privata
di accesso alla c.da S. Antonio sia senza uscita, atteso che
anche un mero cortile (cfr. Tar Sicilia, Palermo, sent. n.
2700 del 12.11.2003), se aperto al pubblico ed al traffico
automobilistico indifferenziato dà luogo ad un "uso
pubblico" (art. 2 cod. str.) tale da giustificare
l'intervento dell'Amministrazione; e nella fattispecie, come
già detto, sussiste la prova, ex art. 2700 cod. civ., che
detta strada: è stata asfaltata dal Comune; immette in un
tratto viario che a sua volta incrocia, dopo qualche decina
di metri, una "via comunale"; è manutenzionata dal
Comune medesimo ed è servita di tutti i servizi pubblici
necessari per l'abitabilità e/o agibilità degli immobili
prospicienti. Peraltro la collocazione della numerazione
civica, risulta già in una attestazione del Sindaco di
Messina datata 19.03.1990 e resa in relazione alla
costruzione di un fabbrica da parte di tale Cucinotta
Francesco (cfr. all. 6 della produzione del
controinteressato cit.); verosimilmente il medesimo
ricorrente di cui alla sent. della Corte di Cassaz. n.
7573/2012 cit..
Di rilievo appare, poi, la circostanza che i ricorrenti non
deducono, né tanto meno provano, che il libero accesso alla
strada/cortile de qua, mediante autovetture, sia in effetti
impedito (mediante apposti accorgimenti: quali cancelli,
recinzioni, barre di accesso, servizio di guardiania …
ecc.); e quindi sia consentito ai soli proprietari degli
immobili prospicienti sulla strada stessa.
E' da ritenere, quindi, alla stregua degli atti di causa,
che qualsiasi cittadino possa di fatto accedere liberamente
alla strada/cortile in argomento, a piedi o con automezzi, e
che parimenti possa uscirne per immettersi nella viabilità
comunale ("via Comunale" o "via Paolo la Badessa");
in un'area, peraltro, caratterizzata da una forte pendenza,
nei pressi del ripido ed ampio torrente S. Filippo. E ciò è
sufficiente per ritenere che il tratto viario per cui è
causa abbia in effetti una funzione di libero collegamento
dell'area in questione con le pubbliche vie circostanti e
sia destinato al transito di un numero indifferenziato di
persone uti cives, e non uti singuli.
Come da tempo enunciato dalla giurisprudenza amministrativa
affinché possa considerarsi esistente una servitù pubblica
di passaggio su di una strada realizzata in area privata
occorre che essa: a) sia utilizzata da una collettività
indeterminata di persone e non soltanto da quei soggetti che
si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene
gravato; b) sia concretamente idonea a soddisfare,
attraverso il collegamento anche indiretto alla pubblica
via, esigenze di interesse generale; c) sia oggetto di
interventi di manutenzione da parte della Pubblica
amministrazione (cfr. tra le tante Cons. Stato Sez. VI sent.
n. 2544 del 10.05.2013 che conferma TAR Toscana, 29.07.2008
n. 1834).
Del resto, è noto che l'adibizione ad uso pubblico di una
strada (o comunque di un'area) può anche avvenire mediante
la c.d. dicatio ad patriam, per effetto del
comportamento del proprietario che metta il bene a
disposizione dei cittadini, oppure con l'uso del bene da
parte della collettività indifferenziata protratto per lungo
tempo, di guisa che il bene stesso venga ad assumere
caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale (cfr.
Cons. Stato Sez. IV sent. n. 3531 del 15.06.2012, che
annulla TAR Lazio, 06.08.2009 n. 7932; Cons. di Stato, Sez.
I, parere n. 4361 dell'11.07.2011) (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
TAR Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 06.11.2014 n. 2912 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Acque pubbliche. Provvedimenti amministrativi.
Contestazione in sede giurisdizionale. Riparto di
giurisdizione tra G.A. e T.S.A.P. Rileva la materia e non la
posizione giuridica sostanziale. Rilascio di concessioni
demaniali. Contestazioni. Giurisdizione. è devoluta al
T.S.A.P.
1. Ai sensi dell’art. 143, lett. a),
del R.D. 11.12.1933 n. 1775, il TSAP conosce dei
provvedimenti presi dalla P.A. in materia di acque
pubbliche; non si tratta di un numero chiuso tipicamente
delimitato; in altre parole, qualsiasi provvedimento
dell’amministrazione può rientrare in tale “materia”, se in
concreto riguardi il relativo ambito. È però da ritenersi
che allorquando un provvedimento già in base al suo nomen
iuris riguardi le acque pubbliche, vi sia una presunzione
logica in favore della giurisdizione speciale.
2. Nell’attuale ordinamento la pluralità di giurisdizioni
rappresenta non già una deroga in qualche modo tollerata
all’ordinario sistema di garanzie, ma un servizio al
cittadino, per trattare in modo più compiuto ed efficace
determinate questioni; in una frase, risponde ad esigenze
tecniche. Ne segue secondo logica che le relative norme sono
speciali, ma non eccezionali: vanno interpretate in modo da
applicarle a tutte le fattispecie concrete in cui l’esigenza
tecnica sussiste.
3. Se si ragiona di riparto fra il giudice amministrativo
ordinario e il TSAP, si dà per scontato che la controversia
riguardi interessi legittimi, e quindi provvedimenti; ai
fini del riparto della giurisdizione, rileva la materia in
cui tali provvedimenti incidono, non già il tipo di
situazione giuridica fatta valere.
4. Sussiste la giurisdizione del TSAP nel caso di
provvedimenti che regolano il decorso e l’uso delle acque
pubbliche sotto l’aspetto sia quantitativo e distributivo
che qualitativo, ovvero integrino atti impeditivi o
limitativi della realizzazione degli interessi pubblici
inerenti il regime delle acque, ovvero provvedimenti a tali
interessi strettamente connessi, ovvero ancora provvedimenti
che –pur costituendo esercizio di un potere non
strettamente attinente alla materia delle acque e inerendo
ad interessi più generali e diversi ed eventualmente
connessi rispetto agli interessi specifici relativi alla
demanialità delle acque o ai rapporti concessori di beni del
demanio idrico– riguardino comunque l’utilizzazione di
detto demanio, così incidendo in maniera diretta ed
immediata sul regime delle acque.
5. Sono escluse dalla giurisdizione del TSAP le controversie
per le quali non si richiedono le competenze giuridiche e
tecniche ritenute dal legislatore necessarie con la
creazione di un organo a composizione particolare “per la
soluzione dei problemi posti dalla gestione delle acque
pubbliche. Si tratta precisamente della ratio di miglior
servizio al cittadino che si è vista presiedere alla
creazione, meglio detto alla conservazione, delle
giurisdizioni speciali.
6. Sussiste la giurisdizione del T.S.A.P. laddove venga
impugnata in sede giurisdizionale la concessione di
occupazione di un’area del demanio lacuale (nella specie una
riva del Garda), e quindi un provvedimento specifico
relativo a beni del demanio idrico, venendo contestato che
la concessione stessa persegua l’interesse pubblico al buon
utilizzo del demanio. La controversia è quindi all’evidenza
compresa nella materia delle acque pubbliche.
1. Va dichiarato il difetto di giurisdizione in favore del
Tribunale superiore delle acque pubbliche – TSAP, nei
termini già prospettati d’ufficio dal Collegio alla camera
di consiglio del 05.03.2014, discussi specificamente dalla
parte ricorrente nella memoria 11.04.2014 e sinteticamente
già argomentati nell’ordinanza cautelare della Sezione
16.04.2014 n. 211.
2. Per chiarezza, si premette il dato testuale: ai sensi
dell’art. 143, lettera a), del R.D. 11.12.1933 n. 1775, il
TSAP conosce dei “ricorsi per incompetenza, per eccesso
di potere e per violazione di legge avverso i provvedimenti
presi dall'amministrazione in materia di acque pubbliche”.
Si tratta allora, in sintesi estrema, di stabilire se i
provvedimenti impugnati nella sede presente rientrino in
tale “materia”, tenendo presente due dati ulteriori.
3. Il primo è quello ovvio, che si enuncia anche qui per
chiarezza, secondo il quale i provvedimenti in questione non
sono un numero chiuso tipicamente delimitato; in altre
parole, qualsiasi provvedimento dell’amministrazione può
rientrare in tale “materia”, se in concreto riguardi
il relativo ambito. E’ però da ritenersi che allorquando un
provvedimento già in base al suo nomen iuris riguardi
le acque pubbliche, vi sia una presunzione logica in favore
della giurisdizione speciale.
4. Non si condivide infatti quanto è implicito nelle difese
del ricorrente (v. memoria 11.04.2014 p. 2 quarto rigo dal
basso), ovvero che la giurisdizione speciale di cui si
ragiona sarebbe eccezionale e quindi, secondo logica, come
tale di stretta interpretazione. La giurisprudenza –per
tutte C. cost. 12.03.2007 n. 77 e C.d.S. a.p. 30.07.2007 n.
9- è ormai attestata nel ritenere che nell’attuale
ordinamento la pluralità di giurisdizioni rappresenta non
già una deroga in qualche modo tollerata all’ordinario
sistema di garanzie, ma un servizio al cittadino, per
trattare in modo più compiuto ed efficace determinate
questioni; in una frase, risponde ad esigenze tecniche. Ne
segue secondo logica che le relative norme sono speciali, ma
non eccezionali: vanno interpretate in modo da applicarle a
tutte le fattispecie concrete in cui l’esigenza tecnica
sussiste.
5. Il secondo dato è quello, pure ampiamente noto e
argomentato nella memoria 11.04.2014, per cui nella sede
presente si ragiona della questione preliminare di
giurisdizione, ma di una giurisdizione ripartita per
materia, non già in ragione del tipo di situazione giuridica
fatta valere. Pertanto, non del tutto pertinenti sono i
richiami operati (v. memoria 11.04.2014 p. 2) alla nota
regola giurisprudenziale per cui la giurisdizione si
determina non solo in base al petitum, ma
principalmente in base alla causa petendi: se si
ragiona, come nella specie, di riparto fra il giudice
amministrativo ordinario e il TSAP, si dà già per scontato
che la controversia riguardi interessi legittimi, e quindi
provvedimenti; si deve invece stabilire, ancora una volta,
la materia in cui essi incidono.
6. Ovvio è invece che la questione di giurisdizione rimane
distinta e preliminare rispetto al merito: per individuare
la giurisdizione stessa, è sufficiente che la controversia,
così come prospettata, rientri nella materia in esame,
mentre non è necessario l’accertamento della sua effettiva
natura.
7. Ciò posto, la giurisprudenza di questo Tribunale, per
tutte la già citata sez. II 08.01.2011 n. 18, in armonia con
precedenti decisioni, anche del C.d.S., ivi ampiamente
citate, ritiene la giurisdizione del TSAP nel caso di
provvedimenti che regolano il decorso e l’uso delle acque
pubbliche sotto l’aspetto sia quantitativo e distributivo
che qualitativo, ovvero integrino “atti impeditivi o
limitativi della realizzazione degli interessi pubblici
inerenti” il regime delle acque, ovvero provvedimenti “a
tali interessi strettamente connessi”, ovvero ancora “provvedimenti
che –pur costituendo esercizio di un potere non strettamente
attinente alla materia delle acque e inerendo ad interessi
più generali e diversi ed eventualmente connessi rispetto
agli interessi specifici relativi alla demanialità delle
acque o ai rapporti concessori di beni del demanio idrico–
riguardino comunque l’utilizzazione di detto demanio, così
incidendo in maniera diretta ed immediata sul regime delle
acque”.
8. La difesa del ricorrente ha concentrato la propria
attenzione sull’ultimo di questi criteri, sotto il profilo
dell’incidenza “diretta ed immediata”, sostenendo in
sintesi che essa introdurrebbe un criterio particolarmente
restrittivo; si tratta però di tesi non condivisibile, dato
che il profilo stesso rappresenta, a ben vedere, una formula
di sintesi, per forza di cose semplificatrice. La sentenza
18/2011, anche qui in linea con i precedenti citati,
prosegue infatti spiegando che sono escluse dalla
giurisdizione del TSAP le controversie per le quali non si
richiedono “le competenze giuridiche e tecniche ritenute
dal legislatore necessarie” con la creazione di un organo a
composizione particolare “per la soluzione dei problemi
posti dalla gestione delle acque pubbliche”.
9. Si tratta precisamente della ratio di miglior
servizio al cittadino che si è vista presiedere alla
creazione, meglio detto alla conservazione, delle
giurisdizioni speciali. A riprova, anche in recentissima
giurisprudenza del C.d.S., per tutte sez. V 27.05.2014 n.
2742, l’elenco delle controversie demandate alla
giurisdizione del TSAP è assai ampio, sì da confermare la
natura riassuntiva della “incidenza immediata e diretta” (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 05.11.2014 n. 1160 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Aria. Animali ed esalazioni maleodoranti.
Il reato previsto dall'art. 674 cod. pen.
è integrato dalle esalazioni maleodoranti provenienti da
stalle, gabbie o promananti da escrementi di animali in
numero rilevante o quelle dovute alla presenza di numerosi
cani tenuti in condizioni di sporcizia
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.11.2014 n. 45230
- tratto da www.lexambiente.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione e nullità contratto preliminare di vendita.
La nullità di un contratto preliminare
di vendita di un’unità immobiliare per contrasto con la
normativa in tema di lottizzazione abusiva, consistente
nella modifica della destinazione d'uso di un complesso
alberghiero, implica il riscontro dell’esistenza di
un’organizzazione imprenditoriale preposta alla gestione dei
singoli appartamenti, nonché della parcellizzazione della
proprietà in distinti alloggi (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 03.11.2014 n. 23367 - tratto da
www.lexambiente.it). |
APPALTI:
Appalti pubblici. Documentazione comprovante la capacità
economico-finanziaria. Estratto conto bancario. Non idoneo.
Successiva produzione dell'attestazione dell'istituto di
credito. Soccorso istruttorio. Inammissibilità.
In tema di documentazione
comprovante la capacità economica-finanziaria dell'impresa
che partecipa alla gare, l'attestazione dell’istituto di
credito in ordine alla capacità economico-finanziaria del
soggetto partecipante, deve considerarsi quale documento
completamente nuovo e diverso rispetto al mero estratto di
un conto corrente che, sebbene con saldo attivo, non
costituisce formale attestazione esplicita e non può essere
considerato quindi equivalente ad un complessivo giudizio di
affidabilità di pertinenza esclusiva dell’istituto.
Pertanto
costituisce integrazione e non regolarizzazione documentale
e, in quanto tale, esorbitante dai ristretti limiti
consentiti nelle procedure concorsuali, sia dall’art. 46 del D.Lgs.
n. 163/2006 che dall’art. 6 della legge n. 241/1990.
- Ritenuto, invero, che debba essere condiviso il primo
motivo di gravame, che è fondato ed assorbente, dal momento
che, come giustamente dedotto dall’istante, la ditta
aggiudicataria è stata ammessa, con inammissibile esercizio
da parte della Stazione appaltante del potere di soccorso
istruttorio, nonostante non avesse inizialmente prodotto
quanto inequivocabilmente richiesto a pena di esclusione
dagli artt. 1 e 2 del Disciplinare di gara, ovvero ”almeno
una referenza bancaria con la quale un istituto, con cui
l’operatore intrattiene rapporti, attesti che lo stesso fa
fronte ai propri impegni nei confronti dell’istituto con
regolarità e puntualità”;
- Considerato che il menzionato art. 1 precisava che non
sarebbero stati ammessi i soggetti che non avessero “adeguatamente
e puntualmente” documentato i richiesti requisiti (tra
cui quello in questione);
- Considerato che in sede di offerta la controinteressata
aveva prodotto, stando alla stessa rappresentazione e
precisazione difensiva della P.A., un mero estratto di conto
corrente BancoPosta (che non integrava evidentemente la
documentazione richiesta a comprova del suddetto requisito
di capacità economico-finanziaria) mentre l’attestazione
dell’Ufficio Postale di Soriano nel Cimino con cui si
attesta “che la suddetta cooperativa fa fronte ai propri
impegni nei confronti dell’ufficio stesso con puntualità e
regolarità” è stata prodotta, su richiesta di
integrazione documentale del Comune intimato, soltanto il
26.07.2014;
- Considerato che il potere di soccorso istruttorio, nelle
procedure concorsuali, sia di appalti che di concessioni
(valendo per queste ultime, in sede di scelta dei
concessionari, ai sensi dell’art. 30 del Codice degli
Appalti, almeno l’esigenza di rispetto dei principi di non
discriminazione e parità di trattamento), deve essere
contenuto in limiti tali da non costituire, come invece è
avvenuto nella specie, violazione della par condicio ed
elusione di termini perentori consentiti per la produzione
della documentazione dimostrativa dei requisiti richiesta
con chiarezza ed a pena di esclusione dalla lex specialis
della gara;
- Ritenuto, infatti, che nel perimetro del consentito “soccorso
istruttorio” rientra la “regolarizzazione documentale”,
che si traduce, di regola, nella rettifica di errori
materiali e refusi, ma non l’“integrazione documentale”,
che si risolve in un effettivo vulnus del principio
di parità di trattamento (cfr. CdS, Ad. Pl., n. 9 del
25.02.2014);
- Considerato che nella specie il documento prodotto in via
integrativa (attestazione dell’istituto) è completamente
nuovo e diverso rispetto a quello (mero estratto di un conto
corrente che, sebbene con saldo attivo, non costituiva
formale attestazione esplicita e non poteva essere
considerato quindi equivalente ad un complessivo giudizio di
affidabilità di pertinenza esclusiva dell’istituto)
presentato in gara, per cui esso costituisce integrazione e
non regolarizzazione documentale, in quanto tale esorbitante
dai ristretti limiti consentiti, nelle procedure
concorsuali, sia dall’art. 46 del D.Lgs. n. 163/2006 che
dall’art. 6 della legge n. 241/1990 (cfr. Ad. Pl. decisione
citata);
- Considerato altresì:
- che la clausola di esclusione corrispondeva ad un’esigenza
dimostrativa di fondamentali requisiti di capacità economico
finanziaria previsti dallo stesso Codice degli Appalti (v.
art. 42) e che nella specie la dimostrazione del requisito,
seppure tardiva, comprova che l’aggiudicataria non era
oggettivamente impossibilitata a presentare la
documentazione prescritta;
- che la clausola del bando non può essere quindi considerata
nulla, ex art. 46, comma 1-bis, del Codice degli Appalti
(costituente peraltro norma in se stessa esclusa dal novero
delle disposizioni codicistiche richiamate dall’art. 30 del
D.Lgs. n. 163/2006 per le concessioni di servizi);
- che l’avviso della gara di cui trattasi è stato pubblicato il
25.06.2014, per cui nemmeno potrebbe discettarsi
sull’ammissibilità nella specie della richiesta di
integrazione integrativa documentale, ai sensi dell’art. 39
del DL n. 90/2014 convertito in legge n. 114/2014, dal
momento che le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 di tale
decreto legge si applicano (v. comma 3 del medesimo art. 39)
“alle procedure di affidamento indette successivamente
alla data di entrata in vigore del presente decreto”
(ovvero alle procedure indette a partire dal 26.06.2014 dato
che il DL citato, ai sensi del suo articolo 30, è entrato in
vigore il 25.06.2014, giorno successivo a quello, 24.6.2014,
di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale) (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza
03.11.2014 n. 10998
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Reati paesaggistici ed interventi di minima
entità.
Ferma restando la natura del reato di
pericolo formale della figura delittuosa prevista dal D.Lgs.
n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis, laddove sia stato
accertato un intervento edilizio su area paesaggisticamente
vincolata, la condotta deve ritenersi sempre punibile tranne
che nelle residuali ipotesi di interventi di minima entità,
senza che possa assumere rilevanza il concetto di lieve
entità come enunciato nella L. n. 35 del 2012, art. 44,
attesa la mancanza di specifiche indicazioni illustrative di
tale concetto, ancora di là da venire e comunque tale da non
escludere l'applicabilità, allo stato attuale, del criterio
della minima entità degli interventi così come elaborato
pacificamente dalla giurisprudenza (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.10.2014 n. 44928
- tratto da
www.lexambiente.it). |
URBANISTICA: Lottizzazione abusiva cartolare-negoziale
posta in essere mediante il frazionamento planimetrico del
fondo e la conseguente vendita dei lotti.
Ai sensi dell'art. 18 L. 28.02.1985 n.
47, perché possa ritenersi sussistente una lottizzazione
abusiva cartolare-negoziale posta in essere mediante il
frazionamento planimetrico del fondo e la conseguente
vendita dei lotti da essa risultanti non è necessario
dimostrare la sussistenza di tutti gli indici rivelatori di
cui all'art. 18 cit., ma è sufficiente che lo scopo
edificatorio emerga anche da un solo indizio.
Pertanto, in assenza di disposizioni statali o regionali che
presumano l’intento illecito di lottizzare dalla vendita di
una superficie inferiore al ‘lotto minimo legale’, è
sufficiente che l’amministrazione accerti che i lotti
frazionati e venduti (per le loro caratteristiche quali la
dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua
destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero,
l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di
urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli
acquirenti), evidenzino in modo non equivoco la destinazione
a scopo edificatorio (cosiddetta lottizzazione cartolare).
Nella fattispecie sussistono i presupposti della
lottizzazione cartolare, per la presenza di un frazionamento
dei lotti con dimensioni tali che denunciano chiaramente la
finalità edificatoria che le parti intendevano raggiungere,
poco importando, sotto tale profilo, che solo una recinzione
sia stata effettuata sul terreno riferibile agli originari
proprietari.
5. L’appello è
infondato e va respinto.
5.1. Del tutto doverosamente l’amministrazione ha constatato
che si era in presenza di una lottizzazione, disciplinata
dall’art. 18 della legge n. 47 del 1985.
Nella specie, vi è stata l’alienazione di piccoli lotti a
finalità edificatoria, tramite un frazionamento.
Il contratto notarile di data 04.07.1986 giustifica
senz’altro questa qualificazione.
Non rileva in contrario il fatto dedotto nell’atto
d’appello, per il quale si dovrebbe attribuire rilievo alla
stipula da parte del dante causa di un precedente
preliminare di data 12.10.1975, anteriore all’entrata in
vigore della legge n. 47 del 1985, del quale la successiva
vendita del 04.07.1986 sarebbe un atto ‘esecutivo’.
Infatti, anche a voler ipotizzare che sia stato
effettivamente stipulato tale contratto preliminare (non
risultandone dagli atti una data certa), ciò che conta, per
l’applicabilità dell’art. 18 della legge n. 47 del 1985, è
l’avvenuto trasferimento della proprietà, che si realizza
(salvi i casi di contratti ad effetti reali differiti, nella
specie non posti in essere) con la stipulazione del
contratto definitivo, avente effetti traslativi.
5.2. Infondata è anche la tesi secondo la quale la nota
inviata all’amministrazione comunale farebbe sorgere in capo
a quest’ultimo un onere di riesame.
In linea di principio, infatti, il potere di autotutela è
caratterizzata da una discrezionalità in ordine all’an.
Da ciò deriva che l’amministrazione non doveva aprire un
contraddittorio con i destinatari del provvedimento
impugnato.
Peraltro, in relazione all’avvenuta emanazione di atti
vincolati (come vanno qualificati quelli emanati a seguito
della constatazione di una lottizzazione abusiva), un potere
discrezionale di rivalutare le circostanze è ipotizzabile
solo ove risultino insussistenti i presupposti posti a base
dei medesimi atti, ciò che non è in alcun modo configurabile
nel presente giudizio.
5.3. Non è condivisibile, dunque, la tesi dell’appellante
secondo la quale non sarebbero rinvenibili gli estremi per
affermare la presenza di una lottizzazione cartolare. Ai
sensi dell'art. 18 L. 28.02.1985 n. 47, perché possa
ritenersi sussistente una lottizzazione abusiva
cartolare-negoziale posta in essere mediante il
frazionamento planimetrico del fondo e la conseguente
vendita dei lotti da essa risultanti non è necessario
dimostrare la sussistenza di tutti gli indici rivelatori di
cui all'art. 18 cit., ma è sufficiente che lo scopo
edificatorio emerga anche da un solo indizio (Cons. St.,
Sez. IV, 31.03.2009, n. 2004; Id., 11.10.2006, n. 6060).
Pertanto, in assenza di disposizioni statali o regionali che
presumano l’intento illecito di lottizzare dalla vendita di
una superficie inferiore al ‘lotto minimo legale’, è
sufficiente che l’amministrazione accerti che i lotti
frazionati e venduti (per le loro caratteristiche quali la
dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua
destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero,
l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di
urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli
acquirenti), evidenzino in modo non equivoco la destinazione
a scopo edificatorio (cosiddetta lottizzazione cartolare)
(Cons. St., Sez. IV, 05.08.2003, n. 4465).
Nella fattispecie sussistono i presupposti della
lottizzazione cartolare, per la presenza di un frazionamento
dei lotti con dimensioni tali che denunciano chiaramente la
finalità edificatoria che le parti intendevano raggiungere,
poco importando, sotto tale profilo, che solo una recinzione
sia stata effettuata sul terreno riferibile agli originari
proprietari (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.10.2014 n. 5304 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Condono edilizio - Legittimità
diniego condono per incompatibilità ambientale dei
manufatti.
Premesso che la zona di che trattasi è
sottoposta a vincolo paesaggistico, il Comune nel negare il
chiesto condono non si è limitato ad effettuare una mera,
apodittica affermazione di incompatibilità sotto il profilo
paesaggistico dei manufatti de quibus, potendosi rinvenire
nel parere formulato dalla Commissione espressamente
recepito dall’Amministrazione comunale ragioni logico-
giuridiche che danno sufficiente contezza del disvalore
paesaggistico dei manufatti in questione, come tali
pienamente giustificative del diniego de quo.
In particolare, sia pure in maniera stringata, l’organo
preposto alla valutazione della compatibilità in questione
ha posto ben in evidenza come i manufatti per loro natura,
consistenza e caratteristiche tipologiche sono tali da
arrecare una trasformazione dell’area sotto il profilo
paesaggistico-ambientale che viceversa proprio per voluntas
del legislatore deve essere preservata da alterazioni di
sorta, laddove dette esigenze di tutela ambientale precedono
addirittura l’aspetto urbanistico-edilizio.
Col secondo mezzo parte
appellante critica le ragioni del diniego opposte
dall’amministrazione comunale, basate sulla non
compatibilità ambientale dei manufatti, come messa in
evidenza dal parere reso dalla Commissione comunale per il
paesaggio.
La determinazione assunta sarebbe, ad avviso di parte
appellante, errata, carente di motivazione e comunque non
sufficiente a sorreggere la determinazione negativamente
assunta.
Le doglianze del sig. Ragazzi sono prive di fondamento.
Premesso che la zona di che trattasi è sottoposta a vincolo
paesaggistico, il Comune nel negare il chiesto condono non
si è limitato ad effettuare una mera, apodittica
affermazione di incompatibilità sotto il profilo
paesaggistico dei manufatti de quibus, potendosi
rinvenire nel parere formulato dalla Commissione
espressamente recepito dall’Amministrazione comunale ragioni
logico- giuridiche che danno sufficiente contezza del
disvalore paesaggistico dei manufatti in questione, come
tali pienamente giustificative del diniego de quo.
In particolare, sia pure in maniera stringata, l’organo
preposto alla valutazione della compatibilità in questione
ha posto ben in evidenza come i manufatti per loro natura,
consistenza e caratteristiche tipologiche sono tali da
arrecare una trasformazione dell’area sotto il profilo
paesaggistico-ambientale che viceversa proprio per
voluntas del legislatore deve essere preservata da
alterazioni di sorta, laddove dette esigenze di tutela
ambientale precedono addirittura l’aspetto
urbanistico-edilizio (cfr. Cons. Stato Sez. IV 08/05/2013 n.
2488)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.10.2014 n. 5173 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Classificazione degli interventi edilizi - Le definizioni
della legislazione nazionale prevalgono sulle disposizioni
degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti
edilizi comunali.
La disposizione dell'ultimo comma
dell'art. 3 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 -a tenore del
quale "Le definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle
disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei
regolamenti edilizi"-, deve essere rettamente intesa nel
senso che la normativa urbanistica comunale (come ovviamente
anche la legislazione regionale) non possa dare agli
interventi una classificazione diversa da quella ivi
stabilita, né traslare i medesimi dall'una all'altra
tipologia, e non anche che, in sede di piani esecutivi, non
possa definire le modalità quali-quantitative degli
interventi, e quindi anche limitare, ad esempio come nel
caso di specie, il numero di piani realizzabili, tanto più
quando l'intervento si inserisca in piano inteso al
risanamento di un contesto urbano secondo linee filologiche
di recupero dei caratteri storico-architettonici, e quindi
anche al fine di ripristinare un armonico sviluppo di una
schiera edilizia.
E' altresì infondato il terzo
motivo di appello, posto che la disposizione dell'ultimo
comma dell'art. 3 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 -a tenore
del quale "Le definizioni di cui al comma 1 prevalgono
sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e
dei regolamenti edilizi"-, deve essere rettamente
intesa, come puntualizzato nella sentenza gravata, nel senso
che la normativa urbanistica comunale (come ovviamente anche
la legislazione regionale) non possa dare agli interventi
una classificazione diversa da quella ivi stabilita, né
traslare i medesimi dall'una all'altra tipologia, e non
anche che, in sede di piani esecutivi, non possa definire le
modalità quali-quantitative degli interventi, e quindi anche
limitare, ad esempio come nel caso di specie, il numero di
piani realizzabili, tanto più quando l'intervento si
inserisca in piano inteso al risanamento di un contesto
urbano secondo linee filologiche di recupero dei caratteri
storico-architettonici, e quindi anche al fine di
ripristinare un armonico sviluppo di una schiera edilizia
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.10.2014 n. 5187 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
Pubblicità, tassati i carrelli della spesa.
Va tassata la
pubblicità esposta sui carrelli della spesa utilizzati nel
supermercato del centro commerciale. Il messaggio
pubblicitario, infatti, risulta visibile anche al di fuori
dei locali adibiti alla vendita. Pertanto non spetta
l’esenzione riservata solo per i prodotti pubblicizzati
all’interno dei locali.
Sono queste le conclusioni della
sentenza 21.10.2014 n. 5483/64/14 della Ctr
Lombardia-Brescia.
Il Comune, tramite il proprio concessionario, notifica ad
una Spa svolgente attività di grande distribuzione nei
locali di un centro commerciale, un accertamento per la
pubblicità presente con un logo sui carrelli della spesa
utilizzati dai clienti del centro.
Secondo la contribuente, però, che impugna l?avviso, i
carrelli sono una componente accessoria fondamentale per la
vendita e una volta riposti negli appositi spazi al termine
delle operazioni di scarico della spesa, vengono incastrati
l'un l'altro e il messaggio non è più visibile. Secondo
l'ente locale l'esenzione è applicabile solo quando la
pubblicità è realizzata all'interno dei locali di vendita,
oppure se i mezzi pubblicitari sono esposti nelle vetrine e
sulle porte d'ingresso dei locali.
La tesi della Spa non è condivisa dalla Ctp, perché «il
tragitto del carrello, viene effettuato non già all'interno
dei locali ma anche all'esterno di essi, nel parcheggio che,
per di più, non è al servizio esclusivo del supermercato ove
il prodotto è posto in vendita, ma di un centro commerciale
con ipermercato, ove operano numerosi altri negozi, così che
il messaggio stesso ha come potenziali destinatari anche
consumatori in astratto non intenzionati ad effettuare
acquisti presso il supermercato in parola ed assolve alla
funzione di far conoscere indiscriminatamente alla massa
indeterminata di possibili acquirenti il nome, l?attività e
il prodotto dell'azienda». Poi «la concreta collocazione del
messaggio sui carrelli, che ne rende possibile la
propagazione solo quando tali attrezzi sono utilizzati, non
ne annulla per ciò stesso l'efficacia».
Su appello della contribuente la Ctr risponde negativamente.
«Il supermercato -si legge nella pronuncia- si trova all'interno
di un centro commerciale dotato di trentacinque negozi ed un
parcheggio che ospita millecinquecento posti auto. I
messaggi pubblicitari sono apposti su carrelli della spesa
visibili non solo agli utenti del supermercato bensì anche
ai clienti dei diversi negozi del centro. I carrelli
transitano anche all'esterno del supermercato e nel
parcheggio che non è al servizio esclusivo del supermercato.
Risulta evidente la finalità di pubblicità del prodotto, dell'azienda e del luogo di vendita, destinata a consumatori
eventualmente non intenzionati ad effettuare acquisti presso
il supermercato».
Pertanto il collegio «non ritiene
meritevole di accoglimento l'eccezione di non applicabilità
delle sanzioni», poiché «non emerge incertezza sull'applicazione
della sanzione». Spese compensate, però, per la complessità
e novità delle questioni decise (articolo Il Sole 24 Ore del
29.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Rottami metallici.
Alcuni tipi di rottami metallici possono
cessare di essere considerati rifiuti, ma non già e non solo
in base alla loro natura, alla loro consistenza e ai
trattamenti che subiscono sul luogo di produzione (tutti
requisiti che comunque devono essere accertati e
certificati), ma anche per effetto del rispetto delle
specifiche prescrizioni (in materia di formulari, ecc.) e
del positivo esito delle procedure preliminari delineate da
detta normativa (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.10.2014 n. 43430
- tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Piano di recupero
- Edificazione disomogenea -
Necessità di specifico piano di recupero per restituire
ordine all’abitato e riorganizzare il disegno urbanistico di
completamento della zona.
Per definizione la previsione della
necessità di un piano di recupero mira proprio a far sì che
tutte le modifiche della zona in questione si ispirino a
criteri omogenei e a una ordinata modifica dei luoghi, per
migliorare la vivibilità degli abitanti e per evitare che
ognuno faccia ciò che voglia, senza attenersi alle regole
volte al miglioramento dell’area.
Come ha già rilevato questo Consiglio, l’esistenza di una
‘edificazione disomogenea’ non solo giustifica la previsione
urbanistica che subordina la modifica dei luoghi alla
emanazione del piano di recupero, ma impone che questo piano
vi sia e sia concretamente attuato, per restituire ordine
all’abitato e riorganizzare il disegno urbanistico di
completamento della zona.
In secondo luogo, questo Consiglio di Stato non può che
ribadire quanto già chiarito più volte: è consentito
derogare all'obbligo della previa emanazione dello strumento
attuativo soltanto nell'ipotesi –per lo più di scuola– in
cui per un’area complessivamente edificabile sia satura e si
tratti “dell’ultimo lotto” integralmente inserito nel
tessuto urbano, vale a dire di un’area di dimensioni
limitate e totalmente inserita tra altri edifici.
L'esonero dal piano attuativo o da quello di lottizzazione,
previsto dal P.R.G. e dalle relative N.T.A., non può
avvenire, pertanto, in un caso come quello di specie,
esposto al rischio della compromissione di valori
urbanistici e in cui la pianificazione urbanistica può
ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il
disordine edificativo in atto.
Più volte, sin dagli anni
Novanta, questo Consiglio ha affermato che –quando uno
strumento urbanistico subordina il rilascio di un titolo
edilizio alla previa approvazione di uno strumento
attuativo– né in sede amministrativa né in sede
giurisdizionale possono essere effettuate indagini sulla
situazione dei luoghi per verificare se l’area sia
urbanizzata.
Una tale regola –già desumibile dalla legge n. 1150 del
1942– è stata espressamente prevista dall’art. 9 del testo
unico sull’edilizia.
E’ dunque in palese contrasto con la legge ogni tesi che
voglia sottoporre all’esame dell’amministrazione o del
giudice amministrativo la verifica della situazione dei
luoghi, al fine di escludere la necessità del piano
attuativo, previsto dallo strumento urbanistico e che l’art.
9 del testo unico sull’edilizia ha espressamente qualificato
come presupposto legale per l’edificazione.
Neppure risulta fondata la tesi dell’appellante, secondo cui
rileverebbe nella specie una ‘pressoché completa
edificazione della zona’ addirittura incompatibile con
un piano attuativo.
In primo luogo, per definizione la previsione della
necessità di un piano di recupero mira proprio a far sì che
tutte le modifiche della zona in questione si ispirino a
criteri omogenei e a una ordinata modifica dei luoghi, per
migliorare la vivibilità degli abitanti e per evitare che
ognuno faccia ciò che voglia, senza attenersi alle regole
volte al miglioramento dell’area.
Come ha già rilevato questo Consiglio, l’esistenza di una ‘edificazione
disomogenea’ non solo giustifica la previsione
urbanistica che subordina la modifica dei luoghi alla
emanazione del piano di recupero, ma impone che questo piano
vi sia e sia concretamente attuato, per restituire ordine
all’abitato e riorganizzare il disegno urbanistico di
completamento della zona (cfr., da ultimo, Consiglio di
Stato, sez. IV, 27.04.2012, n. 2470).
In secondo luogo, questo Consiglio di Stato non può che
ribadire quanto già chiarito più volte: è consentito
derogare all'obbligo della previa emanazione dello strumento
attuativo soltanto nell'ipotesi –per lo più di scuola– in
cui per un’area complessivamente edificabile sia satura e si
tratti “dell’ultimo lotto” integralmente inserito nel
tessuto urbano, vale a dire di un’area di dimensioni
limitate e totalmente inserita tra altri edifici.
L'esonero dal piano attuativo o da quello di lottizzazione,
previsto dal P.R.G. e dalle relative N.T.A., non può
avvenire, pertanto, in un caso come quello di specie,
esposto al rischio della compromissione di valori
urbanistici e in cui la pianificazione urbanistica può
ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il
disordine edificativo in atto (cfr. Consiglio di Stato, sez.
IV, 15.05.2002, n. 2592).
Nella specie, come rilevato, ci si trova in un’area
degradata da organizzare urbanisticamente e qualificare
ambientalmente e paesisticamente, recuperando le superfici
minime previste dal D.M. n. 1144 del 1968, e che va
assoggettata ad un piano di recupero, con obbligo di
riqualificare l’intera superficie nei termini anzidetti.
In tali aree, infatti, il piano di recupero si pone a
presidio dello sviluppo programmato di aree ancora
edificabili nell’ambito di zone degradate e non assolve la
sola funzione di recupero edilizio di compendi immobiliari
fatiscenti.
In altri termini, fino alla approvazione del piano di
recupero è radicalmente vietato ogni ulteriore consumo di
suolo
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.10.2014 n. 5078 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Vincolo idrogeologico -
Salvaguardia dell'habitat nel quale vive l’uomo - Valore
primario ed assoluto.
In linea generale la sussistenza di un
vincolo idrogeologico ex art. 54, r.d.l. 30.12.1923 n. 3267
è una circostanza preclusiva della realizzazione di ogni
attività che pregiudichi la stabilità dei suoli e
l'equilibrio idrogeologico della zona vincolata in quanto ha
come finalità quella di prevenire smottamenti ed i movimenti
franosi dei suoli.
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In linea di principio, come la giurisprudenza ha più volte
chiarito, nel sistema di cui all’art, 9 Cost. e della
disciplina comunitaria la salvaguardia dell'habitat nel
quale l'uomo vive, assurge a valore primario ed assoluto, in
quanto attribuisce ad ogni singolo un autentico diritto
fondamentale della personalità umana. A tali fini,
l'ambiente rileva non solo come paesaggio, ma anche come
assetto del territorio, comprensivo di ogni suo profilo, e
finanche degli aspetti scientifico-naturalistici (come
quelli relativi alla protezione di una particolare flora e
fauna), pur non afferenti specificamente ai profili estetici
della zona.
In tali ambiti la sussistenza del vincolo idrogeologico ex
art. 54, r.d.l. 30.12.1923 n. 3267 è, di norma, circostanza
preclusiva della realizzazione di ogni attività che
pregiudichi la stabilità dei suoli e l'equilibrio
idrogeologico della zona vincolata.
Ha dunque ragione il TAR quando ricorda che la definizione
del vincolo di cui al R.D.L. n. 3267/1923 ben giustifica
“qualunque misura, restrittiva come impeditiva - risultante
dal piano di coltura, che inibisce, da un lato, la
lottizzazione a fini fabbricabili e, dall’altro, il
mutamento di destinazione, non avrebbe consentito l’adozione
di una diversa determinazione”.
Infatti è evidente che la valutazione negativa
dell’Amministrazione sull’ulteriore urbanizzazione del sito
è sostanzialmente del tutto corretta, in quanto in tal caso
è manifesta non la semplice probabilità, ma la certezza di
un pregiudizio significativo in quanto costituisce una
definitiva compromissione dell'integrità e del mantenimento
delle essenze arboree e della fauna presenti nel sito, la
cui conservazione sarebbe direttamente e definitivamente
nullificata dall’abbattimento degli alberi, dalla
realizzazione di manti stradali, palificazioni
infrastrutture, ecc..
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L'Amministrazione ha il potere-dovere di valutare
all'attualità l'interesse pubblico in una zona soggetta a
vincolo idrogeologico ai sensi del r.d.l. 30.12.1923 n.
3267.
In linea generale la
sussistenza di un vincolo idrogeologico ex art. 54, r.d.l.
30.12.1923 n. 3267 è una circostanza preclusiva della
realizzazione di ogni attività che pregiudichi la stabilità
dei suoli e l'equilibrio idrogeologico della zona vincolata
in quanto ha come finalità quella di prevenire smottamenti
ed i movimenti franosi dei suoli (cfr. Consiglio di Stato,
Sez. V 21/06/2007 n. 3431; Consiglio di Stato Sez. V,
10/09/2009 n. 5424; Consiglio di Stato Sez. VI, del
28.04.1981 n. 174).
Nel caso, il mantenimento dello stato di fatto appare
logicamente ancorato all’evidente scopo di combattere
fenomeni di erosione dei terreni conseguenti alle
denudazioni del litorale da parte dei flutti marini. Nel
caso in esame dunque la misura appare logicamente ancorata
alle finalità di conservare la staticità dei suoli, la
stabilità alla costa e l’habitat ambientale.
Ciò premesso, nel caso, del tutto inconferente, oltre che
tardiva, è sia la lamentata insussistenza dei presupposti
per l’assoggettamento ai vincoli dato che tale
assoggettamento era risultante nel tempo, e sia il
nulla–osta ad Italferr per un sottopasso di una struttura
ferroviaria già esistente.
In definitiva sul punto (come del resto sarà meglio evidente
in seguito), la pretesa realizzazione di fabbricati
plurifamiliari, costituendo una definitiva ed incidente
antropizzazione su una non trascurabile estensione di
territorio, appare un’attività del tutto incompatibile sia
con il vincolo boschivo e sia con la tutela della flora e
della fauna dell’area.
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In linea di principio, come la giurisprudenza ha più volte
chiarito, nel sistema di cui all’art, 9 Cost. e della
disciplina comunitaria la salvaguardia dell'habitat nel
quale l'uomo vive, assurge a valore primario ed assoluto, in
quanto attribuisce ad ogni singolo un autentico diritto
fondamentale della personalità umana. A tali fini,
l'ambiente rileva non solo come paesaggio, ma anche come
assetto del territorio, comprensivo di ogni suo profilo, e
finanche degli aspetti scientifico-naturalistici (come
quelli relativi alla protezione di una particolare flora e
fauna), pur non afferenti specificamente ai profili estetici
della zona (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 09/01/2014 n.
36).
In tali ambiti la sussistenza del vincolo idrogeologico ex
art. 54, r.d.l. 30.12.1923 n. 3267 è, di norma, circostanza
preclusiva della realizzazione di ogni attività che
pregiudichi la stabilità dei suoli e l'equilibrio
idrogeologico della zona vincolata (cfr. Consiglio di Stato,
Sez. V 21/06/2007 n. 3431).
Ha dunque ragione il TAR quando ricorda che la definizione
del vincolo di cui al R.D.L. n. 3267/1923 ben giustifica “qualunque
misura, restrittiva come impeditiva - risultante dal piano
di coltura, che inibisce, da un lato, la lottizzazione a
fini fabbricabili e, dall’altro, il mutamento di
destinazione, non avrebbe consentito l’adozione di una
diversa determinazione”.
Infatti è evidente che la valutazione negativa
dell’Amministrazione sull’ulteriore urbanizzazione del sito
è sostanzialmente del tutto corretta, in quanto in tal caso
è manifesta non la semplice probabilità, ma la certezza di
un pregiudizio significativo (arg. ex Cons. Stato, Sez. IV,
22.07.2005 n. 3917) in quanto costituisce una definitiva
compromissione dell'integrità e del mantenimento delle
essenze arboree e della fauna presenti nel sito, la cui
conservazione sarebbe direttamente e definitivamente
nullificata dall’abbattimento degli alberi, dalla
realizzazione di manti stradali, palificazioni
infrastrutture, ecc..
Nella sostanza delle cose, il provvedimento di diniego di
nulla-osta a modificare la destinazione del suolo oggetto di
intervento appare dunque legittimamente motivato con
riferimento alla valutazione negativa dell’intervento stesso
in quanto incidente su valori che avevano giustificato
l’inserimento dell’area nell’ambito di un sito SIC ed, in
precedenza del vincolo ex R.D. n. 3267.
In tale direzione deve anche escludersi che l’edificazione
privata, in una località balneare, possa essere assimilata
al perseguimento di finalità pubbliche. Come la Sezione ha
avuto già modo di rilevare la creazione di una miriade di
seconde case sulle coste finisce comunque per creare dei
quartier fantasma che restano praticamente deserti per nove
mesi all’anno, ma che comportano comunque oneri che restano
comunque a carico della collettività per 12 mesi per
illuminazione, pulizia strade, manutenzioni reti idriche,
raccolta rifiuti ecc. (cfr. Consiglio Stato, Sez. IV
06/05/2013 n. 2433; Consiglio Stato, Sez. IV 22.01.2013 n.
361).
In molte regioni del Mezzogiorno la totale cementificazione
delle coste ha finito di pregiudicare definitivamente gli
originari valori ambientali e “di vivibilità” delle
località marine (che nell’ultima parte del secolo scorso
erano state la ragione stessa del loro successo) ed ha
portato all’esponenziale diminuzione di villeggianti
estranei all’ambito regionale.
Del tutto ragionevolmente l’Amministrazione ha dunque inteso
assicurare il mantenimento di quello che resta del bosco e
dell’habitat costiero, rispetto ai quali non pare possa
prefigurarsi alcuna efficace misura di mitigazione.
In sostanza, contrariamente a quanto vorrebbe l’appellante,
sussistevano puntuali, e prevalenti, ragioni di interesse
pubblico che, sul piano logico e funzionale, supportano la
legittimità del provvedimento e la ragionevolezza della
decisione del TAR impugnata.
L'Amministrazione ha il potere-dovere di valutare
all'attualità l'interesse pubblico in una zona soggetta a
vincolo idrogeologico ai sensi del r.d.l. 30.12.1923 n. 3267
(cfr. Consiglio di Stato sez. V 10/09/2009 n. 5424), per cui
del tutto irrilevante è poi il fatto che il diniego del
nulla-osta, concernesse un ulteriore incremento di un
complesso edilizio già autorizzato oltre trent'anni prima.
In tale quadro, il mancato rispetto dell'obbligo di
preventiva comunicazione dei motivi ostativi
all'accoglimento dell'istanza, imposto dall'art. 10-bis, l.
07.08.1990 n. 241, come pure la mancata effettuazione di
sopralluoghi, non hanno in concreto inciso sulla validità
dell'atto conclusivo del procedimento in quanto non ha
determinato un reale deficit istruttorio.
Non vi è poi nessuna prova che la decisione sul progetto de
quo ai fini del rilascio del nulla osta, non sia stato
preceduto da una corretta istruttoria e da una compiuta
valutazione degli interessi naturalistici ai sensi degli
artt. 9 Cost..
Infatti, l’esigenza dello status quo che risulta
legittimamente ancorata alla prevalenza per l’immodificabilità
conseguente ad un vincolo idrogeologico e boschivo ex R.D.
n. 3267/1923, ed ai provvedimenti con cui in relazione al
persistente pregio ambientalistico dell’area, i terreni sono
stati inseriti tra i siti di interesse comunitario ai sensi
della Direttiva Habitat
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.10.2014 n. 5045 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rumore. Illecito amministrativo e reato.
Deve ritenersi sussistere l'illecito
amministrativo ove si verifichi solo il mero superamento dei
limiti differenziali; è configurabile l'ipotesi di cui al co.
1 dell'art. 659 c.p. quando il fatto costitutivo
dell'illecito sia rappresentato da qualcosa di diverso ed
ulteriore rispetto al mero superamento di limiti di rumore;
deve poi ritenersi integrata la contravvenzione ex art. 659,
co. 2, c.p. qualora la violazione riguardi altre
prescrizioni legali o della Autorità, attinenti
all'esercizio del mestiere rumoroso, diverse, però, da
quelle impositive di limiti di immissione acustica (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.10.2014 n. 42026
- tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rumore. Esercizio di un bar.
L'esercizio di un bar non costituisce un
mestiere di per sé rumoroso, sicché i rumori molesti
provocati da tale esercizio possono integrare la fattispecie
di cui all'art. 659, primo comma, cod. pen. (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.10.2014 n. 41992
- tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI:
Rifiuti. Dovere di attivazione del sindaco.
La distinzione operata dall'art. 107 del
Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali
fra i poteri di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo, demandati agli organi di governo, e
i compiti di gestione attribuiti ai dirigenti, non esclude,
in materia di rifiuti, il dovere di attivazione del sindaco
allorché gli siano note situazioni, non derivanti da
contingenti ed occasionali emergenze tecnico-operative, che
pongano in pericolo la salute delle persone o l'integrità
dell'ambiente (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.10.2014 n. 41695 - tratto da
www.lexambiente.it). |
APPALTI: 1.
Commesse pubbliche. Attività amministrativa illegittima.
Risarcimento del danno. Presupposti. Loro ricorrenza. Onere
della prova. È a carico della parte danneggiata.
1.1. Per accordare la tutela
risarcitoria dei pregiudizi patiti in conseguenza di
attività amministrativa illegittima, non è sufficiente la
declaratoria dell’illegittimità degli atti adottati
dall’amministrazione resistente, occorrendo procedere alla
verifica ulteriore della ricorrenza dei presupposti
richiesti dall’art. 2043 c.c..
1.2. È a carico di chi lamenti danni conseguenti da attività
amministrativa illegittima l'onere di provare ex art. 2697
cod. civ., sotto il profilo oggettivo, il danno ed il nesso
causale tra l’illecito e il danno che ne è derivato.
2. (segue): elemento soggettivo della P.A. Verifica della
ricorrenza. Non occorre. Responsabilità della P.A. di natura
oggettiva. Estensione della regola a tutto il campo degli
appalti pubblici. Occorre.
2.1. Nelle controversie risarcitorie
afferenti la materia dei pubblici appalti, non occorre
procedere alla verifica dell’elemento soggettivo
dell’illecito, dal momento che, ai fini della responsabilità
della Amministrazione da provvedimento illegittimo, il suo
accertamento va ritenuto superfluo sulla scorta della
giurisprudenza comunitaria in tema di procedure di appalti
pubblici.
2.2. La direttiva del Consiglio 21.12.1989 n. 89/665/Cee,
che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e
amministrative relative all’applicazione delle procedure di
ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici
di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva
del Consiglio 18.06.1992 n. 92/50/Cee, deve essere
interpretata nel senso che essa osta a una normativa
nazionale, la quale subordini il diritto a ottenere un
risarcimento a motivo di una violazione della disciplina
sugli appalti pubblici da parte di un’Amministrazione
aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione,
anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in
questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza
in capo all’Amministrazione suddetta, nonché
sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la
mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un
difetto di imputabilità soggettiva della violazione
lamentata.
2.3. La regola comunitaria vigente in materia di
risarcimento del danno per illegittimità accertate in
materia di appalti pubblici per avere assunto provvedimenti
illegittimi lesivi di interessi legittimi configurerebbe una
responsabilità non avente natura né contrattuale né
extracontrattuale, ma oggettiva, sottratta ad ogni possibile
esimente, poiché derivante da principio generale funzionale
a garantire la piena ed effettiva tutela degli interessi
delle imprese, a protezione della concorrenza, nel settore
degli appalti pubblici.
2.4. La regola comunitaria vigente in materia di
risarcimento del danno per illegittimità accertate in
materia di appalti pubblici non può essere circoscritta ai
soli appalti comunitari ma deve estendersi, in quanto
principio generale di diritto comunitario in materia dì
effettività della tutela, a tutto il campo degli appalti
pubblici, nei quali i principi di diritto comunitario hanno
diretta rilevanza ed incidenza, non fosse altro che per il
richiamo che ad essi viene fatto dal nostro legislatore nel
Codice appalti.
3. Affidamento di incarico di direzione lavori per
esecuzione di opera pubblica. Revoca. Annullamento in sede
giurisdizionale. Risarcimento. Spetta.
Va risarcito il danno patito da
raggruppamento temporaneo di professionisti, affidatari, a
seguito di espletamento di procedura selettiva pubblica, di
incarico di direzione lavori per la costruzione di impianto
di depurazione a servizio di centro abitato, laddove,
dapprima, l'incarico sia stato svolto soltanto per una
minima parte, a causa del contenzioso insorto tra
Committenza pubblica e soggetto appaltatore dei medesimi
lavori, e, successivamente, la medesima Committenza
pubblica, senza nemmeno provvedere alla formale revoca o
annullamento del precedente affidamento al raggruppamento di
professionisti, abbia attribuito, con atto infine annullato
in sede giurisdizionale, la direzione dei lavori a un
dipendente comunale, coadiuvato da direttore operativo
esterno.
4. (segue): la lesione ingiusta di una situazione soggettiva
meritevole di tutela da parte dell'ordinamento.
Nel caso in cui raggruppamento temporaneo
di professionisti sia stato ingiustamente privato
dell'incarico di direzione di lavori di opera pubblica per
atto amministrativo illegittimo, risultano integrati gli
estremi della ingiusta lesione (i.e. del danno ex art. 2043
cod. civ.) della situazione soggettiva di interesse tutelata
dall’ordinamento facente capo al medesimo raggruppamento
(i.e. interesse oppositivo al mantenimento dell’incarico di
direzione dei lavori per cui è causa, in forza di una
posizione soggettiva di vantaggio in essere, comportante,
sul piano economico determinati emolumenti).
5. (segue): nesso causale e quantificazione del danno
emergente.
5.1. Quanto alla verifica del nesso
causale, la stessa va condotta sulla base di un giudizio
prognostico controfattuale, al fine di verificare quale
sarebbe stato l’esito del procedimento ove il fatto
antigiuridico (nella specie l’illegittima attività
amministrativa) non si fosse prodotto e l’amministrazione
avesse agito correttamente. Occorre allora stabilire quale
sia stata l’efficienza causale del vizio rilevato con
sentenza di annullamento rispetto al pregiudizio lamentato
dal raggruppamento ricorrente.
5.2. Dal momento che il raggruppamento temporaneo di
professionisti lamenta l'ingiusta privazione di incarico di
direzione di lavori di opera pubblica per atto
amministrativo illegittimo, con cui il medesimo incarico è
stato affidato ad altri (dipendente comunale coadiuvato da
un direttore tecnico esterno), va considerato, in sede di
verifica del nesso causale, se legittimamente
l’amministrazione avrebbe potuto, motivando opportunamente
ed assicurando le garanzie del contraddittorio, decidere
diversamente e non conservare l’affidamento al medesimo
raggruppamento temporaneo di professionisti.
5.3. In punto di quantificazione del danno emergente,
derivante dall’atto oggetto di annullamento, e cioè l'atto
con cui è stato affidato ad altri l'incarico di direzione di
lavori già affidato al raggruppamento temporaneo di
professionisti, ove non sia possibile dire con certezza
quale avrebbe potuto essere la sorte dell’affidamento, per
il caso in cui l’Amministrazione avesse correttamente
esercitato la sua discrezionalità e deciso di valutare,
nell’ambito di un giusto procedimento di autotutela, la
posizione del raggruppamento de quo, il risarcimento non può
sic et simpliciter essere determinato in relazione alla
perdita dei compensi all’epoca stabiliti e che il ridetto
raggruppamento temporaneo aveva diritto a conseguire.
5.4. Laddove risulti che la Committenza pubblica avrebbe in
effetti potuto legittimamente compiere una diversa
valutazione di interessi si configura una situazione di
dubbio circa il fatto che il raggruppamento temporaneo di
professionisti avrebbe avuto titolo all'esecuzione
dell'incarico illegittimamente revocato. Tale insuperabile
situazione di dubbio si proietta allora inevitabilmente sul
risarcimento ottenibile dal raggruppamento temporaneo,
consentendone il ristoro in termini di chance di mantenere
il precedente affidamento, in ragione della prospettazione
delle due soluzioni alternative, entrambe legittime, che
l’amministrazione comunale avrebbe potuto seguire.
5.5. Sotto il profilo quantificatorio del danno ristorabile,
che possono essere assunti a parametro i compensi pattuiti
per l’incarico di direzione lavori, ma ridotti nella misura
che si può equitativamente determinare ex art. 1226 c.c. nel
cinquanta per cento della somma che l’impresa avrebbe potuto
ottenere ove l’incarico non fosse stato illegittimamente
revocato.
6. (segue): rimborso delle spese di gara.
Le spese sostenute dai partecipanti a gare
pubbliche costituiscono onere legittimamente imposto per la
partecipazione alla gara stessa, che l'operatore economico
avrebbe comunque sostenuto, a prescindere dagli esiti della
procedura. Ne deriva che esse, in caso di ingiusta lesione
conseguente a attività amministrativa illegittima, non
risultano riconducibili all'area del danno, in quanto non
possono dirsi conseguenza del fatto illegittimo
dell'amministrazione.
7. (segue): danno curriculare. Onere della prova.
Presunzione. Liquidazione in via equitativa.
7.1. Laddove il soggetto affidatario di
incarico di direzione lavori di opera pubblica,
illegittimamente revocata per atto amministrativo
illegittimo, domandi la liquidazione del cd. danno
curriculare, conseguente all’impossibilità di utilizzare le
referenze derivanti dall’esecuzione dell’incarico de quo
nell’ambito di futuri ed eventuali procedimenti di gara,
tale danno può ritenersi in re ipsa.
7.2. In materia di commesse pubbliche, in relazione al danno
curricolare, il soggetto danneggiato non può dirsi gravato
di un particolare onere probatorio. L'esecuzione di commesse
pubbliche, secondo l’id quod plerunque accidit, risulta
comunque fonte per l’operatore di un vantaggio
economicamente valutabile, perché accresce la sua capacità
di competere sul mercato e quindi la chance di aggiudicarsi
ulteriori e futuri incarichi, oltre che la propria immagine
e prestigio professionale, al di là dell'incremento degli
specifici requisiti di qualificazione e di partecipazione
alle singole gare.
7.3. Il c.d. danno curriculare può essere liquidata in sede
giurisdizionale, in via forfettaria ed equitativa, tenendo
conto della sua importanza.
8. (segue): detrazione del c.d. aliunde perceptum su quanto
dovuto a titolo di lucro cessante.
8.1. In tema di risarcimento dei danni
patiti da operatori economici in conseguenza di attività
amministrativa illegittima in materia di appalti di lavori
pubblici, è a carico del soggetto danneggiato, che domandi
il ristoro del lucro cessante, la prova di non aver
utilizzato in maniera alternativa mezzi e risorse tenuti a
disposizione dell’appalto (pena, in mancanza la conseguente
decurtazione della liquidazione forfettaria del danno)
8.2. Nel caso di illegittima revoca di incarico di direzione
dei lavori per realizzazione opera pubblica, va evidenziato
che la direzione dei lavori risulta affidata in via
prevalente al lavoro intellettuale dei professionisti
incaricati; sicché ben potevano essere realizzate forme
flessibili di organizzazione e ripartizione del carico
lavorativo, non risultando specifiche incompatibilità ovvero
preclusioni allo svolgimento contemporaneo di più incarichi
libero-professionali. Dunque, la mancata prova
dell’acquisizione di ulteriori opportunità reddituali, non
può rappresentare motivo per ridurre oltremodo il quantum
debeatur, atteso che gli ulteriori ed eventuali guadagni
realizzati ben avrebbero potuto sommarsi a quelli derivanti
dall’incarico illegittimamente revocato.
9. (segue): rivalutazione.
Alla complessiva somma dovuta a titolo di
risarcimento del danno da illecito aquiliano della P.A.,
trattandosi di debito di valore, va calcolata la
rivalutazione anno per anno secondo gli indici ISTAT con
decorrenza dalla data dell’illecito, oltre interessi legali
sulla somma annualmente rivalutata secondo il cosiddetto
criterio “a scalare” individuato dalla Suprema Corte con la
sentenza a Sezioni Unite n. 1712/1995.
1. Il ricorso è fondato, e va
accolto nei limiti ed alla stregua delle considerazioni che
seguono.
2. Da quanto esposto nella narrativa in fatto risulta
acclarata, a seguito della sentenza di questo Tribunale n.
4184/2010, l’illegittimità degli atti che il ricorrente
assume come causativi dei danni lamentati.
3. Tuttavia, per accordare la tutela risarcitoria richiesta
con il ricorso in esame, occorre procedere alla verifica
ulteriore della ricorrenza, nella specie, dei presupposti
richiesti dall’art. 2043 c.c., non essendo sufficiente la
declaratoria dell’illegittimità degli atti adottati
dall’amministrazione resistente (cfr. ex multis,
Consiglio di Stato, Sez. V, 15.09.2010, n. 6797). Infatti,
occorre siano anche provati, con onere a carico del
danneggiato ex art. 2697 cod. civ., sotto il profilo
oggettivo, il danno (che parte ricorrente riferisce
nell’atto introduttivo del giudizio al mancato utile, alle
spese sostenute per la partecipazione e al danno
curriculare) ed il nesso causale tra l’illecito e il danno
che ne è derivato; mentre trattandosi di controversia
afferente la materia dei pubblici appalti, non occorre
procedere alla verifica ulteriore dell’elemento soggettivo
dell’illecito.
3.1 In relazione a tale ultima questione, la giurisprudenza
amministrativa è oramai assestata su una posizione di
consolidata condivisione dei principi affermati dalla Corte
di Giustizia CE, Sez. III, 30.09.2010, n. 314, che ha
ritenuto superfluo in tema di procedure di appalti pubblici
l’accertamento dell’elemento soggettivo della colpa, ai fini
della responsabilità della Amministrazione da provvedimento
illegittimo: “La direttiva del Consiglio 21.12.1989 n.
89/665/Cee, che coordina le disposizioni legislative,
regolamentari e amministrative relative all’applicazione
delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione
degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come
modificata dalla direttiva del Consiglio 18.06.1992 n.
92/50/Cee, deve essere interpretata nel senso che essa osta
a una normativa nazionale, la quale subordini il diritto a
ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della
disciplina sugli appalti pubblici da parte di
un’Amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di
tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della
normativa in questione sia incentrata su una presunzione di
colpevolezza in capo all’Amministrazione suddetta, nonché
sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la
mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un
difetto di imputabilità soggettiva della violazione
lamentata”.
In particolare, il Consiglio di Stato, sez. V, con sentenza
n. 966 del 18.02.2013 ha precisato che: “la regola
comunitaria vigente in materia di risarcimento del danno per
illegittimità accertate in materia di appalti pubblici per
avere assunto provvedimenti illegittimi lesivi di interessi
legittimi configurerebbe una responsabilità non avente
natura né contrattuale né extracontrattuale, ma oggettiva,
sottratta ad ogni possibile esimente, poiché derivante da
principio generale funzionale a garantire la piena ed
effettiva tutela degli interessi delle imprese, a protezione
della concorrenza, nel settore degli appalti pubblici.
Intesa in questo senso, è dunque evidente che tale regola
non può essere circoscritta ai soli appalti comunitari ma
deve estendersi, in quanto principio generale di diritto
comunitario in materia dì effettività della tutela, a tutto
il campo degli appalti pubblici, nei quali i principi di
diritto comunitario hanno diretta rilevanza ed incidenza,
non fosse altro che per il richiamo che ad essi viene fatto
dal nostro legislatore nel Codice appalti (art. 2 d.lgs.
163/2006)”.
3.2 Passando ad esaminare la fattispecie concreta
rappresentata con l’odierno ricorso, va rilevato come nella
specie sicuramente risultano integrati gli estremi della
ingiusta lesione (i.e. del danno ex art. 2043 cod. civ.)
della situazione soggettiva di interesse tutelata
dall’ordinamento facente capo al RTP ricorrente (i.e.
interesse oppositivo al mantenimento dell’incarico di
direzione dei lavori per cui è causa, in forza di una
posizione soggettiva di vantaggio in essere, comportante,
sul piano economico determinati emolumenti).
3.3 Quanto poi alla verifica del nesso causale, la stessa va
condotta sulla base di un giudizio prognostico
controfattuale, al fine di verificare quale sarebbe stato
l’esito del procedimento ove il fatto antigiuridico (nella
specie l’illegittima attività amministrativa) non si fosse
prodotto e l’amministrazione avesse agito correttamente.
Occorre allora stabilire quale sia stata l’efficienza
causale del vizio rilevato con sentenza di annullamento
rispetto al pregiudizio lamentato dal raggruppamento
ricorrente.
Sul punto occorre preliminarmente precisare che ciò che
viene lamentato con l’odierno ricorso è il danno conseguente
all’affidamento ad altri (dipendente comunale coadiuvato da
un direttore tecnico esterno) dell’incarico di direzione dei
lavori, ad essi aggiudicato anni addietro e solo
implicitamente oltre che illegittimamente revocato.
Tuttavia, come rilevato dalla più volte richiamata sentenza
di questo Tribunale, legittimamente l’amministrazione
avrebbe potuto, motivando opportunamente ed assicurando le
garanzie del contraddittorio, decidere diversamente e non
conservare l’affidamento al R.T.P. ricorrente.
4. Ne consegue, in punto di quantificazione del danno
emergente, derivante dall’atto oggetto di annullamento e di
cui l’istante chiede ora il risarcimento, che esso non può
sic et simpliciter essere determinato in relazione
alla perdita dei compensi all’epoca stabiliti e che il
R.T.P. Contini aveva diritto a conseguire. Infatti, non è
possibile dire con certezza quale avrebbe potuto essere la
sorte dell’affidamento in questione, ove l’Amministrazione
avesse correttamente esercitato la sua discrezionalità e
deciso di valutare, nell’ambito di un giusto procedimento di
autotutela, la posizione dei ricorrenti.
La circostanza, inoltre, che l’Amministrazione dopo il lungo
lasso temporale trascorso si fosse poi risoluta nel senso di
non esternare in toto l’incarico di Direzione dei lavori per
l’appalto in questione, lascia intravedere una diversa
valutazione di interessi che tuttavia illegittimamente non
risulta esternata nei provvedimenti adottati e, peraltro,
non partecipata con le garanzie procedimentali al R.T.P.
ricorrente che godeva di una posizione di affidamento
consolidata ed illegittimamente sacrificata.
Tale insuperabile situazione di dubbio si proietta allora
inevitabilmente sul risarcimento ottenibile dalla parte
ricorrente, consentendone il ristoro in termini di chance di
mantenere il precedente affidamento, in ragione della
prospettazione delle due soluzioni alternative, entrambe
legittime, che l’amministrazione comunale avrebbe potuto
seguire.
4.1 Ne consegue, sotto il profilo quantificatorio del danno
ristorabile, che possono essere assunti a parametro i
compensi pattuiti per l’incarico in questione ma ridotti
nella misura che si può equitativamente determinare ex art.
1226 c.c. nel cinquanta per cento della somma che l’impresa
avrebbe potuto ottenere ove l’incarico non fosse stato
illegittimamente revocato (risultando così pari ad €.
24.358,08, oltre accessori di legge).
4.2 Parte ricorrente chiede altresì procedersi al rimborso
delle spese di partecipazione alla gara.
In conformità a consolidata giurisprudenza, il Collegio
ritiene che dette spese costituiscano onere legittimamente
imposto per la partecipazione alla gara, che la società
avrebbe comunque sostenuto, a prescindere dagli esiti della
procedura. Ne deriva che esse non risultano riconducibili
all'area del danno, in quanto non possono dirsi conseguenza
del fatto illegittimo dell'amministrazione (Consiglio di
Stato, sez. IV, 12.06.2014, n. 3003).
4.3 Quanto all’ulteriore richiesta di liquidazione del cd.
danno curriculare, conseguente all’impossibilità di
utilizzare le referenze derivanti dall’esecuzione
dell’incarico de quo nell’ambito di futuri ed eventuali
procedimenti di gara, va rilevato che è mancata sul punto
una prova specifica.
Tuttavia in relazione a tale voce di danno la giurisprudenza
ha pure evidenziato che il soggetto economico non può dirsi
gravato di un particolare onere probatorio (cfr. Consiglio
di Stato, sez. V, 19.11.2012, n. 5846). Secondo condivisi
principi giurisprudenziali (ex multis Consiglio di
Stato sez. VI 18.03.2011, n. 1681; Tar Bari, sez. I,
14.06.2012, n. 1192) l'esecuzione di commesse pubbliche,
secondo l’id quod plerunque accidit, risulta comunque
fonte per l’operatore di un vantaggio economicamente
valutabile, perché accresce la sua capacità di competere sul
mercato e quindi la chance di aggiudicarsi ulteriori e
futuri incarichi, oltre che la propria immagine e prestigio
professionale, al di là dell'incremento degli specifici
requisiti di qualificazione e di partecipazione alle singole
gare (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 11.01.2010, n. 20;
sez. VI, 09.06.2008, n. 2751; sez. IV, 06.06.2008, n. 2680).
In relazione a tale profilo, pertanto, il Collegio reputa
congruo liquidare, in via forfettaria ed equitativa, tenuto
conto della circostanza che l’incarico, sia pure in minima
percentuale, risulta svolto, oltre che della sua importanza
(cfr. su tale ultimo criterio: Consiglio di Stato, Sez. VI,
21.05.2009, n. 3144; TAR Sicilia Catania, Sez. IV,
25.05.2011, n. 1279; TAR Lazio Roma, Sez. III, 02.02.2011,
n. 974), una somma pari al 3% sulla somma di €. 24.358,08,
di cui al precedente punto 4.1.
4.4 Infine, nulla va detratto a titolo di aliunde
perceptum su quanto dovuto a titolo di lucro cessante.
Diversamente da quanto accade per l’esecuzione di appalti di
lavori pubblici, ove la giurisprudenza richiede la prova a
carico dell’impresa di non aver utilizzato in maniera
alternativa mezzi e risorse tenuti a disposizione
dell’appalto (pena, in mancanza la conseguente decurtazione
della liquidazione forfettaria del danno), nel caso di
illegittima revoca dell’incarico di direzione dei lavori,
occorre muovere da altre considerazioni.
Va infatti evidenziato che la direzione dei lavori risulta
affidata in via prevalente al lavoro intellettuale dei
professionisti incaricati, che, oltretutto, per quanto
concerne il caso di specie, erano riuniti in raggruppamento;
sicché ben potevano essere realizzate forme flessibili di
organizzazione e ripartizione del carico lavorativo, non
risultando specifiche incompatibilità ovvero preclusioni
allo svolgimento contemporaneo di più incarichi
libero-professionali. Dunque, la mancata prova
dell’acquisizione di ulteriori opportunità reddituali, non
può rappresentare motivo per ridurre oltremodo il quantum debeatur, atteso che gli ulteriori ed eventuali guadagni
realizzati ben avrebbero potuto sommarsi a quelli derivanti
dall’incarico illegittimamente revocato.
5. Va infine precisato che sulla complessiva somma dovuta a
titolo di risarcimento del danno da illecito aquiliano della
P.A., trattandosi di debito di valore, va calcolata la
rivalutazione anno per anno secondo gli indici ISTAT con
decorrenza dalla data dell’illecito (i.e. momento
dell’adozione della determina n. 552 dell’08.06.2007), oltre
interessi legali sulla somma annualmente rivalutata secondo
il cosiddetto criterio “a scalare” individuato dalla
Suprema Corte con la sentenza a Sezioni Unite n. 1712/1995
(cfr. Tar Bari, sez. I, 18.04.2012, n. 741) (massima
tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Puglia-Bari,
Sez. I,
sentenza 07.10.2014 n. 1162 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI
FORNITURE: 1.
Appalti di forniture. Riunione temporanea d’impresa. Avvalimento. Ammissibilità.
1.1. Negli appalti di forniture, in accordo
con le previsioni normative del d.lgs. n. 163/2006, sono
legittimate a partecipare alla gara e a presentare offerte
imprese riunite o raggruppande che documentino il possesso
dei requisiti di capacità economico/finanziaria e di
capacità tecnico/organizzativa, e ciò anche attraverso
avvalimento di imprese ausiliarie.
1.2. In materia di appalti di forniture, la legittima
combinazione della riunione temporanea d'imprese e dell'avvalimento
non può revocarsi in dubbio, e anzi, nella prospettiva
dell'allargamento della partecipazione alle gare, assume
rilievo come meccanismo pro concorrenziale (quanto alla
pacifica ammissibilità dell'avvalimento da parte di imprese
raggruppande anche di una pluralità d'imprese ausiliarie
vedi Cons. Stato, Sez. V, 08.02.2011, n. 857; quanto
all'ampiezza dei requisiti che l'impresa ausiliaria può
mettere a disposizione dell'impresa ausiliata, che possono
anche riguardare il capitale sociale minimo, vedi Cons.
Stato, Sez. IV, 17.10.2012, n. 5340 ).
2. Certificazione di qualità. Avvalimento. È consentito.
2.1. In caso di avvalimento, l'impresa
ausiliata può senz'altro utilizzare tutti i requisiti
afferenti alla capacità economica e tecnica dell'impresa
ausiliaria, non esclusa la certificazione di qualità. Ciò in
quanto, nelle gare pubbliche, la certificazione di qualità,
essendo connotata dal precipuo fine di valorizzare gli
elementi di eccellenza dell'organizzazione complessiva, è da
considerarsi anch'essa requisito di idoneità tecnico
organizzativa dell'impresa, da inserirsi tra gli elementi
idonei a dimostrarne la capacità tecnico-professionale
assicurando che l'impresa, cui sarà affidato il servizio o
la fornitura, sarà in grado di effettuare la prestazione nel
rispetto di un livello minimo di qualità accertato da un
organismo a ciò predisposto".
2.2. L’avvalimento della certificazione di qualità –rinvenibile anche nell'art. 50 del d.lgs. n. 163/2006, che
ammette l'avvalimento nel caso di sistemi di attestazione e
sistemi di qualificazione- deve essere effettivo, e non
fittizio poiché non potrebbe ammettersi che sia "prestata"
la sola certificazione di qualità.
3. Dichiarazioni sulla c.d. moralità professionale.
Componenti Consiglio di Amministrazione. Acquisizione ex
officio di dichiarazioni di tutti i componenti. Legittimità.
Quando non sia revocabile in dubbio
l'effettività dei poteri rappresentativi del soggetto che
rende la dichiarazione sui requisiti morali ex art. 38
d.lgs. n. 163/2006, e la completezza e ritualità della
dichiarazione, e quando altresì la stazione appaltante
abbia, nel corretto e legittimo esercizio dei poteri ex art.
46 d.lgs. n. 163/2006, ritenuto di acquisire, ad abundantiam,
la documentazione relativa anche agli altri componenti del
consiglio di amministrazione della società, non può
sostenersi la sussistenza di cause di esclusione dalla gara.
In altri termini, in funzione delle chiare
previsioni normative del d.lgs. n. 163/2006 e del bando di
gara (cfr. par. III.2.1. in cui è espressamente menzionata
la "Possibilità di avvalersi di quanto previsto dall'art. 49 D.Lgs, 163/2006 e s.m.i. con la condizione che l'avvalimento
avvenga solo tra imprese operanti in ambito UE o in ragione
di accordi internazionali"), non può revocarsi in dubbio che
fossero legittimate a partecipare alla gara e a presentare
offerte imprese riunite o raggruppande che documentassero il
possesso dei requisiti di capacità economico/finanziaria
(invero qui non in discussione) e di capacità
tecnico/organizzativa, e ciò anche attraverso avvalimento di
imprese ausiliarie.
Sotto quest'ultimo aspetto, è appena il caso di rammentare
che l'art. 49, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006 dispone
testualmente che (corsivi dell'estensore):
"Il concorrente, singolo o consorziato o raggruppato ai
sensi dell'articolo 34, in relazione ad una specifica gara
di lavori, servizi, forniture può soddisfare la richiesta
relativa al possesso dei requisiti di carattere economico,
finanziario, tecnico, organizzativo, ovvero di attestazione
della certificazione SOA avvalendosi dei requisiti di un
altro soggetto o dell'attestazione SOA di altro soggetto".
La legittima combinazione della riunione temporanea
d'imprese e dell'avvalimento non può dunque revocarsi in
dubbio, e anzi, nella prospettiva dell'allargamento della
partecipazione alle gare, assume rilievo come meccanismo pro
concorrenziale (quanto alla pacifica ammissibilità dell'avvalimento
da parte di imprese raggruppande anche di una pluralità
d'imprese ausiliarie vedi Cons. Stato, Sez. V, 08.02.2011, n. 857; quanto all'ampiezza dei requisiti che
l'impresa ausiliaria può mettere a disposizione dell'impresa ausiliata, che possono anche riguardare il capitale sociale
minimo, vedi Cons. Stato, Sez. IV, 17.10.2012, n. 5340).
----------------
Non ha poi pregio
giuridico la censura concernente la carenza della
certificazione specifica di qualità in capo a El Corte
Ingles S.A.
In caso di avvalimento, infatti, l'impresa ausiliata può
senz'altro utilizzare tutti i requisiti afferenti alla
capacità economica e tecnica dell'impresa ausiliaria, non
esclusa la certificazione di qualità.
In tal senso è stato chiarito che "nelle gare pubbliche la
certificazione di qualità, essendo connotata dal precipuo
fine di valorizzare gli elementi di eccellenza
dell'organizzazione complessiva, è da considerarsi anch'essa
requisito di idoneità tecnico organizzativa dell'impresa, da
inserirsi tra gli elementi idonei a dimostrarne la capacità
tecnico-professionale assicurando che l'impresa, cui sarà
affidato il servizio o la fornitura, sarà in grado di
effettuare la prestazione nel rispetto di un livello minimo
di qualità accertato da un organismo a ciò predisposto"
(così Cons. Stato, Sez. V, 20.12.2013, n. 6125, vedi
anche Sez. V, 06.03.2013, n. 1368).
L'unico limite è costituito dalla condizione che l'avvalimento
sia effettivo, e non fittizio -ciò che non è revocato in
dubbio dall'appellante- poiché, come pure osservato, non
potrebbe ammettersi che sia "prestata" la sola
certificazione di qualità (Cons. Stato, Sez. III, 18.04.2011, n. 2343).
----------------
Non hanno maggior pregio
i rilievi svolti avverso la reiezione del terzo motivo di
ricorso, posto che la dichiarazione ex art. 38 del d.lgs. n.
163/2006 è stata ritualmente resa sia dal Presidente del
Consiglio di Amministrazione de El Corte Ingles S.A. Isidoro
Alvarez Alvarez, che dal procuratore Victor Manuel Linero
Saro, ossia dai due soggetti che avevano sottoscritto la
domanda di partecipazione, e che al primo, secondo la
certificazione del registro madrileno delle imprese in atti,
è attribuito in modo specifico il potere di "stipulare
quanti documenti pubblici o privati fossero necessari", come
evidenziato dall'Avvocatura generale dello Stato.
In altri termini, quando non sia revocabile in dubbio
l'effettività dei poteri rappresentativi del soggetto che
rende la dichiarazione sui requisiti morali, e la
completezza e ritualità della dichiarazione, e quando
altresì l'amministrazione abbia, nel corretto e legittimo
esercizio dei poteri ex art. 46 d.lgs. n. 163/2006, ritenuto
di acquisire, ad abundantiam, la documentazione relativa
anche agli altri componenti del consiglio di amministrazione
della società, non può sostenersi la sussistenza di cause di
esclusione dalla gara, essendo del pari esatto il rilievo
del giudice amministrativo capitolino in ordine alla mancata
deduzione di specifiche censure in relazione all'esercizio
dei suddetti poteri da parte dell'amministrazione (massima
tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 03.10.2014 n. 4958 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Pollina.
Le materie fecali (tra cui rientra la
pollina) sono escluse dalla disciplina dei rifiuti di cui al
D.Lgs. n. 152 del 2006 a condizione che provengano da
attività agricola e che siano effettivamente riutilizzate
nella stessa attività (nel caso di specie, la pollina
proveniva da attività agricola ed era effettivamente
riutilizzata nella medesima attività.
Secondo la Corte il fatto rientra nella nuova previsione del
comma 2 dell'art. 29-quattuordecies, d.lgs. n. 152/2006, con
conseguente intervenuta depenalizzazione) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.10.2014 n. 40532
- tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Discarica non autorizzata e responsabilità del
proprietario del terreno.
Il proprietario di un terreno non
risponde dei reati di realizzazione e gestione di discarica
non autorizzata, anche in caso di mancata attivazione per la
rimozione dei rifiuti, a condizione che non compia atti di
gestione o movimentazione dei rifiuti, atteso che tale
responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo
giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento
dell'evento lesivo (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.10.2014 n. 40528
- tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazione dopo «decreto del fare».
L'art. 30 del d.l. 21.06.2013, n. 69
(c.d. "decreto del fare"), convertito con legge 09.08.2013,
n. 98 ha mantenuto fermo il principio che costituiscono
interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio e sono subordinati al permesso di costruire gli
interventi di ristrutturazione edilizia che comportino un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente, un aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, dei prospetti e delle superfici ovvero che,
limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A,
comportino un mutamento della destinazione d'uso ed ha
consentito, ricomprendendoli nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia soggetti perciò a Scia, sia le
opere consistenti nella demolizione e ricostruzione con la
stessa volumetria (non più anche con la stessa sagoma) del
manufatto preesistente e sia gli interventi di
ristrutturazione volti al ripristino di edifici, o parti di
essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro
ricostruzione ma non ha sottratto, in tale caso, al regime
del permesso di costruire le opere delle quali non sia
possibile accertare la preesistente consistenza, fermo
restando che se l'intervento è eseguito in zona vincolata
deve, in ogni caso, essere anche rispettata la medesima
sagoma dell'edificio preesistente tanto per gli interventi
di demolizione e ricostruzione quanto per quelli volti al
ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente
crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.09.2014 n. 40342
- tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rumore. Indice di rilevazione della potenziale idoneità
lesiva di una fonte sonora.
Significativo indice di rilevazione
della potenziale idoneità lesiva di una fonte sonora è dato
dalla incidenza del fenomeno in rapporto alla media
sensibilità del gruppo sociale in cui esso si verifica,
mentre sono irrilevanti e di per sé insufficienti le
lamentele di una o più singole persone (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.09.2014 n. 40329
- tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cambio di destinazione d'uso senza realizzazione di opere.
La ragione per la quale il cambio di
destinazione d'uso senza realizzazione di opere non
costituisce un'attività del tutto priva di vincoli risiede
nel fatto che ne risulterebbero altrimenti vulnerate le
regole generali finalizzate ad assicurare il corretto e
ordinato assetto del territorio, con conseguente concreto
inevitabile pericolo di compromissione degli equilibri
prefigurati della strumentazione urbanistica, potendo
risultare pregiudicato anche l'interesse patrimoniale
dell'ente, perché gli interessati sarebbero altrimenti
indotti a chiedere il rilascio dei titoli edilizi contro il
pagamento di un minore contributo per il basso carico
urbanistico, per poi mutare liberamente e gratuitamente la
destinazione originaria senza corrispondere i maggiori oneri
che derivano dal maggiore carico urbanistico (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.09.2014 n. 39897
- tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Abbruciamento in terra di scarti vegetali.
L'articolo 14, comma 8, lettera b), d.l.
24 giugno 2014 n. 91 ha inserito nell'articolo 256-bis del
Codice dell'ambiente il comma 6-bis.
La suddetta norma, dovendosi interpretare nel suo complesso,
senza isolare artificialmente il primo periodo dai seguenti,
alla luce degli ordinari canoni ermeneutici, non depenalizza
tout court l'abbruciamento in terra di scarti vegetali come
rifiuti, bensì prevede ("...è consentita la combustione
ecc.") un margine di irrilevanza della condotta ai fini del
reato di cui all'articolo 256 specificamente determinato a
livello quantitativo e temporale, anche a mezzo
dell'individuazione amministrativa di parte di tali modalità
scriminanti mediante appunto una ordinanza sindacale ad hoc,
e fatto salvo il limite imposto dalle regioni per tutelare
dal rischio degli incendi boschivi (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.09.2014 n. 39203
- tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Luogo di produzione rilevante ai fini della nozione
di deposito temporaneo.
In tema di gestione illecita dei
rifiuti, il luogo di produzione rilevante ai fini della
nozione di deposito temporaneo non è solo quello in cui i
rifiuti sono prodotti ma anche quello che si trova nella
disponibilità dell'impresa produttrice e nel quale gli
stessi sono depositati, purché funzionalmente collegato al
luogo di produzione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.09.2014 n. 38676
- tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Definizione di volume edilizio.
Il presupposto per l'esistenza di un
volume è costituito dalla costruzione di almeno un piano di
base coperto e due superfici verticali contigue, così da
ottenere una superficie chiusa su un minimo di tre lati.
Per esaminare la questione, occorre chiarire cosa si intende
per “volume” in edilizia. Ebbene, come precisato a
più riprese dalla Giurisprudenza, il presupposto per
l'esistenza di un volume è costituito dalla costruzione di
-almeno- un piano di base coperto e due superfici verticali
contigue, così da ottenere una superficie chiusa su un
minimo di tre lati (TAR Campania, Napoli, questa sezione, n.
3543/2011 e n. 3959/2014; TAR Campania, Napoli, sez. VIII,
n. 971/2014; TAR Campania Napoli, IV, 24.05.2010, n. 8342;
TAR Piemonte, n. 2824 del 12.07.2005; TAR Liguria, I,
12.12.1989, n. 943; TAR Sicilia Catania, 30.09.1994, n.
2171).
Il cordolo e la balaustra, quindi, non costituiscono “volume”
per la mancanza del piano base di copertura e, come tali,
non rientrano nel divieto di cui alle menzionate norma
dell’art. 24 delle N.T.A. del P.R.G. e dell’art. 13 delle
N.T.A. del P.T.P.. Evidentemente, trattandosi, di
qualificazione giuridica di stretta competenza del giudice,
non può assumere, in senso contrario, alcun rilievo quanto
asseritamente affermato in senso contrario dal CTU nominato
dal giudice civile (v. memoria di parte ricorrente, dep. il
12.06.2014).
Del resto, in più occasioni, si è anche affermato che
rendere praticabile il lastrico solare mediante apposizione
di scala di accesso e di ringhiere non costituisce “nuova
costruzione” né aumento di volumetria (v. Consiglio di
Stato, sez. V 02/07/2010 n. 4234; TAR Salerno–Campania -
sez. I 24/07/2013 n. 1680; TAR Genova, sez. I 11/07/2011 n.
1088)
(massima tratta da www.lexambiente.it -
TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 23.09.2014 n. 4999 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La nozione di "pertinenza urbanistica" è
meno ampia di quella definita dall'art. 817 c.c. e dunque
non può consentire la realizzazione di opere di grande
consistenza soltanto perché destinate al servizio di un bene
qualificato principale.
Infatti, il carattere pertinenziale in senso urbanistico va
riconosciuto alle opere che, per loro natura, risultino
funzionalmente ed esclusivamente inserite al servizio di un
manufatto principale, siano prive di autonomo valore di
mercato e non valutabili in termini di cubatura (o comunque
dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da non
poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal
manufatto cui accedono.
In tal senso, si è chiarito, con condivisibile orientamento,
che persino gli interventi consistenti nella installazione
di tettoie o di altre strutture analoghe che siano comunque
apposte a parti di preesistenti edifici come strutture
accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, cioè
non compresi entro coperture volumetriche previste in un
progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime
della concessione edilizia (oggi permesso di costruire)
soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte
dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità
di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti
atmosferici) dell'immobile cui accedono; tali strutture non
possono viceversa ritenersi installabili senza permesso di
costruire allorquando le loro dimensioni sono di entità tale
da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle
parti dello stesso su cui vengono inserite.
Quanto alla
qualificazione del manufatto come mera “pertinenza”,
l’argomento non ha pregio in quanto, come si è affermato in
molteplici occasioni (v., tra le altre, la Sentenza di
questa sezione n. 5519/2013), la nozione di "pertinenza
urbanistica" è meno ampia di quella definita dall'art.
817 c.c. e dunque non può consentire la realizzazione di
opere di grande consistenza soltanto perché destinate al
servizio di un bene qualificato principale.
Infatti, il carattere pertinenziale in senso urbanistico va
riconosciuto alle opere che, per loro natura, risultino
funzionalmente ed esclusivamente inserite al servizio di un
manufatto principale, siano prive di autonomo valore di
mercato e non valutabili in termini di cubatura (o comunque
dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da non
poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal
manufatto cui accedono (Consiglio Stato, sez. IV,
17.05.2010, n. 3127).
In tal senso, si è chiarito, con condivisibile orientamento,
che persino gli interventi consistenti nella installazione
di tettoie o di altre strutture analoghe che siano comunque
apposte a parti di preesistenti edifici come strutture
accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, cioè
non compresi entro coperture volumetriche previste in un
progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime
della concessione edilizia (oggi permesso di costruire)
soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte
dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità
di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti
atmosferici) dell'immobile cui accedono; tali strutture non
possono viceversa ritenersi installabili senza permesso di
costruire allorquando le loro dimensioni sono di entità tale
da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle
parti dello stesso su cui vengono inserite.
Ebbene, nel caso di specie, il manufatto (torrino) comporta,
come si è detto, un aumento di volumetria non irrilevante
anche in rapporto alla modifica della sagoma e del prospetto
dell’edificio, tale da non poter essere ritenuto ‘assorbito’
nel manufatto principale in senso urbanistico (TAR Campania
Napoli, sez. II, 29.01.2009, n. 492; TAR Campania Napoli,
sez. VII, 08.04.2011, n. 1999; v. pure il precedente di
questa Sezione, Sent. n. 16446/2010)
(TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 23.09.2014 n. 4999 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Deposito temporaneo e nozione di luogo di
produzione.
A norma dell'art. 183, comma 1, lett. aa),
d.lgs. 152/2006, il deposito temporaneo può essere
effettuato solo nel luogo di produzione del rifiuto,
dovendosi per tale intendere, nella sua accezione più lata,
quello che si trova nella disponibilità dell'impresa
produttrice e nel quale gli stessi sono depositati, purché
funzionalmente collegato al luogo di produzione
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.09.2014 n. 37843 -
tratto da e link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Trasformazione con opere di sottotetto in residenza
abitabile.
La trasformazione, con opere, del
sottotetto in residenza abitabile, comporta certamente la
modifica delle relative superfici che si trasformano da
superfici non residenziali in superfici residenziali,
qualificando così il regime edilizio della relativa modifica
di destinazione d'uso come ristrutturazione edilizia
soggetta a permesso di costruire ai sensi dell'art. 10,
comma 1, lett. b), d.P.R. 380/2001
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.09.2014 n. 37841 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni ambientali. Vincoli di inedificabilità assoluta o
relativa.
Ai fini della configurabilità del reato
paesaggistico non rileva la distinzione tra zone soggette a
vincolo di inedificabilità assoluta o relativa, atteso che
l'art. 181 d.lgs. 42/2004 sanziona i comportamenti su beni
individuati dallo stesso decreto, ovvero sia i beni tutelati
per legge ex art. 142, sia i beni soggetti a tutela in
ragione del loro notevole interesse pubblico ex art. 136
(Corte di
Cassazione, Sez.III penale,
sentenza
04.09.2014 n. 36853 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Intervento edilizio abusivo e buona fede.
Nell'ipotesi di esecuzione di un
intervento edilizio in assenza di permesso di costruire non
ricorrono gli estremi della buona fede con efficacia
esimente ex art. 5 c.p., nell’interpretazione datane dalla
Corte cast. con la sentenza n. 364/1988, allorquando
l’imputato abbia male interpretato una pur chiara
disposizione di legge e non si sia premurato di consultare
il competente ufficio per conoscere quali adempimenti egli
avrebbe dovuto compiere, erroneamente fermandosi il
convincimento soggettivo, sulla base di un provvedimento
della pubblica amministrazione riguardante opera edilizia
diversa da quella abusivamente realizzata, che non fosse
necessario alcun titolo abilitativo per la realizzazione di
quest’ultima (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.09.2014 n. 36852 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Modifica della destinazione d'uso originaria.
L'esecuzione di opere interne che
trasformino l'originaria destinazione di un locale (nella
specie un locale cantina destinato a mini-appartamento)
integra la fattispecie penale laddove priva di permesso per
costruire.
Solo laddove la modificazione della destinazione d'uso non
sia costituita da opere (anche interne) può ritenersi
sufficiente la semplice D.I.A. (oggi S.C.I.A.) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.09.2014 n. 36730 - tratto da e link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Interventi di consolidamento e continuità tra vecchia e
nuova costruzione.
La normativa sul condono postula la
permanenza dell'immobile da regolarizzare e non ammette, in
pendenza del procedimento, la demolizione e l'impiego di
materiali di costruzione diversi da quelli originari: la
diversità del materiale costruttivo impiegato comporta la
qualificazione dell'intervento come sostituzione edilizia,
mancando la continuità tra vecchia e nuova costruzione, che
caratterizza gli interventi di consolidamento, e la attuale
riconoscibilità del manufatto originario oggetto
dell'istanza di condono.
Va al riguardo richiamato il principio per il quale
l’istanza di condono va esaminata, qualora alla data di
emanazione del provvedimento esista ancora l’immobile che ne
è risultato oggetto.
Se invece l’immobile abusivo non è meramente integrato, ma è
sostituito da un altro edificio, l’istanza di condono già
proposta va dichiarata improcedibile per inesistenza
dell’oggetto e l’Amministrazione deve emanare il
provvedimento di demolizione del nuovo immobile, costruito
abusivamente in luogo di quello già realizzato sine
titulo.
La circostanza che la costruzione avesse subito una
trasformazione sostanziale (ammessa anche dal TAR che ha
fatto riferimento all’accertata non identità della
consistenza dei materiali con i quali erano stati realizzati
i manufatti oggetto delle due domande di concessione
edilizia in sanatoria), comporta dunque la conseguenza che
il manufatto oggetto della domanda di concessione del 1987
era stato demolito e ricostruito con materiali diversi,
costituendo così un manufatto nuovo rispetto al precedente.
Pertanto legittimamente il Comune di Quattro Castella,
nell’esaminare domanda di condono presentata dalla signora
T. nell’anno 1987, aveva dichiarato l’improcedibilità della
stessa perché relativa alla costruzione ormai demolita,
anche se ricostruita in un secondo tempo con materiali
diversi, non esistendo ormai più la precedente opera
edilizia, a prescindere dalla coincidenza o meno sotto il
profilo planimetrico, nonché strutturale, con la costruzione
per la quale era stato chiesto il condono.
Invero, in pendenza di procedimento di condono di un
manufatto, gli unici interventi edilizi consentiti su di
esso sono quelli diretti a garantirne l'integrità e la
conservazione; tali interventi, quindi, di regola non
possono spingersi sino alla demolizione e ricostruzione (né
totale né parziale), salvo che essi risultino in qualche
modo indispensabili (previa, in tal caso, necessaria
preventiva interlocuzione con l'Amministrazione al fine di
consentire a quest'ultima di stabilire quali siano i
caratteri e le esatte dimensioni del manufatto abusivo per
verificarne la condonabilità ed accertare che la successiva
ricostruzione sia effettivamente fedele al manufatto abusivo
preesistente).
La normativa sul condono postula la permanenza dell'immobile
da regolarizzare e non ammette, in pendenza del
procedimento, la demolizione e l'impiego di materiali di
costruzione diversi da quelli originari: la diversità del
materiale costruttivo impiegato comporta la qualificazione
dell'intervento come sostituzione edilizia, mancando la
continuità tra vecchia e nuova costruzione, che caratterizza
gli interventi di consolidamento, e la attuale
riconoscibilità del manufatto originario oggetto
dell'istanza di condono (Cass. pen., sez. III, 15.07.2005,
n. 26162).
E’ quindi legittima l’archiviazione della domanda di condono
relativa ad un primo fabbricato quando sia effettivamente
venuta meno l’opera per cui si riferiva la richiesta
(Consiglio di Stato, sez. IV, 24.12.2008, n. 6550),
soprattutto se la ricostruzione sia successiva alla data di
sbarramento fissata all'01.10.1983 dalla l. n. 47 del 1985
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.08.2014 n. 4386 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI
LOCALI - VARI: Autovelox solo con molti sinistri.
Una sentenza del Consiglio di stato.
Autovelox sì, ma soltanto sulle strade nelle quali ci sono
molti sinistri. Almeno per quanto riguarda i tratti
extraurbani, dove è il prefetto a dover indicare se si deve
procedere al rilevamento elettronico della velocità. È così
che se l'ufficio territoriale del Governo rileva che nella
zona «incriminata» non sussiste un alto «tasso di
incidentalità», il Tar non può accogliere il ricorso del
Comune, che ha paura di non poter far cassa con le multe.
E ciò sul mero rilievo che nel tratto di competenza
dell'ente locale le piazzole sono strette e non consentono
di fermarsi ai veicoli più lunghi.
È quanto emerge dalla
sentenza 26.08.2014 n. 4321, pubblicata dalla
III Sez. del
Consiglio di stato.
Il primo verdetto è rovesciato perché il
Tar ha invaso il campo del prefetto e dell'Anas con le
valutazioni sull'impossibilità di arrestare la marcia dei
veicoli nel tratto di competenza del Comune. Aveva ragione
il prefetto che ha applicato il criterio primario per il
posizionamento dei velox, verificando se in zona davvero
serve o meno un forte deterrente per far correre di meno gli
automobilisti
(articolo ItaliaOggi Sette del
29.12.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Certificato di agibilità e titolo edilizio: non v’è identità
di disciplina.
Come ribadito da recentissima
giurisprudenza non v’è necessaria identità di “disciplina”
tra titolo abilitativo edilizio e certificato di agibilità:
i detti diversi provvedimenti qui rilevanti, sono collegati
a presupposti diversi e danno vita a conseguenze
disciplinari non sovrapponibili.
Infatti, il certificato di agibilità ha la funzione di
accertare che l’immobile al quale si riferisce è stato
realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in
materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti (come
espressamente recita l’art. 24 del Testo unico
dell’edilizia), mentre il rispetto delle norme edilizie ed
urbanistiche è oggetto della specifica funzione del titolo
edilizio.
Il che comporta che i diversi piani ben possano convivere
sia nella forma fisiologica della conformità dell’edificio
ad entrambe le tipologie normative, sia in quella patologica
di una loro divergenza, infatti, si è affermata
l’illegittimità del diniego della agibilità motivato
unicamente con la difformità dell’immobile dal progetto
approvato, oppure, in senso opposto, l’irrilevanza del
rilascio del certificato di agibilità come fatto ostativo al
potere del sindaco di reprimere abusi edilizi, o alla revoca
di un eventuale precedente ordine di demolizione delle
opere.
Quanto alla questione della licenza di agibilità, ritiene il
Collegio di dovere articolare alcune brevi considerazioni in
parte complementari ed in parte sovrapponibili a quelle
appena rese.
Parte appellante si richiama alla ben nota giurisprudenza
secondo la quale in base all'art. 25, comma quarto, del
d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (T.U. Edilizia), il mancato
rilascio del certificato di agibilità entro il termine di
sessanta giorni decorrente dal momento di ricezione della
relativa istanza da parte del comune, determina la
formazione del silenzio assenso (ex aliis TAR
Lombardia Milano Sez. II, 30.08.2013, n. 2089) e richiama
una pronuncia regiudicata proprio in relazione allo
specifico immobile per cui è causa.
Osserva in proposito il Collegio che è ben vero che sulla
detta questione si è pronunciato in passato il Tar con la
sentenza 4838/2012 resa su ricorso della ditta Sepa
(promittente venditrice dell’immobile per cui è causa).
Ed è altresì ben corretta l’affermazione secondo cui, posto
che detta decisione sebbene non pronunciata anche nei
confronti dell’odierna parte appellata era a quest’ultima
ben nota essa avrebbe potuto eventualmente impugnarla, anche
ex art. 404 cpc e 108-109 cpa.
Sennonché, la semplice lettura della pronuncia regiudicata
in esame rende agevole comprendere che la stessa è stata
resa con riguardo ad una ben definita e specifica questione
(questo l’oggetto della controversia, siccome specificato
dallo stesso Tar nella decisione richiamata: “vista la
data di deposito dell’istanza -04.08.2011-, il
silenzio-assenso su di essa sarebbe maturato allo spirare
del sessantesimo giorno da tale data, ovvero il 04.10.2011;
la richiesta di integrazione non sarebbe stata idonea ad
interrompere il decorso di tale termine, essendo stata
predisposta -e notificata all’interessata- dopo il
quindicesimo giorno dall’istanza.”).
Come è noto, secondo un consolidato orientamento della
giurisprudenza (ex aliis Cons. Giust. Amm. Sic.,
29.02.2012, n. 225) “nel processo amministrativo, il
giudicato può formarsi solo in relazione a capi di sentenza
che si pronunciano sui motivi, e non può formarsi, invece,
laddove i motivi di ricorso non vengano esaminati perché
assorbiti.”
A fortiori non può considerarsi formato il giudicato
su motivi neppure mai prospettati.
Tanto vale a privare di condivisibilità la tesi
dell’appellante amministrazione, secondo cui il silenzio
assenso si sarebbe formato giusta la richiamata decisione
del Tar e, soprattutto, sarebbe un silenzio-assenso
sull’agibilità “a tutto tondo” inattaccabile, e che
non potrebbe risentire di successive manifestazioni di
autotutela in quanto precipitato vincolato del giudicato
formatosi (che è in sostanza, quanto invece paventa parte
appellata).
Ciò implica peraltro la condivisibilità, di converso, della
tesi dell’appellata, secondo cui laddove, in ipotesi,
venissero riscontrate le difformità del titolo abilitativo
da essa paventate (nel duplice senso della inidoneità di
quest’ultimo alla esecuzione delle opere, ovvero
dell’avvenuta esecuzione di opere difformi dalla Dia) tale
accertamento renderebbe doveroso l’esercizio dell’autotutela
anche sul silenzio-assenso formatosi sul certificato di
agibilità: effetto questo, non certo precluso dal giudicato
formatosi che, si ripete, attiene ad una limitata
fattispecie procedimentale.
Per altro verso, come ribadito da recentissima
giurisprudenza (Cons. Stato Sez. IV n. 1220/2014) non v’è
necessaria identità di “disciplina” tra titolo
abilitativo edilizio e certificato di agibilità: i detti
diversi provvedimenti qui rilevanti, sono collegati a
presupposti diversi e danno vita a conseguenze disciplinari
non sovrapponibili. Infatti, il certificato di agibilità ha
la funzione di accertare che l’immobile al quale si
riferisce è stato realizzato nel rispetto delle norme
tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene,
risparmio energetico degli edifici e degli impianti (come
espressamente recita l’art. 24 del Testo unico
dell’edilizia), mentre il rispetto delle norme edilizie ed
urbanistiche è oggetto della specifica funzione del titolo
edilizio.
Il che comporta che i diversi piani ben possano convivere
sia nella forma fisiologica della conformità dell’edificio
ad entrambe le tipologie normative, sia in quella patologica
di una loro divergenza (si ricordano episodi
giurisprudenziali in cui si è affermata l’illegittimità del
diniego della agibilità motivato unicamente con la
difformità dell’immobile dal progetto approvato –Consiglio
di Stato, sez. V, 06.07.1979 n. 479– oppure, in senso
opposto, l’irrilevanza del rilascio del certificato di
agibilità come fatto ostativo al potere del sindaco di
reprimere abusi edilizi – id., 03.02.1992 n. 87– o alla
revoca di un eventuale precedente ordine di demolizione
delle opere –id., 15 aprile 1977 n. 335) (massima tratta da
www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.08.2014 n. 4309 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Illegittimità della concessione edilizia per mancanza numero
minimo di parcheggi.
La riscontrata carenza dei posti auto
previsti dalle disposizioni in materia osta alla
realizzazione delle cubature assentite, con conseguente
illegittimità della concessione edilizia e dei volumi con
essa autorizzati.
È pertanto evidente, che non era ammissibile compensare, con
la parziale eccedenza delle dimensioni dello spazio a
disposizione, l'insufficiente numero di posti macchina
graficamente individuati nel progetto oggetto di concessione
edilizia, stante la sua vincolatività e dovendo le aree
destinate a parcheggio essere comunque previamente
individuate in sede di rilascio del titolo edilizio; ciò in
quanto la loro individuazione era obbligatoriamente prevista
per legge e sussiste la essenziale regola urbanistica che lo
spazio riservato a parcheggio va individuato già nel titolo
edilizio per evitare alternative incerte e soluzioni
pratiche volte a alterare aree immodificabilmente destinate
a tale utilizzazione.
Lo standard richiesto dalla normativa di settore esige
infatti non solo il rispetto del numero minimo dei
parcheggi, ma anche, e al contempo, la duratura conformità
della superficie di ciascuno di essi alle dimensioni minime
stabilite singolarmente e non complessivamente.
Osserva in proposito il Collegio che in primo grado, a
seguito della disposta C.T.U., è stato accertato che, in
riferimento alla volumetria di progetto, dovevano essere
previsti almeno 21 posti auto e che essi erano di fatto di
numero inferiore, anche se sussisteva una recuperabilità
altrove, stante la disponibilità di altri spazi utilizzabili
e la possibilità di una variante al progetto originario.
Sulla base di tali risultanze, il TAR ha ritenuto che l’acclarata
insufficienza degli spazi riservati a parcheggio, comprovata
dalla stessa richiesta di variante presentata in data
20.11.2002 dalla ditta controinteressata per la
realizzazione di una nuova disposizione delle aree destinate
a parcheggio ed a spazi di manovra, avesse carattere
assorbente ai fini dell’accoglimento del gravame nei limiti
degli interessi dei ricorrenti.
Ciò evidentemente in applicazione del principio per il quale
la riscontrata carenza dei posti auto previsti dalle
disposizioni in materia osta alla realizzazione delle
cubature assentite, con conseguente illegittimità della
concessione edilizia e dei volumi con essa autorizzati
(Consiglio di Stato, sez. IV, 28.05.2013, n. 2916).
Tanto premesso deve ritenersi che i punti centrali della
controversia siano costituiti in primo luogo dalla
sussistenza o meno del carattere tassativo e vincolante,
ovvero meramente indicativo e non vincolante, della
rappresentazione grafica dei posti macchina nei parcheggi
riportata nell’elaborato grafico del progetto nell’ipotesi
in cui sussista la disponibilità residua e sufficiente di
altre aree libere nel lotto di pertinenza; in secondo luogo
dalla rilevanza della circostanza dedotta dal Comune
appellante che l’assetto definitivo delle aree destinate a
parcheggio, che per legge ogni alloggio deve avere a
disposizione, doveva obbedire necessariamente a norme
imperative, che il costruttore non avrebbe potuto
disattendere nell’effettuare la vendita degli alloggi, pena
la nullità degli atti.
Va rilevato in proposito che, secondo l’art. 22, comma 1,
lettera d), della l. n. 241/1990, si intende per "documento
amministrativo", ogni rappresentazione grafica del
contenuto di atti detenuti da una pubblica amministrazione e
concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica
della loro disciplina sostanziale.
Quindi anche la parte grafica di un progetto ne costituisce
parte integrante, rappresentando essa un modo, per sé valido
ed efficace, per la valenza espressiva che ne è propria, per
fissare le intenzioni dei presentatori circa l’utilizzo
degli spazi a disposizione.
Anche in campo civilistico viene ritenuto che le piante
planimetriche allegate ai contratti aventi ad oggetto
immobili fanno parte integrante della dichiarazione di
volontà, quando ad esse i contraenti si siano riferiti nel
descrivere il bene, e costituiscono mezzo fondamentale per
l'interpretazione del negozio (Cassazione civile, sez. II,
03.03.2014, n. 4934).
Poiché il titolo edilizio scaturisce dalla compresenza tanto
della descrizione letterale dell'opera, contenuta nel testo
della concessione, quanto della sua rappresentazione
grafica, ricavabile dalle tavole progettuali, solo ed
esclusivamente in caso di discordanza tra quanto descritto
nella relazione tecnica allegata alla domanda di concessione
edilizia e quanto rappresentato graficamente nella tavola
progettuale, occorre dare prevalenza alla prima, in quanto
la valenza del dato letterale, ove il medesimo sia formulato
in modo chiaro, prevale su quella del segno grafico, in
analogia a quanto statuito dalla giurisprudenza
amministrativa (Consiglio di Stato, sez. IV, 22.03.2012, n.
1644) in tema di discordanza tra parte normativa e parte
grafica dei piani urbanistici.
In conclusione la parte grafica di un progetto costituisce
parte integrante del complesso dei segni grafici
rappresentativi della volontà manifestata dalla parte che
presenta lo stesso all’Amministrazione per la sua
approvazione ed è trasfusa nel documento redatto dal tecnico
competente.
L’art. 49 delle N.T.A. al P.R.G. all’epoca vigente nella
zona di interesse prescriveva, al IV comma, che gli spazi
per parcheggi includevano gli spazi per la sosta dei veicoli
(minimo mt. 2,50 x 5,50 ciascuno) e quelli necessari alla
manovra per l’accesso e la distribuzione dei veicoli.
E stato già accennato che è stato definitivamente acclarato
con la C.T.U. disposta in primo grado, e la circostanza non
è oggetto nemmeno di specifiche contestazioni delle parti
che, in riferimento alla volumetria di progetto, la
superficie destinata a parcheggio dovesse prevedere almeno
21 posti auto e che essi fossero di fatto di numero
inferiore, anche se sussisteva una recuperabilità altrove,
stante la disponibilità di altri spazi utilizzabili e la
possibilità di una variante al progetto originario.
È pertanto evidente, per le considerazioni in precedenza
espresse, che non era ammissibile compensare, con la
parziale eccedenza delle dimensioni dello spazio a
disposizione, l'insufficiente numero di posti macchina
graficamente individuati nel progetto oggetto di concessione
edilizia, stante la sua vincolatività e dovendo le aree
destinate a parcheggio essere comunque previamente
individuate in sede di rilascio del titolo edilizio; ciò in
quanto la loro individuazione era obbligatoriamente prevista
per legge e sussiste la essenziale regola urbanistica che lo
spazio riservato a parcheggio va individuato già nel titolo
edilizio per evitare alternative incerte e soluzioni
pratiche volte a alterare aree immodificabilmente destinate
a tale utilizzazione (Consiglio di Stato, sez. VI,
12.04.2013, n. 1995).
Lo standard richiesto dalla normativa di settore esige
infatti non solo il rispetto del numero minimo dei
parcheggi, ma anche, e al contempo, la duratura conformità
della superficie di ciascuno di essi alle dimensioni minime
stabilite singolarmente e non complessivamente.
Ciò vale ad escludere, ai fini del presente giudizio,
qualsiasi rilevanza attribuibile ad una supposta "adeguatezza"
di fatto, diversa dallo standard imposto, dei posti macchina
in esame, come pure alla circostanza, dedotta dal Comune
appellante, che l’assetto definitivo dei parcheggi doveva
obbedire necessariamente a norme imperative che il
costruttore non avrebbe potuto disattendere nell’effettuare
la vendita degli alloggi, pena la nullità degli atti, atteso
che concretamente, nella rappresentazione grafica allegata
all’approvato progetto essi figuravano in numero
insufficiente e ciò viziava la rilasciata concessione
edilizia.
Tanto comporta l’inconferenza del principio
giurisprudenziale richiamato nell’atto d’appello per il
quale gli spazi per parcheggi hanno natura pertinenziale
indifferentemente dalla loro localizzazione nell’ambito del
lotto, atteso che comunque tale localizzazione deve
precedere la concessione del titolo edilizio (massima tratta
da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 06.08.2014 n. 4215 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Combustione illecita.
A seguito dell'introduzione del delitto
di cui all'art. 256-bis, comma 2, d.lgs. 152/2006, la
combustione non autorizzata, quale modalità di smaltimento
dei rifiuti dolosamente perseguita all'esito dell'attività
di raccolta, trasporto e spedizione, qualifica le
corrispondenti condotte previste dagli artt. 256 e 259,
d.lgs. 152/2006, facendole assurgere a fattispecie autonoma
di reato, ancorché a tali fasi di gestione del rifiuto,
prodromiche alla combustione, non segua la combustione
stessa.
Il residuo illecito amministrativo di cui all'art. 256-bis,
comma 6, d.lgs. 152/2006, ha invece ad oggetto i rifiuti
vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e
aree cimiteriali di cui all'art. 184, lett. e), non dunque
la paglia, gli sfalci, le potature e il materiale agricolo o
forestale non pericoloso di cui all'art. 185, comma 1, lett.
f).
La condotta, però, deve avere ad oggetto rifiuti vegetali
abbandonati o depositati in modo incontrollato (tale il
senso del richiamo al comma 1°), non anche raccolti e
trasportati dallo stesso autore della combustione, poiché,
in tal caso, la condotta ricadrebbe nella previsione di cui
al comma 2° dello stesso art. 256-bis, d.lgs. cit.; ne
consegue che la condotta di autosmaltimento mediante
combustione illecita di rifiuti continua ad avere penale
rilevanza (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.08.2014 n. 34098 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abuso edilizio: l'ordinanza di demolizione colpisce anche
gli eredi.
L'ordinanza di demolizione deve essere
diretta a colpire il responsabile dell’abuso, ritenendo
quest’ultimo non soltanto chi abbia commissionato e
realizzato l’opera abusiva, ma anche chi abbia la effettiva
disponibilità dell’immobile abusivo.
Con la
sentenza 23.07.2014 n. 1995 la Sez. II del TAR
Sicilia–Palermo conferma il pacifico orientamento
giurisprudenziale in tema di demolizioni di opere abusive.
In particolare, l’abusività, totale o parziale, di un
fabbricato costituisce una caratteristica che pertiene
all’immobile e che lo connota negativamente a prescindere
dalla posizione psicologica del proprietario. In buona
sostanza, i giudici affermano –come si legge nella sentenza
in commento- che chi acquista un immobile abusivo lo
acquista nella obiettiva situazione di precarietà in cui si
trova e con i connessi oneri, come quello della demolizione
e/ della riduzione in pristino stato, dai quali è gravato a
causa ed in ragione del suo stato. Ciò esclude qualsiasi
rilevanza ad eventuali posizioni di buona fede che possano
caratterizzare alcuni soggetti.
Nel caso di specie, la polizia municipale del comune
interessato aveva redatto verbale da cui si ricavava la
realizzazione dell’opera abusiva ivi descritta.
Conseguentemente, il Comune emetteva ingiunzione di
demolizione a carico della proprietaria dell’immobile.
Successivamente al decesso di quest’ultima, il Comune
emetteva analoga ordinanza di demolizione ai 5 eredi
divenuti proprietari dell’immobile abusivo. Dopo aver
accertato la non esecuzione dell’ordinanza di demolizione,
il Comune disponeva l’acquisizione gratuita dell’opera
abusiva al patrimonio comunale.
Da qui il ricorso da parte degli eredi che, tuttavia, viene
ritenuto infondato dal TAR Sicilia–Palermo. Infatti, come
già visto, il giudice amministrativo ribadisce che in
materia di abusi edilizi, destinatario dell’ordine di
demolizione è quel soggetto che abbia la disponibilità
dell’opera, indipendentemente dal fatto che l’abbia
concretamente realizzata e che la figura del responsabile
dell’abuso non si identifica solo in colui che ha
materialmente seguito l’opera ritenuta abusiva, ma si
riferisce necessariamente anche a colui che di quell’opera
ha la materiale disponibilità e pertanto, quale detentore, è
in grado di provvedere alla demolizione restaurando così
l’ordine violato.
Chiarito ciò, il TAR Sicilia–Palermo richiama la
giurisprudenza che afferma che il proprietario di un bene
abusivo può “evitare” che l’ordinanza di acquisizione
gratuita al patrimonio comunale abbia effetto nei suoi
confronti solamente dimostrando in sede procedimentale di
non avere avuto (o di aver perduto) la concreta
disponibilità dell’immobile; e di essere stato, pertanto,
impossibilitato ad eseguire l’ingiunzione di demolizione.
Ciò che nel caso concreto non si è realizzato in quanto i
ricorrenti non hanno eseguito l’ordinanza di demolizione che
pur avevano legittimamente ricevuto sull’immobile abusivo di
cui avevano la piena disponibilità.
Pertanto, secondo i giudici siciliani, poiché l’acquisizione
gratuita al patrimonio comunale costituisce un atto
sanzionatorio dovuto da adottare a carico dei soggetti che
pur avendo la proprietà e la disponibilità del bene abusivo
non abbiano ottemperato all’ingiunzione di demolizione che
lo concerne, il provvedimento impugnato necessariamente
resiste sotto ogni profilo alle doglianze prospettate dai
ricorrenti stessi. Da qui la reiezione del ricorso e la
condanna per i ricorrenti al pagamento delle spese
processuali in favore del Comune resistente.
---------------
Edilizia, abuso,
demolizione, proprietario, eredi, disponibilità materiale.
Il proprietario di un bene abusivo può
“evitare” che l’ordinanza di acquisizione gratuita al
patrimonio comunale abbia effetto nei suoi confronti (rectius:
lo colpisca, determinando l’ablazione, a suo danno, del
diritto di proprietà) solamente dimostrando in sede
procedimentale di non avere avuto (o di aver perduto) la
concreta disponibilità dell’immobile e di essere stato,
pertanto, impossibilitato ad eseguire l’ingiunzione di
demolizione.
Allo stesso modo, chi acquista un immobile abusivo lo
acquista nella obiettiva situazione di precarietà in cui si
trova e con i connessi oneri (ad esempio: demolizione e/o
riduzione in pristino stato) dai quali è (o può essere)
gravato a cagione ed in ragione del suo stato (di bene
costruito illecitamente); è esclusa, pertanto, qualsiasi
rilevanza, ai fini di evitare la demolizione o la rimessa in
pristino stato (e/o di ottenere il condono o la sanatoria)
di eventuali posizioni di buona fede (id est: di ignoranza
in ordine alla sussistenza dell’abuso). (1)
---------------
(*) Riferimenti normativi: art. 31, d.P.R. 06.06.2001, n.
380.
(1) Cfr. TAR Campania-Napoli, sez. VIII, sentenza
01.10.2012, n. 4005
(link a www.altalex.com). |
APPALTI:
La configurabilità del reato di cui all’art. 353
c.p. va esclusa ogni qualvolta l’individuazione del
contraente non avvenga all’esito di una gara (anche
informale ed atipica), bensì mediante l’esercizio di
attività negoziale posta in essere dalla pubblica
amministrazione secondo le norme del diritto privato.
La possibilità di turbare la gara, dunque, esiste solo
laddove c’è la possibilità di influenzare negativamente il
regolare funzionamento di questo meccanismo; se esso manca,
non essendovi una gara, dovrà necessariamente escludersi una
sua turbativa.
14. Nel merito, i
ricorsi proposti dagli imputati sono fondati e vanno
pertanto accolti per le ragioni di seguito indicate.
14.1. Per quel che attiene alle doglianze difensive a vario titolo
mosse con riguardo alla individuazione come “gara”
della procedura ad evidenza pubblica che ha costituito
l’oggetto dei temi d’accusa delineati nell’ambito del
procedimento de quo, occorre anzitutto richiamare,
alla stregua di una pacifica linea interpretativa tracciata
da questa Suprema Corte, l’insegnamento giurisprudenziale
secondo cui il reato di turbata libertà degli incanti non è
configurabile nell’ipotesi di contratti conclusi dalla
pubblica amministrazione a mezzo di trattativa privata che
sia svincolata da ogni schema concorsuale, a meno che la
trattativa privata, al di là del “nomen juris”, si
svolga a mezzo di una gara, sia pure informale (Sez. 6^, n.
12238 del 30/09/1998, dep. 23/11/1998, Rv. 213033).
Siffatta evenienza, si è affermato in questa Sede, non
integra un’applicazione analogica della fattispecie
criminosa di cui all’art. 353 c.p. –vietata in materia
penale– in quanto non ne allarga l’ambito di applicazione,
bensì concreta una interpretazione estensiva, sulla base
dell'”eadem ratio” che la sorregge e che è unica,
volta com’è a garantire il regolare svolgimento sia dei
pubblici incanti e delle licitazioni private, sia delle gare
informali o di consultazione, le quali finiscono con il
realizzare, sostanzialmente, delle licitazioni private. In
difetto, però, di una reale e libera competizione tra più
concorrenti non può parlarsi di gara, come nel caso in cui
singoli potenziali contraenti, individualmente interpellati,
presentino ciascuno le proprie offerte e l’amministrazione
resti libera di scegliere il proprio contraente secondo
criteri di convenienza e di opportunità propri della
contrattazione tra privati (Sez. 6^, n. 12238 del
30/09/1998, dep. 23/11/1998, cit.).
Dalla fattispecie incriminatrice delineata dall’art. 353
c.p. sono pertanto escluse tutte quelle ipotesi in cui non
si svolge una gara in pubblici incanti o in licitazione
privata, ma all’aggiudicazione dell’appalto o della
fornitura a cui si addivenga mediante trattativa privata,
proprio in quanto manca, propriamente, una gara. Poiché
questa significa competizione, deve invece ritenersi la
sussistenza della gara anche in quelle procedure
amministrative cosiddette “informali” o di “consultazione”
nelle quali la pubblica amministrazione fa dipendere
l’aggiudicazione di opere, forniture o servizi dall’esito
dei contatti avuti con persone fisiche o rappresentanti di
quelle giuridiche le quali, consapevoli delle offerte di
terzi, propongono le proprie condizioni quale contropartita
di ciò che serve alla pubblica amministrazione. In tal caso
non vi è trattativa privata, perché la consapevolezza, per
l’offerente, di non essere il solo, innesca quella contesa
che è essenziale in ogni gara (Sez. 6^, n. 4741 del
31/10/1995, dep. 10/05/1996, Rv. 204646).
Siffatto orientamento è stato, in seguito, più volte ripreso
e confermato da questa Suprema Corte in relazione a varie
fattispecie concrete (Sez. 6^, n. 44829 del 22/09/2004, dep.
18/11/2004, Rv. 230522; Sez. 6^, n. 13124 del 28/01/2008,
dep. 27/03/2008, Rv. 239314; Sez. 6^, n. 29581 del
24/05/2011, dep. 22/07/2011, Rv. 250732), ritenendo la
configurabilità del reato in ogni situazione nella quale la
P.A. proceda all’individuazione del contraente mediante una
gara, quale che sia il “nomen iuris” conferito alla
procedura, ed anche in assenza di formalità.
Entro tale prospettiva, dunque, le locuzioni “gara nei
pubblici incanti” o “licitazione privata” non
hanno, propriamente, un significato normativo mutuato dalle
procedure per l’aggiudicazione degli appalti per pubbliche
forniture e con l’osservanza dei termini e delle
disposizioni legislative sulla contabilità di Stato, ma
vanno riferite ad ogni procedura di gara, anche informale ed
atipica, mediante la quale la singola pubblica
amministrazione decida di individuare il contraente e
concludere un contratto, assicurando una libera competizione
tra più concorrenti (Sez. 6^, n. 13124 del 28/01/2008, dep.
27/03/2008, cit.).
Il presupposto dell’interpretazione estensiva dell’art. 353
c.p., tuttavia, deve ricercarsi nella presenza di “qualificanti
forme procedimentali”, nel senso che, in loro difetto,
nonostante l’interpello di più soggetti, non è prestabilito
alcun meccanismo selettivo delle offerte e non viene in
rilievo alcuna forma di competizione e di concorrenza tra
gli offerenti, si rimane al di fuori dello schema
concettuale della “gara” e si è in presenza di una
semplice comparazione di offerte, che la P.A. è libera di
valutare come meglio crede, sia pure attraverso un
contestuale esame delle stesse.
La possibilità di turbare la gara, dunque, esiste solo
laddove c’è la possibilità di influenzare negativamente il
regolare funzionamento di questo meccanismo; se esso manca,
non essendovi una gara, dovrà necessariamente escludersi una
sua turbativa (Sez. 6^, n. 12238 del 30/09/1998, dep.
23/11/1998, cit.)
(Corte di
Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 21.07.2014 n. 32237 -
link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Titolo abilitativo necessario per il mutamento di
destinazione d'uso.
Il mutamento di destinazione d'uso è
assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché però intervenga
nell'ambito della stessa categoria urbanistica; mentre è
richiesto il permesso di costruire per le modifiche di
destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se
il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche
all'interno di una stessa categoria omogenea (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.07.2014 n. 31465 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Valutazione unitaria delle opere.
Gli interventi edilizi abusivi vanno
valutati nel loro complesso, non potendosi, in base al
concetto unitario di costruzione, considerare separatamente
i singoli componenti (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.07.2014 n. 30931
- tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rifiuti. Abbandono e momento consumativo del reato.
Non vi è dubbio che ogni qualvolta
l'attività di abbandono ovvero di deposito incontrollato di
rifiuti sia prodromica ad una successiva fase di smaltimento
ovvero di recupero del rifiuto stesso, caratterizzandosi,
pertanto, essa come una forma, per quanto elementare, di
gestione del rifiuto (della quale attività potrebbe dirsi
che essa costituisce il "grado zero"), la relativa illiceità
penale permea di sé l'intera condotta (quindi sia la fase
prodromica che quella successiva) integrando, pertanto, una
fattispecie penale di durata, la cui permanenza cessa
soltanto con il compimento delle fasi ulteriori rispetto a
quella di rilascio; tutto ciò con le derivanti conseguenza
anche a livello di decorrenza del termine prescrizionale.
Laddove, invece siffatta attività non costituisca
l'antecedente di una successiva fase volta al compimento di
ulteriori operazioni aventi ad oggetto, appunto lo
smaltimento od il recupero del rifiuto, ma racchiuda in se
l'intero disvalore penale della condotta, non vi è ragione
di ritenere che essa sia idonea ad integrare un reato
permanente; ciò in quanto, essendosi il reato pienamente
perfezionato ed esaurito in tutta le sue componenti
oggettive e soggettive, risulterebbe del tutto irragionevole
non considerarne oramai cristallizzati i profili dinamici
fin dal momento del rilascio del rifiuto, nessuna ulteriore
attività residuando alla descritta condotta di abbandono (Corte
di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 15.07.2014
n. 30910 tratto da
www.lexambiente.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocato
responsabile se non informa sui rischi. Obbligatorio
spiegare ai clienti gli effetti della strategia difensiva.
Serve un mandato consapevole della complessità della causa.
È responsabile verso il proprio cliente l’avvocato che non
lo informa dei rischi di un cambio di strategia difensiva
che comporta la sconfitta in giudizio.
Lo ha stabilito il
TRIBUNALE di Verona, Sez. III civile,
sentenza 04.07.2014, chiarendo che il legale è tenuto
a dimostrare di aver comunicato al proprio assistito tutti
gli elementi necessari a una valutazione completa. Nel caso
specifico, il cambio di domanda aveva comportato il rigetto
dell’istanza da parte del giudice.
Un avvocato, nello svolgimento dell’incarico ricevuto dal
cliente, deve rispondere sia per la qualità tecnica della
prestazione erogata, sia per le scelte processuali e
strategiche che ha ritenuto opportuno adottare.
Oltre a ciò, il professionista ha, verso il proprio
assistito, anche l’obbligo di spiegare le ragioni delle
proprie scelte e delle domande avanzate in giudizio, avendo
cura che il proprio cliente le abbia ben comprese e ne
conosca gli effetti sul piano delle possibili decisioni che
il giudice adotterà.
Questi principi sono stati ribaditi dal tribunale di Verona
che, con una recente sentenza, ha accolto il ricorso
presentato da due clienti contro l’avvocato che li aveva
assistiti in precedenza, lamentando i suoi errori
professionali per l’errata conduzione della difesa in
giudizio.
La vicenda
Gli attori hanno conferito mandato a un avvocato per
recuperare i canoni di occupazione per l’utilizzo
illegittimo di un loro terreno da parte di un’impresa di
telefonia la quale aveva installato, senza autorizzazione,
una antenna per telecomunicazioni. Nel corso del giudizio,
però, gli attori hanno revocato il mandato all’originario
difensore e lo hanno conferito a un nuovo avvocato.
Quest’ultimo, per propria scelta difensiva, ha modificato la
domanda originaria in un’azione che puntava a ottenere il
passaggio di proprietà del terreno alla società telefonica,
in forza di un contratto preliminare di acquisto non
onorato.
Ma il tribunale ha ritenuto la domanda come modificata “in
corso d’opera” del tutto nuova e quindi inammissibile,
condannando gli attori al pagamento delle spese processuali
della società convenuta.
I proprietari del terreno hanno quindi fatto causa al
secondo avvocato per ottenere il risarcimento del danno per
inadempimento del contratto di prestazione d’opera
intellettuale.
La valutazione
Il tribunale di Verona è stato chiamato a valutare la
condotta professionale del legale sotto l’aspetto sia della
qualità dell’assistenza fornita, sia per quanto riguarda la
compiuta informativa ai clienti, i quali lamentavano di non
essere stati aggiornati del cambio di strategia difensiva e
del mutamento della domanda in giudizio. I giudici hanno
esaminato distintamente i due profili:
-
sotto il primo aspetto, il tribunale valuta errata in
diritto la scelta di cambiare i termini della domanda perché
tale opzione è concessa nel processo solo per modificare e
precisare meglio il contenuto di quanto già esposto
nell’atto di citazione e non, come nel caso esaminato, per
esercitare di fatto un diritto del tutto diverso;
-
sotto il secondo aspetto, l’avvocato difensore è soprattutto
responsabile verso il proprio assistito, quando,
prescindendo dalla correttezza delle scelte processuali,
omette di spiegare al cliente le possibili conseguenze delle
stesse, avendo il tribunale accertato che «il convenuto è
risultato anche reiteratamente inadempiente all’obbligo
contrattuale di informare i propri assistiti del significato
e delle conseguenze delle scelte compiute».
Rileva il giudice che «sul punto è opportuno chiarire che
l’esigenza dell’attività informativa del professionista
nella fase pre-contrattuale è funzionale a conseguire un
consenso informato da parte del cliente e trova il suo
fondamento nei principi che prevedono tra gli obblighi
informativi che il professionista forense deve osservare,
prima del formale conferimento dell’incarico, anche quello
di comunicare al cliente il grado di complessità
dell’incarico e di fornirgli tutte le informazioni utili
circa gli oneri ipotizzabili da quel momento fino a quello
dell’esaurimento della propria attività».
È dunque compito dell’avvocato dimostrare di avere adempiuto
all’onere di informativa (né, come nel caso esaminato, può
essere sufficiente conferire con il cliente utilizzando
brocardi latini, non di corrente uso quotidiano) e provare
di avere ottenuto dal proprio assistito non un qualunque
consenso all’azione, ma un idoneo mandato cosciente e
consapevole delle complessità della causa e dei suoi rischi (articolo Il Sole 24 Ore del
22.12.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sull'inerzia di un comune nel reprimere un abuso edilizio a
seguito di segnalazione in Procura e conseguente condanna
penale del Sindaco.
A seguito di esposto all'Autorità
Giudiziaria per presunti abusi edilizi,
è scaturito un
procedimento penale che si è concluso in primo grado con la
condanna del sindaco (nel doppio ruolo di sindaco e di
responsabile del Servizio Urbanistica) a due anni di
reclusione per abuso d’ufficio.
In particolare, la sentenza di condanna ha accertato che il
sindaco:
(i) ha rilasciato ai proprietari del residence (per gli abusi
riguardanti le autorimesse interrate, le piscine e le
difformità rispetto al titolo edilizio) un permesso di
costruire in sanatoria che deve essere qualificato come
illegittimo, in quanto le opere si collocano nel perimetro
del Parco Alto Garda Bresciano e dunque sarebbe stato
necessario acquisire prima dei lavori l’autorizzazione
paesistica della Comunità Montana;
(ii) ha omesso di reprimere gli abusi edilizi nonostante le
segnalazioni pervenute dai privati e le osservazioni della
Regione, assicurando in questo modo un vantaggio ai
proprietari del residence e provocando un danno ai fondi
limitrofi.
E proprio sull'inerzia del comune nel dover reprimere gli
abusi edilizi, circa l’'autotutela
in materia di atti amministrativi risulta che:
- il riesame fa parte del potere di vigilanza sull’attività
edilizia, che compete ai responsabili degli uffici tecnici
comunali in base all’art. 27, commi 1 e 2, del DPR
06.06.2001 n. 380. Il suddetto potere deve essere esercitato
sia nell’ambito delle normali verifiche sulle nuove attività
edificatorie sia quando pervenga agli uffici la notizia di
abusi o irregolarità. L’esercizio del potere è obbligatorio,
essendo preordinato alla tutela di interessi pubblici.
- tra le modalità di esercizio del potere si colloca anche
l’autotutela nei confronti dei permessi di costruire o degli
altri titoli edilizi, qualora in relazione agli stessi siano
stati sollevati dubbi di legittimità da parte di terzi che
ritengano di subire un danno a causa dell’attività
edificatoria autorizzata.
- non costituisce legittima esimente per il mancato
svolgimento della verifica in autotutela la circostanza che
i terzi asseritamente danneggiati si siano limitati a
presentare denunce o segnalazioni senza impugnare i titoli
edilizi davanti al giudice amministrativo. Vige infatti un
sistema di doppia tutela per i soggetti che subiscono le
conseguenze dell’attività edilizia altrui:
(a) diretta, se viene promosso un ricorso giurisdizionale
per ottenere l’annullamento del titolo edilizio ritenuto
illegittimo;
(b) indiretta, se i terzi preferiscono attivare il potere di
autotutela dell’amministrazione, proteggendo i propri
diritti nei limiti delle valutazioni sull’interesse pubblico
svolte dagli uffici comunali. Le due vie possono essere
percorse cumulativamente o alternativamente, senza
preclusioni, ferma restando la prevalenza delle statuizioni
di annullamento o conformative contenute nell’eventuale
sentenza del giudice amministrativo.
Sicché,
dalle motivazioni della sentenza penale sembra
emergere il seguente quadro fattuale:
(a) sul piano formale, le piscine e le autorimesse interrate sono
state realizzate senza alcun titolo edilizio, e i balconi
sono difformi rispetto al permesso di costruire originario;
(b) sul piano sostanziale, le piscine costituiscono un manufatto
non espressamente contemplato dalle NTA, il che richiede
un’attività di interpretazione della disciplina urbanistica,
e le autorimesse interrate sporgono dal livello di campagna,
con i conseguenti problemi di individuazione della quota
originaria rilevante ai fini edilizi;
(c) sotto il profilo paesistico, manca la preventiva autorizzazione
della Comunità Montana.
Il Comune deve quindi avviare un procedimento amministrativo
con il seguente contenuto:
(a) effettuare un’esatta ricognizione delle opere eseguite
abusivamente, intendendosi per tali quelle che non erano
previste nel permesso di costruire originario, o erano
previste con caratteristiche diverse;
(b) esaminare ciascuna delle opere abusive sotto il profilo
urbanistico per stabilire se vi siano i presupposti per
l’accertamento di conformità ex art. 36 del DPR 380/2001;
(c) verificare se effettivamente sia mancata l’autorizzazione
paesistica, preventiva o in sanatoria, per le suddette
opere;
(d) esaminare ciascuna delle opere abusive sotto il profilo
paesistico per stabilire se vi siano i presupposti per
l’accertamento della compatibilità paesistica ex art. 167,
comma 4, del Dlgs. 22.01.2004 n. 42;
(e) coinvolgere in quest’ultimo aspetto la Comunità Montana,
competente al rilascio dell’autorizzazione paesistica in
sanatoria, e la Soprintendenza, per il parere vincolante ai
sensi dell’art. 167, comma 5, del Dlgs. 42/2004;
(f) pronunciarsi quindi definitivamente sull’intera vicenda con un
provvedimento di sanatoria (totale, parziale, o con
eventuali prescrizioni) oppure con un ordine di rimessione
in pristino (totale o parziale).
... per l'accertamento del silenzio-inadempimento del Comune
in relazione agli abusi edilizi indicati dai ricorrenti
nella nota del 23.07.2013 e oggetto di un procedimento
penale definito in primo grado.
...
1. I ricorrenti H.W. e A.W. sono proprietari di un immobile
situato nel Comune di Tremosine e confinante con il
residence ..., di proprietà dei controinteressati.
2. Negli anni 2002-2003 il residence (che in precedenza era
un albergo in condizioni di degrado) è stato interessato da
lavori di demolizione e ricostruzione, con la realizzazione
aggiuntiva di autorimesse interrate, balconi e due piscine.
3. Ritenendo non regolari i lavori, i ricorrenti avevano
fatto all’epoca una segnalazione all’autorità giudiziaria.
Da tale segnalazione (e da analoghe denunce di altri
soggetti) è scaturito un procedimento penale che si è
concluso in primo grado con la condanna del sindaco (nel
doppio ruolo di sindaco e di responsabile del Servizio
Urbanistica) a due anni di reclusione per abuso d’ufficio
(Trib. Brescia 29.11.2011 n. 3128).
4. In particolare, la predetta sentenza ha accertato che il
sindaco:
(i) ha rilasciato ai proprietari del residence (per gli abusi
riguardanti le autorimesse interrate, le piscine e le
difformità rispetto al titolo edilizio) un permesso di
costruire in sanatoria che deve essere qualificato come
illegittimo, in quanto le opere si collocano nel perimetro
del Parco Alto Garda Bresciano e dunque sarebbe stato
necessario acquisire prima dei lavori l’autorizzazione
paesistica della Comunità Montana;
(ii) ha omesso di reprimere gli abusi edilizi nonostante le
segnalazioni pervenute dai privati e le osservazioni della
Regione, assicurando in questo modo un vantaggio ai
proprietari del residence e provocando un danno ai fondi
limitrofi.
5. Con nota del 23.07.2013 i ricorrenti hanno invitato il
Comune a conformarsi alla sentenza penale, e a reprimere di
conseguenza gli abusi edilizi mediante ordini di
demolizione.
6. Gli uffici comunali non hanno però provveduto in questo
senso. Nei giorni 12 e 30.08.2013 sono stati invece
effettuati dei sopralluoghi presso l’abitazione dei
ricorrenti per l’accertamento di eventuali irregolarità
edilizie.
7. Contro il silenzio mantenuto dal Comune sulla questione
degli abusi presso il residence ... i ricorrenti hanno
esercitato l’azione ex art. 117 cpa con atto notificato il
16.01.2014 e depositato il 22.01.2014.
...
9. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si
possono svolgere le seguenti considerazioni.
Premesse
10. Poiché la sentenza penale è stata impugnata, la
responsabilità del sindaco non risulta accertata in via
definitiva.
11. La durata dell’appello non può però essere un tempo di
inerzia per il Comune, che ha ormai acquisito, sia in
conseguenza delle denunce dei privati sia attraverso la
sentenza penale di primo grado, elementi sufficienti per
avviare il riesame degli abusi edilizi in sede
amministrativa.
Sull’autotutela
12. Il riesame fa parte del potere di vigilanza
sull’attività edilizia, che compete ai responsabili degli
uffici tecnici comunali in base all’art. 27, commi 1 e 2,
del DPR 06.06.2001 n. 380. Il suddetto potere deve essere
esercitato sia nell’ambito delle normali verifiche sulle
nuove attività edificatorie sia quando pervenga agli uffici
la notizia di abusi o irregolarità. L’esercizio del potere è
obbligatorio, essendo preordinato alla tutela di interessi
pubblici.
13. Tra le modalità di esercizio del potere si colloca anche
l’autotutela nei confronti dei permessi di costruire o degli
altri titoli edilizi, qualora in relazione agli stessi siano
stati sollevati dubbi di legittimità da parte di terzi che
ritengano di subire un danno a causa dell’attività
edificatoria autorizzata.
14. Non costituisce legittima esimente per il mancato
svolgimento della verifica in autotutela la circostanza che
i terzi asseritamente danneggiati si siano limitati a
presentare denunce o segnalazioni senza impugnare i titoli
edilizi davanti al giudice amministrativo. Vige infatti un
sistema di doppia tutela per i soggetti che subiscono le
conseguenze dell’attività edilizia altrui:
(a) diretta, se viene promosso un ricorso giurisdizionale
per ottenere l’annullamento del titolo edilizio ritenuto
illegittimo;
(b) indiretta, se i terzi preferiscono attivare il potere di
autotutela dell’amministrazione, proteggendo i propri
diritti nei limiti delle valutazioni sull’interesse pubblico
svolte dagli uffici comunali. Le due vie possono essere
percorse cumulativamente o alternativamente, senza
preclusioni, ferma restando la prevalenza delle statuizioni
di annullamento o conformative contenute nell’eventuale
sentenza del giudice amministrativo.
Sui rapporti con il giudizio penale
15. La pendenza dell’appello davanti al giudice penale non
attenua l’obbligo di procedere al riesame della situazione
degli abusi in sede amministrativa. In effetti, il riesame
può prescindere dall’accertamento della responsabilità
penale del sindaco. Se questa fosse provata anche nei
successivi gradi di giudizio vi sarebbe un profilo di
sviamento dell’azione amministrativa che costituirebbe un
vizio autonomo del permesso di costruire in sanatoria.
Questo vizio, di carattere soggettivo, si aggiungerebbe a
quelli già sottolineati nella sentenza penale di primo
grado, i quali hanno invece un rilievo amministrativo di
natura oggettiva (mancanza di autorizzazione paesistica
preventiva, difformità urbanistica, difformità dal permesso
di costruire originario).
16. È su questi profili oggettivi, del tutto simili a quelli
che si presentano nelle ordinarie controversie in materia
edilizia e paesistica, che l’amministrazione deve ora
concentrare la propria attenzione. Alcuni fatti sono già
stati focalizzati nella sentenza penale, e altri potranno
essere approfonditi attraverso indagini condotte
direttamente dagli uffici comunali.
Sul contenuto della verifica rimessa agli uffici comunali
17. Dalle motivazioni della sentenza penale sembra emergere
il seguente quadro fattuale:
(a) sul piano formale, le piscine e le autorimesse interrate sono
state realizzate senza alcun titolo edilizio, e i balconi
sono difformi rispetto al permesso di costruire originario;
(b) sul piano sostanziale, le piscine costituiscono un manufatto
non espressamente contemplato dalle NTA, il che richiede
un’attività di interpretazione della disciplina urbanistica,
e le autorimesse interrate sporgono dal livello di campagna,
con i conseguenti problemi di individuazione della quota
originaria rilevante ai fini edilizi;
(c) sotto il profilo paesistico, manca la preventiva autorizzazione
della Comunità Montana.
18. Il Comune deve quindi avviare un procedimento
amministrativo con il seguente contenuto:
(a) effettuare un’esatta ricognizione delle opere eseguite
abusivamente, intendendosi per tali quelle che non erano
previste nel permesso di costruire originario, o erano
previste con caratteristiche diverse;
(b) esaminare ciascuna delle opere abusive sotto il profilo
urbanistico per stabilire se vi siano i presupposti per
l’accertamento di conformità ex art. 36 del DPR 380/2001;
(c) verificare se effettivamente sia mancata l’autorizzazione
paesistica, preventiva o in sanatoria, per le suddette
opere;
(d) esaminare ciascuna delle opere abusive sotto il profilo
paesistico per stabilire se vi siano i presupposti per
l’accertamento della compatibilità paesistica ex art. 167,
comma 4, del Dlgs. 22.01.2004 n. 42;
(e) coinvolgere in quest’ultimo aspetto la Comunità Montana,
competente al rilascio dell’autorizzazione paesistica in
sanatoria, e la Soprintendenza, per il parere vincolante ai
sensi dell’art. 167, comma 5, del Dlgs. 42/2004;
(f) pronunciarsi quindi definitivamente sull’intera vicenda con un
provvedimento di sanatoria (totale, parziale, o con
eventuali prescrizioni) oppure con un ordine di rimessione
in pristino (totale o parziale).
Sui termini della procedura
19. Per l’avvio del procedimento, nel quale devono essere
coinvolti anche i ricorrenti, e per lo svolgimento delle
attività indicate al punto 18 come (a)-(b)-(c)-(d) viene
stabilito il termine di 60 giorni dal deposito della
presente sentenza, tenuto conto della complessità degli
adempimenti.
Per la successiva fase (e) viene stabilito il termine di 120
giorni, decorrente dalla scadenza del termine precedente,
tenuto conto della necessità di coinvolgere altre
amministrazioni. Per la fase finale (f) viene stabilito il
termine di 30 giorni, decorrente dalla scadenza del termine
precedente.
Conclusioni
20. Il ricorso, previo accertamento del carattere
illegittimo del silenzio mantenuto dal Comune, deve essere
accolto come precisato sopra, con la fissazione di un
calendario di adempimenti a carico degli uffici comunali
(TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 17.06.2014 n. 657
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Jus aedificandi.
L’art. 9 del dpr n. 380/2001, disciplinando l’utilizzo delle
aree per le quali non risulta intervenuta l’approvazione di
uno strumento attuativo, si limita a trarne una restrizione
consequenziale sul tipo di interventi realizzabili in
assenza del medesimo, ma non smentisce il principio
emergente della non subordinabilità dello “ius aedificandi”
a future scelte urbanistiche di dettaglio e completamento
pianificatorio.
Questo orientamento resta ancora valido,
quale principio generale a tutela dello “ius aedificandi”,
ma nella sua effettiva e limitata portata di non consentire
che l’assenza dello strumento attuativo possa prolungarsi
“sine die”; ma tale portata non può certamente essere estesa
sino a configurare un dovere per l’amministrazione, nelle
more della pianificazione attuativa, di rilasciare il
permesso di costruzione in zone sostanzialmente carenti
delle opere in questione.
La giurisprudenza ha da tempo
affermato che non è sufficiente un qualunque stadio di
urbanizzazione, anche di fatto, per eludere l’obbligo della
previa redazione dello strumento attuativo.
Per contro,
nella predetta situazione, l’ordinamento (che peraltro offre
rimedi sollecitatori delle potestà pianificatorie) pone a
carico del soggetto che chiede il permesso l’onere di
documentare l’esistenza di sufficienti opere di
urbanizzazione primaria e secondaria o, può aggiungersi, di
indicare ed accollarsi, ma sempre nelle forme di legge, il
compimento di quelle opere risultanti carenti.
L’art. 9 del dpr n. 380/2001, disciplinando l’utilizzo delle
aree per le quali non risulta intervenuta l’approvazione di
uno strumento attuativo, si limita a trarne una restrizione
consequenziale sul tipo di interventi realizzabili in
assenza del medesimo, ma non smentisce il principio
emergente da Cons. di Stato, a.p., n. 12/1992 della non
subordinabilità dello “ius aedificandi” a future
scelte urbanistiche di dettaglio e completamento
pianificatorio. Questo orientamento resta ancora valido,
quale principio generale a tutela dello “ius aedificandi”,
ma nella sua effettiva e limitata portata di non consentire
che l’assenza dello strumento attuativo possa prolungarsi “sine
die”; ma tale portata non può certamente essere estesa
sino a configurare un dovere per l’amministrazione, nelle
more della pianificazione attuativa, di rilasciare il
permesso di costruzione in zone sostanzialmente carenti
delle opere in questione.
Del resto, la giurisprudenza ha da tempo affermato che non è
sufficiente un qualunque stadio di urbanizzazione, anche di
fatto, per eludere l’obbligo della previa redazione dello
strumento attuativo. Per contro, nella predetta situazione,
l’ordinamento [che peraltro offre rimedi sollecitatori delle
potestà pianificatorie (cfr. Cons. St., sez. IV, n.
6625/2008)] pone a carico del soggetto che chiede il
permesso l’onere di documentare l’esistenza di sufficienti
opere di urbanizzazione primaria e secondaria (v. Cons. di
Stato, sez. V, n. 790/2001) o, può aggiungersi, di indicare
ed accollarsi, ma sempre nelle forme di legge, il compimento
di quelle opere risultanti carenti.
Nella fattispecie, la prima situazione (assenza di opere
sufficienti) risulta da una specifica certificazione
dell’autorità comunale che attesta di non aver mai
provveduto alla realizzazione delle opere in parola.
Cionondimeno, lo “ius aedificandi” del proprietario,
che pur non ha documentalmente smentito l’insufficienza
delle opere, non risulta irrimediabilmente precluso ma solo
subordinato, nella possibilità di espansione, alla seconda
opzione, che cioè le opere mancanti (o insufficienti) siano
realizzate mediante uno strumento consensuale tra parte
pubblica e privata (ad es. accordi di pianificazione, piano
di iniziativa privata, regolante i rispettivi oneri
economici).
Certo è che non è praticabile la terza via, chiesta dai
ricorrenti, la quale darebbe luogo ad un permesso di
costruzione che rappresenterebbe un uso del territorio
inammissibile in quanto avulso da ordinati ed effettivamente
attuati parametri di sviluppo urbanistico. Che poi la zona
sia stata interessata da un elevato livello di
urbanizzazione in punto di fatto, come avvenuto per molte
zone del territorio italiano, è situazione del tutto esterna
alla legalità urbanistica quanto al presente contenzioso.
Sotto il profilo giuridico, dunque, l’art. 9 del dpr n.
380/2001 non permetteva il rilascio del permesso in
questione. Del resto la Sezione, ad estrinsecazione della
predetta norma, ha già avuto occasione di affermare (Cons.
di Stato, n. 3699/2010), confermando una sentenza del TAR
Campania (sezione II, n. 6669/2007):
- "che quando lo strumento urbanistico generale prevede
che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di
livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può
essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento
esecutivo” sia venuto ad esistenza giuridica (cfr. Cons.
St., sez. V, n. 300/1997);
- “che in presenza di una normativa urbanistica generale
che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una
determinata zona l’esistenza di un piano attuativo, non è
consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla
situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa
(cfr. Cons. St., sez. IV, 03.11.2008, n. 5471)”;
- che “la valutazione circa la congruità del grado di
urbanizzazione” è rimessa all’esclusivo apprezzamento
discrezionale del Comune (cfr. Cons. St., sez. IV, n.
4276/2007) (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.06.2014 n. 3119 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rumore. Attività di discoteca.
Integra il reato previsto dall'art. 659,
comma primo, cod. pen., l'esercizio di una discoteca i cui
rumori, in ora notturna, provocano disturbo al riposo delle
sole persone abitanti nell'edificio in cui è ubicato il
locale, se il fastidio non è limitato agli appartamenti
attigui alla sorgente rumorosa, in quanto la propagazione
delle emissioni sonore estesa all'intero fabbricato è
sintomatica di una diffusa attitudine offensiva e della
idoneità a turbare la pubblica quiete (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.06.2014 n. 23529
- tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Condono edilizio, certificato di abitabilità e
salubrità dell’immobile.
Il rilascio del certificato di abitabilità di un fabbricato
conseguente al condono edilizio, può legittimamente avvenire
in deroga solo a norme regolamentari e non anche quando
siano carenti le condizioni di salubrità richieste da fonti
normative di livello primario, in quanto la disciplina del
condono edilizio, per il suo carattere eccezionale e
derogatorio, non è suscettibile di interpretazioni estensive
e, soprattutto, tali da incidere sul fondamentale principio
della tutela della salute con evidenti riflessi sul piano
della legittimità costituzionale.
Permangono, infatti, in
capo ai Comuni tutti gli obblighi inerenti alla verifica
delle condizioni igienico-sanitarie per l’abitabilità degli
edifici, con l’unica possibile deroga ai requisiti fissati
da norme regolamentari.
D’altra parte il certificato di
abitabilità non serve ad abilitare l’immobile ad un certo
uso piuttosto che ad un altro, giacché dopo il D.P.R. 22.04.1994, n. 425, non è previsto un certificato di
abitabilità specializzato, così che l’abitabilità riguarda
solo la salubrità dell’immobile, e quindi il solo manufatto
edilizio e non l’attività che viene svolta; il rilascio del
certificato di abitabilità è pertanto condizionato non solo
alla salubrità degli ambienti, ma anche alla conformità
edilizia dell’opera, sicché, attesa la presunzione iuris
tantum di legittimità degli atti amministrativi, col
rilascio del permesso di abitabilità devono intendersi
verificate, salvo prova contraria, entrambe le suddette
condizioni, senza necessità di produrre ulteriori
certificati.
La Sezione non
intende discostarsi dal consolidato indirizzo
giurisprudenziale (C.d.S., sez. V, 13.04.1999, n. 414; 15.04.2004, n. 2140) a tenore del quale “…il rilascio del
certificato di abitabilità di un fabbricato conseguente al
condono edilizio (ai sensi dell’art. 35, comma 20, della
legge n. 47 del 1985), può legittimamente avvenire in deroga
solo a norme regolamentari e non anche quando siano carenti
le condizioni di salubrità richieste da fonti normative di
livello primario, in quanto la disciplina del condono
edilizio, per il suo carattere eccezionale e derogatorio,
non è suscettibile di interpretazioni estensive e,
soprattutto, tali da incidere sul fondamentale principio
della tutela della salute con evidenti riflessi sul piano
della legittimità costituzionale”; ciò del resto è stato
ritenuto coerente con quanto affermato dalla Corte
Costituzionale con la sentenza n. 256 del 1996, ad avviso
della quale la deroga introdotta dall’articolo 35 della
legge n. 47 del 1985 “…non riguarda i requisiti richiesti da
disposizioni legislative e deve, pertanto, escludersi una
automaticità assoluta nel rilascio del certificato di
abitabilità…a seguito di concessione in sanatoria, dovendo
invece il Comune verificare che al momento del rilascio del
certificato di abitabilità siano osservate non solo le
disposizioni di cui all’art. 221 T.U. delle leggi sanitarie
(rectius, di cui all’art. 4 del D.P.R. 425/1994), ma, altresì
quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di
abitabilità e servizi essenziali relativi e rispettiva
normativa tecnica…Permangono, infatti, in capo ai Comuni
tutti gli obblighi inerenti alla verifica delle condizioni
igienico–sanitarie per l’abitabilità degli edifici, con
l’unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme
regolamentari” (C.d.S., sez. V, 15.04.2004, n. 2140).
D’altra parte il certificato di abitabilità non serve ad
abilitare l’immobile ad un certo uso piuttosto che ad un
altro, giacché dopo il D.P.R. 22.04.1994, n. 425, non è
previsto un certificato di abitabilità specializzato, così
che l’abitabilità riguarda solo la salubrità dell’immobile (C.G.A.,
13.10.1999, n. 469) e quindi il solo manufatto edilizio
e non l’attività che viene svolta (C.d.S., sez. V, 03.06.1996, n. 613); il rilascio del certificato di abitabilità è
pertanto condizionato non solo alla salubrità degli
ambienti, ma anche alla conformità edilizia dell’opera,
sicché, attesa la presunzione iuris tantum di legittimità
degli atti amministrativi, col rilascio del permesso di
abitabilità devono intendersi verificate, salvo prova
contraria, entrambe le suddette condizioni, senza necessità
di produrre ulteriori certificati (Cass. Civ., sez. II, 12.10.2012, n. 17498).
Ciò precisato, anche l’impugnato diniego di
autorizzazione all’agibilità dei locali oggetto del
(diniego) di condono edilizio non può essere considerato
illegittimo.
Invero non solo l’amministrazione comunale di Livigno aveva
correttamente rilevato nella richiesta di rilascio del
certificato di agibilità avanzata dalla società interessata
la mancata produzione della documentazione a tal fine
prescritta dall’art. 4 del D.P.R. n. 425 del 1994,
documentazione necessaria anche nel caso di condono
edilizio, per quanto presupposto di tale certificato è
proprio l’effettivo condono edilizio che nel caso di specie
è stato legittimamente negato, potendo rinviarsi sul punto
alle considerazioni scolte nel precedente paragrafo VI (massima tratta da
www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
03.06.2014 n. 3034 -
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EDILIZIA PRIVATA:
E’ stato rilevato che ai fini del
condono edilizio la realizzazione dell’opera abusiva, alla
data del 31.12.1993, è identificabile se l’immobile è già
eseguito, sia pure al rustico in tutte le sue strutture
essenziali, fra le quali devono essere comprese le
tamponature che sono necessarie per stabilire la relativa
volumetria e la sagoma esterna, aggiungendosi che, per
quanto riguarda le opere interne o quelle non destinate ad
uso non residenziale, la loro ultimazione è da ricollegare
al loro completamento funzionale, inteso nel senso della
sussistenza delle opere indispensabili a rendere
effettivamente possibile l’uso per il quale sono state
realizzate (o l’uso diverso da quello a suo tempo assentito
o incompatibile con l’originaria destinazione d’uso, nel
caso di mutamento di quest’ultimo).
Posto poi che la distinzione tra ultimazione a rustico e
completamento funzionale deve essere eseguita in concreto e
non in astratto, non essendo sufficiente la qualificazione
della parte a determinare oggettivamente il contenuto dei
lavori eseguiti, sempre ai fini del condono edilizio, è
stato sottolineato che è onere del richiedente il condono
edilizio provare che l’opera sia stata completata entro la
data utile fissata della legge, non essendo a tal fine
sufficiente la sola dichiarazione sostitutiva dell’atto
notorio, che deve essere supportata da ulteriori riscontri
documentali, eventualmente indiziari, purché altamente
probanti (C.d.S., sez. IV, 06.06.2001, n. 3067; così del
resto anche sez. V, 14.03.2007, n. 1249, secondo cui la
prova del completamento dell’edificio entro la data prevista
dalla legge può essere validamente fornita, in alternativa
alla dichiarazione sostitutiva dell’atto notorio, attraverso
la produzione della documentazione, munita di data certa,
delle fatture e delle bolle di accompagnamento dei materiali
necessari per la realizzazione dell’opera).
L’articolo 39 della legge 23.12.1994,
n. 774, ha stabilito al primo comma, tra l’altro, che “Le
disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47 e successive modificazioni e integrazioni, come
ulteriormente modificate dal presente articolo, si applicano
alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31.12.1993, e che non abbiano comportato ampliamento del
manufatto superiore al 30 per cento della volumetria della
costruzione originaria ovvero, indipendentemente dalla
volumetria iniziale o assentita, un ampliamento superiore a
750 metri cubi…”, aggiungendo al quarto comma che “La
domanda di concessione o di autorizzazione in sanatoria, con
la prova del pagamento dell’oblazione, deve essere
presentata al comune competente, a pena di decadenza, entro
il 31.03.1995…”.
E’ stato rilevato che ai fini del condono edilizio la
realizzazione dell’opera abusiva, alla data del 31.12.1993, è identificabile se l’immobile è già eseguito, sia
pure al rustico in tutte le sue strutture essenziali, fra le
quali devono essere comprese le tamponature che sono
necessarie per stabilire la relativa volumetria e la sagoma
esterna (C.d.S., sez. V, 18.11.2004, n. 7547),
aggiungendosi che, per quanto riguarda le opere interne o
quelle non destinate ad uso non residenziale, la loro
ultimazione è da ricollegare al loro completamento
funzionale, inteso nel senso della sussistenza delle opere
indispensabili a rendere effettivamente possibile l’uso per
il quale sono state realizzate (o l’uso diverso da quello a
suo tempo assentito o incompatibile con l’originaria
destinazione d’uso, nel caso di mutamento di quest’ultimo)
(C.d.S., sez. IV, 09.02.2012, n. 683; 09.05.2011, n.
2750; sez. V, 21.05.1999, n. 587; 18.11.2004, n.
7547; 23.05.2005, n. 2578; 04.10.2007, n. 5153).
Posto poi che la distinzione tra ultimazione a rustico e
completamento funzionale deve essere eseguita in concreto e
non in astratto, non essendo sufficiente la qualificazione
della parte a determinare oggettivamente il contenuto dei
lavori eseguiti (C.d.S., sez. V 18.12.2002, n. 7021),
sempre ai fini del condono edilizio, è stato sottolineato
che è onere del richiedente il condono edilizio provare che
l’opera sia stata completata entro la data utile fissata
della legge, non essendo a tal fine sufficiente la sola
dichiarazione sostitutiva dell’atto notorio, che deve essere
supportata da ulteriori riscontri documentali, eventualmente
indiziari, purché altamente probanti (C.d.S., sez. IV, 06.06.2001, n. 3067; così del resto anche sez. V, 14.03.2007,
n. 1249, secondo cui la prova del completamento
dell’edificio entro la data prevista dalla legge può essere
validamente fornita, in alternativa alla dichiarazione
sostitutiva dell’atto notorio, attraverso la produzione
della documentazione, munita di data certa, delle fatture e
delle bolle di accompagnamento dei materiali necessari per
la realizzazione dell’opera) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
03.06.2014 n. 3034 -
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COMPETENZE GESTIONALI:
A seguito della
separazione tra attività di indirizzo politico–amministrativo e attività gestionale, spetta ai dirigenti
comunali e, nei comuni privi di personale di tale qualifica,
ai responsabili degli uffici o dei servizi,
indipendentemente dalla loro qualifica funzionale,
l’adozione degli atti di gestione ovvero di attuazione degli
indirizzi politico–amministrativi attribuiti
esclusivamente agli organi di governo (sindaco, consiglio
comunale e giunta), tra cui a titolo esemplificativo, i
provvedimenti in materia urbanistica ed edilizia, assegnazione e revoca
dell’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale
pubblica, autorizzazione all’apertura o al mancato
mantenimento in esercizio di un passo carrabile, provvedimento di
chiusura temporanea di un esercizio commerciale.
Se è vero poi che restano attribuite al sindaco le potestà
di gestione connesse alle funzioni di ufficiale di governo, tale speciali
potestà danno vita a provvedimenti contingibili ed urgenti
connotati dall’eccezionalità e dalla imprevedibilità di
fatti che rendono indispensabile prevenire ed eliminare
gravi pericoli per l’incolumità dei cittadini e che non
possono essere fronteggiati con i normali mezzi apprestati
dall’ordinamento.
Deve essere
invece respinto l’appello (NRG. 1722/01) proposto avverso la
sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la
Lombardia, sez. II, n. 6170 del 31.10.2000, che ha
riconosciuto l’illegittimità dell’ordinanza sindacale n.
2212, prot. n. 2448, del 15.02.1999, di sospensione
dell’attività di pubblico esercizio di tipo “A”, svolta nei
locali in questione, e di chiusura dell’esercizio stesso, in
quanto adottata da organo incompetente.
Al riguardo è appena il caso di ricordare che, a seguito
della separazione tra attività di indirizzo politico–amministrativo e attività gestionale, spetta ai dirigenti
comunali e, nei comuni privi di personale di tale qualifica,
ai responsabili degli uffici o dei servizi,
indipendentemente dalla loro qualifica funzionale,
l’adozione degli atti di gestione ovvero di attuazione degli
indirizzi politico–amministrativi attribuiti
esclusivamente agli organi di governo (sindaco, consiglio
comunale e giunta), tra cui a titolo esemplificativo, i
provvedimenti in materia urbanistica ed edilizia (C.d.S.,
sez. V, 09.10.2007, n. 5232; 05.10.2005, n. 5312; 04.05.2004, n. 2694),
assegnazione e revoca
dell’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale
pubblica (C.d.S., sez. V, 31.01.2007, n. 405; 30.08.2006, n. 5073),
autorizzazione all’apertura o al mancato
mantenimento in esercizio di un passo carrabile (C.d.S.,
sez. V, 21.11.2005, n. 6413), provvedimento di
chiusura temporanea di un esercizio commerciale (in
applicazione degli artt. 14 della legge 30.04.1962, n.
283, e 21, ultimo comma, della legge 24.11.1981, n.
689. C.d.S., sez. V, 14.05.2004, n. 3143).
Se è vero poi che restano attribuite al sindaco le potestà
di gestione connesse alle funzioni di ufficiale di governo
(C.d.S., sez. V 05.10.2005, n. 5312), tale speciali
potestà danno vita a provvedimenti contingibili ed urgenti
connotati dall’eccezionalità e dalla imprevedibilità di
fatti che rendono indispensabile prevenire ed eliminare
gravi pericoli per l’incolumità dei cittadini e che non
possono essere fronteggiati con i normali mezzi apprestati
dall’ordinamento (C.d.S., sez. V, 10.02.2010, n. 670;
11.12.2007, n. 6366; sez. VI, 13.06.2012, n.
3490).
Nel caso di specie tali peculiari elementi di fatto non sono
rinvenibili, non potendo fondarsi il potere del sindaco,
quale ufficiale di governo, sulla sola molteplicità degli
interessi pubblici tutelati con il provvedimento emanato,
così come pretende l’amministrazione appellante
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
03.06.2014 n. 3034 -
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CONSIGLIERI COMUNALI:
I consiglieri comunali, in quanto tali, non sono
legittimati ad agire contro l'amministrazione di
appartenenza, dato che il giudizio amministrativo non è di
regola aperto alle controversie tra organi o componenti di
organi dello stesso ente, ma è diretto a risolvere
controversie intersoggettive; pertanto, l'impugnativa di
singoli consiglieri può ipotizzarsi soltanto allorché
vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto
all'ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto spettante
alla persona investita della carica di consigliere.
Più in particolare si è affermato che le violazioni delle
regole procedurali che possono far sorgere la legittimazione
in capo al singolo consigliere comunale devono attenere ai
seguenti profili:
a) erronee modalità di convocazione
dell'organo consiliare;
b) violazione dell'ordine del giorno;
c) inosservanza del deposito della documentazione
necessaria per poter liberamente e consapevolmente
deliberare;
d) più in generale, preclusione in tutto o in
parte dell'esercizio delle funzioni relative all'incarico
rivestito.
I ricorrenti sono tutti Consiglieri
Comunali del Comune di Fino Mornasco che, in tale veste,
impugnano un atto dell’organo di cui fanno parte (con il
quale, come detto, è stata disposta la modifica ad una
convenzione urbanistica in precedenza stipulata con un
operatore privato nonché una variante al vigente PGT).
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, i
consiglieri comunali, in quanto tali, non sono legittimati
ad agire contro l'amministrazione di appartenenza, dato che
il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle
controversie tra organi o componenti di organi dello stesso
ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive;
pertanto, l'impugnativa di singoli consiglieri può
ipotizzarsi soltanto allorché vengano in rilievo atti
incidenti in via diretta sul diritto all'ufficio dei
medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona
investita della carica di consigliere (cfr. ex multis TAR
Puglia Lecce, sez. II, 28.11.2013 n. 2388).
Più in particolare si è affermato che le violazioni
delle regole procedurali che possono far sorgere la
legittimazione in capo al singolo consigliere comunale
devono attenere ai seguenti profili:
a) erronee modalità di
convocazione dell'organo consiliare;
b) violazione dell'ordine del giorno;
c) inosservanza del deposito della
documentazione necessaria per poter liberamente e
consapevolmente deliberare;
d) più in generale, preclusione
in tutto o in parte dell'esercizio delle funzioni relative
all'incarico rivestito (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 24.03.2011 n. 1771; TAR Lombardia Milano, sez. II,
01.07.2013, n. 1683)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 12.02.2014 n. 445 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Per pacifico orientamento
giurisprudenziale, la mancata indicazione, nell’avviso di
avvio del procedimento, del termine entro il quale produrre
le memorie di cui all’art. 10 della legge n. 241 del 1990
non inficia il provvedimento finale adottato, in quanto il
suindicato articolo non prevede alcun termine.
Con il primo motivo,
contenuto nel ricorso introduttivo, le ricorrenti lamentano
la mancata indicazione, nell’avviso di avvio del
procedimento loro inviato, del termine di deposito delle
memorie di cui all’art. 10 della legge n. 241 del 1990.
Sostengono che per questa ragione l’Amministrazione avrebbe
violato gli artt. 1, 2 e 7, nonché il capo III della
suddetta legge, oltre che l’art. 14 del d.P.R. n. 380 del
2001.
Il motivo è infondato in quanto, per pacifico
orientamento giurisprudenziale, la mancata indicazione,
nell’avviso di avvio del procedimento, del termine entro il
quale produrre le memorie di cui all’art. 10 della legge n.
241 del 1990 non inficia il provvedimento finale adottato,
in quanto il suindicato articolo non prevede alcun termine
(cfr. TAR Campania Napoli, sez. II, 21.12.2006 n.
8192) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 07.02.2014 n. 417 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul rilascio di una permesso di costruire in deroga.
L’art. 14, secondo comma, del d.P.R. n.
380 del 2001 impone alle Amministrazioni che intendono
instaurare un procedimento volto al rilascio di un permesso
di costruire in deroga l’obbligo di comunicare agli
eventuali controinteressati l’avvio del procedimento stesso,
ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990.
Una volta avvenuta la comunicazione, le parti interessate
possono partecipare attivamente, ed hanno diritto, ai sensi
dell’art. 10, lett. a), della stessa legge n. 241 del 1990,
di prendere visione degli atti prodromici all’emanazione del
provvedimento finale.
Il diritto di partecipazione presuppone, peraltro, che gli
interessati si facciano parte attiva, richiedendo
all’amministrazione il rilascio della documentazione
ritenuta di interesse.
In mancanza di esplicite richieste in tal senso non si può
rimproverare all’ente di aver impedito la partecipazione
procedimentale: l’amministrazione, come visto, assolve ai
suoi doveri inviando la comunicazione di avvio del
procedimento, mentre non è tenuta, in assenza di specifiche
istanze, alla consegna della documentazione procedimentale.
---------------
L’art. 14, primo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001
stabilisce che i permessi di costruire in deroga alle
previsioni degli strumenti urbanistici generali possono
essere rilasciati, fra l’altro, per la realizzazione di
impianti di interesse pubblico.
La giurisprudenza ha da tempo chiarito che anche impianti ed
edifici privati possono costituire oggetto di permesso di
costruire in deroga; e che gli alberghi possono essere
annoverati fra i fabbricati che soddisfano esigenze di
interesse pubblico per questa ragione assentibili con il
titolo in argomento.
L’art. 14,
secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 impone alle
Amministrazioni che intendono instaurare un procedimento
volto al rilascio di un permesso di costruire in deroga
l’obbligo di comunicare agli eventuali controinteressati
l’avvio del procedimento stesso, ai sensi dell’art. 7 della
legge n. 241 del 1990.
Una volta avvenuta la comunicazione, le parti
interessate possono partecipare attivamente, ed hanno
diritto, ai sensi dell’art. 10, lett. a), della stessa legge
n. 241 del 1990, di prendere visione degli atti prodromici
all’emanazione del provvedimento finale.
Il diritto di partecipazione presuppone, peraltro, che
gli interessati si facciano parte attiva, richiedendo all’amministrazione il rilascio della documentazione
ritenuta di interesse.
In mancanza di esplicite richieste in tal senso non si può
rimproverare all’ente di aver impedito la partecipazione
procedimentale: l’amministrazione, come visto, assolve ai
suoi doveri inviando la comunicazione di avvio del
procedimento, mentre non è tenuta, in assenza di specifiche
istanze, alla consegna della documentazione procedimentale.
---------------
L’art. 14,
primo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che i
permessi di costruire in deroga alle previsioni degli
strumenti urbanistici generali possono essere rilasciati,
fra l’altro, per la realizzazione di impianti di interesse
pubblico.
La giurisprudenza ha da tempo chiarito che anche
impianti ed edifici privati possono costituire oggetto di
permesso di costruire in deroga; e che gli alberghi possono
essere annoverati fra i fabbricati che soddisfano esigenze
di interesse pubblico per questa ragione assentibili con il
titolo in argomento (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 12.12.2005 n. 7031; id., sez V, 29.10.2002 n. 5913).
Il Comune di Lezzeno, invero, nella succitata
deliberazione di Consiglio Comunale n. 17 del 2013 ha
rilevato il recente incremento dell’afflusso turistico sul
proprio territorio; aggiungendo che, per tale ragione, la
realizzazione di nuove strutture recettive potrebbe
costituire fonte di promozione e di sviluppo economico e
sociale con conseguenti ricadute economiche favorevoli per
l’intera cittadinanza. Tale realizzazione è stata dunque
ritenuta di interesse pubblico.
Nella stessa deliberazione, si è altresì chiarito che la
deroga ai limiti di densità ed altezza previsti dal vigente PRG è giustificata dalla necessità di assicurare alla nuova
struttura dimensioni minime (perlomeno dieci camere) tali da
renderla idonea ad ospitare un numero sufficiente di
turisti, onde assicurare un adeguato ritorno economico
all’operatore privato.
Il provvedimento rimanda poi ad una relazione del
Responsabile di Servizio, il quale ha chiarito che con
l’erigenda struttura non viene superato il limite di
volumetria assentito con il PII di cui si è in precedenza
fatto cenno, riguardante una zona attigua a quella di cui è
causa e rimasto, in parte, inattuato (la volumetria ivi
prevista non è stata quindi esaurita, e la costruzione
oggetto del provvedimento impugnato introduce una volumetria
inferiore a quella residua).
Si è chiarito in questo modo che, seppur collocato in
area non ricompresa nel precedente atto di pianificazione di
dettaglio, la costruzione oggetto del permesso di costruire
in deroga introduce un carico urbanistico che può essere
tranquillamente tollerato.
Ritiene quindi il Collegio che tutte queste
argomentazioni siano idonee a far comprendere il
ragionamento sviluppato dall’Amministrazione e che
dimostrino come la stessa abbia congruamente assoggettato a
comparazione i vari interessi in conflitto prima di
assentire l’intervento impugnato (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 07.02.2014 n. 417 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’amministrazione procedente, nei propri
provvedimenti, non deve confutare in maniera analitica le
argomentazioni dedotte dagli interessati mediante la
presentazione di memorie nel corso del procedimento, essendo
invece sufficiente una adeguata esternazione motivazionale
che renda percepibili le ragioni del mancato adeguamento
dell’azione amministrativa alle deduzioni partecipative.
Come osservato
dalla giurisprudenza, l’amministrazione procedente, nei
propri provvedimenti, non deve confutare in maniera
analitica le argomentazioni dedotte dagli interessati
mediante la presentazione di memorie nel corso del
procedimento, essendo invece sufficiente una adeguata
esternazione motivazionale che renda percepibili le ragioni
del mancato adeguamento dell’azione amministrativa alle
deduzioni partecipative (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI,
29.05.2012 n. 3210)
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 07.02.2014 n. 417 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di condono edilizio, è legittimo il diniego di
un'istanza di sanatoria laddove il parere della commissione
identifica nelle caratteristiche dei materiali e
nella tipologia costruttiva gli elementi incompatibili con
il contesto paesaggistico, dando quindi contezza degli
aspetti che interferiscono in senso negativo con le
caratteristiche di pregio della zona. Invero, come risulta
dalle fotografie prodotte in giudizio, appare evidente
l’impatto visivo delle strutture in lamiera e in materiale
ondulato, estraneo alle caratteristiche di pregio della zona
paesaggisticamente rilevanti.
Né sussiste a carico dell’Ente l’obbligo di indicare, in una
logica comparativa degli interessi in gioco, prescrizioni
funzionali a rendere l’intervento compatibile con il
contesto tutelato, la cui protezione risponde sempre ad un
interesse pubblico prevalente su quello privato. Non rileva
al riguardo il progetto di ristrutturazione presentato dalla
parte interessata, in quanto il medesimo presuppone
necessariamente la regolarità urbanistica e la liceità del
manufatto oggetto del proposto intervento.
La presenza di altre strutture secondarie in spazi vicini a
quello di proprietà del ricorrente non esime quest’ultimo
dall’obbligo di attenersi all’osservanza, quanto meno, di
normali canoni estetici e di osservare il vincolo
paesaggistico; anche se tali canoni siano stati violati in
proprietà vicine a quella della parte istante (come sembra
suggerire la documentazione fotografica annessa alla perizia
tecnica costituente il documento n. 9 depositato in giudizio
dall’esponente), non viene meno l’obbligo per il Comune di
assumere a parametro di riferimento, nella valutazione di
ciascuna opera, il vincolo paesaggistico (e cioè il bene
tutelato) e di reprimere tutti gli abusi edilizi
contrastanti con il vincolo stesso, cosicché l’eventuale
preesistenza di altri manufatti, simili a quelli oggetto
dell’impugnato provvedimento, potrebbe dimostrare
l’illegittimo rilascio a terzi di titoli edilizi o
l’illegittima omissione di provvedimenti repressivi da parte
dell’autorità pubblica, ma non può viziare il contestato
diniego.
Con la seconda
doglianza il ricorrente deduce che il parere richiamato nel
contestato diniego non esplicita le ragioni del ravvisato
contrasto dell’opera con il vincolo paesaggistico; aggiunge
che il Comune avrebbe dovuto comparare l’interesse pubblico
con l’interesse privato coinvolto, valutare il progetto di
ristrutturazione presentato e considerare l’effettivo stato
dei luoghi, costituito da una forte presenza di strutture
secondarie.
Il rilievo non può essere accolto.
Il suddetto parere identifica nelle caratteristiche dei
materiali e nella tipologia costruttiva gli elementi
incompatibili con il contesto paesaggistico, dando quindi
contezza degli aspetti che interferiscono in senso negativo
con le caratteristiche di pregio della zona. Invero, come
risulta dalle fotografie prodotte in giudizio (documenti
depositati dal Comune il 06/11/2008), appare evidente
l’impatto visivo delle strutture in lamiera e in materiale
ondulato, estraneo alle caratteristiche di pregio della zona
paesaggisticamente rilevanti (Cons. Stato, V, 16/03/2005, n.
1066; TAR Toscana, III, 29/05/2007, n. 823).
Né sussiste a carico dell’Ente l’obbligo di indicare, in una
logica comparativa degli interessi in gioco, prescrizioni
funzionali a rendere l’intervento compatibile con il
contesto tutelato, la cui protezione risponde sempre ad un
interesse pubblico prevalente su quello privato (TAR
Campania, Napoli, IV, 13/06/2007, n. 6142). Non rileva al
riguardo il progetto di ristrutturazione presentato dalla
parte interessata, in quanto il medesimo presuppone
necessariamente la regolarità urbanistica e la liceità del
manufatto oggetto del proposto intervento.
La presenza di altre strutture secondarie in spazi vicini a
quello di proprietà del ricorrente non esime quest’ultimo
dall’obbligo di attenersi all’osservanza, quanto meno, di
normali canoni estetici e di osservare il vincolo
paesaggistico; anche se tali canoni siano stati violati in
proprietà vicine a quella della parte istante (come sembra
suggerire la documentazione fotografica annessa alla perizia
tecnica costituente il documento n. 9 depositato in giudizio
dall’esponente), non viene meno l’obbligo per il Comune di
assumere a parametro di riferimento, nella valutazione di
ciascuna opera, il vincolo paesaggistico (e cioè il bene
tutelato) e di reprimere tutti gli abusi edilizi
contrastanti con il vincolo stesso, cosicché l’eventuale
preesistenza di altri manufatti, simili a quelli oggetto
dell’impugnato provvedimento, potrebbe dimostrare
l’illegittimo rilascio a terzi di titoli edilizi o
l’illegittima omissione di provvedimenti repressivi da parte
dell’autorità pubblica, ma non può viziare il contestato
diniego (TAR Sicilia, Catania, I, 20/09/2010, n. 3763; TAR
Lazio, Roma, II, 07/05/2007, n. 4047; TAR Liguria, I,
08/02/2002, n. 134) (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 04.02.2011 n. 202 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 22.12.2014 |
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Il mondo è bello perché vario ... o avariato?? |
Navigando nel web, da un sito comunale all'altro, si
possono leggere ancora oggi atti amministrativi che
manco nel Burundi (con tutto il rispetto dei suoi
residenti) si sognano di adottare.
Ma ciò che è grave è il fatto che tali atti non
ineriscono fattispecie normative nuove, fresche di Gazzetta
Ufficiale, ma affari triti e ritriti laddove si è
spesa copiosa giurisprudenza, pareristica che hanno
tolto ogni minimo dubbio in ordine alla correlata legittimità
-o meno- dell'azione amministrativa.
Per esempio, quando si bandisce un concorso pubblico
per coprire un posto vacante in pianta organica
è ovvio che
il bando debba obbligatoriamente essere pubblicato
anche in G.U. ... |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Un segretario generale di un comune ha
chiesto se il Comune sia tenuto alla pubblicazione
del bando sulla G.U..
Si fa riferimento ad una nota con la quale un
segretario generale ha chiesto se il comune sia
tenuto alla pubblicazione del bando sulla G.U..
Al riguardo, si fa presente che la problematica è
stata affrontata dal Consiglio di Stato, sez. V, con
sentenza n. 871/2010 che, ha ritenuto che
la mancata
pubblicazione, per estratto, del bando di concorso
contrasti, insanabilmente, con le disposizioni di
cui all’art. 4 del DPR 487/1994, che prescrive la
pubblicazione del predetto bando nella Gazzetta
Ufficiale ed, in particolare, per gli enti locali,
prevede, al comma 1-bis, la possibilità di
sostituire la pubblicazione del bando con l’avviso
di concorso contenente gli estremi del bando e
l’indicazione del termine di scadenza per la
presentazione della domanda.
Tale previsione non appare, peraltro, in contrasto
con l’art. 35, comma 3, lett. a), del Dlgs 165/2001
che, nell’elencare i principi in materia di
procedure di reclutamento nelle pubbliche
amministrazioni, prevede quello della “adeguata
pubblicità della selezione”. Infatti, ad avviso
del citato Collegio, l’adempimento della
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale deve ritenersi
sussistente ancorché il Comune abbia previsto nel
proprio regolamento forme di pubblicazione ridotta
quali quelle all’Albo pretorio e sul sito web
dell’Ente.
Tale orientamento è stato da ultimo ribadito dal TAR
Emilia-Romagna, sez. I, con sentenza n. 135 del
22.02.2013, secondo cui
la perdurante operatività
dell’obbligo di pubblicazione del bando di concorso
sulla Gazzetta Ufficiale risulta in linea anche con
le previsioni di cui all’art. 32, comma 1, della
legge 69/2009, tenuto conto che, seppur detto comma
prevede che dal 01.01.2010 gli obblighi di
pubblicazione degli atti amministrativi aventi
effetto di pubblicità legale si intendono assolti
con la pubblicazione nei siti informatici delle
amministrazioni pubbliche, il comma 7 dello stesso
articolo fa salva la pubblicità nella Gazzetta
Ufficiale dell’Unione Europea e nella Gazzetta della
Repubblica Italiana
(Ministero dell'Interno,
parere 24.04.2013 - link a http://incomune.interno.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
A. Trovato,
Enti locali, pubblicità delle procedure concorsuali
(Guida al Pubblico Impiego n. 6/2013). |
Per esempio, quando si vuol esautorare il
responsabile dell'U.T.C., perché agisce in
conformità alla legge e non si mette a mo' di
tappetino nei confronti del Sindaco o Assessore che
dir si voglia,
è ovvio che la P.O. (Posizione Organizzativa) non
possa essere ricoperta dal "compiacente"
Segretario Comunale ... |
COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI
COMUNALI:
Svolgimento funzioni responsabile settore
(in ente popolazione inferiore 5.000 abitanti) da
Segretario comunale - Applicabilità art. 97, D.Lgs.
n. 267 del 18.08.2000.
Con una nota, un’Amministrazione, con popolazione
inferiore ai 5000 abitanti, ha chiesto di conoscere
se sia possibile attribuire la responsabilità
dell’Ufficio Tecnico comunale al segretario comunale
ai sensi dell’art. 97 del D.Lgs. n. 267/2000.
Al riguardo, si rappresenta che, com’è noto, l’art.
97 del citato D.Lgs. n. 267/2000, nell’andare a
definire, al comma 4, i compiti e le funzioni, ha
previsto che il segretario comunale eserciti “ogni
altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai
regolamenti, o conferitagli dal sindaco o dal
presidente della provincia…” (lett. d).
Certamente, nell’ambito di questa formula potrebbe
rientrare il conferimento delle funzioni di
responsabile di un settore dell’amministrazione.
Ciò, peraltro, trova conferma nella previsione del
contratto collettivo integrativo dei segretari
comunali e provinciali sottoscritto il 22.12.2003
che prende in considerazione, autonomamente,
l’ipotesi di “affidamento al segretario di
attività gestionali”.
Tuttavia, occorre rilevare che l’art. 15 del CCNL
del 22.01.2004, ha definitivamente chiarito che
negli enti privi di personale di qualifica
dirigenziale, i responsabili delle strutture apicali
secondo l’ordinamento organizzativo dell’ente, sono
titolari delle posizioni organizzative disciplinate
dagli artt. 8 e seguenti del CCNL del 31.03.1999.
Da quanto sopra emerge, quindi, chiaramente che
negli enti privi di personale dirigenziale le
relative competenze spettano ai titolari di
posizione organizzativa.
Conseguentemente, poiché dalla documentazione
allegata al quesito
risulta che presso l’Ente sono
presenti due dipendenti di cat. D, con profili di
architetto e geometra, attinenti al servizio
tecnico, si ritiene che la discrezionalità
riconosciuta al sindaco di conferire al segretario
la responsabilità dell’area di cui trattasi non
possa essere esercitata in violazione del diritto
dei predetti dipendenti.
Dalle considerazioni suesposte e tenuto conto del
sistema di affidamento delle responsabilità, che ne
incentiva la suddivisione tra il personale in
servizio, emerge, quindi, chiaramente che
l’ambito
della discrezionalità riconosciuta al sindaco dal
legislatore con la previsione ex art. 97, può essere
legittimamente esercitata solo quale strumento
residuale, ovvero utilizzabile esclusivamente da
quelle amministrazioni che si trovassero nella
difficoltà di reperire le necessarie professionalità
all’interno della propria dotazione organica.
Per completezza di informazione, si soggiunge che
essendo l’ente in questione di ridotte dimensioni
può avvalersi del disposto di cui all’art. 53, comma
23, della legge n. 388/2000, come modificato
dall’art. 29, comma 4, della legge n. 488/2001
(Ministero dell'Interno,
parere 17.12.2008 - link a http://incomune.interno.it). |
Per esempio, quando non si vuole assumere a tempo
indeterminato e si vuol
coprire l'apicalità dell'U.T.C. (tanto per
esemplificare) con
personale di ruolo di altro ente locale
è ovvio che non si
possa incaricare il primo che passa per la strada e
con modalità disinvolte che più aggradano le parti
... |
PUBBLICO IMPIEGO:
Affidamento (per ente popolazione
superiore 5.000 abitanti, non dotato personale
qualifica dirigenziale) incarico responsabile area
tecnica a dipendente altro comune (in assenza
convenzione e fuori orario lavoro).
Il Commissario straordinario di un Comune ha
formulato un quesito in merito alla possibilità di
utilizzare un dipendente di un altro comune per
affidargli l’incarico di responsabile dell’area
tecnica; ciò per sostituire l’attuale responsabile
collocato in aspettativa per un anno. All’uopo è
stato rappresentato che trattasi di un comune
superiore a 5.000 abitanti, non dotato di personale
con qualifica dirigenziale e che a seguito di intese
con il Sindaco di quel comune l’autorizzazione
sarebbe rilasciata, senza un’apposita convenzione,
per 12 ore settimanali da svolgersi al di fuori
dell’orario di lavoro.
Al riguardo, si fa, preliminarmente, presente che,
come noto,
nei confronti dei dipendenti pubblici
vige il principio di unicità del rapporto di lavoro
a tempo pieno. Detto principio è affermato dall’art.
53, comma 1, del D.Lgs 165/2001 che fa salve le
incompatibilità previste dagli art. 60 e seguenti
del DPR 3/1957. Sono incompatibili, pertanto, non
solo le attività indicate nel predetto art. 60, ma
anche le attività collaterali caratterizzate da
elementi qualificanti di natura quantitativa quali
la protrazione nel tempo, il grado di complessità,
la non episodicità, la stabilità, la ripetitività e
la professionalità richiesta per il loro
svolgimento.
L’attenuazione di tale principio si rinviene, per il
personale degli enti locali, nella normativa
contenuta nell’art. 92, comma 1, del Dlgs 267/2000
che espressamente prevede che i dipendenti degli
enti locali possono svolgere attività lavorativa a
favore di altri enti locali solo se titolari di un
rapporto di lavoro a tempo parziale. Tale normativa,
che si innesta in quella più generale del part-time
regolata dall’art. 1, comma 56, della legge
662/1996, costituisce, pertanto, una deroga al
richiamato principio dell’unicità del rapporto di
lavoro del pubblico dipendente.
Ulteriore deroga al medesimo principio è quella che
il legislatore ha disposto con l’art. 1, comma 557,
della legge 311/2004 secondo cui “i comuni con
popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, i consorzi
tra enti locali gerenti servizi a rilevanza non
industriale, le comunità montane e le unioni di
comuni possono servirsi dell’attività lavorativa di
dipendenti a tempo pieno di altre amministrazioni
locali, purché autorizzati dall’amministrazione di
provenienza”.
Tale nuova fattispecie prevede
comunque la necessità di una specifica
autorizzazione da parte dell’amministrazione di
provenienza. Ciò significa che quest’ultima può
accordarla solo per le attività che non arrechino
pregiudizio alle proprie attività e che non
interferiscano con i relativi compiti istituzionali.
Posto quanto sopra e
tenuto conto che nel caso in
esame non risulta possibile applicare la cennata
disciplina di cui al predetto comma 557, essendo il
comune superiore ai 5.000 abitanti, non resta che
fare ricorso alla specifica disciplina contrattuale
relativa all’utilizzazione del personale cosiddetto
a “scavalco”. Infatti, l’art. 14 del CCNL
22.01.2004, ha espressamente regolamentato tale
personale introducendo una normativa uniforme ed
innovativa concernente il “personale utilizzato a
tempo parziale e servizi in convenzione”.
Invero, ai sensi del primo comma del citato art. 14,
al fine di soddisfare la migliore realizzazione dei
servizi istituzionali e di conseguire una economica
gestione delle risorse, gli enti locali possono
utilizzare con il consenso dei lavoratori
interessati, personale assegnato da altri enti cui
si applica il medesimo CCNL per periodi determinati
e per una parte del tempo di lavoro d’obbligo
mediante convenzione e previo assenso dell’ente di
appartenenza. In tal caso, per espressa previsione
dello stesso comma 1, l’utilizzazione parziale non
si configura come rapporto di lavoro a tempo
parziale.
Inoltre, secondo quanto disposto dal successivo
comma 4, ai lavoratori utilizzati a tempo parziale
può essere affidata anche la responsabilità di una
posizione organizzativa nell’ente di utilizzazione.
Pertanto,
qualora l’ente voglia utilizzare un
dipendente di altro comune e affidargli la
responsabilità di un area dovrà procedere
esclusivamente secondo quanto espressamente indicato
nella richiamata normativa, stipulando, quindi, una
convenzione dalla quale risulti tra l’altro il tempo
di lavoro in assegnazione, nel rispetto del vincolo
dell’orario settimanale d’obbligo, la ripartizione
degli oneri finanziari nonché tutti gli altri
aspetti utili per regolare il corretto utilizzo del
lavoratore medesimo
(Ministero dell'Interno,
parere 11.12.2007 - link a http://incomune.interno.it). |
... senza menzionare, poi, gli incarichi esterni (a
personale di ruolo di altri enti pubblici) per svolgere
mansioni ordinarie (anziché assumere a tempo
indeterminato)
ALLA FACCIA DELL'INCOMPATIBILITA' DEL DOPPIO
LAVORO
col risultato:
1) che costano maggiormente, con minor resa oraria,
rispetto ad una assunzione di ruolo;
2) che superano il tetto del compenso lordo annuo
pari a € 6.666,00 (netti € 5.000,00);
3) che superano il tetto dei 30 gg. lavorativi
l'anno; |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Attività extra
lavorativa e lavoro occasionale di tipo accessorio.
L'INPS ha chiarito (cfr.
circolare n. 88/2009) che per i dipendenti pubblici
è possibile svolgere lavoro occasionale di tipo
accessorio, previa acquisizione della prescritta
autorizzazione da parte dell'amministrazione di
appartenenza, ai sensi dell'art. 53 del d.lgs.
165/2001.
Il Comune chiede di conoscere se sia possibile
autorizzare un proprio dipendente a part-time (30
ore settimanali), previa autorizzazione ex art. 53
del d.lgs. 165/2001, a svolgere attività di lavoro
occasionale di tipo accessorio, remunerata con i c.d
'voucher', presso altra pubblica
amministrazione.
Preliminarmente, in linea generale, si osserva che
il lavoro occasionale di tipo accessorio trova
compiuta disciplina nell'art. 70 del d.lgs. n.
276/2003, che ha subito rilevanti modifiche nel
corso degli anni.
Si sottolinea che, come rilevato dall'INPS
[1],
le prestazioni di lavoro occasionale accessorio
debbono intendersi quali attività lavorative di
natura meramente occasionale e accessoria, non
riconducibili a tipologie contrattuali tipiche di
lavoro subordinato o di lavoro autonomo.
Pur non rientrando il lavoro accessorio tra le forme
lavorative che danno origine a una tipologia di
lavoro subordinato, è da notare che l'art. 36, comma
2, del d.lgs. n. 165/2001, inserisce comunque detta
tipologia di prestazioni fra le forme di contratti
flessibili di assunzione e di impiego del personale,
utilizzabili dalle pubbliche amministrazioni per
rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali.
Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali
[2]
ha sottolineato inoltre come la modifica al testo
dell'art. 70 del d.lgs. n. 276/2003, apportata dalla
l. n. 92/2012, abbia eliminato quella serie di
causali soggettive e oggettive che consentivano in
precedenza il ricorso a detto istituto,
sostituendolo con una disposizione che prevede
essenzialmente limiti di carattere economico.
Allo stato attuale, quindi, per il committente
pubblico si prevede la possibilità di ricorrere al
lavoro accessorio 'nel rispetto dei vincoli
previsti dalla vigente disciplina in materia di
contenimento delle spese di personale e, ove
previsto, dal patto di stabilità interno'
[3].
Pertanto, è possibile utilizzare il lavoro
accessorio in tutti i settori, da parte di qualsiasi
committente, con qualsiasi soggetto
[4],
nel rispetto di un compenso massimo stabilito in
5.000 euro per anno solare.
Ciò premesso a livello di inquadramento generale, si
osserva che l'INPS [5],
in merito alla possibilità, da parte dei dipendenti
pubblici, di svolgere lavoro occasionale di tipo
accessorio, ha precisato che, per questi, trova
applicazione l'art. 53 del d.lgs. 165/2001, in tema
di incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi;
nello specifico, si è sottolineato che è
obbligatoria la richiesta, all'amministrazione di
appartenenza, del rilascio di autorizzazione
preventiva per lo svolgimento, a favore di soggetti
pubblici e privati, di incarichi, anche occasionali,
non compresi nei compiti e nei doveri d'ufficio, per
i quali sia previsto, sotto qualsiasi forma, un
compenso (art. 53, comma 6).
La citata norma esclude dalla richiesta di
autorizzazione i dipendenti con rapporto di lavoro a
tempo parziale con prestazione lavorativa non
superiore al cinquanta per cento, i docenti
universitari a tempo definito e le altre categorie
di dipendenti pubblici ai quali è consentito, da
disposizioni speciali, lo svolgimento di attività
libero-professionali.
L'INPS specifica altresì che la richiesta di
autorizzazione può essere effettuata, ai sensi del
comma 10 del citato articolo 53, da parte dello
stesso dipendente o dei soggetti pubblici e privati
che intendono avvalersi delle prestazioni del lavoro
occasionale. Conseguentemente, l'impiego di
dipendenti pubblici, senza la preventiva
autorizzazione, comporta -per il dipendente e per
l'amministrazione pubblica interessata- le sanzioni
previste dai commi 7 e 8 del medesimo articolo 53.
Un'ulteriore precisazione, rilevante al fine che ci
occupa, è stata fornita dallo stesso Istituto
previdenziale [6],
che ha ritenuto doveroso evidenziare come, in
considerazione di finalità antielusive, il ricorso
all'istituto del lavoro occasionale non sia
compatibile con lo status di lavoratore
subordinato (a tempo pieno o parziale), se impiegato
presso lo stesso datore di lavoro titolare del
contratto di lavoro dipendente.
Pertanto, preclusa la possibilità di utilizzare, con
detta formula lavorativa, un proprio lavoratore
dipendente, risulta invece ammissibile
l'espletamento di detta attività extra lavorativa
presso un altro datore di lavoro pubblico, previa
autorizzazione preventiva dell'Ente di appartenenza.
Per quanto concerne, da ultimo, l'aspetto relativo
alla fiscalità dei 'buoni lavoro', si osserva
che l'art. 72, comma 3, del d.lgs. 276/2003 precisa
che il compenso relativo ai voucher è esente
da qualsiasi imposizione fiscale
[7].
--------------
[1] Cfr. INPS,
circolare 03.02.2010 n. 17.
[2] Cfr. Ministero del Lavoro e delle Politiche
Sociali,
circolare 18.07.2012
n. 18/2012.
[3] Cfr. art. 70, comma 3, del d.lgs. n. 276/2003.
[4] Cfr. INPS,
circolare 29.03.2013 n. 49/2013, punto 2.
Tipologie di prestatori e attività, ove si precisa
che, a decorrere dal 18.07.2012, data di entrata in
vigore della legge n. 92/2012, il lavoro occasionale
accessorio può essere svolto da qualsiasi soggetto
(disoccupato, inoccupato, lavoratore autonomo o
subordinato, full-time o part-time, pensionato,
studente, percettore di prestazioni a sostegno del
reddito).
[5] Cfr. INPS,
circolare 09.07.2009 n. 88/2009.
[6] Cfr. la già citata circolare n. 49/2013, punto
2. Tipologie di prestatori e attività.
[7] Cfr. anche Voucher: il sistema dei buoni lavoro,
consultabile in: www.inps.it e Vademecum buoni
lavoro per lavoro occasionale accessorio,
consultabile in: www.lavoro.gov.it. Per eventuali
chiarimenti si suggerisce di contattare direttamente
la competente Agenzia delle entrate (07.10.2014
-
link
a www.regione.fvg.it). |
Ma dove sta scritta la
specificazione normativa del doppio paletto di cui
ai precedenti punti 2) e 3)?? Presto detto:
- in ordine al 1° vincolo [del compenso lordo
annuo pari a € 6.666,00 (netti € 5.000,00)]
ciò
è chiarito dall'INPS con propria
circolare 18.12.2013 n. 176;
- in ordine al 2° vincolo [del tetto dei 30 gg.
lavorativi l'anno]
ciò è chiarito dall'art.
61, comma 2, del D.Lgs. 10.09.2003 n. 276
(Attuazione delle deleghe in materia di
occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge
14.02.2003, n. 30) il quale così recita: "2.
Dalla disposizione di cui al comma 1 sono escluse le
prestazioni occasionali, intendendosi per tali
i rapporti di durata complessiva non superiore a
trenta giorni nel corso dell'anno solare con lo
stesso committente, (omissis)." |
QUINDI?? |
Quindi, di questi tempi recentissimi laddove il
malaffare dilagante ed imperante nella P.A. riempie
le prime pagine di televisione, stampa, web e
quant'altro, c'è da sperare che
i bravi ed onesti
dipendenti pubblici (che sono ancora la maggioranza)
non abbiano
vergogna di esserlo
ed abbiano uno scatto di orgoglio e non abbiano paura
di "segnalare" all'A.N.AC. (Autorità Nazionale
Anticorruzione) ogni fattispecie illegittima, tra l'altro con una semplice e-mail
(per informazioni
cliccare qui) alla quale sarà garantita la
necessaria riservatezza per evitare ritorsioni
personali.
22.12.2014 - LA SEGRETERIA PTPL |
IN EVIDENZA |
INCARICHI
PROGETTUALI:
Incarichi senza copertura, risponde il sindaco o il
dirigente.
Il comune che incarica il professionista per la
progettazione di un'opera pubblica ben può subordinare con
una clausola ad hoc il pagamento del compenso alla
concessione del finanziamento necessario a realizzare
l'intervento. Ma servono comunque la delibera autorizzativa
e la registrazione dell'impegno di spesa a bilancio,
altrimenti il rapporto obbligatorio non è riferibile
all'amministrazione ma intercorre invece fra il privato, da
una parte, e, dall'altra, l'amministratore locale o il
funzionario pubblico che ha autorizzato la fornitura. E ciò
anche quando è un altro ente, per esempio la regione, a
finanziare interamente l'intervento (vale anche per la
Sicilia, nonostante lo statuto speciale, perché si tratta di
leggi nazionali).
Lo stabiliscono le Sezz. unite civili della Corte di Cassazione con
la sentenza 18.12.2014 n. 26657 che compone
un contrasto di giurisprudenza.
Accolto, nella specie, il ricorso dell'ente locale. Vale
sempre il principio di contabilità pubblica secondo cui per
i comuni vige il divieto di effettuare qualsiasi spesa in
assenza di impegno contabile registrato dal ragioniere (o in
mancanza dal segretario) sul competente capitolo di bilancio
di previsione.
L'incarico di progettare l'opera pubblica affidato al
professionista non sfugge alla regola: l'ente locale non può
effettuare alcuna spesa se non c'è una delibera ad hoc che
l'autorizza e un relativo impegno contabile a bilancio da
comunicare ai terzi interessati: diversamente, dunque,
rispondono il sindaco o il dirigente che l'hanno consentito.
La previsione della clausola di copertura finanziaria nel
contratto stipulato con il professionista non può comunque
consentire di rinviare il momento in cui il comune deve
indicare l'ammontare della spesa e i mezzi per farvi fronte.
Insomma: non si può differire all'arrivo del finanziamento
l'osservanza delle modalità procedimentali previste per gli
enti locali. Nel caso in cui l'incarico è affidato senza
prima mettere nero su bianco l'impegno contabile e attestare
l'impegno finanziario ecco che si rompe il nesso di
immedesimazione organica con l'amministrazione, la quale non
può essere considerata responsabile, diversamente
dall'amministratore locale o dal funzionario pubblico. E
anche quando la provvista è a carico di un altro ente
l'obbligazione di pagamento resta sempre a carico del
comune, che è il soggetto finanziato. Resta da capire che
cosa accade al professionista.
Quando accetta la clausola che vincola il suo compenso
all'ottenimento del finanziamento dell'opera, il progettista
non rinuncia certo alle sue spettanze: si configura invece
l'inserimento in un contratto d'opera professionale,
normalmente oneroso, di una condizione potestativa (articolo
ItaliaOggi del 19.12.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Non è possibile
l'estensione del permesso di sanatoria al di fuori dei
presupposti della cosiddetta “doppia conformità”, di cui all'art. 36, d.P.R.
06.06.2001 n. 380, con la conseguenza che non può trovare
applicazione l'istituto della cosiddetta sanatoria
“giurisprudenziale” o “impropria”, poiché il
principio di buon andamento, che fa ritenere illogico che si
demolisca ciò che, al momento stesso, potrebbe essere
autorizzato in base allo strumento vigente, deve recedere di
fronte a quello, di pari rango costituzionale, di legalità
che vuole che, anche in questa materia, siano osservate le
disposizioni del legislatore.
Accanto alla sanatoria legale di cui
all’art. 36 del d.P.R. 327/2001, parte della giurisprudenza
ha riconosciuto in via puramente pretoria la possibilità di
sanatoria anche in presenza della sola conformità
urbanistico-edilizia con riferimento alla disciplina vigente
al momento della presentazione della domanda di accertamento
di conformità, evidenziando l’evidente contrasto con i
principi di buon andamento, economicità e ragionevolezza
dell’attività amministrativa che si verificherebbe dando
ingresso nell’ordinamento alla demolizione di opera solo
formalmente abusiva ma sostanzialmente riedificabile nella
stessa forma e consistenza dietro presentazione di istanza
di rilascio di titolo edilizio ordinario.
La ratio sottesa alla c.d. sanatoria giurisprudenziale, è
dunque da individuarsi nell'esigenza di non imporre la
demolizione di un'opera abusiva che, in quanto conforme alla
disciplina urbanistica in atto, dovrebbe essere
successivamente autorizzata su semplice presentazione di
istanza di rilascio in tal modo evitando uno spreco di
attività inutili, sia per l'Amministrazione, che per il
privato autore dell'abuso.
La tesi dell’ammissibilità di una sanatoria edilizia
giurisprudenziale era stata sostenuta in passato anche da
talune pronunce dell’adito Tribunale oltre che del supremo
consesso di Giustizia amministrativa.
Anche l’Adunanza Generale del Consiglio di Stato aveva
espresso parere favorevole in ordine all’ammissibilità,
entro certi limiti, di tale ulteriore forma di sanatoria,
fermo restando la sanzione penale per l’illecito commesso
nonché il pagamento di una oblazione maggiore rispetto
all’ipotesi di doppia conformità.
Trattasi però di tesi oggi ampiamente minoritaria in
giurisprudenza, se non del tutto recessiva.
Infatti, secondo l’orientamento oggi dominante, predicare
l'operatività della sanatoria giurisprudenziale, consentendo
la legittimazione postuma di opere originariamente e
sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di
legalità, rinveniente dagli art. 24, 97, 101 e 113 cost.,
oltre che dall'art. 1, comma 1, L. n. 241 del 1990 (secondo
cui “l'attività amministrativa persegue i fini determinati
dalla legge") sia in quanto svuoterebbe della sua portata
precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistica e
edilizia vigente al momento della commissione degli
illeciti, sia in quanto, estendendosi l'ambito oggettivo di
applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne
violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma
primaria che lo prevede (art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001)
alle sole violazioni di ordine formale.
Inoltre, si finirebbe per premiare gli autori degli abusi
edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano
correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso
convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece,
impunemente violate e risulterebbe attenuata, se non
addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell'apparato
sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo
del territorio.
Secondo poi una ulteriore tesi “mediana” -del tutto
minoritaria- la pur riconosciuta impossibilità a seguito
dell’entrata in vigore del d.P.R. 380/2001, di
autorizzazione postuma senza la “doppia conformità” potrebbe
“bilanciarsi” in sede sanzionatoria, potendosi in tal
segmento procedimentale -del tutto autonomo seppur connesso-
valutare l’irrazionalità della demolizione ai fini
dell’applicazione di una diversa sanzione.
Osserva il Collegio come, in linea di principio, l’istituto
della sanatoria giurisprudenziale possa rispondere
effettivamente ad esigenze di buon andamento dell’azione
amministrativa, dal momento che sarebbe obiettivamente in
contrasto con il principio di ragionevolezza ed economia dei
mezzi giuridici oltre che di giustizia sostanziale e di
proporzionalità, procedere alla demolizione di manufatto
abusivo realizzabile dall’interessato con la stessa forma e
consistenza immediatamente dopo, mediante la presentazione
di istanza di rilascio di titolo ordinario.
Si tratterebbe, come osservato da parte della dottrina, di
una mera causa di legittimazione postuma delle opere, sotto
il profilo esclusivamente amministrativo, diversamente dalla
sanatoria legale che come è noto ha effetto estintivo (pur
se non automatico) dei correlati reati edilizi.
E’ però vero che risulta arduo, anche sul piano sistematico,
ammettere un istituto con valenza sanante non previsto dalla
legge ed anzi in contrasto con la espressa previsione
dell’art. 36 T.U. edilizia, in considerazione della stessa
eccezionalità degli strumenti di sanatoria per i quali
sembrerebbe incompatibile la stessa predicabilità di forme
atipiche, avendo il principio di legalità e tipicità
dell’attività autoritativa in questa materia valenza ancor
più stringente. Non si tratta, infatti, di autotutela con
funzione di conservazione di pregressa attività illegittima,
bensì di sanatoria del tutto atipica inerente l’attività
illecita dei soggetti privati quale la realizzazione di
manufatto privo del necessario titolo abilitativo, non
rinvenendosi nell’ordinamento un generale ed indistinto
principio di sanabilità dell’attività illecita.
Potrebbe in ipotesi allora porsi d’ufficio la questione di
legittimità costituzionale dell’art 17 della legge regionale
umbra e del corrispondente art. 36 t.u. edilizia nella parte
in cui limitano o non prevedono con carattere di generalità
tale forma di sanatoria “minore” -con la doverosa
sottoposizione al pagamento di oblazione in misura maggiore,
in ossequio al principio di uguaglianza- poiché parrebbe
porsi in contrasto con il principio di ragionevolezza e di
uguaglianza (art. 3 Cost.) l’identica sanzionabilità di
situazioni obiettivamente diverse, quali la realizzazione di
opera tout court abusiva e la realizzazione di opera
originariamente abusiva ma poi divenuta conforme ai
successivi strumenti urbanistici.
La Corte Costituzionale ha più volte ribadito al riguardo la
natura di principio, tra l’altro vincolante per la
legislazione regionale, della previsione della “doppia
conformità” seppur con precipuo riferimento inizialmente ai
soli profili penalistici.
Con tale ultima pronuncia, in riferimento a giudizio di
costituzionalità di legge regionale della Toscana, ha
affermato che il rigore insito nel principio della “doppia
conformità” trova la propria ratio ispiratrice nella “natura
preventiva e deterrente” della sanatoria in questione,
finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da
escludere letture “sostanzialiste” della norma che
consentano la possibilità di regolarizzare opere in
contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente
al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi
solo al momento della presentazione dell’ istanza per
l’accertamento di conformità.
5. Preme evidenziare come con l’atto di motivi
aggiunti parte ricorrente non muova censure avverso la
sussistenza o meno del negato requisito della “doppia
conformità” richiesto dall’art. 17 della L.R. 21/2004, del
tutto non contestato, limitandosi ad invocare in buona
sostanza l’applicazione dell’istituto della “sanatoria
giurisprudenziale”.
5.1. Questione di diritto unica per la decisione della
presente controversia consiste pertanto nella ammissibilità
o meno, accanto alla sanatoria legale di tipo formale
codificata dall’art. 17 della richiamata legge regionale
(sostanzialmente ma non completamente ricalcante la
disposizione di cui all’art. 36 del vigente testo unico
dell’edilizia approvato con d.P.R. 380/2001) del controverso
istituto della sanatoria “giurisprudenziale”, ovvero di una
forma di sanatoria “minore” valevole ai soli fini
amministrativi, da ritenersi -secondo esegesi affatto
pacifica- implicita nell’ordinamento in base a diverse
ragioni logico sistematiche.
Come noto, sia in base all’art. 17 della L.R. Umbria 21/2004
che all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 (e ancor prima
all’art. 13 L. 47/1985) è possibile ottenere il permesso in
sanatoria solamente se l'intervento sine titulo realizzato
risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia
vigente al momento sia della sua realizzazione, sia della
presentazione della domanda.
A dire il vero, il citato art.
17 della legge regionale umbra presenta alcuni significativi
profili di deroga rispetto alla fattispecie di cui al testo
unico dell’edilizia, dal momento che nell’ultimo periodo del
primo comma è consentita la sanatoria anche in caso di sola
conformità alla disciplina urbanistica vigente al momento
della presentazione della domanda seppur limitatamente ai
soli cambi di destinazione d’uso. Il successivo art. 18 poi,
sempre in aperta deroga alla normativa statale, seppur in
via esclusivamente transitoria (“norme di prima
applicazione”) consente la sanatoria anche per le opere
conformi solo in via postuma, con la fissazione di un
termine (perentorio) per la presentazione delle relative
istanze di 120 giorni dall’entrata in vigore della legge
1/2004 (su cui TAR Umbria 14.01.2011, n. 9).
5.2. Accanto alla sanatoria legale di cui all’art. 36 del
d.P.R. 327/2001, parte della giurisprudenza ha riconosciuto
in via puramente pretoria la possibilità di sanatoria anche
in presenza della sola conformità urbanistico-edilizia con
riferimento alla disciplina vigente al momento della
presentazione della domanda di accertamento di conformità,
evidenziando l’evidente contrasto con i principi di buon
andamento, economicità e ragionevolezza dell’attività
amministrativa che si verificherebbe dando ingresso
nell’ordinamento alla demolizione di opera solo formalmente
abusiva ma sostanzialmente riedificabile nella stessa forma
e consistenza dietro presentazione di istanza di rilascio di
titolo edilizio ordinario.
La ratio sottesa alla c.d. sanatoria giurisprudenziale, è
dunque da individuarsi nell'esigenza di non imporre la
demolizione di un'opera abusiva che, in quanto conforme alla
disciplina urbanistica in atto, dovrebbe essere
successivamente autorizzata su semplice presentazione di
istanza di rilascio in tal modo evitando uno spreco di
attività inutili, sia per l'Amministrazione, che per il
privato autore dell'abuso (ex multis Consiglio di Stato sez.
V, 06.07.2012, n. 3961).
La tesi dell’ammissibilità di una sanatoria edilizia
giurisprudenziale era stata sostenuta in passato anche da
talune pronunce dell’adito Tribunale (TAR Umbria 14.01.2011, n. 9; vedi
ex multis anche TAR Abruzzo-Pescara 30.05.2007, n. 583) oltre che del supremo
consesso di Giustizia amministrativa (Consiglio di Stato
sez. V, 28.05.2004, n. 3431; id. sez. V, 21.10.2003,
n. 6498; id. sez. VI, 07.05.2009 n. 2835).
Anche l’Adunanza Generale del Consiglio di Stato (parere n.
52/2001) aveva espresso parere favorevole in ordine
all’ammissibilità, entro certi limiti, di tale ulteriore
forma di sanatoria, fermo restando la sanzione penale per
l’illecito commesso nonché il pagamento di una oblazione
maggiore rispetto all’ipotesi di doppia conformità.
5.3. Trattasi però di tesi oggi ampiamente minoritaria in
giurisprudenza, se non del tutto recessiva.
Infatti, secondo l’orientamento oggi dominante, predicare
l'operatività della sanatoria giurisprudenziale, consentendo
la legittimazione postuma di opere originariamente e
sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di
legalità, rinveniente dagli art. 24, 97, 101 e 113 cost.,
oltre che dall'art. 1, comma 1, L. n. 241 del 1990 (secondo
cui “l'attività amministrativa persegue i fini determinati
dalla legge") sia in quanto svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistica e
edilizia vigente al momento della commissione degli
illeciti, sia in quanto, estendendosi l'ambito oggettivo di
applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne
violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma
primaria che lo prevede (art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001)
alle sole violazioni di ordine formale.
Inoltre, si
finirebbe per premiare gli autori degli abusi edilizi
sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano
correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso
convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece,
impunemente violate e risulterebbe attenuata, se non
addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell'apparato
sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo
del territorio (ex multis TAR Campania Napoli sez. VIII,
03.07.2012, n. 3153; TAR Toscana sez. III, 13.05.2011, n. 837; Consiglio di Stato sez. V,
06.07.2012,
n. 3961).
5.4. Secondo poi una ulteriore tesi “mediana” -del tutto
minoritaria- la pur riconosciuta impossibilità a seguito
dell’entrata in vigore del d.P.R. 380/2001, di
autorizzazione postuma senza la “doppia conformità” potrebbe
“bilanciarsi” in sede sanzionatoria, potendosi in tal
segmento procedimentale -del tutto autonomo seppur connesso- valutare l’irrazionalità della demolizione (TAR
Piemonte 18.10.2004, n. 2506) ai fini dell’applicazione
di una diversa sanzione.
5.5. Osserva il Collegio come, in linea di principio,
l’istituto della sanatoria giurisprudenziale possa
rispondere effettivamente ad esigenze di buon andamento
dell’azione amministrativa, dal momento che sarebbe
obiettivamente in contrasto con il principio di
ragionevolezza ed economia dei mezzi giuridici oltre che di
giustizia sostanziale e di proporzionalità, procedere alla
demolizione di manufatto abusivo realizzabile
dall’interessato con la stessa forma e consistenza
immediatamente dopo, mediante la presentazione di istanza di
rilascio di titolo ordinario.
Si tratterebbe, come osservato da parte della dottrina, di
una mera causa di legittimazione postuma delle opere, sotto
il profilo esclusivamente amministrativo, diversamente dalla
sanatoria legale che come è noto ha effetto estintivo (pur
se non automatico cfr. Cassazione penale sez. III, 05.07.2010, n. 25387) dei correlati reati edilizi.
E’ però vero che risulta arduo, anche sul piano sistematico,
ammettere un istituto con valenza sanante non previsto dalla
legge ed anzi in contrasto con la espressa previsione
dell’art. 36 T.U. edilizia, in considerazione della stessa
eccezionalità degli strumenti di sanatoria (ex multis
Consiglio di Stato sez. VI, 13.02.2013, n. 894) per i
quali sembrerebbe incompatibile la stessa predicabilità di
forme atipiche, avendo il principio di legalità e tipicità
dell’attività autoritativa in questa materia valenza ancor
più stringente. Non si tratta, infatti, di autotutela con
funzione di conservazione di pregressa attività illegittima,
bensì di sanatoria del tutto atipica inerente l’attività
illecita dei soggetti privati quale la realizzazione di
manufatto privo del necessario titolo abilitativo, non
rinvenendosi nell’ordinamento un generale ed indistinto
principio di sanabilità dell’attività illecita (ex multis
TAR Piemonte 18.10.2004, n. 2506).
5.6. Potrebbe in ipotesi allora porsi d’ufficio la questione
di legittimità costituzionale dell’art 17 della legge
regionale umbra e del corrispondente art. 36 t.u. edilizia
nella parte in cui limitano o non prevedono con carattere di
generalità tale forma di sanatoria “minore” -con la
doverosa sottoposizione al pagamento di oblazione in misura
maggiore, in ossequio al principio di uguaglianza- poiché
parrebbe porsi in contrasto con il principio di
ragionevolezza e di uguaglianza (art. 3 Cost.) l’identica sanzionabilità di situazioni obiettivamente diverse, quali
la realizzazione di opera tout court abusiva e la
realizzazione di opera originariamente abusiva ma poi
divenuta conforme ai successivi strumenti urbanistici.
La Corte Costituzionale ha più volte ribadito al riguardo la
natura di principio, tra l’altro vincolante per la
legislazione regionale, della previsione della “doppia
conformità” (sent. nn. 31.03.1998 n. 370; 13.05.1993
n. 231; 27.02.2013, n. 101) seppur con precipuo
riferimento inizialmente ai soli profili penalistici (sent.
370/1998 e 231/1993).
Con tale ultima pronuncia, in riferimento a giudizio di
costituzionalità di legge regionale della Toscana, ha
affermato che il rigore insito nel principio della “doppia
conformità” trova la propria ratio ispiratrice nella “natura
preventiva e deterrente” della sanatoria in questione,
finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da
escludere letture “sostanzialiste” della norma che
consentano la possibilità di regolarizzare opere in
contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente
al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi
solo al momento della presentazione dell’ istanza per
l’accertamento di conformità.
La Consulta ha dunque già vagliato anche sotto il profilo
amministrativo la costituzionalità della disciplina in
questione, nel senso della assoluta inconciliabilità tra
l’istituto legale e quello pretorio, ragion per cui ritiene
il Collegio di non dover sollevare d’ufficio questione di
legittimità costituzionale, da ritenersi manifestamente
infondata alla luce delle precisazioni del giudice
costituzionale -come peraltro incidentalmente già rilevato
(Consiglio di Stato sez. V, 11.06.2013, n.3220)- se non
inammissibile.
In disparte per tanto ogni considerazione, sul piano della
opportunità, in merito al mancato riconoscimento in via
normativa di tale forma di sanatoria, è da escluderne la
creazione per via ermeneutica, come vorrebbero i ricorrenti.
5.7. In definitiva, non è possibile l'estensione del
permesso di sanatoria al di fuori dei presupposti della
cosiddetta “doppia conformità”, di cui all'art. 36, d.P.R.
06.06.2001 n. 380, con la conseguenza che non può trovare
applicazione l'istituto della cosiddetta sanatoria
“giurisprudenziale” o “impropria”, poiché il principio di
buon andamento, che fa ritenere illogico che si demolisca
ciò che, al momento stesso, potrebbe essere autorizzato in
base allo strumento vigente, deve recedere di fronte a
quello, di pari rango costituzionale, di legalità che vuole
che, anche in questa materia, siano osservate le
disposizioni del legislatore (ancora TAR Puglia Lecce
sez. III, 09.12.2010 n. 2816).
5.8. Fermo restando quanto sopra esposto, ritiene invece il
Collegio non escludibile a priori, in nome dei richiamati
principi di ragionevolezza ed economia dei mezzi giuridici,
la possibilità per l’Amministrazione di valutare
discrezionalmente, in sede sanzionatoria, la possibilità di
applicare misure alternative alla demolizione, ove non
sussistano al riguardo ragioni ostative al pubblico
interesse da indicare con congrua motivazione (quali la
presenza di vincoli ambientali ecc.) analogamente a quanto
già previsto in riferimento ad altre ipotesi di violazioni
edilizie meramente formali, segnatamente all’art. 38 del
T.U. edilizia, seppur norma di “speciale favore” (cfr.
TAR Liguria sez. I, 18.02.2014, n. 282)
(TAR Umbria,
sentenza 03.12.2014 n. 590 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
SICUREZZA LAVORO:
Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro.
Disponibile il testo coordinato nell'edizione
dicembre 2014.
Disponibile on-line il testo coordinato del Decreto
Legislativo 09.04.2008 n. 81 in materia di tutela della
salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro con tutte le
disposizioni integrative e correttive.
Novità in questa versione:
Modificati gli artt. 28, comma 3-bis e 29, comma 3 come
previsto dall’art. 13 della Legge 30/10/2014, n. 161,
recante “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi
derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea -
Legge europea 2013-bis”, pubblicata sulla GU n. 261 del
10/11/2014, entrata in vigore il 25/11/2014;
• Sostituito il decreto dirigenziale del 22.01.2014 con il
decreto dirigenziale del 29.09.2014 riguardante il nono
elenco dei soggetti abilitati per l’effettuazione delle
verifiche periodiche di cui all’art. 71, comma 11 (avviso
pubblicato nella G.U. n. 230 del 03.10.2014);
• Inserito il Decreto interministeriale 09.09.2014
riguardante i modelli semplificati per la redazione del
piano operativo di sicurezza, del piano di sicurezza e di
coordinamento e del fascicolo dell'opera nonché del piano di
sicurezza sostitutivo. (avviso pubblicato nella G.U. n. 212
del 12.09.2014).
• Inserito il decreto interministeriale 22.07.2014 “Disposizioni
che si applicano agli spettacoli musicali, cinematografici e
teatrali e alle manifestazioni fieristiche tenendo conto
delle particolari esigenze connesse allo svolgimento delle
relative attività”;
• Sostituito il decreto dirigenziale del 31.03.2014 con il
decreto dirigenziale del 21.07.2014 riguardante il quarto
elenco dei soggetti abilitati ad effettuare i lavori sotto
tensione in sistemi di II e III categoria;
• Inseriti gli interpelli dal n. 10 al n. 15 del 11/07/2014,
dal n. 16 al n. 23 del 06/10/2014 e dal n. 24 al n. 25 del
04/11/2014 (link a www.lavoro.gov.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI
LOCALI - VARI:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 51 del 19.12.2014, "Istituzione
della Leva civica volontaria regionale"
(L.R. 16.12.2014 n. 33). |
ENTI
LOCALI: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 51 del 19.12.2014, "Regolamento
per l’accesso alle aree e ai locali per il gioco d’azzardo
lecito, in attuazione dell’art. 4, comma 10, della l.r.
21.10.2013, n. 8" (regolamento
regionale 16.12.2014 n. 5). |
APPALTI - EDILIZIA
PRIVATA: G.U.
15.12.2014 n. 290 "Modifica del saggio di interesse
legale"
(Ministero dell'Economia e delle Finanze,
decreto 11.12.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 15.12.2014, "Approvazione
dell’elaborato “Criteri tecnici di dettaglio per la
redazione dei piani di assestamento forestale di Regione
Lombardia”" (decreto
D.S. 01.12.2014 n. 11371). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA:
P. Mantegazza,
Prime osservazioni sulle norme interessanti l’edilizia e
l’urbanistica introdotte dal d.l. n. 133/2014 convertito in
legge dalla l. n. 164/2014
(dicembre 2014 - tratto da http://camerainsubria.blogspot.it. |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: F.
Fraternali,
Green Public Procurement (Rassegna Avvocatura
dello Stato n. 3/2014).
---------------
SOMMARIO: Introduzione - 1. Green Public
Procurement: sinossi teorica - 1.1 Nozione di Green Public
Procurement (GPP) - 1.2 Sinossi delle leggi e delle
strategie riguardanti il Green Public Procurement - 1.3
Vantaggi, difficoltà ed obiettivi del Green Public
Procurement - 1.4 Corte dei Conti: Premio GPP Consip 2010 -
2. Best Practice: un caso esemplare - 2.1 Interventi di GPP
presso gli uffici di Via Baimonti e Caserma Montezemolo - 3.
Best Practice: una analisi economica - 3.1 L’impianto
fotovoltaico - Conclusioni. |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
I. Luce,
L’affidamento di incarichi esterni da parte della p.A. - TAR
CAMPANIA-SALERNO, SEZ. II, SENTENZA 16.07.2014 N. 1383 (Rassegna Avvocatura
dello Stato n. 3/2014).
---------------
SOMMARIO: 1. Premessa - 2. Il fatto - 3. Il quadro
normativo - 4. I presupposti - 5. Il procedimento;
differenza con l’appalto di servizi. |
EDILIZIA
PRIVATA:
R. Costanzi,
Il dialogo partecipativo tra privato e p.A. nella fase di
controllo successiva alla presentazione della segnalazione
certificata di inizio attività: s.c.i.a. e preavviso di
rigetto - TAR LOMBARDIA-MILANO, SEZ. II, SENTENZA 03.04.2014
N. 880 (Rassegna Avvocatura
dello Stato n. 3/2014).
----------------
SOMMARIO: 1. La sentenza - 2. La ricostruzione di
matrice privatistica dell’istituto e l’orientamento
prevalente che nega l’applicabilità dell’art. 10-bis L.
241/1990 alla s.c.i.a. - 3. I dubbi di parte della
giurisprudenza (e dottrina) contraria alla tesi prevalente -
4. Osservazioni conclusive. |
PUBBLICO
IMPIEGO:
E. Grippaudo,
L’onere della prova nel mobbing -
CASSAZIONE CIVILE, SEZ. LAV., SENTENZA 14.05.2014 N. 10424
- L’annullamento in autotutela e la pluralità soggettiva
degli organi “mobbizzanti” contribuiscono ad escludere la
responsabilità per mobbing della Pubblica Amministrazione (Rassegna Avvocatura
dello Stato n. 3/2014).
---------------
SOMMARIO: 1. La fattispecie decisa con la sentenza
10424/2014 - 2. Storie di cocci che non si riparano - 3. Il
mobbing nel diritto vigente - 4. Elementi costitutivi del
mobbing - 5. L’azione di risarcimento - 6. Considerazioni
conclusive. |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI: Dall'Anac un bollino blu sugli appalti.
Le p.a. potranno chiedere un visto di conformità preventivo.
Un visto di conformità preventivo sugli appalti. Le stazioni
appaltanti potranno chiedere all'Autorità nazionale
anticorruzione (Anac) un controllo sui bandi di gara e
sull'esecuzione del contratto di appalto, anche per impedire
le infiltrazioni criminali; la cosiddetta «vigilanza
preventiva» sarà attivabile per appalti relativi a grandi
opere, grandi eventi e calamità naturali.
È quanto prevede l'Anac con il
nuovo regolamento
09.12.2014 in materia
di attività di vigilanza e accertamenti ispettivi varato il
15.12.2014 e pubblicato sul proprio sito
(www.anticorruzione.it, o www.avcp.it).
Il provvedimento
sostituisce il precedente di più di tre anni fa, pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale n. 189 del 16.08.2011 e
risponde all'esigenza di rendere più penetranti ed incisivi
gli interventi dell'Autorità. La più importante novità del
provvedimento riguarda l'introduzione della cosiddetta
“vigilanza collaborativa”, una forma particolare ed
“eccezionale” di verifica di conformità degli atti di gara e
dei comportamenti delle stazioni appaltanti rispetto alla
normativa vigente.
Questa attività di supervisione e
controllo sugli atti di gara e sull'esecuzione dei contratti
in precedenza veniva rimessa alla sottoscrizione di appositi
accordi fra amministrazione e Autorità. Adesso, con il nuovo
regolamento firmato dal presidente Anac Raffaele Cantone,
questa attività di controllo preventivo viene espressamente
disciplinata con la finalità non soltanto di garantire il
corretto svolgimento delle operazioni di gara e
dell'esecuzione dell'appalto, ma anche di impedire tentativi
di infiltrazione criminale nell'ambito di contratti pubblici
particolarmente rilevanti tramite un costante monitoraggio
delle attività di rilevanza pubblica.
La vigilanza
collaborativa però non potrà essere chiesta in ogni caso: il
regolamento stabilisce infatti che possa essere attivata
dalle stazioni appaltanti solo al ricorrere di determinati
presupposti, sostanzialmente riconducibili alle grandi opere
pubbliche, riconosciute come strategiche o previste in
occasione di grandi eventi di varia natura, ovvero che si
rendano necessarie a seguito di calamità naturali, o ancora
ad interventi per i quali sono stati erogati fondi
comunitari.
Il regolamento prevede inoltre che le stazioni
appaltanti possano chiedere la “vigilanza collaborativa”
anche nei casi in cui si attiva il cosiddetto
“commissariamento" dell'impresa coinvolta in inchieste
giudiziarie (ai sensi del decreto-legge 90/2014), oppure in
presenza di rilevate situazioni anomale o sintomatiche di
condotte illecite. Per il resto il provvedimento
dell'Authority, che entrerà in vigore il giorno successivo a
quello della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale ed è
composto da 19 articoli, riporta al Consiglio Anac la
funzione di coordinamento e di indirizzo puntuale
dell'attività di vigilanza, anche sotto il profilo delle
priorità da assegnare ai singoli esposti. Le attività di
indagine ispettiva e di vigilanza potranno essere svolte sia
d'ufficio, sia su istanza motivata di chiunque ne abbia
interesse compilando appositi format previsti per i lavori e
per le forniture e i servizi.
È prevista anche una disciplina delle modalità di gestione
degli esposti anonimi: in via generale verranno archiviati
ma, nei casi di denunce riguardanti fatti di particolare
gravità, circostanziate e adeguatamente motivate, il
dirigente potrà comunque trasmetterlo all'Ufficio ispettivo
o all'Ufficio piani di vigilanza e vigilanze speciali per lo
svolgimento delle attività di competenza.
Le istruttorie dovranno concludersi entro 180 giorni, con
una proroga al massimo di 90 giorni; la gestione dei
procedimenti non dovrebbe andare oltre i 9 mesi (in passato
si è anche arrivati a 6 anni)
(articolo
ItaliaOggi del 17.12.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Province: l'emendamento aggiuntivo previsto dal
Governo alla legge di stabilità 2015
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 15.12.2014). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
RSU 2015
(C.S.A. di Roma,
comunicato 11.12.2014 n. 3). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: SISTRI: entrata in vigore delle sanzioni
(ANCE Bergamo,
circolare 19.12.2014 n. 235). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: ARPA LOMBARDIA: aggiornamento della circolare
sulla gestione dei materiali da scavo e nuovo modello di
comunicazione (ANCE Bergamo,
circolare 19.12.2014 n. 234).
---------------
La modulistica aggiornata di ARPA LOMBARDIA è scaricabile
cliccando qui. |
TRIBUTI:
Oggetto: No alla TARI per magazzini e aree “collegate”
alla produzione di rifiuti speciali - R.M. n. 2/DF (ANCE
Bergamo,
circolare 19.12.2014 n. 233). |
APPALTI - EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Variazione del tasso di interesse legale: anno
2015 (ANCE Bergamo,
circolare 19.12.2014 n. 230). |
TRIBUTI: Oggetto:
Tassa sui rifiuti (TARI). Determinazione della superficie
tassabile. Quesito (Ministero dell'Economia e delle
Finanze,
risoluzione 09.12.2014 n. 2/DF). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA:
GESTIONE DEI MATERIALI DA SCAVO alla luce della L.
09.08.2013 n. 98 di conversione, con modifiche, del D.L.
21.06.2013 n. 69 (cd “Decreto Fare”) - Aggiornamento n.
1/2014 (ARPA Lombardia - 01.12.2014 - link
a www2.arpalombardia.it ):
●
Modulo di conferma completo utilizzo materiali da scavo
●
Modulo dichiarazione |
EDILIZIA
PRIVATA:
Oggetto: d.P.R. 07.09.2010, n. 160 recante: “Regolamento
per la semplificazione ed il riordino della disciplina sullo
Sportello unico per le attività produttive” – Problematiche
relative alle modalità di aggiornamento del REA
(Ministero dello Sviluppo Economico,
nota 18.11.2014 n. 204724 di prot.) |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Facilitate le nuove assunzioni.
Si tiene conto delle possibili cessazioni nei 3 anni
successivi.
CORTE CONTI/ La sezione autonomie fa chiarezza su una norma
della riforma Madia.
Per programmare nuove assunzioni, gli enti locali possono
tenere conto delle cessazioni prevedibili nell'arco del
triennio successivo.
È questo l'importante chiarimento
fornito dalla Corte dei conti, sezione autonomie, nella
deliberazione
21.11.2014 n. 27/2014.
La pronuncia fa chiarezza sulla
portata dell'art. 3, comma 5, del dl 90/2014, nella parte in
cui dispone che «a decorrere dall'anno 2014 è consentito il
cumulo delle risorse destinate alle assunzioni per un arco
temporale non superiore a tre anni, nel rispetto della
programmazione del fabbisogno e di quella finanziaria e
contabile». Tale previsione aveva posto più di un dubbio
agli operatori.
In particolare, non era chiaro se essa
comportasse il superamento dell'orientamento a suo tempo
espresso dalle sezioni riunite in sede di controllo con la
deliberazione n. 52/2010, che aveva stabilito che potevano
essere ricoperte anche in anni successivi a quello
immediatamente seguente tutte le cessazioni intervenute dal
2006 in poi rimaste inutilizzate (cosiddetti resti). Secondo
la sezione autonomie, invece, il legislatore ha voluto
risolvere un problema diverso, pur presente negli enti che
debbono ridurre la spesa, affermando la possibilità di
tenere conto delle cessazioni future ma già definite (per
esempio, i pensionamenti già programmati).
Infatti, il
riferimento alla programmazione sembra lasciare intendere
che il triennio possa essere quello successivo al 2014, così
come la dicitura riferita alle risorse «destinate» alle
assunzioni. Da quest'anno, quindi, le nuove assunzioni
possono essere programmate destinando alle stesse, oltre
alle risorse assunzionali già acquisite, anche quelle che
tengano conto delle cessazioni previste nel triennio
successivo. Rimane fermo, ovviamente, che per procedere
effettivamente all'assunzione la capacità assunzionale si
dovrà effettivamente concretizzare attraverso le cessazioni
preventivate. Ciò, sottolineano i giudici contabili, risulta
funzionale anche perché, di solito, gli enti impiegano un
periodo di tempo piuttosto lungo per svolgere un concorso
pubblico: questa norma consente, perciò, di rendere la
programmazione più coerente anche con i fabbisogni futuri.
Sull'utilizzabilità dei resti, tuttavia, la sezione
autonomie opera comunque una stretta, affermando che tale
strada risulta ora praticabile solo per gli enti non
soggetti al Patto di stabilità interno (come originariamente
affermato dalle sezioni riunite), senza più ammetterne
l'estensione (consentita da alcune sezione regionali) anche
agli enti soggetti. Ciò in quanto gli interventi effettuati
dal legislatore (e in particolare quelli volti ad ampliare
la percentuale di turnover ammessa) hanno un impatto
complessivo e sono indirizzati a disciplinare ex novo la
materia delle assunzioni del personale per gli enti
sottoposti al Patto, non lasciando spazio per
interpretazioni estensive.
Ne deriva, pertanto, che tali enti, laddove abbiano ancora
margini assunzionali derivanti da cessazioni avvenute
nell'anno 2012 e precedenti, non possono più utilizzarle per
effettuare nuove assunzioni
(articolo
ItaliaOggi del 12.12.2014). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
L'art. 92 del codice dei contratti pubblici, per
l'esplicita formulazione del testo e per la ratio che lo
ispira, permette di riconoscere l'incentivo ai dipendenti
incaricati dell'attività di progettazione solo ove questa
sia finalizzata alla costruzione di un'opera pubblica, la
cui realizzazione sia preceduta da una necessaria attività
di progettazione e per il cui affidamento si faccia ricorso
a procedure di evidenza pubblica. La presenza di tali
circostanze è, pertanto, elemento preliminare indispensabile
per la legittima attribuzione dell'incentivo.
---------------
Rientra nell’autonomia decisionale dell’ente richiedente
identificare le attività di cui alla legge forestale
regionale che, attuandosi previa progettazione confluente
nella realizzazione di un’opera, e realizzando in concreto
le finalità di “presidio e difesa ambientale e di ingegneria
naturalistica”, legittimano il riconoscimento dell’incentivo
alla progettazione previsto dall’art. 92 del codice dei
contratti.
--------------
Con la nota in epigrafe, il Presidente della Provincia di
Pistoia ha richiesto, per il tramite del Consiglio delle
autonomie locali, il parere di questa Sezione sul punto se
gli interventi pubblici forestali di cui all'art. 10 della
legge regionale 21.03.2000, n. 39 possano farsi rientrare
fra le opere di presidio e difesa ambientale e di ingegneria
naturalistica ai sensi dell'art. 3, co. 8, del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, e possano quindi dar
luogo legittimamente alla corresponsione degli incentivi
previsti dal medesimo decreto legislativo al personale
dipendente interno incaricato della progettazione di tali
lavori.
...
3. – L’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006 (codice dei
contratti pubblici) recita: “Una somma non superiore al due
per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di
un lavoro [...] è ripartita, per ogni singola opera o
lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata e assunti in un regolamento
adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del
procedimento e gli incaricati della redazione del progetto,
del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché tra i loro collaboratori".
Quanto alla nozione di "opera" o "lavoro", l'art. 3, comma 8,
del medesimo d.lgs. precisa che: "I 'lavori' di cui
all'Allegato I comprendono le attività di costruzione,
demolizione, recupero, ristrutturazione, restauro,
manutenzione, di opere. Per 'opera' si intende il risultato
di un insieme di lavori, che di per sé esplichi una funzione
economica o tecnica. Le opere comprendono sia quelle che
sono il risultato di un insieme di lavori edilizi o di genio
civile, sia quelle di presidio e difesa ambientale e di
ingegneria naturalistica".
L'amministrazione provinciale di Pistoia, ai fini
dell'attribuzione dei predetti incentivi al proprio
personale, si interroga sulla qualificabilità come opere “di
presidio e difesa ambientale e di ingegneria naturalistica"
degli interventi pubblici forestali previsti dall'art. 10
della l.r. 21.03.2000, n. 39 (legge forestale della
Toscana).
Tale disposizione stabilisce al comma 1 che: "Gli interventi
pubblici forestali realizzano opere e servizi volti a
tutelare, migliorare e ampliare i boschi della Toscana ed a
garantirne la funzione sociale", mentre al successivo comma
2 precisa: "Sono interventi pubblici forestali:
a) i rimboschimenti finalizzati a difendere il suolo,
regimare le acque, preservare e migliorare la qualità
dell’ambiente e del paesaggio, prevenire o contenere i danni
da valanghe e altre calamità, consolidare le dune e le zone
litoranee;
b) le sistemazioni idraulico-forestali volte agli stessi
fini di cui alla lettera a);
c) le cure colturali ai rimboschimenti di cui alla lettera
a) fino alla loro completa affermazione e la manutenzione
straordinaria delle sistemazioni di cui alla lettera b) per
mantenerne le funzionalità;
d) il miglioramento di boschi degradati e di quelli
danneggiati o distrutti dal fuoco o da altre cause avverse;
e) le conversioni e le trasformazioni boschive volte a
conferire una maggiore stabilità biologica ed un migliore
assetto ambientale e paesaggistico all’area forestale
interessata;
f) la creazione ed il miglioramento di boschi periurbani o
comunque destinati a fini sociali, culturali e didattici;
g) la cura, la manutenzione e la sorveglianza dei boschi di
proprietà della Regione e di altri enti pubblici;
h) la rinaturalizzazione, anche tramite specie forestali
autoctone e tecniche d’ingegneria naturalistica di aree
degradate, di corsi d’acqua e di rimboschimenti;
i) le opere ed i servizi volti a prevenire e reprimere gli
incendi boschivi, a difendere il bosco da attacchi
parassitari e da danni di altra origine;
l) l’azione di pronto intervento ed il ripristino nelle zone
forestali colpite da calamità naturali o da eventi di
eccezionale gravità;
m) la viabilità forestale e le opere costruttive connesse
agli interventi di cui alle lettere da a) a l);
n) la produzione di materiale forestale di propagazione (MFP)
necessario per gli interventi di cui alle lettere da a) a l)
e per la distribuzione gratuita a favore di chi attua
volontariamente rimboschimenti, migliorie boschive e
sistemazioni idraulico-forestali a fini di difesa e
miglioramento ambientale".
4. - Questa Sezione ha già chiarito in passato (v., fra le
altre,
parere 30.08.2012 n. 290 e
parere 19.03.2013 n. 15, conformi peraltro all’orientamento di altre Sezioni
regionali) che l'art. 92 del codice dei contratti pubblici,
per l'esplicita formulazione del testo e per la ratio che lo
ispira, permette di riconoscere l'incentivo ai dipendenti
incaricati dell'attività di progettazione solo ove questa
sia finalizzata alla costruzione di un'opera pubblica, la
cui realizzazione sia preceduta da una necessaria attività
di progettazione e per il cui affidamento si faccia ricorso
a procedure di evidenza pubblica. La presenza di tali
circostanze è, pertanto, elemento preliminare indispensabile
per la legittima attribuzione dell'incentivo.
Ciò premesso, va esaminata la questione dell’ascrivibilità
degli interventi forestali di cui alla legge regionale
toscana alle opere di presidio e difesa ambientale e di
ingegneria naturalistica menzionate dal codice dei contratti
pubblici.
L’esame dei due testi normativi mostra che essi si
propongono obiettivi non coincidenti, l'uno (la legge
regionale toscana) avendo di mira la tutela ed il
miglioramento del patrimonio boschivo, anche tenuto conto
della sua funzione sociale (cfr. il già citato 1° comma
dell’art. 10), l'altro (il codice dei contratti)
comprendendo invece nel proprio oggetto, fra l’altro, le
opere destinate alla salvaguardia e messa in sicurezza del
territorio.
La diversità di finalità dei due testi normativi non
consente una associazione automatica e inequivoca delle voci
elencate dalla legge regionale con il concetto di opera
pubblica come sopra identificato, ma si ritiene senz’altro
possibile un’intersezione tra le due discipline, in
riferimento a quegli interventi forestali che presentano
caratteristiche di strumentalità rispetto ad obiettivi di
difesa del suolo e contrasto al degrado territoriale.
E’
noto infatti che l'azione di messa in sicurezza del
territorio può attuarsi anche mediante rinsaldamenti e opere
costruttive che prevedono l’impiego di materiale vegetale
vivo (da solo o in associazione a materiali inerti), per la
sua capacità di contenimento dei fenomeni erosivi e
trattenimento del suolo (e in ciò consistono appunto le
tecniche di ingegneria naturalistica).
Tanto considerato, rientra nell’autonomia decisionale
dell’ente richiedente identificare le attività di cui alla
legge forestale regionale che, attuandosi previa
progettazione confluente nella realizzazione di un’opera, e
realizzando in concreto le finalità di “presidio e difesa
ambientale e di ingegneria naturalistica”, legittimano il
riconoscimento dell’incentivo alla progettazione previsto
dall’art. 92 del codice dei contratti (Corte dei Conti, Sez.
controllo Toscana,
parere 12.11.2014
n. 239). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
La possibilità di
corrispondere l’incentivo è limitata all’area degli appalti
pubblici di lavori, e non si estende agli appalti di servizi
manutentivi; in ragione della natura eccezionale della
deroga, l’incentivo non può riconoscersi per qualunque
intervento di manutenzione straordinaria/ordinaria, ma solo
per lavori finalizzati alla realizzazione di un’opera
pubblica, e sempre che alla base sussista una necessaria
attività progettuale (ancorché non condizionata alla
presenza di tutte e tre le fasi della progettazione:
preliminare, definitiva ed esecutiva); si devono escludere
dall’ambito di applicazione dell’incentivo tutti i lavori di
manutenzione per il cui affidamento non si proceda mediante
svolgimento di una gara (com’è il caso per i lavori di
manutenzione eseguiti in economia).
In base a tali orientamenti, appare evidente che le
ipotesi di riconoscibilità dell’incentivo ad attività di
manutenzione ordinaria, anche laddove riconosciute
astrattamente possibili, presenterebbero in concreto margini
molto limitati, spettando comunque all’ente di valutare
quale sia la soglia minima di complessità tecnica e
progettuale che ne giustifichi la corresponsione.
---------------
In passato la Sezione Toscana
ha adottato l’interpretazione più restrittiva, ritenendo che
“l’art. 92 presuppone l’attività di progettazione, nelle
varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla
costruzione dell’intera opera pubblica progettata”, e
traendone la conclusione che, a priori, i lavori di
manutenzione ordinaria non siano da ricomprendere tra le
attività retribuibili con l’incentivo in questione.
---------------
Sul punto è ormai intervenuto il d.l. 24.06.2014, n.
90, convertito dalla l. 11.08.2014, n. 114 che,
nell’abrogare il citato art. 92, comma 5, preclude
espressamente, per il futuro, la riconoscibilità
dell’incentivo all’intero novero di attività qualificabili
come manutentive, sia straordinarie che ordinarie, a
prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività
di progettazione.
Tuttavia, poiché la richiamata novella non costituisce
interpretazione autentica e non si applica pertanto in via
retroattiva, le considerazioni sopra esposte restano valide
con riferimento alle attività di manutenzione compiute sotto
il vigore della disciplina soppressa, ma non ancora
liquidate alla data di entrata in vigore del d.l. 90; per
esse l’ente conserva infatti il proprio interesse ad
ottenere l’avviso della Corte.
---------------
Il Presidente della Giunta Regionale Toscana ha inoltrato
alla Sezione, con nota prot. n. AOOGRT/0075429A.60.20 del
19.03.2014, una richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, co.
8, della l. 05.06.2003, n. 131, avente ad oggetto le
condizioni per la riconoscibilità al personale dipendente
dalla Regione dell’incentivo alla progettazione previsto
dall’art. 92, comma 5, del codice dei contratti, in
relazione ai lavori di manutenzione ordinaria.
...
3. Nel merito del quesito, il Presidente della Regione
chiede specificamente se gli incentivi predetti possano
essere riconosciuti al personale regionale in relazione a
“lavori di manutenzione ordinaria, inseriti nella
programmazione dei lavori pubblici dell’ente”, per il cui
affidamento “sia stata adottata una procedura ad evidenza
pubblica” e sia prevista un’attività di progettazione ai
sensi dell’art. 93 del codice dei contratti, ovvero
dell’art. 105, commi 1 e 2, del DPR 207/2010, o infine
dell’art. 249 del medesimo DPR (riguardante, quest’ultimo, i
beni del patrimonio culturale).
4. L’ente richiedente è avveduto della complessa questione
interpretativa concernente la spettanza dell’incentivo di
progettazione, e correttamente richiama le condizioni
progressivamente enucleate dalla Corte dei conti in sede
consultiva per ritenere applicabile il beneficio anche agli
interventi di manutenzione.
Posto che l’incentivo in questione dà luogo ad una ipotesi
derogatoria del principio di onnicomprensività e
determinazione contrattuale della retribuzione, e non si
presta pertanto a interpretazione analogica, le numerose
pronunce delle Sezioni regionali di controllo intervenute
nella materia (si vedano, fra le altre: Sez. controllo
Lombardia,
parere 06.03.2013 n. 72 e
parere 28.05.2014 n. 188; Sez.
controllo Liguria,
parere 10.05.2013 n. 24; Sez. controllo
Piemonte,
parere 28.02.2014 n. 39 e
parere 21.05.2014 n. 97; Sez. controllo Toscana,
parere 13.11.2012 n. 293 e
parere 19.03.2013 n. 15) fanno
emergere alcuni orientamenti consolidati: la possibilità di
corrispondere l’incentivo è limitata all’area degli appalti
pubblici di lavori, e non si estende agli appalti di servizi
manutentivi; in ragione della natura eccezionale della
deroga, l’incentivo non può riconoscersi per qualunque
intervento di manutenzione straordinaria/ordinaria, ma solo
per lavori finalizzati alla realizzazione di un’opera
pubblica, e sempre che alla base sussista una necessaria
attività progettuale (ancorché non condizionata alla
presenza di tutte e tre le fasi della progettazione:
preliminare, definitiva ed esecutiva); si devono escludere
dall’ambito di applicazione dell’incentivo tutti i lavori di
manutenzione per il cui affidamento non si proceda mediante
svolgimento di una gara (com’è il caso per i lavori di
manutenzione eseguiti in economia).
5. In base a tali orientamenti, appare evidente che le
ipotesi di riconoscibilità dell’incentivo ad attività di
manutenzione ordinaria, anche laddove riconosciute
astrattamente possibili, presenterebbero in concreto margini
molto limitati, spettando comunque all’ente di valutare
quale sia la soglia minima di complessità tecnica e
progettuale che ne giustifichi la corresponsione
(così Sez. controllo Puglia,
parere 06.02.2014 n. 33 e
parere 28.05.2014 n. 114).
Va peraltro sottolineato che in passato la Sezione Toscana
ha adottato l’interpretazione più restrittiva, ritenendo che
“l’art. 92 presuppone l’attività di progettazione, nelle
varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla
costruzione dell’intera opera pubblica progettata”, e
traendone la conclusione che, a priori, i lavori di
manutenzione ordinaria non siano da ricomprendere tra le
attività retribuibili con l’incentivo in questione (Sez.
controllo Toscana,
parere 19.03.2013 n. 15, alle cui
considerazioni si fa qui rinvio; conforme anche Sez.
Liguria,
parere 10.05.2013 n. 24).
6. Sul punto è ormai intervenuto il d.l. 24.06.2014, n.
90, convertito dalla l. 11.08.2014, n. 114 che,
nell’abrogare il citato art. 92, comma 5, preclude
espressamente, per il futuro, la riconoscibilità
dell’incentivo all’intero novero di attività qualificabili
come manutentive, sia straordinarie che ordinarie, a
prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività
di progettazione (si veda in proposito l’art. 13-bis, che si
riferisce al riparto del neo-istituito fondo per la
progettazione e l’innovazione).
Tuttavia, poiché la richiamata novella non costituisce
interpretazione autentica e non si applica pertanto in via
retroattiva, le considerazioni sopra esposte restano valide
con riferimento alle attività di manutenzione compiute sotto
il vigore della disciplina soppressa, ma non ancora
liquidate alla data di entrata in vigore del d.l. 90; per
esse l’ente conserva infatti il proprio interesse ad
ottenere l’avviso della Corte (conforme Sez. controllo
Liguria,
parere 24.10.2014 n. 60) (Corte dei Conti, Sez.
controllo Toscana,
parere 12.11.2014
n. 237). |
APPALTI SERVIZI: Legittimi gli affidamenti diretti agli artisti.
Legittimi gli affidamenti diretti di prestazioni artistiche,
sotto la soglia dei 40.000 euro.
La Corte dei conti, sezione
regionale di controllo della Liguria col
parere 10.11.2014 n.
64 toglie le castagne dal fuoco per tutti i comuni
che da sempre si arrovellano sulle modalità da seguire per
assicurarsi le prestazione di artisti di vario genere, da
mettere sotto contratto per assicurare la realizzazione
delle tante manifestazioni turistiche o di intrattenimento
da essi curate.
La sezione Liguria ha risposto al quesito
posto dal comune di Loano in merito alla possibilità di
affidare direttamente, mediante procedura negoziata senza
preventiva pubblicazione di bando, l'attività artistica,
nell'ipotesi in cui un comune intenda organizzare un evento
con un «determinato artista curato in esclusiva da
un'agenzia di spettacoli non iscritta al Mercato elettronico
della p.a. (Mepa)».
Il parere della sezione fa un excursus
normativo, non pienamente coerente, sulla possibilità che le
prestazioni contrattuali dei comuni siano ancora affidabili
senza fare ricorso al Mepa, se di valore inferiore alla
soglia comunitaria e, ulteriormente, se sotto la soglia dei
40.000 euro che, ai sensi dell'articolo 125 del dlgs
163/2006 consente l'affidamento diretto per cottimo
fiduciario. In sostanza, la posizione della sezione Liguria
è favorevole. Nello specifico si può osservare che se nel
Mepa non sono presenti prestazioni di servizi di una certa
categoria, ovviamente il servizio può essere affidato
mediante gli ordinari sistemi di gara. Più specificamente,
la sezione ritiene comunque possibile affidare direttamente,
senza gara, le prestazioni artistiche per due ordini di
motivi.
In primo luogo, perché, secondo la Corte dei conti la
prestazione artistica non rientra «di per sé nella materia
dell'appalto di servizi, costituendo una prestazione di
opera professionale disciplinata dall'art. 2229 c.c. Non
sussistono pertanto, ab origine, le ragioni per
l'applicazione del codice dei contratti pubblici alla
fattispecie in esame».
Tale conclusione, tuttavia, appare fuorviante e non
corretta. Le prestazioni artistiche, infatti, nel codice dei
contratti, sono espressamente considerate come servizi. Lo
dispone il punto 26 dell'Allegato IIB «Servizi ricreativi,
culturali e sportivi» e il vocabolario comune degli appalti,
che contempla una serie molto ampia di «servizi artistici».
La sezione Liguria si ostina a ritenere applicabile alla
fattispecie degli appalti la particolarità tutta italiana
della prestazione d'opera professionale, come fosse cosa
diversa dalle prestazioni di servizi, ignorando, come troppi
altri giudici, l'articolo 3, comma 19, del dlgs 163/2006,
norma di derivazione europea che travolge il diritto
commerciale italiano e considera operatore economico anche
la persona fisica, purché offra servizi sul mercato.
Infatti, la sezione Liguria, in parziale contraddizione, in
secondo luogo non esclude, indirettamente, che la
prestazione artistica sia un appalto di servizi. Infatti, il
parere afferma: «Quand'anche si dovesse ritenere che la
medesima possa rientrare tra gli appalti di servizi, essa
deve essere ricompresa nell'ambito di applicazione dell'art.
57, comma 2, dlgs 163/2006 che consente la procedura
negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara
qualora, per ragioni di natura tecnica o artistica il
contratto possa essere affidato unicamente ad un operatore
economico determinato».
In effetti, come visto prima, le
prestazioni artistiche sono certamente appalti di servizi,
sottratti, comunque, alla piena applicazione del dlgs
163/2006, rientrando nell'allegato IIB al Codice. Il che
significa che in ogni caso esse possono essere affidate con
le procedure semplificate previste dall'articolo 27 del
codice.
Tuttavia, la sezione Liguria evidenzia correttamente
«l'infungibilità della prestazione artistica»,
caratteristica tale da renderla inidonea a procedure
comparative, siano esse elettroniche o tradizionali. Dunque,
anche il confronto semplificato tra 5 offerenti, previsto
dall'articolo 27 del codice dei contratti, non sarebbe
utile, nel caso di specie, vista l'inconfrontabilità
concorrenziale della performance del singolo artista
(articolo
ItaliaOggi del 12.12.2014). |
ENTI LOCALI: Manca
il decreto. Ancora congelati i proventi da autovelox degli
enti.
Comuni e province anche quest'anno dovranno rassegnarsi a
congelare i proventi autovelox che per legge devono essere
ripartiti a metà tra organo di controllo e proprietario
della strada. Mancando ancora il decreto attuativo della
legge 120/2010 non si può infatti procedere a contabilizzare
le spettanze con il risultato di tenere bloccate nei bilanci
preziose risorse tra l'altro vincolate per legge al
miglioramento della sicurezza stradale.
È questo il
risultato dell'impasse burocratico confermato anche dalla
Corte dei Conti dell'Umbria che si è espressa con il
parere 08.08.2014 n. 66.
La legge n. 120 del 29.07.2010
ha proceduto a una importante riscrittura dell'art. 142 del
codice della strada in materia di eccesso di velocità e
proventi delle multe.
I nuovi commi 12-bis, 12-ter e
12-quater stabiliscono che per tutte le violazioni dei
limiti di velocità accertate mediante l'impiego di
apparecchi o di sistemi di rilevamento oppure attraverso
l'utilizzazione di dispositivi o di mezzi tecnici di
controllo a distanza delle violazioni i relativi proventi
devono essere ripartiti in misura uguale fra l'ente dal
quale dipende l'organo accertatore e l'ente proprietario
della strada. Le somme derivanti dall'attribuzione delle
quote dei proventi ripartiti dovranno essere destinate alla
manutenzione e messa in sicurezza delle infrastrutture
stradali e al potenziamento delle attività di controllo e
accertamento delle violazioni in materia di circolazione
stradale, comprese le spese relative al personale.
Ma queste
nuove disposizioni non sono mai diventate operative in
quanto non è ancora stato emanato il decreto attuativo che
deve fissare le regole per il versamento dei proventi e le
modalità di trasmissione della dettagliata relazione che gli
enti locali devono trasmettere annualmente al ministero.
Nonostante la legge di conversione del dl 16/2012 abbia
tentato di porre rimedio all'inerzia della burocrazia resta
imprescindibile l'adozione di un provvedimento ad hoc.
Lo
confermano espressamente i giudici contabili che hanno
fornito chiarimenti al comune di Ferentillo. Dalla
ricostruzione del quadro normativo, specifica la
deliberazione, ne deriva che le amministrazioni «sono
comunque tenute all'applicazione delle disposizioni
contemplate dai commi 12-bis, 12-ter e 12-quater dell'art.
142 del codice della strada, con la conseguenza che è per
esse obbligatorio provvedere all'accantonamento della quota
del 50% dei proventi delle suddette violazioni, da destinare
a favore dell'ente proprietario della strada».
Questa
interpretazione rigorosa non è condivisa dall'Anci che
sembra invece orientata a considerare vincolati solo i
proventi futuri e non quelli del 2013-2014. Salvo che il
prossimo decreto disponga diversamente
(articolo
ItaliaOggi del 19.12.2014). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Buonuscita all'ex sindaco. Una mensilità per ogni
anno di mandato. L'indennità integra quella di funzione
prevista alla fine dell'incarico.
Qual è il criterio per quantificare l'indennità di fine
mandato da corrispondere a un sindaco uscente a seguito
dello scioglimento del consiglio comunale? Qual è la
modalità di liquidazione dei gettoni di presenza ai
consiglieri comunali?
L'art. 82, comma 8, del decreto legislativo n. 267/2000, ha
introdotto l'indennità di fine mandato per il sindaco ed il
presidente della provincia. Dalla formulazione testuale
della disposizione si evince che la stessa costituisce
«un'integrazione» dell'indennità di funzione prevista in
favore del sindaco alla fine dell'incarico amministrativo.
L'istituto ha trovato espressa previsione e regolamentazione
nell'art. 10 del decreto ministeriale n. 119/2000, che ne ha
stabilito la misura in un'indennità mensile spettante per
ogni 12 mesi di mandato, proporzionalmente ridotto per
periodi inferiori all'anno; ciò in quanto la misura
dell'indennità si correla essenzialmente alla funzione
svolta dal percipiente per il periodo di concreto esercizio
dei poteri sindacali.
Per quanto attiene alle modalità di calcolo dell'indennità,
l'amministrazione dell'interno, con circolare n. 5 del 05.06.2000 e successivamente con circolare n. 4 del 28.06.2006, ha ribadito quanto definito in merito dal
Consiglio di stato, all'uopo interpellato, con il parere
espresso nell'adunanza della sezione prima del 19 ottobre
2005, con cui viene riconfermato che l'emolumento de quo va
commisurato all'indennità effettivamente corrisposta, per
ciascun anno di mandato.
Riguardo al secondo punto, in base al testo vigente
dell'art. 82, comma 2, del Tuel, i consiglieri comunali
hanno diritto a percepire un gettone di presenza per la
partecipazione a consigli e commissioni. In nessun caso
l'ammontare percepito nell'ambito di un mese da un
consigliere può superare l'importo pari a un quarto
dell'indennità massima prevista per il rispettivo sindaco in
base al decreto di cui al comma 8 del citato art. 82. Il
successivo comma 11, inoltre, dispone che la corresponsione
dei gettoni di presenza è comunque subordinata alla
effettiva partecipazione del consigliere a consigli e
commissioni con modalità e termini disciplinati dal
regolamento comunale
(articolo
ItaliaOggi del 19.12.2014). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Ruolo del presidente.
In cosa si sostanzia il ruolo super partes attribuito al
presidente del consiglio comunale?
Nel caso di specie, il presidente del consiglio comunale è
anche capogruppo di un gruppo unipersonale ed esercita il
diritto di dichiarazione di voto al termine della
discussione di ogni argomento all'ordine del giorno, al pari
degli altri capigruppo, nonostante una propria pregressa
manifestazione di intenti di non avvalersi del ruolo attivo
del capogruppo in termini politici.
Le «dichiarazioni di voto», previste dall'abrogata
normativa relativa all'ordinamento degli enti locali (art.
302 T.U. n. 148/1915), che consentivano a ciascun
consigliere di esercitare il diritto di far constare nel
verbale il proprio voto e i motivi del medesimo, anche al
fine di separare la propria responsabilità da quella del
collegio, sono ora disciplinate dal regolamento.
Nella fattispecie in esame, il regolamento sul funzionamento
del consiglio comunale prevede che prima della chiusura
della discussione ciascun capogruppo o suo delegato possa
intervenire per le dichiarazioni di voto; inoltre stabilisce
che, per la costituzione di un gruppo, è sufficiente anche
la partecipazione di un solo consigliere, a condizione che
appartenga ad una lista rappresentata in consiglio comunale
in seguito alle elezioni.
L'art. 39 del decreto legislativo n. 267/2000, al comma 1,
prevedendo la possibilità, anche per i comuni con
popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, di istituire la
figura del presidente del consiglio, dispone che a questi
sono attribuiti, tra gli altri, i poteri di convocazione e
direzione dei lavori e delle attività del consiglio.
Nulla dispone in ordine ad eventuali affievolimenti dei
diritti connessi allo status di consigliere comunale come
disciplinati, in particolare, dall'art. 43 dello stesso
decreto legislativo n. 267/2000, che, dunque vengono
mantenuti anche in capo al consigliere-presidente. La
dichiarazione rilasciata dal presidente del consiglio non è,
peraltro, vincolante ed è, dunque, inidonea a limitare le
prerogative riconosciute ad ogni consigliere comunale
(articolo
ItaliaOggi del 19.12.2014). |
COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALI:
Personale degli enti locali. Incarico di P.O. a organo
politico.
L'art. 53, comma 23, della l. 388/2000
consente, negli enti locali con popolazione inferiore a
5.000 abitanti, previa adozione di disposizioni
organizzative regolamentari, l'attribuzione della
responsabilità degli uffici ai componenti dell'organo
esecutivo, anche in presenza di dipendenti ascritti alla
categoria D nell'organico dell'amministrazione.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità
che un 'consigliere/assessore (esterno)' svolga le
funzioni di posizione organizzativa, in presenza di figure
professionali, nell'organico dell'Ente, ascritte alla
categoria D.
L'art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, come novellato
dall'art. 29, comma 4, della l. 448/2001, prevede che gli
enti locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti,
fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4,
lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento
degli enti locali, approvato con decreto legislativo
18.08.2000, n. 267 [1],
anche al fine di operare un contenimento della spesa,
possono adottare disposizioni regolamentari organizzative,
se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo
3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n.
29, e successive modificazioni [2],
e all'articolo 107 [3]
del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli
enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo
la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il
contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno,
con apposita deliberazione, in sede di approvazione del
bilancio.
Si sottolinea preliminarmente che la disposizione in esame
si riferisce all'attribuzione di funzioni gestionali a
componenti dell'organo esecutivo delle amministrazioni
locali: ne consegue l'inapplicabilità della stessa nei
confronti di soggetti che ricoprano esclusivamente la carica
di consigliere comunale.
La predetta norma ha espressamente introdotto la possibilità
di deroga al generale principio di separazione dei poteri,
nei piccoli enti, al fine di favorire anche il contenimento
della spesa e consentire comunque soluzioni di ordine
pratico ad eventuali problemi organizzativi nelle realtà di
modeste dimensioni demografiche.
Si ritiene utile precisare, a tal proposito, che la
giurisprudenza amministrativa ha evidenziato come l'art. 53,
comma 23, della L. n. 388/2000, ai fini della sua concreta
applicazione, richieda che l'attribuzione di responsabilità
degli uffici e dei servizi comunali ai componenti degli
organi esecutivi, ed il conseguente potere degli stessi di
adottare atti di natura tecnica gestionale, debbano essere
previsti da specifiche norme regolamentari organizzative
[4].
L'adozione della richiesta norma organizzativa si pone,
pertanto, quale condizione necessaria per l'applicazione
dell'articolo in esame, con la conseguenza che, in mancanza
di detto preliminare adempimento, si renderebbe, di fatto,
inapplicabile la norma stessa [5].
E' da notare inoltre che la modifica apportata alla norma in
esame dall'art. 29, comma 4, della l. 448/2001, non solo ha
esteso tale facoltà anche ai comuni con popolazione fino a
cinquemila abitanti [6]
(comma 4, lett. a), ma ha anche abrogato la condizione
precedentemente prevista, che imponeva la verifica
preliminare dell'assenza non rimediabile, nella struttura
comunale, di figure professionali idonee nell'ambito dei
dipendenti (comma 4, lett. b).
Pertanto la scelta, da parte del Comune, di avvalersi della
potestà derogatoria al principio di separazione dei poteri
può avvenire attualmente anche in presenza di dipendenti
appartenenti alla categoria D [7].
---------------
[1] In virtù di tale norma il segretario comunale
esercita ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o
dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco.
[2] Ora art. 4 del d.lgs. 165/2001.
[3] La norma prevede l'attribuzione ai dirigenti di tutti i
compiti non compresi tra le funzioni di indirizzo e
controllo politico-amministrativo.
[4] Cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, sentenza n. 9545
del 29.07.2008.
[5] Il giudice amministrativo ha individuato proprio nella
determinazione di carattere organizzativo la fonte
legittimante del potere esercitato (nella fattispecie
esaminata) dal Sindaco cui erano state attribuite le
funzioni di responsabile del Servizio tecnico (Cfr. TAR
Emilia Romagna, sez. staccata di Parma sentenza n. 160 del
2009).
[6] Nella precedente formulazione la norma era riferita
esclusivamente ai Comuni con popolazione fino a tremila
abitanti.
[7] Cfr. parere del Ministero dell'Interno del 30.09.2003,
consultabile in http://incomune.interno.it/pareri
(16.12.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
APPALTI:
Responsabilità negli appalti.
Domanda
È stata soppressa la responsabilità solidale negli
appalti per il versamento delle ritenute fiscali dei
dipendenti dei subappaltatori?
Risposta
Sì, con alcune precisazioni. L'art. 28 del Decreto
legislativo sulle semplificazioni fiscali, emanato dal
governo, in via definitiva, il 30.10.2014 e del quale è
imminente la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, ha
soppresso i commi 28, 28-bis e 28-ter dell'art. 35, dl
223/2006.
Pertanto, la responsabilità solidale fra appaltatore e
subappaltatore, e i connessi rischi sanzionatori a carico
del committente, è stata finalmente soppressa anche con
riferimento alle ritenute sui redditi di lavoro dipendente
dovute dal subappaltatore, dopo esserlo stata nel 2013 in
relazione all'Iva. Tuttavia, è stato anche introdotto un
nuovo presidio contro l'evasione fiscale connessa
all'utilizzo di lavoratori «in nero» all'interno dell'art.
29 del dlgs n. 276/2003 (attuativo della c.d. «Legge Biagi»
n. 30/2003).
Tale articolo già stabiliva che il committente imprenditore
o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore,
nonché con ciascuno dei subappaltatori entro due anni dalla
cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i
trattamenti retributivi, comprese le quote di Tfr, i
contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in
relazione al periodo di esecuzione dell'appalto, escluse le
sanzioni civili delle quali risponde solo il responsabile
dell'inadempimento, ferma la possibilità di eccepire, nella
prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del
patrimonio dell'appaltatore e degli eventuali
subappaltatori, nel qual caso il giudice accerta la
responsabilità solidale di tutti gli obbligati, ma l'azione
esecutiva può essere intentata nei confronti del committente
imprenditore o datore di lavoro solo dopo l'infruttuosa
escussione del patrimonio dell'appaltatore e degli eventuali
subappaltatori.
In tale contesto, l'articolo 28 del nuovo Decreto
Legislativo ha aggiunto nell'art. 29 la previsione ai sensi
della quale il committente che abbia eseguito il pagamento é
tenuto, ove previsto, ad assolvere gli obblighi del
sostituto d'imposta ai sensi del dpr 600/73, compreso il
versamento delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente,
e può esercitare l'azione di regresso nei confronti del
coobbligato secondo le regole generali
(articolo
ItaliaOggi Sette del 15.12.2014). |
APPALTI: Gli
istituti della transazione e dell’accordo bonario nella
disciplina dei contratti pubblici (parere
07.10.2014 n. 410698 di prot. - Rassegna Avvocatura
dello Stato n. 3/2014). |
LAVORI PUBBLICI: Poteri
di autotutela della p.A. negli appalti di infrastrutture
strategiche (parere
06.10.2014 n. 409286 di prot. - Rassegna Avvocatura
dello Stato n. 3/2014). |
NEWS |
EDILIZIA
PRIVATA - VARI:
Legge di stabilità/
Lavori in casa, i maxi bonus allungano.
Anche nel 2015 restano le detrazioni al 50% sulle
ristrutturazioni e al 65% per il risparmio energetico.
Via libera alla
detrazione Irpef e Ires del 65% anche alle spese sostenute
nel 2015 per le schermature solari esterne degli edifici e
per gli impianti di climatizzazione invernale con generatori
di calore alimentati da biomasse combustibili, come la legna
da ardere, il pellets, il cippato, il mais.
Sono le
principali novità introdotte al Senato alla legge di
stabilità, nella quale è stata prorogata a tutto il 2015
anche la detrazione Irpef ed Ires del 65% sugli interventi
antisismici “qualificati” (che quindi non sarà ridotta al
50% per i pagamenti del 2015), sono stati sterilizzati i
previsti aumenti dell’aliquota Tasi per il 2015 e sono stati
concessi 18 mesi al posto di 6 dalla fine dei lavori per
l’utilizzo del bonus abitazioni al 50% sugli acquisti da
immobiliari di ristrutturazione.
Rispetto al testo del Governo, poi, sono state confermate le
proroghe sino alla fine del 2015 delle detrazioni Irpef del
50% sulle ristrutturazioni edilizie (in precedenza, era
previsto che le spese sostenute nel 2015, fossero agevolate
al 40 per cento), del 50% sui mobili e sui grandi
elettrodomestici (il bonus sarebbe terminato il 31.12.2014) e di quella Irpef e Ires del 65% sui lavori per il
risparmio energetico qualificato, ai sensi della Legge 27.12.2006, n. 296 (in precedenza, era previsto che le
spese sostenute nel 2015 fossero agevolate al 50 per cento).
Per i lavori verdi sulle parti comuni condominiali, il bonus
del 65% è stato prorogato dal 30.06.2015 al 31.12.2015, eliminandolo definitivamente dal 2016. Come per il
risparmio energetico qualificato, quindi, non vi sarà più il
bonus dal primo gennaio 2016, ma si potranno utilizzare solo
i benefici dell’articolo 16-bis, comma 1, lettera h), Tuir,
per il risparmio energetico generico.
Dal 01.01.2015, infine, aumenterà dal 10% al 22%
l’aliquota Iva per l’acquisto e l’importazione di pellet in
legno per combustione. Rimarranno al 10%, invece, la legna
da ardere in tondelli, i ceppi, le ramaglie o le fascine e i
cascami di legno, compresa la segatura (n. 98, tabella A,
Parte III, allegata al Dpr n. 633/1972).
Il maxiemendamento approvato dal Senato venerdì notte
prevede che potranno beneficiare della detrazione Irpef e
Ires del 65% anche le spese sostenute dal 01.01.2015 al
31.12.2015 per «l’acquisto e la posa in opera delle
schermature solari di cui all’allegato M al decreto
legislativo 29.12.2006, n. 311», fino «a un valore
massimo della detrazione di 60mila euro» (importo massimo
della spesa agevolata di 92.307,69 euro). E inoltre, per
«l’acquisto e la posa in opera di impianti di
climatizzazione invernale con impianti dotati di generatori
di calore alimentati da biomasse combustibili» (come la
legna da ardere, il pellets, il cippato, il mais), fino «a
un valore massimo della detrazione di 30mila euro» (importo
massimo della spesa agevolata di 46.153,85 euro).
Queste due
nuove agevolazioni funzionano con le stesse regole e
procedure previste per il classico bonus del 65%, quindi,
con la comunicazione all’Enea entro 90 giorni dalla fine del
lavori e col bonifico parlante con la Legge n. 296/2006.
Sono agevolati, quindi, le persone fisiche, gli esercenti
arti e professioni, gli enti pubblici e privati che non
svolgono attività commerciale, le società semplici, le
associazioni tra professionisti, i condomini (per gli
interventi sulle parti comuni condominiali) e i soggetti che
conseguono reddito d’impresa (ditte individuali, familiari e
coniugali, società di persone e società di capitali).
Gli interventi devono essere eseguiti su edifici esistenti
(cioè, già iscritti in catasto o con richiesta di
accatastamento e per i quali sia stata pagata l’Imu) e non
su quelli in costruzione. Inoltre, è necessario che negli
ambienti oggetto dell’intervento vi sia già un impianto di
riscaldamento (che non deve essere obbligatoriamente
sostituito).
Per le imprese (dove a differenza dei privati
si applica il principio di competenza per individuare il
momento in cui l’investimento viene effettuato e non quello
di cassa), gli immobili su cui fare gli interventi agevolati
al 65% non sono solo i «fabbricati strumentali» utilizzati
(anche in locazione) «nell’esercizio della propria attività
imprenditoriale» (risoluzioni 15.07.2008, n. 303/E e 01.08.2008, n. 340/E), ma vi rientrano anche i fabbricati
locati a terzi, ad esempio, dalle cosiddette «immobiliari di
gestione» (Associazione italiana dottori commercialisti n.
184 del 10.07.2012, Commissione tributaria provinciale
di Varese 21.06.2013, n. 94, di Lecco 26.03.2013, n.
54, di Como 02.07.2012, n. 109)
(articolo
Il Sole 24 Ore del 21.12.2014). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
Province, part-time prima del collocamento in
disponibilità.
Part-time prima del collocamento in disponibilità.
Questa la carta giocata dal governo nel maxiemendamento alla
legge di Stabilità per tentare di disinnescare la bomba
degli esuberi provinciali che ieri è deflagrata con
l'occupazione di molte sedi istituzionali da parte dei
dipendenti. Dalla Sicilia a Firenze passando per le province
calabresi (tutte e cinque occupate dai lavoratori in
rivolta) la tensione è salita per la prospettiva del
collocamento in sovrannumero di 20 mila dipendenti, frutto
dell'obbligo per gli enti intermedi di ridurre del 50% gli
organici entro la fine del 2016 (30% per le città
metropolitane).
I sindacati hanno chiesto al governo «un passo indietro»
su un provvedimenti definito «dannoso e insensato».
Diversamente, hanno avvertito i segretari generali di Fp
Cgil, Cisl Fp e Uil Fpi, Rossana Dettori, Giovanni Faverin e
Giovanni Torluccio, «le occupazioni proseguiranno».
Dal governo nessun ripensamento, ma la decisione di
incontrare i sindacati martedì prossimo. Toccherà al
ministro della funzione pubblica Marianna Madia e al
ministro per gli affari regionali Maria Carmela Lanzetta
spiegare a Cgil, Cisl e Uil che, alla fine, il procedimento
di collocamento dei lavoratori provinciali in sovrannumero
non comporterà «alcun rischio di perdita del posto di
lavoro».
Messa da parte l'idea di ritirare l'emendamento sulle
province (un'ipotesi che, assieme a una fantomatica proroga
di un anno del procedimento di riordino era circolata nella
giornata di giovedì), il jolly giocato dal governo nel
maxiemendamento è quello del part-time. Che scatterà per il
personale in sovrannumero che al 31.12.2016 non sia stato
completamente ricollocato. La misura, introdotta grazie a un
subemendamento del sottosegretario agli affari regionali
Gianclaudio Bressa, interesserà prioritariamente i
dipendenti con qualifica non dirigenziale e maggiore
anzianità contributiva. Dovrà essere concertata con i
sindacati e concludersi entro 30 giorni dalla relativa
comunicazione. Solo in caso di mancato completo assorbimento
degli esuberi, scatterà la messa in disponibilità con l'80%
dello stipendio.
Due ulteriori novità inserite in extremis nel maximendamento
riguardano le province montane e la rinegoziazione dei
mutui. Gli enti con territorio interamente montano (e
confinanti con paesi esteri) dovranno ridurre gli organici
del 30% e non del 50% come previsto per tutte le altre
province. Sul fronte dei mutui, si prevede che le province e
le città metropolitane possano rinegoziare le rate di
ammortamento in scadenza nell'anno 2015 dei prestiti non
trasferiti al ministero dell'economia, con conseguente
rimodulazione del relativo piano di ammortamento.
Altre novità. Il maxiemendamento estende anche
all'Imi della provincia di Bolzano (l'imposta ad hoc
creata in Alto Adige in sostituzione dell'Imu) la
deducibilità al 20% dal reddito d'impresa e dall'Irap. Sul
patto regionale verticale, invece, tutto resta com'è. Il
miliardo di euro, riconosciuto ai governatori che cederanno
quote di Patto di stabilità agli enti locali, servirà solo
ad estinguere i debiti commerciali maturati alla data del
30.06.2014 ma non potrà essere utilizzato per compensare i
tagli. Cosa che, obiettivamente, depotenzia l'utilità della
misura per le regioni (si veda ItaliaOggi di ieri)
(articolo
ItaliaOggi del 20.12.2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Lo
sfoltimento delle partecipate inizia dal 1° gennaio.
Sanzioni a carico dei dirigenti delle amministrazioni
inadempienti.
Previste sanzioni amministrative pecuniarie a carico di
amministratori e dirigenti di enti locali, province,
regioni, università, autorità portuali e camere di commercio
se entro il 2015 non saranno ridotte le società de esse
partecipate; obbligo di avvio dei processi di
razionalizzazione a partire dal primo gennaio 2015.
E' quanto prevede il comma 268 dell'articolo 2 del maxi
emendamento alla legge di stabilità 2015 predisposto dal
Governo che recepisce anche il contenuto di due emendamenti
(Lanzillotta, Chiavaroli ) approvati in commissione e
relativi all'avvio del processo di razionalizzazione delle
società partecipate locali.
In particolare la disciplina sui quali si inseriscono le
nuove norme è quella finalizzata ad assicurare il
contenimento della spesa, il buon andamento dell'azione
amministrativa e la tutela della concorrenza e del mercato
attraverso l'avvio, da parte di regioni, province, enti
locali, camere di commercio, università, istituti di
istruzione universitaria pubblici e autorità portuali -a
decorrere dal 01.01.2015- di un processo di
razionalizzazione delle società e delle partecipazioni
societarie direttamente o indirettamente possedute.
Questo processo dovrà comunque portare alla riduzione delle
società o delle partecipazioni societarie entro la fine del
2015 partendo dall'eliminazione (messa in liquidazione o
cessione) delle società e delle partecipazioni societarie
non indispensabili al perseguimento degli scopi
istituzionali degli enti partecipanti. In questo ambito
l'emendamento specifica che si dovrà procedere comunque alla
“soppressione delle società che alla data del 30.09.2014,
risultino composte da soli amministratori o da un numero di
amministratori superiore a quello dei dipendenti, ovvero
abbiano conseguito nell'esercizio concluso alla data di
entrata in vigore della presente legge un fatturato
inferiore a 100 mila euro”.
Rimane fermo, così come previsto nel testo iniziale della
norma, sia l'obbligo di procedere alla eliminazione (tramite
aggregazioni, o fusioni, o internalizzazione di funzioni)
delle partecipazioni detenute in società che svolgono
attività analoghe o simili, sia l'obiettivo di procedere
all'aggregazione di società di servizi pubblici locali di
rilevanza economica e al contenimento dei costi di
funzionamento, anche mediante riorganizzazione degli organi
e riduzione delle remunerazioni. Il secondo emendamento
approvato in commissione e recepito nel maxi emendamento
introduce invece delle specifiche sanzioni in caso di
inadempimento degli obblighi.
In particolare la sanzione che viene prevista potrebbe
essere erogata nei confronti dei “dirigenti responsabili
dell'ente titolare, direttamente o indirettamente della
partecipazione, degli amministratori della società in cui la
partecipazione è detenuta e, nel caso di partecipazione
indiretta, degli amministratori della società che detiene la
partecipazione”. La sanzione amministrativa pecuniaria
viene rapportata ad ogni anno in cui si protrae
l'inadempimento e commisurata al 20 per cento della
retribuzione lorda annua, nel caso dei dirigenti, e
all'intero emolumento spettante, nel caso degli
amministratori
(articolo
ItaliaOggi del 20.12.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: Edilizia con moduli semplificati. Dovranno essere adottati
dalle Regioni e dagli enti locali entro il 16 febbraio.
Pubblica amministrazione. Approvati dalla Conferenza
unificata gli schemi predisposti dal ministero con
costruttori e professionisti.
In arrivo i moduli unici
semplificati per Cil e Cila, rispettivamente Comunicazione
di inizio lavori e Cil asseverata. Si tratta dei più comuni
e frequenti interventi di edilizia libera promossi da
cittadini e imprese.
Lo stop alla babele dei moduli comunali
è arrivato ieri in conferenza unificata, con l’approvazione
di due schemi predisposti dal ministero della
Semplificazione al termine di un lavoro di coordinamento con
Regioni e Comuni, ma che ha coinvolto anche rappresentanti
dei costruttori edili e dei professionisti tecnici.
In base
all’accordo sottoscritto ieri, gli schemi vanno adottati
«entro sessanta giorni dall’adozione in sede di conferenza
unificata», cioè entro il prossimo 16 febbraio. Le Regioni
potranno adeguare gli schemi alla legislazione regionale,
limitatamente ad alcune parti. Poi toccherà agli enti locali
adottare i moduli.
L’obiettivo è semplificare la vita a tutti coloro che devono
affrontare lavori edilizi per i quali non è necessario né il
permesso di costruire, né serve presentare la Scia
(Segnalazione di inizio attività). Le recenti novità
introdotte dallo Sblocca Italia hanno notevolmente ampliato
il ricorso alla Cila, includendo anche interventi di una
certa entità, come frazionamenti e accorpamenti di unità
immobiliari.
Serve una
Cil (Comunicazione Inizio
Lavori) ogni volta che si monta un ponteggio, che si
rinnova una pavimentazione esterna oppure quando si montano
dei pannelli solari o si installano micro-generatori eolici.
Dopo le modifiche al testo unico edilizia apportate dallo
Sblocca Italia basta la Cil -in questo caso asseverata dal
professionista (Cila)- anche per i frazionamenti e gli
accorpamenti di unità immobiliari (senza modifica della
volumetria e della destinazione d’uso) e per tutti gli
interventi di manutenzione straordinaria che non
intervengono sulle parti strutturali degli edifici.
La
Cila (Comunicazione Inizio Lavori
Asseverata)
è necessaria anche per modificare la distribuzione interna
degli immobili d’impresa o per i gli interventi con cambio
di destinazione d’uso dei locali adibiti ad esercizio
d'impresa.
Più precisamente, gli interventi da segnalare al proprio
Comune con una Cil sono quelli previsti dall’articolo 6,
comma 2 lettere “b” (opere temporanee da rimuovere entro 90
giorni); “c” (pavimentazioni esterne, per esempio di
parcheggi); “d” (collettori solari e pannelli fotovoltaici);
“e” (aree giochi gratuiti e arredi urbani pertinenziali).
Ancora più estesa la gamma di interventi per i quali si
chiede una comunicazione asseverata dal tecnico, indicati
all’articolo 6, comma 2, lettere “a” e lettera “e-bis”,
norma riscritta in parte dallo Sblocca Italia. In questa
lista ci sono tutte le manutenzioni straordinarie che non
modificano volumetria e destinazione d’uso, e tutti i
frazionamenti e accorpamenti di unità immobiliari senza
cambio di destinazione d’uso e volumetria. Cila necessaria
anche per realizzare aperture nelle pareti oppure per
spostare tramezzi (sempre che non si tocchino le strutture).
Infine, la comunicazione asseverata è necessaria per tutte
le modifiche interne sui fabbricati ad esercizio d’impresa
(sempre che non riguardino le parti strutturali) oppure
modificare la destinazione d’uso dei locali adibiti a
esercizio d’impresa.
L’approvazione degli schemi unici di Cil e Cila arriva «in anticipo
sulla tabella di marcia» fissata dall’agenda per la
semplificazione, sottolinea una nota del dicastero guidato
da Marianna Madia. Si tratta della seconda tappa dopo
l’approvazione (nel giugno scorso) dei moduli unici di Scia
e Permesso di costruire, che le Regioni stanno
progressivamente adottando (i tecnici della Semplificazione
stanno conducendo un monitoraggio per verificare a livello
comunale l’adozione di questi schemi).
I moduli si compongono di parti invariabili e parti che
invece le Regioni possono modificare o integrare. Nella
composizione degli schemi si è però cercato di andare anche
oltre, fornendo indicazioni che potessero essere di aiuto al
compilatore. «Nel caso degli adempimenti in materia di
sicurezza e salute sui luoghi di lavoro -spiegano i tecnici
dell’Unità per la semplificazione della Funzione pubblica-
abbiamo voluto fornire le indicazioni utili a chi
normalmente non è a conoscenza del dettaglio delle norme
tecniche»
(articolo
Il Sole 24 Ore del 19.12.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazioni,
bonus sui sottotetti.
Gli interventi edilizi per il recupero dei sottotetti che
comportino aumento della volumetria possono essere
ricompresi nel bonus per le ristrutturazioni edilizie.
Lo afferma la Ctp di Bergamo nella sentenza n. 320/10/14,
che accoglie il ricorso proposto da una contribuente contro
una cartella di pagamento scaturita da un controllo 36-ter.
L'Agenzia delle entrate aveva recuperato le somme portate in
detrazione nella dichiarazione dei redditi, relativamente ad
alcune spese sostenute per lavori di ristrutturazione
edilizia. Il motivo della ripresa risiedeva nella tipologia
dei lavori oggetto della detrazione, consistenti nel
recupero di un sottotetto ai fini abitativi, con aumento
della volumetria.
In tali casi, la posizione delle Entrate è
sintetizzata nella risoluzione 4/E/2011, secondo cui le
agevolazioni spettano «solo in caso di fedele ricostruzione,
nel rispetto di volumetria e sagoma dell'edificio
preesistente», mentre sono da escludersi quando si realizzi
un «ampliamento della volumetria». Le medesime conclusioni
sono espresse anche nella precedente circolare 121 del 1998.
I giudici tributari di Bergamo hanno contraddetto la tesi
dell'amministrazione finanziaria e riconosciuto la piena
spettanza del bonus fiscale. La decisione è ispirata sia
alla legge regionale della Lombardia n. 15/1996 che alla
sentenza della Cassazione n. 38088/2009.
Secondo la citata
norma regionale, appare chiaro che il recupero dei
sottotetti, pur con incremento di volumetria, «non deve
essere considerato urbanisticamente un vero e proprio
aumento», a patto di mantenere inalterata la superficie;
tant'è che per tali lavori non è nemmeno richiesta
l'adozione ed approvazione di un piano attuativo. Viepiù
che, secondo la richiamata pronuncia della Cassazione (n.
38088/2009), possono essere assunti alla tipologia delle
ristrutturazioni edilizie anche quegli «interventi che
ammettono integrazioni funzionali e strutturali
dell'edificio esistente, pure con incrementi di volume».
Le risoluzioni e circolari dell'amministrazione finanziaria,
di contro, non hanno forza di legge, per cui le posizioni in
esse contenute non hanno valore vincolante e possono essere
disattese dal giudice tributario
(articolo
ItaliaOggi del 19.12.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Edilizia, un modello in comune. Gli enti useranno uno schema
unico per i piccoli interventi.
Ok in Unificata alle due nuove comunicazioni di inizio
lavori previste dallo Sblocca Italia.
Un modello unico, identico per tutti gli 8.000 comuni
italiani, da utilizzare per i piccoli interventi edilizi che
non implicano modifiche strutturali degli edifici. Per
aprire porte o spostare pareti all'interno dell'appartamento
non servirà più alcun tipo di nullaosta ma basterà compilare
il modello e farlo asseverare da un tecnico.
E se si tratta di manufatti rimovibili, opere di
pavimentazione di spazi esterni, pannelli fotovoltaici, aree
ludiche non sarà nemmeno necessario attendere l'ok del
professionista. Regioni e comuni avranno 60 giorni di tempo
per rendere operative le due nuove comunicazioni di inizio
lavori (Cil e Cila) che rispetto ai tradizionali strumenti
autorizzatori (Scia, SuperDia e permesso di costruire)
consentono di iniziare subito i lavori, semplificando così
gli adempimenti per cittadini e imprese.
Il countdown per il
recepimento dei modelli da parte degli enti locali è già
partito. Ieri, infatti, la Conferenza unificata, in anticipo
sulla tabella di marcia, ha approvato i modelli previsti dal
decreto Sblocca Italia (dl 133/2014) facendo così partire
l'attuazione dell'Agenda per la semplificazione 2015-2017.
La
comunicazione di inizio lavori (Cil) può essere
utilizzata per tutti gli interventi previsti dalle lettere
b, c, d, e dell'art. 6 comma 2 del Testo unico sull'edilizia
(dpr 380/2001). Quindi, in primis, opere dirette a
soddisfare esigenze temporanee e a essere immediatamente
rimosse al cessare della necessità (o comunque non oltre 90
giorni). Ma anche opere di pavimentazione e di finitura di
spazi esterni, vasche di raccolta delle acque, pannelli
solari, generatori eolici (con altezza complessiva non
superiore a 1,5 metri e diametro non superiore a 1 metro) e
aree ludiche senza fini di lucro.
La
comunicazione di inizio lavori asseverata (Cila) servirà
invece per le ipotesi residuali previste dall'art. 6 comma 2
del dpr 380, ossia per gli interventi di manutenzione
straordinaria (compresa l'apertura di porte interne o lo
spostamento di pareti a condizione che non riguardino le
parti strutturali dell'edificio) e per le modifiche edilizie
interne da realizzare nei fabbricati adibiti all'esercizio
dell'attività di impresa.
Nel dare l'asseverazione il tecnico abilitato dovrà
attestare, sotto la propria responsabilità, che i lavori
sono conformi agli strumenti urbanistici e ai regolamenti
edilizi, nonché compatibili alla normativa sismica e a
quella sull'efficienza energetica.
Soddisfazione per l'ok dell'Unificata è stata espressa dal
ministero della funzione pubblica che ora guarda ai passi
successivi previsti dall'Agenda per la semplificazione:
adozione del modello per l'autorizzazione unica ambientale,
per la SuperDia e le «istruzioni per l'uso» dei moduli in
edilizia
(articolo
ItaliaOggi del 19.12.2014). |
APPALTI: Appalti,
Cantone rafforza la vigilanza preventiva. Autorità
anticorruzione. Nuovo regolamento sulle attività di
ispezione - Il presidente: non serve la bacchetta magica, ma
piani di lungo periodo.
Si rafforzano i
poteri di vigilanza dell'Anticorruzione sugli appalti a
rischio infiltrazione, a partire dai grandi eventi, come le
Olimpiadi per cui è stata appena ufficializzata la
candidatura di Roma per il 2024.
Nel giorno della trasparenza, celebrato insieme al ministro
della Giustizia Andrea Orlando, l’Authority guidata da
Raffaele Cantone ha diffuso il nuovo regolamento sulle
attività di controllo dei contratti pubblici. La novità più
rilevante è l'introduzione della cosiddetta «vigilanza
collaborativa». Un meccanismo che consentirà alle
amministrazioni di richiedere l'impegno dell'Anac per
verificare in via preventiva la regolarità degli atti di
gara. Lo scopo è aprire una rete di sicurezza prima che
scoppino gli scandali e si muova la magistratura,
anticipando quelle richieste di intervento che si sono per
esempio rese necessarie per salvare il salvabile nei casi
dell'Expo e di Mafia Capitale.
Attivando la vigilanza
preventiva, gli enti potranno chiedere a Cantone non solo di
controllare la regolarità formale delle procedure, ma anche
di prevedere «clausole e condizioni idonee a prevenire»
infiltrazioni della malavita, oltre ad attività di
«monitoraggio dello svolgimento delle gara» e anche
«dell'esecuzione dell'appalto». Insomma un'attività
anti-corruzione a 360 gradi che però sarà riservata ad
eventi eccezionali.
La «vigilanza collaborativa», infatti,
può essere richiesta dalle stazioni appaltanti solo al
ricorrere di determinati presupposti, riconducibili alle
grandi opere strategiche oppure in occasione di grandi
eventi sportivi, religiosi o culturali o, infine, per
interventi post-calamità. Con lo stesso metodo si potrà
chiedere l'aiuto di Cantone anche nei casi in cui il decreto
legge 90/2014 (articolo 32, comma 1) ammette l'ipotesi di
commissariamento delle imprese «in presenza di situazioni
anomale e, comunque, sintomatiche, di condotte illecite o
eventi criminali».
Prevenire insomma resta sempre meglio che curare. Cantone lo
ha ripetuto anche ieri spiegando che le misure
anticorruzione «per essere applicate comportano tempi
lunghi» e «chi pensa che ci siano interventi immediati
contro la corruzione, non sa che è un sistema incancrenito:?
se qualcuno ha la bacchetta magica, si faccia avanti», ma
per combattere la corruzione serve una «rivoluzione
culturale» e «dobbiamo dare il tempo per vederla attuata».
Sulla candidatura alle Olimpiadi del 2024 Cantone ha detto
che si tratta di «una grande occasione» cui non si può
«rinunciare per l'alibi della corruzione». E ha ribadito
l'invito a rafforzare le misure previste nel pacchetto
anticorruzione varato dal governo. Ad esempio introducendo
premi per chi collabora. Orlando non ha chiuso la porta.
Anzi. «Abbiamo incrementato la pena -ha detto il ministro-
cosa che consente di rivedere gli effetti che si producono
nei riti alternativi, e abbiamo deciso di intervenire sulle
confische», assimilate a quelle applicate alle
organizzazioni mafiose.
Il Parlamento «può rafforzare le
misure del governo», ma il «deterrente penale» non basta:
«Gli antidoti sono prevenzione e trasparenza»
(articolo
Il Sole 24 Ore del 17.12.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI: Il notaio deve conoscere anche il fisco.
Professionisti. Ruolo di consulenza: contestata la
violazione dell’obbligo di diligenza che fa scattare la
punibilità anche in caso di colpa lieve.
Il
notaio ha anche un ruolo di consulente fiscale.
La Corte di
Cassazione con la sentenza n. 26369/2014 ricorda che
la funzione del notaio non si deve limitare a una mera
registrazione delle dichiarazione delle parti ma deve
comprendere un’attività di consulenza, anche fiscale, nei
limiti delle conoscenze che devono far parte del normale
bagaglio di un professionista che presta la sua attività
principale nel campo della contrattazione immobiliare. In
base a questo presupposto la Cassazione sottolinea che può
essere contestata la violazione dell’obbligo di diligenza al
notaio che non svolge «un’adeguata ricerca legislativa, e
una successiva consulenza, al fine di far conseguire alle
parti il regime fiscale più favorevole», rispondendo dei
danni causati dal suo comportamento anche in caso di colpa
lieve.
È quanto accaduto al notaio nel caso esaminato, colpevole di
aver presentato, nell’ambito di tre atti di compravendita
sottoscritti anche dal legale rappresentante, tre
dichiarazioni Invim con valori iniziali e finali uguali,
senza tener conto degli incrementi che si erano verificati
negli anni.
Il professionista aveva potuto dimostrare di aver chiesto
invano al cliente di fare delle verifiche, attraverso il
commercialista, sull’esattezza degli importi. Ma aveva
comunque registrato l’atto, malgrado le mancate risposte,
provocando così un danno al cliente.
La Cassazione, pur precisando che gli obblighi imposti dalla
normativa fiscale non consentono generalizzazioni e che il
coinvolgimento del notaio va desunto dalla normativa di
dettaglio, precisa che esiste un «dovere di consiglio»,
anche in ambito fiscale, su aspetti della contrattazione
immobiliare che una persona senza competenze tecniche non è
in grado di percepire.
Gli stessi giudici precisano ricordano che l’orientamento
della giurisprudenza è teso ad allargare l’oggetto della
prestazione professionale del notaio a cui è richiesta una
diligenza sempre maggiore, alla quale corrisponde un
allargamento della responsabilità, anche in caso di colpa
lieve
(articolo
Il Sole 24 Ore del 17.12.2014). |
ENTI LOCALI: Stato-città.
Bilanci comunali al 31 marzo.
La Conferenza Stato-Città ha dato ieri il via libera alla
proroga dei termini per la presentazione dei bilanci di
previsione per il 2015 dei comuni. La nuova scadenza è
fissata al 31.03.2015.
A renderlo noto il rappresentante
dell'Anci in Conferenza stato-città, Umberto Di Primio. Una
decisione, quella della proroga, come sempre originata dalle
continue modifiche normative e per questo accolta senza
salti di gioia dai sindaci. «Noi vorremmo rispettare sempre
la data del 31 dicembre, ma negli ultimi anni è stato
impossibile», ha osservato il sindaco di Chieti. «Con il
nuovo sistema di contabilità, poi, potrebbero esserci
ulteriori criticità», ha proseguito.
Di Primio ha anche
chiesto che la proroga al 26 gennaio del versamento dell'Imu
agricola (il dl di proroga n.185/2014 è stato pubblicato
ieri in Gazzetta Ufficiale) venga spostata ulteriormente in
avanti nel tempo in modo da rivedere nel complesso i criteri
di applicazione delle esenzioni
(articolo
ItaliaOggi del 17.12.2014). |
LAVORI
PUBBLICI: Appalti, pagamenti bimestrali.
Ancora per due anni 10% d'anticipo all'appaltatore.
LEGGE DI STABILITÀ/ Si tenta di mettere qualche toppa nel
settore delle costruzioni.
Fino a tutto il 2016 l'appaltatore dovrà essere pagato in
corso d'opera almeno ogni due mesi; proroga di due anni,
fino al 31.12.2016, della norma che obbliga le
stazioni appaltanti a concedere all'appaltatore
l'anticipazione del dieci per cento del valore del contratto
di appalto. Sono queste le proposte contenute in due
emendamenti del governo al disegno di legge di stabilità
2015 all'esame del senato e riguardanti due aspetti di
particolare rilievo per il settore delle costruzioni,
gravemente provato da questi anni di crisi economica.
È con
l'emendamento 1.6000 presentato dal governo in Commissione
bilancio del senato che si prevede, in via transitoria, fino
a tutto il 2016, una espressa deroga alla disciplina vigente
in tema di predisposizione degli stati di avanzamento dei
lavori (Sal) da parte del direttore dei lavori contenuta
nell'articolo 194 del dpr 207/2010 (Regolamento del codice
dei contratti pubblici).
La norma regolamentare stabilisce
che, quando in relazione alle modalità specificate nel
contratto di appalto, si deve effettuare il pagamento di una
rata di saldo, il direttore dei lavori provvede alla
redazione dello stato di avanzamento lavori (documento che
riassume tutte le lavorazioni e somministrazioni eseguite
dall'inizio dell'appalto fino a quel momento). Nella norma
vigente, quindi, il momento in cui si procede al pagamento
delle rate di acconto dipende esclusivamente da quanto
stabilito nel contratto.
La proposta del governo, invece,
lega direttamente l'obbligo del direttore dei lavori di
predisporre il cosiddetto Sal ad una cadenza almeno
bimestrale, così da consentire all'impresa di ottenere il
pagamento. La finalità è quella di prevenire, da un lato,
eccessivi ritardi nella erogazione delle risorse da parte
della stazione appaltante in base ai lavori svolti e,
all'altro, comportamenti non virtuosi da parte delle imprese
che si trovino in situazione di difficoltà di liquidità.
Tutto ciò in deroga, appunto, all'articolo 194 del
regolamento e fino al 31.12.2016 ma per i coli
contratti che verranno stipulati successivamente all'entrata
in vigore della legge di stabilità 2015. Viceversa per i
contratti in essere le modalità di redazione dei Sal e il
connesso pagamento delle rate di acconto sarà sempre
disciplinato da quanto previsto nel contratto, quindi senza
obbligo di emissione almeno ogni due mesi.
Un secondo emendamento (1.5000) incide poi sul profilo
dell'anticipazione del prezzo, altro profilo di particolare
interesse per le imprese di costruzioni, In particolare la
disposizione proposta dal governo opera sull'articolo 26-ter
del decreto-legge 69/2013, convertito nella legge 98/2013
che ha previsto, in deroga al principio del divieto di
anticipazione del prezzo, che per i contratti di appalto
relativi a lavori, disciplinati dal codice dei contratti
pubblici e affidati a seguito di gare bandite
successivamente al 20.08.2013, l'amministrazione sia
obbligata a corrispondere all'appaltatore un'anticipazione
pari al 10% dell'importo contrattuale e a darne pubblicità
negli atti di gara. Tale obbligo era temporalmente limitato
alla fine del 2014, ma con l'emendamento del governo viene
prorogato di due anni, fino al 31.12.2016.
Rimane, per il resto, confermata l'applicazione delle norme
del regolamento del codice dei contratti pubblici che, da un
lato, richiedono la costituzione di una apposita garanzia
fideiussoria di importo pari all'anticipazione concessa che
verrà gradualmente ridotta nel corso dei lavori e,
dall'altro, impongono alla stazione appaltante di erogare
l'anticipazione entro quindici giorni dalla data di
effettivo inizio dei lavori
(articolo
ItaliaOggi del 16.12.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Incarichi ai pensionati? Possibili.
Sì a docenze, partecipazioni a commissioni e comitati.
Ecco come il ministro Madia ha annacquato il divieto imposto
dalla legge del suo governo.
È fatto divieto alle amministrazioni pubbliche, ivi compresa
quella scolastica, nonché alle pubbliche amministrazioni
inserite nel conto economico consolidato della pa, alle
autorità indipendenti, inclusa la Consob, di attribuire
incarichi di studio e di consulenza a soggetti già
lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza o
conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o
direttivi o cariche in organi di governo delle
amministrazioni pubbliche e degli enti e società da esse
controllate. Incarichi e collaborazioni potranno essere
consentiti, esclusivamente a titolo gratuito e per una
durata non superiore ad un anno, non prorogabile né
rinnovabile, presso ciascuna amministrazione.
È quanto
dispone l'art. 5, comma 9, del decreto legge n. 95/2012,
dopo le modifiche apportate dal decreto legge n. 90/2014.
Così come ricorda la recente
circolare 04.12.2014 n. 6/2014 applicativa del
ministro Marianna Madia.
Si tratta, a ben vedere, di una
disposizione espressiva di un indirizzo di politica volto ad
agevolare il ricambio e il ringiovanimento del personale
nelle pubbliche amministrazioni, un obiettivo peraltro
espressamente dichiarato dal governo in carica. Fin qui le
disposizioni e gli obiettivi apprezzabili e condivisibili.
Ma, come accade di frequente, i decreti o le circolari
ministeriali che dovrebbero consentirne una applicazione
corretta valida in tutto il territorio nazionale, spesso
introducono, ricorrendo all'istituto della interpretazione,
aspetti e situazioni non espressamente indicati nella nuova
disciplina.
Un esempio in tal senso è proprio la
circolare 04.12.2014 n. 6/2014 del ministro Madia, circolare avente
appunto per oggetto «interpretazione e applicazione
dell'art. 5, comma 9, del decreto legge n. 95/2012, come
modificato dall'art. 6 del decreto legge n. 90/2014». Si
tratta di una circolare corposa e di non semplice lettura
con la quale il ministro fornisce una lunga serie di
chiarimenti sia sulla natura degli incarichi vietati, di
quelli consentiti e di quelli gratuiti.
Il primo chiarimento che si legge nella circolare è quello
relativo all'efficacia nel tempo dei divieti indicati in
premessa, la nuova disciplina si applica agli incarichi
conferiti a decorrere dal 25.06.2014 mentre restano
validi quelli conferiti fino al 24.06.2014. Si legge
inoltre che la nuova disciplina si aggiunge, senza
modificarle, alle altre disciplina vigenti che pongono
simili divieti (in particolare l'art. 25 della legge
724/1994) e che regolano il conferimento di incarichi, quali
quelle in materia di incompatibilità e inconferibilità, di
limiti alle spese per consulenze, di limiti retributivi
nelle pubbliche amministrazioni, di compensi e rimborsi
spese per gli organi collegiali, di gratuità di specifici
incarichi e di cumulo tra trattamento economico e pensione.
Si passa poi agli incarichi vietati: dopo aver sottolineato
come in fase di applicazione della nuova disciplina deve
essere esclusa l'interpretazione estensiva o analogica, il
ministro Madia precisa che gli incarichi vietati sono solo
quelli espressamente contemplati e cioè: incarichi di studio
e di consulenza, incarichi dirigenziali o direttivi, cariche
di governo nelle amministrazioni e negli enti e società
controllati.
Sono invece sottratti ai divieti tutte le ipotesi di
incarico o collaborazione che non rientrino tra quelli
espressamente vietati dal citato art. 5, comma 9, del
decreto legge 95/2012, come modificato dall'art. 6 del
decreto legge 90/2014. Tra le ipotesi che non ricadono nei
divieti vengono indicati gli incarichi che non comportino
funzioni dirigenziali o direttive e abbiano oggetto diverso
da quello di studio o consulenza; gli incarichi
professionali quali quelli inerenti ad attività legale o
sanitaria non aventi carattere di studio o consulenza. In
quanto distinti da quelli di studio e di consulenza sono
inoltre conferibili ai soggetti in quiescenza gli incarichi
di ricerca, inclusa la responsabilità di un progetto di
ricerca.
Anche le docenze rientrano tra gli incarichi non soggetti ai
divieti, purché l'impegno didattico sia definito con
precisione e il compenso sia commisurato all'attività
didattica effettivamente svolta dal singolo destinatario
dell'incarico; quelli nelle commissioni di concorso o di
gara, così come la partecipazione a organi collegiali
consultivi, quali gli organi collegiali delle istituzioni
scolastiche. Non è esclusa la partecipazione a commissioni
consultive e comitati scientifici o tecnici, ove essa non
dia luogo di fatto a incarichi di studio o consulenza o
equiparabili a incarichi direttivi o dirigenziali.
E comunque c'è l'eccezione degli incarichi gratuiti.
Il più volte citato art. 5, comma 9, contempla un'eccezione
ai divieti che la nuova disciplina impone disponendo che
incarichi e collaborazioni vietati possono essere consentiti
a titolo gratuito, con rimborso delle spese documentate, per
una durata non superiore a un anno, non prorogabile né
rinnovabile. La possibilità di attribuire incarichi gratuiti
serve, ad avviso del ministro Madia, a consentire alle
amministrazioni di avvalersi temporaneamente, senza
rinunciare agli obiettivi di ricambio e ringiovanimento ai
vertici, di personale in quiescenza –ed in particolare dei
propri dipendenti che vi siano stati appena collocati– per
assicurare il trasferimento di competenze e delle esperienze
e la continuità nella direzione degli uffici.
Da una approfondita lettura della circolare –dato atto del
tentativo ministeriale di fornire il maggior numero di
indicazioni possibili al fine di consentire una corretta
applicazione della nuova disciplina- l'impressione che se ne
ricava è che le amministrazioni pubbliche interessate
avranno diverse opportunità per non rispettare tutti i
divieti inizialmente previsti
(articolo
ItaliaOggi del 16.12.2014). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
Gli uffici non mettono online i dati su appalti e consulenze.
Trasparenza. Molte lacune nell’applicazione del decreto 33
del 2013.
La
trasparenza è l’altra faccia della medaglia per combattere
il malaffare dentro la pubblica amministrazione: da una
parte, le regole per evitare le tangenti; dall’altra,
informazioni a portata della collettività, per mettere i
cittadini in grado di rendersi conto di come funziona la
burocrazia e, dunque, come vengono spesi i soldi.
Il binomio, però, finora ha funzionato poco e male (si veda
l’articolo sopra). Anche i criteri per rendere gli uffici
pubblici più trasparenti discendono dalla medesima legge (la
190 del 2012), che ha imposto il giro di vite anti-mazzette.
La trasparenza ha poi trovato norme di dettaglio nel decreto
legislativo 33 del 2013, che ha imposto a tutte le pubbliche
amministrazioni (il ventaglio è stato di recente allargato e
perfezionato dalla riforma della Pa, la legge 90/2014) di
avere sul proprio sito istituzionale una finestra dedicata
alla comunicazione di tutta una serie di informazioni: dai
redditi dei politici ai bilanci degli enti, dalle consulenze
ai concorsi, dagli appalti alle partecipazioni societarie.
A un anno e mezzo di distanza, quegli obblighi sono stati
rispettati solo in parte. Per esempio, i piani triennali per
la trasparenza -che fanno il paio con quelli
anti-corruzione- in molti uffici ancora latitano. Per
rimanere alle amministrazioni centrali: su 13 ministeri
monitorati, cinque ancora se ne devono dotare, tra cui
quelli dell’Economia e delle Infrastrutture. E ancora:
l’Inail lo ha adottato, mentre altrettanto non si può dire
dell’Inps. Non va meglio nelle università: su quasi cento
atenei, 70 ancora non sanno cosa sia il piano della
trasparenza.
Eppure, secondo le intenzioni del Dlgs 33, quel documento,
da aggiornare ogni anno e da redigere insieme alle
associazioni dei consumatori, dovrebbe fare il punto sulle
iniziative prese dalla singola amministrazione per
assicurare un adeguato livello di trasparenza, nonché «la
legalità e lo sviluppo della cultura dell’integrità».
Le assenze dei piani, però, non sono che una delle
defaillance degli obblighi sulla trasparenza. Molte
amministrazioni ancora continuano a non pubblicare sui
propri siti i dati o, nel migliore dei casi, quando lo fanno
spesso la lettura delle informazioni è difficile se non
impossibile. Per esempio, perché inseriscono file di
difficile gestione da parte del cittadino. Eppure il decreto
33 prevede che i dati siano non solo immessi in rete in un
formato aperto, ma soprattutto siano aggiornati, completi e
di semplice consultazione.
L’Autorità anti-corruzione lo ha potuto constatare: nel
corso di controlli effettuati dall’inizio dell’anno a
ottobre ha messo sotto la lente 231 enti rispetto ai quali
era arrivata una segnalazione. Ebbene, 163 risultavano
inadempienti e gli è stato chiesto di correre ai ripari.
Dopodiché sono state effettuate oltre cento ispezioni per
verificare se gli enti si fossero adeguati: 60 lo avevano
fatto, mentre 48 erano ancora inadempienti (32 in parte e 16
in uno stato di totale inerzia).
Problemi di cui si dovrà tener conto nel caso il Governo
possa rimettere mano al decreto 33. La riapertura della
delega è, infatti, prevista nel disegno di legge di riforma
della pubblica amministrazione, presentato a fine luglio e
ora all’esame del Senato. La necessità di riscrivere il
decreto è nata proprio dall’esigenza -si legge nella
relazione al Ddl- di adattare meglio le regole sulla
trasparenza «alle esigenze emerse nel corso della loro
applicazione».
Probabilmente sarà anche l’occasione per contemperare meglio
trasparenza e privacy: il Garante, infatti, non ha mai fatto
mistero che la pubblicazione di alcune informazioni è
eccessiva rispetto agli obiettivi perseguiti.
(articolo
Il Sole 24 Ore del 15.12.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Permesso convenzionato, corsia veloce per i lavori. Ma il
passaggio in consiglio comunale può frenare l’iter.
Titoli abilitativi. Dallo Sblocca Italia una chance contro i
tempi lunghi dei piani attuativi.
Il
permesso di costruire convenzionato entra nel Testo unico
dell’edilizia (Dpr 380/2001). La possibilità di stabilire in
un contratto tra Comune e operatore le caratteristiche
dell’intervento edilizio e, soprattutto, la quantità, la
qualità e la gestione delle opere di urbanizzazione
collegate alle volumetrie private da edificare o
riqualificare erano da tempo patrimonio delle leggi
regionali e della prassi amministrativa comunale.
I vantaggi della convenzione
Per questa via è possibile evitare la formazione degli
strumenti urbanistici attuativi (piano di lottizzazione,
particolareggiato, di recupero e così via), cui è
normalmente demandata la pianificazione di dettaglio delle
aree sprovviste o non sufficientemente dotate di
infrastrutture (strade, reti tecnologiche, parcheggi,
scuole, ospedali, servizi in genere, parchi e aree a verde).
I titoli edilizi convenzionati (sì, perché l’esperienza
amministrativa conosce anche la Dia convenzionata o
corredata da atto unilaterale d’obbligo) si sono sviluppati
in particolare rispetto agli interventi edilizi circoscritti
a singoli immobili o alla ricucitura di tratti urbani non
sufficientemente urbanizzati e hanno manifestato la loro
efficacia con riferimento alla procedura, assai
semplificata, per il loro rilascio.
Infatti, mentre gli strumenti attuativi sono formati
mediante una prima delibera di adozione seguita dalla
formale approvazione del piano che controdeduce le
osservazioni presentate dopo il periodo di pubblicazione
degli atti (procedura che dura diversi mesi ed è soggetta a
valutazioni discrezionali a volte assai invasive), il
rilascio del permesso di costruire convenzionato è
assolutamente più rapido perché durante l’usuale istruttoria
del titolo edilizio viene anche formata la convenzione.
In questo modo la parte urbanistica (che si materializza con
la sottoscrizione della convenzione) ed edilizia coincidono,
mentre secondo la tradizionale procedura dei piani attuativi
prima deve essere approvato lo strumento urbanistico di
dettaglio, quindi deve essere firmata la convenzione e solo
in seguito può essere presentata domanda per il rilascio del
permesso di costruire.
Lo Sblocca Italia
Con le modifiche del decreto Sblocca Italia (Dl 133/2014)
ora l’articolo 28-bis del Testo unico (Dpr 380/2001) prevede
che qualora le esigenze di urbanizzazione possano essere
soddisfatte con una modalità semplificata, è possibile il
rilascio di un permesso di costruire convenzionato.
La nuova norma procede prevedendo che «la convenzione,
approvata con delibera del consiglio comunale, salva diversa
previsione regionale, specifica gli obblighi, funzionali al
soddisfacimento di un interesse pubblico, che il soggetto
attuatore si assume ai fini di poter conseguire il rilascio
del titolo edilizio, il quale resta la fonte di regolamento
degli interessi».
Sono soggetti alla stipula di convenzione:
-
la cessione di aree anche al fine dell'utilizzo di diritti
edificatori;
-
la realizzazione di opere di urbanizzazione;
-
le caratteristiche morfologiche degli interventi;
-
gli interventi di edilizia residenziale sociale.
La nuova disposizione conclude precisando che «la
convenzione può prevedere modalità di attuazione per stralci
funzionali» e specificando che «il termine di validità del
permesso di costruire convenzionato può essere modulato in
relazione agli stralci funzionali previsti dalla
convenzione».
L’ok del consiglio comunale
Come si vede, lo Sblocca Italia non si è limitato a
replicare l’esperienza amministrativa delle Regioni, ma ha
inserito, in particolare, una previsione che merita di
essere richiamata per verificare se potrà di fatto
appesantire l’agilità procedurale del titolo
convenzionato: si tratta della disposizione per cui la
convenzione è approvata con delibera del consiglio comunale,
che collide con la prassi amministrativa per cui tutto il
percorso del titolo convenzionato non approda in consiglio
comunale. Comunque l’articolo 28-bis fa salve le previsioni
della legislazione regionale vigente, che come accade ad
esempio in Lombardia, può non sancire la competenza
consiliare per l’approvazione delle convenzioni da allegare
ai titoli edilizi.
In ogni caso, è comunque da ritenere che il consiglio
comunale, nel rispetto della disciplina sulle competenze
degli organi locali stabilita dal Dlgs 267/2000, possa
limitarsi ad approvare una volta per tutte lo schema di
convenzione tipo, che sarà poi compito dei funzionari
applicare nei diversi casi concreti
(articolo
Il Sole 24 Ore del 15.12.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: La nuova norma sui cambi d’uso non prevale sui Prg.
Urbanistica. Definizione nazionale unica.
Il
decreto sblocca Italia cerca di unificare la disciplina
regionale sul mutamento di destinazione d’uso. L’attenzione
del legislatore passa dal titolo necessario per il cambio
d’uso alla concreta ammissibilità del passaggio tra le
diverse destinazioni funzionali previste dagli strumenti
urbanistici comunali.
Mentre l’articolo 10 del Dpr 380/2001 si limita a rimettere
alle Regioni il compito di stabilire con legge quali
mutamenti -connessi o non connessi a trasformazioni fisiche- dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a
permesso di costruire o a denuncia di inizio attività, il
nuovo articolo 23-ter del Testo unico dell’edilizia
(introdotto, appunto dal Dl 133/2014) si concentra sulla
stessa definizione del cambio d’uso e sulla sua
ammissibilità.
Secondo lo Sblocca Italia costituisce così mutamento
rilevante della destinazione d’uso «ogni forma di utilizzo
dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da
quella originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione
di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione
dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una
diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate:
a) residenziale;
a-bis) turistico-ricettiva;
b) produttiva e direzionale;
c) commerciale;
d) rurale».
Oltre allo sforzo di dare una definizione unica, la nuova
disciplina afferma che nelle Regioni che non procedano ad
adeguare la propria legislazione ai principi sul cambio
d’uso entro il 12.01.2015 il mutamento di destinazione
d’uso all’interno della stessa categoria funzionale diventa
sempre consentito.
Sembra una disposizione di rilevante portata pratica, in
particolare con riferimento agli immobili a destinazione
produttiva e direzionale che potrebbero a breve essere
sempre trasformabili in uffici e viceversa. La novità deve
però essere drasticamente ridimensionata: la disposizione fa
comunque salve le previsioni della disciplina urbanistica ed
edilizia locale.
Insomma, i piani regolatori restano padroni assoluti della
materia, al punto che essendo sempre loro l’ultima parola
sulla possibilità di modificare le destinazioni d’uso del
patrimonio edilizio esistente l’efficacia pratica
dell’articolo 23-ter si disperde quasi completamente. E
infatti: nel caso in cui il cambio d’uso sia già consentito
dal Prg comunale la norma dello Sblocca Italia non ha alcuna
utilità, mentre se il mutamento funzionale è precluso dallo
strumento urbanistico locale lo Sblocca Italia non modifica
affatto la situazione anche nel caso in cui la Regione non
provveda a recepirne i principi.
L’articolo 23-ter va dunque valutato soprattutto per la
definizione che fornisce del cambio d’uso e che varrà nelle
Regioni (il Lazio, ad esempio) che non hanno una propria
disciplina del cambio d’uso, se non recepiscono i principi
dello Sblocca Italia entro il 12 gennaio prossimo.
Sì perché per quelle che si fossero comunque già dotate di
una propria normativa in materia (come la Lombardia)
parrebbe valere la salvezza disposta dall’articolo 23-ter
del Dl 133 per cui: «Resta salva (la) diversa previsione da
parte delle leggi regionali»
(articolo
Il Sole 24 Ore del 15.12.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Salve le collaborazioni ai pensionati.
Incarichi. Le conseguenze operative della circolare 6/2014
della Funzione pubblica.
La
circolare 04.12.2014 n. 6/2014
della Funzione pubblica sugli incarichi ai pensionati nella
Pa recepisce un principio in parte già affermato dalla Corte
dei Conti (deliberazione 23/2014/Prev della sezione centrale
del controllo sugli atti del Governo) e fa salve le
collaborazioni coordinate e continuative nel novero delle
attività affidabili a soggetti in quiescenza.
La distinzione tra gli incarichi di collaborazione e quelli
su consulenze studi e ricerche è stata affrontata sin dal
2005 e le Sezioni riunite in sede di controllo della Corte
dei conti, con delibera n. 6/Contr/05, con un distinguo più
volte ripreso dai commentatori: in particolare sono stati
utilizzati i parametri previsti dal Dpr 338/1994 per
distinguere gli incarichi di studio da quelli di ricerca
(nel quale il prodotto consiste in uno scritto con gli esiti
della ricerca) e infine dalle consulenze, quali richieste di
pareri a esperti.
Le collaborazioni sono invece quei contratti, occasionali o
meno, che possono avere anche un contenuto diverso: occorre
domandarsi se tutti gli incarichi professionali esterni
rientrino in tali ambiti. In realtà, le tre tipologie
accennate non sembrano esaurire il novero degli incarichi
esterni come già rilevato dalla Corte dei conti della
Lombardia, con delibera 111/2011, sulla figura dell'«addetto
stampa-portavoce».
Solitamente gli incarichi non
inquadrabili tra studi, ricerche o consulenze vengono
collocati nell’ambito di una quarta figura, denominata
«collaborazioni autonome» per le quali, al netto della
rigorosa dimostrazione dei presupposti previsti
dall’articolo 7, comma 6, del Dlgs 165/2001, il divieto ai
soggetti in quiescenza non pare trovare applicazione.
Sulla questione del contenuto della prestazione, la stessa
circolare richiama l’interpretazione restrittiva della Corte
dei conti (delibera Sccleg/23/2014/Prev) per la quale
«l’articolo 6 del Dl 90/2014 è da intendere nel senso che il
divieto di conferire incarichi esterni a soggetti in
quiescenza è circoscritto agli incarichi di studio e agli
incarichi di consulenza, oltre che agli incarichi
dirigenziali». Questo divieto, in quanto norma limitatrice,
è da valutare alla stregua del criterio di stretta
interpretazione enunciato dall’articolo 14 delle preleggi,
che non consente interpretazioni estensive, fondate
sull’analogia. Non potendo applicarsi il divieto oltre i
casi espressamente indicati nella norma limitatrice, il
Collegio ha ritenuto che la fattispecie in esame (lavori di
falegnameria) non rientri nel novero di queste ipotesi e ha
proceduto alla registrazione del contratto.
Pare a chi scrive che, al di là del caso di specie, ben
possano verificarsi casi di prestazioni altamente
qualificate e temporanee, il cui contenuto sia di natura
diversa dai casi delineati nella recente legislazione
(studio, ricerca, consulenza ovvero incarichi dirigenziali e
direttivi) e per le quali, quindi, il divieto può intendersi
non operante
(articolo
Il Sole 24 Ore del 15.12.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, una tassa a ogni attività.
Non conta che il provvedimento autorizzatorio sia unico.
Il parere dell'Agenzia delle entrate sul tributo per
l'iscrizione all'Albo gestori ambientali.
Tassa governativa dovuta dalle imprese per ogni singola
attività di gestione rifiuti autorizzata dall'Albo gestori
ambientali, anche se formalizzata attraverso un unico
provvedimento amministrativo o determinata dal passaggio da
una classe dimensionale ad altra superiore della medesima
categoria d'iscrizione.
È quanto chiarisce l'Agenzia delle
entrate con proprio parere 12/2014 n. 954 in relazione
all'applicazione del tributo imposto dpr 641/1972.
I chiarimenti delle Entrate.
L'Agenzia sottolinea come la tassa sulle concessioni
governative prevista dal dpr 641/1972 sia dovuta per i
provvedimenti amministrativi che legittimano l'esercizio di
attività industriali o commerciali e di professioni, arti e
mestieri. Ed è sulla base di tale motivazione che
l'Amministrazione ritiene giustificata la sua applicazione a
ogni singola attività di raccolta e trasporto rifiuti,
bonifica siti contaminati, bonifica di beni contenenti
amianto, commercio e intermediazione dei rifiuti senza
detenzione per lo svolgimento della quale il soggetto
interessato ha effettuato la (necessaria) richiesta di
iscrizione all'Albo gestori ambientali.
E la questione è per
gli operatori del settore di non poco conto (dal punto di
vista economico) se si considera l'articolata declinazione
delle attività prevista dalla disciplina dell'Albo in parola
(come ridisegnata dal dm Minambiente 03.06.2014, n. 120,
in vigore dallo scorso 07.09.2014). In base alla nuova
formulazione, infatti, le citate attività di gestione
rifiuti sono spalmate in 10 «categorie» d'iscrizione (tra
alcune delle quali esistono rapporti di «genere e specie»,
come più avanti specificato), 8 delle quali sono suddivise
in ulteriori (sub) classi in base alle dimensioni
dell'impresa svolta (si veda la tabella).
Ed è su tale
architettura che incide la parola dell'Agenzia delle
entrate, la quale in primo luogo chiarisce come anche quando
con un unico provvedimento si autorizza l'esercizio di più
attività debba essere corrisposta la tassa con riferimento a
ciascuna di esse. Ancora, la tassa sarà dovuta da parte
dell'impresa che, già iscritta all'Albo, chieda di essere
aggiunta a una nuova categoria di attività oltre quella in
cui è presente.
E nell'ambito di una medesima categoria
d'iscrizione, precisa l'Agenzia, il tributo sarà altresì
dovuto per il passaggio da una classe dimensionale a una
superiore. A restare fuori dalla tassazione saranno, secondo
la logica sopra citata e come espressamente chiarito nel
Parere, solo gli atti di variazione d'iscrizione che non
modificano la sfera delle attività autorizzate (come
modifiche anagrafiche, inserimento/cancellazione veicoli per
trasporto rifiuti, rimodulazione delle fideiussioni
prestate).
Il nuovo Albo gestori. Come accennato, dal settembre 2014 la
nuova configurazione dell'Albo gestori ambientali è
delineata dal dm 120/2014, provvedimento adottato in
attuazione dell'articolo 212 del dlgs 152/2006 (cd. «Codice
ambientale») e in sostituzione del pregresso dm 406/1998.
Tra le novità di rilievo, oltre a semplificazione delle
procedure amministrative (tramite l'informatizzazione delle
comunicazioni) e maggior qualificazione delle figure
professionali (con la verifica continua delle competenze dei
«responsabili tecnici»), punto centrale della riforma è
proprio la rivisitazione delle citate «categorie di
iscrizione».
A fianco delle tradizionali attività (ora
razionalizzate) per l'esercizio delle quali è storicamente
necessaria l'adesione all'Albo, con il dm 120/2014 hanno
fatto il loro esordio nuove categorie: la «3-bis», cui
devono iscriversi distributori, installatori di
apparecchiature elettriche ed elettroniche (cd. «Aee»),
trasportatori dei relativi rifiuti (cd. «Raee») in nome dei
distributori, installatori e centri di assistenza tecnica
che gestiscono i tecno-rifiuti ex dm 65/2010 (ossia in base
alla disciplina semplificata per il ritiro «one on one»
introdotta dal dlgs 151/2005 e confermata dal dlgs 49/2014);
la «6», destinata alle imprese che effettuano esclusivamente
attività di trasporto transfrontaliero di rifiuti; la «7»,
riservata agli operatori logistici del trasporto intermodale
di rifiuti (ossia ai soggetti presenti presso stazioni
ferroviarie, interporti e altri scali merci ai quali sono
affidati i residui in attesa della presa in carico da parte
dei successivi trasportatori).
Ma tra alcune delle dieci
categorie d'iscrizione previste dal nuovo Albo esistono,
come accennato, degli specifici rapporti che rilevano dal
punto di vista autorizzatorio. In primo luogo, lo
ricordiamo, l'articolo 212, comma 7 del dlgs 152/2006
stabilisce a monte come «Gli enti e le imprese iscritte
all'Albo per le attività di raccolta e trasporto dei rifiuti
pericolosi sono esonerate dall'obbligo di iscrizione per le
attività di raccolta e trasporto dei rifiuti non pericolosi
a condizione che tale ultima attività non comporti
variazione della classe per la quale le imprese sono
iscritte».
In secondo luogo, l'articolo 8 del nuovo dm
120/2014 prevede che, nel rispetto delle norme sul trasporto
merci, le iscrizioni nelle categorie «4» (raccolta e
trasporto di rifiuti speciali non pericolosi) e «5»
(analoghe attività per i «pericolosi») consentono (secondo
regole applicative stabilite dal Comitato nazionale)
l'esercizio delle attività ex categorie «2-bis» (raccolta e
trasporto di propri rifiuti da parte di produttori iniziali
di non pericolosi o di modeste quantità di pericolosi) e
«3-bis» (gestione semplificata dei Raee) se ciò non comporta
variazioni di categoria, classe e tipologia di rifiuti per
le quali l'impresa è iscritta.
Ancora, lo stesso articolo 8 del dm 120/2014 stabilisce che,
nel rispetto delle norme sul trasporto internazionale di
merci, le iscrizioni nelle categorie «1» (raccolta e
trasporto di rifiuti urbani), «4» e «5» consentono
l'esercizio delle attività di cui alla categoria 6
(trasporto transfrontaliero), sempre a parità di categoria,
classe e tipologia dei rifiuti.
E proprio sui citati (e automatici, dal punto di vista
autorizzatorio) rapporti tra categorie la Nota dell'Agenzia
delle entrate non appare sindacare, poiché (dal tenore
letterale della stessa) l'interpretazione (estensiva) dei
presupposti che fanno scattare la tassazione sembra essere
circoscritta ai casi in cui l'iscrizione/autorizzazione
avvenga «a seguito di richiesta dell'interessato», e non
dunque quando l'esercizio di una (ulteriore) attività sia
legittimato da un meccanismo involontario
(articolo
ItaliaOggi Sette del 15.12.2014). |
ENTI LOCALI - VARI: Per le multe conta l'infrazione.
No alla decorrenza dal momento dell'accertamento.
CODICE DELLA STRADA/ Il ministro Lupi boccia la prassi in
uso anche a Milano.
«L'interpretazione estensiva» per cui il termine di
decorrenza per la notifica del verbale di accertamento di
una multa parte non dal momento dell'infrazione ma dal
momento dell'accertamento di un operatore «non può essere
considerata legittima e i comuni si devono adeguare.
Come i comuni chiedono il rispetto della legge ai cittadini,
noi dobbiamo chiedere ai comuni il rispetto della legge».
Lo
ha detto il ministro delle Infrastrutture e trasporti
Maurizio Lupi rispondendo ieri a un'INTERROGAZIONE
A RISPOSTA IMMEDIATA IN ASSEMBLEA 10.12.2014 N. 3/01215 a firma Librandi durante il
question-time alla Camera.
Lupi si
riferisce all'articolo 201 del codice della strada sulla
decorrenza termini di notifica del verbale di accertamento.
Poi il ministro ha spiegato che le multe «non sono fatte per
sanare i bilanci» e che il Viminale, in un parere espresso
sul comune di Milano, ha chiarito che «se interverranno
fattispecie analoghe si adotteranno circolari esplicative».
L'interrogazione nasce dalla prassi adottata da alcune
amministrazioni comunali, tra cui il comune di Milano, di
far decorrere il termine di 90 giorni per la contestazione
delle violazioni del codice della strada non dalla data di
commissione delle stesse bensì da quella in cui gli organi
accertatori visionano i fotogrammi fatti dagli apparecchi.
In virtù di tale prassi numerose multe sono state recapitate
nelle settimane scorse per infrazioni commesse nel
territorio del capoluogo lombardo. Ma per Lupi «tale
interpretazione estensiva del dies a quo non può
essere considerata legittima, e i comuni si devono
adattare».
Gli introiti delle multe sono introiti destinati a prevenire
e a educare comportamenti sbagliati da parte dei cittadini
non a sanare i bilanci, afferma il ministro, ricordando che
l'orientamento «è stato espresso in maniera molto chiara
anche dal ministro dell'interno alla prefettura di Milano in
riscontro a una richiesta di chiarimenti relativa alla
legittimità dell'operato del comune di Milano. Lo stesso
ministero sottolinea che laddove dovessero pervenire
ulteriori segnalazioni di fattispecie analoghe, assumerà le
opportune valutazioni in ordine all'eventuale emanazione di
una circolare esplicativa finalizzata a favorire
l'uniformità del giudizio delle prefettura nell'attività di
decisione dei ricorsi presentati dai cittadini».
«Il codice della strada va fatto rispettare, le
dichiarazioni del ministro Lupi ci meravigliano», commenta
l'assessore alla Sicurezza e coesione sociale e polizia
locale di Milano Marco Granelli, «il comune non fa cassa con
le multe ma la polizia locale ha il dovere di sanzionare chi
non rispetta la legge e mette a repentaglio l'incolumità
propria e quella degli altri utenti della strada. Anche così
abbiamo dimezzato gli incidenti a Milano. Nessuna
interpretazione estensiva dell'articolo 201 del codice della
strada bensì un atto di giustizia e legalità: l'accertamento
inizia quando l'operatore verifica l'infrazione»
(articolo
ItaliaOggi dell'11.12.2014). |
APPALTI - ENTI LOCALI: Durc
per i fondi Ue agli enti pubblici. Adempimenti. L’obbligo
per le amministrazioni beneficiarie di finanziamenti
subordinati ad attività progettuali.
Il
documento unico di regolarità contributiva (Durc) deve
essere richiesto anche per le amministrazioni pubbliche,
qualora le risorse a esse erogate da altre amministrazioni
non configurino semplici trasferimenti, ma finanzino
specifiche progettualità.
L’Inps, con il messaggio 09.12.2014 n. 9502 ha
evidenziato la particolare regola assumendo a riferimento la
nota del ministero del Lavoro del 27 ottobre di quest’anno
(protocollo 37/0018031). Il ministero ha risposto a una
Regione sulla verifica della regolarità contributiva in
relazione all’attribuzione di finanziamenti comunitari alle
province per l’attuazione di un masterplan sui servizi per
il lavoro.
Il ministero ha precisato che non sussiste necessità di
acquisire il Durc nei casi in cui il trasferimento di
risorse fra enti pubblici avvenga in base a precise
disposizioni normative, a meno che non sia diversamente
stabilito dalla stessa norma che ha istituito il beneficio o
dal procedimento amministrativo che ne disciplina
l’erogazione.
Nella nota viene invece evidenziato come il documento unico
di regolarità contributiva debba essere richiesto nei
confronti di tutti i beneficiari, anche quando si tratti di
soggetti pubblici, nel caso in cui i finanziamenti non
possano qualificarsi come semplici trasferimenti di risorse,
in quanto subordinati alla presentazione di una specifica
progettazione esecutiva o comunque connessi a un’attività
progettuale.
L’elemento di discrimine viene pertanto a essere individuato
nell’elaborazione specifica prodotta dall’amministrazione
pubblica, oggetto di una selezione e, quindi, di un
confronto con le proposte di altri soggetti pubblici e
privati.
L’interpretazione riferita alla specifica verifica della
regolarità contributiva ricalca la posizione più volte
espressa dalla giurisprudenza amministrativa in ordine al
doppio ruolo che le amministrazioni pubbliche possono avere
nella relazione con altre amministrazioni nella resa di
servizi.
Come recentemente evidenziato dal Consiglio di Stato, quinta
sezione, con la sentenza 5767 del 21.11.2014, le
amministrazioni hanno infatti la possibilità di concorrere a
procedure selettive, poiché il concetto di operatore
economico-prestatore di servizi delineato dall’ordinamento
comunitario deve essere interpretato in senso ampio e viene
meno solo a fronte di rapporti regolati da specifiche
disposizioni (come sancito dall’articolo 19, comma 2, del
codice dei contratti).
Nello stesso parere relativo al Durc, il ministero del
Lavoro ha anche evidenziato come la disciplina
dell’intervento sostitutivo si applichi a prescindere dalla
natura giuridica del soggetto inadempiente e, quindi, anche
nei confronti dei soggetti pubblici, secondo il procedimento
regolato dall’articolo 31, comma 3 della legge 98/2013
(articolo
Il Sole 24 Ore del 10.12.2014). |
ENTI LOCALI - VARI:
Multe dagli agenti anche se fuori servizio.
Gli appartenenti al corpo della polizia municipale possono
accertare infrazioni stradali anche quando sono fuori
servizio, a piedi o con un mezzo privato. Purché l'agente
anche se in borghese e a bordo di un veicolo stia circolando
nel comune di appartenenza.
Lo ha chiarito il TRIBUNALE di Parma con l'inedita sentenza
n. 892/2014.
Un automobilista maldestro ha superato in
maniera pericolosa una serie di veicoli e un agente di
polizia municipale, libero dal servizio, si è annotato targa
e ora dell'infrazione e ha successivamente inviato per posta
la multa al domicilio del trasgressore.
Contro questa misura punitiva l'interessato ha proposto
ricorso con successo al giudice di pace ma il tribunale ha
rigettato le censure e confermato la multa accertata dal
vigile a bordo di un veicolo che ha rischiato di venire in
collisione con il trasgressore. Le funzioni di polizia
stradale, specifica la sentenza, sono permanenti.
Come
confermato anche dalla legge 65/1986, conclude la sentenza,
gli operatori di polizia locale hanno come limite operativo
per l'effettuazione dei controlli di polizia stradale solo
il territorio del comune o dell'ente da cui dipendono
(articolo
ItaliaOggi del 10.12.2014). |
GIURISPRUDENZA |
CONDOMINIO: La delibera non è regolare se manca la sottoscrizione di
presidente e segretario.
In assemblea. Problemi di forma e di sostanza.
La
delibera assembleare che non reca la sottoscrizione né del
segretario né del presidente è da ritenersi nulla perché
carente dei requisiti essenziali previsti dalla legge.
Con questo dispositivo, il TRIBUNALE di Benevento (sentenza
n. 1595/2014) ha annullato una delibera con la quale
erano stati approvati alcuni rendiconti dai cui risultava un
credito dell’amministratore che, però, il condominio
disconosceva per mancata esibizione dei documenti
giustificativi.
L’amministratore si attivava per il recupero del proprio
credito; il condominio convenuto eccepiva però la nullità
della delibera per la mancata sottoscrizione del verbale da
parte del segretario e del presidente nonché l’esistenza di
una successiva delibera con la quale i condomini avevano
revocato quanto deciso nella precedente.
Il giudice di merito ha stabilito che, pur sussistendo la
nullità, se non addirittura l’inesistenza, del primo
deliberato, in quanto non sottoscritto né dal presidente né
dal segretario, tuttavia a ciò si poteva sopperire con una
successiva deliberazione, che però, nella fattispecie,
conteneva la volontà dell’assemblea di revocare quanto in
precedenza approvato.
Lo stesso giudice, al di là delle diverse questioni
analizzate in sentenza, ha voluto annoverare le delibere non
sottoscritte dal presidente e dal segretario tra le
«delibere prive degli elementi essenziali» che, in base alle
sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza
4806/2005), sono da considerarsi nulle.
Anche la giurisprudenza di legittimità (Cassazione, sentenza
23687/2009), pronunciandosi in merito al valore giuridico
delle dichiarazioni contenute nel verbale d’assemblea
condominiale, ha fatto rientrare il verbale assembleare, pur
privo della sottoscrizione del presidente e del segretario,
nell’ambito delle «dichiarazioni di scienza» con efficacia
di una confessione stragiudiziale solo nei confronti dei condòmini consenzienti.
Parzialmente diverse le conclusioni cui era giunta molti
anni fa la stessa Cassazione nel caso di mancata
sottoscrizione del verbale da parte della persona che abbia,
in un primo tempo presieduto l’assemblea condominiale e poi,
per un qualsiasi evento, si sia allontanata, sicché il
verbale sia stato sottoscritto soltanto dal presidente
subentrato al primo. In tal caso si concretizza
un’irregolarità formale che non determina la nullità della
deliberazione, e che pertanto deve essere dedotta nel
termine perentorio di cui all’articolo 1137, Codice civile (Cassazione,
sentenze 212/1972 e 2812/1973).
A tale conclusione giunge anche il Tribunale di Genova che
(sentenza dell’08.02.2012) ha respinto il ricorso di un condòmino sul punto della delibera mancante della firma del
presidente ma contenente quella del segretario che ha
redatto l’atto. Secondo il giudice, infatti mentre la
sottoscrizione del segretario è essenziale, secondo un
principio generale valevole per gli organi collegiali di
enti pubblici e privati, la sottoscrizione del presidente,
poiché non implica l’assunzione della paternità dell’atto,
ma attiene al controllo della fedeltà e della completezza
della verbalizzazione, non incide sulla esistenza giuridica
del verbale (articolo
Il Sole 24 Ore del 16.12.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
giurisprudenza, sul presupposto per cui l’abuso edilizio
costituisce illecito permanente e che l’ordinanza di
demolizione ha carattere ripristinatorio non richiedente
l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si
imputa la trasgressione, ha chiarito che:
- l’Amministrazione non ha alcun obbligo di compiere
accertamenti giuridici circa l’esistenza di particolari
rapporti interprivati tra autore dell’abuso e proprietari,
ma ha solo l’onere di individuare il proprietario catastale;
- i provvedimenti sanzionatori sono legittimamente adottati
nei confronti dei proprietari catastali degli immobili
abusivamente realizzati, dovendo del tutto prescindersi sia
dalle modalità con cui l'abuso è stato realizzato sia dagli
eventuali rapporti intercorrenti tra proprietari e
costruttori;
- l’ordine di demolizione di opere abusive è legittimamente
notificato al proprietario catastale dell’area il quale,
fino a prova contraria, è quanto meno corresponsabile
dell’abuso.
---------------
La giurisprudenza dominante, da cui non vi è motivo qui di
discostarsi, ha chiarito che “il provvedimento di
repressione degli abusi edilizi costituisce un atto dovuto
in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e dalla
riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di
illecito previste dalla legge, circostanza, questa, che
comporta che il provvedimento sanzionatorio non richiede
particolare motivazione, essendo sufficiente la
rappresentazione del carattere illecito dell’opera
realizzata, né previa espressa comparazione tra l’interesse
pubblico alla rimozione dell’opera, che è in re ipsa, e
quello privato alla relativa conservazione, e ciò anche se
l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla
commissione dell’abuso” non potendo ammettersi “l’esistenza
di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare”.
3.2. Quanto alla notificazione del provvedimento impugnato
ai proprietari attuali, la giurisprudenza, sul presupposto
per cui l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e
che l’ordinanza di demolizione ha carattere ripristinatorio
non richiedente l’accertamento del dolo o della colpa del
soggetto cui si imputa la trasgressione, ha chiarito che:
“- l’Amministrazione non ha alcun obbligo di compiere
accertamenti giuridici circa l’esistenza di particolari
rapporti interprivati tra autore dell’abuso e proprietari,
ma ha solo l’onere di individuare il proprietario catastale;
- i provvedimenti sanzionatori sono legittimamente adottati
nei confronti dei proprietari catastali degli immobili
abusivamente realizzati, dovendo del tutto prescindersi sia
dalle modalità con cui l'abuso è stato realizzato sia dagli
eventuali rapporti intercorrenti tra proprietari e
costruttori;
- l’ordine di demolizione di opere abusive è legittimamente
notificato al proprietario catastale dell’area il quale,
fino a prova contraria, è quanto meno corresponsabile
dell’abuso;” (Cons. Stato, Sez. IV, 23.02.2013, n. 1179,
e giurisprudenza ivi citata; cfr. anche Sez. VI, 04.10.2013,
n. 4913).
Nella specie i ricorrenti non hanno in ogni caso fornito
prova dell’asserita preesistenza della recinzione secondo
l’allineamento riscontrato nel provvedimento impugnato; non
è infatti sufficiente allo scopo la planimetria allegata
all’atto di compravendita del terreno del 19.12.1988 (doc.
n. 1 del fascicolo di parte di secondo grado), in quanto
riproduttiva della delimitazione dell’area allo stato, da
cui non si evince l’allineamento della recinzione quale in
seguito riscontrato, nulla altresì risultando al riguardo
dal testo di tale atto (doc. n. 2 del fascicolo di parte in
primo grado), né vale la planimetria sullo stato dei luoghi
anche allegata (doc. n. 2 del fascicolo di secondo grado)
poiché in questa, al contrario, lo sconfinamento è
raffigurato ma si tratta di documento datato novembre 2013;
conseguendo altresì da ciò la mancata prova della
responsabilità del contestato abuso in capo al precedente
proprietario sig. G., dante causa dei ricorrenti.
Né la costruzione di seminterrati può valere a legittimare
abusi sulla strada pubblica sovrastante.
3.3. Riguardo alla specificazione dell’interesse pubblico
all’emanazione dei provvedimenti repressivi degli abusi
edilizi e all’affidamento eventualmente asserito da parte
dei destinatari per il tempo trascorso dall’abuso, la
giurisprudenza dominante, da cui non vi è motivo qui di
discostarsi, ha chiarito che “il provvedimento di
repressione degli abusi edilizi costituisce un atto dovuto
in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e dalla
riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di
illecito previste dalla legge, circostanza, questa, che
comporta che il provvedimento sanzionatorio non richiede
particolare motivazione, essendo sufficiente la
rappresentazione del carattere illecito dell’opera
realizzata, né previa espressa comparazione tra l’interesse
pubblico alla rimozione dell’opera, che è in re ipsa, e
quello privato alla relativa conservazione, e ciò anche se
l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla
commissione dell’abuso” (Cons. Stato, Sez. VI,
28.01.2013, n. 498) non potendo ammettersi “l’esistenza
di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare” (Cons. Stato, sez. VI, 04.03.2013, n.
1268).
Non contrasta con ciò la pronuncia citata dagli appellanti
(Cons. Stato, Sez. V, 24.10.2013, n. 5158) poiché relativa
ad un caso ivi espressamente indicato come eccezionale, in
ragione del lasso di tempo accertato tra la commissione
dell’abuso e l’intervento sanzionatorio (circa 50 anni)
nonché a fronte di una costruzione munita di un titolo
edificatorio, venendo nella specie in questione delle
semplici difformità dal medesimo
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 15.12.2014 n. 6148 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO -
VARI: Infortunio in piscina, paga il gestore.
Tribunale di Bari. La responsabilità per l’incidente non può
ricadere sull’unico assistente che deve sorvegliare due
specchi d’acqua.
Il gestore di una piscina è tenuto a garantire
l’incolumità fisica degli utenti con un’idonea
organizzazione, un’adeguata vigilanza e il rispetto delle
norme sulla sicurezza. L’assistente bagnanti risponde nei
limiti della concreta possibilità di intervento.
Con questa
motivazione, (con la sentenza n. 1398/2014,
anticipata sul Sole 24 Ore del 27 novembre) il giudice
monocratico presso il TRIBUNALE di Bari (I Sez. penale) ha riconosciuto la responsabilità
dell’amministratore di un centro polisportivo per le lesioni
subite da una bambina e scagionato l’assistente bagnanti,
perché non in condizioni di impedire l’evento.
Ha pesato il fatto che l’assistente doveva presidiare due
piscine per 615 metri quadri totali. Una è riservata ai
bambini, profonda 80 centimetri, estesa 350 mq e separata
dall’altra piscina con una tettoia. Circostanze che gli
hanno impedito una visuale ottimale su entrambi gli specchi
d’acqua e, dunque, un pronto intervento per evitare che la
piccola riportasse le lesioni.
Di qui l’esclusiva responsabilità del gestore, cui il
giudice ha addebitato la violazione dell’articolo 14 del Dm
Interno 18.03.1996 («Norme di sicurezza per la
costruzione e l’esercizio degli impianti sportivi») e
dell’articolo 7 della legge della Regione Puglia 35/2008
(«Disciplina igienico-sanitaria delle piscine a uso
natatorio»), secondo cui, rispettivamente, il rapporto
assistenti/superfici d’acqua è di una unità per ogni 500 mq
e le piscine destinate ai bambini non devono superare la
profondità di 60 centimetri.
Misure di salvaguardia che il gestore di impianti di
balneazione, in quanto titolare nei confronti degli utenti
di una posizione di garanzia ex articolo 40 del Codice
penale, è tenuto ad adottare. Assieme ad ogni altra idonea
misura tecnico- organizzativa che tuteli la loro vita e
integrità fisica (Cassazione, sentenza 27396/2005). Il che,
nel caso di specie, è venuto a mancare, in quanto -rileva la
sentenza- qualora fosse stata assicurata la presenza di due
assistenti bagnanti, uno per ogni specchio d’acqua, «l’evento
penalmente rilevante –ovvero le concatenate e successive
lesioni accusate dalla minore- non si sarebbe, secondo un
elevato grado di probabilità, affatto verificato».
Di conseguenza, all’(unico) assistente presente nella
struttura al momento dell’infortunio non può essere ascritta
alcuna responsabilità, in ragione del fatto che
l’organizzazione del servizio di salvamento era inidonea
allo scopo e che –anzi- lo stesso assistente sarebbe accorso
appena avvedutosi del fatto ed avrebbe estratto per primo la
piccola dallo specchio d’acqua
(articolo
Il Sole 24 Ore dell'11.12.2014). |
APPALTI: Appalti, l’indagine sul vincitore può bloccare
l’aggiudicazione.
Gare. Non serve la sentenza passata in giudicato.
È legittima la decisione di non procedere
all’aggiudicazione definitiva di un appalto per il fatto che
nei confronti del legale rappresentante della società
aggiudicataria in via provvisoria risulta pendente
un’indagine penale.
È quanto
stabilito dalla Corte di giustizia dell’Unione europea con
la
sentenza 11.12.2014 causa C-440/13 in base
alla quale l’amministrazione aggiudicatrice può rinunciare
ad aggiudicare un appalto pubblico per il quale si sia
tenuta una gara e non procedere alla conferma definitiva al
solo concorrente che sia rimasto in gara e sia stato
dichiarato aggiudicatario in via provvisoria.
I fatti riguardano un’azienda regionale per l’emergenza
sanitaria e l’aggiudicazione in via provvisoria a un unico
concorrente in gara per l’affidamento del servizio di
trasporto di organi. Nel frattempo erano state avviate
indagini penali preliminari nei confronti del legale
rappresentante della società per reati di truffa e di falso
ideologico, con successivo rinvio a giudizio. L’Azienda ha
quindi avviato un procedimento per annullare in autotutela
la gara d’appalto e ha deciso di non procedere
all’aggiudicazione definitiva. Non ha indetto una nuova gara
e ha prorogato l’affidamento del servizio a due
associazioni.
Il Tar Lombardia, chiamato in causa dalla società esclusa,
ha ritenuto che, in base alla direttiva 2004/18/Ce,
l’esclusione di un concorrente possa avvenire soltanto nel
caso in cui questi sia stato condannato con sentenza passata
in giudicato.
Ora, i giudici europei sottolineano che la direttiva
2004/18/Ce conferiscono alle amministrazioni aggiudicatrici
anche il potere di escludere ogni operatore economico che
abbia commesso un errore grave, accertato con qualsiasi
mezzo di prova dall’amministrazione aggiudicatrice, o che
abbia fornito false dichiarazioni, senza che sia necessario
che nei confronti dell’operatore economico sia stata
pronunciata una sentenza di condanna passata in giudicato.
Tra le precisazioni della Corte Ue, si precisa anche che per
la revoca di un bando di gara la direttiva 2004/18 prevede
poi l’obbligo di informare i candidati e gli offerenti. La
giurisprudenza della Corte ha già dichiarato che la rinuncia
all’aggiudicazione da parte dell’amministrazione non è
limitata a casi eccezionali, né deve essere fondata su
motivi gravi, e non c’è l’obbligo di portare a termine
l’aggiudicazione. È peraltro obbligatorio comunicare i
motivi su cui si basa la decisione, per garantire un livello
minimo di trasparenza nelle procedure. Inoltre, la decisione
dell’amministrazione deve poter costituire oggetto di
ricorso ed essere eventualmente annullata in quanto
contraria al diritto dell’Unione; le giurisdizioni nazionali
devono poter verificare la compatibilità della revoca del
bando di gara con le norme del diritto dell’Unione.
I giudici europei chiariscono anche che la direttiva
89/665/CEE sulle procedure di ricorso in materia di appalti
pubblici consente un controllo di legittimità delle
decisioni adottate dalle amministrazioni aggiudicatrici,
volto a garantire il rispetto del diritto dell’Unione oppure
delle disposizioni nazionali che lo recepiscono, senza che
il controllo possa essere limitato al solo carattere
arbitrario delle decisioni dell’amministrazione
aggiudicatrice. Tuttavia, ciò non esclude la facoltà, per il
legislatore nazionale, di attribuire ai giudici nazionali
competenti il potere di esercitare un controllo in materia
di opportunità
(articolo
Il Sole 24 Ore del 12.12.2014
- tratto da www.centrostudicni.it).
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massima
Rinvio pregiudiziale – Appalti pubblici di servizi –
Direttiva 2004/18/CE – Direttiva 89/665/CEE – Situazione
personale del candidato o dell’offerente – Aggiudicazione
dell’appalto in via provvisoria – Indagini penali avviate
nei confronti del legale rappresentante dell’aggiudicatario
– Decisione dell’amministrazione aggiudicatrice di non
procedere all’aggiudicazione definitiva dell’appalto e di
revocare la procedura di gara – Sindacato giurisdizionale.
1) Gli articoli 41, paragrafo 1, 43
e 45 della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento
delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di
lavori, di forniture e di servizi, devono essere
interpretati nel senso che, qualora i presupposti per
l’applicazione delle cause di esclusione previste dal
medesimo articolo 45 non siano soddisfatti, detto articolo
non osta a che l’amministrazione aggiudicatrice decida di
rinunciare ad aggiudicare un appalto pubblico per il quale
si sia tenuta una gara e di non procedere all’aggiudicazione
definitiva di tale appalto al solo concorrente che sia
rimasto in gara e sia stato dichiarato aggiudicatario in via
provvisoria.
2) Il diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici e,
in particolare, l’articolo 1, paragrafo 1, terzo comma,
della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre
1989, che coordina le disposizioni legislative,
regolamentari e amministrative relative all’applicazione
delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione
degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come
modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo
e del Consiglio, dell’11.12.2007, devono essere interpretati
nel senso che il controllo previsto da tale disposizione
costituisce un controllo di legittimità delle decisioni
adottate dalle amministrazioni aggiudicatrici, volto a
garantire il rispetto delle norme pertinenti del diritto
dell’Unione oppure delle disposizioni nazionali che
recepiscono dette norme, senza che tale controllo possa
essere limitato al solo carattere arbitrario delle decisioni
dell’amministrazione aggiudicatrice. Tuttavia, ciò non
esclude la facoltà, per il legislatore nazionale, di
attribuire ai giudici nazionali competenti il potere di
esercitare un controllo in materia di opportunità. |
VARI:
Videosorveglianza, divieto di riprese negli spazi
pubblici. Corte Ue. Il privato subiva attacchi alle
finestre.
Da
Lussemburgo limiti all’utilizzo di impianti di
videosorveglianza della propria abitazione se, seppure di
poco, riprendono immagini dalla strada pubblica. Questo
perché, in questi casi, l’attività deve essere classificata
come trattamento dati, con la conseguenza che va applicata
la direttiva 95/46 relativa alla tutela delle persone
fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali,
nonché alla libera circolazione dei dati, recepita in Italia
con Dlgs 196/2003 (“Codice in materia di protezione dei dati
personali”).
Lo ha chiarito
la
Corte di Giustizia UE, Sez. IV, con la
sentenza 11.12.2014 causa C-212/13,
nel corso di un procedimento nel quale sono intervenuti
sette Stati, inclusa l’Italia.
La vicenda ha preso avvio dall’installazione di un sistema
di videosorveglianza da parte di un privato la cui
abitazione, da anni, era oggetto di attacchi (con una fionda
era stato rotto un vetro, ndr). Installata una telecamera,
erano stati individuati gli autori che, però, avevano
contestato la legalità delle registrazioni, poi acquisite
dalla polizia. L’Ufficio per la tutela dei dati personali
aveva dato ragione ai ricorrenti
Di qui il ricorso del proprietario del sistema, con la Corte
suprema amministrativa della Repubblica Ceca che, prima di
pronunciarsi, ha passato la questione interpretativa a
Lussemburgo.
Prima di tutto gli eurogiudici hanno chiarito che l’immagine
di una persona registrata da una telecamera è un dato
personale perché consente di individuare l’identità
dell’interessato, con la conseguenza che è necessario il
consenso. Detto questo, la Corte è passata a verificare se
fosse possibile applicare l’eccezione prevista dall’articolo
3 della direttiva che esclude dal campo di applicazione
dell’atto Ue i trattamenti di dati personali effettuati da
una persona fisica «per l’esercizio di attività a carattere
esclusivamente personale o domestico». Nel caso al centro
della questione la videosorveglianza era stata sì decisa e
installata da una persona fisica dinanzi alla propria
abitazione privata ma, seppure di poco, le riprese della
telecamera fissa si estendevano nello spazio pubblico.
Una
situazione che porta la Corte a concludere nel senso di non
applicare l’eccezione prevista dalla direttiva. In questi
casi, infatti, l’attività «è diretta verso l’esterno della
sfera privata della persona che procede al trattamento dei
dati» e non può essere classificata come un’attività
esclusivamente personale o domestica. A ciò si aggiunga –osserva Lussemburgo– che l’eccezione deve essere
interpretata in modo restrittivo per garantirne una lettura
compatibile con l’articolo 7 della Carta dei diritti
fondamentali Ue che tutela il diritto alla vita privata.
La Corte apre, però, la strada a una soluzione per tutelare
la vittima di illeciti da parte di terzi. Secondo gli
eurogiudici, infatti, il tribunale interno deve tenere
conto, in linea con quanto previsto dall’articolo 7, lettera
f) della direttiva, degli interessi legittimi del
responsabile del trattamento come la tutela dei beni, della
salute, della vita e della famiglia
(articolo
Il Sole 24 Ore del 12.12.2014). |
VARI: Telecamere, stretto raggio.
Vie pubbliche, vista limitata per la privacy.
La Corte di giustizia europea sugli impianti installati da
privati.
Telecamere private a vista limitata. La legge sulla privacy
si applica anche agli impianti installati per proteggere la
propria abitazione se riprendono la via pubblica. Deve
essere bilanciato, però, l'interesse alla riservatezza con
l'interesse alla tutela dei propri beni e della propria
incolumità. Quindi sì alla telecamera privata per difendere
casa, senza il consenso dell'interessato, ma ad alcune
condizioni.
Il problema è stato affrontato dalla Corte di giustizia
europea, con la
sentenza 11.12.2014 causa C-212/13, chiamata a pronunciarsi su un episodio
capitato in Repubblica Ceca. Una famiglia, vittima di atti
di vandalismo, ha piazzato una telecamera che riprendeva la
strada pubblica. Le immagini registrate sono servite a
individuare alcuni sospettati, uno dei quali si è lamentato
della lesione della sua privacy. Ne è derivato un
procedimento nel quale il giudice ceco si è chiesto se le
riprese domestiche costituiscono un trattamento di dati,
assoggettato alla direttiva europea sulla privacy (n.
95/46/Ce) o se invece sono un'attività lecita, consentita ai
soggetti privati senza vincoli. La domanda è finita sul
tavolo dei giudici europei.
La risposta della Corte Ue, in primo luogo, ha chiarito che
le riprese con la telecamera di famiglia rappresentano un
trattamento di dati personali: questo perché l'immagine di
una persona registrata da una telecamera consente di
identificare la persona interessata e costituisce un
trattamento automatizzato. In secondo luogo non è possibile
considerare questo trattamento di dati come un trattamento
effettuato da persone fisiche per scopi esclusivamente
personali: una qualifica di questo tipo implicherebbe
esclusione dell'applicazione della normativa sulla privacy.
La sentenza ha chiarito che l'esenzione prevista dalla
direttiva relativamente al trattamento di dati effettuato da
una persona fisica per l'esercizio di attività a carattere
esclusivamente personale o domestico deve essere
interpretata in modo restrittivo: pertanto, una
videosorveglianza che si estende allo spazio pubblico e che,
di conseguenza, è diretta al di fuori della sfera privata
della persona che tratta i dati non può essere considerata
un'attività esclusivamente personale o domestica.
Attenzione, però, a concludere che la videoripresa a tutela
delle abitazioni private sia vietata, a tutto vantaggio di
malintenzionati.
Nella sentenza si ricorda, infatti, che l'interesse alla
privacy deve essere bilanciato con l'interesse legittimo del
responsabile del trattamento alla protezione dei beni, della
salute e della vita propri nonché della sua famiglia.
Questo significa che, con riferimento a questo interesse di
legittima tutela, alcuni adempimenti previsti dalla legge
sulla privacy possono fare un passo indietro.
Nell'ordinamento italiano il provvedimento generale sulla
videosorveglianza dell'08.04.2010, adottato dal garante
della privacy, contiene le prescrizioni cui attenersi.
Nel provvedimento generale si specifica che il codice della
privacy (dlgs 196/2003) non si applica alla
videosorveglianza effettuata da persone fisiche per fini
esclusivamente personali, purché i dati non siano comunicati
sistematicamente a terzi ovvero diffusi.
In queste ipotesi rientrano, ad esempio, gli strumenti di
videosorveglianza idonei a identificare coloro che si
accingono a entrare in luoghi privati (videocitofoni o altre
apparecchiature che rilevano immagini o suoni, anche tramite
registrazione), oltre a sistemi di ripresa installati nei
pressi di immobili privati ed all'interno di condomini e
loro pertinenze (quali posti auto e box).
Lo stesso provvedimento generale dispone, però, che l'angolo
visuale delle riprese deve essere comunque limitato ai soli
spazi di propria esclusiva pertinenza (per esempio,
antistanti l'accesso alla propria abitazione) escludendo
ogni forma di ripresa, anche senza registrazione di
immagini, relativa ad aree comuni (cortili, pianerottoli,
scale, garage comuni) oppure ad ambiti antistanti
l'abitazione di altri condomini.
Altrimenti il rischio è quello di incorrere nel reato di
interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis
codice penale)
(articolo
ItaliaOggi del 12.12.2014). |
VARI:
La Corte di Giustizia UE dice no all'istallazione di una
telecamera di videosorveglianza sulla casa diretta verso la
strada: viola la privacy.
L’articolo 3, paragrafo 2, secondo
trattino, della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e
del Consiglio, del 24.10.1995, relativa alla tutela delle
persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati
personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, dev’essere
interpretato nel senso che l’utilizzo di un sistema di
videocamera, che porta a una registrazione video delle
persone immagazzinata in un dispositivo di registrazione
continua quale un disco duro, installato da una persona
fisica sulla sua abitazione familiare per proteggere i beni,
la salute e la vita dei proprietari dell’abitazione, sistema
che sorveglia parimenti lo spazio pubblico, non costituisce
un trattamento dei dati effettuato per l’esercizio di
attività a carattere esclusivamente personale o domestico,
ai sensi di tale disposizione
(Corte di Giustizia UE, Sez. IV,
sentenza 11.12.2014 causa C-212/13 - link a
http://curia.europa.eu). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Sull'obbligo di attivare una procedura
competitiva in caso sia di affidamento di un appalto che di
concessione di servizio o di bene pubblico.
Come chiarito
dalla giurisprudenza, la circostanza che si tratti, di una
concessione di beni o servizi pubblici non esime l'ente
locale dall'obbligo di dare corso ad una procedura
competitiva per la scelta del concessionario, la quale si
pone come un indiscusso strumento di garanzia dell'ingresso
al mercato, della parità di trattamento, del principio di
non discriminazione e della trasparenza tra gli operatori
economici, nel rispetto dei principi di concorrenza e
libertà di stabilimento.
Ciò -del resto- trova conferma anche nel rilievo che, anche
a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona,
non può che essere preso atto dell'indifferenza comunitaria
alla qualificazione nominale della fattispecie, con
consequenziale obbligo dall'attivazione di una procedura
competitiva in caso sia di affidamento di un appalto che di
concessione di servizio o di bene pubblico (in virtù del al
quale va, tra l'altro, riconosciuta la posizione soggettiva
qualificata delle c.d. "imprese di settore").
Pertanto, nel caso di specie, riguardante l'affidamento da
parte del Comune della gestione del servizio di accertamento
e riscossione dell'imposta comunale sulla pubblicità e dei
diritti sulle pubbliche affissioni, sussistono le condizioni
per affermare che il Comune non ha operato nel rispetto
della su indicata prescrizione, atteso che la stessa
Amministrazione afferma di aver proceduto ad una mera "indagine
informale" e, comunque, si astiene dal fornire qualsiasi
elemento di prova atto a dare conto che la scelta nel nuovo
concessionario sia avvenuta in esito ad un'effettiva
selezione tra gli operatori del settore, in osservanza dei
su indicati principi (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 10.12.2014 n. 12488 - (link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Il grave errore nell'esercizio dell'attività
professionale in cui sia incorso l'appaltatore costituisce
causa di esclusione dalla partecipazione alla gara.
L'art. 38 del DLgs. 163/2006, nell'elencare i requisiti di
ordine generale dei partecipanti alle procedure di
affidamento, stabilisce alla lett. f) che sono esclusi dalla
partecipazione alle procedure di affidamento delle
concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi,
né possono essere affidatari di subappalti e non possono
stipulare i relativi contratti i soggetti "che hanno
commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività
professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da
parte della stazione appaltante": con ciò richiamando,
peraltro, un principio generale già espresso dall'art. 68
del RD 23.5.1924 n. 827, in materia di amministrazione del
patrimonio e di contabilità generale dello Stato.
Il grave errore nell'esercizio dell'attività professionale
in cui sia incorso l'appaltatore costituisce, dunque, causa
di esclusione dalla partecipazione alla gara in quanto in
tale ipotesi si manifesta il prioritario interesse pubblico
ad evitare di intrattenere rapporti contrattuali con un
soggetto inadempiente in relazione al quale sussiste la
ragionevole possibilità che si determini ancora detta
sfavorevole evenienza: esclusione, va precisato, che non ha
carattere sanzionatorio, essendo la stessa prevista a
presidio dell'elemento fiduciario destinato a connotare, sin
dal momento genetico, i rapporti contrattuali di appalto
pubblico.
Pertanto, l'art. 38, c. 1, lett. f), del DLgs 163/2006
impone al concorrente, a pena di esclusione, la
dichiarazione di pregresse risoluzioni contrattuali anche se
relative ad affidamenti effettuati da altre stazioni,
spettando in ogni caso all'Amministrazione di valutare la
gravità e la pertinenza dell'errore professionale, con
esclusione di qualsiasi intermediazione del concorrente
stesso (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 10.12.2014 n. 6507 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Pannelli, «resiste» il regime differenziato. Tar
Torino. In base alla zona della città.
Nuove
incertezze sui pannelli solari, anche all’indomani
dell’entrata in vigore della legge Sblocca Italia (Dl 133
convertito in legge 164/2014) che si occupa del settore
inserendo le pompe di calore aria-aria tra le opere di
manutenzione ordinaria.
I dubbi riguardano i pannelli che sfruttano il sole, nelle
zone di pregio ambientale, e sono oggetto della
sentenza 10.12.2014 n. 1946 del
TAR Piemonte, Sez. I.
Per i giudici, sia i pannelli fotovoltaici, che convertono
l’energia solare in elettrica, sia quelli termici, che
producono calore, sono opere di manutenzione ordinaria
(articolo 11, comma 3, Dlgs. 115/2008 ), eseguibili con Cia
(comunicazione di inizio lavori). Il regime cambia per le
zone con vincolo ambientale, perché a seconda del tipo di
vincolo i due tipi di pannelli hanno una diversa procedura,
che è solo in parte comune.
Nei centri storici e su edifici specificamente vincolati,
sia per i pannelli fotovoltaici sia per i termici serve il
parere della Soprintendenza. Al di fuori di questi casi,
cioè nelle zone soggette a vincolo ambientale generalizzato
(aree del piano paesistico, fasce di rispetto di 150 m dai
corsi d’acqua), il regime cambia secondo il tipo di
pannelli. Per il Tar, mentre per i pannelli termici occorre
coinvolgere la Sovrintendenza, per i fotovoltaici nelle aree
genericamente oggetto di piano paesistico e nelle fasce di
rispetto (150 m dai corsi d’acqua e 300 m dal mare) non è
necessario il parere della Soprintendenza.
Gli stessi giudici di Torino pur ritenendo «imperscrutabile»
la logica del legislatore, ne prendono atto: su uno stesso
tetto, all’interno della fascia di 150 m da un corso
d’acqua, due pannelli di eguali dimensioni, uno fotovoltaico
che generi energia elettrica, e l’altro che converta
l’energia solare in energia termica producendo acqua calda,
hanno un diverso regime, anche se corrispondono alle
caratteristiche previste dall’articolo 11, comma 3, del Dlgs
115/ 2008 sull’efficienza energetica. Le caratteristiche che
rendono realizzabili i due pannelli come manutenzione
ordinaria, sono descritte nel citato articolo 11, comma 3:
devono essere impianti aderenti o integrati nel tetto, con
la stessa inclinazione e orientamento delle falde, che
coincidano con la sagoma dell’edificio e con la superficie
del tetto.
Nel caso deciso dal Tar, il proprietario di una villetta nel
Comune di Ovada, a 150 m da un corso d’acqua, si era visto
imporre dalla Sovrintendenza una pellicola antiriflesso per
un impianto fotovoltaico: ne è nata una contestazione finita
con l’annullamento della prescrizione, perché la tipologia
del pannello escludeva la necessità di autorizzazione
ambientale.
I due tipi di pannelli, secondo il Tar, hanno regimi diversi
perché quelli termici sono regolati da una Direttiva
comunitaria (2006/32, sull’efficienza energetica), che si
disinteressa del fotovoltaico. Esistono quindi procedure
comuni solo per le zone di maggior pregio. Eventuali errori
sono rischiosi, in quanto l’irregolarità edilizia (assenza
del parere della Soprintendenza, se obbligatorio) impedisce
l’applicazione del Conto energia, che rende conveniente
l’impianto fotovoltaico. Ma con la sentenza del Tar che
coincide con le linee guida del ministero dello Sviluppo
economico (Dm 10.09.2010, punto 12.1), al di fuori di
centri e nuclei storici e degli edifici vincolati il parere
dalla Sovrintendenza non sembra necessario
(articolo
Il Sole 24 Ore del 18.12.2014).
---------------
SENTENZA
... per l'annullamento:
- delle note prot. 12321/12690 del 31.07.2013, 15333/18328
del 07.11.2013 e 15333-20273/401/44 del 09.01.2014,
pervenute a mezzo raccomandata in data 13.1.2014, con cui
l'Ufficio Tecnico del Comune di Ovada, con riferimento alla
comunicazione presentata dai ricorrenti, relativa
all'installazione di un impianto fotovoltaico aderente al
tetto, ha comunicato che attesa la sussistenza del vincolo
paesaggistico i lavori potranno iniziare solo dopo
l'acquisizione del parere della Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici;
- nonché del parere prot. n. 13522/34.10.05/233 della
Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per
le Province di Novara, Alessandria e Verbano-Cusio-Ossola;
di ogni altro atto ad essi presupposto, connesso e
conseguente.
...
Il primo motivo di ricorso è fondato per le seguenti
ragioni.
Pur non essendo condivisibile in toto l’assunto della difesa
di parte ricorrente, secondo cui, in materia, deve trovare
sempre applicazione la procedura semplificata di
comunicazione preventiva al Comune, senza necessità alcuna
di tutela dei vincoli ambientali e paesaggistici, neppure lo
è la tesi della difesa erariale secondo cui, in presenza di
qualsivoglia vincolo ex d.lgs. n. 42/2004, risulta sempre
imprescindibile il parere della sovrintendenza.
Nel caso di specie, per le ragioni che si procede ad
illustrare, si ritiene che, effettivamente, il parere della
sovrintendenza non dovesse essere acquisito.
La normativa risulta contorta, oltre che frutto di numerose
stratificazioni; tuttavia pare al collegio di poterla
ricostruire nei seguenti termini.
L’art. 7, co. 1, del d.lgs. n. 28/2011, invocato dalla
difesa erariale quale presupposto della necessità
dell’autorizzazione della sovrintendenza, recita: “Gli
interventi di installazione di impianti solari termici sono
considerati attività ad edilizia libera e sono realizzati,
ai sensi dell'articolo 11, comma 3, del decreto legislativo
30.05.2008, n. 115, previa comunicazione, anche per via
telematica, dell'inizio dei lavori da parte dell'interessato
all'amministrazione comunale, qualora ricorrano
congiuntamente le seguenti condizioni:
a) siano installati impianti aderenti o integrati nei tetti
di edifici esistenti con la stessa inclinazione e lo stesso
orientamento della falda e i cui componenti non modificano
la sagoma degli edifici stessi;
b) la superficie dell'impianto non sia superiore a quella
del tetto su cui viene realizzato;
c) gli interventi non ricadano nel campo di applicazione del
codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42, e successive modificazioni.”
Ne consegue che è pur vero che la disposizione esclude la
mera comunicazione di inizio attività in tutte le ipotesi in
cui sussista qualsivoglia vincolo previsto dal d.lgs. n.
42/2004 ma è altresì vero che essa ha ad oggetto gli
impianti solari termici, mentre, dai documenti in atti,
risulta essere stata chiesta l’autorizzazione per
l’installazione di un impianto fotovoltaico.
Sul punto non può quindi che condividersi la difesa di parte
ricorrente, là dove afferma che la normativa invocata non è
pertinente al caso di specie.
Con riferimento ai pannelli fotovoltaici, invece, l’art. 11
del d.lgs. n. 115/2008, nella versione vigente dal
06.05.2010 al 18.07.2014 (coeva e applicabile al
procedimento qui sub iudice) recitava: “….Fatto
salvo quanto previsto dall'articolo 26, comma 1, secondo
periodo, della legge 09.01.1991, n. 10, in materia di
assimilazione alla manutenzione straordinaria degli
interventi di utilizzo delle fonti rinnovabili di energia,
di conservazione, risparmio e uso razionale dell'energia in
edifici ed impianti industriali, gli interventi di
incremento dell'efficienza energetica che prevedano
l'installazione di singoli generatori eolici con altezza
complessiva non superiore a 1,5 metri e diametro non
superiore a 1 metro, nonché di impianti solari termici o
fotovoltaici aderenti o integrati nei tetti degli edifici
con la stessa inclinazione e lo stesso orientamento della
falda e i cui componenti non modificano la sagoma degli
edifici stessi, sono considerati interventi di manutenzione
ordinaria e non sono soggetti alla disciplina della denuncia
di inizio attività di cui agli articoli 22 e 23 del testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia edilizia, di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380, e successive modificazioni,
qualora la superficie dell'impianto non sia superiore a
quella del tetto stesso. In tale caso, fatti salvi i casi di
cui all'articolo 3, comma 3, lettera a), del decreto
legislativo 19.08.2005, n. 192, e successive modificazioni,
è sufficiente una comunicazione preventiva al Comune.”
In pratica per gli impianti fotovoltaici con le
caratteristiche prospettate in ricorso (integrati nei tetti,
con stessa inclinazione, stesso orientamento e senza
modifica della sagoma) risulta sufficiente la comunicazione
preventiva, fatto salvo l’art. 3, co. 3, lett. a), del
d.lgs. n. 192/2005.
Quest’ultimo a sua volta individua una eccezione e dispone
un rinvio nei seguenti termini: “a) gli edifici ricadenti
nell'ambito della disciplina della parte seconda e
dell'articolo 136, comma 1, lettere b) e c), del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42, recante il codice dei beni
culturali e del paesaggio, fatto salvo quanto disposto al
comma 3-bis”.
A sua volta l’art. 3 del d.lgs. n. 192/2005 contiene un
comma 3-bis (richiamato dalla sovra riportata disposizione)
e un comma 3-bis.1, entrambe introdotti con il d.l.
04.06.2013 n. 63 (pubblicato in G.U. il 5 giugno, ed entrato
in vigore il giorno successivo, dunque teoricamente
applicabile
ratione
temporis con
riferimento alla comunicazione dei ricorrenti presentata in
data 26.07.2013).
Il comma 3-bis prevede: “3-bis. Per gli edifici di cui al
comma 3, lettera a), il presente decreto si applica
limitatamente alle disposizioni concernenti:
a) l'attestazione della prestazione energetica degli
edifici, di cui all'articolo 6;
b) l'esercizio, la manutenzione e le ispezioni degli
impianti tecnici, di cui all'articolo 7”.
Parrebbe dunque che il d.lgs. n. 115/2008 escluda dalla
procedura semplificata gli immobili contemplati dal
richiamato comma del d.lgs. 192/2005; sennonché detto stesso
comma, con un richiamo a un comma successivo del medesimo
articolo, limita ulteriormente la propria applicazione con
riferimento ad aspetti (attestazione energetica degli
edifici e esercizio e manutenzione di impianti) che nulla
hanno a che vedere con l’installazione degli impianti in sé.
Ancora il successivo comma 3 bis.1 dell’art. 3 del d.lgs. n.
192/2005, con espresso riferimento alla problematica dei
vincoli, recita: “Gli edifici di cui al comma 3, lettera
a), sono esclusi dall'applicazione del presente decreto ai
sensi del comma 3-bis, solo nel caso in cui, previo giudizio
dell'autorità competente al rilascio dell'autorizzazione ai
sensi del codice di cui al decreto legislativo 22.01.2004,
n. 42, il rispetto delle prescrizioni implichi
un'alterazione sostanziale del loro carattere o aspetto, con
particolare riferimento ai profili storici, artistici e
paesaggistici”.
Non può tuttavia non osservarsi, posto che il comma 3-bis
viene invocato dall’amministrazione nella propria relazione
ai fini della ricostruzione della disciplina del titolo
edilizio, che i commi 3-bis e 3-bis.1 dell’art. 3 del d.lgs.
n. 192/2005 nulla hanno a che vedere con problematiche
inerenti i titoli edilizi; essi si comprendono se si tiene
mente al fatto che il d.lgs. n. 192/2005 (inopinatamente
richiamato dal legislatore per identificare dei vincoli
fatti salvi i quali, per contro, trovano sede in tutt’altro
testo normativo, il d.lgs. n. 42/2004) ha in linea di
principio oggetto del tutto difforme, ossia l’attuazione
delle direttive comunitarie che impongono allo Stato
italiano di adeguare, per quanto possibile, il patrimonio
edilizio (nuovo ed esistente) alle caratteristiche di
prestazione energetica degli edifici imposte in sede
comunitaria. In questo contesto l’art. 3 del d.lgs. n.
192/2005 è finalizzato a scandire una gradualità
(particolarmente per gli edifici preesistenti)
nell’adeguamento degli edifici alle nuove tecnologie e
nell’imposizione delle nuove caratteristiche di prestazione
energetica dell’edilizia; tale gradualità sarà,
evidentemente, tanto più giustificata quanto più gli
immobili preesistenti presentano caratteristiche di pregio
ambientale e culturale, che possono fisiologicamente entrare
in conflitto con l’adeguamento energetico tramite nuove
tecnologie.
Il richiamo, dunque, ai vincoli previsti dal d.lgs. n.
42/2004 nel contesto dell’art. 3, co. 3-bis e 3-bis.1, del
d.lgs. n. 192/2005 va letto in questa prospettiva,
evidentemente del tutto avulsa da quella inerente la
semplificazione dei titoli edilizi necessari per
l’implementazione degli impianti fotovoltaici; esso tenta di
contemperare gli obblighi di rendere gli edifici esistenti
coerenti con le moderne caratteristiche di prestazione
energetica e le ragioni storico-artistico-ambientali, le
quali ultime possono invece indurre alla conservazione del
pregresso nello stato originale.
Date queste premesse ritiene il collegio che il rinvio al co.
3 del d.lgs. n. 192/2005 non possa che essere inteso come
limitato ad individuare le due ipotesi di beni tutelati, ivi
citate e previste in verità dal d.lgs. n. 42/2004, per le
quali persiste l’obbligo, nel contesto della procedura
semplificata per l’ottenimento del titolo edilizio, di
acquisire i pareri in questione; ciò senza ulteriore
possibilità di leggere la disposizione integrandola con i
commi 3-bis e 3-bis.1 dell’art. 3 del d.lgs. n. 192/2005,
proprio per l’eterogeneità delle disposizioni e dei
rispettivi finalità e contenuti.
La sequenza dei rinvii a cascata, che rende pressoché
imperscrutabile la voluntas legis, deve infatti
ragionevolmente arrestarsi là dove implicherebbe il richiamo
a problematiche del tutto avulse;sembra dunque potersi
concludere che: a) innanzitutto vi è l’intento di
semplificare la procedura inerente l’installazione di
pannelli fotovoltaici con caratteristiche quali quelle per
cui è causa (aderenti alla tetto, con stessa sagoma ed
orientamento); b) restano fatti salvi i vincoli dettati dal
d.lgs. 42/2004, nelle sole ipotesi di cui alla lett. b) e c)
dell’art. 136.
Non è invece condivisibile la difesa erariale, secondo cui i
vincoli paesaggistici sarebbero fatti salvi in ogni caso ed
ipotesi; a tal fine infatti da un lato non è pertinente,
come visto, il d.lgs. 28/2011, dall’altro non appare utile
la disposizione generale dettata dall’art. 6, co. 3, del
d.p.r. n. 380/2001 (sempre invocata dalla difesa erariale e
dell’amministrazione).
Quest’ultima, nell’inserire in termini generali la
realizzazione di pannelli solari fotovoltaici nell’ambito
dell’edilizia libera, fa salve una serie di disposizioni di
settore tra cui, certamente, il d.lgs. n. 42/2004. Tale
norma tuttavia pacificamente convive con l’ancor vigente
(modificata da ultimo con la legge n. 116/2014) e già citato
art. 11 del d.lgs. n. 115/2008, che ha evidentemente un
oggetto più circoscritto (i pannelli integrati nei tetti,
con stessa inclinazione, stesso orientamento e che non ne
modificano la sagoma), e come tale speciale, dunque
ragionevolmente assoggettato a disciplina ulteriormente
semplificata.
Per le ragioni già esposte, anche in quest’ultimo contesto,
sono fatti salvi i vincoli di cui all’art. 136 lett. b) e c)
del d.lgs. n. 42/2004 che contemplano: “b) le ville, i
giardini e i parchi, non tutelati dalle disposizioni della
Parte seconda del presente codice, che si distinguono per la
loro non comune bellezza;
c) i complessi di cose immobili che compongono un
caratteristico aspetto avente valore estetico e
tradizionale, inclusi i centri ed i nuclei storici.”
Pertanto in queste uniche due ipotesi occorre comunque
l’autorizzazione paesaggistica.
Nel caso di specie si evince dalla documentazione in atti
che l’immobile in questione ricade in area tutelata ai sensi
dell’art. 142, lett. c), del d.lgs. n. 42/2004; pertanto non
ricorre una delle due ipotesi [136 lett. c) e d)] per le
quali sole è fatta salva la necessità dell’autorizzazione
paesaggistica.
Il ricorso deve dunque trovare accoglimento con annullamento
del provvedimento impugnato (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 10.12.2014 n. 1946
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Appalti pubblici, cauzione sotto scacco.
Il consiglio di stato sulle conseguenze derivanti dalla
mancanza dei requisiti.
Qualsiasi concorrente che rende false dichiarazioni o non
rispetti i requisiti di ordine generale previsti per
partecipare ad un appalto pubblico, oltre ad essere escluso
dalla gara, può perdere la cauzione provvisoria pari al 2%
del valore dell'appalto. E', quindi, legittimo il bando che
prevede l'escussione della garanzia a corredo dell'offerta,
oltre che per i concorrenti sorteggiati ai sensi dell'art.
48 del Codice dei contratti pubblici, anche per gli altri
concorrenti e per la semplice inosservanza dei requisiti di
ordine generale (ad esempio la regolarità contributiva).
E' quanto afferma l'adunanza plenaria del Consiglio di Stato,
con la
sentenza 10.12.2014 n. 34, che è intervenuta per risolvere
un contrasto giurisprudenziale.
La pronuncia doveva in
particolare esprimersi sulla legittimità di estendere la
misura prevista dall'art. 48 (esclusione dalla gara e
contemporanea escussione della cauzione provvisoria) con
riferimento alla mancata comprova del possesso dei requisiti
di capacità economico finanziaria e tecnico-organizzativa
(c.d. requisiti di ordine speciale) da parte dei soggetti
sorteggiati nella fase precedente l'apertura delle buste,
anche ad impresa che abbia reso una dichiarazione ex art. 38
del Codice dei contratti pubblici non veridica relativa ai
requisiti di ordine generale. Non soltanto: si poneva anche
il problema di ritenere applicabile l'esclusione dalla gara
unitamente all'escussione della garanzia (di norma prevista
a fine gara per il vincitore e per il secondo classificato
che non abbiano comprovato i requisiti) anche agli altri
concorrenti.
Nella gara oggetto di esame da parte
dell'Adunanza plenaria la stazione appaltante aveva previsto
entrambe le misure per una impresa non aggiudicataria, né
sorteggiata e per una falsa dichiarazione relativa al Durc
(e quindi per la mancata comprova di un requisito di ordine
generale e non di un requisito di ordine speciale).
L'Adunanza plenaria legittima il comportamento della
stazione appaltante e, quindi, sposa la tesi meno
restrittiva della giurisprudenza amministrativa che aveva
inteso privilegiare «l'altra funzione della cauzione,
intesa come garanzia del rispetto dell'ampio patto
d'integrità cui si vincola chi partecipa a gare pubbliche»
e quindi applicare l'escussione a fronte di dichiarazioni
non veritiere rese a norma dell'art. 38. I giudici
sostengono infatti che la cauzione provvisoria «costituisce
parte integrante dell'offerta e non mero elemento di corredo
della stessa» e che con essa si vuole perseguire la finalità
«di responsabilizzare i partecipanti in ordine alle
dichiarazioni rese, di garantire la serietà e l'affidabilità
dell'offerta, nonché di escludere da subito i soggetti privi
delle richieste qualità volute dal bando». In sostanza
quindi l'escussione rappresenta una misura sanzionatoria a
fronte della violazione dell'obbligo di diligenza gravante
sull'offerente.
Risulta pertanto legittimo prevedere negli atti di gara la
comminatoria dell'escussione della cauzione a seguito della
esclusione dalla gara di qualsivoglia concorrente per il
quale non fosse stato confermato il possesso dei requisiti
generali
(articolo
ItaliaOggi del 12.12.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: E’
legittima la clausola, contenuta in atti di indizione di
procedure di affidamento di appalti pubblici, che preveda
l’escussione della cauzione provvisoria anche nei confronti
di imprese non risultate aggiudicatarie, ma solo
concorrenti, in caso di riscontrata assenza del possesso dei
requisiti di carattere generale di cui all’art. 38 del
codice dei contratti pubblici.
1. Il deferimento all’Adunanza Plenaria risulta giustificato
dalla esistenza di contrasti giurisprudenziali evidenziati
dalla sentenza non definitiva di rimessione, in ordine alla
legittimità della clausola contenuta nell’atto di indizione,
che consenta l’incameramento della cauzione provvisoria nei
confronti dei concorrenti anche in caso non corrispondenza
al vero di dichiarazioni riguardanti i requisiti generali di
cui all’art. 38 del codice dei contratti pubblici.
Nel processo amministrativo le ipotesi di deferimento della
causa all’Adunanza Plenaria sono due: quella facoltativa di
cui all’art. 99, comma 1 c.p.a., che ricorre quando la
sezione riscontri un contrasto di giurisprudenza reale o
potenziale e non intende seguire l’indirizzo consolidato;
quella obbligatoria di cui all’art. 99, comma 3, c.p.a.,
quando la sezione intende rimettere in discussione un
principio di diritto già enunciato dall’Adunanza Plenaria
(così, Cons. Stato, V, 31.10.2013, n. 5246).
Nella specie, si tratta di ipotesi del primo tipo.
Tale contrasto emerge dalle opposte conclusioni alle quali
sono pervenute rispettivamente: nel senso della legittimità
dell’operato dell’amministrazione appaltante, Consiglio di
Stato sezione quinta n. 2232 del 18.04.2012, ma anche, ex plurimis, Consiglio di Stato, VI,
04.08.2009, n. 4905,
sezione V, 12.02.2007, n. 554, sezione IV, 07.09.2004, n. 5792; nel senso della illegittimità, Consiglio di
Stato, sezione quinta, n. 80 dell’11.01.2012 e prima
ancora, sezione sesta, 28.08.2006, n. 5009, anche se
relativamente al regime precedente al Codice dei contratti
pubblici.
In tale ultimo senso, al fine di evitare il protrarsi di
contrasti giurisprudenziali ai sensi del primo comma
dell’art. 99 del c.p.a., milita l’osservazione che estesa
parte della giurisprudenza di primo grado si esprima per la
tesi più restrittiva.
Questa Adunanza Plenaria non può fare a meno di osservare
che, certamente in senso diverso rispetto alla tesi più
restrittiva, si era già espressa questa stessa Adunanza
Plenaria (sentenza n. 8 del 04.05.2012) affermando, sia
pure in un contesto più ampio, dedicato in modo centrale
alla questione della gravità delle irregolarità
contributive, che la possibilità di incamerare la cauzione
provvisoria(che discende direttamente dall’art. 75 codice
contratti pubblici) riguarda tutte le ipotesi di mancata
sottoscrizione del contratto per fatto dell’affidatario,
intendendosi per fatto dell’affidatario qualunque ostacolo
alla stipulazione a lui riconducibile; dunque non solo il
rifiuto di stipulare o il difetto di requisiti speciali, ma
anche il difetto di requisiti generali di cui all’art. 38
codice citato.
La affermazione della sentenza n. 8 del 2012 di questa
Adunanza Plenaria, nel senso sopra riportato, costituisce
oramai un dato acquisito della giurisprudenza di secondo
grado (da ultimo, sentenza n. 5283 del 27.10.2014 della
quinta sezione del Consiglio di Stato).
2. In considerazione della pronuncia resa dalla sentenza non
definitiva, la presente controversia parte dal dato del
passaggio in giudicato (oggetto della sentenza parziale di
appello resa dal C.G.A.R.S.) in relazione al primo motivo di
appello del Comune di Erice, sulla sufficienza del ricorso,
ai fini della impugnativa, da parte della ricorrente di
primo grado, nei confronti del disciplinare di gara, che
contiene la clausola relativa all’incameramento della
cauzione provvisoria; la sentenza parziale aggiungeva di
ritenere assenti interferenze tra l’archiviazione
pronunciata dall’AVCP e la controversia in esame.
3. La questione da esaminare attiene, quindi, a quanto posto
dal quesito finale, integrato con quanto la sentenza non
definitiva di rimessione individua quale contrasto di
giurisprudenza e cioè: <<La valutazione della legittimità di
atti di indizione di procedure di affidamento di appalti
pubblici che contengano clausole recanti la comminatoria di
escussione della cauzione provvisoria anche nei confronti di
imprese non aggiudicatarie, ma solo partecipanti, per le
quali sia stata accertata la carenza del possesso di
requisiti di carattere generale di cui all’art. 38 del
codice dei contratti pubblici>>.
Una volta che la sentenza non definitiva di rimessione si è
pronunciata –respingendo il primo motivo di appello- sulla
ammissibilità della impugnativa proposta avverso il
disciplinare di gara, contenente la comminatoria
dell’incameramento della cauzione provvisoria, compito di
questo Organo giudicante è di pronunciarsi in ordine alla
legittimità, nel suo contenuto, del disciplinare di gara e
della più volte menzionata clausola.
Ad opinione di questa Adunanza Plenaria, la risposta al
quesito deve essere di tipo positivo, sulla base delle
seguenti argomentazioni, che riprendono le affermazioni già
contenute nella sentenza n. 8 del 2012 dell’Ad. Pl. su
citata (e anche Adunanza Plenaria n. 8 del 04.10.2005,
che afferma il possibile incameramento della cauzione
provvisoria per gli inadempimenti contrattuali di tutti i
concorrenti).
La cauzione provvisoria assolve la funzione di garanzia del
mantenimento dell’offerta in un duplice senso, giacché, per
un verso, essa presidia la serietà dell’offerta e il
mantenimento di questa da parte di tutti partecipanti alla
gara fino al momento dell’aggiudicazione; per altro verso,
essa garantisce la stipula del contratto da parte della
offerente che risulti, all’esito della procedura,
aggiudicataria.
In questo senso, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato,
nella decisione n. 8 del 2005, ha affermato che la cauzione
provvisoria, oltre ad indennizzare la stazione appaltante
dall'eventuale mancata sottoscrizione del contratto da parte
dell'aggiudicatario (funzione indennitaria), svolge (può
svolgere) altresì una funzione sanzionatoria verso altri
possibili inadempimenti contrattuali dei concorrenti.
Per quanto concerne le norme di riferimento vanno richiamati
gli artt. 48, comma 1, e 75, commi 1 e 6, del D.Lgs. n.
163/2006 i quali, rispettivamente, dispongono per quanto
d’interesse, quanto segue.
L’art. 48 prevede che “Le stazioni appaltanti prima di
procedere all'apertura delle buste delle offerte presentate,
richiedono ad un numero di offerenti non inferiore al 10 per
cento delle offerte presentate, arrotondato all'unità
superiore, scelti con sorteggio pubblico, di comprovare,
entro dieci giorni dalla data della richiesta medesima, il
possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa, eventualmente richiesti nel bando di
gara, presentando la documentazione indicata in detto bando
o nella lettera di invito. … Quando tale prova non sia
fornita, ovvero non confermi le dichiarazioni contenute
nella domanda di partecipazione o nell'offerta, le stazioni
appaltanti procedono all'esclusione del concorrente dalla
gara, all'escussione della relativa cauzione provvisoria e
alla segnalazione del fatto all'Autorità per i provvedimenti
di cui all'articolo 6, comma 11.” .
L’art. 75 al comma 1 prevede che “L'offerta è corredata da
una garanzia, pari al due per cento del prezzo base indicato
nel bando o nell'invito, sotto forma di cauzione o di
fideiussione, a scelta dell'offerente. …”; al comma 6
prevede che: ”La garanzia copre la mancata sottoscrizione
del contratto per fatto dell'affidatario, ed è svincolata
automaticamente al momento della sottoscrizione del
contratto medesimo.”.
La prima disposizione si riferisce all’ipotesi di un
controllo a campione che abbia sortito un esito negativo
circa il possesso dei requisiti di capacità
economico-finanziaria e tecnico-organizzativa (ossia dei
c.d. “requisiti speciali”) dichiarati dal concorrente
all’atto dell’offerta.
La seconda previsione concerne invece il caso del contratto
che non venga sottoscritto per fatto dell’aggiudicatario.
Riprendendo nuovamente la prima disposizione di legge
(perché riprodotta nella sostanza della regola dal
disciplinare di gara) secondo il tenore testuale dell’art.
48, co. 1, secondo periodo, qualora l’impresa concorrente,
in sede di controllo a campione <<…non confermi le
dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o
nell’offerta, le stazioni appaltanti procedono
all’esclusione del concorrente dalla gara, all’escussione
della relativa cauzione provvisoria e alla segnalazione del
fatto all’Autorità…>>.
Il disciplinare di gara, come ha chiarito la sentenza non
definitiva di rimessione, a differenza di quanto ritenuto
dal giudice di primo grado, prevedeva in modo chiaro ed
espresso, che l’escussione della cauzione dovesse fare
seguito alla esclusione dalla gara dei concorrenti per i
quali non fosse stato confermato il possesso dei requisiti
generali.
Il disciplinare disponeva che “a) all’esclusione dalla gara
dei concorrenti per i quali non risulti confermato il
possesso dei requisiti generali….; c) alla comunicazione di
quanto avvenuto agli uffici della Amministrazione appaltante
cui spetta di provvedere all’escussione della cauzione
provvisoria”.
Emerge evidente che, nella fattispecie, dalla disciplina di
gara, tratta dal combinato disposto della norma primaria e
della sua integrazione a mezzo del disciplinare,
l’escussione della cauzione non presupponga in via esclusiva
il fatto dell’aggiudicatario né si limita alle dichiarazioni
sui requisiti speciali; essa, al contrario, trova spazio
applicativo anche quando (come verificatosi nel caso di
specie), per il concorrente (pur se non aggiudicatario),
risulti non corrispondente al vero quanto dichiarato in
occasione della rappresentazione di requisiti generali (in
tal senso, i principi già affermati da Ad. Plen. su citata
n. 8 del 04.05.2012).
Le conclusioni alle quali si perviene risultano inoltre
giustificate, se non imposte, sia dalla funzione della
cauzione provvisoria e dalla previsione del suo
incameramento, che dalla sua natura giuridica.
Secondo i principi elaborati dalla giurisprudenza e
dall’Autorità di settore (cfr. Corte cost., 13.07.2011,
n. 211/ord.; Cons. St., sez. V, 24.11.2011, n. 6239;
sez. V, 09.11.2010, n. 7963; sez. V, 05.08.2011, n.
4712; sez. V, 12.06.2009, n. 3746; sez. V, 08.09.2008, n. 4267; sez. V,
09.12.2002, n. 6768; Autorità
per la vigilanza sui contratti pubblici, determinazione n. 1
del 2010) strutturalmente la cauzione costituisce parte
integrante dell'offerta e non mero elemento di corredo della
stessa (che la stazione possa liberamente richiedere e
quantificare).
L’escussione della cauzione provvisoria si profila come
garanzia del rispetto dell’ampio patto di integrità cui si
vincola chi partecipa ad una gara pubblica.
La sua finalità è quella di responsabilizzare i partecipanti
in ordine alle dichiarazioni rese, di garantire la serietà e
l’affidabilità dell’offerta, nonché di escludere da subito i
soggetti privi delle richieste qualità volute dal bando.
La presenza di dichiarazioni non corrispondenti al vero
altera di per sé la gara quantomeno per un aggravio di
lavoro della stazione appaltante, chiamata a vagliare anche
concorrenti inidonei o offerte prive di tutte le qualità
promesse, con le relative questioni successivamente
innescabili (come verificatosi nel caso di specie, con
esigenze di ricalcolo e nuovo aggiudicatario).
L’escussione costituisce conseguenza della violazione
dell’obbligo di diligenza gravante sull’offerente, tenuto
conto che gli operatori economici, con la domanda di
partecipazione, sottoscrivono e si impegnano ad osservare le
regole della relativa procedura delle quali hanno piena
contezza.
Si tratta di una misura autonoma ed ulteriore (rispetto alla
esclusione dalla gara ed alla segnalazione all’Autorità di
vigilanza), che costituisce, mediante l’anticipata
liquidazione dei danni subiti dall’amministrazione, un
distinto rapporto giuridico fra quest’ultima e
l’imprenditore (tanto che si ammette l’impugnabilità della
sola escussione se ritenuta realmente ed esclusivamente
lesiva dell’interesse dell’impresa).
Sotto il profilo della natura giuridica, si ritiene (tra
varie, Cons. Stato, VI, 03.03.2004, n. 1058 e Cons. Stato,
V, 15.04.2013, n. 2016) che ferma restando la generale
distinzione fra l’istituto della clausola penale (1383 c.c.)
avente funzione di liquidazione anticipata del danno da
inadempimento e della caparra confirmatoria (art. 1385 c.c.)
avente la funzione di dimostrare la serietà dell’intento di
stipulare il contratto sin dal momento delle trattative o
del perfezionamento dello stesso, l’istituto della cauzione
provvisoria debba ricondursi alla caparra confirmatoria, sia
perché è finalizzata a confermare la serietà di un impegno
da assumere in futuro, sia perché tale qualificazione
risulta la più coerente con l’esigenza, rilevante
contabilmente, di non vulnerare l’amministrazione
costringendola a pretendere il maggior danno (per altra
giurisprudenza, si veda in tal senso, Cons. Stato, V, 11.12.2007, n. 6362, la cauzione provvisoria svolge la
funzione della clausola penale, diretta a predeterminare la
liquidazione forfettaria del danno, tanto che non viene
prevista la possibilità del danno eventualmente non coperto
dalla cauzione incamerata).
In definitiva e in sostanza, si tratta di una misura di
indole patrimoniale, priva di carattere sanzionatorio
amministrativo nel senso proprio, che costituisce
l’automatica conseguenza della violazione di regole e doveri
contrattuali espressamente accettati.
Per replicare alle obiezioni sollevate dalla tesi più
restrittiva, si ritiene di osservare che l’invocato
principio di legalità riguarda le sanzioni in senso proprio
e non già le misure di indole patrimoniale liberamente
contenute negli atti di indizione, accettate dai
concorrenti, non irragionevoli né illogiche, rispondenti
all’autonomia patrimoniale delle parti, non contrarie a
norme imperative e anzi agganciate alla ratio rinvenibile
nelle disposizioni del codice.
Il principio di tassatività è, allo stesso modo, male
invocato, essendo lo stesso riferibile alle sole cause di
esclusione dalla gara (nel senso della legittimità della
previsione di adempimenti a pena di esclusione, ma purché
conformi ai casi tassativi indicati dall’articolo 46 del
codice dei contratti pubblici, Consiglio di Stato, ad. plen.
25.02.2014, n. 9) e non già ad altre misure di tipo
patrimoniale contenute in clausole degli atti di indizione e
riferibili a doveri di correttezza contrattuale.
Si aggiunga che –oltre ad una lettura evolutiva dell’art.
75 nel senso sopra riportato di far riferimento anche ai
concorrenti e non solo all’aggiudicatario e non solo ai
requisiti speciali di cui all’art. 48 ma anche ai requisiti
generali di cui all’art. 38– porta e concludere nel senso
sostenuto anche la previsione contenuta nell’art. 49, che,
sia pure nell’ambito della disciplina dell’avvalimento, ma
con valenza sistematica (ai sensi degli articoli 1362 e
seguenti codice civile) dal punto di vista interpretativo,
al comma 3 prevede che “nel caso di dichiarazioni mendaci,
ferma restando l’applicazione dell’articolo 38, lettera h
nei confronti dei sottoscrittori, la stazione appaltante
esclude il concorrente (non già il solo aggiudicatario) e
escute la garanzia”.
Per completezza, si deve rilevare che il recente
inserimento, all’articolo 38, del comma 2-bis, (inserito
dall’art. 39, comma 1, del D.L. 24.06.2014, n. 90,
convertito, con modificazioni, dalla Legge 11.08.2014,
n. 114) prevede che la mancanza, incompletezza e ogni altra
irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni
sostitutive di cui al comma 2 obbliga il concorrente che vi
ha dato causa al pagamento, in favore della stazione
appaltante, della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di
gara, in misura non inferiore all’uno per mille e non
superiore all’uno per cento del valore della gara e comunque
non superiore a 50.000 euro, il cui versamento è garantito
dalla cauzione provvisoria (assegnando termine per
regolarizzare e prevedendo altresì che le irregolarità non
essenziali non rilevino). In caso di inutile decorso del
termine il concorrente è escluso dalla gara.
Il legislatore, inoltre, proprio al fine di evitare gli
inconvenienti determinati da “mancanze, falsità o
incompletezze delle dichiarazioni”, prevede, in modo
innovativo, che ogni variazione che intervenga, anche in
conseguenza di una pronuncia giurisdizionale,
successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o
esclusione delle offerte, non debba rilevare ai fini del
calcolo di medie nella procedura, né per la individuazione
della soglia di anomalia delle offerte.
Al di là della irrilevanza ratione temporis, in virtù della
disposizione intertemporale del comma 3 del su menzionato
art. 39 (per il quale le nuove disposizioni si applicano
solo alle procedure di affidamento indette successivamente
al 24.06.2014), ciò che rileva per l’interprete, ove mai
ve ne fosse bisogno, è la conferma della legittimità (della
previsione nei bandi della “sanzione”) dell’incameramento
della cauzione provvisoria in caso di mancanze relative ai
requisiti generali di cui all’art. 38, riferibili a tutti i
concorrenti e non al solo aggiudicatario.
4. Ai sensi dell’art. 99, comma 4 c.p.a., l’Adunanza Plenaria
del Consiglio di Stato, investita di una questione oggetto
di contrasto giurisprudenziale, in omaggio al principio di
economia processuale e per esigenze di celerità, di regola
decide la controversia anche nel merito, salva la presenza
di ulteriori esigenze istruttorie, nel caso di specie
insussistenti (così Consiglio di Stato, ad. plen., 13.06.2012, n.22).
Ritenendo pertanto di decidere nel merito per intero la
controversia sottoposta all’esame, sulla base delle sopra
esposte considerazioni, va accolto ai sensi di cui in
motivazione il ricorso in appello proposto dal Comune di
Erice e, in riforma dell’appellata sentenza, va respinto il
ricorso originario, con la enunciazione dei seguenti
principi di diritto: <<E’ legittima la clausola,
contenuta in atti di indizione di procedure di affidamento
di appalti pubblici, che preveda l’escussione della cauzione
provvisoria anche nei confronti di imprese non risultate
aggiudicatarie, ma solo concorrenti, in caso di riscontrata
assenza del possesso dei requisiti di carattere generale di
cui all’art. 38 del codice dei contratti pubblici>>
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 10.12.2014 n. 34 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Presupposti fondamentali per il legittimo
esercizio da parte dell'Amministrazione del potere di
autotutela, indicati dall'art. 21-nonies, l. 07.08.1990 n.
241, sono l'illegittimità iniziale del provvedimento
annullando; l'interesse pubblico attuale e concreto alla sua
rimozione; l'adozione dell'annullamento d'ufficio entro un
ragionevole lasso di tempo; la valutazione comparativa degli
interessi dei destinatari del provvedimento di secondo
grado; l'insussistenza di un affidamento legittimo che osti
al dispiegarsi del potere di autotutela.
Nel caso di specie, l’ente comunale a distanza di circa tre
anni dal rilascio delle autorizzazioni ha disposto
l’annullamento delle stesse, senza verificare l’affidamento
maturato dalla società ricorrente e senza valutare che
l’autorizzazione era ormai in scadenza e, quindi, aveva
prodotto gli effetti che il comune voleva neutralizzare
(alterazione della concorrenza).
Ne deriva, quindi, che il provvedimento impugnato è, in ogni
caso, illegittimo perché adottato in violazione dell’art.
21-nonies L. 241/1990
Orbene, tanto premesso in punto di fatto, il
ricorso è fondato nei limiti di seguito specificati.
Presupposti fondamentali per il legittimo esercizio da parte
dell'Amministrazione del potere di autotutela, indicati
dall'art. 21-nonies, l. 07.08.1990 n. 241, sono
l'illegittimità iniziale del provvedimento annullando;
l'interesse pubblico attuale e concreto alla sua rimozione;
l'adozione dell'annullamento d'ufficio entro un ragionevole
lasso di tempo; la valutazione comparativa degli interessi
dei destinatari del provvedimento di secondo grado;
l'insussistenza di un affidamento legittimo che osti al
dispiegarsi del potere di autotutela (cfr., ex plurimis,
Consiglio di Stato, sez. V
02/10/2014, n. 4902).
Nel caso di specie, l’ente comunale a distanza di circa tre
anni dal rilascio delle autorizzazioni ha disposto
l’annullamento delle stesse, senza verificare l’affidamento
maturato dalla società ricorrente e senza valutare che
l’autorizzazione era ormai in scadenza e, quindi, aveva
prodotto gli effetti che il comune voleva neutralizzare
(alterazione della concorrenza).
Ne deriva, quindi, che il provvedimento impugnato è, in ogni
caso, illegittimo perché adottato in violazione dell’art. 21-nonies
L. 241/1990
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 09.12.2014 n. 2089 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La comunicazione dei motivi ostativi al rilascio
del provvedimento ha lo scopo di far conoscere alle
Pubbliche amministrazioni, in contraddittorio rispetto alle
motivazioni da esse assunte in base agli esiti
dell'istruttoria espletata, ragioni fattuali e giuridiche
dell'interessato che potrebbero contribuire a far assumere
agli organi competenti una diversa determinazione finale,
derivante, appunto, dalla ponderazione di tutti gli
interessi in campo e determinando una possibile riduzione
del contenzioso fra le parti.
Anche in fase istruttoria del procedimento amministrativo,
una volta che la parte privata abbia dettagliatamente e
documentalmente cercato di provare le proprie ragioni, sta
alla parte pubblica motivare in ordine alle ragioni ostative
all'accoglimento dell'istanza, confutando le affermazioni
della parte interessata. Ciò è necessario al fine del
rispetto dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, norma che
altrimenti sarebbe del tutto priva di utilità nel nostro
sistema e che rappresenta l'esplicitazione del principio
costituzionale di buon andamento e imparzialità
dell'Amministrazione.
Tali principi naturalmente non impongono alla p.a. la
precisa e puntuale contestazione di tutti i rilievi mossi
dall’istante, ma, comunque, comportano la necessità che la
p.a. risponda anche con una motivazione complessiva alle
perplessità evidenziate in sede di presentazioni di memorie,
in modo tale da dimostrare che, nonostante le osservazioni
del privato, la p.a. non è in grado di mutare il proprio
convincimento.
Ne consegue che è certamente annullabile per violazione
dell’art. 10-bis il provvedimento che, nonostante la
presentazioni di memorie, confermi quanto già evidenziato
nella comunicazione dei motivi ostativi senza dimostrare di
aver esaminato quanto rilevato nelle memorie. Tali casi
normalmente si verificano quando la p.a. rigetta l’istanza
con motivazioni di mero stile, che denotano un’assenza di
effettiva e concreta ponderazione delle memorie presentate
dal privato e che, quindi, svuotano di contenuti l’art.
10-bis L. 241/1990.
E’ fondato il primo, assorbente,
motivo di ricorso, con cui si deduce la violazione dell’art.
10-bis L. 241/1990.
La comunicazione dei motivi ostativi al rilascio del
provvedimento ha lo scopo di far conoscere alle Pubbliche
amministrazioni, in contraddittorio rispetto alle
motivazioni da esse assunte in base agli esiti
dell'istruttoria espletata, ragioni fattuali e giuridiche
dell'interessato che potrebbero contribuire a far assumere
agli organi competenti una diversa determinazione finale,
derivante, appunto, dalla ponderazione di tutti gli
interessi in campo e determinando una possibile riduzione
del contenzioso fra le parti (cfr., Consiglio di Stato, sez.
III, 01/08/2014, n. 4127).
Come, peraltro, avviene in materia processuale, anche in
fase istruttoria del procedimento amministrativo, una volta
che la parte privata abbia dettagliatamente e
documentalmente cercato di provare le proprie ragioni, sta
alla parte pubblica motivare in ordine alle ragioni ostative
all'accoglimento dell'istanza, confutando le affermazioni
della parte interessata. Ciò è necessario al fine del
rispetto dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, norma che
altrimenti sarebbe del tutto priva di utilità nel nostro
sistema e che rappresenta l'esplicitazione del principio
costituzionale di buon andamento e imparzialità
dell'Amministrazione (cfr., TAR Napoli (Campania) sez. IV,
12/06/2014, n. 3249).
Tali principi naturalmente non impongono alla p.a. la
precisa e puntuale contestazione di tutti i rilievi mossi
dall’istante, ma, comunque, comportano la necessità che la
p.a. risponda anche con una motivazione complessiva alle
perplessità evidenziate in sede di presentazioni di memorie,
in modo tale da dimostrare che, nonostante le osservazioni
del privato, la p.a. non è in grado di mutare il proprio
convincimento.
Ne consegue che è certamente annullabile per violazione
dell’art. 10-bis il provvedimento che, nonostante la
presentazioni di memorie, confermi quanto già evidenziato
nella comunicazione dei motivi ostativi senza dimostrare di
aver esaminato quanto rilevato nelle memorie. Tali casi
normalmente si verificano quando la p.a. rigetta l’istanza
con motivazioni di mero stile, che denotano un’assenza di
effettiva e concreta ponderazione delle memorie presentate
dal privato e che, quindi, svuotano di contenuti l’art.
10-bis L. 241/1990 TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 09.12.2014 n. 2085 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La mancanza di
sottoscrizione di un atto amministrativo non è idonea a
metterne in discussione la validità e gli effetti ove, come
nel caso di specie, detta omissione non metta in dubbio la
riferibilità dello stesso all'organo competente.
Non coglie nel segno il primo mezzo, col
quale si deduce la nullità dell’atto impugnato per la
mancanza di sottoscrizione dell’autore dell’atto, ma secondo
costante orientamento giurisprudenziale, dal quale non vi è
motivo di discostarsi, la mancanza di sottoscrizione di un
atto amministrativo non è idonea a metterne in discussione
la validità e gli effetti ove, come nel caso di specie,
detta omissione non metta in dubbio la riferibilità dello
stesso all'organo competente (TAR Napoli, sez. III, 04.05.2012 n. 2039).
Il motivo va quindi disatteso
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 09.12.2014 n. 2078 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'atto di compravendita di un immobile non in regola con la
normativa urbanistica è nullo.
Questa S.C. ha avuto occasione di
recente di affermare, discostandosi dal proprio precedente
orientamento, che la non perfetta formulazione dell'art. 40,
secondo comma, l. 28.02.1985 n. 47, consente tuttavia di
affermare che dalla stesa è desumibile il principio generale
della nullità (di carattere sostanziale) degli atti di
trasferimento di immobili non in regola con la normativa
urbanistica, cui si aggiunge una nullità di carattere
formale per gli atti di trasferimento di immobili non in
regola con la normativa urbanistica o per i quali è in corso
la regolarizzazione, ove tali circostanze non risultino
dagli atti stessi
Con il primo motivo il ricorrente deduce che la sentenza
impugnata sarebbe dovuta entrare nel merito della domanda di
sanatoria, rilevando le inesattezze e false attestazioni
nella stessa contenute (come accertate dalla C.T.U.) e
stabilire che gli abusi realizzati avevano dato vita ad una
autonoma costruzione, assolutamente diversa da quella
progettata con riferimento alla quale era stata rilasciata
la licenza edilizia, per cui detta sanatoria non poteva
conseguire accoglimento da parte del Comune e gli abusi
edilizi perpetrati sull'immobile sarebbero rimasti tali, e
quindi non poteva assolutamente esserle riconosciuta la
possibilità prevista dalla legge 47/1985 di legittimare e
rendere commerciabile l'immobile derivato da quegli abusi.
Il motivo è fondato.
Questa S.C. ha avuto occasione di recente di affermare,
discostandosi dal proprio precedente orientamento, che la
non perfetta formulazione dell'art. 40, secondo comma, l.
28.02.1985 n. 47, consente tuttavia di affermare che dalla
stesa è desumibile il principio generale della nullità (di
carattere sostanziale) degli atti di trasferimento di
immobili non in regola con la normativa urbanistica, cui si
aggiunge una nullità di carattere formale per gli atti di
trasferimento di immobili non in regola con la normativa
urbanistica o per i quali è in corso la regolarizzazione,
ove tali circostanze non risultino dagli atti stessi (sent.
17.10.2013 n. 23591).
La Corte di appello di Roma non si è attenuta a tale
principio (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 05.12.2014 n. 25811 - link a
www.avvocatocassazionista.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L’allevamento di animali
rientra nell’attività agricola ai sensi dell’articolo 2135
del codice civile e l’allevamento delle specie avicole in
particolare, salvo che per dimensioni e tecniche ricada
nell’attività industriale, è considerata agricola per
espressa previsione normativa (cfr. legge 03.05.1971, n. 419
emanata per l’applicazione dei Regolamenti comunitari n.
1619 del 1968 e n. 95 del 1969), quand’anche abbia un valore
preminente rispetto alla terra.
Tanto al fine di rilevare la compatibilità dell’attività di
allevamento di colombi qui in questione con la tipizzazione
della zona in cui è insediata, destinata dal piano
regolatore generale ad attività agricola.
----------------
Quanto alla compatibilità dell’insediamento avicolo con la
disciplina dettata dall’articolo 54 del regolamento comunale
di igiene, va evidenziato che di nessuna utilità è la
delimitazione del centro abitato di cui alla delibera di
giunta municipale n. 126 del 1996, trattandosi di
perimetrazione adottata ai fini del codice della strada.
La norma regolamentare, laddove vieta la presenza di stalle,
pollai e altri depositi di animali da cortile all’interno
dell’abitato del capoluogo e delle frazioni come perimetrati
con delibera consiliare fa riferimento ad un atto di
pianificazione degli allevamenti zootecnici ispirato a
criteri urbanistico–edilizi e igienico-sanitari, che
comportano valutazioni di natura latamente
tecnico–discrezionale, appartenenti come tali alla
competenza dell’organo consiliare.
Tutt’altra natura ha la perimetrazione del centro abitato ai
fini del codice della strada, essendo questa predisposta in
funzione delle esigenze di organizzazione del traffico, per
stabilire i limiti di velocità, la segnaletica e tutto
quanto rileva nell’ambito della circolazione stradale.
La differenza tra le diverse perimetrazioni non ne consente
un utilizzo al di fuori della finalità per cui è stata
adottata ed in particolare ai fini della disciplina
urbanistica nella quale ricade anche l’igiene.
Innanzi tutto va evidenziato che l’allevamento di animali
rientra nell’attività agricola ai sensi dell’articolo 2135
del codice civile e l’allevamento delle specie avicole in
particolare, salvo che per dimensioni e tecniche ricada
nell’attività industriale, è considerata agricola per
espressa previsione normativa (cfr. legge 03.05.1971, n. 419
emanata per l’applicazione dei Regolamenti comunitari n.
1619 del 1968 e n. 95 del 1969), quand’anche abbia un valore
preminente rispetto alla terra.
Tanto al fine di rilevare la compatibilità dell’attività di
allevamento di colombi qui in questione con la tipizzazione
della zona in cui è insediata, destinata dal piano
regolatore generale ad attività agricola.
Fermo tanto, quanto alla compatibilità dell’insediamento
avicolo con la disciplina dettata dall’articolo 54 del
regolamento comunale di igiene, va evidenziato che di
nessuna utilità è la delimitazione del centro abitato di cui
alla delibera di giunta municipale n. 126 del 1996,
trattandosi di perimetrazione adottata ai fini del codice
della strada.
La norma regolamentare, laddove vieta la presenza di stalle,
pollai e altri depositi di animali da cortile all’interno
dell’abitato del capoluogo e delle frazioni come perimetrati
con delibera consiliare fa riferimento ad un atto di
pianificazione degli allevamenti zootecnici ispirato a
criteri urbanistico–edilizi e igienico-sanitari, che
comportano valutazioni di natura latamente
tecnico–discrezionale, appartenenti come tali alla
competenza dell’organo consiliare.
Tutt’altra natura ha la perimetrazione del centro abitato ai
fini del codice della strada, essendo questa predisposta in
funzione delle esigenze di organizzazione del traffico, per
stabilire i limiti di velocità, la segnaletica e tutto
quanto rileva nell’ambito della circolazione stradale.
La differenza tra le diverse perimetrazioni non ne consente
un utilizzo al di fuori della finalità per cui è stata
adottata ed in particolare ai fini della disciplina
urbanistica nella quale ricade anche l’igiene (sulla
distinzione tra la delimitazione del codice della strada e
quella prevista ai fini della disciplina urbanistica, cfr.,
Cons. Stato, IV, 05.04.2005, n. 1560; TAR Campania, Salerno,
20.05.2013, n. 1118; TAR Puglia, Bari, III, 10.05.2013, n.
709).
Peraltro non è irrilevante che l’articolo 54 del regolamento
comunale richieda che la perimetrazione sia adottata con
delibera di consiglio comunale, mentre la delibera n. 126
del 1996 è atto della giunta comunale.
In conclusione, deve ritenersi fondata la censura dedotta da
parte ricorrente di violazione o falsa applicazione
dell’articolo 54 del regolamento comunale di igiene.
Ciò stante, in mancanza della perimetrazione del centro
abitato prevista dalla norma regolamentare, sulla base della
perizia di parte, non contraddetta con mezzi probatori
adeguati, deve ritenersi che la zona interessata dalla
azienda avicola è al di fuori della zona abitata.
Nella relazione, infatti, si dà atto che la zona nell’ultimo
ventennio non ha subito variazioni dovute a nuove
costruzioni e ricade a tutt’oggi in zona agricola B2 del
piano regolatore generale vigente (paesaggio agrario
tipico), nella quale sono consentiti solo interventi di
ristrutturazione e ampliamento dei fabbricati esistenti alla
data di adozione del PRG (03.03.1969).
Tanto risulta visivamente dalle rappresentazioni
fotografiche e planimetriche allegate alla relazione.
Quanto all’ulteriore divieto pure posto dalla norma
regolamentare richiamata, della distanza inferiore a metri
50 dall’abitazione più vicina (ipotesi chiaramente ulteriore
al divieto di allocazione all’interno dell’abitato), la
disposizione non viene più in considerazione, atteso che è
stata rimossa la parte dell’impianto che non rispettava tale
distanza (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.12.2014 n. 5990 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Il certificato di agibilità, a norma dell’art. 24
del T.U. sull’edilizia, unicamente “attesta la sussistenza
delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti”, avendo
oltretutto il Consiglio di Stato efficacemente scolpito la
diversa funzione che rivestono i titoli abilitativi
edilizi e il certificato di agibilità, precisando
al riguardo che la “funzione del certificato di agibilità è
accertare che l'immobile, al quale si riferisce, è stato
realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in
materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti; invece funzione
specifica della d.i.a. (come del permesso di costruire,
n.d.s.) è il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche”.
---------------
Il certificato di agibilità è del tutto inidoneo ad
attestare la specifica destinazione d’uso (commerciale nel
caso di specie).
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia,
del provvedimento n. 3949 dell’11/07/2014, avente ad oggetto
autorizzazione al trasferimento "fuori sede" della
rivendita tabacchi dei ricorrenti.
...
- ritenuto che il trasferimento di una rivendita fuori zona
è subordinato non solo all’accertamento dei requisiti e
condizioni di cui all’art. 10, D.M. n. 38/2013 ma anche
all’osservanza del procedimento all’uopo definito dall’art.
11, commi 2 e ss. stesso decreto, dovendo dunque la perizia
giurata allegata all’istanza, indicare le tre rivendite più
vicine non solo alla sede proposta ma anche a quella
attuale, la cui indicazione difetta nella perizia de qua
prodotta dall’Avvocatura di Stato, come attesta lo stesso
provvedimento gravato e occorrendo altresì allegare alla
domanda “idonea documentazione che attesta la regolarità
urbanistico–edilizia del locale proposto, nonché la relativa
destinazione d’uso commerciale” (art. 11, coma 3, D.M.
n. 38/2013), laddove il certificato di agibilità prodotto
alla P.A. dalla controinteressata, a norma dell’art. 24 del
T.U. sull’edilizia, unicamente “attesta la sussistenza
delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti”, come del
resto la giurisprudenza ha già precisato (TAR
Campania–Napoli, Sez. III, n. 2240/2010; TAR
Lombardia–Milano, Sez. II, 17.09.2009 n. 4672), avendo
oltretutto il Consiglio di Stato efficacemente scolpito la
diversa funzione che rivestono i titoli abilitativi
edilizi e il certificato di agibilità, precisando
al riguardo che la “funzione del certificato di agibilità
è accertare che l'immobile, al quale si riferisce, è stato
realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in
materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti; invece funzione
specifica della d.i.a. (come del permesso di costruire,
n.d.s.) è il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche”
(Consiglio di Stato sez. IV 26.08.2014 n. 4309);
- tenuto anche conto che il certificato di agibilità è del
tutto inidoneo ad attestare la specifica destinazione d’uso
commerciale (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
ordinanza 05.12.2014 n. 2027 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La messa a gara degli spazi pubblici per la
collocazione degli impianti pubblicitari è pienamente
legittima.
E' corretto
allocare l'uso degli spazi pubblici contingentati con gara,
dovendosi altrimenti ricorrere all'unico criterio
alternativo dell'ordine cronologico di presentazione delle
domande accoglibili, che è certo meno idoneo ad assicurare
l'interesse pubblico all'uso più efficiente del suolo
pubblico e quello dei privati al confronto concorrenziale.
Il procedimento di gara non contrasta infatti con la libera
espressione dell'attività imprenditoriale di cui si tratta,
considerato, in linea generale, che la procedura ad evidenza
pubblica è istituto tipico di garanzia della concorrenza
nell'esercizio dell'attività economica privata incidente
sull'uso di risorse pubbliche e che, in particolare, la
concessione tramite gara dell'uso di beni pubblici per
l'esercizio di attività economiche private è istituto
previsto nell'ordinamento, essendo perciò fondata la
qualificazione della gara come strumento per assicurare il
principio costituzionale della libera iniziativa economica
anche nell'accesso al mercato degli spazi per la pubblicità.
Quanto sopra è peraltro coerente con i principi comunitari,
in particolare di non discriminazione, di parità di
trattamento e di trasparenza. Sul presupposto per cui con la
concessione di una'area pubblica si fornisce un'occasione di
guadagno a soggetti operanti sul mercato (come nel caso di
specie), si impone di conseguenza una procedura competitiva
per il rilascio della concessione, necessaria per
l'osservanza dei ricordati principi a presidio e tutela di
quello, fondamentale, della piena concorrenza.
Inoltre, proprio perché le concessioni di beni pubblici di
rilevanza economica (e tra questi vanno comprese anche le
concessioni di cui si controverte) sono idonee a fornire
un'occasione di guadagno a soggetti operanti sul libero
mercato devono applicarsi i principi discendenti dall'art.
81 del Trattato UE e delle Direttive comunitarie in materia
di appalti, quali quelli della loro attribuzione mediante
procedure concorsuali, trasparenti, non discriminatorie,
nonché tali da assicurare la parità di trattamento ai
partecipanti.
Da ciò ne consegue, ulteriormente, che il concessionario di
un bene non vanta alcuna aspettativa al rinnovo del
rapporto, il cui diniego, nei limiti della ragionevolezza e
della logicità dell'agire non necessita di ulteriore
motivazione. In sede di rinnovo di una concessione, il
precedente concessionario va posto sullo stesso piano di un
altro soggetto richiedente (TRGA Trentino-Alto Adige-Bolzano,
sentenza 05.12.2014 n. 278 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI:
Per escludere radicalmente ogni possibilità di
legittimo affidamento "in house" è sufficiente che vi sia,
sebbene in minima percentuale, una partecipazione privata al
capitale sociale.
La giurisprudenza comunitaria è tassativa nel ritenere
impossibile la partecipazione ancorché in percentuale minima
di soggetti privati alle società in house e tale posizione è
stata ripetutamente confermata dal Consiglio di Stato, a
partire dall'Adunanza Plenaria n 1 del 2008.
È pacifico, nell'attuale stato di evoluzione
giurisprudenziale, che il requisito della totalità della
proprietà pubblica del capitale della società "in house"
debba sussistere in termini assoluti. Invero, l'affidamento
diretto (in house) di un servizio pubblico viene
consentito tutte le volte in cui un ente pubblico decida di
affidare la gestione del servizio, al di fuori del sistema
della gara, avvalendosi di una società esterna (ossia,
soggettivamente separata) che presenti caratteristiche tali
da poterla qualificare come una "derivazione" o una "longa
manus" dell'ente stesso.
Infatti, in ragione del cd. controllo analogo, che richiede
non solo la necessaria partecipazione pubblica totalitaria
(posto che la partecipazione, pur minoritaria, di un'impresa
privata al capitale di una società, alla quale partecipi
anche l'Amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso
che tale amministrazione possa esercitare sulla medesima un
controllo analogo a quello che essa svolge sui propri
servizi) e la presenza di strumenti di controllo da parte
dell'ente più incisivi rispetto a quelli previsti dal
diritto civile.
Inoltre non deve essere statutariamente consentito che una
quota del capitale sociale, anche minoritaria, possa essere
alienata a soggetti privati; il consiglio di amministrazione
della società deve essere privo di rilevanti poteri
gestionali; all'ente pubblico controllante deve essere
consentito l'esercizio di poteri maggiori rispetto a quelli
che il diritto societario riconosce normalmente alla
maggioranza sociale; l'impresa non deve acquisire una
vocazione commerciale che renda precario il controllo
dell'ente pubblico, con la conseguente apertura obbligatoria
della società ad altri capitali, fino all'espansione
territoriale dell'attività a tutta l'Italia e all'estero; le
decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio
preventivo dell'ente affidante, e della cd. "destinazione
prevalente dell'attività" (cioè il rapporto di stretta
strumentalità fra le attività dell'impresa e le esigenze
pubbliche che l'ente controllante è chiamato a soddisfare),
l'ente in house non può ritenersi terzo rispetto
all'Amministrazione controllante, ma deve considerarsi come
uno dei servizi propri dell'Amministrazione stessa. Al
contrario, per escludere radicalmente ogni possibilità di
legittimo affidamento "in house" è, infatti,
sufficiente che vi sia, sebbene in minima percentuale, una
partecipazione privata al capitale sociale.
La nuova direttiva comunitaria sulle concessioni 2014/23/UE,
che sul punto ammette in talune ipotesi la partecipazione
indiretta dei privati alle società in house, non
risulta ancora recepita dagli Stati membri, né essa si può
considerare self executing, sia per la sua natura,
che richiede un recepimento e adattamento a livello
nazionale, sia perché non è ancora scaduto il termine per il
recepimento stesso (TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 04.12.2014 n. 629 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ENTI LOCALI: Il
prefetto annulla le multe in autotutela.
Stop alle multe dell'autovelox: il prefetto annulla in
autotutela le sanzioni impugnate dagli automobilisti perché
l'apparecchio si trova su di una strada urbana, per quanto
pericolosa, e la polizia municipale non ha provveduto alla
contestazione immediata. Ma attenzione: l'ufficio del
governo non può pretendere dal comune, che già ha fatto
cassa, i verbali per i quali non è stato proposto ricorso o
risulta pagata l'oblazione; la sanzione inflitta dall'ente
locale, infatti, si è ormai consolidata e non può essere il
prefetto a rimodularla.
È quanto emerge dalla
sentenza
03.12.2014 n. 860, pubblicata dalla
I Sez. del TAR Abruzzo-L'Aquila.
È accolto solo in parte il
ricorso di un comune del Teramano: la statale passa nel
territorio amministrato e il velox è piazzato su di una
strada che deve ritenersi rientrante del centro abitato. Ha
sbagliato, insomma, la polizia locale a elevare i verbali
senza la contestazione immediata richiesta dal codice della
strada.
Ma l'ufficio territoriale del governo ha esagerato,
ordinando al comune di consegnare tutti i verbali delle multe-velox,
compresi quelli per i quali sono scaduti i termini per
impugnare o è stata pagata l'oblazione: invece il pagamento
in misura ridotta determina una vera e propria estinzione
della controversia che non è più recuperabile dal
trasgressore ma anche dalla parte pubblica
(articolo
ItaliaOggi del 18.12.2014). |
URBANISTICA:
Le osservazioni presentate dai privati al piano
regolatore generale adottato dal Comune, non sono rimedi
giuridici, ma semplici apporti collaborativi dati dai
cittadini alla formazione del piano; pertanto, il mancato
accoglimento delle osservazioni non richiede specifica
motivazione, quando siano state esaminate e ritenute in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste a base della formazione del piano.
D’altronde, per giurisprudenza altrettanto pacifica, l'onere
di motivazione gravante sull'Amministrazione in sede di
adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui
le scelte effettuate incidano su zone territorialmente
circoscritte, ledendo legittime aspettative, è di carattere
generale e risulta soddisfatto con l'indicazione dei profili
generali e dei criteri che sorreggono le scelte predette,
senza necessità di una motivazione puntuale e mirata, così
come, nell'ambito del procedimento volto all'adozione dello
strumento urbanistico, non occorre controdedurre
singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e
opposizione; in sostanza le scelte urbanistiche richiedono
una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti
di previsioni interessanti la pianificazione in generale
ovvero un'area determinata, ovvero qualora incidano su aree
specifiche, ledendo legittime aspettative; così come mentre
richiede una motivazione specifica una variante che
interessi aree determinate, per le quali quest'ultimo
prevedeva diversa destinazione, non altrettanto può dirsi
allorché la destinazione di un'area muta per effetto della
adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che
provveda ad una nuova e complessiva definizione del
territorio comunale.
Infondata è anche la
doglianza di cui al IV motivo di ricorso.
Per giurisprudenza consolidata da cui il Collegio non
ravvisa ragioni per discostarsi, le osservazioni presentate
dai privati al piano regolatore generale adottato dal
Comune, non sono rimedi giuridici, ma semplici apporti
collaborativi dati dai cittadini alla formazione del piano;
pertanto, il mancato accoglimento delle osservazioni non
richiede specifica motivazione, quando siano state esaminate
e ritenute in contrasto con gli interessi e le
considerazioni generali poste a base della formazione del
piano (TAR Umbria 21.01.2010, n. 24; TAR Campania
Napoli sez. I, 02.07.2007, n. 6414).
D’altronde, per giurisprudenza altrettanto pacifica, l'onere
di motivazione gravante sull'Amministrazione in sede di
adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui
le scelte effettuate incidano su zone territorialmente
circoscritte, ledendo legittime aspettative, è di carattere
generale e risulta soddisfatto con l'indicazione dei profili
generali e dei criteri che sorreggono le scelte predette,
senza necessità di una motivazione puntuale e mirata, così
come, nell'ambito del procedimento volto all'adozione dello
strumento urbanistico, non occorre controdedurre
singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e
opposizione; in sostanza le scelte urbanistiche richiedono
una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti
di previsioni interessanti la pianificazione in generale
ovvero un'area determinata, ovvero qualora incidano su aree
specifiche, ledendo legittime aspettative; così come mentre
richiede una motivazione specifica una variante che
interessi aree determinate, per le quali quest'ultimo
prevedeva diversa destinazione, non altrettanto può dirsi
allorché la destinazione di un'area muta per effetto della
adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che
provveda ad una nuova e complessiva definizione del
territorio comunale (ex multis di recente Consiglio di Stato
sez. IV, 01.07.2014, n. 3294).
Nella fattispecie, come detto, i ricorrenti non sono
titolari di una aspettativa qualificata al mantenimento di
una determinata destinazione edificatoria (per effetto di
piani attuativi approvati, convenzioni di lottizzazione o
urbanistiche o giudicati di annullamento di diniego di
titolo edilizio cfr. Consiglio di Stato sez. VI, 04.11.2013, n. 5292) ma soltanto di un'aspettativa generica ad una
“non reformatio in peius”, analoga a quella di ogni
altro proprietario che aspiri ad un uso proficuo
dell'immobile
(TAR Umbria,
sentenza 03.12.2014 n. 591 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sull'inapplicabilità alle concessione di servizi
delle disposizioni contenute relative al sub-procedimento di
verifica dell'anomalia delle offerte contenute nel d.lgs. n.
163/2006.
Le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 163/2006, relative
al sub-procedimento di verifica dell'anomalia delle offerte,
in particolare l'art. 86, non sono applicabili ad una
procedura di affidamento in concessione delle attività di
fornitura, installazione, gestione e manutenzione di
manufatti pubblicitari comunali.
Trattandosi, infatti, di una procedura di affidamento di una
concessione di servizi ai sensi dell'art. 30 del d.lgs. n.
163/2006, la stessa non è soggetta alle norme del contenute
nella parte II di tale corpus normativo, riguardante i
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture
nei settori ordinari.
Infatti, il citato art. 30 stabilisce che le procedure di
affidamento di concessioni di servizi sono sottratte alla
puntuale disciplina del diritto comunitario e del codice dei
contratti pubblici, ed invece assoggettate ai principi
desumibili dal Trattato e i principi generali relativi ai
contratti pubblici e, in particolare, i principi di
trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione,
parità di trattamento, mutuo riconoscimento,
proporzionalità.
Pertanto, in nessuno di questi principi generali può essere
fatto rientrare l'art. 86, il quale, nel disciplinare i
criteri di individuazione delle offerte anormalmente basse,
contiene regole puntuali, relative ai presupposti al
ricorrere dei quali le stazioni appaltanti sono tenute o
meramente facoltizzate a verificare l'eventuale anomalia
delle offerte.
Ciò si ricava in particolare dal c.3 dell'art. 86, che
rimette alle valutazioni delle stazioni appaltanti la
verifica di congruità al di fuori dei casi tassativi
previsti dai precedenti commi 1 e 2. Al riguardo, è stato
affermato che le valutazioni in questione costituiscono
tipica espressione di discrezionalità
tecnico-amministrativa, ordinariamente sottratta al
sindacato di legittimità del g.a., se non inficiata da
evidente irragionevolezza o travisamento dei fatti emersi
nell'istruttoria. Quindi, se ciò vale per le procedure di
affidamento di appalti pubblici a fortiori la regola in
questione è applicabile agli affidamenti di concessioni di
servizi.
Si deve conseguentemente dedurre che la portata precettiva
del c. 3 dell'art. 86 si risolve nel rinvio alle regole
generali dell'agire amministrativo, ed in particolare ai
principi in materia di contratti pubblici enunciati
dall'art. 2 del d.lgs. n. 163/2006, che sono a loro volta
applicabili anche alle concessioni di servizi, in virtù del
richiamo espresso dell'art. 30 ai principi generali relativi
ai contratti pubblici.
---------------
L'art. 2 del d.lgs. n. 163/2006, dispone che l'affidamento e
l'esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e
forniture, ai sensi del presente codice, deve garantire la
qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei
principi di economicità, efficacia, tempestività e
correttezza.
Da quest'ultima disposizione si ricava che la verifica
dell'anomalia dell'offerta è finalizzata alla corretta
esecuzione del contratto posto a gara e costituisce una
cautela preventiva della stazione appaltante, attraverso la
quale essa anticipa nella fase dell'evidenza pubblica
antecedente alla conclusione del contratto un
approfondimento delle caratteristiche dell'offerta, al fine
di saggiarne la sostenibilità economica, in tal modo
prevenendo possibili inadempimenti dell'impresa
aggiudicataria in fase esecutiva, fonti di gravi
ripercussioni per l'interesse pubblico sotteso alla regolare
esecuzione dei contratti stipulati dall'amministrazione.
Emerge dunque da questa angolazione la natura ampiamente
discrezionale delle valutazioni che sottostanno alla
decisione di sottoporre a verifica di anomalia le offerte
presentate in sede di gara. Inoltre, secondo un pacifico
orientamento giurisprudenziale l'applicabilità alle
concessioni di servizi delle disposizioni del codice dei
contratti può avvenire in conseguenza di un richiamo ad esse
da parte della normativa di gara, e dunque in virtù di un
autovincolo espresso dell'amministrazione aggiudicatrice.
Peraltro, a questo riguardo è necessario un richiamo
puntuale, doveroso alla luce della regola del clare loqui
cui le amministrazioni sono tenute nella predisposizione dei
bandi di gara (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 01.12.2014 n. 5915 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
URBANISTICA:
Sulla discrezionalità del potere pubblico di pianificazione
urbanistica.
Scopo dichiarato dei ricorrenti è quello
di aspirare ad una classificazione non peggiorativa dei
terreni di rispettiva proprietà rispetto alla previgente
disciplina urbanistica e/o a destinazioni più favorevoli
quali quelle concesse ad aree limitrofe, con ciò invocando
una generica aspettativa alla “non reformatio in peius” o
alla “reformatio in melius” delle destinazioni di zona, che
per giurisprudenza pacifica, è posizione sostanziale
sfornita di tutela in quanto del tutto cedevole dinanzi alla
discrezionalità del potere pubblico di pianificazione
urbanistica.
3. Il ricorso è infondato e va respinto.
3.1. Parte ricorrente con le censure di cui al secondo
motivo di gravame, lamenta il carattere sfavorevole,
rispetto alle previsioni del precedente strumento
urbanistico, delle destinazioni impresse in sede di
approvazione del nuovo P.R.G. consistenti in parte in
destinazione a zona pubblica attrezzata, in parte a parco ed
in parte ancora a parcheggi.
Deve anzitutto evidenziarsi quanto alla lamentata
destinazione a verde, che il Comune resistente con
deliberazione C.C. n. 323/2007 di parziale accoglimento
delle osservazioni presentate, ha inserito l’area dei
ricorrenti nella perequazione residenziale proprio in
considerazione della reiterazione del pregresso vincolo per
spazi pubblici, riconoscendo un diritto edificatorio pari
all’applicazione di indice territoriale di 0,5 mc/mq.
Tale previsione, non impugnata nemmeno in via presupposta
con il ricorso in epigrafe, comporta l’inammissibilità del
ricorso in parte qua per difetto di interesse, non avendo
parte ricorrente mosso alcuna censura nei confronti di tal
scelta perequativa, in linea di principio comunque
attributiva di un valore edificatorio all’area dei
ricorrenti, senza dunque l’azzeramento del contenuto
economico del diritto di proprietà invece caratterizzante i
vincoli preordinati all’esproprio (ex multis Consiglio di
Stato sez. IV, 27.12.2011, n. 6874).
3.2. Il ricorso va pertanto dichiarato in parte qua
inammissibile.
3.3. Le censure rubricate al I motivo sono prive di pregio.
Scopo dichiarato dei ricorrenti, infatti, è quello di
aspirare ad una classificazione non peggiorativa dei terreni
di rispettiva proprietà rispetto alla previgente disciplina
urbanistica e/o a destinazioni più favorevoli quali quelle
concesse ad aree limitrofe, con ciò invocando una generica
aspettativa alla “non reformatio in peius” o alla
“reformatio in melius” delle destinazioni di zona, che per
giurisprudenza pacifica, è posizione sostanziale sfornita di
tutela (ex plurimis TAR Puglia-Bari sez II, 11.01.2011, n. 214; Consiglio di Stato sez. IV,
04.03.2003 n. 1191;
Consiglio di Stato Adunanza Plenaria, 22.12.1999,
n. 24) in quanto del tutto cedevole dinanzi alla
discrezionalità del potere pubblico di pianificazione
urbanistica (ex multis TAR Lombardia Milano sez II, 10.05.2005, n. 934; TAR Toscana sez I, 25.05.2005,
n. 2573; TAR Umbria 25.09.2014, n. 505)
(TAR Umbria,
sentenza 03.12.2014 n. 591 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Google
Earth non sana l’abuso edilizio. Tar Napoli. Le immagini
satellitari non hanno data certa e vanno perciò supportate
da altri elementi più circostanziati.
In
materia di abusi edilizi, le immagini tratte dal software
Google Earth non sono idonee a certificare la data di
costruzione dell’opera necessaria per la domanda di
sanatoria poiché il programma non fornisce informazioni
dettagliate sulla provenienza, data di realizzazione e
metodo di rilevamento.
Lo ha stabilito il
TAR Campania-Napoli, Sez.
II, con la
sentenza 27.11.2014 n. 6118.
I giudici hanno dato ragione a un Comune che, contestando la
violazione del Testo unico in materia edilizia (Dpr n.
380/2001), aveva bocciato la richiesta di un privato di
regolarizzare due porticati da adibire a box auto e un muro
di confine con apertura di un accesso carrabile, avvalendosi
del cosiddetto Piano Casa della Regione Campania all’epoca
già prorogato (legge regionale n. 19/2009, modificata da
leggi regionali n. 1 e 4/2011 e 1/2012).
La misura consente ampliamenti straordinari, per uso
abitativo, sino 20% della volumetria esistente anche in
deroga agli strumenti urbanistici vigenti, entro un limite
temporale dall’entrata in vigore (dai 18 mesi iniziali, la
scadenza è al 10.01.2016). Secondo la sentenza, il no alla
sanatoria è legittimo se anche per tali opere –qui già
oggetto di ordine di demolizione dopo un sequestro– manca la
prova valida della data di esecuzione che serve ad
accertarne il requisito della cosiddetta doppia conformità
chiesto dalla norma (articolo 36 del Tu), per cui l’abuso
deve essere autorizzabile sia al momento della domanda che
in quello in cui è commesso.
E, in particolare, se per tale onere il privato fornisce
alla Pa foto satellitari scattate da Google, nel caso in
esame per dimostrare che i lavori sono successivi
all’entrata in vigore del Piano Casa.
Il Tar ha escluso che «i rilevamenti tratti da Google
Earth possano costituire, in assenza di più circostanziati
elementi che la ricorrente non ha fornito, documenti idonei
allo scopo, in considerazione della provenienza del suddetto
rilevamento, delle incertezze in merito all’epoca di
risalenza delle immagini visualizzate (come emerge dallo
stesso sito per impostazione predefinita il software
«visualizza le immagini di qualità migliore disponibili per
una determinata località», con la precisazione che «a volte
potrebbero essere visualizzate immagini meno recenti se sono
più nitide rispetto a quelle più recenti»), della genericità
delle informazioni relative ai metodi di esecuzione del
rilevamento medesimo (a tale riguardo si osserva, peraltro,
che le immagini depositate in giudizio risultano essere
tratte dalla versione «base del software e non da quelle più
evolute predisposte per scopi commerciali)»
(articolo
Il Sole 24 Ore del 18.12.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Nelle gare pubbliche regolarizzazioni in dubbio per il Durc.
Appalti. Sentenze di segno opposto.
Forti
incertezze sui Durc (documento unico di regolarità
contributiva) per le imprese che intendano partecipare a
gare pubbliche.
La
sentenza 27.11.2014 n. 1153 del
TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, ritiene che
l’impresa debba attestare con Durc la regolarità
contributiva con riferimento al momento della partecipazione
alla gara. Non si possono quindi regolarizzare i debiti
previdenziali fruendo del termine quindicinale che l’ente
previdenziale è tenuto ad assegnare all’impresa per fruire
di «agevolazioni normative e contributive» (art. 7 Dm lavoro
24.10.2007). La regolarizzazione sarebbe possibile solo
per il cosiddetto Durc “interno”, ossia quello rilasciato
dall’Inps per il riconoscimento di benefici o sgravi
contributivi all’impresa, mentre per partecipare alle gare
occorre il Durc “esterno”, per il quale non è prevista la
regolarizzazione.
Di segno opposto è la sentenza del Consiglio di Stato 14.10.2014 n. 5064, la quale sottolinea che l’ente
previdenziale è obbligato a consentire all’impresa di
regolarizzare la posizione, e ciò si riverbera in senso
favorevole sugli appalti.
La tesi del Consiglio di Stato è condivisa anche dal Tar del
Lazio, che nell’ordinanza sospensiva 04.12.2014 n. 6255
si è espresso favorevolmente alla regolarizzazione. La
possibilità di fruire di 15 giorni per regolarizzare la
posizione contributiva (art. 7 Dm 24.10.2007), senza
quindi distinguere tra Durc interno ed esterno, sembra anche
coerente con l’articolo 4 del Dl 34/2014 (convertito in legge
78/2014), norma che consentirà di sostituire il Durc con
un’interrogazione telematica. Quando l’interrogazione sarà
possibile (si attende un decreto del Lavoro) essa sarà
valida sia a fini previdenziali, sia per partecipare a gare
di appalto, ed è previsto che siano individuati i «requisiti
di regolarità» e le «tipologie di pregresse irregolarità»
ostative al godimento di benefici normativi e contributivi.
Quindi, non esiste né una regolarità assoluta, né
un’irregolarità netta, ma sono possibili zone intermedie,
coerenti all’elasticità che l’articolo 38 del Dlgs 167/2006
(sugli appalti pubblici) individua con il concetto di
«violazioni gravi, definitivamente accertate» che il Durc
aiuta ad individuare. Inoltre va tenuta presente la modifica
della legislazione sugli appalti introdotta dall’art. 39, co.1,
del Dl 90/2014 (convertito in legge 114/2014): l’articolo 38 del Dlgs 163/2006 sui Lavori Pubblici è stato arricchito del comma
2-bis , il quale consente una certa elasticità e quindi
autorizza a leggere il Durc come regolarizzabile.
La norma
del 2014 prevede infatti che in mancanza, incompletezza e
ogni altra irregolarità essenziale della partecipazione a
gare generi una sanzione tra mille e 50mila euro e apra le
porte ad una regolarizzazione entro 10 giorni. Se esistono
quindi le procedure per regolarizzare il Durc e anche le
sanzioni per bilanciare eventuali irregolarità, anche il
Durc può essere regolarizzato
(articolo
Il Sole 24 Ore dell'11.12.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI SERVIZI: Circa
l’assunto per cui l’art. 38 del
d.lgs. n. 163 del 2006 non sarebbe applicabile alle
concessioni di servizi, va richiamato quell’orientamento
giurisprudenziale che al principio espresso da detta
disposizione –in base al quale la partecipazione alle gare
pubbliche richiede il possesso di alcuni inderogabili
requisiti di moralità– riconosce le caratteristiche di
principio di carattere generale, quindi valido anche nelle
gare dirette all’affidamento di concessioni di servizi (ai
sensi dell’art. 30, comma 3, del d.lgs. n. 163 del 2006), in
quanto fondamentale principio di ordine pubblico economico,
che soddisfa l’imprescindibile esigenza che il soggetto che
contrae con l’Amministrazione sia “affidabile” e perciò in
possesso dei requisiti di ordine generale e di moralità che
la norma tipizza.
Correttamente, allora, l’Amministrazione comunale ha nella
fattispecie dato attuazione alle previsioni dell’art. 38 del
d.lgs. n. 163 del 2006, indipendentemente dalla sussistenza
o meno di un espresso richiamo alle stesse da parte della
lex specialis della gara, stante la portata precettiva della
relativa disciplina e l’automatica efficacia integrativa
della normativa di gara che comunque ne scaturiva.
Quanto, poi,
all’assunto per cui l’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 non
sarebbe applicabile alle concessioni di servizi, va
richiamato quell’orientamento giurisprudenziale che al
principio espresso da detta disposizione –in base al quale
la partecipazione alle gare pubbliche richiede il possesso
di alcuni inderogabili requisiti di moralità– riconosce le
caratteristiche di principio di carattere generale, quindi
valido anche nelle gare dirette all’affidamento di
concessioni di servizi (ai sensi dell’art. 30, comma 3, del
d.lgs. n. 163 del 2006), in quanto fondamentale principio di
ordine pubblico economico, che soddisfa l’imprescindibile
esigenza che il soggetto che contrae con l’Amministrazione
sia “affidabile” e perciò in possesso dei requisiti
di ordine generale e di moralità che la norma tipizza (v.
Cons. Stato, Sez. VI, 21.05.2013 n. 2725).
Correttamente, allora, l’Amministrazione comunale ha nella
fattispecie dato attuazione alle previsioni dell’art. 38 del
d.lgs. n. 163 del 2006, indipendentemente dalla sussistenza
o meno di un espresso richiamo alle stesse da parte della
lex specialis della gara, stante la portata precettiva
della relativa disciplina e l’automatica efficacia
integrativa della normativa di gara che comunque ne
scaturiva (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. V,
31.01.2012 n. 467, circa il principio per cui la funzione
della regolamentazione dettata in materia dal d.lgs. n. 163
del 2006 comporta che le relative disposizioni entrino a far
parte ex se della disciplina della procedura di evidenza
pubblica, senza necessità che la cogenza delle stesse venga
prevista nel bando o nel disciplinare; v., da ultimo, anche
Cons. Stato, Ad. plen., 25.02.2014 n. 9 e 30.07.2014 n. 16,
a proposito del carattere perentorio degli adempimenti
doverosi di cui all’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 con
l’effetto di eterointegrazione della normativa di gara che
la portata imperativa della disposizione di legge produce)
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 27.11.2014 n. 1153
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
Collegio concorda con quell’orientamento giurisprudenziale
che considera inapplicabile la norma in esame (dell’art. 31,
comma 8, del decreto-legge n. 69 del 2013, conv. dalla legge
n. 98 del 2013) alle ipotesi in cui il DURC viene acquisito
dall’ente appaltante per la verifica della sussistenza del
requisito di partecipazione alla gara ex art. 38 del d.lgs.
n. 163 del 2006.
A fondamento di tale indirizzo è la considerazione che:
1) l’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 richiede che il
requisito in materia di regolarità contributiva, al pari di
tutti quelli di ordine generale, sussista già al momento
della partecipazione alla gara e permanga fino al momento
della stipula del contratto, sì che non risulta ammissibile
che la regolarità contributiva sia verificabile con
riferimento ad una fase temporale (scadenza del termine di
quindici giorni decorrente dalla richiesta di
regolarizzazione compiuta nel corso della gara) successiva
al momento della partecipazione alla selezione;
2) una diversa interpretazione non appare compatibile con i
principi di tutela dell’interesse pubblico alla scelta di un
contraente affidabile e della par condicio tra le imprese
concorrenti, in quanto comporterebbe la possibilità di
partecipare in ogni caso alle gare per le imprese in stato
di irregolarità contributiva, potendo poi fidare esse sulla
possibilità di sanare la propria posizione dopo il preavviso
di DURC negativo da parte dell’INPS, con evidente violazione
della ratio della disposizione, che nella regolarità
contributiva dell’impresa vuole apprezzare non solo un dato
formale, ma un dato di affidabilità complessiva della ditta
partecipante alla gara;
3) la regolarità contributiva è requisito indispensabile non
solo per la partecipazione alla gara ma anche per la
stipulazione del contratto, con la conseguenza che l’impresa
deve essere in regola con i relativi obblighi fin dalla
presentazione della domanda e conservare tale regolarità per
tutto lo svolgimento della procedura di gara, posto che la
cosiddetta correttezza contributiva non costituisce un dato
che possa essere temporaneamente frazionato, o virtualmente
ricostruito ex post, attenendo alla diligente condotta
dell’impresa in riferimento a tutte le obbligazioni
contributive, sia relative a periodi precedenti sia maturate
nel periodo in cui è stata espletata la gara, quale indice
rivelatore dell’irreprensibilità dell’impresa nei rapporti
con le proprie maestranze ma anche della sua capacità di far
fronte alle relative obbligazioni, quindi dell’affidabilità
della stessa nei confronti dell’ente appaltante;
4) poiché il requisito per la partecipazione alla gara è
quello della regolarità contributiva –di cui il DURC
costituisce una mera attestazione formale da parte dell’ente
previdenziale–, l’ordinaria diligenza esige che il
concorrente verifichi già da solo l’assenza di debiti
previdenziali, e non può dunque enfatizzarsi la portata
della norma procedimentale di cui all’art. 31, comma 8, del
decreto-legge n. 69 del 2013 per ritenere che il requisito
della regolarità contributiva debba sussistere “solamente”
al momento di scadenza del termine quindicinale che l’ente
previdenziale è tenuto ad assegnare all’impresa per la
regolarizzazione della posizione contributiva;
5) la regolarizzazione ex art. 31, comma 8, del
decreto-legge n. 69 del 2013, nell’attribuire rilevanza a
date condizioni per il conseguimento del DURC positivo,
assume a riferimento parametri diversi da quelli previsti
dall’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, a proposito in
particolare della soglia di rilevanza delle inadempienze
contributive ostative alla partecipazione alla gara;
6) l’antinomia tra le due disposizioni va in definitiva
risolta sulla base del principio di specialità, sicché
l’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 continua a disciplinare
in via autonoma i presupposti per la partecipazione alle
gare, mentre l’art. 31, comma 8, del decreto-legge n. 69 del
2013 si applica al solo DURC c.d. interno, ossia quello
redatto dall’INPS per il riconoscimento di benefici o sgravi
contributivi alla ditta, e non riguarda invece il documento
relativo alla verifica dei requisiti per la partecipazione
alle gare, che non può virtualmente attribuire una
regolarità contributiva ad impresa che ne era
originariamente priva. Dal che la legittimità della
determinazione adottata dall’Amministrazione comunale in
ragione del DURC negativo acquisito a carico della
ricorrente.
Altra doglianza investe la sussistenza stessa
dell’irregolarità contributiva posta a base dell’atto
impugnato.
La ricorrente, in particolare, richiama la disposizione
dell’art. 31, comma 8, del decreto-legge n. 69 del 2013,
conv. dalla legge n. 98 del 2013 (“Ai fini della verifica
per il rilascio del documento unico di regolarità
contributiva (DURC), in caso di mancanza dei requisiti per
il rilascio di tale documento gli Enti preposti al rilascio,
prima dell’emissione del DURC o dell’annullamento del
documento già rilasciato, invitano l’interessato, mediante
posta elettronica certificata o con lo stesso mezzo per il
tramite del consulente del lavoro ovvero degli altri
soggetti di cui all’articolo 1 della legge 11.01.1979, n.
12, a regolarizzare la propria posizione entro un termine
non superiore a quindici giorni, indicando analiticamente le
cause della irregolarità”), e ne desume l’irrilevanza
del DURC negativo emesso a suo carico perché non preceduto
dall’invito alla regolarizzazione, avviso che avrebbe
consentito alla stessa di sanare il debito contributivo e di
acquisire pertanto il titolo per la partecipazione alla
gara.
La censura è infondata.
Seppur in presenza di pronunce di diverso tenore, il
Collegio concorda con quell’orientamento giurisprudenziale
che considera inapplicabile la norma in esame alle ipotesi
in cui il DURC viene acquisito dall’ente appaltante per la
verifica della sussistenza del requisito di partecipazione
alla gara ex art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 (v. TAR
Lazio, Sez. III, 18.07.2014 n. 7732; TAR Campania, Napoli,
Sez. IV, 02.07.2014 n. 3619 e 12.06.2014 n. 3334).
A fondamento di tale indirizzo è la considerazione che:
1) l’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 richiede che il
requisito in materia di regolarità contributiva, al pari di
tutti quelli di ordine generale, sussista già al momento
della partecipazione alla gara e permanga fino al momento
della stipula del contratto, sì che non risulta ammissibile
che la regolarità contributiva sia verificabile con
riferimento ad una fase temporale (scadenza del termine di
quindici giorni decorrente dalla richiesta di
regolarizzazione compiuta nel corso della gara) successiva
al momento della partecipazione alla selezione;
2) una diversa interpretazione non appare compatibile con i
principi di tutela dell’interesse pubblico alla scelta di un
contraente affidabile e della par condicio tra le imprese
concorrenti, in quanto comporterebbe la possibilità di
partecipare in ogni caso alle gare per le imprese in stato
di irregolarità contributiva, potendo poi fidare esse sulla
possibilità di sanare la propria posizione dopo il preavviso
di DURC negativo da parte dell’INPS, con evidente violazione
della ratio della disposizione, che nella regolarità
contributiva dell’impresa vuole apprezzare non solo un dato
formale, ma un dato di affidabilità complessiva della ditta
partecipante alla gara;
3) la regolarità contributiva è requisito indispensabile non
solo per la partecipazione alla gara ma anche per la
stipulazione del contratto, con la conseguenza che l’impresa
deve essere in regola con i relativi obblighi fin dalla
presentazione della domanda e conservare tale regolarità per
tutto lo svolgimento della procedura di gara, posto che la
cosiddetta correttezza contributiva non costituisce un dato
che possa essere temporaneamente frazionato, o virtualmente
ricostruito ex post, attenendo alla diligente
condotta dell’impresa in riferimento a tutte le obbligazioni
contributive, sia relative a periodi precedenti sia maturate
nel periodo in cui è stata espletata la gara, quale indice
rivelatore dell’irreprensibilità dell’impresa nei rapporti
con le proprie maestranze ma anche della sua capacità di far
fronte alle relative obbligazioni, quindi dell’affidabilità
della stessa nei confronti dell’ente appaltante;
4) poiché il requisito per la partecipazione alla gara è
quello della regolarità contributiva –di cui il DURC
costituisce una mera attestazione formale da parte dell’ente
previdenziale–, l’ordinaria diligenza esige che il
concorrente verifichi già da solo l’assenza di debiti
previdenziali, e non può dunque enfatizzarsi la portata
della norma procedimentale di cui all’art. 31, comma 8, del
decreto-legge n. 69 del 2013 per ritenere che il requisito
della regolarità contributiva debba sussistere “solamente”
al momento di scadenza del termine quindicinale che l’ente
previdenziale è tenuto ad assegnare all’impresa per la
regolarizzazione della posizione contributiva;
5) la regolarizzazione ex art. 31, comma 8, del
decreto-legge n. 69 del 2013, nell’attribuire rilevanza a
date condizioni per il conseguimento del DURC positivo,
assume a riferimento parametri diversi da quelli previsti
dall’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, a proposito in
particolare della soglia di rilevanza delle inadempienze
contributive ostative alla partecipazione alla gara;
6) l’antinomia tra le due disposizioni va in definitiva
risolta sulla base del principio di specialità, sicché
l’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 continua a disciplinare
in via autonoma i presupposti per la partecipazione alle
gare, mentre l’art. 31, comma 8, del decreto-legge n. 69 del
2013 si applica al solo DURC c.d. interno, ossia quello
redatto dall’INPS per il riconoscimento di benefici o sgravi
contributivi alla ditta, e non riguarda invece il documento
relativo alla verifica dei requisiti per la partecipazione
alle gare, che non può virtualmente attribuire una
regolarità contributiva ad impresa che ne era
originariamente priva. Dal che la legittimità della
determinazione adottata dall’Amministrazione comunale in
ragione del DURC negativo acquisito a carico della
ricorrente.
Un’ultima questione riguarda l’irregolarità fiscale,
anch’essa posta a fondamento dell’atto impugnato, ma secondo
la ricorrente insuscettibile di produrre effetti nella gara
per la duplice ragione che l’importo del debito supera la
prescritta soglia di € 10.000,00 solo in ragione
dell’avvenuto computo di interessi, sanzioni ed oneri
diversi e che difetta il carattere del definitivo
accertamento dell’inadempienza.
Sennonché, sia gli interessi legali che le sanzioni
amministrative hanno carattere accessorio del debito
principale e di questo condividono la natura tributaria ai
fini del requisito soggettivo di partecipazione alle gare
(v. TAR Puglia, Bari, Sez. I, 08.03.2012 n. 491); quanto al
presupposto dell’accertamento definitivo, poi, è stata
esibita in giudizio la nota con cui l’Agenzia delle Entrate
attesta l’iscrizione a ruolo del debito tributario della
ricorrente, essendo peraltro sufficiente che la definitività
dell’accertamento dell’irregolarità fiscale sopraggiunga nel
corso del procedimento di gara (v. TAR Sicilia, Palermo,
Sez. III, 16.02.2012 n. 401), circostanza che si desume, se
non altro, dalla richiesta di rateizzazione del debito
formulata dalla stessa ditta
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 27.11.2014 n. 1153
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APPALTI - ATTI
AMMINISTRATIVI:
1. Atto amministrativo. Autotutela decisoria. Ritiro
giustificato per ragioni di opportunità. Natura. È un atto
di revoca. Qualificazione. Spetta al G.A.
1.1. In tema di procedure ad
evidenza pubblica per assegnazione di concessione demaniale
(in relazione ad un’area destinata ad alaggio e sosta delle
imbarcazioni da diporto), qualora la P.A. ritiri il bando,
nell’esercizio dei poteri di autotutela decisoria, non già a
cagione di vizi di legittimità dell’atto inciso bensì per
valutazioni di opportunità, il relativo provvedimento va
qualificato come revoca e non di annullamento d’ufficio.
1.2. La qualificazione del provvedimento impugnato in sede
giurisdizionale, che implica la considerazione di tutto il
contenuto del provvedimento e non solo del nomen iuris
attribuitogli dall'Amministrazione, è rimessa al Giudice
Amministrativo; pertanto, l'errata qualificazione da parte
dell'Amministrazione non può integrare un vizio del
provvedimento, salvo il giudizio di legittimità da formulare
attraverso il parametro della fattispecie legale cui il
provvedimento stesso realmente e sostanzialmente appartiene.
2. (segue): diverso apprezzamento dell'interesse pubblico
originario. Sufficienza.
Legittimamente l'Autorità demaniale revoca,
nell'esercizio di poteri di autotutela decisoria, un bando
di assegnazione area demaniale per imbarcazioni da diporto,
in esito ad un diverso apprezzamento e, cioè, ad nuova
valutazione dell’interesse pubblico originario, traendo
perciò origine l'atto di ritiro non già in sopravvenienze di
fatto o di diritto, bensì in un diverso assetto degli
interessi pubblici previamente considerati.
Tale possibilità è ammissibile alla stregua della previsione
dell’art. 21-quinquies della l. n. 241 del 1990 che,
infatti, menziona tra i presupposti legittimanti l’esercizio
del potere di revoca anche la “nuova valutazione
dell'interesse pubblico originario”; del resto le varie
ipotesi contemplate dal ridetto art. 21-quinquies legge n.
241/1990 sono tutte accomunate dalla più ampia
discrezionalità nella scelta dell’opportunità di procedere
all’adozione di una determinazione in autotutela.
3. (segue): comunicazione di avvio del procedimento.
Omissione. Irrilevanza.
3.1. In tema di procedimenti di autotutela
decisoria volti al ritiro di bando di gara pubblica per
affidamento di concessione demaniale marittima, l’omessa
comunicazione di avvio del procedimento non determina alcuna
efficacia invalidante sul provvedimento conclusivo e ciò sia
in considerazione della stessa natura dell’atto revocato
(per l’appunto, il bando di una procedura in itinere), sia,
conseguentemente, in quanto alla data di adozione del
provvedimento di revoca nessun vantaggio era stato acquisito
dal soggetto concorrente alla procedura di gara, laddove
risulti che tra la pubblicazione del bando e il relativo
atto di revoca sia intercorso un lasso temporale talmente
breve da precludere finanche l’esame delle domande dei
concorrenti, il cui termine di presentazione non era
oltretutto spirato alla data di adozione del provvedimento
di autotutela.
3.2. In tema di procedimenti di autotutela decisoria volti
al ritiro di bando di gara pubblica per l'affidamento di
concessione demaniale marittima, l’omessa comunicazione di
avvio del procedimento non vizia il provvedimento
conclusivo, laddove risulti dalla motivazione dell'atto di
revoca che una partecipazione procedimentale non avrebbe
determinato, in rapporto all’interesse pubblico perseguito
dall’amministrazione, una soluzione di segno diverso
rispetto all’esercizio dello ius poenitendi.
4. (segue): indennizzo. Omessa previsione. Non rileva.
La legittimità del provvedimento di revoca
di procedura di gara per affidamento di concessione
demaniale marittima non esclude, in linea generale e
astratta, la spettanza di un indennizzo, alla stregua
dell’art. 21-quinquies legge n. 241/1990; la mancata
previsione o corresponsione della somma dovuta a titolo di
indennizzo non inficia per ciò solo la legittimità del
provvedimento di revoca, potendo eventualmente incidere sul
piano delle conseguenze scaturenti dall’adozione del
provvedimento.
5. (segue): bandi di gara. Non sono provvedimenti
amministrativi ad efficacia durevole. Loro revoca.
Indennizzo. Non spetta.
5.1. Non è meritevole di accoglimento la
domanda di indennizzo ex art. 21-quinquies legge n. 241/1990
formulata da concorrente a procedura di gara per affidamento
di concessione demaniale marittima, ove il bando che
indiceva tale procedura sia stato revocato prima della
scadenza del termine per la presentazione delle relative
domande di partecipazione.
5.2. I bandi di selezione non rientrano tra i provvedimenti
amministrativi ad efficacia durevole per i quali l’art.
21-quinquies, comma 1 della l. n. 241 del 1990 prevede
l’obbligo per l’amministrazione di provvedere all’indennizzo
dei soggetti interessati quale ristoro dei pregiudizi
provocati dalla revoca.
6. (segue): pregiudizi patiti da concorrente a gara
legittimamente revocata. Responsabilità precontrattuale
della P.A. Danno ingiusto. Configurabilità.
6.1. L'Amministrazione che revochi
legittimamente una procedura di gara è tenuta a ristorare i
pregiudizi patiti dai concorrenti a titolo di responsabilità
precontrattuale; come desumibile dalla sentenza
dell’Adunanza Plenaria n. 6 del 05.09.2005, la
responsabilità precontrattuale è configurabile anche nel
caso di inosservanza di regole di condotta che, pur non
determinando l’invalidità della procedura, implicano
l’insorgere di un obbligo risarcitorio correlato alla
violazione di principi di affidamento, correttezza e buona
fede.
6.2. È configurabile una responsabilità precontrattuale in
capo alla P.A. che (legittimamente) revochi una procedura di
gara, giustificando l’intervento in autotutela in ragione di
un diverso apprezzamento dell’interesse pubblico originario
in assenza di sopravvenienze fattuali ovvero normative ed a
breve distanza di tempo dall’approvazione del bando e,
dunque, dall’indizione della selezione ma, pur sempre, in
una fase successiva all’avvenuta presentazione da parte di
operatore economico interessato della propria domanda di
partecipazione corredata della necessaria documentazione.
In tal caso, il contegno tenuto dall’amministrazione assume
rilievo al fine di fondare la pretesa alla riparazione del
pregiudizio correlato al c.d. interesse negativo che,
tuttavia, non può che essere limitato al solo danno
emergente e, cioè, alle spese sostenute dal ricorrente per
la partecipazione alla selezione.
2. La domanda di annullamento non merita accoglimento e va,
pertanto, disattesa.
2.1. Nella fattispecie oggetto di giudizio, come emerge
dalla documentazione prodotta, l’amministrazione comunale,
con la deliberazione della Giunta Municipale gravata, è
intervenuta sul bando per l’assegnazione di una concessione
demaniale (in relazione ad un’area destinata ad alaggio e
sosta delle imbarcazioni da diporto), approvato con la
precedente determinazione n. 12 del 05.02.2008,
nell’esercizio dei poteri di autotutela decisoria.
2.2. Come correttamente rilevato dalla difesa di parte
ricorrente, la determinazione impugnata reca a proprio
fondamento non già vizi di legittimità dell’atto inciso
bensì valutazioni di opportunità; da ciò consegue, dunque,
sul piano della qualificazione, che la determinazione
integra propriamente un provvedimento di revoca e non di
annullamento d’ufficio.
2.3. Il Collegio ritiene di ribadire, in primo luogo ed in
conformità all’univoca giurisprudenza, che la qualificazione
del provvedimento impugnato, che implica la considerazione
di tutto il contenuto del provvedimento e non solo del
nomen iuris attribuitogli dall'Amministrazione, è
rimessa al giudice; pertanto, l'errata qualificazione da
parte dell'Amministrazione non può integrare un vizio del
provvedimento, salvo il giudizio di legittimità da formulare
attraverso il parametro della fattispecie legale cui il
provvedimento stesso realmente e sostanzialmente appartiene.
2.4. Ciò chiarito, l’analisi della deliberazione adottata
consente di concludere nel senso dell’adeguatezza del
substrato motivazionale; nello specifico, l’amministrazione
ha ritenuto di procedere alla revoca in esito ad un diverso
apprezzamento e, cioè, ad nuova valutazione dell’interesse
pubblico originario, adducendo l’opportunità di
riconsiderare in sede pianificatoria, attraverso una
specifica variante, la destinazione dell’ambito nel quale
l’area de qua si inserisce, stante, tra l’altro, la
vocazione turistica- balneare del contesto e la prossimità
di spiagge libere.
2.5. Dalla documentazione in atti emerge, dunque, che la
determinazione impugnata trae radice non già in
sopravvenienze di fatto o di diritto, bensì in un diverso
assetto degli interessi pubblici previamente considerati.
2.6. Tale possibilità non è preclusa all’amministrazione
alla stregua della previsione dell’art. 21-quinquies della
l. n. 241 del 1990 che, infatti, menziona tra i presupposti
legittimanti l’esercizio del potere di revoca anche la “nuova
valutazione dell'interesse pubblico originario”,
dovendosi, altresì, sottolineare che le varie ipotesi
contemplate dalla sopra richiamata disposizione sono tutte
accomunate dalla più ampia discrezionalità nella scelta
dell’opportunità di procedere all’adozione di una
determinazione in autotutela, scelta che, nella fattispecie,
risulta immune da vizi di manifesta irragionevolezza o di
arbitrarietà.
2.7. In tale quadro, inoltre, l’omessa comunicazione di
avvio del procedimento, pure contestata dal ricorrente, non
determina alcuna efficacia invalidante sulla deliberazione e
ciò sia in considerazione della stessa natura dell’atto
revocato (per l’appunto, il bando di una procedura in
itinere), sia, conseguentemente, in quanto alla data di
adozione di tale deliberazione nessun vantaggio era stato
acquisito dal ricorrente –essendo intercorso tra le due
determinazioni (quella di pubblicazione del bando e la
deliberazione di revoca) un lasso temporale talmente breve
da precludere finanche l’esame delle domande, il cui termine
di presentazione, peraltro, non era alla data di adozione
della deliberazione gravata ancora spirato– sia, infine,
alla luce delle argomentazioni sviluppate dalla difesa
dell’amministrazione, supportate dallo stesso contenuto
della deliberazione impugnata, di portata tale da escludere
che una partecipazione procedimentale avrebbe determinato,
in rapporto all’interesse pubblico perseguito
dall’amministrazione, una soluzione di segno diverso
rispetto all’esercizio dello ius poenitendi.
3. La legittimità del provvedimento di revoca non esclude,
tuttavia, in linea generale e astratta, la spettanza di un
indennizzo, alla stregua dell’art. 21-quinquies sopra
richiamato, dovendosi, comunque, rimarcare che la mancata
previsione o corresponsione della somma dovuta a tale titolo
non inficia per ciò solo la legittimità del provvedimento di
revoca, potendo eventualmente incidere sul piano delle
conseguenze scaturenti dall’adozione del provvedimento.
3.1. Il Collegio rileva che, nel caso che ne occupa, anche
la domanda diretta ad ottenere la condanna
dell’amministrazione al pagamento in favore del ricorrente
dell’indennizzo non merita accoglimento, difettando i
relativi presupposti.
3.2. Occorre considerare, infatti, che la deliberazione
gravata ha inciso sul bando di selezione di una procedura
che, giova ribadire, non ha raggiunto neanche la fase di
scadenza del termine per la presentazione delle relative
domande di partecipazione; come chiarito dalla consolidata
giurisprudenza, i badi di selezione non rientrano tra i
provvedimenti amministrativi ad efficacia durevole per i
quali l’art. 21-quinquies, comma 1 della l. n. 241 del 1990
prevede l’obbligo per l’amministrazione di provvedere
all’indennizzo dei soggetti interessati quale ristoro dei
pregiudizi provocati dalla revoca (cfr., ex multis,
TAR Lazio, Roma, sez. III, 24.03.2009, n. 3063).
4. Merita, invece, accoglimento, nei termini e nei limiti di
seguito esplicitati, la domanda di risarcimento del danno.
4.1. Il Collegio ritiene, infatti, che nella fattispecie
venga in considerazione una responsabilità precontrattuale
dell’amministrazione; come desumibile dalla sentenza
dell’Adunanza Plenaria n. 6 del 05.09.2005, la
responsabilità precontrattuale è configurabile anche nel
caso di inosservanza di regole di condotta che, pur non
determinando l’invalidità della procedura, implicano
l’insorgere di un obbligo risarcitorio correlato alla
violazione di principi di affidamento, correttezza e buona
fede.
4.2. Tale violazione risulta particolarmente evidente nel
caso che ne occupa, tenuto conto, in specie, della
circostanza che l’intervento in autotutela
dell’amministrazione è giustificato, come sopra esposto, da
un diverso apprezzamento dell’interesse pubblico originario
in assenza di sopravvenienze fattuali ovvero normative ed a
breve distanza di tempo dall’approvazione del bando e,
dunque, dall’indizione della selezione ma, pur sempre, in
una fase successiva all’avvenuta presentazione da parte del
ricorrente della propria domanda di partecipazione corredata
della necessaria documentazione.
In altri termini, il contegno tenuto dall’amministrazione
assume rilievo al fine di fondare la pretesa alla
riparazione del pregiudizio correlato al c.d. interesse
negativo che, tuttavia, non può nella fattispecie in esame
che essere limitato al solo danno emergente e, cioè, alle
spese sostenute dal ricorrente per la partecipazione alla
selezione.
4.3. La sopra esposta limitazione è giustificata sia dallo
stato della procedura, all’evidenza prodromico, sia dalla
circostanza che non vengono in considerazione danni
correlati al c.d. lucro cessante, né la difesa del
ricorrente ha sviluppato deduzioni sul punto che, comunque,
avrebbero richiesto congrue allegazioni probatorie (massima
tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 24.11.2014 n. 834
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO – Impianti di
telecomunicazione – Principi generali di cui al T.U. n.
380/2001 – Applicabilità – Adozione di atti interlocutori
atipici – Illegittimità.
In materia di impianti di telecomunicazione, oltre alle
disposizioni settoriali di cui al D.Lgs. n. 259/2003,
operano i principi generali del T.U. n. 380/2001.
Conseguentemente, allorquando insorgano dubbi circa la
natura di interventi edilizi regolarmente autorizzati, il
Comune può al massimo adottare un’ordinanza di sospensione
dei lavori, che deve essere debitamente motivata e che può
avere un’efficacia temporale massima di 45 giorni (art. 27,
comma 3, T.U. n. 380/2001); non è invece consentito adottare
atti interlocutori atipici, in quanto in materia edilizia
vige il principio generale per cui o un intervento è
assentibile (eventualmente con prescrizioni e modifiche,
imposte ad esempio dalle autorità competenti in materia
paesaggistica) o non lo è, tertium non datur (TAR Marche,
sentenza 21.11.2014 n. 953 - link a
www.ambientediritto.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: L’amministrazione
prima di bandire la procedura concorsuale aveva omesso di
inoltrare la rituale comunicazione preventiva prescritta
dall’art. 34-bis d.lgs. 165/2001 -disposizione aggiunta nel
corpo del d.lgs. 165/2001 dall’art. 7 della L. 16.01.2003,
n. 3– in tema di mobilità del personale.
In particolare il comma 1 del richiamato art. 34-bis –nel
regolare il procedimento autorizzativo relativo alle
procedure concorsuali per l’accesso ai pubblici impieghi
prescrive che: “Le amministrazioni pubbliche di cui
all’articolo 1, comma 2, con esclusione delle
amministrazioni previste dall’articolo 3, comma 1, ivi
compreso il Corpo nazionale dei vigili del fuoco, prima di
avviare le procedure di assunzione di personale, sono tenute
a comunicare ai soggetti di cui all’articolo 34, commi 2 e
3, l’area, il livello e la sede di destinazione per i quali
si intende bandire il concorso nonché, se necessario, le
funzioni e le eventuali specifiche idoneità richieste”.
Il comma 5 del richiamato art. 34-bis aggiunge inoltre che:
“Le assunzioni effettuate in violazione del presente
articolo sono nulle di diritto. Restano ferme le
disposizioni previste dall’articolo 39 della legge
27.12.1997, n. 449, e successive modificazioni”.
Le disposizioni citate contenute nel testo unico sul
pubblico impiego ha inequivocabile carattere inderogabile ed
impone alle amministrazioni un’attività di carattere
rigorosamente vincolato al rispetto delle procedure
preventive di monitoraggio.
---------------
Sicché, l’amministrazione si è trovata nella necessità di
revocare la procedura concorsuale proprio allo scopo di non
vanificare le eventuali assunzioni, afflitte da nullità di
diritto per assenza della doverosa procedura preventiva di
mobilità del personale.
Nel caso di specie, pertanto, non si ravvisa la dedotta
violazione dell’art. 3 e dell’art. 21-nonies L. n. 241/1990,
per difetto di motivazione e per insussistenza
dell’interesse pubblico, in quanto l’iniziativa di
autotutela dell’amministrazione non è stata provocata da una
mera esigenza di ripristino della legalità violata quanto
dall’urgenza di osservare le procedure in tema di mobilità,
predisposte dal legislatore all’evidente scopo di consentire
una gestione ed un utilizzo efficiente ed economico delle
risorse umane disponibili e per evitare profili di nullità
di assunzioni condotte a prescindere dall’attivazione di
tali procedure.
1.- Il ricorso ed i relativi motivi aggiunti sono infondati.
L’art. 23, comma 13, Legge regione Campania n. 1 del
27.01.2012, la Regione dispone che, “ai fini del
contenimento della spesa del personale le procedure
concorsuali in atto presso il Consiglio regionale alla data
di entrata in vigore della presente legge sono sospese per
l’anno finanziario 2012.”.
2.- Orbene, la necessità per l’amministrazione regionale di
effettuare una ricognizione degli atti del procedimento
concorsuale in essere, per valutarne la coerenza con le
vigenti disposizioni di legge nazionali e regionali in
materia di personale, con i vincoli posti dalla finanza
pubblica.
Nel caso di specie, infatti, l’amministrazione prima di
bandire la procedura concorsuale aveva omesso di inoltrare
la rituale comunicazione preventiva prescritta dall’art.
34-bis d.lgs. 165/2001 -disposizione aggiunta nel corpo del
d.lgs. 165/2001 dall’art. 7 della L. 16.01.2003, n. 3– in
tema di mobilità del personale.
In particolare il comma 1 del richiamato art. 34-bis –nel
regolare il procedimento autorizzativo relativo alle
procedure concorsuali per l’accesso ai pubblici impieghi
prescrive che: “Le amministrazioni pubbliche di cui
all’articolo 1, comma 2, con esclusione delle
amministrazioni previste dall’articolo 3, comma 1, ivi
compreso il Corpo nazionale dei vigili del fuoco, prima di
avviare le procedure di assunzione di personale, sono tenute
a comunicare ai soggetti di cui all’articolo 34, commi 2 e
3, l’area, il livello e la sede di destinazione per i quali
si intende bandire il concorso nonché, se necessario, le
funzioni e le eventuali specifiche idoneità richieste”.
Il comma 5 del richiamato art. 34-bis aggiunge inoltre che:
“Le assunzioni effettuate in violazione del presente
articolo sono nulle di diritto. Restano ferme le
disposizioni previste dall’articolo 39 della legge
27.12.1997, n. 449, e successive modificazioni”.
3.- Le disposizioni citate contenute nel testo unico sul
pubblico impiego ha inequivocabile carattere inderogabile ed
impone alle amministrazioni un’attività di carattere
rigorosamente vincolato al rispetto delle procedure
preventive di monitoraggio.
Il rispetto della citata normativa ha quindi imposto alla
Regione di intervenire in autotutela, di fronte all’esigenza
non rimediabile di operare per una migliore utilizzazione
delle risorse umane ed, in definitiva, per un doveroso
contenimento della spesa pubblica.
In ogni caso le esigenze prioritarie di contenimento della
spesa pubblica, esigenze poste a fondamento del potere di
autotutela esercitato dalla Regione, si sono confrontate con
una posizione dei ricorrenti, partecipanti ad una procedura
pubblica di selezione non ancora conclusa, qualificabile
come mera aspettativa di fatto alla definizione del relativo
procedimento (in questo senso, giurisprudenza conforme:
Cons. Stato, sez. III, 01.08.2011, n. 4554; Cons. Stato,
sez. VI, 27.06.2005, n. 3401).
Appaiono quindi destituite di fondamento le molteplici
censure in merito all’eccesso di potere per violazione del
giusto procedimento e degli artt. 3 e 97 Cost., posto che
l’amministrazione regionale si è trovata nella necessità di
revocare la procedura concorsuale proprio allo scopo di non
vanificare le eventuali assunzioni, afflitte da nullità di
diritto per assenza della doverosa procedura preventiva di
mobilità del personale.
4.- Nel caso di specie, pertanto, non si ravvisa la dedotta
violazione dell’art. 3 e dell’art. 21-nonies L. n. 241/1990,
per difetto di motivazione e per insussistenza
dell’interesse pubblico, in quanto l’iniziativa di
autotutela dell’amministrazione non è stata provocata da una
mera esigenza di ripristino della legalità violata quanto
dall’urgenza di osservare le procedure in tema di mobilità,
predisposte dal legislatore all’evidente scopo di consentire
una gestione ed un utilizzo efficiente ed economico delle
risorse umane disponibili e per evitare profili di nullità
di assunzioni condotte a prescindere dall’attivazione di
tali procedure.
In questo senso, appaiono destituite di giuridico fondamento
anche le doglianze, formulate in particolare col ricorso per
motivi aggiunti, relative all’asserita violazione dei
principi di ragionevolezza e di eguaglianza, di cui agli
artt. 3 e 97 Cost., posto che, proprio in ossequio ai
richiamati principi, l’amministrazione regionale è dovuta
intervenire allo scopo di portare a termine una procedura
concorsuale condannata a concludersi con assunzioni che
sarebbero state comunque affette da nullità
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 11.11.2014 n. 5789 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Niente reato se non c'è la Scia. Liberalizzata l'attività
relativa a impianti gpl domestici.
PREVENZIONE INCENDI/ Il Tribunale di Chieti sulle funzioni
dei vigili del fuoco.
L'omessa presentazione della Scia (Segnalazione certificata
di inizio attività) prevista dall'art. 4 del dlgs 151/2011,
in materia di semplificazione dei procedimenti relativi alla
prevenzione degli incendi, non integra la violazione
dell'art. 20 del dlgs 139/2006 avente ad oggetto le funzioni
e ai compiti del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, non
assumendo pertanto penale rilevanza.
Con questo principio il TRIBUNALE di Chieti (sentenza
10.11.2014 n. 1136)
ha assolto perché il fatto non è previsto dalla legge come
reato il proprietario di un impianto di deposito di gpl ad
uso domestico in categoria A.
La sentenza ha il pregio di fare chiarezza sul problema del
rapporto tra la disposizione incriminatrice, ossia l'art. 20
del dlgs 139/2006, e il regolamento di cui al successivo
dlgs 151/2011, che ha previsto la semplificazione del regime
autorizzativo di alcuni impianti di deposito di gpl, in
particolare quelli di cat. A) e B).
In particolare, il regolamento ha rivisto il sistema
autorizzativo dei predetti impianti mediante presentazione
di una Scia, mentre in precedenza era prevista la
presentazione di un'istanza alla quale seguiva, poi,
all'esito di un procedimento, il rilascio di un'apposita
autorizzazione.
Il Tribunale ha precisato che il fatto non è penalmente
punibile in quanto in ossequio al principio di tassatività,
che impedisce l'analogia in malam partem, non può ritenersi
che l'art. 20 predetto punendo chiunque «ometta di
richiedere il rilascio o il rinnovo del certificato», possa
far riferimento anche all'omessa presentazione della Scia la
quale costituisce una fattispecie del tutto diversa dal
provvedimento amministrativo, non dovendo essere richiesta
e, quindi, neanche rilasciata o rinnovata, trattandosi di
atto soggettivamente e oggettivamente privatistico.
Secondo il giudice, quindi, essendo la disposizione
incriminatrice, ai fini applicativi, integrata dal
regolamento, il quale differenzia la tipologia del
procedimento amministrativo di controllo e vigilanza in
materia di antincendio in base all'attività, l'aver previsto
la Scia per tali impianti ha sostanzialmente liberalizzato
l'attività ritenendola non involgente interessi pubblici
rilevanti e, quindi, non penalmente rilevante.
La conclusione cui è pervenuto il Tribunale è in linea con
il sistema di eterointegrazione della norma incriminatrice,
seppur relativo ad una norma integrata con un intervento
legislativo successivo (2011) a quello della previsione
della fattispecie di reato (2006)
(articolo
ItaliaOggi Sette del 15.12.2014). |
CONDOMINIO: Se la spesa non è di tutti il regolamento è nullo. Non si
può far pagare la facciata di un altro edificio.
Supercondominio. La Cassazione chiarisce i limiti della
«diversa convenzione».
È nulla
la delibera assembleare con cui vengono messe a carico dei
condomini di un singolo edificio, ricompreso in un insieme
di fabbricati raggruppati in un supercondominio, le spese
per il rifacimento della facciata di un diverso edificio
appartenente al lo stesso complesso immobiliare.
Lo ha deciso la
Corte di Cassazione con sentenza 06.11.2014 n. 23688.
Il Tribunale di Perugia, nella sentenza cassata, aveva
invece dato rilievo a specifiche clausole del regolamento
condominiale, in forza delle quali le spese di manutenzione
straordinaria sarebbero gravate non esclusivamente sui
proprietari degli edifici interessati ai lavori, ma anche
sui proprietari di tutti gli edifici.
La «diversa convenzione»
La Cassazione ha negato ogni fondatezza della tesi sostenuta
nella sentenza impugnata, secondo la quale le disposizioni
del regolamento di condominio in questione avrebbero dato
luogo a una «diversa convenzione», ai sensi dell’articolo.
1123, primo comma, ultima parte, del Codice civile: per la
suprema Corte tale ultima previsione consente soltanto una
ripartizione convenzionale, diversa da quella legale, delle
spese cui i condomini di un edificio siano comunque tenuti a
contribuire.
Invece, si legge nella sentenza, non risultava che i
ricorrenti avessero manifestato una loro espressa adesione
all’accollo delle spese; e, ha aggiunto la Cassazione, non è
neppure il caso di affrontare il problema se sia valida una
simile disposizione del regolamento di un supercondominio,
la quale consideri tutti i supercondòmini proprietari delle
facciate di tutti gli edifici facenti parte di tale
condominio complesso. In sostanza, sarebbe chiaro che è
nulla la singola deliberazione di riparto delle spese,
mentre andrebbe verificata la validità delle clausole
regolamentari poste a fondamento della prima, pur non
potendo tali clausole intendersi come «convenzioni» sulle
spese agli effetti dell’articolo 1123, primo comma, del
Codice civile.
I dubbi sulla sentenza
Questo passaggio lascia qualche perplessità. In realtà i
criteri di ripartizione delle spese stabiliti dall’articolo
1123 del Codice civile possono essere derogati da un accordo
sottoscritto da tutti i condòmini, oppure da una
deliberazione presa dagli stessi in sede assembleare con
l’unanimità dei consensi dei partecipanti. La natura delle
disposizioni contenute nell’articolo 1118, comma 1 e
nell’articolo 1123 del Codice civile non preclude l’adozione
di discipline convenzionali che differenzino tra loro i
diritti di ciascun condòmino sulle parti comuni e,
simmetricamente, gli oneri di gestione del condominio,
attribuendo gli uni e gli altri in proporzione maggiore o
minore.
La clausola regolamentare con cui venga convenuto l’accollo
ad alcuni condòmini dell’onere di contribuire alle spese
concernenti un determinato bene, pur non rientrando tra
quelli comuni agli stessi sulla base del collegamento
funzionale a base dell’articolo 1117 del Codice civile, va,
quindi, intesa come idonea a ribaltare, nei riguardi degli
stessi partecipanti, il funzionamento della presunzione di
comproprietà sul bene.
Una clausola del genere, se originata dal consenso di tutti
i condòmini, va pure a incidere sui diritti individuali del
singolo condòmino, nel caso in esame attribuendo diritti
maggiori ad alcuni condòmini rispetto a quelli che
deriverebbero dalla presunzione di attribuzione di cui
all’articolo 1117.
Quindi rimane poco chiaro per quale
motivo una “convenzione” inserita in un regolamento
condominiale non possa valere a fondare la contitolarità dei
condomini su parti prive di immediato collegamento
funzionale con la rispettiva unità immobiliare, e dunque a
comportarne il conseguente obbligo di partecipare alle
relative spese (nonché la validità della deliberazione che
attui tale obbligo), quale espressione dell’autonomia
negoziale meritevole di tutela giuridica a norma
dell’articolo 1322 del Codice civile
(articolo
Il Sole 24 Ore del 16.12.2014). |
VARI: Allaccio idrico abusivo, non c'è scusa che tenga.
Allacciarsi abusivamente al servizio idrico integra il reato
di furto aggravato anche quando gli autori siano marito e
moglie incinta, con gravi situazioni economiche e con un
neonato a carico. La scriminante dello stato di necessità,
infatti, non può essere accordata tutte le volte in cui
l'accesso all'acqua possa ottenersi in modo lecito, pure
facendo su e giù da una fontanella pubblica distante diversi
metri da casa.
È quanto sostenuto dalla VI Sez. penale della Corte di Cassazione con la
sentenza 02.10.2014 n. 41069.
Nel caso di specie a una famiglia, in crisi economica e con
figli, è stato interrotto il servizio idrico a cagione della
sua morosità nel pagamento della fornitura. Per far fronte
all'evidente necessità di accedere all'acqua, marito e
moglie (incinta) hanno rimosso i sigilli e si sono
allacciati abusivamente all'impianto. Ne è disceso un
procedimento penale a carico dei due per il reato di furto
aggravato. All'esito del giudizio di primo grado il
tribunale ha, però, assolto la coppia ritenendo che la loro
condotta fosse scriminata dallo stato di necessità.
Secondo
il giudice di primo grado, infatti, la presenza di bambini
in tenera età assieme all'obiettiva rilevanza dell'uso di
acqua per le esigenze primarie di igiene ed alimentazione
della famiglia facevano ritenere che gli imputati si fossero
«trovati in presenza della necessità di salvare non solo se
stessi, ma soprattutto i loro figli dal pericolo grave ed
attuale di un danno consistente in rischio di malattie
conseguenti alla mancanza di acqua». Il tribunale ha poi
sottolineato come, in seguito all'apposizione -per la
seconda volta- dei sigilli, fosse intervenuta la stessa
amministrazione comunale facendosi carico del costo
dell'acqua ad uso degli imputati.
Il verdetto non è stato condiviso dalla procura la quale ha
deciso di presentare ricorso alla Corte di cassazione per
ottenerne l'annullamento. La prospettazione dei fatti
offerta dalla ricorrente è senz'altro più severa di quella
affermata nella sentenza impugnata. Secondo il pm, infatti,
nella vicenda in esame non ricorrevano affatto gli estremi
dello stato di necessità per i due imputati, in particolare
il requisito, richiesto dall'art. 54, del codice penale,
della inevitabilità della condotta dannosa: a suo dire la
mancata erogazione dell'acqua in casa era fronteggiabile
mediante l'accesso alla fontanella pubblica, distante soli
50 metri dall'abitazione; inoltre, al trasporto di un
quantitativo sufficiente di acqua avrebbe potuto provvedere
il marito, sicché la circostanza che la moglie fosse incinta
non rilevava; infine, non vi era certezza sulle effettive
capacità economiche degli imputati posto che questi avevano
scelto di rimanere contumaci nel processo.
Ebbene, gli ermellini, con motivazione tanto discutibile
quanto chirurgica, ha accolto il ricorso presentato dal pm,
per l'effetto annullando la sentenza di assoluzione e
rinviando ad altro giudice della Corte d'appello per un
nuovo esame della vicenda.
La Cassazione ha osservato come le argomentazioni adottate
dal tribunale per affermare la ricorrenza dello stato di
necessità fossero erronee sul piano della corretta
applicazione della norma penale, la quale chiede «l'assoluta
necessità della condotta» e «l'inevitabilità del pericolo».
Nel caso concreto –osservano i giudici rimani– «gli imputati
non si trovarono costretti a ricorrere alla rimozione dei
sigilli apposti al contatore»: per garantirsi
l'approvvigionamento di acqua dopo l'interruzione della
fornitura, infatti, essi potevano contare su una fonte
pubblica sita a distanza modesta dalla loro abitazione
oppure, già dopo l'apposizione dei ricordati sigilli, essi
avrebbero potuto rivolgersi al comune per chiedere –come
peraltro effettivamente accaduto dopo la seconda
interruzione conseguente all'accertamento dei reato– che
l'amministrazione intervenisse facendosi carico delle spese
di quella somministrazione
(articolo
ItaliaOggi Sette del 15.12.2014). |
AGGIORNAMENTO ALL'11.12.2014 |
ã |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Interpretazione e applicazione dell'articolo 5, comma 9, del
decreto-legge n. 95 del 2012, come modificato dall'articolo
6 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90
(circolare
04.12.2014 n. 6/2014). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Quesito su impianti fotovoltaici
(Ministero dell'Interno, Dipartimento dei Vigili del Fuoco,
del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile,
nota 28.10.2014 n. 12678 di prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Linee
di indirizzo sulle modalità applicative della disciplina in
materia di prevenzione e riduzione integrate
dell'inquinamento, recata dal Titolo III-bis alla parte
seconda del d.lgs. 03.04.2006, n. 152, alla luce delle
modifiche introdotte dal d.lgs. 04.03.2014, n. 46
(Ministero dell'Ambiente ed ella Tutela del Territorio e del
Mare,
nota 27.10.2014 n. 22295 di prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI LOCALI - VARI:
G.U. 09.12.2014 n. 285 "Definizione delle caratteristiche
del sistema pubblico per la gestione dell’identità digitale
di cittadini e imprese (SPID), nonché dei tempi e delle
modalità di adozione del sistema SPID da parte delle
pubbliche amministrazioni e delle imprese"
(D.P.C.M.
24.10.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 09.12.2014, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in
acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 30.11.2014, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 02.12.2014 n. 143). |
TRIBUTI: G.U.
06.12.2014 n. 284, suppl. ord. n. 93, "Esenzione
dall’IMU, prevista per i terreni agricoli, ai sensi
dell’articolo 7, comma 1, lettera h), del decreto
legislativo 30.12.1992, n. 504" (Ministero
dell'Economia e delle Finanze,
decreto 28.11.2014). |
LAVORI PUBBLICI: G.U.
05.12.2014 n. 283 "Procedure e schemi-tipo per la
redazione e la pubblicazione del programma triennale, dei
suoi aggiornamenti annuali e dell’elenco annuale dei lavori
pubblici e per la redazione e la pubblicazione del programma
annuale per l’acquisizione di beni e servizi" (Ministero
delle Infrastrutture e dei Trasporti,
decreto 24.10.2014). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
P. Palazzi,
Ascensore esterno - una (severa) critica alla sentenza TAR
Lazio n. 726 del 22/09/2014 (07.12.2014 - link a
http://ufficiotecnico2012.blogspot.it). |
SICUREZZA LAVORO:
G. Milizia L’idoneità
tecnico professionale della ditta è imprescindibile dai
doveri di sicurezza: quali responsabilità penali per il
committente e per l’appaltatore per l’infortunio in
cantiere?
(03.12.2014 - link a www.diritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I. Pagano,
In caso di ordinanze di demolizione rimaste ineseguite,
l'atto, adottato dall'Amministrazione a notevole distanza di
tempo, per la riattivazione dell'esercizio del potere
rispristinatorio, deve essere preceduto da
un'adeguata, autonoma attività istruttoria e deve essere
congruamente motivato in ordine all'attualità dell'interesse
pubblico (01.12.2014 - link a www.diritto.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Coordinatore di cantiere: fin dove arriva il suo
controllo e la sua responsabilità?
La rivista "Ambiente&Sicurezza sul Lavoro" torna a
parlare delle figure di cantiere e degli obblighi di
sicurezza del coordinatore con riferimento alle sentenze più
interessanti in materia.
Nell'articolo "Vigilanza
in cantiere, limiti ai doveri di controllo del coordinatore"
si analizzano due sentenze una del Tribunale di Milano
Ufficio GIP, 23.01.2014 n. 27 e una del Tribunale di Como
Sez. Pen., 26.02.2014 n. 270, ove i giudici lombardi si sono
espressi recentemente ridefinendo compiti e ruoli del
coordinatore per la sicurezza, specificando che la sua
presenza in cantiere non deve essere costante e quotidiana,
ma tale da permettere l'esercizio del potere di
coordinamento.
In tal modo si ribadiscono i limiti della responsabilità del
Coordinatore, riconducendo la sua posizione di garanzia
nell'alveo degli obblighi fissati dalla legge, e
specificatamente dall'art. 92 del D.Lgs. 81/2008.
In particolare, la domanda che si pone il GIP è: "fino a
che punto il CSE deve spingersi nel controllo dell'attività
di cantiere?". E più in particolare: "era compito a
lui spettante il controllo del perfetto stato delle tavole
del ponteggio?".
Il giudice milanese, riportandosi alla lettera della norma
sottolinea che il suo compito è di coordinamento e di
aggiornamento del piano di sicurezza, di coordinamento delle
attività dei responsabili, ma non può sostituirsi agli
stessi.
Ad analoga soluzione perviene il Tribunale di Como che in
primis ribadisce il principio per cui, qualora ricorrano
diversi soggetti garanti, ognuno può essere considerato
responsabile solo se gli sia imputabile una qualche forma di
colpa riconducibile a quelli che sono i suoi specifici
obblighi, e l'eventuale pluralità di garanti implica che
tutti i soggetti devono contribuire ad assicurare
l'incolumità del lavoratore (Ambiente & Sicurezza sul
Lavoro n. 11/2014 - tratto da www.insic.it). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI SERVIZI:
Elementi che differenziano un appalto da una concessione.
Quando un operatore privato si assume i
rischi della gestione del servizio, rifacendosi
sostanzialmente sull'utente mediante la riscossione di un
qualsiasi tipo di canone, tariffa o diritto, allora si ha
concessione, ragione per cui può affermarsi che è la
modalità di remunerazione il tratto distintivo della
concessione dall'appalto di servizi.
Pertanto, si avrà concessione quando l'operatore si assume
in concreto i rischi economici della gestione del servizio,
rifacendosi essenzialmente sull'utenza, mentre si avrà
appalto quando l'onere del servizio venga a gravare
sostanzialmente sull'amministrazione.
Il Comune si pone il dubbio se sia possibile applicare
l'istituto del 'project financing di servizi',
previsto dall'art. 278 del DPR 207/2010 (per le concessioni
di servizi) per l'affidamento del 'servizio di gestione
della parte elettrica degli immobili comunali'; infatti
il Comune precisa che, nel caso di specie, esso verserebbe
all'affidatario un 'canone annuo onnicomprensivo' e
ciò lo porterebbe a configurare il rapporto come appalto di
servizi.
Il riscontro verrà quindi dato sul tratto distintivo tra
concessioni ed appalti.
Sulla questione, una recente pronuncia del Giudice
amministrativo di seconda istanza [1],
che conferma un filone giurisprudenziale maggioritario
[2], si è
così espressa: 'Quando un operatore privato si assume i
rischi della gestione del servizio, rifacendosi
sostanzialmente sull'utente mediante la riscossione di un
qualsiasi tipo di canone, tariffa o diritto, allora si ha
concessione, ragione per cui può affermarsi che è la
modalità della remunerazione il tratto distintivo della
concessione dall'appalto di servizi. Pertanto, si avrà
concessione quando l'operatore si assume in concreto i
rischi economici della gestione del servizio, rifacendosi
essenzialmente sull'utenza, mentre si avrà appalto quando
l'onere del servizio venga a gravare sostanzialmente
sull'amministrazione. Nel caso di specie (ndr: affidamento
di servizi relativi alla nautica di diporto) la
remunerazione spettante alla società in conseguenza
dell'affidamento consisteva unicamente nel corrispettivo
stabilito in sede di lex specialis...a carico
dell'amministrazione comunale e non si accompagnava in alcun
modo con ulteriori forme di remunerazione direttamente o
indirettamente ricadenti sui fruitori finali dei servizi. Ne
consegue che l'affidamento operato dal Comune nei confronti
della società deve qualificarsi non come concessione di
servizi bensì come appalto di servizi ai sensi del comma 10
dell'art. 3 del d.lgs. 163/2006'.
Si ritiene altresì utile citare un pronunciamento
[3]
dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture (ora Autorità nazionale anti
corruzione), la quale in relazione alla 'gestione della
rete degli impianti elettrici di tutti gli edifici comunali,
acquisto di energia elettrica, manutenzione ordinaria e
straordinaria, adeguamento tecnologico, riqualificazione e
risparmio energetico' ha così statuito: 'l'affidamento
è da configurare quale appalto di lavori o di servizi a
seconda della prevalenza dell'attività esercitata e non come
concessione'.
---------------
[1] C.St., sent. 21.05.2014, n. 2624.
[2] Ex multis: C. St., sent. 4.11.2012, n. 4682, 09.11.2011,
n. 5068.
[3] Deliberazione n. 12 del 26.01.2011 (09.12.2014
-
link a
www.regione.fvg.it). |
VARI: Bonus
mobili.
Domanda
Ho acquistato dei mobili utilizzando la carta di credito. Mi
è stato rilasciato uno scontrino. Avendo ristrutturato il
mio appartamento, posso usufruire dell'agevolazione del
risparmio Irpef del 50% per l'acquisto dei mobili?
Risposta
Ai fini della
detrazione, lo scontrino se riporta il codice fiscale
dell'acquirente e indica natura, qualità e quantità dei beni
acquistati, equivale alla fattura. Se manca il codice
fiscale, la detrazione è comunque ammessa se in esso è
indicata natura, qualità e quantità dei beni acquistati e se
esso è riconducibile al contribuente titolare della carta in
base alla corrispondenza con i dati del pagamento
(esercente, importo, data e ora).
In questo caso, la data di pagamento è individuata nel
giorno di utilizzo della carta di credito o di debito da
parte del titolare, che risulta nella ricevuta telematica di
avvenuta transazione, e non nel giorno di addebito sul conto
corrente del titolare stesso (circolare n. 29/13 - paragrafo
3.6)
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.12.2014). |
SEGRETARI
COMUNALI:
Segretari comunali. Percentuale quota diritti di rogito.
Il comma 2-bis dell'articolo 10 del d.l.
90/2014, convertito in l. 114/2014 dispone che, negli enti
locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e
comunque a tutti i segretari comunali che non hanno
qualifica dirigenziale, una quota del provento annuale
spettante al comune ai sensi dell'art. 30, secondo comma,
della l. 734/1973, come sostituito dal comma 2 del medesimo
articolo, per gli atti di cui ai numeri 1, 2, 3, 4 e 5 della
tabella D allegata alla l. 604/1962, e successive
modificazioni, è attribuita al segretario comunale rogante,
in misura non superiore a un quinto dello stipendio in
godimento.
Il Comune ha chiesto delucidazioni in ordine alla quota del
provento annuale, spettante all'Ente ai sensi dell'art. 30,
secondo comma, della l. 734/1973 come sostituito dall'art.
10, comma 2, del d.l. 90/2014, convertito in l. 114/2014, da
attribuire al proprio segretario rogante, inquadrato in
classe A. In particolare, l'amministrazione istante si è
posta il dubbio concernente la percentuale di detta quota,
considerato che l'art. 41, comma 4, della l. 312/1980 (che
fissava la percentuale del riparto in favore del segretario
rogante) risulta abrogato.
Preliminarmente si osserva che la richiamata norma, a
livello interpretativo, ha formato oggetto di dubbi e
criticità.
Pertanto, è doveroso precisare che l'Autorità competente a
fornire i chiarimenti del caso è il Ministero dell'Interno
(da cui dipendono i segretari comunali), in quanto trattasi
di aspetti che incidono sul trattamento economico della
predetta categoria.
Tuttavia, in via collaborativa, si ritiene comunque utile
esporre le seguenti considerazioni, in base al materiale
reperito al riguardo.
L'art. 10, comma 1, del d.l. 90/2014, convertito in l.
114/2014, ha innanzitutto abrogato l'art. 41, quarto comma,
della l. 312/1980 [1].
Il comma 2 del citato articolo ha poi sostituito l'art. 30,
secondo comma, della l. 734/1973, prevedendo che il provento
annuale dei diritti di segreteria è attribuito integralmente
al comune e alla provincia.
Il successivo comma 2-bis dell'articolo 10 in esame dispone
che, negli enti locali privi di dipendenti con qualifica
dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che
non hanno qualifica dirigenziale, una quota del provento
annuale spettante al comune ai sensi dell'art. 30, secondo
comma, della l. 734/1973, come sostituito dal comma 2 del
medesimo articolo, per gli atti di cui ai numeri 1, 2, 3, 4
e 5 della tabella D allegata alla l. 604/1962, e successive
modificazioni, è attribuita al segretario comunale rogante,
in misura non superiore a un quinto dello stipendio in
godimento.
In generale, sul contenuto del comma 2-bis, dell'art. 10 del
d.l. 90/2014, la Corte dei conti [2]
ha specificato che detta norma 'prevede e distingue le
due ipotesi legittimanti l'erogazione di quota dei proventi.
La prima, quella dei segretari preposti a comuni privi di
personale con qualifica dirigenziale, fattispecie in cui non
ritiene rilevante la fascia professionale in cui è
inquadrato il segretario preposto. La seconda, quella dei
segretari che non hanno qualifica dirigenziale, in cui
àncora l'attribuzione di quota dei diritti di rogito allo
status professionale del segretario preposto, prescindendo
dalla classe demografica del comune di assegnazione'.
Inoltre, con riferimento alla determinazione della quota
spettante, si osserva che, dall'attuale formulazione della
disposizione di cui si discute, come novellata, emerge tra
l'altro che non è stato riproposto alcun riferimento a
determinate percentuali, come in precedenza, ma è stato
fissato solo un limite massimo riferito allo stipendio in
godimento del segretario comunale.
La Corte dei conti [3]
ha ritenuto espressamente che'(....)laddove spettanti, i
proventi annuali dei diritti di segreteria e i diritti di
rogito vadano attribuiti al segretario comunale secondo una
quota che non può superare un quinto dello stipendio in
godimento (trattamento teorico della figura professionale
compresa la retribuzione di risultato) da calcolarsi in
relazione al periodo di servizio prestato nell'anno dal
segretario comunale o provinciale'.
Si è inoltre evidenziato che l'espressione adottata dal
legislatore, riferita al 'provento annuale' induce a
ritenere che gli importi dei diritti di segreteria e di
rogito vadano introitati integralmente al bilancio dell'ente
locale, per essere poi erogati, al termine dell'esercizio,
in una quota calcolata in misura non superiore al quinto
dello stipendio in godimento del segretario comunale, ove
spettante.
In conclusione, nella deliberazione da ultimo citata, si è
affermato che, nel silenzio della legge ed in assenza di
regolamentazione nell'ambito della contrattazione collettiva
di categoria, successiva alla novella normativa, i proventi
in esame sono attribuiti integralmente (e non in
percentuale) al segretario comunale, laddove gli importi
riscossi dal comune, nel corso dell'esercizio, non eccedano
i limiti della quota del quinto della retribuzione in
godimento del medesimo segretario.
---------------
[1] Tale disposizione recitava testualmente: 'Dal
01.01.1979, una quota del provento spettante al comune o
alla provincia ai sensi dell'articolo 30, secondo comma,
della legge 15.11.1973, n. 734, per gli atti di cui ai
numeri 1, 2, 3, 4 e 5 della tabella D allegata alla legge
08.06.1962, n. 604, è attribuita al segretario comunale e
provinciale rogante, in misura pari al 75 per cento e fino
ad un massimo di un terzo dello stipendio in godimento'.
[2] Cfr. sez. reg. di controllo per la Lombardia, n.
275/2014. Nella fattispecie esaminata si trattava di
segretario di classe A titolare di segreteria convenzionata
tra comuni tutti privi di dirigenti.
[3] Cfr. sez. reg. di controllo per la Sicilia, n.
194/2014/PAR (05.12.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Gli assessori non ruotano.
Alternarli sempre complica il lavoro dell'ente.
L'accordo sulla continua sostituzione in giunta è di dubbia
validità.
È legittima la rotazione nella nomina, da parte del sindaco,
di uno dei due assessori nell'ambito della giunta municipale
del comune?
Nella fattispecie in esame il consiglio comunale ha
specificato, con delibera, che il sindaco «ha deciso di dare
stabilità alla figura del vicesindaco, mentre per l'altro
assessore di fatto la nomina sarà ripartita tra più
consiglieri, alternandoli». Pertanto il vertice dell'ente,
al termine di ogni seduta di giunta, procede alla revoca
dell'assessore e alla contestuale nomina alla stessa carica
di un diverso consigliere, con riserva di comunicazione al
primo consiglio comunale utile.
In merito, l'articolo 46, comma 2, del decreto legislativo n.
267/2000 dispone che il sindaco nomina, nel rispetto del
principio di pari opportunità tra donne e uomini, i
componenti della giunta, tra cui un vicesindaco, e ne dà
comunicazione al consiglio nella prima seduta successiva
alla elezione.
Il successivo comma 3 prevede che entro il termine fissato
dallo statuto, il sindaco, sentita la giunta, presenta al
consiglio le linee programmatiche relative alle azioni e ai
progetti da realizzare nel corso del mandato, mentre il
comma 4 dà facoltà al sindaco di revocare uno o più
assessori, dandone motivata comunicazione al consiglio.
In tema di revoca degli assessori, la giurisprudenza ha
sempre affermato l'obbligo di motivazione del relativo
provvedimento sindacale, in virtù di quanto previsto dal
sopra citato comma 4.
Il consiglio di stato, sez. V con sentenza 12.10.2009
n. 6253, ha affermato che «l'obbligo di motivazione del
provvedimento di revoca dell'incarico di un singolo
assessore (o di più assessori) può senz'altro basarsi sulle
più ampie valutazioni di opportunità
politico-amministrative, rimesse in via esclusiva al
sindaco».
Anche il Tar della Puglia, Bari, sez. I, con sentenza 29.05.2012 n. 106, ha affermato che è «noto il consolidato
orientamento della giurisprudenza amministrativa, secondo
cui la natura ampiamente discrezionale del provvedimento di
revoca dell'incarico di assessore consente di ritenere
ammissibile una motivazione basata sulle più ampie
valutazioni di opportunità politica e amministrativa,
rimesse in via esclusiva al vertice dell'ente locale, in
quanto aventi ad oggetto un incarico fiduciario (cfr. Cons.
stato, sez. V, 23.02.2012 n. 1053 e i numerosi
precedenti ivi richiamati)».
In ordine alla specifica fattispecie, assume tuttavia
particolare rilevanza l'ordinanza n. 788/2009 del 21.10.2009
con la quale il Tar della Puglia, Lecce, sez. I, ha
affermato che il decreto di revoca della nomina ad assessore
adottato dal sindaco non può certamente trovare
giustificazione nell'accordo in ordine all'alternanza alla
carica di assessore raggiunto in seno a una delle forze
politiche che sostengono il sindaco; inoltre, la validità di
un simile accordo si presenta altamente problematica, in
considerazione dell'innegabile contrasto con interessi
pubblicistici di indubbio rilievo, come quello al buon
andamento dell'amministrazione o al rispetto della volontà
del corpo elettorale.
Si condividono, pertanto, le perplessità evidenziate dal Tar
Puglia con la citata ordinanza n. 788/2009, anche in
considerazione del fatto che la giunta, secondo la
previsione dell'articolo 36 del decreto legislativo n.
267/2000, è uno degli organi di governo del comune, e in
quanto tale assume una responsabilità di tipo collegiale di
fronte al consiglio, ai sensi dell'articolo 48 dello stesso
decreto, il quale tra l'altro, al comma 2, assegna a tale
organo compiti di collaborazione con il sindaco
nell'attuazione degli indirizzi generali del consiglio,
rispondendo allo stesso con cadenza annuale in merito alla
propria attività espletata e svolgendo compiti di proposta e
di impulso nei confronti del medesimo organo consiliare.
Peraltro, la continua rotazione degli assessori, richiedendo
sempre la conseguente comunicazione al consiglio,
comporterebbe un gravoso appesantimento delle procedure
formali, non agevolerebbe il lavoro collegiale della giunta
ed impedirebbe di risalire con chiarezza a eventuali
responsabilità in caso di non corretta gestione degli
assessorati di competenza. Inoltre nell'eventualità del
mancato rispetto del patto politico all'interno del
consiglio, l'eventuale revoca di un assessore, non
supportata da adeguata motivazione nei termini richiesti
dalla giurisprudenza, potrebbe esporre l'ente a possibili
contenziosi
(articolo ItaliaOggi
del 05.12.2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Comando e divieto attribuzione
assegno ad personam.
L'ARAN ha precisato che, in caso di
comando del dipendente presso altro ente o amministrazione,
secondo una regola generale ormai consolidata nella prassi
applicativa, il trattamento accessorio viene corrisposto
dall'ente presso il quale il lavoratore rende la propria
prestazione (con oneri a carico del medesimo ente
utilizzatore).
L'ente che utilizza il lavoratore rimborsa
all'amministrazione di appartenenza gli oneri relativi al
trattamento fondamentale.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad alcune
problematiche connesse alla posizione di un dipendente
ministeriale assegnato in comando presso l'Ente istante. In
particolare, l'Amministrazione rappresenta che il Ministero,
da cui l'interessato dipende, ha prospettato la sospensione
al medesimo della corresponsione dell'indennità di
amministrazione percepita, per tutta la durata del periodo
di comando, con la conseguenza che il Comune dovrebbe
provvedere ad erogare analoga indennità prevista dal
contratto di comparto.
Ciò posto, il Comune, in relazione alla previsione contenuta
nella legge di stabilità per il 2014, che abroga le norme
che prevedono, per le pubbliche amministrazioni,
l'attribuzione di un assegno ad personam
[1] nel
caso in cui il dipendente transiti da un'amministrazione
all'altra, chiede se detta statuizione riguardi anche la
fattispecie del comando e se, in caso affermativo, esista
un'opzione giuridica percorribile, atta ad evitare che il
dipendente in questione subisca di fatto una decurtazione
stipendiale.
Sentito il Servizio organizzazione, formazione, valutazione
e relazioni sindacali, preliminarmente si osserva che l'art.
70, comma 12, del d.lgs. 165/2001 prevede che 'in tutti i
casi, anche se previsti da normative speciali, nei quali
enti pubblici territoriali, enti pubblici non economici o
altre amministrazioni pubbliche, dotate di autonomia
finanziaria, sono tenute ad autorizzare la utilizzazione da
parte di altre pubbliche amministrazioni di proprio
personale, in posizione di comando, di fuori ruolo, o in
altra analoga posizione, l'amministrazione che utilizza il
personale rimborsa all'amministrazione di appartenenza
l'onere relativo al trattamento fondamentale'.
A tal proposito, l'ARAN ha precisato che, in caso di comando
del dipendente presso altro ente o amministrazione, secondo
una regola generale ormai consolidata nella prassi
applicativa, il trattamento accessorio viene corrisposto
dall'ente presso il quale il lavoratore rende la propria
prestazione (con oneri a carico dell'ente utilizzatore)
[2].
Inoltre, la predetta Agenzia ha specificato che a mente di
quanto disposto dall'art. 70, comma 12, del d.lgs. 165/2001,
l'ente che utilizza il lavoratore deve rimborsare
all'amministrazione di appartenenza gli oneri relativi al
trattamento fondamentale.
Pertanto, il rimborso relativo alla retribuzione del
dipendente interessato, da parte dell'ente utilizzatore
all'amministrazione di appartenenza, dovrà rispettare i
principi sopra indicati.
Si rileva peraltro che, da quanto esplicitato dal Ministero
dell'economia e delle finanze [3],
risulta che l'indennità di amministrazione è una componente
del trattamento accessorio, seppure a carattere fisso e
continuativo.
A tal proposito, si osserva che, in relazione a quanto
asserito dall'ARAN, per quanto attiene al trattamento
accessorio da corrispondere al personale collocato in
posizione di comando, il principio generale è quello che a
tali dipendenti spetti comunque l'indennità di
amministrazione ed, in genere, il trattamento accessorio
dell'amministrazione presso la quale gli stessi prestano
servizio [4].
Si soggiunge inoltre che l'indennità di comparto, poi
ridefinita 'salario aggiuntivo per il personale degli enti
locali' dall'art. 70 del CCRL del 07.12.2006, non può
ritenersi corrispondente in via analogica all'indennità di
amministrazione del comparto Ministeri, in quanto trova la
propria giustificazione in un'ottica di uniformità
applicativa a livello di comparto unico, sia sotto il
profilo terminologico che sostanziale, ed è finalizzata
esclusivamente ad equiparare il trattamento economico del
personale degli enti locali al trattamento in godimento del
personale regionale.
Premesso un tanto, l'art. 1, comma 458, della l. 147/2013
(legge di stabilità 2014) ha abrogato l'art. 202 del d.p.r.
3/1957 [5],
come anche l'art. 3, commi 57 e 58, della legge 24.12.1993,
n. 537 [6].
Il successivo comma 459 dell'articolo 1 in esame stabilisce
altresì che, in conseguenza di quanto disposto dal
precedente comma 458, le amministrazioni interessate
adeguino i trattamenti economici e giuridici degli
interessati a partire dalla prima mensilità successiva alla
data di entrata in vigore della stessa legge di stabilità.
Si osserva al riguardo che, secondo l'ANCI
[7], le richiamate
disposizioni si applicano al personale dello Stato, per il
quale i passaggi di carriera sono di norma disciplinati
dalla legge e non dalla contrattazione collettiva come
avviene invece per il personale del comparto enti locali,
che ha previsto disposizioni similari [8],
con erogazione di assegni ad personam riassorbibili,
con specifico riferimento peraltro ai casi di progressioni
verticali e di passaggio da un ente all'altro per mobilità.
In relazione all'istituto della mobilità, appare rilevante
per il caso che ci occupa quanto affermato da certa
dottrina, che ha richiamato fra l'altro anche orientamenti
giurisprudenziali formatisi in proposito
[9].
Si è evidenziato, infatti, che secondo il prevalente
orientamento, i c.d. assegni perequativi ad personam
in favore del personale transitato in altre amministrazioni
[10] sono
configurabili solo qualora il trasferimento del dipendente
pubblico assuma caratteristiche di stabilità
[11].
Pertanto, 'si deve tendenzialmente escludere che gli
emolumenti in questione siano riconoscibili nel caso di mero
distacco o comando del dipendente pubblico presso altra
amministrazione -in quanto fattispecie connotate dalla
temporaneità e reversibilità degli effetti- mentre si deve
ritenere che essi trovino sicuramente applicazione nel caso
di procedure di mobilità che, invece, comportano il
trasferimento definitivo del dipendente nei ruoli
dell'amministrazione di destinazione'.
Infatti, tramite l'istituto del comando, il dipendente
pubblico viene autorizzato, con specifico provvedimento
amministrativo, a prestare servizio presso altra
amministrazione o presso altro ente pubblico, per un periodo
determinato, in via eccezionale e per riconosciute esigenze
di servizio, determinandosi una modificazione solo in senso
oggettivo [12]
del rapporto di servizio.
---------------
[1] Al fine di assicurare un'integrazione del trattamento
stipendiale volta a mantenere inalterato il miglior
trattamento economico già conseguito dal dipendente.
[2] Cfr. pareri RAL 438 e M21 (personale dei Ministeri),
consultabili in: www.aranagenzia.it.
[3] Cfr. circolare del Dipartimento della Ragioneria
Generale dello Stato n. 12 del 15.04.2011.
[4] Cfr. parere M114.
[5] Detta norma recitava: 'Nel caso di passaggio di carriera
presso la stessa o diversa amministrazione agli impiegati
con stipendio superiore a quello spettante nella nuova
qualifica è attribuito un assegno personale, utile a
pensione, pari alla differenza fra lo stipendio già goduto
ed il nuovo, salvo riassorbimento nei successivi aumenti di
stipendio per la progressione di carriera anche se
semplicemente economica'.
[6] Si riporta il testo di dette norme: '57. Nei casi di
passaggio di carriera di cui all'articolo 202 del citato
testo unico approvato con decreto del Presidente della
Repubblica 10.01.1957, n. 3, ed altre analoghe disposizioni,
al personale con stipendio o retribuzione pensionabile
superiore a quello spettante nella nuova posizione è
attribuito un assegno personale pensionabile, non
riassorbibile e non rivalutabile, pari alla differenza fra
lo stipendio o retribuzione pensionabile in godimento
all'atto del passaggio e quello spettante nella nuova
posizione. 58.L'assegno personale di cui al comma 57 non è
cumulabile con indennità fisse e continuative, anche se non
pensionabili, spettanti nella nuova posizione, salvo che per
la parte eventualmente eccedente'.
[7] Cfr. parere del 18.07.2014.
[8] Cfr. art. 28 del CCNL comparto Regioni-Autonomie locali
del 05.10.2001.
[9] Cfr. Leonardo Cipriano, Non sempre il trasferimento del
dipendente pubblico comporta il riconoscimento di un assegno
perequativo non riassorbibile, consultabile in
www.diritto.it.
[10] Al fine di colmare le eventuali differenze tra il
maggior trattamento economico già percepito presso
l'amministrazione di provenienza e quello in godimento
presso l'amministrazione di destinazione.
[11] Cfr. Cons. di Stato, sez. IV, sentenza n. 66/2002;
Cass. Civ., sez. lavoro, n. 5959 del 2012, con riferimento
esclusivamente ai casi di definitivo trasferimento di
personale.
[12] Atteso che il dipendente viene destinato in via
ordinaria ed abituale a svolgere le proprie prestazioni
lavorative nell'ambito di una diversa organizzazione nella
quale egli viene inserito sia a livello funzionale che
gerarchico (01.12.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Procedimenti
disciplinari.
Domanda
Nell'ambito di un procedimento disciplinare il diritto di
accesso del dipendente pubblico può estendersi alle denunce
e agli esposti che hanno attivato la procedura?
Risposta
Il soggetto che subisce un procedimento di controllo o
ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere
integralmente tutti i documenti utilizzati
dall'amministrazione nell'esercizio del potere di vigilanza,
compresi gli esposti e le denunce che hanno determinato
l'attivazione di tale potere (Cds, sez. IV, 19.01.2012,
n. 231; sez. V, 19.05.2009, n. 3081).
Il diritto alla riservatezza non può essere invocato quando
la richiesta di accesso ha a oggetto il nome di coloro che
hanno reso denunce o rapporti informativi nell'ambito di un
procedimento ispettivo. Infatti, al diritto alla
riservatezza, non può riconoscersi un'estensione tale da
includere il diritto all'anonimato di colui che rende una
dichiarazione a carico di terzi, tanto più che l'ordinamento
non attribuisce valore giuridico positivo all'anonimato (Cds,
sez. VI, 25.06.2007, n. 3601).
Il Consiglio di stato, sez. V, con sentenza 28.09.2012 n.
5132 ha precisato che la conoscenza integrale dell'esposto
rappresenta uno strumento indispensabile per la tutela degli
interessi giuridici in quanto solo in questo modo è
possibile proporre eventualmente denuncia per calunnia a
tutela dell'onorabilità
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'01.12.2014). |
APPALTI: Richiesta
di rating ai garanti.
Domanda
Nei bandi di gara è possibile inserire la richiesta di
rating ai garanti?
Risposta
La richiesta, da parte delle stazioni appaltanti, di rating
pari o superiore a un determinato minimo attribuito dalle
società di certificazione internazionale è una previsione
che si pone in violazione dei principi di cui all'articolo 2
del Codice degli appalti. Infatti, una simile richiesta
introduce restrizioni non previste dal Codice che non
appaiono neppure correlate e proporzionate con gli obiettivi
che si intende perseguire.
I correttivi introdotti da talune amministrazioni
aggiudicatrici alleviano leggermente gli effetti delle
restrizioni poste, ma non appaiono sufficienti a garantire
condizioni di pari concorrenza tra le imprese sul mercato (Avcp
Determinazione n. 1 del 29/07/2014 - Problematiche in ordine
all'uso della cauzione provvisoria e definitiva - artt. 75 e
113 del Codice).
La richiesta di rating ai garanti, inserita nei bandi di
gara, determina disparità tra i soggetti che operano nel
mercato creditizio/finanziario e potrebbe limitare la
partecipazione alle gare delle imprese che segnalano
difficoltà a reperire le garanzie necessarie per accedere
alla gara d'appalto.
Nella Determinazione n. 2 del 13.03.2013 -Questioni concernenti l'affidamento dei servizi
assicurativi e di intermediazione assicurativa- l'Avcp ha
osservato che, piuttosto che valutare la qualità delle
imprese di assicurazione sulla base del rating, è
preferibile ricorrere ad altri indicatori quali l'indice di
solvibilità, congiuntamente alla raccolta premi specifica
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'01.12.2014). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Servizi
legali.
Domanda
Per l'affidamento di un servizio legale in un ente locale è
necessario avviare una selezione pubblica o è possibile un
affidamento in via fiduciaria?
Risposta
L'affidamento dei servizi legali deve avvenire nel rispetto
di una procedura di selezione pubblica, ai sensi dell'art.
7, comma 6, del dlgs 165/2001 – Testo Unico sul Pubblico
Impiego.
L'oggetto del servizio legale non si esaurisce nel
patrocinio legale a favore dell'Ente, ma rientra nella
nozione più ampia di consulenza legale che presuppone una
procedura comparativa idonea a consentire, a tutti gli
aventi diritto, di partecipare alla selezione per la scelta
del miglior contraente.
Il Tar Campania, sez. II, con sentenza del 16/07/014 n. 1383
ha ribadito la distinzione tra patrocinio e servizio legale:
il primo è un contratto volto a soddisfare il bisogno di
difesa giudiziale dell'ente, inquadrabile nell'ambito della
prestazione d'opera intellettuale, il servizio legale,
invece, costituisce, per organizzazione e complessità,
un'attività più articolata che giustifica la previsione di
una selezione pubblica
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'01.12.2014). |
TRIBUTI: Tassa
rifiuti per il garage.
Domanda
La tassa rifiuti per un garage, anche se non produce
rifiuti, è sempre e comunque dovuta?
Risposta
No, tuttavia è onere del contribuente indicare nella
denuncia relativa al tributo (quella originaria o quella di
variazione) e fornire la prova (in base ad elementi
obiettivamente rilevabili dall'ente impositore o con altra
idonea documentazione) che il garage in questione non può
produrre rifiuti (e, quindi, non può essere assoggettato
alla tassa) per sua natura o per il particolare uso cui è
stabilmente destinato o perché si trova in condizioni di
obiettiva inutilizzabilità.
Solo in tal modo può essere
vinta la presunzione legale relativa di produzione di
rifiuti da parte dei locali posseduti o detenuti. In questo
senso si è espressa la recente ordinanza 23505/14 della
Cassazione, che ha anche sottolineato come tale
dimostrazione non sia suscettibile di essere «ritenuta in
modo presunto dal giudice», bensì dimostrata da parte del
contribuente.
Tale ordinanza fa seguito ad altre analoghe recenti pronunce
della Cassazione, tra le quali l'ordinanza 8245/2014 e le
sentenze 11351/2012 e 17703/2004
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'01.12.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Ferie.
Con riferimento alle fattispecie -che si
configurano patologiche e che perciò dovrebbero verificarsi
eccezionalmente- di mancata fruizione delle ferie per
ragioni di servizio entro il primo semestre dell'anno
successivo o di inerzia del dipendente nel richiederle,
l'Aran ritiene possibile che l'interessato possa fruirne
anche oltre i termini contrattualmente stabiliti, atteso che
si tratta di diritto irrinunciabile.
In tale ipotesi spetta comunque all'amministrazione fissare
i periodi di fruizione, in applicazione dell'art. 2109 del
codice civile.
Il Comune ha chiesto se sia lecito, in virtù del principio
di irrinunciabilità delle ferie, concedere la fruizione di
ferie residue relative all'anno 2013, non fruite entro i
termini stabiliti dal contratto collettivo di lavoro. L'Ente
precisa che il dipendente interessato non ha presentato
formale istanza e che il medesimo è stato assente 53 giorni
per malattia.
Preliminarmente si osserva che allo stato attuale la
disciplina applicabile in materia agli enti locali del
comparto unico risulta ancora l'art. 18 del CCNL del
06.07.1995 [1].
Pertanto, appare utile soffermarsi su alcune indicazioni
interpretative fornite in proposito dall'ARAN.
La predetta Agenzia ha innanzitutto specificato che ciascun
ente, in base alle previsioni contemplate al richiamato
articolo 18, è tenuto a governare in maniera responsabile
l'istituto delle ferie, attraverso una corretta
programmazione delle stesse, in quanto la fruizione non può
essere imputata esclusivamente alla volontà del dipendente
[2].
Premesso un tanto, si è richiamato il disposto dell'art.
2109 del codice civile, che stabilisce espressamente che le
ferie sono assegnate dal datore di lavoro, tenuto conto
delle esigenze dell'impresa e degli interessi del
lavoratore. In virtù di detto principio, è pertanto
consentito alle amministrazioni anche procedere
all'assegnazione d'ufficio delle ferie.
L'ARAN ha rimarcato in particolare come la disciplina
contenuta nei contratti collettivi di lavoro in materia di
ferie conservi tuttora la propria validità ed efficacia,
rappresentando un preciso vincolo negoziale.
Conseguentemente i termini di fruizione delle ferie previsti
dall'art. 18 del CCNL del 06.07.1995 devono ritenersi
prevalenti rispetto a quelli contemplati nel d.lgs. 66/2003,
considerata l'esplicita salvaguardia della disciplina
contrattuale contenuta nel medesimo decreto
[3].
Pertanto, i termini da rispettare per la fruizione delle
ferie sono quelli indicati all'art. 18 del citato contratto
nazionale, sia per l'eventuale differimento dovuto ad
esigenze personali (entro il 30 aprile dell'anno successivo
a quello di maturazione del diritto), sia per quanto
concerne il differimento per esigenze di servizio (30 giugno
dell'anno successivo).
L'ARAN ha inoltre chiarito che la violazione di detti
termini si può tradurre in un inadempimento contrattuale,
anche suscettibile di dar luogo a contenzioso giudiziario.
Con specifico riferimento poi alla fattispecie della mancata
fruizione delle ferie per ragioni di servizio entro il primo
semestre o al caso in cui la mancata fruizione derivi
dall'inerzia del dipendente, che non ha provveduto a
richiederle dopo tale termine, la predetta Agenzia ha
fornito le ulteriori considerazioni [4].
Si è evidenziato che le fattispecie richiamate configurano
ipotesi patologiche, che dovrebbero verificarsi solo in casi
eccezionali. Ad ogni buon conto, considerato che deve
comunque ritenersi esclusa la possibilità di monetizzare le
ferie non godute [5]
e che le stesse sono un diritto irrinunciabile, si è
ritenuto possibile che il dipendente possa fruirne anche
oltre i termini temporali contrattualmente stabiliti. In
tale ipotesi -si è precisato- spetta comunque
all'amministrazione fissare i periodi di fruizione, in
applicazione dell'art. 2109 del codice civile, anche in
mancanza di formale richiesta del dipendente (le ferie sono
assegnate dal datore di lavoro, tenuto conto delle esigenze
dell'amministrazione e degli interessi del lavoratore).
Alla luce del ricostruito quadro legale e contrattuale in
materia, l'ARAN afferma in conclusione che l'attribuzione e
la fruizione delle ferie deve avvenire ad ogni buon conto
entro l'anno solare successivo a quello di maturazione e
comunque entro i termini fissati dal d.lgs. 66/2003.
---------------
[1] Cfr. art. 83 del CCRL del 07.12.2006, che conferma la
disciplina del CCNL del 06.07.1995, per le parti non
disapplicate dalla contrattazione collettiva regionale.
[2] Cfr. RAL 1424, consultabile sul sito:
www.aranagenzia.it.
[3] Cfr. art. 10, comma 1, del d.lgs. 66/2003.
[4] Cfr. RAL 498.
[5] Cfr. art. 5, comma 8, del d.l. 95/2012, convertito in l.
135/2012 e Dipartimento della funzione pubblica, nota n.
40033 dell'08.10.2012 (28.11.2014 -
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CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI:
Pubblicazione sul sito istituzionale del Comune della
registrazione delle sedute del consiglio comunale.
Ammissibilità.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla
possibilità di pubblicare sul sito istituzionale dell'Ente
la registrazione audio delle sedute consiliari. A tal fine
precisa che il regolamento sul funzionamento del consiglio
comunale prevede la registrazione della seduta ma nulla dice
in merito alla possibilità o meno di pubblicazione della
stessa.
In via generale, si osserva che il funzionamento dei
consigli, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è
disciplinato dal regolamento (articolo 38, comma 2, TUEL).
È, pertanto, nell'ambito delle norme interne dell'ente
locale, che dovrebbero rinvenirsi le disposizioni sulla
possibilità di registrazione del dibattito, con indicazione
delle relative modalità e limiti e con disciplina della
eventuale successiva pubblicazione dei dati registrati.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale
dell'Ente prevede, all'articolo 6 bis, la registrazione su
nastro o altro supporto elettronico della seduta consiliare.
Il comma 9 dell'indicata norma recita, in particolare: 'Per
l'ascolto da parte dei consiglieri o di terzi verranno messe
a disposizione copie dei supporti originali indicati nel
precedente comma 3'. [1]
Premesso che l'interpretazione delle norme del regolamento
consiliare spetta all'organo che lo ha approvato, si ritiene
che la norma da ultimo citata, nell'indicare la modalità di
messa a disposizione dell'avvenuta registrazione, potrebbe
includere anche quella concretizzantesi nella pubblicazione
della stessa sul sito istituzionale dell'Ente. Atteso,
infatti, che l'ascolto è consentito a qualsiasi terzo che ne
faccia richiesta e implicherebbe l'obbligo per il Comune di
procedere alla duplicazione dell'originale della
registrazione su altri supporti magnetici, si ritiene che la
pubblicazione rappresenterebbe una modalità meno gravosa per
gli uffici i quali con la pubblicazione -che verrebbe
effettuata una tantum in conseguenza delle sedute
consiliari- assolverebbero alla richiesta di messa a
disposizione della registrazione verso la generalità degli
interessati.
Si consideri, altresì, che, come affermato dal Garante per
la protezione dei dati personali, [2]
'l'ente locale, dovrebbe fare, opportunamente, largo uso
di nuove tecnologie che facilitino la conoscenza da parte
dei cittadini, tenuto conto anche del diritto all'utilizzo
nei loro confronti delle tecnologie telematiche (art. 3
d.lg. 07.03.2005, n. 82, recante il 'Codice
dell'amministrazione digitale')' e la pubblicazione sul
sito istituzionale dell'Ente verrebbe incontro ad una tale
esigenza.
Per completezza espositiva, si ricorda la necessità di
limitare la registrazione o 'oscurare' le parti di
essa contenenti dati sensibili o concernenti la riservatezza
di determinati soggetti o questioni affrontate nel dibattito
consiliare. [3]
Ciò affermato, ribadito che compete al consiglio comunale
l'interpretazione della suddetta norma regolamentare, si
suggerisce, per risolvere eventuali incertezze, di
disciplinare in maniera espressa e inequivoca la questione
della pubblicazione della registrazione delle sedute
consiliari, ad integrazione dell'articolo 6 bis del proprio
regolamento.
---------------
[1] Il comma 3 dell'articolo 6-bis prevede la
registrazione degli interventi su nastro o altro supporto
elettronico.
[2] Garante per la protezione dei dati personali, 'Linee
guida in materia di trattamento di dati personali per
finalità di pubblicazione e diffusione di atti e documenti
di enti locali', deliberazione n. 17 del 19.04.2007.
[3] È finalizzata a soddisfare, in parte, tale esigenza la
previsione di cui all'articolo 6 bis, comma 10, del
regolamento del consiglio comunale il quale recita:
'L'impianto di registrazione verrà disattivato durante la
discussione di proposte trattate in seduta segreta' (21.11.2014
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ATTI
AMMINISTRATIVI:
Presentazione al sindaco di documenti personali da parte di
privati cittadini. Obblighi dell'amministrazione comunale.
Le richieste personali dei privati
cittadini, anche correlate al deposito di singoli documenti,
possono essere avanzate all'amministrazione comunale nelle
forme e modalità previste dalla normativa vigente e,
pertanto, mediante presentazione agli uffici amministrativi
competenti all'istruttoria -non, invece al consiglio
comunale-, alla luce del principio di separazione delle
funzioni tra organi di indirizzo politico e organi
amministrativi.
Il Comune, sentito anche per le vie brevi, chiede se il
sindaco sia obbligato a far pervenire al consiglio comunale
o a singoli consiglieri determinati documenti di carattere
privato, recapitatigli da un cittadino, come richiesto dallo
stesso. In particolare, si tratterebbe di materiale
documentale concernente questioni di interesse individuale
del privato, quali lettere, atti rilasciati
dall'Amministrazione a tale soggetto od osservazioni dello
stesso e documenti di vario genere relativi a vertenze
esistenti tra il cittadino e il Comune.
Al quesito posto si ritiene di fornire risposta negativa.
Com'è noto il consiglio comunale, ai sensi dell'articolo 42
del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, è organo di
indirizzo e di controllo politico-amministrativo. Le sue
competenze, elencate all'articolo 42, comma 2, sono
attinenti all'adozione degli atti fondamentali ivi indicati.
Risulta, pertanto, estraneo ai compiti del consiglio l'esame
di documenti presentati da un cittadino e concernenti sue
situazioni conflittuali esistenti con il Comune.
Si ritiene che richieste personali, anche con deposito di
singoli documenti, possano essere avanzate
all'amministrazione comunale nelle forme e modalità previste
dalla normativa vigente e, pertanto, mediante presentazione
agli uffici amministrativi competenti all'istruttoria (e non
già al consiglio comunale), alla luce del principio di
separazione delle funzioni tra organi di indirizzo politico
e organi amministrativi.
Non può, peraltro, escludersi la possibilità che la
documentazione depositata presso gli uffici comunali venga
inoltrata agli organi politici (di solito singoli
assessori), ad esempio, in caso di presentazione da parte di
un privato cittadino di segnalazioni su questioni di
generale interesse della collettività comunale.
Tale fattispecie risulta, tuttavia, differente da quella in
esame, atteso che le segnalazioni si sostanziano in
suggerimenti, reclami o descrizione di determinate
situazioni che possono incidere sull'attività della pubblica
amministrazione e non riguardano, invece, controversie
personali di un individuo in essere con il Comune (13.11.2014
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NEWS |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Paletti per la rinnovata Aia. Limiti per le ispezioni e la
sospensione delle operazioni. La circolare
n. 22295/2014 del ministero chiarisce i confini
dell'autorizzazione ambientale.
Le attività accessorie vanno sottoposte ad «autorizzazione
integrata ambientale» solo se influenti sull'esercizio di
quella principale, già sottoposta ad «Aia» per l'alto
potenziale inquinante.
Con
nota 27.10.2014 n.
22295 di prot. il ministero dell'ambiente detta le prime «linee di
indirizzo» sull'applicazione della nuova disciplina in
materia di «prevenzione e riduzione integrate
dell'inquinamento» in vigore dallo scorso 11.04.2014,
circoscrivendo il campo di applicazione delle novità
introdotte nel dlgs 152/2006 dal dlgs 46/2014 (recante
attuazione della direttiva 2010/75/Ue sull'«Integrated
Pollution Prevention and Control», cd. «Ippc», altresì
tradotta sul piano nazionale con il termine citato di
«Aia»).
Tra i chiarimenti del dicastero anche la conduzione
delle ispezioni negli impianti, che devono essere limitate
alle modalità applicative dell'autorizzazione e a nuovi
rischi ambientali, così come l'irrogazione della sospensione
dalle operazioni, possibile unicamente per reiterate
violazioni delle medesime prescrizioni o per imminente danno
all'ecosistema.
Attività sottoposte ad «Aia». La circolare MinAmbiente
precisa quali siano le «attività accessorie tecnicamente
connesse» a quella principale che, costituendo con
quest'ultima una unica «installazione» (nuova nozione che ha
sostituito quella di «impianto»), devono essere ricomprese
nell'autorizzazione integrata ambientale. Il Dicastero
sottolinea come le attività accessorie coincidano con quelle
svolte nello stesso o contiguo «sito» direttamente connesso
con quello dell'attività principale per mezzo di
infrastrutture tecnologiche funzionali alla sua conduzione e
le cui modalità di svolgimento abbiano qualche implicazione
tecnica con l'attività primaria (come nel caso in cui il
«fuori servizio» di quelle connesse determini direttamente o
indirettamente problemi all'esercizio della principale).
Ma
questo, precisa il ministero, al netto delle infrastrutture
costituite da reti di distribuzione o collettamento (come
reti elettriche, reti idriche, metanodotti) a meno che non
siano in via principale e prioritaria dedicate alle attività
coinsediate, o di estensione limitata al sito. Ancora, il
MinAmbiente precisa come per «sito» in cui sono collocate le
installazioni (tecnicamente il «luogo», ex nuovo articolo 5
del dlgs 152/2006) debba intendersi quello definito dal
regolamento (Ce) n. 761/2001 (in tema di ecogestione) come
«tutto il terreno, in una zona geografica precisa, sotto il
controllo gestionale di un'organizzazione che comprende
attività, prodotti e servizi. Esso include qualsiasi
infrastruttura, impianto e materiali».
Migliori tecniche disponibili. Gli standard (meglio noti
come «Bat» «Best Available Techniques») che gli impianti
industriali devono rispettare per poter ottenere
l'autorizzazione integrata ambientale sono, per i
procedimenti Aia avviati dal 07.01.2013 (termine dal
quale il nuovo dlgs 46/2014 fa partire il cd. «periodo
transitorio») quelli direttamente stabiliti dall'Ue. E solo
in via residuale (per assenza di nuovi riferimenti o
lacunosità degli stessi), precisa il MinAmbiente, quelli
nazionali adottati sulla base del dlgs 372/1999 o del dlgs
59/2005 (disciplina previgente).
Il chiarimento poggia su
una delle più rilevanti innovazioni introdotte dalla
riformulazione della disciplina, ossia l'obbligo per le
Autorità competenti al rilascio dell'«Aia» (e dunque, a
valle, per i gestori delle installazioni) di osservare le
ultime «Bat» definite direttamente dalla Commissione Ue,
senza aspettare (come nella pregressa normativa) la loro
declinazione sul piano nazionale tramite decreti
ministeriali.
Gestione di rifiuti. Con la circolare in parola arrivano
anche delucidazioni su particolari installazioni di
trattamento rifiuti che rientrano nella nuova disciplina
«Aia», come quelle di frantumazione e incenerimento. I
frantumatori che fanno scattare, unitamente alle dimensioni
dell'impianto e alla tipologia di rifiuti trattati, gli
obblighi autorizzatori, sono quelli che determinano «con
azione meccanica la riduzione in pezzi e frammenti di un
rifiuto costituito da un oggetto metallico, allo scopo di
ottenere residui di metallo riciclabili», coincidenti con i
dispositivi denominati «shredder» nella versione inglese
della direttiva 2010/75/Ue e già contemplati dal dlgs
209/2003 (recante attuazione della direttiva 2000/53/Ce sui
veicoli fuori uso).
La «capacità di incenerimento» che fa
scattare, oltre certe soglie, gli obblighi «Aia» per i
relativi impianti di combustione coincide invece con la
«capacità nominale» rintracciabile nell'articolo 237-ter del dlgs 152/2006, quale «somma delle capacità di incenerimento
dei forni che costituiscono un impianto di incenerimento o
coincenerimento dei rifiuti, quali dichiarate dal
costruttore e confermate dal gestore, espressa in quantità
di rifiuti che può essere incenerita in un'ora, rapportata
al potere calorifico dichiarato dei rifiuti».
Relazione di riferimento. Fondamentale per i gestori delle
installazioni, avverte il MinAmbiente, sarà la tempestiva
presentazione alle Autorità della nuova «relazione di
riferimento» recante le informazioni su qualità del suolo e
delle acque sotterranee (necessaria per un raffronto con lo
stato al momento della cessazione definitiva delle
attività).
Il ritardo nella predisposizione della Relazione
(i cui contenuti devono essere definiti, ex articolo
29-sexies del dlgs 152/2006, da apposito decreto
ministeriale, già predisposto dal Dicastero lo scorso 13
novembre ma ancora non pubblicato) potrà infatti determinare
per i gestori un blocco delle istanze relative alla
procedura di «Aia» (nuova o di adeguamento).
Rinnovi. Tra le fondanti novità del dlgs 46/2014 vi è
l'abolizione della procedura di «rinnovo»
dell'autorizzazione integrata, fusa con quella di «riesame»
da parte dell'Autorità pubblica al verificarsi di
determinati presupposti (nuove «Bat» intervenute, decorso di
10 anni da rilascio o precedente riesame, esito negativo di
controlli, valori inquinanti da abbassare ulteriormente).
Il MinAmbiente chiarisce in merito alle diverse situazioni che
possono interessare i gestori degli impianti, e ciò alla
luce del sofisticato sistema transitorio dettato dal dlgs
46/2014, il quale distingue tra le installazioni in possesso
di una autorizzazione ambientale al 06.01.2013 o che
entro lo stesso termine ne abbiano fatto domanda e poi
avviato la propria attività entro il 06.01.2014
(definite dal dlgs 46/2014 come «installazioni esistenti») e
le (residuali) «installazioni nuove».
Chiarisce infatti il MinAmbiente che: i provvedimenti Aia rilasciati dopo l'11.04.2014 (data di entrata in vigore della nuova
disciplina) non possono più prevedere obbligo di rinnovo
periodico e le relative istanze pendenti devono essere
archiviate su domanda dei gestori; i procedimenti di rinnovo
avviati dopo il 07.01.2013 e ancora in corso devono
essere convertititi in procedimenti di riesame; i termini di
scadenza dei provvedimenti «Aia» in vigore all'11.04.2014 sono prorogati (con un raddoppio).
Controlli e ispezioni. Il Dicastero chiarisce i confini
delle più stringenti ispezioni affidate dalla nuova
disciplina alle Autorità di controllo, ora chiamate (dal neo
articolo 29-sexies, dlgs 152/2006) a effettuare «l'esame di
tutta la gamma degli effetti ambientali indotti dalle
installazioni».
Per il MinAmbiente tali sopralluoghi non
potranno riguardare tutti i rischi già valutati in sede di
rilascio dell'«Aia», ma andranno condotti nell'ambito di
quanto programmato da quest'ultima, limitando quindi gli
eventuali approfondimenti istruttori alle sole modalità
applicative del «Piano di monitoraggio e controllo» e alla
presenza di possibili problematiche non già valutate.
Sospensione delle autorizzazioni. La circolare 27.10.2014 circoscrive infine le previste ipotesi di sospensione
dell'«Aia» per reiterate violazioni o immediato pericolo per
l'ambiente. In merito alla sospensione a causa di violazione
delle prescrizioni Aia per «più di due volte l'anno», il MinAmbiente
precisa come il periodo da considerare sia esclusivamente
quello dei 365 giorni precedenti l'ultimo accertamento e il
conteggio vada effettuato solo sulle violazioni dello stesso
precetto (come, per esempio, l'inosservanza del medesimo
limite di emissione, per la medesima sostanza, in
corrispondenza del medesimo punto di emissione).
Le sospensioni, invece, dovute a «situazioni di immediato
pericolo o danno per l'ambiente o per la salute umana»
potranno scattare solo per violazione di esplicite
prescrizioni «Aia» suscettibili di determinare
nell'immediato futuro effetti negativi sull'ambiente. E
quindi non per violazioni di obblighi normativi non
esplicitamente richiamati nell'autorizzazione (come
l'inosservanza di valori limite di emissione per sostanze
non ritenute pertinenti e significative a valle
dell'istruttoria e pertanto non fissati degli atti) o per
quelle che non causano effetti immediati (come la mancata
trasmissione alle Autorità di piani di adeguamento da
realizzare in anni successivi) o le cui ripercussioni sono
terminate (come il superamento «una tantum» di un valore di
emissione in condizioni di normale esercizio)
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.12.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO: Funzione pubblica.
Stop parziale agli incarichi ai pensionati.
Lo stop agli incarichi ai
pensionati, nella versione rafforzata dal decreto sulla
Pubblica amministrazione (articolo 6 del Dl 90/2014),
riguarda solo le attività espressamente indicate dalla
norma, e non può essere oggetto di interpretazioni
estensive. Al blocco, inoltre, sfuggono gli incarichi
conferiti prima del 25 giugno scorso, data di entrata in
vigore della norma, che quindi possono tranquillamente
arrivare alla loro scadenza.
A fissare la geografia del blocco, proponendo un ambito di
applicazione più ristretto di quello circolato in alcune
interpretazioni di questi mesi, è la Funzione pubblica,
nella circolare
04.12.2014 n. 6/2014 che si è resa necessaria per superare le tante
incertezze incontrate dalle amministrazioni.
La norma, spiega la circolare, serve a evitare che gli enti
pubblici aggirino gli obblighi di pensionamento introdotti
negli ultimi anni, e non a evitare tout court ai pensionati
di dare il proprio contributo. Per questa ragione, lo stop
si accende solo per gli incarichi dirigenziali, anche se a
tempo determinato, e quelli che «implicano la direzione di
uffici e la gestione di risorse umane», compresi dunque i
ruoli di direttore scientifico o sanitario.
L’interpretazione “restrittiva” offerta dalla Funzione
pubblica impone di effettuare distinzioni spesso di
dettaglio. Ai pensionati, per esempio, non è possibile
affidare incarichi di studio o consulenza, ma nessun divieto
ferma gli incarichi di ricerca, che sono considerati
distinti dalla normativa e possono anche prevedere la
responsabilità di un progetto
(articolo Il Sole 24 Ore
del 06.12.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO: P.a., pensionati out.
Incarichi vietati, molte le eccezioni.
Madia sul divieto di conferire compiti dirigenziali.
Una regola con molte eccezioni. Il divieto di conferire
incarichi dirigenziali, direttivi, di studio e consulenza ai
pensionati (contenuto nell'art. 6 del decreto legge di
riforma della p.a., dl 90/2014) è di «stretta
interpretazione». Perché, diversamente, incorrerebbe nei
rilievi della Corte costituzionale. Per questo sono esclusi
dal divieto coloro che, collocati in quiescenza per aver
raggiunto i requisiti minimi nella propria carriera,
vogliano concorrere per un altro impiego pubblico in una
carriera in cui sia ancora possibile prestare servizio (si
pensi all'università e all'amministrazione della giustizia
che hanno un'età pensionabile più alta). Via libera anche
agli incarichi di ricerca e di docenza (non espressamente
contemplati dal divieto) a condizione che siano reali, così
come agli incarichi nelle commissioni di concorso o di gara.
«Per la loro natura eccezionale» devono poi ritenersi
esclusi anche gli incarichi dei commissari straordinari
degli enti pubblici. E la stessa cosa dicasi per i
subcommissari. Negli enti locali, infine, il divieto non si
applica agli incarichi in organi di controllo (collegi
sindacali e collegi dei revisori) a condizione che non
abbiano natura dirigenziale.
Con la circolare
04.12.2014 n. 6/2014 il ministro della
funzione pubblica, Marianna Madia, ha chiarito la portata
applicativa di una norma molto discussa della riforma p.a,
quella che «per agevolare il ricambio generazionale e il
ringiovanimento del personale nelle p.a.» vieta a tutte le
pubbliche amministrazioni comprese nell'elenco Istat
(incluse le autorità indipendenti, la Consob, i ministeri,
gli enti territoriali) di continuare ad avvalersi di
dipendenti in pensione, attribuendo loro rilevanti
responsabilità amministrative. Una prassi che secondo il
dicastero di palazzo Vidoni finisce per sbarrare la strada
ai dipendenti più giovani.
Le nuove regole si applicano dall'entrata in vigore del
decreto legge, ossia dal 25.06.2014. Gli incarichi
conferiti prima non saranno soggetti ad alcun divieto, al
pari di quelli attribuiti da soggetti diversi dalla pubblica
amministrazione.
Disco rosso, invece, per le cariche in organi di governo di
enti e società controllate (presidente, amministratore o
componente del cda).
Il divieto non si applica se gli incarichi sono gratuiti a
condizione però che non abbiano una durata superiore a un
anno (non prorogabile né rinnovabile). Le p.a. potranno
quindi attribuire un incarico gratuito a un dirigente in
pensione per consentirgli di affiancare il nuovo titolare
dell'incarico per non più di un anno. Il via libera agli
incarichi gratuiti per un anno vale per «ciascuna
amministrazione».
Quindi, chiarisce la nota della funzione
pubblica, il dipendente pubblico collocato in quiescenza
potrà ricevere differenti incarichi da parte di enti
diversi, purché ciascuno rispetti il limite di durata
annuale
(articolo ItaliaOggi
del 06.12.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Nella Scia-imprese ridotta l’autotutela degli uffici Pa.
Sblocca Italia. Dopo i 60 giorni per i controlli chiusura
dell’attività eccezionale.
Maggiori certezze per chi
deve utilizzare la Scia per avviare una attività d'impresa
regolamentata da leggi specifiche (caso frequente nei
settori dei servizi e del commercio) perché agli enti che
ricevono la Scia e devono controllarla sono state poste
limitazioni alla possibilità di bloccare l'attività.
Gli enti che non controllano la Scia entro 60 giorni solo in
pochi casi avranno il potere di riesaminare i requisiti
dichiarati dal segnalante e vietare, se non sussistono, la
prosecuzione della attività.
E' questa la conseguenza di una modifica all'articolo 19
della legge 241/1990 introdotta dall'articolo 25 della legge
164/2014, lo sblocca Italia.
Prima della modifica il quadro normativo della Scia era il
seguente:
entro 60 giorni dal ricevimento della Scia l'ente
competente, Comune, Camera di commercio e così via, deve
(termine perentorio) controllare la dichiarazione sui
requisiti previsti dalla legge di settore;
se mancano requisiti, entro tale termine deve vietare
l'inizio o la prosecuzione dell'attività, qualora il
segnalante non regolarizzi la Scia;
se l'ente effettua il controllo dopo il termine, anche di
mesi o anni, e i requisiti sono ritenuti inesistenti, in
tutto o in parte, può bloccare l'attività con gli strumenti
della autotutela previsti dagli articoli 21-quinquies
(revoca) e 21-nonies (annullamento) che consentono all'ente
una ampia discrezionalità;
se il segnalante, al fine di dichiarare i requisiti,
rilascia una autocertificazione falsa l'ente può vietare in
qualsiasi momento la prosecuzione dell'impresa e il
segnalante rischia una condanna penale;
se i requisiti sono inesistenti, oltre alle conseguenze
indicate nei punti precedenti, l'imprenditore incorrerà
nelle sanzioni amministrative previste dalle norme di
settore (se, per esempio, con la Scia si apre
illegittimamente un negozio la sanzione va da 2.582 a 15.493
euro).
Tutti concordano che sono due i maggiori ostacoli che finora
hanno penalizzato l’uso della Scia: le norme sui requisiti
per iniziare una impresa sono spesso ambigue e applicate
diversamente nei vari territori; il potere degli enti di
rimettere in discussione l'impresa anche dopo anni.
L'articolo 25 della legge 164/2014 stabilisce che l'ente che
non ha controllato entro i 60 giorni, qualora
successivamente accerti la carenza dei requisiti, può
bloccare l'impresa solo se la Scia riguarda una attività che
comporta «pericolo di un danno per il patrimonio artistico e
culturale, per l'ambiente, per la salute, per la sicurezza
pubblica o la difesa nazionale».
La maggior parte delle attività economiche non coinvolgono
questi interessi sensibili e quindi gli imprenditori,
scaduti i 60 giorni dall'invio della Scia, possono operare
senza il rischio amministrativo, ovviamente se
l'autocertificazione non è falsa. È stato quindi pressoché
neutralizzato il timore dell'autotutela ma chi ha compilato
la Scia rimane nell'incertezza di aver interpretato e
applicato correttamente la normativa del suo settore.
Per
evitare questi rischi occorre dare applicazione all’articolo
7 della direttiva sui servizi del 2006 dove si afferma che
gli Stati forniscono agli imprenditori «in linguaggio
semplice e comprensibile» informazioni sul modo in cui i
requisiti per iniziare l'impresa «vengono generalmente
interpretati e applicati» (articolo Il Sole 24 Ore
del 05.12.2014 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
PATRIMONIO: Ascensori sicuri anche nel pubblico.
Norme UE.
Le regole Ue si estendono
agli ascensori «pubblici». Il Dpr di modifica alla
disciplina è stato approvato dal Consiglio dei ministri
lunedì sera.
L’Anacam (imprese di costruzione e
manutenzione) segnala le tre modifiche rilevanti al testo
vigente del Dpr 162/1999:
1) sono stati completamente
eliminati i riferimenti agli ascensori «in servizio
privato», quindi tutti gli ascensori –indipendentemente dal
fatto che vengano o meno adibiti a “servizio pubblico”–
seguiranno le medesime regole definite negli allegati del Dpr 162 e della direttiva 95/16/CE quanto a progettazione,
conformità e messa in esercizio;
2) gli organismi
accreditati da Accredia per le verifiche ispettive, anche se
non notificati per le valutazioni di conformità, potranno
svolgere l’attività di verifica;
3) è stato introdotta la
differenziazione tra edifici esistenti ed edifici di nuova
costruzione: per i primi, gli organismi accreditati e
notificati saranno autorizzati a rilasciare l’autorizzazione
preventiva all’installazione di ascensori in deroga alle
misure stabilite dalle norme armonizzate per le fosse e le
testate, una volta accertata l’effettiva impossibilità di
ricavare i prescritti spazi liberi o volumi di rifugio; per
i secondi, è lo Sviluppo a rilasciare l’accordo preventivo,
limitatamente ai casi di impossibilità per motivi di
carattere geologico (articolo Il Sole 24 Ore
del 05.12.2014). |
APPALTI SERVIZI: In house, servizi di natura commerciale da mettere a gara.
Nell'ambito di un rapporto in house fra un ministero e una
società pubblica controllata al 100% è legittimo affidare in
via diretta soltanto i servizi strumentali al perseguimento
dell'interesse generale; i servizi aggiuntivi di natura
commerciale devono invece essere messi in concorrenza con
una gara pubblica.
È quanto afferma l'Autorità garante della
concorrenza e del mercato con la segnalazione n. 1155,
pubblicata sul
bollettino
01.12.2014 n. 46, in cui
si analizza il rapporto in house esistente fra il ministero
dei beni culturali e la società Ales (partecipata al 100%
dal ministero) incaricata della gestione dei musei, nonché
la legittimità di diverse convenzioni in essere o in
procinto di essere stipulate, che prevedevano l'affidamento
diretto di una molteplicità di attività (merchandising
museale, comunicazione, promozione del patrimonio culturale,
supporto e monitoraggio della sicurezza dei siti culturali,
riordino e gestione informatizzata degli archivi degli
istituti periferici del ministero) in precedenza affidati
con gara a operatori privati.
Il provvedimento, partendo
dall'analisi delle attività previste nello statuto di Ales,
mette in risalto come Ales abbia anche «una potenziale
vocazione commerciale basata sul rischio di impresa,
suscettibile di condizionare le scelte strategiche della
società stessa, distogliendola dalla cura primaria
dell'interesse pubblico di riferimento».
Oltre ai servizi strumentali alla fruizione dei siti
culturali, legittimamente affidabili in house, la
segnalazione evidenzia l'esistenza di servizi aggiuntivi di
natura evidentemente commerciali, per l'affidamento dei
quali occorre sempre salvaguardare la concorrenza per
l'accesso al mercato. Per gli altri servizi «aggiuntivi»
(editoria, consulenze, ricerche, studi; attività di
pubblicità e promozione, l'attività di merchandising
servizio di manutenzione edifici) un affidamento in house -senza quindi ricorrere ad una gara- avrebbe effetti distorsivi della concorrenza.
Infatti, dice l'Antitrust, il
fatto che l'impresa gestisca determinati servizi in
condizioni di monopolio fa si che possa «presentarsi sui
mercati concorrenziali offrendo a soggetti diversi dall'ente
affidante ulteriori servizi di natura commerciale, facendosi
forza di vantaggi competitivi ingiustificati perché
acquisiti grazie al conferimento di un'attività riservata».
Da ciò la richiesta al ministero di modificare lo statuto di Ales
eliminando attività riferibili a una finalità strettamente
commerciale e di rivedere le modalità di affidamento dei
servizi attinenti alla gestione dei musei e delle aree
archeologiche secondo criteri obiettivi e trasparenti, tali
da assicurare la concorrenza tra i soggetti interessati
(articolo ItaliaOggi
del 05.12.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Fotovoltaico sugli edifici, serve la prevenzione incendi.
La prevenzione incendi si applica anche agli impianti
fotovoltaici installati sugli edifici. L'installazione di un
impianto fotovoltaico su di un edificio può far aumentare il
rischio di incendio, se non si seguono attentamente
determinate prescrizioni. Questo aggravio è dovuto alle
caratteristiche elettrico-costruttive dell'impianto e alla
sua modalità di posa in opera. La prevenzione, infatti,
assolve funzione di preminente interesse pubblico diretta a
conseguire, secondo criteri applicativi uniformi sul
territorio nazionale, gli obiettivi di sicurezza della vita
umana, di incolumità delle persone e di tutela dei beni
dell'ambiente attraverso la promozione, lo studio, la
predisposizione e la sperimentazione di norme, misure,
provvedimenti, accorgimenti e modi di azione intesi a
evitare l'insorgenza di un incendio e degli eventi a esso
comunque connessi o a limitarne le conseguenze».
Lo ha precisato il ministero dell'interno con la
nota 28.10.2014 n. 12678 di prot..
Nel caso di un'attività esistente nella quale venga
installato un nuovo impianto fotovoltaico di tipo «incorporato»
al fine dì valutare se tale modifica apportata comporti un
aggravio del preesistente livello di rischio incendio, il
responsabile dovrà opportunamente valutare i seguenti
aspetti: l'interferenza con il sistema di ventilazione dei
prodotti della combustione (ostruzione parziale/totale di
traslucidi, impedimenti apertura evacuatori), la modalità di
propagazione dell'incendio in un fabbricato delle fiamme
all'esterno o verso l'interno del fabbricato (presenza di
condutture sulla copertura di un fabbricato suddiviso in più
compartimenti - modifica della velocità di propagazione di
un incendio in un fabbricato mono compartimento), la
sicurezza degli operatori addetti alla manutenzione e di
quelli addetti alle operazioni di soccorso
(articolo ItaliaOggi
del 02.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Terre da scavo, restyling per i piccoli cantieri.
In arrivo ulteriori istruzioni per il riutilizzo nello
stesso sito.
Rifiuti. Regole specifiche anche per il deposito temporaneo
e le infrastrutture.
Una nuova disciplina sul
deposito temporaneo di terre e rocce da scavo e la
razionalizzazione e semplificazione del riutilizzo nello
stesso sito di questi materiali prodotti in piccoli
cantieri. Così il decreto Sblocca Italia introduce nuovi
criteri per la semplificazione della disciplina sulle terre
e rocce da scavo, che si aggiungono a quelli già previsti
nella prima versione del Dl 133/2014 (coordinamento
disposizioni vigenti, esplicitazione norme abrogate,
proporzionalità della disciplina, divieto di introdurre
livelli di regolamentazione superiori a quelli comunitari).
In realtà questi nuovi indirizzi per il riordino della
normativa sono meno innovativi di quanto potrebbero apparire
ad una prima lettura e -forse- sono unicamente volti a
confermare disposizioni già esistenti che gli enti locali
tendono ad interpretare restrittivamente, vanificando così
le finalità reali delle norme.
Il deposito temporaneo
La legge di conversione del Dl Sblocca Italia (Dl 164/2014)
prevede che il futuro regolamento (Dpr) di riorganizzazione
della materia dovrà contenere anche una specifica disciplina
sul deposito temporaneo dei materiali da scavo che integri
quella prevista dal Codice dell’ambiente (articolo 183 Dlgs
n. 152/2006).
In realtà, questo nuovo criterio, potrebbe creare non pochi
fraintendimenti in futuro. Infatti, il deposito temporaneo
disciplinato dall’articolo 183 ha ad oggetto un’attività
preliminare di gestione dei rifiuti, la cui applicazione
presupporrebbe che le terre e rocce da scavo non vengano
riutilizzate come sottoprodotti, ma debbano essere avviate a
smaltimento o recupero come rifiuti.
Discorso diverso, invece, è il deposito temporaneo dei
materiali scavati in attesa di essere riutilizzati in altri
cantieri come sottoprodotti. Questa possibilità non ricade
nell’ipotesi disciplinata dall’articolo 183, ma è già stata
prevista dal Dm 161/2012 (siti di deposito intermedio) e
potrebbe già essere applicata analogicamente a tutti i
cantieri anche nell’ambito della procedura semplificata ex
articolo 41-bis del Dl 69/2013.
Non è, dunque, chiaro il criterio ispiratore del legislatore
e si auspica che la riorganizzazione della disciplina di
settore non confonda il deposito temporaneo di rifiuti con
il deposito temporaneo di sottoprodotti.
I piccoli cantieri
L’ulteriore criterio di semplificazione introdotto dalla
legge di conversione rispetto ai piccoli cantieri sembra più
una dichiarazione di principio piuttosto che un criterio
sostanziale.
Innanzitutto, il principio di razionalizzazione e
semplificazione varrebbe solo per i piccoli cantieri (fino a
6mila metri c ubi) e limitatamente a interventi di
costruzione e manutenzione di reti e infrastrutture, con
esclusione di altri interventi di scavo sebbene di piccole
dimensioni.
Non è neppure chiara la portata della semplificazione stessa
che dovrebbe trovare applicazione solo quando i materiali da
scavo vengono riutilizzati nel medesimo cantiere di
produzione.
Questa ipotesi, invero, è già prevista per tutti i cantieri
(grandi o piccoli) dall’articolo 185, comma 1, lett. c), del
Codice dell’ambiente il quale consente senza particolari
formalismi il riutilizzo di suolo non contaminato e altro
materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività
di costruzione nel medesimo sito di produzione, escludendo
questo caso dalla disciplina sui rifiuti.
A questo punto, è legittimo domandarsi quali siano le
effettive chances di successo della futura norma di
riorganizzazione e razionalizzazione del settore, dato che
proprio i criteri di ispirazione di questa norma sono
confusi e tra loro contraddittori. Si auspica che chi
metterà mano al nuovo testo normativo segua i principi
generali di razionalizzazione, semplificazione e
proporzionalità inizialmente indicati nel Dl Sblocca Italia,
senza concentrarsi sugli specifici criteri aggiuntivi appena
introdotti che rischiano di creare maggiore confusione.
La via d’uscita
Potrebbe, invece, essere opportuno che il legislatore, nel
riorganizzare la materia, semplifichi la possibilità di
riutilizzo dei materiali da scavo prodotti in piccoli
cantieri rispetto ad interventi di manutenzione di reti e
infrastrutture in siti esterni, prevedendo anche la
possibilità di depositare temporaneamente i materiali presso
le sedi delle imprese esecutrici dei lavori, con facoltà
delle stesse di indicare successivamente (ma entro un
periodo di tempo certo) i futuri siti di riutilizzo.
Forse
erano queste le finalità che il legislatore intendeva
perseguire con la legge di conversione, anche se ciò che è
scritto nel decreto Sblocca Italia ha un significato
diverso (articolo Il Sole 24 Ore
dell'01.12.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Via libera ai lavori prima della bonifica.
Ambiente. Solo sulle aree di Comuni e Province.
Via libera alle opere
edilizie prima delle bonifiche, ma solo sui siti pubblici,
di proprietà di Comuni e Province.
Il decreto Sblocca Italia interviene anche sulla bonifica dei siti contaminati. In
particolare, viene chiarito l’ambito di applicazione
dell’articolo 34, comma 7, del Dl 133/2014 che regolava la
possibilità di eseguire interventi edilizi sui siti
sottoposti a bonifica.
La legge di conversione (Dl 164/2014) chiarisce che tale
norma si applica solo ai siti inquinati di proprietà di enti
territoriali, con riferimento ai quali è possibile
realizzare infrastrutture e opere lineari anche in pendenza
di interventi di bonifica o messa in sicurezza, a condizione
che la realizzazione di tali opere non pregiudichi il
completamento o la realizzazione - per l’appunto - degli
interventi ambientali e non comporti un rischio per i
lavoratori e per i futuri fruitori dell'opera.
Il successivo comma 8, dunque, stabilisce le modalità
operative di coordinamento degli interventi di realizzazione
delle opere con gli interventi di bonifica.
A differenza della previgente previsione normativa, la nuova
formulazione è sicuramente più chiara e intellegibile. Resta
comunque il dubbio circa la reale necessità di una simile
previsione: la disciplina ambientale non prevede espressi
divieti a realizzare opere edilizie in pendenza degli
interventi di bonifica, contenendo invece previsioni che
supporrebbero il contrario.
La legge di conversione interviene anche sugli articoli 242
e 242-bis del Dlgs 152/2006 aventi ad oggetto la procedura
di bonifica ordinaria e quella semplificata.
Nel primo caso, la novità riguarda la possibilità per la
Regione di autorizzare progetti pilota di interventi di
bonifica in situ con tecnologie innovative.
La previsione, dunque, incentiverebbe l’intervento in situ
con conseguenti minori effetti negativi per l’ambiente in
termini di movimentazione di terreni contaminati (CO2) e di
saturazione degli impianti di smaltimento e/o recupero.
Il legislatore ha introdotto anche la possibilità di
programmare gli interventi di bonifica semplificati in fasi.
In particolare, per i siti inferiori a 15mila mq è previsto
un intervento in un’unica fase che deve concludersi in 18
mesi.
Per i siti tra 15mila e 400mila mq è riconosciuta la
possibilità di prevedere fino a tre fasi di intervento,
ognuna delle quali deve essere iniziata e completata in 18
mesi. Infine, per i siti di estensione superiore a 400mila
mq sarà il progetto di intervento ad individuare e
giustificare il numero di fasi o lotti funzionali in cui si
articolerà la bonifica e il relativo crono-programma di
attuazione. Anche in questo caso, il chiarimento legislativo
introduce una effettiva semplificazione (articolo Il Sole 24 Ore
dell'01.12.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Recupero rifiuti, regole ferree. Il rispetto dei meri
criteri tecnici non salva da illeciti.
La Cassazione sulla corretta applicazione della disciplina
europea sull'End of waste.
Per invocare la «cessazione della qualifica di rifiuto» di
determinati residui ai sensi delle regole Ue sull'End of
waste non è sufficiente il rispetto dei requisiti tecnici
previsti in relazione alla qualità dei materiali e al tipo
di trattamento praticato, occorrendo anche l'osservanza
delle parallele prescrizioni burocratiche imposte dalla
stessa disciplina, come quelle su certificazione di qualità
delle procedure e conformità dell'output generato.
Diversamente, l'attività posta in essere costituisce
gestione illecita di rifiuti e, come tale, sanzionata dal
«Codice ambientale» (dlgs 152/2006). Arriva dalla Corte di
cassazione la prima pronuncia sulla corretta applicazione
sul territorio nazionale dei regolamenti Ue che stabiliscono
le condizioni per riabilitare a veri e propri beni i residui
di lavorazione classificati a monte come rifiuti.
La pronuncia della Corte. Con la sentenza 17.10.2014 n.
43430 il giudice di legittimità ha effettuato una
ricognizione sulla portata del regolamento comunitario
333/2011/Ue recante i criteri che determinano quando alcuni
tipi di metalli (rottami di ferro, acciaio e alluminio)
cessano di essere considerati rifiuti, provvedimento
adottato (come gli analoghi atti Ue relativi all'End of
waste di rame e vetro) in attuazione della direttiva
2008/98/Ce (articolo 6).
Chiamata a pronunciarsi su una
fattispecie relativa al deposito di residui ferrosi
effettuato da una azienda sul proprio sito, e ritenuto
illecito dai giudici di merito, la Corte ha rigettato le
istanze della difesa dirette alla «declassificazione» degli
stessi da «rifiuti» a «beni» ai sensi del citato Regolamento
333/2011/Ue (direttamente operativo sul territorio degli
Stati membri, in quanto atto «self executing»).
La
Cassazione ha, infatti, sottolineato come proprio in base al
citato provvedimento comunitario i rottami metallici possono
cessare di essere considerati rifiuti «non già e non solo in
base alla loro natura, alla loro consistenza e ai
trattamenti che subiscono sul luogo di produzione (...) ma
anche per effetto delle specifiche prescrizioni (...) e del
positivo esito delle procedure preliminari delineate da
detta normativa».
Le regole Ue sull'End of waste»... Ed effettivamente, come
ricordato dalla stessa Corte nella parte motiva della
sentenza, il regolamento 333/2011/Ue sui rottami metallici
stabilisce (pedissequamente agli omonimi provvedimenti
715/2013/Ue sul rame e 1179/2012/Ue sul vetro) che detti
residui cessano di essere considerati rifiuti solo se,
all'atto della loro cessione dal produttore ad altro
detentore siano soddisfatte tutte le seguenti condizioni
(sostanziali e formali): i rifiuti da recuperare sono
costituiti da materiali rispondenti a precisi requisiti
tecnici (assenza di elementi estranei alla loro natura
metallica e sostanze pericolose); sono stati sottoposti a
specifiche operazioni di recupero (separazione a monte da
altre sostanze, pulitura); i rottami ottenuti dal
trattamento sono idonei al riutilizzo diretto in altro ciclo
produttivo; il loro produttore ha condotto le descritte
procedure osservando a monte un sistema di «gestione della
qualità» riconosciuto ai sensi della normativa Ue; la loro
cessione al detentore successivo è accompagnata da un
«certificato di conformità» dei rottami a tutti i suddetti
criteri.
Proprio questi due ultimi requisiti di carattere
formale, ha sottolineato la Cassazione nella sentenza
43430/2014, sono indefettibili per non incorrere
nell'illecita gestione di rifiuti prevista e punita
dall'articolo 256, dlgs 152/2006.
... e quelle nazionali. Poiché, a mente del citato
Regolamento Ue, la riabilitazione da «rifiuti» a «beni»
avviene solo «all'atto della cessione» dei rottami dal
produttore (ossia dal soggetto che pone in essere tutte le
procedure tecniche e burocratiche descritte) al detentore, è
altresì necessario (come suggerisce la stessa Corte di
legittimità nella sentenza in parola) che in tutte le fasi
precedenti siano comunque osservate anche le più generali
regole nazionali (ex dlgs 152/2006 e provvedimenti
satellite) sulla gestione dei rifiuti, tra cui (lo
ricordiamo) il possesso di relativa autorizzazione per
impianti e attività, il rispetto delle norme sul deposito
temporaneo, le prescrizioni sul tracciamento (registri e
formulari, Sistri quando previsto).
In relazione allo
specifico istituto dell'End of waste, la norma nazionale di
riferimento è costituita dall'articolo 184-ter dello stesso
dlgs 152/2006 che recepisce le condizioni base dettate dal
citato articolo 6 della direttiva Ue sui rifiuti
(utilizzazione dei «residui riabilitati» per scopi
specifici; esistenza di un mercato che li assorba; rispetto
degli standard propri dei prodotti; assenza di impatti
negativi sull'ecosistema) e riconosce la supremazia dei
regolamenti Ue (adottati e adottandi) in materia, stabilendo
(però) come nelle more dell'adozione di precisi criteri
comunitari per singole categorie di rifiuti possano dal
Minambiente essere adottate (cedevoli) regole nazionali e
infine che, fino all'adozione di tali ultime norme,
continueranno comunque a valere le (storiche) disposizioni
sulla produzione di «materie prime secondarie» (previste dai
decreti ministeriali dm 05.02.1998, 161/2002, 269/2005
e dal dl 172/2008).
A tale disciplina generale ex articolo
184-ter il legislatore nazionale ha proprio negli ultimi
mesi affiancato ulteriori disposizioni in materia. A livello
procedurale, il dl 91/2014 (come modificato dalla legge di
conversione) ha, infatti, dallo scorso agosto rimodulato
l'articolo 216 del «Codice ambientale» sancendo
l'applicabilità del regime autorizzatorio semplificato
(avvio delle operazioni decorsi 90 giorni dalla
comunicazione alla provincia, in luogo dell'autorizzazione
regionale) alle operazioni di recupero dei beni a fine vita
svolte secondo le citate norme Ue sull'End of waste (con
l'obbligo per enti e imprese che già effettuano tali
attività ai sensi dei citati decreti ministeriali di
adeguarsi a dette regole comunitarie entro il marzo 2015).
In relazione alle singole categorie di residui, lo stesso dl
91/2014 ha altresì stabilito (articolo 13, comma 4-ter) che,
in attesa di regole «Eow» ad hoc, è consentito il riutilizzo
delle materie prime secondarie ottenute da rifiuti inerti
(acquisite da impianti di recupero autorizzati in via
semplificata) per opere di recupero ambientale, rilevati,
sottofondi stradali, ferroviari e aeroportuali, piazzali e
ha consentito altresì la gestione come normali beni dei
materiali dragati a condizione che: dopo il recupero in
casse di colmata presentino valori sotto le «concentrazioni
soglia di contaminazione» ex dlgs 152/2006; siano destinati
a riutilizzo diretto in sito certo e senza rischi per
ambiente; rispettino i requisiti tecnici per prodotti o
materie prime secondarie, siano (pedissequamente alle norme
Ue) accompagnati da una «dichiarazione di conformità» del
produttore o detentore e da documenti di trasporto previsti
dalla normativa di settore.
Sempre in relazione a specifici
residui, a oggi l'unico provvedimento nazionale attuativo
del citato articolo 184-ter del dlgs 152/2006 è invece
costituito dal dm Ambiente 22/2013, che consente riabilitare
i rifiuti costituiti dai «combustibili solidi secondari»
(cosiddetti «Css», prodotti da materiali e sostanze a fine
vita) a veri e propri beni (denominati «Css-combustibili»)
nel rispetto delle seguenti regole: input costituito
esclusivamente da rifiuti urbani, speciali non pericolosi
espressamente previsti o materiali non pericolosi
compatibili con regolamento (Ce) n. 1272/2008; processo in
impianti con certificazione ambientale di qualità e secondo
precisi standard; materiali di output accompagnati da un
certificato di conformità, trasferiti (con tracciamento del
trasporto) al successivo utilizzatore entro breve termine e
riutilizzati senza pericolo per l'ambiente.
Le novità in itinere. Ulteriori norme sull'End of waste sono
attese sia a livello comunitario che nazionale. Lo schema di
nuova direttiva sui rifiuti (presentata lo scorso 02.07.2014 dalla Commissione Ue) annuncia infatti un ulteriore
allargamento delle categorie di rifiuti per le quali sarà
necessaria l'adozione di specifici regolamenti «EoW»,
prevedendo a fianco di aggregati, rifiuti di carta, vetro,
metalli, pneumatici e tessili (già menzionati dalla
direttiva 2008/98/Ce) regole ad hoc anche per ceneri, scorie
e rifiuti composti.
A livello nazionale, invece, è il dl 133/2014 (cosiddetto
«Sblocca Italia», come convertito in legge lo scorso
12.11.2014) a mettere in cantiere nuove norme per la
cessazione della qualifica di rifiuto dei materiali da
scavo, delegando a un apposito dpr la riformulazione entro
il febbraio 2015 dell'intera disciplina sulle terre e rocce
in questione
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'01.12.2014). |
APPALTI: Responsabilità solidale addio. Appalti, si cambia dal 13
dicembre. Successioni soft. SEMPLIFICAZIONI FISCALI/ Il decreto 175/2014 pubblicato ieri
in Gazzetta Ufficiale.
Dal prossimo 13 dicembre, via la responsabilità solidale
sugli appalti, incrementata la detrazione dell'Iva sulle
sponsorizzazioni e la soglia per la comunicazione delle
operazioni con Paesi «black list». Previsto anche
l'ampliamento dei casi di esonero per la presentazione delle
dichiarazioni di successione.
Risolto, infine, il problema del versamento degli acconti
d'imposta, in scadenza lunedì 1° dicembre, per i soggetti in
perdita sistemica, dopo l'allungamento del periodo di
osservazione da tre a cinque anni, con la possibile
fuoriuscita dal regime e l'inapplicabilità della
maggiorazione Ires (10,5%).
Con la pubblicazione del decreto legislativo n. 175 del
21/11/2014, più noto come il «decreto sulle semplificazioni
fiscali», nella Gazzetta Ufficiale del 28/11/2014 n. 277,
alcune semplificazioni scattano già a partire dal prossimo
13 dicembre, stante l'entrata in vigore nei 15 giorni
successivi alla pubblicazione.
Tra le semplificazioni più interessanti, e che si rendono
subito applicabili, trova spazio anche l'abolizione della
responsabilità fiscale negli appalti; il provvedimento in
commento, infatti, abroga i commi da 28 a 28-ter, dell'art.
35, dl n. 223/2006.
Si ricorda che i detti articoli disponevano che, in caso di
appalto di opere o di servizi, l'appaltatore rispondesse in
solido con il subappaltatore delle ritenute fiscali sui
redditi di lavoro dipendente, dovute dal subappaltatore
all'erario, con riferimento alle prestazioni eseguite
nell'ambito del rapporto di subappalto, sebbene nei limiti
dell'ammontare del corrispettivo dovuto.
Il presupposto per l'applicazione della disciplina sulle
società in perdita sistemica è costituito, già dal periodo
d'imposta 2014, da cinque periodi d'imposta consecutivi in
perdita fiscale ovvero, indifferentemente, da quattro in
perdita fiscale e uno con reddito imponibile inferiore al
reddito minimo, in luogo dei tre previsti con le vecchie
disposizioni.
La disciplina sulle società in perdita fiscale, pertanto,
sarà applicabile soltanto qualora il medesimo soggetto abbia
conseguito perdite di tale natura per i precedenti cinque
periodi d'imposta (per i periodi 2009, 2010, 2011, 2012 e
2013) ovvero in perdita fiscale per quattro periodi (per
esempio, i periodi 2009, 2010, 2012 e 2013) e per uno con
reddito imponibile inferiore al reddito minimo (2011); la
conseguenza è che la società, se rimasta operativa, non sarà
gravata, tra l'altro, dell'addizionale del 10,5% dell'Ires e
che di questa nuova situazione potrà tenerne conto anche per
il versamento degli acconti in scadenza il 1° dicembre.
I soggetti che operano con paesi a fiscalità privilegiata («black
list») devono inviare una comunicazione all'Entrate ma, con
l'entrata in vigore del decreto in commento, restano escluse
dall'obbligo di comunicazione le operazioni che non superano
10 mila euro, stante il fatto che quest'ultimo rappresenta
il limite complessivo annuo.
Si aggiunge l'ulteriore novità concernente all'opzione
necessaria per effettuare operazioni intracomunitarie, che
sarà esercitata contestualmente all'apertura della partita
Iva, con l'immediata inclusione nella banca dati dei
soggetti passivi che compiono operazioni intracomunitarie e
quella riguardante le sanzioni riguardanti i modelli
Intrastat che saranno applicate una sola volta per ogni
elenco mensile, inesatto o incompleto, a prescindere dal
numero delle operazioni mancanti o inserite in modo non
corretto nel listing stesso.
Infine, il provvedimento introduce l'esonero dalla
presentazione della dichiarazione di successione, per
eredità da parenti in linea diretta inferiore ai 100 mila
euro, esclusi immobili o diritti reali sugli stessi, oltre a
talune semplificazioni in termini di documenti da allegare (articolo ItaliaOggi del 29.11.2014). |
GIURISPRUDENZA |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Un consigliere comunale non può far causa al
proprio ente senza nominare il difensore. E se lo fa
ugualmente può essere condanno anche per "lite temeraria".
7. Il ricorso è inammissibile.
7.1. Come risulta dall’epigrafe dell'atto introduttivo di
appello S.V. sta in giudizio senza il patrocinio di
alcun avvocato pur non avendo la qualità per esercitare
l'ufficio di difensore.
7.2. Ai sensi dell'articolo 22, commi 1 e 2, c.p.a., davanti
agli organi della giurisdizione amministrativa le parti
devono valersi obbligatoriamente del ministero di avvocati
e, davanti al Consiglio di Stato, di avvocati ammessi al
patrocinio innanzi alle giurisdizioni superiori; tale è la
regola generale e lo era anche prima dell'entrata in vigore
del nuovo codice del processo amministrativo (cfr. Cons.
Stato, sez. V, 03.10.2013, n. 5245; sez. IV, 25.03.1996, n.
382).
Secondo il giudice delle leggi, l'assistenza tecnica
obbligatoria, riflesso dell'inviolabilità del diritto di
difesa sancito dall'art. 24, co. 2, Cost., costituisce una
regola generale cui la legge può derogare (salvo il limite
dell'effettività della garanzia della difesa su un piano di
uguaglianza), è un diritto irrinunciabile, e non contrasta
con l'art. 6 della CEDU nella parte in cui sancisce il
diritto all'autodifesa posto che esso non assume valenza
assoluta (cfr. Corte cost., 22.12.1980, n. 188; 03.10.1979,
n. 125; nello stesso senso Cass. civ. ord., sez. II,
09.06.2011, n. 12570).
7.3. Nel nuovo processo amministrativo, non costituisce
eccezione all'obbligo del patrocinio, la possibilità
(riconosciuta dall'art. 22, co. 3, c.p.a.), di stare in
giudizio senza il ministero del difensore, quando la parte o
la persona che la rappresenta "...ha la qualità
necessaria per esercitare l'ufficio di difensore con procura
presso il giudice adito ..."; in questa ipotesi,
infatti, non vi è esclusione di difesa tecnica venendo meno
solo la necessità che la parte -che possiede la prescritta
abilitazione e condizione professionale per difendere
innanzi al giudice adito- debba necessariamente avvalersi di
altro difensore.
7.4. Costituiscono, invece, eccezioni in senso proprio alla
regola sul patrocinio obbligatorio, i casi di difesa
personale della parte previsti dall'art. 23, c.p.a. (in
materia di accesso, in materia elettorale e nei giudizi
relativi al diritto dei cittadini dell'Unione Europea di
circolare nel territorio degli Stati membri); tale
eccezionale possibilità, però, è espressamente preclusa per
i giudizi di impugnazione che si celebrano davanti al
Consiglio di Stato dall'art. 95, co. 6, c.p.a. (“Ai
giudizi di impugnazione non si applica l’art. 23, comma 1”.
7.5. Poiché il ricorrente non versa in alcuna delle
tassative condizioni che consentono la difesa personale, il
ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
8.- Le spese di giudizio, regolamentate secondo l’ordinario
criterio della soccombenza, sono liquidate in dispositivo
tenuto conto dei parametri stabiliti dal regolamento
10.03.2014, n. 55.
Il Collegio rileva (come già segnalato con ordinanza del
28.05.2014 ai sensi dell’art. 73, co. 3, c.p.a.), che la
pronuncia di inammissibilità del ricorso si fonda, come
dianzi illustrato, su ragioni manifeste che integrano i
presupposti applicativi della norma sancita dall’art. 26, co.
2, c.p.a. secondo l’interpretazione che ne è stata data
dalla giurisprudenza di questo Consiglio (cfr., Sez. V,
11.06.2013, n. 3210; Sez. V, 31.05.2011, n. 3252; Sez. V,
26.03.2012, n. 1733, cui si rinvia a mente degli artt. 74 e
88, co. 2, lett. d), c.p.a. anche in ordine alle modalità
applicative della pena pecuniaria ex art. 26, co. 2 cit.).
Le conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza del
Consiglio di Stato sul punto in esame sono state, nella
sostanza, recepite dalla novella recata dal d.l. n. 90 del
2014 all’art. 26 c.p.a. Invero:
a) l’art. 26, comma 1, che rinviava (e rinvia) all’art. 96
c.p.c., prevedeva la condanna, su istanza di parte, al
risarcimento del danno se la parte ha agito o resistito in
giudizio con mala fede o colpa grave (art. 96, comma 1,
c.p.c.), nonché la condanna anche d’ufficio in favore
dell’altra parte, di una somma equitativamente determinata;
b) l’art. 26, co. 2, c.p.a. prevedeva (e prevede) che il
giudice condannasse d’ufficio la parte soccombente al
pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non
inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del
contributo unificato dovuto per il ricorso, quando la parte
soccombente aveva agito o resistito temerariamente in
giudizio;
c) il d.l. n. 90 del 2014 ha inciso sia sull’art. 26, co. 1,
c.p.a., in termini generali, valevoli per tutti i riti
davanti al giudice amministrativo, sia sull’art. 26, comma
2, c.p.a., in termini specifici, valevoli solo per il rito
appalti;
d) sebbene l’art. 26, co. 1, continui a richiamare l’art. 96
c.p.c. in tema di lite temeraria, detta ora una regola più
puntuale stabilendosi che in ogni caso, il giudice, anche
d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al
pagamento, in favore della controparte, di una somma
equitativamente determinata, comunque non superiore al
doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi
manifestamente infondati;
e) nell’art. 26, co. 2 c.p.a. si detta una ulteriore regola
sulla sanzione pecuniaria per lite temeraria nel caso di
contenzioso sugli pubblici appalti soggetto al rito
dell’art. 120 c.p.a.; infatti l’importo della sanzione
pecuniaria (che come visto va dal doppio al quintuplo del
contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo),
può essere elevato fino all'uno per cento del valore del
contratto, ove il valore del contratto sia superiore al
quintuplo del contributo unificato (Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza 05.12.2014 n. 6015 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Proposta di programma di recupero urbano respinti -
Motivazione - Sufficienza.
Il Consiglio di Stato ha riformato
integralmente la decisione del TAR Lombardia relativa ad un
caso in cui il Consiglio Comunale aveva respinto una
proposta di programma di recupero urbano (PRU) nonostante il
parere favorevole di massima della Commissione Edilizia.
La giurisprudenza prevalente (se non costante) è infatti nel
senso che “sussiste il difetto di motivazione quando non è
possibile ricostruire il percorso logico giuridico seguito
dall’autorità emanante e sono indecifrabili le ragioni
sottese alla determinazione assunta”.
“L’obbligo di motivazione del provvedimento amministrativo
non può ritenersi violato qualora anche a prescindere dal
tenore letterale dell’atto finale i documenti
dell’istruttoria offrano elementi sufficienti e univoci dai
quali possano ricostruirsi le concrete ragioni e l’iter
motivazionale posti a sostegno della determinazione
assunta”.
Appare, infatti, meritevole di
positivo apprezzamento la censura con la quale
l’amministrazione comunale sostiene l’adeguatezza della
motivazione a sostegno del provvedimento impugnato in primo
grado.
Al riguardo, appare utile rilevare che, secondo quanto
dispone l’art. 3, comma 1, secondo periodo della, l.
241/1990, “La motivazione deve indicare i presupposti di
fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la
decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze
dell'istruttoria.” La giurisprudenza di questo Consiglio
(cfr. ex plurimis Cons. St., Sez. V, 31.03.2012, n.
1907; Id. 07.02.2012, n. 658) ha chiarito che sussiste il
difetto di motivazione quando non è possibile ricostruire il
percorso logico giuridico seguito dall'autorità emanante e
sono indecifrabili le ragioni sottese alla determinazione
assunta.
Tuttavia, l'obbligo di motivazione del provvedimento
amministrativo non può ritenersi violato qualora, anche a
prescindere dal tenore letterale dell'atto finale, i
documenti dell'istruttoria offrano elementi sufficienti e
univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni e
l'iter motivazionale posti a sostegno della determinazione
assunta.
Nella fattispecie in esame la delibera C.C. n. 9 del 1999,
oltre ad indicare i presupposti sulla scorta dei quali è
stato attivato il procedimento, le vicende partecipative che
lo hanno caratterizzato, pone in luce il parere espresso in
sede istruttoria dalla Commissione edilizia, facendolo
proprio nella misura in cui, pur essendo di massima
favorevole, evidenzia “…che l’impatto insediativo
ipotizzato con la realizzazione del P.R.U., sommato agli
interventi già previsti nelle immediate vicinanze, se
realizzato nei tempi preposti avrebbe un impatto critico sui
servizi. Si suggerisce di rivedere la proposta nel lungo
termine riducendo le volumetrie”.
Un simile riferimento risulta sufficiente per giustificare
il dispositivo con il quale l’atto impugnato in primo grado
ha respinto l’istanza dell’originaria ricorrente, sicché non
risulta sussistente il dedotto difetto di motivazione
(Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 05.12.2014 n. 6006 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Il
Collegio non ignora che, secondo un orientamento
giurisprudenziale minoritario, le norme invocate dalla
ricorrente (art. 86, comma 3-bis, e art. 87, comma 4, del
d.lgs. n. 163/2006, nonché l'art. 26, comma 6, del d.lgs. n.
81/2008) hanno un valore immediatamente precettivo e sono
come tali idonee ad eterointegrare automaticamente le regole
della singola gara ai sensi dell'art. 1374 c.c.,
determinando l'inosservanza di dette norme l'esclusione
dalla gara per incompletezza della offerta.
Secondo un diverso orientamento, le norme in questione non
trovano applicazione con riferimento agli appalti di servizi
di cui all'allegato II B, poiché esse non sono richiamate
dall'art. 20, comma 1, del D.Lgs. n. 163/2006, non sono
espressive di principi generali e, in quanto disposizioni di
dettaglio, neppure possono trasformarsi in norme di
principio sol perché poste a presidio di interessi aventi
una rilevanza costituzionale.
Il Collegio ritiene di condividere l'orientamento espresso
dalla pronuncia da ultimo menzionata, anche in base alla
considerazione che, ove il legislatore avesse inteso rendere
obbligatoria per tutti i tipi di appalti la indicazione
degli oneri della sicurezza già nella offerta economica,
avrebbe introdotto le opportune modifiche all'art. 20, comma
1, del codice dei contratti pubblici.
Inoltre, la non applicazione dell'art. 86, commi 3-bis e
3-ter, e dell'art. 87, comma 4, agli appalti di servizi di
cui all'allegato II B non implica affatto che, in tali casi,
alle stazioni appaltanti ed alle imprese sia consentito di
non adempiere all'obbligo di remunerare i lavoratori secondo
i contratti vigenti o di sottrarsi agli obblighi inerenti la
sicurezza sui luoghi di lavoro, poiché le stazioni
appaltanti possono, comunque, vincolarsi al rispetto delle
suddette norme in punto di obbligo di indicazione,
nell'offerta economica, degli oneri della sicurezza non
soggetti a ribasso.
Invero, l'obbligo di specificare, a pena di esclusione, gli
oneri della sicurezza nell'offerta economica non può farsi
discendere automaticamente dall'art. 26, comma 6, del D.Lgs.
n. 81/2008, il quale si limita a prescrivere che gli enti
aggiudicatori, "nella predisposizione delle gare di appalto
e nella valutazione dell'anomalia delle offerte" valutino
l'adeguatezza del valore economico al costo del lavoro e
della sicurezza, sebbene quest'ultimo debba essere "indicato
e risultare congruo rispetto all'entità ed alle
caratteristiche dei lavori, dei servizi e delle forniture"
diversamente da quanto -ad esempio- statuisce l'art. 17
della legge n. 68/1999 in tema di dichiarazione sostitutiva
del rispetto della normativa sul diritto al lavoro dei
disabili.
Ne consegue che, quando si tratta di appalti diversi dai
lavori pubblici (per gli appalti di lavori pubblici,
infatti, vige la norma ad hoc dei piani di sicurezza ex art.
131 del D.Lgs. n. 163/2006) e non vi sia nel bando una
comminatoria espressa d'esclusione, ove sia omesso lo
scorporo degli oneri stessi, il relativo costo, appunto
perché coessenziale e consustanziale al prezzo offerto,
potrebbe rilevare ai soli fini dell'anomalia di
quest'ultimo, nel senso che, per scelta della stazione
appaltante (da interpretare sempre a favore del non
predisponente), il momento di valutazione degli oneri stessi
non è eliso, ma è posticipato al subprocedimento di verifica
della congruità dell'offerta nel suo complesso.
L'art. 20, comma 1, del D. Lgs. n. 163/2006 recita: "L'aggiudicazione
degli appalti aventi per oggetto i servizi elencati
nell'allegato II B è disciplinata esclusivamente dall'art.
68 (specifiche tecniche), dall'articolo 65 (avviso sui
risultati della procedura di affidamento), dall'articolo 225
(avvisi relativi agli appalti aggiudicati)", tale
disposizione va integrata con quella del successivo art. 27,
ai sensi del quale l'affidamento dei contratti pubblici
esclusi, in tutto o in parte, dall'applicazione dello stesso
d.lgs. n. 163/2006 deve avvenire "nel rispetto dei
principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di
trattamento, trasparenza, proporzionalità".
Orbene, il Collegio non ignora che, secondo un orientamento
giurisprudenziale minoritario, le norme invocate dalla
ricorrente (art. 86, comma 3-bis, e art. 87, comma 4, del
d.lgs. n. 163/2006, nonché l'art. 26, comma 6, del d.lgs. n.
81/2008) hanno un valore immediatamente precettivo e sono
come tali idonee ad eterointegrare automaticamente le regole
della singola gara ai sensi dell'art. 1374 c.c.,
determinando l'inosservanza di dette norme l'esclusione
dalla gara per incompletezza della offerta: (conf.: Cons.
Stato, Sez. III, 28.08.2012 n. 4622, avente ad oggetto
l'affidamento di un servizio di ristorazione il cui bando
non prevedeva l'obbligo della indicazione degli oneri della
sicurezza, in relazione ad appalti di servizi compresi
nell'allegato II A del D.Lgs. n. 163/2006; TAR Lombardia, n.
1217/2011, avente ad oggetto un appalto per la manutenzione
di verde pubblico; TAR Piemonte, I, 21.12.2012, n. 1376;
Cons. Stato, Sez. III, 03.07.2013 n. 3565).
Secondo un diverso orientamento, le norme in questione non
trovano applicazione con riferimento agli appalti di servizi
di cui all'allegato II B, poiché esse non sono richiamate
dall'art. 20, comma 1, del D.Lgs. n. 163/2006, non sono
espressive di principi generali e, in quanto disposizioni di
dettaglio, neppure possono trasformarsi in norme di
principio sol perché poste a presidio di interessi aventi
una rilevanza costituzionale (ex plurimis: Cons.
Stato, Sez. III, 18.10.2013, n. 5070).
Il Collegio ritiene di condividere l'orientamento espresso
dalla pronuncia da ultimo menzionata, anche in base alla
considerazione che, ove il legislatore avesse inteso rendere
obbligatoria per tutti i tipi di appalti la indicazione
degli oneri della sicurezza già nella offerta economica,
avrebbe introdotto le opportune modifiche all'art. 20, comma
1, del codice dei contratti pubblici.
Inoltre, la non applicazione dell'art. 86, commi 3-bis e
3-ter, e dell'art. 87, comma 4, agli appalti di servizi di
cui all'allegato II B non implica affatto che, in tali casi,
alle stazioni appaltanti ed alle imprese sia consentito di
non adempiere all'obbligo di remunerare i lavoratori secondo
i contratti vigenti o di sottrarsi agli obblighi inerenti la
sicurezza sui luoghi di lavoro, poiché le stazioni
appaltanti possono, comunque, vincolarsi al rispetto delle
suddette norme in punto di obbligo di indicazione,
nell'offerta economica, degli oneri della sicurezza non
soggetti a ribasso.
Invero, l'obbligo di specificare, a pena di esclusione, gli
oneri della sicurezza nell'offerta economica non può farsi
discendere automaticamente dall'art. 26, comma 6, del D.Lgs.
n. 81/2008, il quale si limita a prescrivere che gli enti
aggiudicatori, "nella predisposizione delle gare di
appalto e nella valutazione dell'anomalia delle offerte"
valutino l'adeguatezza del valore economico al costo del
lavoro e della sicurezza, sebbene quest'ultimo debba essere
"indicato e risultare congruo rispetto all'entità ed alle
caratteristiche dei lavori, dei servizi e delle forniture"
diversamente da quanto -ad esempio- statuisce l'art. 17
della legge n. 68/1999 in tema di dichiarazione sostitutiva
del rispetto della normativa sul diritto al lavoro dei
disabili (conf.: TAR Basilicata, I, 23.12.2013, n. 810; TAR
Piemonte, I, 21.12.2012, n. 1376).
Ne consegue che, quando si tratta di appalti diversi dai
lavori pubblici (per gli appalti di lavori pubblici,
infatti, vige la norma ad hoc dei piani di sicurezza
ex art. 131 del D.Lgs. n. 163/2006) e non vi sia nel bando
una comminatoria espressa d'esclusione, ove sia omesso lo
scorporo degli oneri stessi, il relativo costo, appunto
perché coessenziale e consustanziale al prezzo offerto,
potrebbe rilevare ai soli fini dell'anomalia di
quest'ultimo, nel senso che, per scelta della stazione
appaltante (da interpretare sempre a favore del non
predisponente), il momento di valutazione degli oneri stessi
non è eliso, ma è posticipato al subprocedimento di verifica
della congruità dell'offerta nel suo complesso (ex
plurimis: Cons. Stato, Sez. III, 18.10.2013, n. 5070)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 05.12.2014 n. 2132 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Il
servizio di illuminazione delle lampade votive assume la
natura di servizio pubblico di rilevanza economica, al quale
trovano applicazione i precedenti commi 20 e 21, secondo cui
“al fine di assicurare il rispetto della disciplina europea,
la parità tra gli operatori, l'economicità della gestione e
di garantire adeguata informazione alla collettività di
riferimento, l'affidamento del servizio è effettuato sulla
base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet
dell'ente affidante, che dà conto delle ragioni e della
sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo
per la forma di affidamento prescelta e che definisce i
contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e
servizio universale, indicando le compensazioni economiche
se previste.
Gli affidamenti in essere alla data di entrata in vigore del
presente decreto non conformi ai requisiti previsti dalla
normativa europea devono essere adeguati entro il termine
del 31.12.2013 pubblicando, entro la stessa data, la
relazione prevista al comma 20. Per gli affidamenti in cui
non è prevista una data di scadenza gli enti competenti
provvedono contestualmente ad inserire nel contratto di
servizio o negli altri atti che regolano il rapporto un
termine di scadenza dell'affidamento. Il mancato adempimento
degli obblighi previsti nel presente comma determina la
cessazione dell'affidamento alla data del 31.12.2013”.
Come visto, all’affidamento di tali servizi è applicabile
l’art. 30 d.lgs. 12.04.2006, n. 163, recante il codice dei
contratti pubblici, che definisce l’istituto della
concessione di servizi e stabilisce che “la scelta del
concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi
desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai
contratti pubblici e, in particolare, dei principi di
trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione,
parità di trattamento, mutuo riconoscimento,
proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati
almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero
soggetti qualificati in relazione all'oggetto della
concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi”.
Il citato art. 30, inoltre, estende alla concessione di
servizi il principio sancito dall’art. 143, comma 7, e cioè
che “l'offerta e il contratto devono contenere il piano
economico-finanziario di copertura degli investimenti e
della connessa gestione per tutto l'arco temporale prescelto
e devono prevedere la specificazione del valore residuo al
netto degli ammortamenti annuali, nonché l'eventuale valore
residuo dell'investimento non ammortizzato al termine della
concessione, anche prevedendo un corrispettivo per tale
valore residuo. Le offerte devono dare conto del preliminare
coinvolgimento di uno o più istituti finanziatori nel
progetto”.
Laddove si tratti di servizi pubblici il cui valore non
superi la soglia di rilevanza comunitaria, l’affidamento può
avvenire con lo strumento del cottimo fiduciario, ai sensi
dell’art. 125 del medesimo codice dei contratti pubblici.
Prima di esaminare singolarmente i cinque motivi di ricorso,
è opportuno illustrare sinteticamente il quadro normativo
nella materia di interesse.
Su esso non incide più l’art. 4, comma 32, d.l. 13.08.2011,
n. 138, conv. con mod. dalla l. 14.09.2011, n. 148, essendo
stato l’intero articolo dichiarato costituzionalmente
illegittimo (Corte cost. 20.07.2012, n. 1999).
Ciò posto, l’art. 34, comma 26, d.l. 18.10.2012, n. 179,
conv. con mod. dalla l. 17.12.2002, n. 221, stabilisce che,
“al fine di aumentare la concorrenza nell'ambito delle
procedure di affidamento in concessione del servizio di
illuminazione votiva, all'articolo unico del decreto del
Ministro dell'interno 31.12.1983, pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale n. 16 del 17.01.1984, al numero 18) sono soppresse
le seguenti parole: "e illuminazioni votive".
Conseguentemente i comuni, per l'affidamento del servizio di
illuminazione votiva, applicano le disposizioni di cui al
decreto legislativo n. 163 del 2006, e in particolare
l'articolo 30 e, qualora ne ricorrano le condizioni,
l'articolo 125”.
In sostanza, il servizio di illuminazione delle lampade
votive assume la natura di servizio pubblico di rilevanza
economica, al quale trovano applicazione i precedenti commi
20 e 21, secondo cui “al fine di assicurare il rispetto
della disciplina europea, la parità tra gli operatori,
l'economicità della gestione e di garantire adeguata
informazione alla collettività di riferimento, l'affidamento
del servizio è effettuato sulla base di apposita relazione,
pubblicata sul sito internet dell'ente affidante, che dà
conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti
previsti dall'ordinamento europeo per la forma di
affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici
degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale,
indicando le compensazioni economiche se previste.
Gli affidamenti in essere alla data di entrata in vigore del
presente decreto non conformi ai requisiti previsti dalla
normativa europea devono essere adeguati entro il termine
del 31.12.2013 pubblicando, entro la stessa data, la
relazione prevista al comma 20. Per gli affidamenti in cui
non è prevista una data di scadenza gli enti competenti
provvedono contestualmente ad inserire nel contratto di
servizio o negli altri atti che regolano il rapporto un
termine di scadenza dell'affidamento. Il mancato adempimento
degli obblighi previsti nel presente comma determina la
cessazione dell'affidamento alla data del 31.12.2013”.
Come visto, all’affidamento di tali servizi è applicabile
l’art. 30 d.lgs. 12.04.2006, n. 163, recante il codice dei
contratti pubblici, che definisce l’istituto della
concessione di servizi e stabilisce che “la scelta del
concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi
desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai
contratti pubblici e, in particolare, dei principi di
trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione,
parità di trattamento, mutuo riconoscimento,
proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati
almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero
soggetti qualificati in relazione all'oggetto della
concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi”.
Il citato art. 30, inoltre, estende alla concessione di
servizi il principio sancito dall’art. 143, comma 7, e cioè
che “l'offerta e il contratto devono contenere il piano
economico-finanziario di copertura degli investimenti e
della connessa gestione per tutto l'arco temporale prescelto
e devono prevedere la specificazione del valore residuo al
netto degli ammortamenti annuali, nonché l'eventuale valore
residuo dell'investimento non ammortizzato al termine della
concessione, anche prevedendo un corrispettivo per tale
valore residuo. Le offerte devono dare conto del preliminare
coinvolgimento di uno o più istituti finanziatori nel
progetto”.
Laddove si tratti di servizi pubblici il cui valore non
superi la soglia di rilevanza comunitaria, l’affidamento può
avvenire con lo strumento del cottimo fiduciario, ai sensi
dell’art. 125 del medesimo codice dei contratti pubblici
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 05.12.2014 n. 2130 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Spetta
al privato dare dimostrazione dell’avvenuto pagamento
dell’oblazione cui è stata subordinata dal legislatore la
sanatoria delle opere abusive. Tale onere non è attenuato né
dal decorso del tempo, né dall’avvenuto trasferimento della
titolarità del diritto di proprietà sull’immobile abusivo,
tenuto conto, in particolare, del mancato intervento di un
provvedimento espresso di sanatoria.
---------------
Il decorso dei termini fissati dall'art. 35 comma 18, l.
28.02.1985, n. 47 (ventiquattro mesi per la formazione del
silenzio-accoglimento sull'istanza di condono edilizio e
trentasei mesi per la prescrizione dell'eventuale diritto al
conguaglio delle somme dovute) presuppone in ogni caso la
completezza della domanda di sanatoria, accompagnata in
particolare dall'integrale pagamento di quanto dovuto a
titolo di oblazione per quanto attiene la formazione del
silenzio-accoglimento
Il motivo è infondato.
Va premesso che spetta al privato dare dimostrazione
dell’avvenuto pagamento dell’oblazione cui è stata
subordinata dal legislatore la sanatoria delle opere
abusive. Tale onere non è attenuato né dal decorso del
tempo, né dall’avvenuto trasferimento della titolarità del
diritto di proprietà sull’immobile abusivo, tenuto conto, in
particolare, del mancato intervento di un provvedimento
espresso di sanatoria.
Ciò posto, il decorso dei termini fissati dall'art. 35 comma
18, l. 28.02.1985, n. 47 (ventiquattro mesi per la
formazione del silenzio-accoglimento sull'istanza di condono
edilizio e trentasei mesi per la prescrizione dell'eventuale
diritto al conguaglio delle somme dovute) presuppone in ogni
caso la completezza della domanda di sanatoria, accompagnata
in particolare dall'integrale pagamento di quanto dovuto a
titolo di oblazione per quanto attiene la formazione del
silenzio-accoglimento (Cons. Stato, Sez. V, 16.04.2013, n.
2116; Cons. Stato, Sez. IV, 07.08.2012, n. 4525; Cons.
Stato, Sez. V, 02.02.2012, n. 578; Cons. Stato, Sez. IV,
16.02.2001, n. 1012; Cons. Stato, Sez. IV, 07.07.2009, n.
4350; Cons. Stato, Sez. IV, 19.02.2008, n. 554; Cons. Stato,
Sez. V, 19.04.2007, n. 1809).
Nel caso di specie, non essendovi prova dell’integrale
pagamento dell’oblazione, deve escludersi che si sia formato
il silenzio-assenso di cui si discorre
(TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 05.12.2014 n. 2127 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordine di demolizione dell'abuso edilizio, come
tutti i provvedimenti sanzionatori in materia, è atto
vincolato alla constatata abusività e non richiede alcuna
specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico né
una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione circa la
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non essendo configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
d'illecito permanente, che il tempo non può legittimare in
via di fatto.
Il motivo è infondato.
L'ordine di demolizione dell'abuso edilizio, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia, è atto vincolato alla
constatata abusività e non richiede alcuna specifica
valutazione delle ragioni d'interesse pubblico né una
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione circa la
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non essendo configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
d'illecito permanente, che il tempo non può legittimare in
via di fatto (Cons. Stato, Sez. V, 27.08.2014, n. 4381;
Cons. Stato, Sez. V, 30.06.2014, 3281; Cons. Stato, Sez. V,
27.05.2014, n. 2696) (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 05.12.2014 n. 2127 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non sussiste
l'illegittimità dell'ingiunzione di demolizione in quanto
notificata ad un solo comproprietario, poiché la mancata
notificazione della disposta misura
repressivo-ripristinatoria, può, al più, incidere sulla
relativa conoscenza.
Pertanto, ai fini della legittimità dell'iter procedimentale
posto in essere dall'amministrazione per il ripristino dei
valori giuridici offesi dalla realizzazione di un'opera
abusiva, è sufficiente la notificazione dell'ordinanza di
demolizione, che non ha natura sanzionatoria, così come
degli atti meramente consequenziali, ad uno solo dei
comproprietari.
Spetterà, eventualmente, agli altri comproprietari far
valere l'omessa notifica.
Con il terzo motivo, la
ricorrente si duole che l’ordinanza di demolizione sia stata
solo notificata a lei e non anche agli altri eredi di
Pasquale Zaffino, con i quali sussiste tutt’ora la comunione
ereditaria.
Anche tale motivo è infondato.
Secondo la consolidata giurisprudenza del Consiglio di
Stato, non sussiste l'illegittimità dell'ingiunzione di
demolizione in quanto notificata ad un solo comproprietario,
poiché la mancata notificazione della disposta misura
repressivo-ripristinatoria, può, al più, incidere sulla
relativa conoscenza; pertanto, ai fini della legittimità
dell'iter procedimentale posto in essere
dall'amministrazione per il ripristino dei valori giuridici
offesi dalla realizzazione di un'opera abusiva, è
sufficiente la notificazione dell'ordinanza di demolizione,
che non ha natura sanzionatoria, così come degli atti
meramente consequenziali, ad uno solo dei comproprietari
(Cons. Stato, Sez. VI, 27.03.2012, n. 1810).
Spetterà, eventualmente, agli altri comproprietari far
valere l'omessa notifica (C.G.A., Sez. giurisd., 03.09.1997,
331) (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 05.12.2014 n. 2127 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: In
tema di appalti pubblici:
a) in linea stratta, la redazione dei processi verbali della
commissione di gara può essere fatta sulla base di appunti
presi durante lo svolgimento della singola seduta e, quindi,
in un tempo successivo rispetto a quello in cui le relative
deliberazioni sono state adottate, atteso che la lettura e
l’approvazione del processo verbale costituiscono
adempimenti che non devono avere luogo necessariamente nella
medesima adunanza;
b) gli atti ed i fatti descritti nel processo verbale,
avendo la funzione di costituire una documentazione probante
circa l’esistenza dei medesimi, fanno piena prova fino a
querela di falso;
c) la mancanza, sul relativo verbale, delle firme dei
partecipanti alla seduta estranei ai componenti del seggio
di gara non ne inficia la validità, in quanto l’attestazione
resa dal pubblico ufficiale verbalizzante è sufficiente, a
garanzia della loro presenza in loco e della riferibilità ai
medesimi delle attività e delle dichiarazioni riportate a
verbale;
d) ai sensi dell’art. 46, comma 1-bis, del D.lgs. 12.04.2006
n. 163, l’esclusione dalla gara è disposta esclusivamente
nel caso in cui il codice, la legge statale o il regolamento
attuativo la comminino espressamente, ovvero introducano
comunque “adempimenti doverosi” o “norme di divieto”, pur
senza prevedere espressamente l’esclusione, ma sempre nella
logica del numerus clausus, con conseguente nullità delle
clausole di bando che dispongano in maniera difforme;
e) ambedue le omissioni ascrivibili all’offerta
dell’aggiudicataria non rientrano tra le cause tassative di
esclusione, in quanto la validità dell’offerta per 180
giorni discende direttamente dalla legge, mentre
l’indicazione del prezzo in cifre si ricava meccanicamente
dalla percentuale di ribasso offerta;
f) nella valutazione dell’offerta, la stazione appaltante ha
utilizzato, secondo le previsioni del bando, il metodo
aggregativo-compensatore di cui all’allegato P del D.P.R. n.
2017 del 2010, fermo restando che il richiamo all’art. 16
del capitolato speciale vale solo ad individuare i parametri
da tenere in considerazione e non il metodo di valutazione;
g) per altro, quand’anche si trattasse di clausole tra loro
in contraddizione, come sostenuto in ricorso, la loro
diretta incisività sulla corretta e consapevole elaborazione
dell’offerta, ne avrebbe imposto l’immediata contestazione,
senza attendere l’esito della gara;
h) l’attribuzione del punteggio finale deriva
dall’applicazione del predetto metodo;
i) la sindacabilità, ad opera del G.A., del giudizio di non
anomalia dell’offerta è limitata alle sole ipotesi di errori
di valutazione evidenti e gravi, oppure di valutazioni
abnormi o affette da errori di fatto.
Ritenuta la manifesta infondatezza del ricorso, in quanto,
in tema di appalti pubblici:
a) in linea stratta, la redazione dei processi verbali della
commissione di gara può essere fatta sulla base di appunti
presi durante lo svolgimento della singola seduta e, quindi,
in un tempo successivo rispetto a quello in cui le relative
deliberazioni sono state adottate, atteso che la lettura e
l’approvazione del processo verbale costituiscono
adempimenti che non devono avere luogo necessariamente nella
medesima adunanza (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. III,
12.09.2013 n. 8257; TAR Brescia, Sez. II, 09.08.2012 n.
1440);
b) gli atti ed i fatti descritti nel processo verbale,
avendo la funzione di costituire una documentazione probante
circa l’esistenza dei medesimi, fanno piena prova fino a
querela di falso (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 04.11.2002 n.
6004 e Sez. V, 19.03.2001 n. 1642);
c) la mancanza, sul relativo verbale, delle firme dei
partecipanti alla seduta estranei ai componenti del seggio
di gara non ne inficia la validità, in quanto l’attestazione
resa dal pubblico ufficiale verbalizzante è sufficiente, a
garanzia della loro presenza in loco e della riferibilità ai
medesimi delle attività e delle dichiarazioni riportate a
verbale;
d) ai sensi dell’art. 46, comma 1-bis, del D.lgs. 12.04.2006
n. 163, l’esclusione dalla gara è disposta esclusivamente
nel caso in cui il codice, la legge statale o il regolamento
attuativo la comminino espressamente, ovvero introducano
comunque “adempimenti doverosi” o “norme di
divieto”, pur senza prevedere espressamente
l’esclusione, ma sempre nella logica del numerus clausus,
con conseguente nullità delle clausole di bando che
dispongano in maniera difforme (cfr. Cons. Stato, Sez. VI,
22.07.2014 n. 3905 e 13.05.2010 n. 2956);
e) ambedue le omissioni ascrivibili all’offerta
dell’aggiudicataria non rientrano tra le cause tassative di
esclusione, in quanto la validità dell’offerta per 180
giorni discende direttamente dalla legge, mentre
l’indicazione del prezzo in cifre si ricava meccanicamente
dalla percentuale di ribasso offerta;
f) nella valutazione dell’offerta, la stazione appaltante ha
utilizzato, secondo le previsioni del bando, il metodo
aggregativo-compensatore di cui all’allegato P del D.P.R. n.
2017 del 2010, fermo restando che il richiamo all’art. 16
del capitolato speciale vale solo ad individuare i parametri
da tenere in considerazione e non il metodo di valutazione;
g) per altro, quand’anche si trattasse di clausole tra loro
in contraddizione, come sostenuto in ricorso, la loro
diretta incisività sulla corretta e consapevole elaborazione
dell’offerta, ne avrebbe imposto l’immediata contestazione,
senza attendere l’esito della gara (cfr. TAR Lombardia,
Milano, Sez. IV, 09.01.2014 n. 62);
h) l’attribuzione del punteggio finale deriva
dall’applicazione del predetto metodo;
i) la sindacabilità, ad opera del G.A., del giudizio di non
anomalia dell’offerta è limitata alle sole ipotesi di errori
di valutazione evidenti e gravi, oppure di valutazioni
abnormi o affette da errori di fatto (cfr. CGA 20.02.2013 n.
250), che non sono riscontrabili nella fattispecie de quo,
stante in particolare l’applicabilità del CCNL Multiservizi
anche agli operatori del settore sanitario e la non
macroscopica ed evidente irregolarità del calcolo sui costi
generali e della sicurezza (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 05.12.2014 n. 2100 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
Prestazione incompleta, il compenso resta pieno.
Il professionista ha diritto a incassare il compenso anche
se non effettua tutte le attività descritte nella parcella
pro forma. Infatti, il cliente può omettere il pagamento
solo nel caso in cui riesca a dimostrare l'inadempienza in
relazione alle singoli voci.
È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione -Sez. II
civile- che, con la
sentenza
04.12.2014 n. 25642, ha respinto il
ricorso del cliente di un commercialista che lamentava che
le prestazioni indicate nella parcella pro forma non
rispondevano a quelle realmente effettuate.
Per questo non aveva effettuato il pagamento. Così il
commercialista aveva chiesto e ottenuto un decreto
ingiuntivo. Inutile l'opposizione da parte del cliente.
Ora la Suprema corte ha reso definitivo il verdetto.
Sul punto la seconda sezione civile ha motivato che la
parcella del difensore è assimilabile a rendiconto in
relazione al quale le contestazioni del cliente non possono
essere generiche, ma devono riguardare specificamente le
singole voci esposte, sorgendo solo in caso di contestazione
l'obbligo del professionista di fornire una più appropriata
dimostrazione delle sue pretese, le quali, in caso
contrario, devono ritenersi provate nel loro fondamento di
fatto.
E non solo. Affermando questo principio i Supremi giudici
hanno inoltre ribadito che nel contratto d'opera la
prestazione di colui che si è obbligato a compiere l'opera,
non comprende solo lo svolgimento di un'attività lavorativa,
ma anche la produzione del risultato utile promesso, sicché
essa non può ritenersi adempiuta ove l'indicata attività non
sia valsa a conseguire il preciso risultato contemplato
dalla convenzione.
Di segno opposto rispetto alla decisione in esame è la
sentenza della Cassazione, n. 16782 del 22 luglio scorso,
secondo cui il commercialista non ha diritto ad alcun
compenso extra se la lettera di incarico, che prevede una
remunerazione omnicomprensiva, parla genericamente di
consulenza fiscale. Rientrano nelle sue competenze le
trasferte presso il cliente e le procedure organizzative
degli uffici.
In quell'occasione la seconda sezione civile ha respinto il
ricorso di una commercialista che chiedeva compensi extra
per trasferte, rispetto a quanto pattuito nella lettera di
incarico (articolo ItaliaOggi del 05.12.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
costituzione di un rapporto fideiussorio a garanzia del
pagamento del contributo, per il rilascio del permesso di
costruire, non radica in capo all'amministrazione comunale
il dovere di esigere l'adempimento dal fideiussore
preventivamente all'applicazione delle sanzioni pecuniarie
ex art. 42, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
---------------
Le sanzioni ex art. 42 dpr 380/2001 sono una conseguenza
legale ed automatica del ritardo nell'adempimento, che esula
dalla conoscenza dell'interessato e opera senza che
l'amministrazione creditrice abbia l’onere di preavviso né
necessità di preventiva messa in mora dell'obbligato.
In secondo luogo, occorre richiamare la condivisibile
giurisprudenza secondo cui la costituzione di un rapporto
fideiussorio a garanzia del pagamento del contributo, per il
rilascio del permesso di costruire, non radica in capo
all'amministrazione comunale il dovere di esigere
l'adempimento dal fideiussore preventivamente
all'applicazione delle sanzioni pecuniarie ex art. 42, comma
2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (TAR Campania–Napoli, Sez. VIII,
12.01.2012, n. 108; TAR Lombardia–Milano, Sez. II,
21.07.2009, n. 4405; sul previgente art. 3 l. 28.02.1985, n.
47, cfr. anche Cons. Stato, Sez. IV, 17.02.2014).
Ciò posto, ai sensi dell’art. 42 d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
il mancato versamento, nei termini stabiliti, del contributo
di costruzione comporta: a) l'aumento del contributo in
misura pari al 10 per cento qualora il versamento del
contributo sia effettuato nei successivi centoventi giorni;
b) l'aumento del contributo in misura pari al 20 per cento
quando, superato il termine di cui alla lettera a), il
ritardo si protrae non oltre i successivi sessanta giorni;
c) l'aumento del contributo in misura pari al 40 per cento
quando, superato il termine di cui alla lettera b), il
ritardo si protrae non oltre i successivi sessanta giorni.
Tali sanzioni sono una conseguenza legale ed automatica del
ritardo nell'adempimento, che esula dalla conoscenza
dell'interessato e opera senza che l'amministrazione
creditrice abbia l’onere di preavviso né necessità di
preventiva messa in mora dell'obbligato (cfr. Cons. Stato,
Sez. V, 17.03.2014, n. 1326; Cons. Stato, Sez. IV,
17.02.2014, n. 731).
La società ricorrente sostiene, però, che nel caso di specie
le sanzioni non sarebbero applicabili, in considerazione
dell’errore commesso dal Comune di Cosenza nella
determinazione del contributo di concessione. In sostanza,
il suo inadempimento all’obbligo di corrispondere il
contributo de quo sarebbe una legittima reazione avverso
l’illegittimità commessa dall’amministrazione pubblica.
Va però ricordato che il vigente ordinamento esclude che il
privato possa far valere da sé le proprie ragioni, salvi i
casi espressamente previsti dalla legge (ad esempio,
nell’ambito contrattualistico, l’eccezione inadimplenti
non est adimplendum di cui all’art. 1460 c.c.; o il
diritto di ritenzione accordato al possessore di buona fede
dall’art. 1152 c.c.; o, ancora, i poteri autoritativi
riconosciuti dall’art. 823 c.c. alle amministrazioni
pubbliche a tutela dei beni demaniali).
Nel caso in esame, nessuna norma autorizza l’autotutela del
privato, mercé la sospensione dei pagamenti delle rate del
contributo di costruzione, sicché tale sospensione, messa in
pratica dalla ricorrente, configura condotta illecita, tale
da comportare l’applicazione delle sanzioni di cui all’art.
42 d.P.R. 06.06.2014, n. 380, da computarsi –come ha fatto
il Comune di Cosenza- sulle somme effettivamente dovute.
E’ vero, peraltro, che la G.M.P. S.r.l. si è rivola a questo
Tribunale Amministrativo Regionale, per far accertare
l’errore di calcolo riscontrato. Ma ciò è avvenuto solo in
data 04.04.2014, dopo la notifica, da parte del Comune di
Cosenza, dell’ordinanza ingiunzione, allorché erano decorsi
più di 240 giorni dal termine per il pagamento di tutte le
rate ancora non corrisposte dalla G.M.P.
Non può dunque ritenersi che l’inadempimento da parte della
società ricorrente, che già prima della proposizione del
ricorso giurisdizionale aveva assunto le dimensioni
temporali cui l’art. 42 citato ancora l’applicazione di
sanzioni amministrative, sia in qualche modo giustificato.
La G.M.P. S.r.l. ha poi sottolineato di aver corrisposto, in
data 30.01.2014, la somma di € 10.000,00, a titolo di
acconto sulla quarta rate della quota di contributo di
costruzione costituita dagli oneri di urbanizzazione; ciò
dovrebbe comportare che la sanzione per il ritardato
pagamento degli stessi non debba essere computata
sull’intero ammontare della rata (€ 20.236,08), ma solo
sulla residua somma (€ 10.236.08).
Tale osservazione, però, non coglie nel segno, atteso che il
pagamento è avvenuto solo in data 30.01.2014, allorché era
scaduto da oltre 240 giorni il termine per il pagamento
della quarta rata della quota del contributo di costruzione
costituita dagli oneri di urbanizzazione
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 04.12.2014 n. 2096 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: In
materia di ordinanze contingibili e urgenti l’obbligo della
comunicazione sussiste allorché l’invio della stessa risulti
in concreto compatibile con il procedimento alla base del
provvedimento.
Nel caso di specie, nell’ordinanza impugnata non vi è alcuna
allegazione dei motivi di urgenza che abbiano reso
obiettivamente impossibile la comunicazione di avvio del
procedimento. Inoltre, dall’esame della situazione di fatto
e dal tipo di pericolo indicato nell’ordinanza
(infiltrazioni non continue e muffe all’interno
dell’abitazione della ricorrente, anche se visibili
dall’esterno) non sussisteva alcuna concreta ragione, per
adottare il provvedimento impugnato, in carenza di
contraddittorio e senza il coinvolgimento della diretta
interessata.
---------------
Presupposti per la legittima adozione da parte del Sindaco
dell’ordinanza contingibile e urgente sono rappresentati
dall’esistenza di un grave pericolo che minacci l’incolumità
pubblica o la sicurezza urbana. La contigibilità consiste in
una situazione imprevedibile ed eccezionale che non può
essere fronteggiata con i mezzi ordinari previsti
dall’ordinamento, mentre l’urgenza, causata dall’imminente
pericolosità, impone l’adozione di un efficace provvedimento
straordinario e di durata temporanea in deroga ai mezzi
ordinari previsti dall’ordinamento giuridico.
Secondo la giurisprudenza amministrativa, infatti, il
Sindaco può ricorrere motivatamente allo strumento
dell’ordinanza contingibile e urgente unicamente al fine di
fronteggiare con immediatezza sia una situazione di natura
eccezionale ed imprevedibile (in attesa dell’adozione delle
misure ordinarie), sia una condizione di pericolo imminente
al momento dell’adozione dell’ordinanza, indipendentemente
dalla circostanza che la situazione di emergenza fosse sorta
in epoca antecedente. Indispensabile, comunque, è sempre la
sussistenza, l’attualità e la gravità del pericolo, cioè il
rischio concreto di un danno grave e imminente.
Nel caso di specie, dalla lettura del provvedimento
impugnato emerge la mancanza dei presupposti costitutivi del
potere del Sindaco, non riscontrandosi un pericolo per
l’incolumità pubblica dalla sussistenza di infiltrazioni
d’acqua e muffe con effetti e rilevanza circoscritta
all’abitazione della ricorrente, derivanti dal piano
superiore.
-------------
Il potere del Sindaco, come precisato, può essere esercitato
al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che
minacciano l’incolumità dei cittadini e solo per
fronteggiare situazioni di carattere eccezionale ed
imprevedibile, costituenti concreta minaccia per la pubblica
incolumità, con la conseguenza che prima dell’adozione di
tali ordinanze si impone un rigoroso accertamento in
concreto della sussistenza dei presupposti che ne
giustificano l’esercizio, dando atto in motivazione della
situazione di grave e concreto pericolo per l’interesse
pubblico specifico a cui si intende apprestare una tutela
anticipata attraverso l’adozione dell’ordinanza contingibile
ed urgente.
Ora, se è pur vero l’accertamento del pericolo costituisce
una valutazione rimessa alla discrezionalità
dell’amministrazione deve rilevarsi che l’autorità
giudiziaria può legittimamente sindacare il corretto
esercizio di tale potere, al fine di verificare la
sussistenza dei presupposti di legge ed accertare se le
misure assunte non siano manifestamente irragionevoli,
irrazionali o illogiche.
Nel caso di specie, lo stato dei luoghi non consente di
ritenere la sussistenza di una situazione di pericolo per
l’incolumità pubblica tale da richiedere un intervento del
Sindaco, in quanto per un verso non si trattava di prevenire
ed eliminare gravi pericoli che minacciavano l’incolumità
dei cittadini e per altro verso non si trattava di
fronteggiare una situazione di carattere eccezionale ed
imprevedibile.
Tali argomentazioni hanno carattere assorbente e comportano
l’annullamento del provvedimento impugnato.
---------------
In relazione all’accertamento della responsabilità delle
infiltrazioni, si precisa, come variamente evidenziato dalla
giurisprudenza amministrativa, che l’ordinanza in oggetto
prescinde da qualunque accertamento di responsabilità nella
causazione del fattore di pericolo e si rivolge alla
proprietaria del bene su cui occorre intervenire, in quanto
soggetto che si trova in rapporto con la fonte del pericolo
tale da consentirle di eliminare la riscontrata situazione
di rischio.
Quest’ultima, quindi, pur dovendo in questa fase accollarsi
gli oneri dell’intervento, potrà rivalersi nella deputata
sede nei confronti dei soggetti ritenuti responsabili (ivi
compreso l’Ente pubblico), previo accertamento delle
relativa responsabilità, senza che l’esecuzione della messa
in sicurezza imposta dall’atto in questa sede gravato possa
intendersi quale acquiescenza, tale da precludere le pretese
di rivalsa.
Con ricorso L.A. chiedeva di annullare l’ordinanza
contingibile e urgente del Sindaco di Praia a Mare.
Riferiva: che il Sindaco di Praia a Mare ordinava alla
ricorrente, in qualità di proprietaria dell’abitazione
descritta in ricorso, di provvedere con immediatezza alla
bonifica e alla eliminazione degli inconvenienti igienici
riscontrati sulla propria unità immobiliare; che da un
sopralluogo effettuato dai tecnici dell’Asl veniva accertata
la presenza di vistose macchie di umidità, lo sviluppo di
muffe e il distacco della pittura, eventi da ricondurre a
infiltrazioni d’acqua piovana provenienti dal terrazzo o dal
cornicione sovrastante.
...
Secondo la giurisprudenza amministrativa, in materia di
ordinanze contingibili e urgenti l’obbligo della
comunicazione sussiste allorché l’invio della stessa risulti
in concreto compatibile con il procedimento alla base del
provvedimento (Cfr. Tar Calabria, Catanzaro, Sez. I,
27.04.2005, n. 692).
Nel caso di specie, nell’ordinanza impugnata non vi è alcuna
allegazione dei motivi di urgenza che abbiano reso
obiettivamente impossibile la comunicazione di avvio del
procedimento (Tar Campania Napoli, Sez. V, 19.06.2014, n.
3429). Inoltre, dall’esame della situazione di fatto e dal
tipo di pericolo indicato nell’ordinanza (infiltrazioni non
continue e muffe all’interno dell’abitazione della
ricorrente, anche se visibili dall’esterno) non sussisteva
alcuna concreta ragione, per adottare il provvedimento
impugnato, in carenza di contraddittorio e senza il
coinvolgimento della diretta interessata.
Presupposti per la legittima adozione da parte del Sindaco
dell’ordinanza contingibile e urgente sono rappresentati
dall’esistenza di un grave pericolo che minacci l’incolumità
pubblica o la sicurezza urbana. La contigibilità consiste in
una situazione imprevedibile ed eccezionale che non può
essere fronteggiata con i mezzi ordinari previsti
dall’ordinamento, mentre l’urgenza, causata dall’imminente
pericolosità, impone l’adozione di un efficace provvedimento
straordinario e di durata temporanea in deroga ai mezzi
ordinari previsti dall’ordinamento giuridico (Tar Lombardia
Milano, Sez. IV, 14.05.2014, n. 1255).
Secondo la giurisprudenza amministrativa, infatti, il
Sindaco può ricorrere motivatamente allo strumento
dell’ordinanza contingibile e urgente unicamente al fine di
fronteggiare con immediatezza sia una situazione di natura
eccezionale ed imprevedibile (in attesa dell’adozione delle
misure ordinarie), sia una condizione di pericolo imminente
al momento dell’adozione dell’ordinanza, indipendentemente
dalla circostanza che la situazione di emergenza fosse sorta
in epoca antecedente. Indispensabile, comunque, è sempre la
sussistenza, l’attualità e la gravità del pericolo, cioè il
rischio concreto di un danno grave e imminente (Tar Trentino
Alto Adige, 29.01.2014, n. 19; Tar Calabria, sez. I,
25.06.2013, n. 709; Tar Basilicata, 23.05.2013, n. 294).
Nel caso di specie, dalla lettura del provvedimento
impugnato emerge la mancanza dei presupposti costitutivi del
potere del Sindaco, non riscontrandosi un pericolo per
l’incolumità pubblica dalla sussistenza di infiltrazioni
d’acqua e muffe con effetti e rilevanza circoscritta
all’abitazione della ricorrente, derivanti dal piano
superiore.
Il potere del Sindaco, come precisato, può essere esercitato
al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che
minacciano l’incolumità dei cittadini e solo per
fronteggiare situazioni di carattere eccezionale ed
imprevedibile, costituenti concreta minaccia per la pubblica
incolumità, con la conseguenza che prima dell’adozione di
tali ordinanze si impone un rigoroso accertamento in
concreto della sussistenza dei presupposti che ne
giustificano l’esercizio, dando atto in motivazione della
situazione di grave e concreto pericolo per l’interesse
pubblico specifico a cui si intende apprestare una tutela
anticipata attraverso l’adozione dell’ordinanza contingibile
ed urgente.
Ora, se è pur vero l’accertamento del pericolo costituisce
una valutazione rimessa alla discrezionalità
dell’amministrazione deve rilevarsi che l’autorità
giudiziaria può legittimamente sindacare il corretto
esercizio di tale potere, al fine di verificare la
sussistenza dei presupposti di legge ed accertare se le
misure assunte non siano manifestamente irragionevoli,
irrazionali o illogiche.
Nel caso di specie, lo stato dei luoghi non consente di
ritenere la sussistenza di una situazione di pericolo per
l’incolumità pubblica tale da richiedere un intervento del
Sindaco, in quanto per un verso non si trattava di prevenire
ed eliminare gravi pericoli che minacciavano l’incolumità
dei cittadini e per altro verso non si trattava di
fronteggiare una situazione di carattere eccezionale ed
imprevedibile.
Tali argomentazioni hanno carattere assorbente e comportano
l’annullamento del provvedimento impugnato.
In relazione all’accertamento della responsabilità delle
infiltrazioni, si precisa, come variamente evidenziato dalla
giurisprudenza amministrativa, che l’ordinanza in oggetto
prescinde da qualunque accertamento di responsabilità nella
causazione del fattore di pericolo e si rivolge alla
proprietaria del bene su cui occorre intervenire, in quanto
soggetto che si trova in rapporto con la fonte del pericolo
tale da consentirle di eliminare la riscontrata situazione
di rischio.
Quest’ultima, quindi, pur dovendo in questa fase accollarsi
gli oneri dell’intervento, potrà rivalersi nella deputata
sede nei confronti dei soggetti ritenuti responsabili (ivi
compreso l’Ente pubblico), previo accertamento delle
relativa responsabilità, senza che l’esecuzione della messa
in sicurezza imposta dall’atto in questa sede gravato possa
intendersi quale acquiescenza, tale da precludere le pretese
di rivalsa (Tar Campania, Sez. V, 14.10.2013, n. 4603)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 04.12.2014 n. 2090 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Affidamenti in house vietati se ci sono quote azionarie di
privati. Impossibile applicare, per ora, la nuova direttiva
europea sugli appalti.
Per escludere radicalmente ogni
possibilità di legittimo affidamento "in house" è
sufficiente che vi sia, sebbene in minima percentuale, una
partecipazione privata al capitale sociale.
Lo ha ribadito il TAR Friuli Venezia Giulia con la
sentenza 04.12.2014 n. 629.
La nuova direttiva comunitaria sulle concessioni 2014/23/UE,
che ammette in talune ipotesi la partecipazione indiretta
dei privati alle società in house, “non risulta ancora
recepita dagli Stati membri, né essa si può considerare self
executing, sia per la sua natura, che richiede un
recepimento e adattamento a livello nazionale, sia perché
non è ancora scaduto il termine per il recepimento stesso”.
Pertanto, nel caso esaminato dal Tar Friuli, la non
contestata partecipazione dei privati alla società “comporta
che essa non può essere considerata una società di “in house
providing”, per cui risulta illegittima la delibera
impugnata di adesione a detta società e di affidamento alla
stessa del servizio di raccolta rifiuti”. A nulla rileva
poi la definizione contenuta nella normativa regionale della
società come ente pubblico economico.
IMPOSSIBILE LA PARTECIPAZIONE DI SOGGETTI
PRIVATI ANCHE SE SOLO IN MINIMA PERCENTUALE.
Nella sentenza si ricorda che “la giurisprudenza
comunitaria è tassativa nel ritenere impossibile la
partecipazione ancorché in percentuale minima di soggetti
privati alle società in house e tale posizione è stata
ripetutamente confermata dal Consiglio di Stato, a partire
dall’Adunanza Plenaria n 1 del 2008”.
Pertanto “È pacifico, nell'attuale stato di evoluzione
giurisprudenziale, che il requisito della totalità della
proprietà pubblica del capitale della società "in house"
debba sussistere in termini assoluti”.
L'affidamento diretto (in house) di un servizio
pubblico “viene consentito tutte le volte in cui un ente
pubblico decida di affidare la gestione del servizio, al di
fuori del sistema della gara, avvalendosi di una società
esterna (ossia, soggettivamente separata) che presenti
caratteristiche tali da poterla qualificare come una
"derivazione" o una "longa manus" dell'ente stesso. Infatti,
in ragione del cd. controllo analogo, che richiede non solo
la necessaria partecipazione pubblica totalitaria (posto che
la partecipazione, pur minoritaria, di un'impresa privata al
capitale di una società, alla quale partecipi anche
l'Amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che
tale amministrazione possa esercitare sulla medesima un
controllo analogo a quello che essa svolge sui propri
servizi) e la presenza di strumenti di controllo da parte
dell'ente più incisivi rispetto a quelli previsti dal
diritto civile”
(commento tratto da www.casaeclima.com - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
--------------
SENTENZA
Va invece considerata fondata la censura relativa al fatto
che di Ambiente servizi facciano parte, sia pure in
posizione minoritaria, anche soggetti privati. Infatti, il
maggiore azionista dell'ambiente servizi è il consorzio
Z.I.P.R. di cui fanno parte 40 società tra cui alcune
indubbiamente private. Orbene, la giurisprudenza comunitaria
è tassativa nel ritenere impossibile la partecipazione
ancorché in percentuale minima di soggetti privati alle
società in house e tale posizione è stata ripetutamente
confermata dal Consiglio di Stato, a partire dall’Adunanza
Plenaria n. 1 del 2008.
È pacifico, nell'attuale stato di evoluzione
giurisprudenziale, che il requisito della totalità della
proprietà pubblica del capitale della società "in house"
debba sussistere in termini assoluti.
Invero, l'affidamento diretto (in house) di un
servizio pubblico viene consentito tutte le volte in cui un
ente pubblico decida di affidare la gestione del servizio,
al di fuori del sistema della gara, avvalendosi di una
società esterna (ossia, soggettivamente separata) che
presenti caratteristiche tali da poterla qualificare come
una "derivazione" o una "longa manus"
dell'ente stesso.
Infatti, in ragione del cd. controllo analogo, che richiede
non solo la necessaria partecipazione pubblica totalitaria
(posto che la partecipazione, pur minoritaria, di un'impresa
privata al capitale di una società, alla quale partecipi
anche l'Amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso
che tale amministrazione possa esercitare sulla medesima un
controllo analogo a quello che essa svolge sui propri
servizi) e la presenza di strumenti di controllo da parte
dell'ente più incisivi rispetto a quelli previsti dal
diritto civile.
Inoltre non deve essere statutariamente consentito che una
quota del capitale sociale, anche minoritaria, possa essere
alienata a soggetti privati; il consiglio di amministrazione
della società deve essere privo di rilevanti poteri
gestionali; all'ente pubblico controllante deve essere
consentito l'esercizio di poteri maggiori rispetto a quelli
che il diritto societario riconosce normalmente alla
maggioranza sociale; l'impresa non deve acquisire una
vocazione commerciale che renda precario il controllo
dell'ente pubblico, con la conseguente apertura obbligatoria
della società ad altri capitali, fino all'espansione
territoriale dell'attività a tutta l'Italia e all'estero; le
decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio
preventivo dell'ente affidante, e della cd. "destinazione
prevalente dell'attività" (cioè il rapporto di stretta
strumentalità fra le attività dell'impresa e le esigenze
pubbliche che l'ente controllante è chiamato a soddisfare),
l'ente in house non può ritenersi terzo rispetto
all'Amministrazione controllante, ma deve considerarsi come
uno dei servizi propri dell'Amministrazione stessa (TAR
Puglia-Bari 02.04.2013 n. 458).
Al contrario, per escludere radicalmente ogni possibilità di
legittimo affidamento "in house" è, infatti,
sufficiente che vi sia, sebbene in minima percentuale, una
partecipazione privata al capitale sociale (CSGAS 09.02.2009
n 48; TAR Puglia Bari 14.05.2010 n. 1891; confronta anche
Corte conti FVG 08.05.2009 n. 55).
La nuova direttiva comunitaria sulle concessioni 2014/23/UE,
che sul punto ammette in talune ipotesi la partecipazione
indiretta dei privati alle società in house, non risulta
ancora recepita dagli Stati membri, né essa si può
considerare self executing, sia per la sua natura,
che richiede un recepimento e adattamento a livello
nazionale, sia perché non è ancora scaduto il termine per il
recepimento stesso.
Allo stato quindi la non contestata partecipazione dei
privati alla società Ambiente servizi comporta che essa non
può essere considerata una società di “in house providing”,
per cui risulta illegittima la delibera impugnata di
adesione a detta società e di affidamento alla stessa del
servizio di raccolta rifiuti. Ai fini della presente
controversia, a nulla rileva poi la definizione contenuta
nella normativa regionale della società come ente pubblico
economico. |
EDILIZIA PRIVATA: L’apposizione
di una doppia finestra, e come tale in grado di modificare
l’estetica del fabbricato, non può essere qualificato alla
stregua di una semplice manutenzione.
E’ impugnato un atto con cui l’amministrazione civica ha
disposto che l’interessata rimetta nel pristino stato un
numero non individuato di porte-finestre esterne ai
serramenti, che consistono in doppie finestre a protezione
delle aperture dell’appartamento di proprietà ubicato in via
san Barnaba 19/10; il collegio osserva che dalla letterale
formulazione del provvedimento gravato si ritrae che quanto
è stato ritenuto contrastante con le norme regolamentari
applicate è solo l’installazione delle doppie finestre a
protezione dei serramenti preesistenti.
Non hanno pertanto rilievo ai fini del presente decidere le
produzioni con cui l’interessata rappresenta suoi ritratti
giovanili a cui fanno da sfondo delle finestre in legno. Le
istantanee riprodurrebbero l’interessata decenni addietro in
posa sul balcone su cui si aprono le finestre ora schermate
dai doppi vetri, e sono intese ad offrire la prova che la
situazione attuale preesiste da molto tempo.
Il collegio non condivide tale assunto, proprio in
considerazione della contestazione mossa dal comune che non
riguarda la natura lignea od avvolgibile dei serramenti,
bensì l’installazione della doppia finestra che avrebbe
alterato il decoro dell’insieme abitato.
In tal senso devono ritenersi irrilevanti le allegazioni
indicate.
Ciò premesso, con il primo motivo la ricorrente denuncia la
violazione delle norme sul procedimento che è necessario
rispettare per conseguire l’autorizzazione all’installazione
dei manufatti contestati: a tenore dell’atto introduttivo
della lite la condotta sanzionata sarebbe rubricabile come
manutenzione ordinaria, come tale non abbisognevole di
determinazione alcuna o della previa presentazione di
domande all’autorità.
Il tribunale osserva che non si tratta dell’installazione o
della sostituzione dei serramenti quanto dell’apposizione di
una doppia finestra, cosa non comune agli altri appartamenti
del condominio, e come tale in grado di modificare
l’estetica del fabbricato: ne consegue che quanto posto in
essere non può essere qualificato alla stregua di una
semplice manutenzione, sì che la censura è infondata
(TAR Liguria, Sez. II,
sentenza 03.12.2014 n. 1785 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
presentare una richiesta di permesso di costruire,
la dichiarazione del progettista abilitato che
assevera la conformità del progetto alla disciplina
urbanistica deve essere intesa come un requisito essenziale
della domanda ai fini della formazione del silenzio-assenso.
Essa, difatti, nell’ipotesi di silenzio-assenso costituisce
appunto la motivazione interna del provvedimento favorevole
al privato e può giustificare, in un ottica di
semplificazione, l’inerzia dell’Amministrazione e il
conseguente assenso tacito su un progetto apparentemente
conforme alla disciplina urbanistica.
Il ricorso è infondato.
Ai sensi del comma 1 dell’articolo 20 del d.p.r. n. 380 del
2001, così come modificato dal d.l. n. 70 del 2011 (in
vigore dal 13.07.2011), “la domanda per il rilascio del
permesso di costruire, sottoscritta da uno dei soggetti
legittimati ai sensi dell'articolo 11, va presentata allo
sportello unico corredata da un'attestazione concernente il
titolo di legittimazione, dagli elaborati progettuali
richiesti, e quando ne ricorrano i presupposti, dagli altri
documenti previsti dalla parte. La domanda è accompagnata da
una dichiarazione del progettista abilitato che asseveri la
conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati
ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre
normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell'attività edilizia e, in particolare, alle norme
antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie
nel caso in cui la verifica in ordine a tale conformità non
comporti valutazioni tecnico-discrezionali, alle norme
relative all'efficienza energetica”.
Ai sensi del successivo comma 9: “Decorso inutilmente il
termine per l'adozione del provvedimento conclusivo, ove il
dirigente o il responsabile dell'ufficio non abbia opposto
motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire si
intende formato il silenzio-assenso, fatti salvi i casi in
cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o
culturali, per i quali si applicano le disposizioni di cui
al comma 9”.
Ad avviso del Collegio, deve ritenersi pertanto che la
dichiarazione del progettista abilitato che assevera la
conformità del progetto alla disciplina urbanistica deve
essere intesa come un requisito essenziale della domanda ai
fini della formazione del silenzio-assenso.
Essa, difatti, nell’ipotesi di silenzio-assenso costituisce
appunto la motivazione interna del provvedimento favorevole
al privato e può giustificare, in un ottica di
semplificazione, l’inerzia dell’Amministrazione e il
conseguente assenso tacito su un progetto apparentemente
conforme alla disciplina urbanistica.
Questo Tribunale amministrativo, del resto, si è già
espresso in senso conforme su tale circostanza, in più
occasioni (cfr. Tar Pescara, sentenza n. 583 del 2013;
ibidem, sentenza n. 27 del 2014).
Non essendovi contestazione in fatto in ordine alla mancanza
dell’asseverazione del progettista, pertanto, il Collegio
non può che respingere la domanda tesa all’accertamento
della formazione del silenzio assenso
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 03.12.2014 n. 486 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: E’
noto che i titoli abilitativi edilizi, da un lato si
rilasciano ai sensi dell’art. 11, comma 3, T.U. 06.06.2001
n. 380, salvi i diritti dei terzi, e quindi dovrebbero in
linea di principio prescindere dai titoli civilistici dei
terzi stessi, anche se in astratto suscettibili di
paralizzarne l’efficacia, come nel caso esemplare di un
permesso di costruire rilasciato su un fondo che è
inedificabile per causa di una servitù in tal senso.
Dall’altro lato però, i titoli stessi impongono ai sensi
dell’art. 11 citato, comma 1, all’amministrazione che le
rilascia di verificare la legittimazione del richiedente, e
con essa, si dovrebbe ritenere, anche la sussistenza di
diritti di terzi che la escludano.
La contraddizione potenziale -secondo la giurisprudenza- si
compone applicando il principio di non aggravamento del
procedimento.
In tali termini, un titolo confliggente con i diritti di
terzi sarà legittimo se l’amministrazione non poteva
riconoscerne l’esistenza in base ai soli atti del
procedimento forniti dalla parte interessata; sarà invece
illegittima se dell’esistenza del vincolo l’amministrazione
aveva motivo di sospettare.
---------------
In generale, per l’art. 1002 c.c. comma 1, “ciascun
partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne
alteri la destinazione e non impedisca agli altri
partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.
A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni
necessarie per il miglior godimento della cosa.”.
Nel caso particolare che qui rileva, di installazione di una
canna fumaria che interessi anche la facciata in
corrispondenza delle proprietà di altri condomini, costante
giurisprudenza non nega a priori la possibilità di
effettuare l’opera senza l’assenso di costoro; richiede
però, perché se ne possa prescindere, che in concreto non
siano pregiudicati l’armonia e il decoro della facciata in
questione.
Di conseguenza, il provvedimento impugnato, che motiva
soltanto con riguardo alla mancanza della “piena titolarità
a intervenire” (doc. 10 Comune, cit.) derivante dal diniego
degli altri condomini, e non apprezza l’impatto dell’opera
sulla facciata interessata, risulta illegittimo e va
annullato.
... per l’annullamento, previa sospensione, del
provvedimento 16.07.2014 prot. n. 28344 del successivo 17
luglio, conosciuto in data imprecisata, con il quale il
Dirigente del settore attività produttive e sviluppo
economico del Comune di Mantova ha respinto la richiesta
presentata dalla Borgo Immobiliare S.r.l. per la
installazione di una canna fumaria esterna nell’immobile
sito al locale corso Vittorio Emanuele II civico 73,
distinto al catasto al foglio 34, mappale 142, subalterno
20;
...
- che è infondato e va respinto anche il secondo
motivo. E’ noto che i titoli abilitativi edilizi, da un lato
si rilasciano ai sensi dell’art. 11, comma 3, T.U.
06.06.2001 n. 380, salvi i diritti dei terzi, e quindi
dovrebbero in linea di principio prescindere dai titoli
civilistici dei terzi stessi, anche se in astratto
suscettibili di paralizzarne l’efficacia, come nel caso
esemplare di un permesso di costruire rilasciato su un fondo
che è inedificabile per causa di una servitù in tal senso.
Dall’altro lato però, i titoli stessi impongono ai sensi
dell’art. 11 citato, comma 1, all’amministrazione che le
rilascia di verificare la legittimazione del richiedente, e
con essa, si dovrebbe ritenere, anche la sussistenza di
diritti di terzi che la escludano. La contraddizione
potenziale -secondo la giurisprudenza, per tutte già TAR
Liguria 11.07.2007 n. 1376- si compone applicando il
principio di non aggravamento del procedimento.
In tali termini, un titolo confliggente con i diritti di
terzi sarà legittimo se l’amministrazione non poteva
riconoscerne l’esistenza in base ai soli atti del
procedimento forniti dalla parte interessata; sarà invece
illegittima se dell’esistenza del vincolo l’amministrazione
aveva motivo di sospettare. Così nel caso di specie, dato
che negli edifici in condominio per definizione a fronte
dell’opera del singolo condomino vi sono i diritti degli
altri condomini, e quindi correttamente il Comune li ha
considerati;
- che è invece fondato e va accolto il terzo motivo. In
generale, per l’art. 1002 c.c. comma 1, “ciascun
partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne
alteri la destinazione e non impedisca agli altri
partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.
A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni
necessarie per il miglior godimento della cosa.”.
Nel caso particolare che qui rileva, di installazione di una
canna fumaria che interessi anche la facciata in
corrispondenza delle proprietà di altri condomini, costante
giurisprudenza –Cass. civ. sez. II 11.05.2011 n. 10350, T.
Roma sez. XII 28.07.2002, T. Milano 26.03.1992 e T. Trento
16.05.2013 n. 432- non nega a priori la possibilità di
effettuare l’opera senza l’assenso di costoro; richiede
però, perché se ne possa prescindere, che in concreto non
siano pregiudicati l’armonia e il decoro della facciata in
questione.
Di conseguenza, il provvedimento impugnato, che motiva
soltanto con riguardo alla mancanza della “piena
titolarità a intervenire” (doc. 10 Comune, cit.)
derivante dal diniego degli altri condomini, e non apprezza
l’impatto dell’opera sulla facciata interessata, risulta
illegittimo e va annullato
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 02.12.2014 n. 1308 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi del comma 1 dell'art. 10 del dlgs n. 42 del 2004, le
piazze pubbliche (in specie laddove rientranti nell’ambito
dei centri storici) sono qualificabili come ‘beni culturali’
indipendentemente dall’adozione di una dichiarazione di
interesse storico-artistico.
1.- Risulta dalla sentenza appellata che il Tribunale
amministrativo regionale per la Puglia ha accolto il ricorso
proposto da La Luna s.r.l. avverso il parere della
Soprintendenza del 14.12.2011 e il collegato diniego
comunale del permesso in sanatoria di un gazebo antistante
il marciapiede dell’esercitata attività di ristorazione in
Piazza Amedeo, nel centro storico di Taranto.
La sentenza si è basata sulla considerazione che “le
pubbliche piazze, vie, strade, e altri spazi urbani di
interesse artistico o storico” non costituiscono beni
culturali ipso iure, in assenza della dichiarazione di cui
agli artt. 12 e 13 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, nella
specie non emessa.
Con l’appello qui in esame, fondato su un unico motivo di
censura, l’Amministrazione dei beni culturali critica la
sentenza nel diverso assunto che le piazze pubbliche non
necessitano di dichiarazione di interesse storico-artistico,
in quanto sono di per sé beni culturali; e nel concreto ha
illustrato il contesto ambientale e monumentale,
caratterizzato dal Palazzo del Governo e dal Palazzo delle
Poste.
Ha resistito in giudizio la società appellata, con il
controricorso e la memoria depositata l’08.05.2014,
sostenendo che non tutte le pubbliche piazze, strade, vie ed
altri spazi aperti urbani rientrano tra i beni culturali ma
solo quelle aventi caratteristica dichiarata di “interesse
artistico o storico”; e in subordine riproponendo il
motivo assorbito in primo grado, relativo alla contestata
eccessività di impatto del gazebo e al suo carattere solo
temporaneo.
Alla pubblica udienza del 10.06.2014 la causa è stata
trattenuta in decisione.
2.- L’appello è fondato e la sentenza merita di essere
riformata, non sussistendo valida ragione per discostarsi
dai precedenti richiamati e dalle persuasive conclusioni cui
si è pervenuti in sede di decisione cautelare ed alla quale
si rinvia (Cons. Stato, VI, ord. 26.09.2013, n. 3804: vale a
dire, Cons. Stato, VI, 24.01.2001, n. 482; 30.07.2013, n.
4010; 11.09.3013, n. 4497).
La Sezione ha infatti accolto la misura cautelare ed ha
sospeso l’esecutività della sentenza impugnata “stante la
pacifica inclusione della Piazza Amedeo all’interno del
centro storico di Taranto e in coerenza con la
giurisprudenza della Sezione secondo cui, ai sensi del comma
1 dell'articolo 10 del decreto legislativo n. 42 del 2004,
le piazze pubbliche (in specie laddove rientranti
nell’ambito dei centri storici) sono qualificabili come
‘beni culturali’ indipendentemente dall’adozione di una
dichiarazione di interesse storico-artistico (in tal senso:
Cons. Stato, VI, sent. 482/2011; id., VI, sent. 4010/2013;
id., VI, sent. 4497/2013)”.
Nell’identità delle questioni controverse tra la parti e non
avendo l’attività processuale successiva apportato diversi o
ulteriori elementi di giudizio, i relativi fondamenti in
punto di fatto e di diritto non possono che essere qui
ribaditi
(Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 01.12.2014 n. 5934 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non implica precarietà dell'opera, ai fini
autorizzativi e dell'esenzione dal permesso di costruire, il
carattere stagionale di essa, quando la stessa è destinata a
soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza
nel tempo della sua funzione (non sono infatti manufatti
destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli
destinati ad un’utilizzazione perdurante nel tempo, sicché
l'alterazione non può essere considerata temporanea,
precaria o irrilevante), anche se con la reiterazione della
presenza del manufatto di anno in anno nella sola buona
stagione.
Non fondato è poi il
subordinato motivo riproposto dalla società appellata in
ordine alla confutata alterazione della percezione di
insieme del contesto ambientale e monumentale della piazza
nonché circa la rimovibilità del gazebo.
Si tratta invero di una valutazione svolta nel pieno
esercizio della discrezionalità tecnica propria
dell’Amministrazione dei beni culturali nell’esercizio della
funzione di tutela: che non appare esercitata in modo
travisante dei fatti, né in modo logicamente inattendibile.
Nella fattispecie, non si può del resto dubitare tanto dei
presupposti bene ritenuti dalla locale Soprintendenza nel
quadro della discrezionalità tecnica propria della tutela
(invasività del centro storico con un gazebo alterante la
visione d’insieme dell’architettura monumentale esistente),
quanto dell’effetto di snaturamento dei caratteri formali di
contesto del marciapiede a seguito dell’installazione del
gazebo stesso (a dire dell’appellata “avente carattere
precario, all’interno del quale, soprattutto nel periodo
invernale, somministrare i pasti agli avventori”).
Infatti è palese, a sostegno degli elementi rilevati che
debbono caratterizzare il legittimo esercizio della
discrezionalità tecnica che l’intervento innovativo alla
visione d’insieme, non autorizzato, viene a realizzare non
solo un cambiamento circa la destinazione d’uso del
marciapiede ma soprattutto una difforme sua connessione
fisica (in riferimento al quadro spaziale e percettivo).
Al riguardo è poi da osservare che la giurisprudenza è
consolidata nel ritenere che non implica precarietà
dell'opera, ai fini autorizzativi e dell'esenzione dal
permesso di costruire, il carattere stagionale di essa,
quando la stessa è destinata a soddisfare bisogni non
provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua
funzione (non sono infatti manufatti destinati a soddisfare
esigenze meramente temporanee quelli destinati ad
un’utilizzazione perdurante nel tempo, sicché l'alterazione
non può essere considerata temporanea, precaria o
irrilevante: Cons. Stato, V, 24.02.1996, n. 226; V,
24.02.2003, n. 986; IV, 23.07.2009, n. 4673; V, 12.12.2009,
n. 7789; VI, 16.02.2011, n. 986), anche se con la
reiterazione della presenza del manufatto di anno in anno
nella sola buona stagione (ex multis: Cass., III,
05.03.2013, n. 10235 e 21.06.2011, n. 34763; Cons. Stato, IV,
22.12.2007, n. 6615; VI, 16.02.2011, n. 986; VI, 07.09.2012,
n. 4759; VI, 18.09.2013, n. 4642) (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 01.12.2014 n. 5934 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: In
primo luogo, le previsioni di cui all’art. 38 D.Lgs. n.
163 del 2006 devono ritenersi applicabili a ciascuno dei
concorrenti, ai quali non è riservata dalla legge la libertà
di sindacare la gravità o meno dei reati commessi dai
singoli rappresentanti legali delle ditte concorrenti: tale
vaglio è rimesso alla esclusiva valutazione della stazione
appaltante, alla quale devono essere fornite tutte le
necessarie informazioni riguardo allo scopo, solo ad essa
riservato, di verificare la moralità o la professionalità
degli aspiranti all’aggiudicazione del contratto.
Quindi, nel caso di specie, il concorrente –non effettuando
la dichiarazione considerata necessaria dalla legge– ha
precluso l’esercizio della funzione tipica del soggetto
chiamato alla verifica del pubblico interesse.
In secondo luogo, la dichiarazione di estinzione del
reato –disposta nella specie dopo la domanda di
partecipazione alla gara- non ha effetti meramente
dichiarativi, poiché il giudice chiamato a pronunciarsi deve
verificare la sussistenza di determinati presupposti che non
possono essere considerati consistenti unicamente nel
decorso del tempo: dunque, essendo stata decisa la
dichiarazione di estinzione dopo la domanda di
partecipazione alla gara, la condanna doveva essere
menzionata.
In terzo luogo, si deve rilevare che la condanna
irrogata alla rappresentante legale della cooperativa
sociale ... atteneva a fatti molto dolorosi, ovverosia
l’omicidio colposo di un neonato, fatto dovuto a
trascuratezza: si deve al riguardo considerare che il
servizio posto in gara riguardava l’affidamento della
gestione dei nidi infanzia comunali e quindi la stazione
appaltante era invece realmente tenuta a verificare la
natura di fatti strettamente collegati alla professionalità
di chi aspirava a svolgere questo servizio.
In ogni caso l’esame della seconda censura sollevata
dall’appellante a.t.i. risulta infondata.
Sostiene l’appellante che il precedente penale a carico
della rappresentante legale della cooperativa ...., e non
dichiarato ai sensi dell’art. 38 D.Lgs. n. 163 del 2006,
fosse da ritenersi irrilevante, in quanto il reato non
poteva essere pertinente alla professionalità
dell’interessata ed inoltre, perché lo stesso reato era
stato dichiarato estinto, sia pure dopo la procedura di
gara, ma comunque con pronuncia ad effetti evidentemente
dichiarativi.
In realtà, in primo luogo, le previsioni di cui
all’art. 38 D.Lgs. n. 163 del 2006 devono ritenersi
applicabili a ciascuno dei concorrenti, ai quali non è
riservata dalla legge la libertà di sindacare la gravità o
meno dei reati commessi dai singoli rappresentanti legali
delle ditte concorrenti: tale vaglio è rimesso alla
esclusiva valutazione della stazione appaltante, alla quale
devono essere fornite tutte le necessarie informazioni
riguardo allo scopo, solo ad essa riservato, di verificare
la moralità o la professionalità degli aspiranti
all’aggiudicazione del contratto.
Quindi, nel caso di specie, il concorrente –non effettuando
la dichiarazione considerata necessaria dalla legge– ha
precluso l’esercizio della funzione tipica del soggetto
chiamato alla verifica del pubblico interesse.
In secondo luogo, la dichiarazione di estinzione del
reato –disposta nella specie dopo la domanda di
partecipazione alla gara- non ha effetti meramente
dichiarativi, poiché il giudice chiamato a pronunciarsi deve
verificare la sussistenza di determinati presupposti che non
possono essere considerati consistenti unicamente nel
decorso del tempo: dunque, essendo stata decisa la
dichiarazione di estinzione dopo la domanda di
partecipazione alla gara, la condanna doveva essere
menzionata.
In terzo luogo, si deve rilevare che la condanna
irrogata alla rappresentante legale della cooperativa
sociale ... atteneva a fatti molto dolorosi, ovverosia
l’omicidio colposo di un neonato, fatto dovuto a
trascuratezza: si deve al riguardo considerare che il
servizio posto in gara riguardava l’affidamento della
gestione dei nidi infanzia comunali e quindi la stazione
appaltante era invece realmente tenuta a verificare la
natura di fatti strettamente collegati alla professionalità
di chi aspirava a svolgere questo servizio.
Quanto alle deduzioni dell’appellante sull’obbligo della
stazione appaltante di acquisire la documentazione e sul
rilievo della invocata pronuncia dell’Adunanza Plenaria, per
la loro reiezione è decisivo considerare che il bando di
gara –da considerare legittimo in considerazione del potere
dell’amministrazione di fissare tempi certi per la
definizione del procedimento- ha qualificato come perentorio
il termine da essa fissato per la produzione dei documenti,
sicché rileva di per sé la circostanza obiettiva del
relativo decorso del tempo (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 01.12.2014 n. 5921 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Fascia di servitù idraulica: dieci metri (96, lett. f, RD n.
523/1904) o la diversa misura fissata dal regolamento -
Valore di vincolo assoluto di inedificabilità - Va applicato
anche rispetto ad un corso d’acqua che, nello specifico
sito, sia stato coperto o protetto da un consistente argine.
Il Comune, di fronte alla domanda di
sanatoria, di un box costruito in prossimità di un corso
d’acqua pubblica, in violazione del divieto di cui alla
lett. f) dell’art. 96 RD n. 523/1904 o di quello diverso
fissato dal regolamento, “non poteva che negare il titolo
abilitativo edilizio in sanatoria.
L’art. 96 cit. non fa alcuna distinzione tra argini naturali
ed artificiali, sicché è del tutto irrilevante che, nel
tratto in questione, il torrente Lura sia stato delimitato
da un muro di contenimento.
Ugualmente non può assumere rilevanza il fatto che il torrente Lura, in
quel tratto, è completamente coperto. La norma di cui
all’art. 96 cit. vale, infatti, anche per i corsi d’acqua
tombinati.
Tale conclusione, pacifica in giurisprudenza, trova
giustificazione nella finalità del divieto di edificazione
posto dal citato art. 96, che non è solo quella di
assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque
demaniali ed il loro libero deflusso, ma anche quella di
consentire uno spazio di manovra nel caso di … manutenzione
delle condutture …”
(T.S.A.P.,
sentenza 29.11.2014 n. 246). |
URBANISTICA: Tutti
i divieti di alienazione previsti dall’art. 35, commi 15 e
ss., della L. n. 865/1971 e riprodotti nella convenzione
P.E.E.P. qui in esame sono stati abrogati dall’art. 23,
comma 2, della L. 17.02.1992, n. 179, con effetto dal
15.03.1992.
Ciò comporta che, a far data dal 15.03.1992, tutti gli
alloggi realizzati in attuazione della convenzione P.E.E.P.
stipulata il 09.05.1985 dal Comune con la cooperativa ...
sono divenuti liberamente alienabili da parte dei rispettivi
proprietari, non soggiacendo più ai divieti di alienazione
sanciti a pena di nullità dalle previsioni abrogate
dell’art. 35, pedissequamente riprodotte nella predetta
convenzione.
Né è possibile ritenere che i divieti in questione, benché
abrogati dall’art. 23, comma 2, della L. n. 179/1992, siano
sopravvissuti e siano tuttora efficaci e vincolanti tra le
parti, iure privatorum, in forza delle pattuizioni contenute
nella convenzione de qua, dal momento che i divieti di cui
discute non sono stati generati dalla convenzione ma
direttamente dalla legge: come dimostra, sia l’espresso
richiamo all’art. 35 L. 865/1971 contenuto nelle clausole
convenzionali contemplanti i predetti divieti (“Come
previsto dall’art. 35, comma 15, della legge n. 865 del
22.10.1971…”, cfr. art. 9 convenzioni), sia la riproduzione
pressoché letterale in dette clausole del contenuto del
citato comma 15 dell’art. 35, sia, infine, la circostanza
che la violazione dei predetti divieti sia stata
convenzionalmente sanzionata a pena di “nullità” dell’atto
di disposizione, la quale non può avere fonte convenzionale
ma solo legale.
Se, dunque, i divieti di alienazione degli alloggi
realizzati sulle aree P.E.E.P. del Comune di Rivoli
discendevano direttamente dalla legge e non dalla
convenzione (la quale si è limitata a recepire la normativa
di settore all’epoca vigente), ne consegue che, abrogata la
legge fonte del divieto, è venuto meno anche il divieto (a
far data dal 15.03.1992).
In tal senso si è pronunciato anche il Ministero dei Lavori
Pubblici, Segretariato generale del Comitato per l’Edilizia
residenziale, nella circolare 09.08.1993 prot. B/7418 e
nella successiva circolare 07.06.1996 prot. n. 2166, fatte
proprie dalla Regione Piemonte, Assessorato Urbanistica ed
Edilizia Residenziale nella circolare 21.07.1997, prot.
24324/646/97.
Nello stesso senso si è pronunciata anche la Corte di
Cassazione, sez, I, civ, con sentenza 10.11.2008 n. 26915.
... per l'annullamento della deliberazione del Consiglio
Comunale di Rivoli del 25.11.2004, n. 120, pubblicata
all'albo pretorio del Comune per quindici giorni consecutivi
a partire dal 02.12.2004, avente ad oggetto l'approvazione
dello schema di modifica della convenzione per
l'eliminazione dei vincoli e l'approvazione del metodo di
stima e calcolo del corrispettivo per aree comprese in
ambito p.e.e.p. o localizzate ai sensi dell'art. 51 della
legge n. 865/1971 già concesse in diritto di proprietà,
laddove determinano gli importi a carico dei ricorrenti,
titolari di unità immobiliari della cooperativa edilizia,
ora condominio, "Savarino";
...
Va osservato, infatti, che tutti i divieti di alienazione
previsti dall’art. 35, commi 15 e ss., della L. n. 865/1971
e riprodotti nella convenzione P.E.E.P. qui in esame sono
stati abrogati dall’art. 23, comma 2, della L. 17.02.1992,
n. 179, con effetto dal 15.03.1992.
Ciò comporta che, a far data dal 15.03.1992, tutti gli
alloggi realizzati in attuazione della convenzione P.E.E.P.
stipulata il 09.05.1985 dal Comune di Rivoli con la
cooperativa Savarino sono divenuti liberamente alienabili da
parte dei rispettivi proprietari, non soggiacendo più ai
divieti di alienazione sanciti a pena di nullità dalle
previsioni abrogate dell’art. 35, pedissequamente riprodotte
nella predetta convenzione.
Né è possibile ritenere che i divieti in questione, benché
abrogati dall’art. 23, comma 2, della L. n. 179/1992, siano
sopravvissuti e siano tuttora efficaci e vincolanti tra le
parti, iure privatorum, in forza delle pattuizioni
contenute nella convenzione de qua, dal momento che i
divieti di cui discute non sono stati generati dalla
convenzione ma direttamente dalla legge: come dimostra, sia
l’espresso richiamo all’art. 35 L. 865/1971 contenuto nelle
clausole convenzionali contemplanti i predetti divieti (“Come
previsto dall’art. 35, comma 15, della legge n. 865 del
22.10.1971…”, cfr. art. 9 convenzioni), sia la
riproduzione pressoché letterale in dette clausole del
contenuto del citato comma 15 dell’art. 35, sia, infine, la
circostanza che la violazione dei predetti divieti sia stata
convenzionalmente sanzionata a pena di “nullità”
dell’atto di disposizione, la quale non può avere fonte
convenzionale ma solo legale.
Se, dunque, i divieti di alienazione degli alloggi
realizzati sulle aree P.E.E.P. del Comune di Rivoli
discendevano direttamente dalla legge e non dalla
convenzione (la quale si è limitata a recepire la normativa
di settore all’epoca vigente), ne consegue che, abrogata la
legge fonte del divieto, è venuto meno anche il divieto (a
far data dal 15.03.1992).
In tal senso si è pronunciato anche il Ministero dei Lavori
Pubblici, Segretariato generale del Comitato per l’Edilizia
residenziale, nella circolare 09.08.1993 prot. B/7418 e
nella successiva circolare 07.06.1996 prot. n. 2166, fatte
proprie dalla Regione Piemonte, Assessorato Urbanistica ed
Edilizia Residenziale nella circolare 21.07.1997, prot.
24324/646/97.
Nello stesso senso si è pronunciata anche la Corte di
Cassazione, sez, I, civ, con sentenza 10.11.2008 n. 26915.
Alla luce di tali rilievi, ritiene il collegio che, in
accoglimento della censura dedotta dalla parte ricorrente
con il secondo motivo dedotto, la deliberazione impugnata
sia illegittima e debba essere annullata per violazione
dell’art. 23 della L. 17.02.1992 n. 179 dal momento che essa
ha inteso imporre, indebitamente, ai proprietari degli
alloggi PEEP il pagamento di un corrispettivo per
l’eliminazione di divieti di alienazione che, in realtà,
sono già stati abrogati ex lege a far data dal
15.03.1992
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 28.11.2014 n. 1916 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
giudizio di verifica della congruità di un’offerta anomala
ha natura globale e sintetica sulla serietà o meno
dell’offerta nel suo insieme: l’attendibilità dell’offerta
va, cioè, valutata nel suo complesso, e non con riferimento
alle singole voci di prezzo ritenute incongrue, avulse
dall'incidenza che potrebbero avere sull'offerta economica
nel suo insieme, ferma restando la possibile rilevanza del
giudizio di inattendibilità che dovesse investire voci che,
per la loro importanza ed incidenza complessiva,
renderebbero l'intera operazione economica implausibile e,
per l'effetto, insuscettibile di accettazione da parte
dell'amministrazione, in quanto insidiata da indici
strutturali di carente affidabilità.
In buona sostanza occorre rilevare che la verifica di
anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e
singole inesattezze dell’offerta economica, mirando, invece,
ad accertare se l’offerta, nel suo complesso, sia
attendibile o inattendibile, e dunque se dia o meno serio
affidamento circa la corretta esecuzione dell’appalto.
In secondo luogo l’indagine costituisce espressione di un
potere tecnico-discrezionale dell’amministrazione di per sé
insindacabile in sede di legittimità, salva l’ipotesi in cui
le valutazioni affette da macroscopica irragionevolezza,
arbitrarietà, irrazionalità o travisamento dei fatti.
La giurisprudenza prevalente ha ripetutamente
osservato che il giudizio di verifica della congruità di
un’offerta anomala ha natura globale e sintetica sulla
serietà o meno dell’offerta nel suo insieme (Consiglio di
Stato, sez. V – 08/09/2010 n. 6495): l’attendibilità
dell’offerta va, cioè, valutata nel suo complesso, e non con
riferimento alle singole voci di prezzo ritenute incongrue,
avulse dall'incidenza che potrebbero avere sull'offerta
economica nel suo insieme, ferma restando la possibile
rilevanza del giudizio di inattendibilità che dovesse
investire voci che, per la loro importanza ed incidenza
complessiva, renderebbero l'intera operazione economica implausibile e, per l'effetto, insuscettibile di
accettazione da parte dell'amministrazione, in quanto
insidiata da indici strutturali di carente affidabilità
(Consiglio di Stato, sez. V – 17/01/2014 n. 162).
In buona
sostanza occorre rilevare che la verifica di anomalia non ha
per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze
dell’offerta economica, mirando, invece, ad accertare se
l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile o
inattendibile, e dunque se dia o meno serio affidamento
circa la corretta esecuzione dell’appalto (Consiglio di
Stato, sez. VI – 21/05/2009 n. 3146; sentenza Sezione
08/02/2012 n. 195).
In secondo luogo l’indagine costituisce espressione di
un potere tecnico-discrezionale dell’amministrazione di per
sé insindacabile in sede di legittimità, salva l’ipotesi in
cui le valutazioni affette da macroscopica irragionevolezza,
arbitrarietà, irrazionalità o travisamento dei fatti
(Consiglio di Stato, sez. V – 02/10/2014 n. 4932; sez. IV –
20/05/2008 n. 2348)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 27.11.2014 n. 1300 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L’opzione
interpretativa delineata dal Collegio è peraltro coerente
con il principio generale per cui il bando di gara
cristallizza le regole applicabili alla procedura
competitiva, con conseguente indifferenza e insensibilità
alle modifiche normative sopravvenute.
Va peraltro osservato che, nelle gare pubbliche, i valori
del costo del lavoro risultanti dalle tabelle ministeriali
non costituiscono un limite inderogabile, ma semplicemente
un parametro di valutazione della congruità dell'offerta
sotto tale profilo, con la conseguenza che l'eventuale
scostamento da tali parametri delle relative voci di costo
non legittima ex se un giudizio di anomalia.
In materia di incongruenze concernenti il costo del lavoro,
infatti, devono considerarsi anormalmente basse le offerte
che si discostino in modo evidente dai costi medi del lavoro
indicati nelle tabelle predisposte dal Ministero del Lavoro
base ai valori previsti dalla contrattazione collettiva:
detti “costi medi” non costituiscono parametri inderogabili,
ma indici del giudizio di adeguatezza dell'offerta, con la
conseguenza che è ammissibile l'offerta che da essi si
discosti, purché lo scostamento non sia eccessivo e vengano
salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori, così come
stabilito in sede di contrattazione collettiva.
E’ anzitutto infondata la
contestazione sulla scostamento dalle tabelle “luglio 2013”,
dato che correttamente l’amministrazione ha fatto
riferimento a quelle di “aprile 2013” per tempo vigenti; è
pur vero che l’art. 10 del capitolato speciale d’appalto
stabiliva testualmente che “Saranno considerate
inammissibili e quindi escluse, le offerte nelle quali il
costo del lavoro previsto sia inferiore al costo stabilito
dalla tabella Ministeriale di riferimento per la provincia
di Bergamo …, in vigore all’atto della consegna
dell’offerta”.
Ebbene, il termine ultimo di presentazione
delle offerte era effettivamente fissato per il 14/02/2014 e
le nuove tabelle sono state approvate con D.M. datato
13/02/2014, ma la loro pubblicazione è stata effettuata, per
comunicato, nella Gazzetta ufficiale dell’01/03/2014 n. 50: la
loro efficacia non può pertanto retroagire a un periodo
anteriore.
L’opzione interpretativa delineata dal Collegio è
peraltro coerente con il principio generale per cui il bando
di gara cristallizza le regole applicabili alla procedura
competitiva (TAR Toscana, sez. I – 15/03/2012 n. 541, che
risulta appellata; TAR Valle d’Aosta – 17/02/2012 n. 15
confermata da Consiglio di Stato, sez. V – 17/01/2014 n.
174), con conseguente indifferenza e insensibilità alle
modifiche normative sopravvenute. Il principio è stato
recentemente applicato da Consiglio di Stato, sez. III –
27/03/2014 n. 1487.
Va peraltro osservato che, nelle gare pubbliche, i
valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle
ministeriali non costituiscono un limite inderogabile, ma
semplicemente un parametro di valutazione della congruità
dell'offerta sotto tale profilo, con la conseguenza che
l'eventuale scostamento da tali parametri delle relative
voci di costo non legittima ex se un giudizio di anomalia
(cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V – 24/07/2014 n.
3937, che richiama Consiglio di Stato, sez. IV – 22/03/2013
n. 1633).
In materia di incongruenze concernenti il costo
del lavoro, infatti, devono considerarsi anormalmente basse
le offerte che si discostino in modo evidente dai costi medi
del lavoro indicati nelle tabelle predisposte dal Ministero
del Lavoro base ai valori previsti dalla contrattazione
collettiva: detti “costi medi” non costituiscono parametri
inderogabili, ma indici del giudizio di adeguatezza
dell'offerta, con la conseguenza che è ammissibile l'offerta
che da essi si discosti, purché lo scostamento non sia
eccessivo e vengano salvaguardate le retribuzioni dei
lavoratori, così come stabilito in sede di contrattazione
collettiva (Consiglio di Stato, sez. III – 09/07/2014 n.
3492) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 27.11.2014 n. 1300 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla mancata tempestività delle operazioni di
verbalizzazione, recentemente la giurisprudenza ha sostenuto
che <<è sufficiente rilevare che né l’art. 43 della
direttiva n. 2004/18CE disciplinante il contenuto dei
verbali delle operazioni di gara, né l’art. 78 del codice
dei contratti, prevedono la necessità e obbligatorietà della
verbalizzazione analitica di ogni singola seduta;
conseguentemente, in mancanza di una specifica normativa di
settore e di una specifica disciplina di gara, va esclusa la
necessità di redigere contestuali e distinti verbali per
ciascuna seduta della commissione di gara potendosi
legittimamente accorpare in un unico atto la verbalizzazione
della varie sedute della commissione ed anche la sua
redazione non contestuale al compimento delle operazioni di
gara>>.
Con il motivo proposto in
subordine, parte ricorrente si duole della violazione del
principio di buona amministrazione e dell’art. 84 del D.Lgs.
163/2006, in quanto la Commissione ha indebitamente redatto
un unico verbale conclusivo, che non permette di comprovare
la presenza dei suoi membri né le attività delle sedute
precedenti, e sul piano sostanziale di ricostruire quanto
avvenuto nelle singole adunanze (compresi i giudizi
espressi, anche dai singoli Commissari); inoltre anche la
decisione di non valutare l’offerta completa ma soltanto i
suoi singoli elementi è illegittima.
La censura è priva di pregio.
Sulla mancata tempestività delle operazioni di
verbalizzazione, recentemente la giurisprudenza (Consiglio
di Stato, sez. III – 01/09/2014 n. 4449) ha sostenuto che <<è
sufficiente rilevare che né l’art. 43 della direttiva
n. 2004/18CE disciplinante il contenuto dei verbali delle
operazioni di gara, né l’art. 78 del codice dei contratti,
prevedono la necessità e obbligatorietà della
verbalizzazione analitica di ogni singola seduta;
conseguentemente, in mancanza di una specifica normativa di
settore e di una specifica disciplina di gara, va esclusa la
necessità di redigere contestuali e distinti verbali per
ciascuna seduta della commissione di gara potendosi
legittimamente accorpare in un unico atto la verbalizzazione
della varie sedute della commissione ed anche la sua
redazione non contestuale al compimento delle operazioni di
gara>>.
In ogni caso la stazione appaltante ha rilevato come
il verbale formato il 09/06/2014 abbia fatto riferimento a 6
riunioni tenute dal 29/05/2014, per un’estensione temporale
di 11 giorni, ragionevolmente non eccessiva.
Per il resto parte ricorrente non ha individuato
specifiche omissioni, dati oscuri o altri elementi idonei a
originare la dedotta “incomprensione” dello svolgimento
delle operazioni, mentre del tutto indeterminata è la
censura sulla mancata valutazione dell’offerta completa. In
ogni caso la contestazione è assorbita dalle puntuali
rimostranze rivolte contro la verifica di anomalia, già
esaminate dal Collegio
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 27.11.2014 n. 1300 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La
zonizzazione acustica deve essere effettuata tenendo conto
delle preesistenti destinazioni d'uso del territorio (v.
art. 4, comma 1-a, della legge 447/1995). Non è quindi
consentita una pianificazione manipolativa, che crei
un’erronea impressione di omogeneità tra aree destinate a
usi inconciliabili.
D’altra parte, è intrinseco e inevitabile in tutte le scelte
pianificatorie un certo grado di approssimazione, in quanto
le specificità di ogni singola porzione del territorio
finirebbero altrimenti per rendere impossibile la
composizione di un quadro d’insieme regolato a livello
amministrativo.
---------------
Nelle approssimazioni pianificatorie rischia però, talvolta,
di essere compromesso il diritto alla salute dei soggetti
che subiscono le immissioni rumorose provenienti dagli
edifici situati nelle vicinanze. A questo rischio offre un
rimedio la disciplina sulle immissioni eccedenti la normale
tollerabilità di cui all’art. 844 del codice civile.
Utilizzando i parametri contenuti in questa norma, il
giudice ordinario può disapplicare la zonizzazione acustica
e imporre adempimenti più severi per tutelare la
tranquillità e il riposo delle persone.
Come si è potuto osservare anche negli antefatti del caso in
esame, per dare applicazione all’art. 844 del codice civile
la giurisprudenza ordinaria considera non tollerabili le
immissioni sonore di una specifica sorgente che superino di
3 dB(A) la rumorosità di fondo.
---------------
La disciplina stabilita per finalità amministrative, e
specificamente per la zonizzazione acustica, prevede limiti
meno restrittivi. In primo luogo, il differenziale
ammissibile (inteso ex art. 2, comma 3-b, della legge
447/1995 come differenza tra il livello equivalente di
rumore ambientale e il rumore residuo, quest’ultimo misurato
con le stesse modalità del rumore ambientale una volta
escluse le specifiche sorgenti disturbanti) è pari a 5 dB(A)
durante il giorno (06.00-22.00) e a 3 dB(A) per il periodo
notturno (22.00-06.00), come specificato nell’art. 4, comma
1, del DPCM 14.11.1997.
Inoltre, i limiti differenziali non si applicano se il
ricettore del rumore si trova nella classe VI, e neppure
quando il rumore ambientale sia da considerare trascurabile
ai sensi dell’art. 4, comma 2, del DPCM 14.11.1997. Vi sono
poi ulteriori fattispecie integralmente escluse
dall’applicazione dei limiti differenziali (v. il comma 3
del citato art. 4 del DPCM 14.11.1997).
---------------
Il legislatore si è posto il problema di armonizzare la
tutela amministrativa e quella civilistica, ma solo per
particolari tipologie di sorgenti disturbanti.
L’art. 6-ter del DL 30.12.2008 n. 208 (“[n]ell'accertare la
normale tollerabilità delle immissioni e delle emissioni
acustiche, ai sensi dell'articolo 844 del codice civile,
sono fatte salve in ogni caso le disposizioni di legge e di
regolamento vigenti che disciplinano specifiche sorgenti e
la priorità di un determinato uso”) fa coincidere la normale
tollerabilità civilistica con i parametri amministrativi
riferiti ai settori che hanno una speciale regolazione.
Tra le norme che stabiliscono i suddetti parametri rientrano
quelle dei regolamenti di esecuzione previsti dall’art. 11
della legge 447/1995 (traffico ferroviario, traffico
veicolare, attività motoristiche) e quelle contenute nel DM
11.12.1996 (impianti a ciclo produttivo continuo). Al di
fuori di questi e simili casi, l’esistenza di una doppia
tutela, amministrativa e civilistica, lascia aperta la
possibilità che i limiti alla rumorosità posti dalla
zonizzazione acustica non siano sufficienti a contenere le
immissioni entro la soglia della normale tollerabilità.
---------------
Vi sono principi e indicazioni normative che consentono di
ridurre il divario tra le valutazioni amministrative e
quelle civilistiche. In particolare, come nella zonizzazione
acustica occorre assicurare protezione alle attività
produttive esistenti, se conformi alla destinazione
urbanistica, così l’art. 844, comma 2, del codice civile
impone di tenere conto delle esigenze della produzione, e
permette di considerare favorevolmente la priorità di un
determinato uso, anche quando si tratti di un uso produttivo
(il criterio della priorità dell’uso è ribadito dal citato
art. 6-ter del DL 208/2008).
Reciprocamente, sul lato amministrativo, è necessario che la
pianificazione cerchi di prevenire le situazioni di
conflitto tra i privati relative al diritto alla salute,
bilanciando il criterio della destinazione d’uso prevalente
in una determinata area con adeguate analisi circa il
rischio di immissioni superiori alla normale tollerabilità.
Sul rapporto tra zonizzazione acustica e art. 844 del
codice civile
14. La zonizzazione acustica deve essere effettuata tenendo
conto delle preesistenti destinazioni d'uso del territorio
(v. art. 4, comma 1-a, della legge 447/1995). Non è quindi
consentita una pianificazione manipolativa, che crei
un’erronea impressione di omogeneità tra aree destinate a
usi inconciliabili.
D’altra parte, è intrinseco e
inevitabile in tutte le scelte pianificatorie un certo grado
di approssimazione, in quanto le specificità di ogni singola
porzione del territorio finirebbero altrimenti per rendere
impossibile la composizione di un quadro d’insieme regolato
a livello amministrativo.
15. Nelle approssimazioni pianificatorie rischia però,
talvolta, di essere compromesso il diritto alla salute dei
soggetti che subiscono le immissioni rumorose provenienti
dagli edifici situati nelle vicinanze. A questo rischio
offre un rimedio la disciplina sulle immissioni eccedenti la
normale tollerabilità di cui all’art. 844 del codice civile.
Utilizzando i parametri contenuti in questa norma, il
giudice ordinario può disapplicare la zonizzazione acustica
e imporre adempimenti più severi per tutelare la
tranquillità e il riposo delle persone (v. Cass. civ. Sez.
II 06.11.2013 n. 25019).
Come si è potuto osservare
anche negli antefatti del caso in esame, per dare
applicazione all’art. 844 del codice civile la
giurisprudenza ordinaria considera non tollerabili le
immissioni sonore di una specifica sorgente che superino di
3 dB(A) la rumorosità di fondo.
16. La disciplina stabilita per finalità amministrative, e
specificamente per la zonizzazione acustica, prevede limiti
meno restrittivi. In primo luogo, il differenziale
ammissibile (inteso ex art. 2, comma 3-b, della legge 447/1995
come differenza tra il livello equivalente di rumore
ambientale e il rumore residuo, quest’ultimo misurato con le
stesse modalità del rumore ambientale una volta escluse le
specifiche sorgenti disturbanti) è pari a 5 dB(A) durante il
giorno (06.00-22.00) e a 3 dB(A) per il periodo notturno
(22.00-06.00), come specificato nell’art. 4, comma 1, del DPCM
14.11.1997.
Inoltre, i limiti differenziali non si
applicano se il ricettore del rumore si trova nella classe VI, e neppure quando il rumore ambientale sia da considerare
trascurabile ai sensi dell’art. 4, comma 2, del DPCM 14.11.1997. Vi sono poi ulteriori fattispecie
integralmente escluse dall’applicazione dei limiti
differenziali (v. il comma 3 del citato art. 4 del DPCM 14.11.1997).
17. Il legislatore si è posto il problema di armonizzare la
tutela amministrativa e quella civilistica, ma solo per
particolari tipologie di sorgenti disturbanti. L’art. 6-ter
del DL 30.12.2008 n. 208 (“[n]ell'accertare la normale
tollerabilità delle immissioni e delle emissioni acustiche,
ai sensi dell'articolo 844 del codice civile, sono fatte
salve in ogni caso le disposizioni di legge e di regolamento
vigenti che disciplinano specifiche sorgenti e la priorità
di un determinato uso”) fa coincidere la normale
tollerabilità civilistica con i parametri amministrativi
riferiti ai settori che hanno una speciale regolazione.
Tra
le norme che stabiliscono i suddetti parametri rientrano
quelle dei regolamenti di esecuzione previsti dall’art. 11
della legge 447/1995 (traffico ferroviario, traffico
veicolare, attività motoristiche) e quelle contenute nel DM
11.12.1996 (impianti a ciclo produttivo continuo). Al
di fuori di questi e simili casi, l’esistenza di una doppia
tutela, amministrativa e civilistica, lascia aperta la
possibilità che i limiti alla rumorosità posti dalla
zonizzazione acustica non siano sufficienti a contenere le
immissioni entro la soglia della normale tollerabilità.
18. Peraltro, vi sono principi e indicazioni normative che
consentono di ridurre il divario tra le valutazioni
amministrative e quelle civilistiche. In particolare, come
nella zonizzazione acustica occorre assicurare protezione
alle attività produttive esistenti, se conformi alla
destinazione urbanistica, così l’art. 844, comma 2, del codice
civile impone di tenere conto delle esigenze della
produzione, e permette di considerare favorevolmente la
priorità di un determinato uso, anche quando si tratti di un
uso produttivo (il criterio della priorità dell’uso è
ribadito dal citato art. 6-ter del DL 208/2008).
Reciprocamente, sul lato amministrativo, è necessario che la
pianificazione cerchi di prevenire le situazioni di
conflitto tra i privati relative al diritto alla salute,
bilanciando il criterio della destinazione d’uso prevalente
in una determinata area con adeguate analisi circa il
rischio di immissioni superiori alla normale tollerabilità
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 26.11.2014 n. 1296 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Gare
pubbliche. Dichiarazioni ex art. 38 cod. contratti.
Risoluzione in danno. Obbligatorietà. Omissione. Esclusione
dell'operatore economico. Necessità.
1. Laddove partecipi a gara pubblica di
appalto un operatore economico, che abbia subito la
risoluzione in danno di un contratto d’appalto stipulato in
precedenza, il medesimo operatore è tenuto a dichiarare
nella domanda di partecipazione l’avvenuta risoluzione del
contratto, ai sensi dell’art. 38, primo comma, lett. f), del
d.lgs. 12.04.2006, n. 163, il quale demanda alla stazione
appaltante la valutazione circa il rilievo dell’errore
professionale compiuto dall’impresa che aspira alla stipula
del contratto, in modo da accertarne l’affidabilità
professionale mediante un apprezzamento necessariamente
discrezionale.
Da tale premessa consegue che l’Amministrazione, per poter
esercitare il proprio potere, deve essere posta a conoscenza
degli avvenimenti rilevanti a tale scopo: l’impresa
partecipante alla gara deve presentare una dichiarazione
esauriente, che permetta alla stazione appaltante una
valutazione informata sulla sua affidabilità (salva la sua
possibilità di impugnare l’esclusione che ritenga
ingiustificata).
2. Eventuali elementi giustificativi, ovvero escludenti in
concreto l’imputabilità della risoluzione dell'operatore
economico debbono essere rappresentati alla stazione
appaltante in vista dell’esercizio dei suoi poteri
discrezionali.
In caso di omessa dichiarazione, ex art. 38, primo comma,
lett. f), del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, non assume rilievo
né il fatto che la causa della risoluzione sarebbe stata
attribuibile a un'impresa associata in R.t.i., dal momento
che le imprese associate rispondono quanto meno in parte
solidalmente di eventuali inadempimenti, né il fatto che non
vi sarebbe stato un grave inadempimento, poiché la
risoluzione –per un contratto avente durata quinquennale–
sarebbe stato risulto circa 13 mesi prima della scadenza
concordata.
Ciò posto, la Sezione ritiene che il ricorso incidentale di
primo grado risulta fondato.
E’ pacifico in causa il fatto che l’odierna appellata ha
subito la risoluzione in danno di un contratto d’appalto
stipulato in precedenza, e che tale circostanza non è stata
dichiarata nella domanda di partecipazione al procedimento
di cui ora si tratta: con l’atto 38 del 25.06.2013, il
Comune di Guidonia Montecelio ha risolto un contratto
d’appalto, in danno dell’a.t.i. composta dalla mandante
s.r.l. Cooperativa Edera e la mandataria s.r.l. Aimeri
ambiente.
L’appellata sostiene di non avere omesso una dichiarazione
obbligatoria in quanto (come risulta dalla documentazione
agli atti della presente controversia) la causa della
risoluzione sarebbe stata dichiaratamente ed esplicitamente
attribuibile ad inadempimenti della s.r.l. Aimeri ambiente,
e comunque non vi sarebbe stato un grave inadempimento,
poiché la risoluzione –per un contratto avente durata
quinquennale– è stato risulto circa 13 mesi prima della
scadenza concordata.
Ad avviso del Collegio, la linea difensiva dell’appellata
non è condivisibile.
Infatti, il Comune di Guidonia Montecelio ha dichiarato la
risoluzione del contratto anche in danno dell’odierna
appellata e comunque le imprese associate rispondono quanto
meno in parte solidalmente di eventuali inadempimenti (Cons.
Stato, Ad.Plen., 13.06.2012, n. 22; Sez. V, 21.12.2012, n.
6614).
In presenza di tali circostanze di fatto, l’odierna
appellata aveva l’obbligo di dichiarare l’avvenuta
risoluzione del contratto, ai sensi dell’art. 38, primo
comma, lett. f), del d.lgs. 12.04.2006, n. 163.
La norma appena richiamata, infatti, demanda alla stazione
appaltante la valutazione circa il rilievo dell’errore
professionale compiuto dall’impresa che aspira alla stipula
del contratto, in modo da accertarne l’affidabilità
professionale mediante un apprezzamento necessariamente
discrezionale.
Da tale premessa consegue che l’Amministrazione, per poter
esercitare il proprio potere, deve essere posta a conoscenza
degli avvenimenti rilevanti a tale scopo: l’impresa
partecipante alla gara deve presentare una dichiarazione
esauriente, che permetta alla stazione appaltante una
valutazione informata sulla sua affidabilità (salva la sua
possibilità di impugnare l’esclusione che ritenga
ingiustificata).
L’odierna appellata –poiché non ha dichiarato di avere
subito la risoluzione in danno di un precedente contratto di
appalto– non ha reso conoscibile per la stazione appaltante
un elemento rilevante.
Eventuali elementi giustificativi, ovvero escludenti in
concreto l’imputabilità della risoluzione all’appellata,
dovevano essere da questa rappresentati alla stazione
appaltante in vista dell’esercizio dei suoi poteri
discrezionali: come dedotto dall’appellante, l’odierna
appellata doveva essere esclusa dal procedimento, in
applicazione dell’art. 38, primo comma, lett. f), del d.lgs.
12.04.2006, n. 163
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 21.11.2014 n. 5763 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Bando da revocare se resta una sola impresa.
Consiglio di Stato. Se gli altri partecipanti si ritirano,
l’assenza di concorrenza fa venire meno l’efficienza e
l’economicità.
La stazione appaltante può revocare l’appalto già indetto
anche senza aver visto e valutato l’unica offerta rimasta in
gara se manca o è venuto meno il confronto concorrenziale
tra più partecipanti che consente di ottenere l'offerta più
conveniente.
L’ha
stabilito il Consiglio di Stato, Sez. V, nella
sentenza
21.11.2014 n. 5761.
I giudici hanno dato ragione a un Comune che aveva
interrotto (e quindi non aggiudicato all’unica impresa
ancora in gara con un’offerta) la procedura per un contratto
di affidamento in concessione dei lavori di recupero
ambientale di un’area di un ex cava locale, ritenendo di non
poter scegliere l’offerta economicamente più vantaggiosa,
criterio fissato dal bando e disciplinato dal Codice degli
appalti (articolo 83 del Dlgs n. 163/2006).
Alla gara avevano partecipato altre due aziende, una poi
esclusa per irregolarità amministrativa e un’altra
ritiratasi per lo stallo creatosi con lo “stop” deciso per
le indagini di magistrati penali e Corte dei conti (presunta
concussione e responsabilità contabile contestata agli ormai
ex amministratori comunali).
Secondo il collegio, la revoca per l’assenza di concorrenza
è legittima perché «basata su criteri di economicità ed
efficienza»: il bando con procedura aperta -sistema in cui
ogni operatore economico interessato può presentare
un’offerta- «deve essere aggiudicato sulla base del
raffronto di più offerte, secondo il principio già fissato
dall’articolo 69 del regio decreto n. 827 del 1924 (asta
pubblica, Regolamento per l’amministrazione del patrimonio e
la contabilità generale dello Stato, ndr), per cui le
disposizioni che derogano a tale principio costituiscono
norme eccezionali di stretta interpretazione».
Per i giudici, tale annullamento è previsto dal Codice:
quando il bando -come nel caso in esame- prevede la
possibilità di aggiudicazione anche con una sola offerta
valida (articolo 55, comma 4), si può non procedervi se
nessuna è conveniente o idonea al contratto (articolo 81,
comma 3). Così, dice la sentenza, «ragionevolmente il
Comune ha ritenuto che -impostando una nuova gara- fosse
possibile ottenere una migliore offerta», dopo aver
«dovuto valutare se fosse conforme all’interesse pubblico la
conclusione» (articolo Il Sole 24 Ore
del 04.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Sulla questione riguardante le modificazioni
soggettive dei raggruppamenti temporanei di impresa, la
giurisprudenza non si è pronunciata univocamente.
Secondo un orientamento più restrittivo, l'immodificabilità
soggettiva dei partecipanti alle gare pubbliche, preordinata
a garantire l'Amministrazione appaltante in ordine alla
verifica dei requisiti di idoneità morale, tecnico
organizzativa ed economica, non consente altre modifiche se
non quelle ammesse (tassativamente) dall'art. 37, commi 18 e
19, del d.lgs. n. 163 del 2006.
Secondo un altro orientamento, più estensivo, le
modifiche soggettive elusive del divieto posto dall’articolo
37, comma 9, del codice dei contratti, sono quelle
riguardanti l'aggiunta o la sostituzione di imprese,
rispetto a quelle indicate al momento di partecipazione alla
gara e non anche quelle che conducono al recesso di una
delle imprese del raggruppamento o consorzio. In tal caso,
infatti, l'amministrazione, al momento del mutamento
soggettivo, ha già provveduto a verificare i requisiti di
capacità tecnica e di moralità dell'impresa o delle imprese
che restano, con la conseguenza che i rischi che il divieto
posto dal citato comma 9 dell’art. 37 del codice dei
contratti mira ad impedire non potrebbero verificarsi.
Sulla questione si è espressa quindi l’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato, con la decisione n. 8 del 04.05.2012.
L’Adunanza Plenaria ha preliminarmente ricordato che il
principio di immodificabilità soggettiva dei partecipanti
alle gare pubbliche mira a garantire una conoscenza piena,
da parte delle amministrazioni aggiudicatrici, dei soggetti
che intendono contrarre con le amministrazioni stesse,
consentendo una verifica preliminare e compiuta dei
requisiti di idoneità morale, tecnico-organizzativa ed
economico-finanziaria dei concorrenti.
Ciò posto, l’Adunanza Plenaria ha ritenuto che le modifiche
soggettive che si pongono in contrasto con il principio di
immodificabilità soggettiva dei partecipanti alle gare
pubbliche sono quelle che portano all'aggiunta o alla
sostituzione delle imprese partecipanti e non anche quelle
che conducono al recesso di una delle imprese del
raggruppamento: in tal caso, infatti, le esigenze di
effettuare una verifica preliminare dei requisiti di
idoneità morale, tecnico-organizzativa ed
economico-finanziaria dei concorrenti non risultano
frustrate poiché l'Amministrazione, al momento del recesso,
ha già provveduto a verificare i requisiti di capacità e di
moralità dell'impresa o delle imprese che restano, sicché i
rischi che il divieto mira ad impedire non possono
verificarsi.
L’Adunanza Plenaria ha tuttavia aggiunto che il recesso
dell'impresa componente di un raggruppamento nel corso della
procedura di gara non può valere a sanare una situazione di
preclusione all'ammissione alla procedura sussistente al
momento dell'offerta in ragione della sussistenza di cause
di esclusione riguardanti il soggetto recedente, pena la
violazione della par condicio tra i concorrenti.
Il divieto di modificazione soggettiva, di cui all’art. 37
del codice dei contratti, secondo quanto affermato
dall’Adunanza Plenaria, non ha, quindi, l'obiettivo di
precludere sempre e comunque il recesso dal raggruppamento
in costanza di procedura di gara ma il rigore della
disposizione deve essere temperato in ragione dello scopo
che persegue, che è quello di consentire alla stazione
appaltante, in primo luogo, di verificare il possesso dei
requisiti da parte dei soggetti che partecipano alla gara e,
correlativamente, di precludere modificazioni soggettive,
sopraggiunte ai controlli, e dunque, in grado di impedire le
suddette verifiche preliminari.
Tale essendo, dunque, la funzione di detta disposizione è
evidente, ha aggiunto la Plenaria, che le uniche modifiche
soggettive elusive del dettato legislativo siano quelle che
portano all'aggiunta o alla sostituzione delle imprese
partecipanti e non anche quelle che conducono al recesso di
una delle imprese del raggruppamento, «in tal caso, infatti,
le esigenze succitate non risultano affatto frustrate poiché
l'amministrazione, al momento del mutamento soggettivo, ha
già provveduto a verificare i requisiti di capacità e di
moralità dell'impresa o delle imprese che restano, sicché i
rischi che il divieto mira ad impedire non possono
verificarsi».
Dopo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato anche
l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (AVCP) si
è espressa sulla questione, con la Determinazione n. 4 del
10.10.2012 (contenente indicazioni generali per la redazione
dei bandi di gara ai sensi degli articoli 64, comma 4-bis e
46, comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici) e con la
Determinazione n. 5 del 06.11.2013, con la quale ha
approvato le “Linee guida su programmazione, progettazione
ed esecuzione del contratto nei servizi e nelle forniture”.
L’AVCP, richiamando espressamente le conclusioni raggiunte
dall’Adunanza Plenaria, ha affermato, con la Determinazione
n. 4 del 10.10.2012, che «anche al di fuori delle ipotesi
espressamente normate, deve ritenersi ammissibile il recesso
di una o più imprese dal raggruppamento (e non l’aggiunta o
la sostituzione), a patto che i rimanenti soggetti siano
comunque in possesso dei requisiti di qualificazione per le
prestazioni oggetto dell’appalto. Tale limitata facoltà può
essere esercitata a condizione che la modifica della
compagine soggettiva, in senso riduttivo, avvenga per
esigenze organizzative proprie del raggruppamento o del
consorzio e non per evitare una sanzione di esclusione dalla
gara per difetto dei requisiti in capo al componente che
recede... In altri termini, il recesso dell’impresa
componente, nel corso della procedura di gara, non può mai
valere a sanare ex post una situazione di preclusione
all’ammissione alla procedura in ragione della esistenza, a
suo carico, di cause di esclusione».
Con la successiva Determinazione 06.11.2013, n. 5, l’AVCP ha
ribadito di dover condividere sul punto l'orientamento
giurisprudenziale più estensivo «ritenendo ammissibile il
solo mutamento soggettivo in senso riduttivo del
raggruppamento, con assunzione del servizio in capo al/ai
rimanenti componenti dello stesso, previa verifica che tale
operazione non sia stata effettuata per eludere la
disciplina di gara … e che l'esecutore sia singolarmente in
possesso dei requisiti indicati nella lex specialis per
l'esecuzione della prestazione».
Questa Sezione ritiene che l’interpretazione delle citate
disposizioni fornita dall’Adunanza Plenaria e dalla AVCP
debba essere seguita anche perché tiene conto delle
frequenti modificazioni soggettive che si verificano nel
mondo delle imprese e dell’interesse (che è anche delle
amministrazioni) di non escludere dalle procedure (solo a
causa dell’intervenuto recesso di una partecipante) RTI che
potrebbero essere aggiudicatari di una gara ed in grado di
eseguire comunque l'appalto.
Peraltro l’indicata soluzione, come ha affermato l’Adunanza
Plenaria non determina una violazione della par condicio dei
concorrenti, «perché non si tratta di introdurre nuovi
soggetti in corsa, ma solo di consentire a taluno degli
associati o consorziati il recesso, mediante utilizzo dei
requisiti dei soggetti residui, già comunque posseduti».
8.- Sulla questione riguardante le
modificazioni soggettive dei raggruppamenti temporanei di
impresa, la giurisprudenza non si è pronunciata
univocamente.
Secondo un orientamento più restrittivo, l'immodificabilità
soggettiva dei partecipanti alle gare pubbliche, preordinata
a garantire l'Amministrazione appaltante in ordine alla
verifica dei requisiti di idoneità morale, tecnico
organizzativa ed economica, non consente altre modifiche se
non quelle ammesse (tassativamente) dall'art. 37, commi 18 e
19, del d.lgs. n. 163 del 2006 (Consiglio di Stato, Sez. IV,
14.12.2012 n. 6446 e, di recente, 03.07.2014 n.
3344).
Secondo un altro orientamento, più estensivo, le modifiche
soggettive elusive del divieto posto dall’articolo 37, comma
9, del codice dei contratti, sono quelle riguardanti
l'aggiunta o la sostituzione di imprese, rispetto a quelle
indicate al momento di partecipazione alla gara e non anche
quelle che conducono al recesso di una delle imprese del
raggruppamento o consorzio. In tal caso, infatti,
l'amministrazione, al momento del mutamento soggettivo, ha
già provveduto a verificare i requisiti di capacità tecnica
e di moralità dell'impresa o delle imprese che restano, con
la conseguenza che i rischi che il divieto posto dal citato
comma 9 dell’art. 37 del codice dei contratti mira ad
impedire non potrebbero verificarsi (Consiglio di Stato,
Sez. VI, n. 842 del 16.02.2010, Sez. V, n. 6546 del 10.09.2010).
9.- Sulla questione si è espressa quindi l’Adunanza Plenaria
del Consiglio di Stato, con la decisione n. 8 del 04.05.2012.
L’Adunanza Plenaria ha preliminarmente ricordato che il
principio di immodificabilità soggettiva dei partecipanti
alle gare pubbliche mira a garantire una conoscenza piena,
da parte delle amministrazioni aggiudicatrici, dei soggetti
che intendono contrarre con le amministrazioni stesse,
consentendo una verifica preliminare e compiuta dei
requisiti di idoneità morale, tecnico-organizzativa ed
economico-finanziaria dei concorrenti.
Ciò posto, l’Adunanza
Plenaria ha ritenuto che le modifiche soggettive che si
pongono in contrasto con il principio di immodificabilità
soggettiva dei partecipanti alle gare pubbliche sono quelle
che portano all'aggiunta o alla sostituzione delle imprese
partecipanti e non anche quelle che conducono al recesso di
una delle imprese del raggruppamento: in tal caso, infatti,
le esigenze di effettuare una verifica preliminare dei
requisiti di idoneità morale, tecnico-organizzativa ed
economico-finanziaria dei concorrenti non risultano
frustrate poiché l'Amministrazione, al momento del recesso,
ha già provveduto a verificare i requisiti di capacità e di
moralità dell'impresa o delle imprese che restano, sicché i
rischi che il divieto mira ad impedire non possono
verificarsi.
9.1.- L’Adunanza Plenaria ha tuttavia aggiunto che il
recesso dell'impresa componente di un raggruppamento nel
corso della procedura di gara non può valere a sanare una
situazione di preclusione all'ammissione alla procedura
sussistente al momento dell'offerta in ragione della
sussistenza di cause di esclusione riguardanti il soggetto
recedente, pena la violazione della par condicio tra i
concorrenti.
9.2.- Il divieto di modificazione soggettiva, di cui
all’art. 37 del codice dei contratti, secondo quanto
affermato dall’Adunanza Plenaria, non ha, quindi,
l'obiettivo di precludere sempre e comunque il recesso dal
raggruppamento in costanza di procedura di gara ma il rigore
della disposizione deve essere temperato in ragione dello
scopo che persegue, che è quello di consentire alla stazione
appaltante, in primo luogo, di verificare il possesso dei
requisiti da parte dei soggetti che partecipano alla gara e,
correlativamente, di precludere modificazioni soggettive,
sopraggiunte ai controlli, e dunque, in grado di impedire le
suddette verifiche preliminari.
Tale essendo, dunque, la funzione di detta disposizione è
evidente, ha aggiunto la Plenaria, che le uniche modifiche
soggettive elusive del dettato legislativo siano quelle che
portano all'aggiunta o alla sostituzione delle imprese
partecipanti e non anche quelle che conducono al recesso di
una delle imprese del raggruppamento, «in tal caso, infatti,
le esigenze succitate non risultano affatto frustrate poiché
l'amministrazione, al momento del mutamento soggettivo, ha
già provveduto a verificare i requisiti di capacità e di
moralità dell'impresa o delle imprese che restano, sicché i
rischi che il divieto mira ad impedire non possono
verificarsi».
10.- Dopo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato anche
l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (AVCP) si
è espressa sulla questione, con la Determinazione n. 4 del
10.10.2012 (contenente indicazioni generali per la
redazione dei bandi di gara ai sensi degli articoli 64,
comma 4-bis e 46, comma 1-bis, del Codice dei contratti
pubblici) e con la Determinazione n. 5 del 06.11.2013,
con la quale ha approvato le “Linee guida su programmazione,
progettazione ed esecuzione del contratto nei servizi e
nelle forniture”.
10.1.- L’AVCP, richiamando espressamente le conclusioni
raggiunte dall’Adunanza Plenaria, ha affermato, con la
Determinazione n. 4 del 10.10.2012, che «anche al di
fuori delle ipotesi espressamente normate, deve ritenersi
ammissibile il recesso di una o più imprese dal
raggruppamento (e non l’aggiunta o la sostituzione), a patto
che i rimanenti soggetti siano comunque in possesso dei
requisiti di qualificazione per le prestazioni oggetto
dell’appalto. Tale limitata facoltà può essere esercitata
(cfr. Cons. St., Ad. Plen. n. 8/2012) a condizione che la
modifica della compagine soggettiva, in senso riduttivo,
avvenga per esigenze organizzative proprie del
raggruppamento o del consorzio e non per evitare una
sanzione di esclusione dalla gara per difetto dei requisiti
in capo al componente che recede... In altri termini, il
recesso dell’impresa componente, nel corso della procedura
di gara, non può mai valere a sanare ex post una situazione
di preclusione all’ammissione alla procedura in ragione
della esistenza, a suo carico, di cause di esclusione».
10.2.- Con la successiva Determinazione 06.11.2013, n.
5, l’AVCP ha ribadito di dover condividere sul punto
l'orientamento giurisprudenziale più estensivo «ritenendo
ammissibile il solo mutamento soggettivo in senso riduttivo
del raggruppamento, con assunzione del servizio in capo
al/ai rimanenti componenti dello stesso, previa verifica che
tale operazione non sia stata effettuata per eludere la
disciplina di gara … e che l'esecutore sia singolarmente in
possesso dei requisiti indicati nella lex specialis per
l'esecuzione della prestazione».
11.- Questa Sezione ritiene che l’interpretazione delle
citate disposizioni fornita dall’Adunanza Plenaria e dalla
AVCP debba essere seguita anche perché tiene conto delle
frequenti modificazioni soggettive che si verificano nel
mondo delle imprese e dell’interesse (che è anche delle
amministrazioni) di non escludere dalle procedure (solo a
causa dell’intervenuto recesso di una partecipante) RTI che
potrebbero essere aggiudicatari di una gara ed in grado di
eseguire comunque l'appalto.
12.- Peraltro l’indicata soluzione, come ha affermato
l’Adunanza Plenaria non determina una violazione della par
condicio dei concorrenti, «perché non si tratta di
introdurre nuovi soggetti in corsa, ma solo di consentire a
taluno degli associati o consorziati il recesso, mediante
utilizzo dei requisiti dei soggetti residui, già comunque
posseduti»
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 21.11.2014 n. 5752 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo il
maggioritario orientamento seguito da questo Consiglio,
l'esistenza di una garanzia fideiussoria non comporta per
l'Amministrazione comunale il dovere di chiedere
l'adempimento al fideiussore prima di poter irrogare le
sanzioni per omesso o ritardato pagamento dei contributi
concessori; tale dovere non può farsi discendere neanche dal
richiamo all'art. 1227 c.c., che è disposizione riferibile
alle sole obbligazioni di natura risarcitoria, e non anche a
quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura
sanzionatoria, come è quella in esame.
Peraltro, il Collegio osserva che sussiste tuttora un
diverso orientamento, seguito dai TAR e da una parte di
questo Consiglio, secondo cui le previsioni legislative di
sanzioni per il ritardato pagamento degli oneri concessori
si giustificano con la necessità, per l'ente locale, di
disporre tempestivamente delle somme spettanti, atteso
l'interesse pubblico alla celere realizzazione e
completamento delle opere di urbanizzazione; la scelta del
Comune di non incamerare la fideiussione tempestivamente si
pone, pertanto, in contrasto con l'esigenza di una celere
acquisizione della disponibilità delle somme e determina nel
contempo un ingiustificato aggravamento della posizione del
debitore.
Per questo secondo orientamento, tale scelta del
Comune finirebbe per ledere il principio di correttezza e
buona fede, tenuto conto che al privato è stato imposto un
onere finanziario (costo della polizza) per una finalità
(certezza di tempi nella disponibilità della somma) che
l'Ente pubblico, per scelta non aderente alla funzione della
disposizione normativa, abbandona per perseguire, nella
sostanza, una finalità secondaria (ottenere una consistente
maggior somma) a danno del privato, il quale presumibilmente
non adempie nei termini per temporanei problemi di
liquidità, tenuto conto che l'obbligazione di pagamento non
viene meno, ma cambia soltanto il soggetto creditore (da
Comune ad assicurazione), con l'aggravio del pagamento degli
interessi convenuti in polizza.
Pertanto, la sanzione scaturente dalla applicazione
dell'art. 3, l. n. 47 del 1985, è regolata da tutte le
disposizioni di principio in materia di obbligazioni e in
particolare dal principio secondo il quale il creditore ha
il dovere di cooperare con il debitore per il puntuale
adempimento dell'obbligazione.
Rileva il Collegio che, secondo il
maggioritario orientamento seguito da questo Consiglio,
l'esistenza di una garanzia fideiussoria non comporta per
l'Amministrazione comunale il dovere di chiedere
l'adempimento al fideiussore prima di poter irrogare le
sanzioni per omesso o ritardato pagamento dei contributi
concessori; tale dovere non può farsi discendere neanche dal
richiamo all'art. 1227 c.c., che è disposizione riferibile
alle sole obbligazioni di natura risarcitoria, e non anche a
quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura
sanzionatoria, come è quella in esame (cfr. Consiglio di
Stato, sez. IV, 19.11.2012, n. 5818; Consiglio di
Stato, sez. IV, 30.07.2012, n. 4320; Consiglio di Stato,
sez. V, 24.03.2005, n. 1250; Consiglio di Stato, sez. V,
11.11.2005, n. 6345; Consiglio di Stato, sez. V, 16.07.2007, n. 4025).
Peraltro, il Collegio osserva che sussiste tuttora un
diverso orientamento, seguito dai TAR e da una parte di
questo Consiglio, secondo cui le previsioni legislative di
sanzioni per il ritardato pagamento degli oneri concessori
si giustificano con la necessità, per l'ente locale, di
disporre tempestivamente delle somme spettanti, atteso
l'interesse pubblico alla celere realizzazione e
completamento delle opere di urbanizzazione; la scelta del
Comune di non incamerare la fideiussione tempestivamente si
pone, pertanto, in contrasto con l'esigenza di una celere
acquisizione della disponibilità delle somme e determina nel
contempo un ingiustificato aggravamento della posizione del
debitore.
Per questo secondo orientamento, tale scelta del Comune
finirebbe per ledere il principio di correttezza e buona
fede, tenuto conto che al privato è stato imposto un onere
finanziario (costo della polizza) per una finalità (certezza
di tempi nella disponibilità della somma) che l'Ente
pubblico, per scelta non aderente alla funzione della
disposizione normativa, abbandona per perseguire, nella
sostanza, una finalità secondaria (ottenere una consistente
maggior somma) a danno del privato, il quale presumibilmente
non adempie nei termini per temporanei problemi di
liquidità, tenuto conto che l'obbligazione di pagamento non
viene meno, ma cambia soltanto il soggetto creditore (da
Comune ad assicurazione), con l'aggravio del pagamento degli
interessi convenuti in polizza (cfr. Consiglio di Stato,
sez. V, 10.01.2003, n. 32).
Pertanto, la sanzione scaturente dalla applicazione
dell'art. 3, l. n. 47 del 1985, è regolata da tutte le
disposizioni di principio in materia di obbligazioni e in
particolare dal principio secondo il quale il creditore ha
il dovere di cooperare con il debitore per il puntuale
adempimento dell'obbligazione (cfr., cit. Consiglio di
Stato, sez. V, 10.01.2003, n. 32 e Consiglio di Stato,
sez. I, 17.05.2013, n. 11663).
Nel caso di specie, alla data dell’emanazione del
provvedimento impugnato del Comune di Collegno (26.04.1993), la quarta rata risultava scaduta da oltre 420 giorni;
con detto provvedimento del 26.04.1993, dunque ad oltre
un anno dalla scadenza della quarta rata, il Comune di
Collegno ha intimato alla concessionaria il pagamento della
somma complessiva di L. 496.620.000 a titolo di penale per
il ritardo nel versamento della seconda, terza e quarta
rata; peraltro, la seconda e terza rata sono state versate
in data 14.02.1992, con un ritardo di circa un anno rispetto
alle scadenze predeterminate.
Alla scadenza dei singoli termini previsti per il versamento
dei ratei dovuti (seconda e terza rata pagati in ritardo),
non era seguita alcuna iniziativa da parte del Comune
appellante né nei confronti della Reale Mutua Assicurazioni,
che aveva rilasciato la polizza fideiussoria n. 1013, in
favore dell’odierno appellato, in data 12.07.1988, né nei
confronti dell’odierna appellata.
Rileva il Collegio, che nel caso di specie si deve applicare
la sanzione di cui all’art. 3 della l. 28.02.1985,
n. 47, la quale prevede che “Il mancato versamento, nei
termini di legge (…) comporta: a) l'aumento del contributo
in misura pari al 20 per cento qualora il versamento del
contributo sia effettuato nei successivi centoventi giorni;
b) l'aumento del contributo in misura pari al 50 per cento
quando, superato il termine di cui alla lettera a), il
ritardo si protrae non oltre i successivi sessanta giorni;
c) l'aumento del contributo in misura pari al 100 per cento
quando, superato il termine di cui alla lettera b), il
ritardo si protrae non oltre i successivi sessanta giorni”.
Pertanto, è evidente, da un lato, che la sanzione di cui
all’art. 3 della l. 28.02.1985, n. 47 costituisce
conseguenza automatica del ritardato pagamento.
Tuttavia, dall’altro, e in specifico nel caso in esame,
valorizzando il principio di leale collaborazione tra
cittadino e Comune, che ha valenza pubblicistica e rientra
nell’ambito dei principi di imparzialità di cui all’art. 97
Cost., è evidente che il Comune avrebbe dovuto comunque
attivarsi prontamente per escutere il fideiussore, atteso
che la fideiussione conteneva anche un obbligo di
reintegrare la stessa, qualora essa fosse stata utilizzata
in tutto o in parte a seguito di eventuali inadempienze e
sanzioni (art. 5 della polizza) e atteso che la stessa non
condizionava affatto il pagamento del debito garantito alla
previa escussione del contraente.
Infatti, in relazione alla particolarità della fattispecie,
si ritiene contrario al dovere di correttezza (che
civilisticamente è riconducibile nella fattispecie normativa
di cui all'art. 1175 c.c. e pubblicisticamente rientra
nell’ambito del principio onnicomprensivo di imparzialità di
cui al citato art. 97 Cost.) il comportamento
dell'Amministrazione comunale che si sia avvalsa del
disposto dell'art. 3 l. n. 47/191985, pur in presenza di
polizza fideiussoria prodotta dal titolare all'atto del
rilascio della concessione edilizia e agendo con notevole
ritardo per ottenere il pagamento della sanzione per
l’intero (lett. c) dell’art. 3 l. 47/1985 cit.).
Tanto più, come già detto, che le previsioni legislative di
sanzioni per il ritardato pagamento degli oneri concessori
si giustificano con la necessità, per l'ente locale, di
disporre tempestivamente delle somme spettanti, atteso
l'interesse pubblico alla celere realizzazione e
completamento delle opere di urbanizzazione.
Il ritardo con cui il Comune ha proceduto alla richiesta di
pagamento e l’assenza di qualsivoglia tentativo di
escussione della fideiussione, comportano, all’evidenza, una
violazione del dovere di correttezza che avrebbe dovuto
improntare il comportamento dell'Amministrazione comunale,
in considerazione del fatto che l’Amministrazione non è un
soggetto che agisce per massimizzare il suo profitto (il che
potrebbe giustificare l’opzione di applicare soltanto le
sanzioni per massimizzare gli introiti), ma è un soggetto
che agisce per realizzare nel modo migliore possibile un
interesse pubblico che le è stato affidato dalla legge e che
consiste, appunto, nella celere realizzazione delle opere di
urbanizzazione (e, quindi, nella pronta disponibilità delle
somme ad esse relative).
Pertanto, in presenza di una fideiussione, come quella
descritta, il rilevante ritardo (come quello di specie) con
cui il Comune agisce per riscuotere le somme a titolo di
oneri di urbanizzazione dovuti, se non può impedire del
tutto l’applicazione delle sanzioni, atteso il loro
carattere automatico, scaturente dal disposto di cui
all’art. 3 l. 47/1985 cit., impedisce tuttavia l’applicazione
delle sanzioni massime (lett. b e c dell’anzidetto art. 3).
Conseguentemente, nel caso in esame, appare compatibile con
l’interesse pubblico azionato, con il tenore della norma e
con i principi costituzionali di buona fede che ispirano i
rapporti tra cittadino e P.A. la riscossione della sanzione
soltanto nella limitata misura di cui alla lett. a), mentre
le maggiori sanzioni sono da ritenersi illegittime, poiché
verosimilmente, escutendo la fideiussione, il Comune avrebbe
ottenuto la somma e non avrebbe potuto quindi applicare
alcuna ulteriore sanzione.
Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni,
l’appello può essere accolto soltanto in parte, nei sensi
sopra precisati e, per l’effetto, in riforma della sentenza
impugnata deve ritenersi che la sanzione sia escutibile
soltanto nel minimo, indicato dalla lett. a) dell’art. 3 l.
47/1985
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.11.2014 n. 5734 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: 1.
Competenza all'adozione dell'ordinanza di rimozione rifiuti
ex art. 192, comma 3 del Codice dell’Ambiente.
La competenza all'adozione
dell'ordinanza ex art. 192, comma 3, del Codice
dell’Ambiente -secondo il quale “chiunque viola i divieti di
cui ai commi 1 e 2” (abbandono e deposito incontrollato di
rifiuti) “è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a
recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino
dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i
titolari di diritti reali o personali di godimento
sull’area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo
di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti
preposti al controllo”- spetta al sindaco e non al dirigente
dell’ente locale.
2. Sulla necessità che l'ordinanza ex art. 192, comma 3 del
Codice dell’Ambiente sia proceduta da comunicazione di avvio
procedimento.
L'ordinanza ex art. 192, comma 3, del
Codice dell’Ambiente deve essere proceduta da comunicazione
di avvio procedimento poiché, nella materia de qua, tale
comunicazione si configura come un adempimento
indispensabile al fine dell’effettiva instaurazione di un
contraddittorio procedimentale con gli interessati, atteso
che, secondo la disposizione di legge, l’ordine di rimozione
può essere adottato esclusivamente “in base agli
accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti
interessati, dai soggetti preposti al controllo” .
E’ controversa la legittimità
del provvedimento con cui il Sindaco di Lavagna ha ordinato
alla Società ricorrente di rimuovere i rifiuti pericolosi
(materiale inerte contenente amianto) casualmente rinvenuti
all’interno di un’intercapedine sottostante la passeggiata
comunale.
L’Amministrazione procedente ha fatto proprie le valutazioni
del personale comunale che, all’esito di un sopralluogo,
aveva ricondotto la presenza dei rifiuti alla Società
concessionaria del limitrofo tratto di arenile, collegato
all’intercapedine da una scalinata.
Al momento del sopralluogo, peraltro, l’accesso
all’intercapedine era precluso da un muro di mattoni che, a
giudizio del personale comunale, sarebbe stato recentemente
edificato proprio allo scopo di occultare la presenza del
materiale pericoloso.
Le censure di legittimità dedotte dalla parte ricorrente,
nel contesto di sei motivi di ricorso, possono essere
suddivise in due gruppi: quelle del primo gruppo, tese a
denunciare la sussistenza di vizi prevalentemente formali,
sono accomunate dalla contestazione inerente alla natura del
rimedio azionato dall’Amministrazione; gli altri tre motivi
di ricorso contengono rilievi intesi ad escludere ogni
responsabilità del privato in relazione al deposito dei
rifiuti pericolosi che formano oggetto del provvedimento
impugnato.
In via preliminare, deve provvedersi all’esatta
qualificazione del provvedimento impugnato, attesa la
contraddittorietà delle indicazioni emergenti dalla lettera
del medesimo che, nelle premesse, richiama sia il potere
sindacale di emanare ordinanze contingibili e urgenti in
caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere
esclusivamente locale (art. 50, comma 5, d.lgs. n. 267/2000
– t.u. enti locali) sia il potere di ordinare la rimozione e
lo smaltimento dei rifiuti ex art. 192 del d.lgs. n.
152/2006 (codice dell’ambiente).
Evidenti ragioni di carattere logico precludono la
possibilità di qualificare il provvedimento come una sorta
di atto complesso, ossia come “ordinario”
provvedimento volto alla rimozione di rifiuti e, al
contempo, come rimedio extra ordinem per fronteggiare
un’eccezionale esigenza di tutela della salute pubblica.
Si tratta, d’altronde, di due poteri ripristinatori
ontologicamente diversi, il primo dei quali presuppone
l’accertamento della responsabilità dei soggetti che hanno
abbandonato i rifiuti e il secondo, che prescinde da tale
accertamento, muove da una situazione di pericolo per la
salute pubblica (cfr. TAR Piemonte, sez. II, 09.02.2012, n.
172).
Nonostante l’esplicito richiamo contenuto nelle premesse,
l’atto in questione non può essere considerato, come
pretenderebbe parte ricorrente, una ordinanza contingibile e
urgente ex art. 50, comma 5, t.u. enti locali, facendo
difetto nella fattispecie i presupposti fondamentali
richiesti per l’esercizio del relativo potere, vale a dire
l’esistenza di una situazione di eccezionalità, non
fronteggiabile con gli strumenti giuridici ordinari previsti
dall’ordinamento, e il mancato accertamento di specifiche
responsabilità in ordine all’abbandono dei rifiuti.
In accordo con la difesa dell’Amministrazione, deve
ritenersi, invece, che il provvedimento in questione vada
qualificato come ordinanza ex art. 192, comma 3, codice
dell’ambiente, secondo il quale “chiunque viola i divieti
di cui ai commi 1 e 2” (abbandono e deposito
incontrollato di rifiuti) “è tenuto a procedere alla
rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei
rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido
con il proprietario e con i titolari di diritti reali o
personali di godimento sull’area, ai quali tale violazione
sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli
accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti
interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco
dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed
il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede
all’esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al
recupero delle somme anticipate”.
L’Amministrazione procedente, infatti, si è limitata ad una
sintetica ricostruzione dei fatti e ad affermare,
richiamando la relazione del sopralluogo effettuato dal
proprio personale, la responsabilità dell’odierna
ricorrente, senza tuttavia menzionare particolari situazioni
di pericolo per la sanità e l’igiene pubblica che, in
ipotesi, avrebbero imposto l’utilizzo di rimedi extra
ordinem né rendere conto dell’espletamento di alcuna
attività istruttoria volta all’individuazione dei pericoli
suddetti.
Le conclusioni che precedono comportano la reiezione della
censura dedotta con il primo motivo di ricorso, concernente
l’improprio utilizzo del potere di ordinanza ex art. 50,
comma 5, t.u. enti locali.
E’ destituito di fondamento anche il terzo motivo di
ricorso, relativo alla titolarità del potere esercitato
nella fattispecie: l’art. 192, comma 3, del d.lgs. n.
152/2006, infatti, è una norma speciale sopravvenuta
rispetto all’art. 107, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000,
cosicché la competenza a disporre con ordinanza le
operazioni necessarie per la rimozione e lo smaltimento dei
rifiuti abbandonati spetta al sindaco e non al dirigente
dell’ente locale (Cons. Stato, sez. V, 25.08.2008, n. 4061).
E’ fondato e meritevole di accoglimento, invece, il secondo
motivo di ricorso, con cui viene denunciata l’illegittimità
dell’atto per mancata comunicazione di avvio del
procedimento, genericamente (e inesattamente) giustificata
dall’Amministrazione con riferimento a pretese ragioni di
celerità connesse alla tutela della “sicurezza pubblica”.
Come precisato dal Consiglio di Stato con la citata
decisione n. 4061 del 2008, infatti, la preventiva, formale
comunicazione dell’avvio del procedimento si configura,
nella materia de qua, come “un adempimento indispensabile
al fine dell’effettiva instaurazione di un contraddittorio
procedimentale con gli interessati”, atteso che l’ordine
di rimozione può essere adottato esclusivamente “in base
agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i
soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo”
(cfr. anche TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 02.09.2009, n.
4598).
La difesa comunale afferma che l’omissione dell’adempimento
in parola sarebbe stata imposta dalla necessità di
provvedere con assoluta urgenza, a causa della pericolosità
del materiale da rimuovere, ma tale assunto è smentito, di
fatto, dalla tempistica dello specifico procedimento, atteso
che l’ordinanza di rimozione è stata adottata a distanza di
quasi due mesi dalla relazione di sopralluogo nella quale si
riferiva con certezza la presenza di amianto.
Inoltre, non può ritenersi che, nel caso in esame, la
comunicazione di avvio del procedimento avrebbe
rappresentato l’adempimento di un obbligo meramente formale
in quanto, alla luce dei rilievi formulati nel ricorso circa
l’assenza di responsabilità per l’abbandono dei rifiuti, non
si può certo ritenere a priori che l’apporto procedimentale
del privato non sarebbe stato idoneo ad influire sull’esito
del procedimento.
Non può trovare applicazione, pertanto, il disposto
dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990.
Le considerazioni che precedono sono sufficienti a fondare
la diagnosi di fondatezza del ricorso, a prescindere dal
vaglio dei rilievi formulati con i residui tre motivi di
gravame che richiederebbe accertamenti istruttori complessi
e tempi non brevi.
La presente pronuncia, d’altronde, risulta pienamente
satisfattiva dell’interesse azionato da parte ricorrente in
quanto, essendo già intervenuta la rimozione dei rifiuti ad
opera del Comune, deve escludersi la possibilità di
riedizione dell’attività amministrativa che ha condotto
all’adozione del provvedimento illegittimo (massima
tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
TAR Liguria, Sez. II,
sentenza 21.11.2014 n. 1698
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: 1.
Oneri per la sicurezza. Omessa indicazione. Immediata
efficacia lesiva. Appalti di servizi di natura
intellettuale. Giudizio di anomalia. Esclusione.
1.1. L’omessa indicazione nella
lettera di invito dei costi per la sicurezza non soggetti a
ribasso costituisce una circostanza direttamente incidente
sulla formulazione dell’offerta e, in conseguenza, deve
essere immediatamente contestata senza attendere l’esito
sfavorevole della gara.
1.2. In ogni caso, negli appalti di servizi di natura
intellettuale non occorre indicare gli oneri per la
sicurezza, poiché le attività da svolgersi non sono
caratterizzate da profili di interesse in tema di sicurezza
sul lavoro.
In particolare, non si profilano in tale ambito rischi da
interferenze esterne (derivanti, ad esempio, dalle
particolari condizioni dei luoghi in cui dovrà svolgersi
l’attività) ed è per questa ragione che l’art. 26, comma
3-bis, del d.lgs. n. 81/2008, esclude espressamente
l’obbligo per la stazione appaltante di indicare detti oneri
nel bando di gara.
L’indicazione dei costi aziendali per la sicurezza da parte
dei singoli concorrenti, invece, risulta funzionale al
giudizio di anomalia e nessuna disposizione normativa
prevede la comminatoria di esclusione per l'omessa
indicazione degli stessi nell’offerta.
2. Petitum. Rinnovo operazioni di gara. Subentro. Interesse
a ricorrere. Carenza.
Qualora la domanda giurisdizionale
promossa dall’impresa concorrente esclusa non sia volta a
conseguire l’aggiudicazione della gara, neppure in via
subordinata o alternativa, ma a conseguire esclusivamente il
rinnovo delle operazioni di gara e, allo stesso tempo,
l’accoglimento delle censure formulate comporti proprio
l’aggiudicazione direttamente in favore della ricorrente, il
ricorso è inammissibile per carenza di interesse.
Con il primo motivo di ricorso, l’esponente denuncia la
violazione dell’art. 86, comma 3-bis, del d.lgs. n. 163/2006
(codice dei contratti pubblici), in forza del quale
andrebbero inderogabilmente indicati, anche negli appalti di
servizi, i costi relativi alla sicurezza.
Nel caso in esame, l’omissione sarebbe stata duplice: la
stazione appaltante non ha indicato, nell’avviso pubblico
della procedura negoziata e nella successiva lettera di
invito, i costi per la sicurezza non soggetti a ribasso di
cui i concorrenti avrebbero dovuto tenere conto nella
predisposizione delle offerte (cd. “oneri da interferenze”);
l’aggiudicataria, poi, non ha indicato nella propria offerta
i costi per la sicurezza da rischio specifico (cd. “oneri
da rischio aziendale”), ma vi ha provveduto solo nella
successiva fase di verifica di non anomalia.
Anche la seconda omissione, peraltro, sarebbe imputabile
all’erronea formulazione della legge di gara che non aveva
previsto l’obbligo di indicare i costi della sicurezza
inerenti all’attività svolta da ciascun concorrente e non
aveva predisposto alcun modello da utilizzarsi allo scopo.
Tali doglianze sono tardive e, comunque, destituite di
giuridico fondamento.
L’omessa indicazione nella lettera di invito dei costi per
la sicurezza non soggetti a ribasso, infatti, costituisce
una circostanza direttamente incidente sulla formulazione
dell’offerta e, in conseguenza, avrebbe dovuto essere
immediatamente contestata, per rilevare il pregiudizio che
ne derivava ai danni della concorrente, senza attendere
l’esito sfavorevole della gara (Cons. Stato, sez. IV,
07.11.2012, n. 5671; idem, 26.11.2009, n. 7442; TAR Liguria,
sez. II, 21.03.2014, n. 453).
In ogni caso, la giurisprudenza amministrativa, dopo talune
oscillazioni, ha chiarito che negli appalti di servizi di
natura intellettuale, qual è pacificamente quello che forma
oggetto della presente contestazione giurisdizionale, non
occorre indicare gli oneri per la sicurezza, poiché le
attività da svolgersi non sono caratterizzate da profili di
interesse in tema di sicurezza sul lavoro (cfr., fra le
ultime, Cons. Stato, sez. V, 17.06.2014, n. 3054).
In particolare, non si profilano in tale ambito rischi da
interferenze esterne (derivanti, ad esempio, dalle
particolari condizioni dei luoghi in cui dovrà svolgersi
l’attività) ed è per questa ragione che l’art. 26, comma
3-bis, del d.lgs. n. 81/2008, esclude espressamente
l’obbligo per la stazione appaltante di indicare detti oneri
nel bando di gara (TAR Puglia, Lecce, sez. I, 28.02.2012, n.
378).
L’indicazione dei costi aziendali per la sicurezza da parte
dei singoli concorrenti, invece, risulta funzionale al
giudizio di anomalia e nessuna disposizione normativa
prevede la comminatoria di esclusione per l'omessa
indicazione degli stessi nell’offerta (Cons. Stato, sez. V,
17.06.2014, n. 3056; TAR Liguria, sez. II, 29.08.2014, n.
1323).
Va soggiunto che, nel caso in esame, la lex specialis
nulla prevedeva in ordine all’eventuale indicazione degli
oneri aziendali già nell’offerta e che, comunque,
l’aggiudicataria non ha avuto difficoltà a specificare detti
oneri in sede di verifica dell’anomalia.
La ricorrente, invece, non ha interesse a formulare le
censure dedotte con il secondo (anche se contraddistinto con
il n. 1.1) motivo di ricorso, inerenti alla pretesa anomalia
dell’offerta aggiudicataria.
L’eventuale accoglimento del motivo, infatti, non
comporterebbe né la riedizione dell’intera procedura
competitiva né l’aggiudicazione in favore della ricorrente,
ma solo lo scorrimento della graduatoria e la conseguente
aggiudicazione in favore di una delle concorrenti che vi
occupano una posizione anteriore alla ricorrente.
In ogni caso, i rilievi formulati nel contesto del motivo
-riferendosi ad una pretesa inadeguatezza delle prestazioni
professionali previste dall’aggiudicataria, in termini di
impegno orario, rispetto alla complessità dell’incarico da
svolgere– non sono idonei a rivelare, anche alla luce dei
dettagliati chiarimenti forniti dall’aggiudicataria
medesima, alcun profilo di manifesta illogicità del giudizio
di non anomalia motivatamente reso dalla stazione appaltante
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR
Liguria, Sez. II,
sentenza 21.11.2014 n. 1690 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1.
Sulla natura delle controversie in materia di oneri di
urbanizzazione.
Le controversie in tema di oneri di
urbanizzazione e di costo di costruzione introducono un
giudizio su un rapporto involgente posizioni di diritto
soggettivo, che, come tale, sfugge ai termini decadenziali
del giudizio impugnatorio ed è attivabile nell’ordinario
termine di prescrizione.
2. Sulle condizioni di operatività dell'esonero dal
contributo per le opere da realizzare in zona agricola in
funzione della conduzione del fondo e delle esigenze
dell'imprenditore agricolo ex art. 9, co. 1, lett. a), legge
n. 10/1977.
L’esonero dal contributo per il rilascio
della concessione edilizia relativamente alle opere da
realizzare nelle zone agricole in funzione della conduzione
del fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a
titolo principale previsto dall’art. 9, co. 1, lett. a),
della legge n. 10/1977, subordinava la gratuità della
concessione a due condizioni: la destinazione dell’opera
alla conduzione del fondo la titolarità della qualifica di
imprenditore agricolo a titolo principale, per tale
dovendosi intendere “l'imprenditore che dedichi alla
attività agricola almeno due terzi del proprio tempo di
lavoro complessivo e che ricavi dall'attività medesima
almeno due terzi del proprio reddito globale da lavoro
risultante dalla propria posizione fiscale”, la cui
sussistenza è onere del ricorrente dimostrare.
3. Rilevanza anche dei volumi interrati ai fini del computo
degli oneri di urbanizzazione.
Ove non si tratti di opere di modeste
dimensioni e con destinazione delle stesse ad usi episodici
o meramente complementari, o comunque escluse dagli
strumenti urbanistici, anche i locali interrati producono
carico urbanistico e rilevano ai fini del computo degli
oneri di urbanizzazione.
3.1. Le censure, che saranno esaminate congiuntamente, sono
infondate.
3.1.1. L’art. 9, co. 1, lett. a), della legge n. 10/1977,
applicabile ratione temporis, prevedeva l’esonero dal
contributo per il rilascio della concessione edilizia
relativamente alle opere da realizzare nelle zone agricole
in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze
dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi
dell'art. 12 della legge n. 153/1975.
Come si vede, la norma subordinava la gratuità della
concessione a due condizioni, una oggettiva, ovvero la
destinazione dell’opera alla conduzione del fondo, e l’altra
soggettiva, ovvero la titolarità della qualifica di
imprenditore agricolo a titolo principale, per tale
dovendosi intendere “l'imprenditore che dedichi alla
attività agricola almeno due terzi del proprio tempo di
lavoro complessivo e che ricavi dall'attività medesima
almeno due terzi del proprio reddito globale da lavoro
risultante dalla propria posizione fiscale”, secondo la
definizione dettata dall’art. 12 l. n. 153/1975 cit.; ed
anche a voler ammettere che lo scantinato abusivo per cui è
causa debba presumersi destinato a contribuire alla
conduzione del fondo di proprietà del ricorrente, nella
specie è proprio il requisito soggettivo a fare difetto: non
solo, infatti, il ricorrente medesimo non ne ha dimostrato
la sussistenza, come sarebbe stato suo onere (cfr. da ultimo
Cons. Stato, sez. V, 09.04.2013, n. 1935), ma la
documentazione in atti attesta il contrario (basti esaminare
la nota di trascrizione dell’atto d’obbligo del 12.04.1991,
ove il ricorrente è qualificato come “infermiere
professionale”, circostanza palesemente incompatibile
con il contestuale possesso della qualità di imprenditore
agricolo a titolo principale.
Del pari, gli altri soggetti menzionati nella nota vi sono
qualificati, rispettivamente come “bidella” la
signora D.V., moglie del ricorrente, e “pensionato”
il signor F.G.).
3.1.2. Quanto alla debenza o meno del contributo di
concessione per la realizzazione di locali interrati, ai
sensi dell’art. 18 delle N.T.A. del P.R.G. di San Giuliano
Terme, non può dubitarsi del fatto che la disposizione
dianzi citata, nell’indicare al punto 5 i volumi rilevanti
ai fini della individuazione delle caratteristiche
quantitative delle opere realizzabili nel territorio
comunale, vi comprenda anche i volumi interrati, di modo che
il successivo rinvio alle “superfici utili” indicate
al precedente punto 4 non può essere inteso ai soli piani
fuori terra, come pretenderebbe il ricorrente in virtù di
una interpretazione rigidamente letterale, ma a tutte le
superfici utili di calpestio, ivi incluse quelle interrate e
con la sola eccezione prevista dallo strumento urbanistico
per le superfici –fuori terra o interrate– aventi specifiche
destinazioni pertinenziali (autorimesse e locali tecnici, le
cui caratteristiche non ha il manufatto realizzato dal
ricorrente, oltretutto di dimensioni oggettivamente non
esigue).
Diversamente, la menzione dei volumi interrati al punto 5
resterebbe priva di effetti, in aperto contrasto, peraltro,
con il principio invalso secondo cui, ove non si tratti di
opere di modeste dimensioni e con destinazione delle stesse
ad usi episodici o meramente complementari, o comunque
escluse dagli strumenti urbanistici, anche i locali
interrati producono carico urbanistico e rilevano ai fini
del computo degli oneri di urbanizzazione (fra le altre,
cfr. Cons. Stato, sez. V, 15.02.2001, n. 790; id., sez. IV,
03.05.2000, n. 2614).
Conferma ne sia che lo stesso ricorrente, nell’istanza di
condono, definisce “superficie utile” di 50,04 mq
quella del manufatto in questione, salvo invocare le
agevolazioni di legge previste per la destinazione
all’attività agricola
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 21.11.2014 n. 1826
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1.
Annullamento, da parte della Soprintendenza,
dell'autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune
senza adeguata motivazione.
E' legittimo il provvedimento con
cui la Soprintendenza annulla l’autorizzazione rilasciata
dall'amministrazione comunale, ex art. 7 della legge n.
1497/1939, nell’ambito di un procedimento di condono
edilizio, qualora tale autorizzazione sia priva di
motivazione e fondata sul mero rinvio per relationem al
parere della Commissione Edilizia Integrata.
Come noto, infatti, nel sistema di tutela delle bellezze
naturali apprestato dalla legge n. 1497/1939 è il rilascio
del titolo abilitativo a dover adeguatamente esternare il
percorso logico seguito dall’amministrazione procedente per
escludere l’esistenza di un pregiudizio ai beni protetti dal
vincolo paesaggistico, o, comunque, per affermare la
prevalenza dell’interesse individuale su quello pubblico
tutelato dall’apposizione del vincolo ambientale, mentre per
il caso di diniego la giurisprudenza ha frequentemente
ritenuto idonea una motivazione anche succinta, fondata
sulla mera contrarietà tra la presenza del manufatto e la
bellezza naturale dei luoghi.
2. Nozione di “visibilità” ai fini della valutazione di
compatibilità paesaggistica.
Ai fini della valutazione di compatibilità
paesaggistica, la nozione di “visibilità” dell'opera nel
contesto paesaggistico tutelato non può ritenersi limitata a
particolari punti di osservazione, ma deve riguardare
l'apprezzamento puntuale e concreto dell'effettiva
compatibilità dell'intervento, e di tutti gli elementi che
ne determinano l’impatto paesaggistico, con i valori
ambientali propri del sito vincolato.
Né, evidentemente, la similarità della copertura a quella di
altre costruzioni della zona di per sé determina il corretto
inserimento ambientale del manufatto, in assenza di una
puntuale e concreta verifica della compatibilità dei
materiali costruttivi utilizzati (nel caso di specie,
lamiera) con le caratteristiche del sito vincolato; così
come il rilascio del nulla osta idrogeologico attiene a
profili che non rilevano ai fini dell’inserimento
paesaggistico-ambientale delle opere abusive.
3. Motivi per i quali la Soprintendenza può annullare
l'autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune.
L'autorizzazione paesaggistica può venire
annullata ad opera della Soprintendenza per qualsiasi vizio
di legittimità, ivi compresa l'assenza, nel provvedimento di
base, di una corretta indicazione delle ragioni sottese alla
positiva valutazione, quanto a compatibilità paesaggistica,
dell'intervento progettato; fermo restando che nulla
impedirebbe all’atto di annullamento di limitarsi a
constatare il difetto di motivazione dell’autorizzazione
comunale, senza addentrarsi in valutazioni di merito.
4. Decorrenza del termine di sessanta giorni assegnato
all'amministrazione statale per l'esercizio del potere di
annullamento dell'autorizzazione paesaggistica.
Il termine di sessanta giorni assegnato
all'amministrazione statale per l'esercizio del potere di
annullamento dell'autorizzazione paesaggistica decorre dal
momento in cui la documentazione perviene completa
all'organo competente a decidere, fermo restando che il
termine predetto non può essere sospeso, interrotto o
prorogato arbitrariamente al di fuori di reali esigenze
istruttorie, per finalità puramente dilatorie.
5. Inoperatività del silenzio-assenso sull'istanza di
condono in caso di annullamento dell'autorizzazione
paesaggistica intervenuta tempestivamente da parte della
Soprintendenza.
Il combinato disposto dell’art. 35 e
dell’art. 32 co. 1 della legge n. 47/1985 conduce ad
affermare che il silenzio-assenso sull’istanza di condono
edilizio inerente opere abusive realizzate in area
sottoposta a vincolo si perfeziona unicamente in presenza
del parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del
vincolo, e non anche di parere negativo, ovvero di
annullamento ministeriale del parere favorevole, e che il
termine di sessanta giorni si colloca all’interno dello
spazio temporale occorrente per la formazione del titolo
abilitativo tacito; cosicché non può dirsi formato
l’invocato silenzio-assenso, qualora l’annullamento
ministeriale dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata
dal Comune sia intervenuto tempestivamente.
4.1. Le censure sono infondate.
4.1.1. Al contrario di quanto sostenuto in ricorso, le
valutazioni espresse dalla Soprintendenza non trasmodano in
controllo di merito, ma restano ancorate al tipico parametro
di legittimità costituito dal difetto di motivazione
dell’autorizzazione rilasciata dal Comune. Quest’ultima non
lascia, infatti, in alcun modo emergere le ragioni sottese
al giudizio favorevole alla condonabilità della costruzione
realizzata dalla originaria ricorrente e si limita a un puro
e semplice rinvio per relationem al parere della
C.E.I., non corredato di alcun riferimento alle ragioni
poste dalla commissione integrata a sostegno delle proprie
valutazioni.
Per questo aspetto, appaiono dunque ineccepibili i rilievi
della Soprintendenza, cui il parere in questione neppure
risulta trasmesso (si veda la scheda illustrativa in data
08.02.1998, inviata dal Comune alla Soprintendenza e recante
la semplice indicazione dell’esistenza del parere favorevole
C.E.I.) circa l’impossibilità di apprezzare i criteri
applicati dal Comune onde pervenire al rilascio
dell’autorizzazione.
Del resto, nel sistema di tutela delle bellezze naturali
apprestato dalla legge n. 1497/1939 è appunto il rilascio
del titolo abilitativo a dover adeguatamente esternare il
percorso logico seguito dall’amministrazione procedente per
escludere l’esistenza di un pregiudizio ai beni protetti dal
vincolo paesaggistico, o, comunque, per affermare la
prevalenza dell’interesse individuale su quello pubblico
tutelato dall’apposizione dei vincolo ambientale, mentre per
il caso di diniego la giurisprudenza ha frequentemente
ritenuto idonea una motivazione anche succinta, fondata
sulla mera contrarietà tra la presenza del manufatto e la
bellezza naturale dei luoghi (cfr. TAR Toscana, sez. III,
29.05.2007, n. 823).
4.1.2. Si aggiunga in ogni caso che, per come formulato, il
parere della commissione integrata è tutt’altro che idoneo a
legittimare nella sostanza il rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica, non potendosi all’uopo considerare
sufficiente il requisito della poca visibilità dalla “strada
pubblica e dal canale adiacente” a fronte del principio,
invalso, secondo cui ai fini della valutazione di
compatibilità la nozione di “visibilità” dell'opera
nel contesto paesaggistico tutelato non può ritenersi
limitata a particolari punti di osservazione, ma deve
riguardare l'apprezzamento puntuale e concreto
dell'effettiva compatibilità dell'intervento, e di tutti gli
elementi che ne determinano l’impatto paesaggistico, con i
valori ambientali propri del sito vincolato (da ultimo, cfr.
Cons. Stato, sez. VI, 11.09.2013, n. 4493, e id.,
10.05.2013, n. 2535, ma già id., 28.10.2002, n. 5881).
Né, evidentemente, la similarità della copertura a quella di
altre costruzioni della zona di per sé determina il corretto
inserimento ambientale del manufatto, in assenza di una
puntuale e concreta verifica della compatibilità dei
materiali costruttivi utilizzati (lamiera) con le
caratteristiche del sito vincolato; così come il rilascio
del nulla osta idrogeologico attiene a profili che non
rilevano ai fini dell’inserimento paesaggistico-ambientale
delle opere abusive.
Lungi dal sostituire il proprio giudizio a quello formulato
dal Comune, dunque la Soprintendenza non ha fatto altro che
colmare un manifesto vuoto motivazionale attraverso
considerazioni che valgono altresì a evidenziare –attraverso
l’insistito richiamo all’alto valore ambientale dell’area–
l’inconsistenza delle ragioni addotte dal Comune per
giustificare, nel caso di specie, l’assentibilità delle
opere.
E tanto basta a motivare l’annullamento, essendo
pacificamente legittimo che l'autorizzazione paesaggistica
possa venire annullata ad opera della Soprintendenza per
qualsiasi vizio di legittimità, ivi compresa l'assenza, nel
provvedimento di base, di una corretta indicazione delle
ragioni sottese alla positiva valutazione, quanto a
compatibilità paesaggistica, dell'intervento progettato;
fermo restando che nulla impedirebbe all’atto di
annullamento di limitarsi a constatare il difetto di
motivazione dell’autorizzazione comunale, senza addentrarsi
in valutazioni di merito (fra le altre, cfr. Cons. Stato,
sez. VI, 11.09.2013, n. 4481; id., 17.07.2013, n. 3896; id.,
05.04.2013, n. 1876; id., 18.01.2012, n. 173).
4.2.3. Quanto alla presunta tardività del provvedimento
impugnato, si ricorda che per giurisprudenza consolidata il
termine di sessanta giorni assegnato all'amministrazione
statale per l'esercizio del potere di annullamento
dell'autorizzazione paesaggistica decorre dal momento in cui
la documentazione perviene completa all'organo competente a
decidere, fermo restando che il termine predetto non può
essere sospeso, interrotto o prorogato arbitrariamente al di
fuori di reali esigenze istruttorie, per finalità puramente
dilatorie (per tutte, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 29.05.2008,
n. 2538).
Nella specie, la documentazione completa risulta pervenuta
alla Soprintendenza il 20.04.1998, come si afferma nello
stesso provvedimento impugnato, e, in mancanza di elementi
di prova che valgano a smentire tale attestazione, non può
che concludersi per la tempestività del decreto di
annullamento, adottato il 24.04.1998.
E’ in atti, del resto, la nota di trasmissione della pratica
dal Comune alla Soprintendenza in data 26.02.1996 recante,
in calce, il timbro “documentazione incompleta – vedi
allegato” sottoscritto dal Soprintendente il 13.03.1996;
l’allegato, pure presente, contiene una lista di documenti
mancanti, con evidenziata la voce “documentazione
fotografica originale e in copia” e l’aggiunta
manoscritta “ove sia più chiaramente visibile il
manufatto”, a conferma della non pretestuosità della
richiesta di integrazione, e il tutto porta il timbro di
restituzione al Comune datato 15–20.03.1996.
5. Venendo al ricorso n. 1718/1999 R.G., avente ad oggetto
il diniego di condono del 20.04.1999, la rilevata
infondatezza dell’impugnativa proposta avverso
l’annullamento ministeriale dell’autorizzazione
paesaggistica si trasmette alle censure di invalidità
derivata articolate con il primo motivo, e sostanzialmente
ripetitive dei motivi di gravame contenuti nel ricorso
2045/1998 R.G..
5.2. Con il secondo motivo, si sostiene che il diniego di
condono sarebbe stato pronunciato quando si era oramai
formato sull’istanza il silenzio-assenso, ai sensi dell’art.
35 della legge n. 47/1985. In contrario, sia sufficiente
osservare che, per giurisprudenza costante, il combinato
disposto dell’art. 35 e dell’art. 32, co. 1, della legge n.
47/1985 conduce ad affermare che il silenzio-assenso
sull’istanza di condono edilizio inerente opere abusive
realizzate in area sottoposta a vincolo si perfeziona
unicamente in presenza del parere favorevole dell’autorità
preposta alla tutela del vincolo, e non anche di parere
negativo, ovvero di annullamento ministeriale del parere
favorevole, e che il termine di sessanta giorni si colloca
all’interno dello spazio temporale occorrente per la
formazione del titolo abilitativo tacito (cfr. Cons. Stato,
sez. VI, 07.09.2012, n. 4747); e poiché, per le ragioni
suesposte, nella specie l’annullamento ministeriale
dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune è
pervenuto tempestivamente, neppure può dirsi formato
l’invocato silenzio-assenso (massima tratta da
www.ricerca-amministrativa.it -
TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 21.11.2014 n. 1819
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Bed & breakfast senza permessi.
Non è cambio di destinazione d’uso, niente stop per
regolamento.
Spazi privati. Anche gli asili nido possono essere allestiti
nell’appartamento nel rispetto delle regole comuni.
Aguzzare l'ingegno e
inventarsi un mestiere, soprattutto quando le offerte di
lavoro sono ridotte al lumicino, può rivelarsi la scelta
giusta. Se poi l'impiego in questione si svolge direttamente
a casa e comporta investimenti contenuti, l'idea comincia a
essere davvero appetibile. È il caso dei bed and breakfast e
degli asili nido famiglia, due modi intelligenti per
guadagnare utilizzando l'alloggio in cui si risiede, sia
esso di proprietà o in affitto.
Il bed and breakfast è un'attività a carattere saltuario,
svolta a conduzione familiare da privati che utilizzano
parte della propria casa per offrire un servizio di alloggio
e prima colazione. In condominio non è necessaria
l'approvazione dell'assemblea, a meno che gli atti notarili
di acquisto o il regolamento condominiale non vietino
espressamente questo tipo di attività, differente dalla
pensione o dall'affittacamere.
Con la
sentenza
20.11.2014 n. 24707, confermando la
decisione della Corte d'appello, la Corte di Cassazione -Sez.
II civile- ha inoltre
stabilito che l'attività di b&b è consentita anche in
presenza di un regolamento condominiale che vieti, come nel
caso specifico, di «destinare gli appartamenti a uso diverso
da quello di civile abitazione o di ufficio professionale
privato». Secondo il giudice di appello «l'utilizzo degli
appartamenti a tale scopo non comporta il cambio di
destinazione d'uso ai fini urbanistici» e, cosa ancora più
importante, proprio la definizione di “civile abitazione”
citata nel regolamento, risulta essere un presupposto
fondamentale per lo svolgimento dell'attività di b&b.
Il condòmino può anche realizzare tutte le opere che ritiene
opportune, a patto che non provochino danni alle cose comuni
o pregiudizi alle proprietà esclusive altrui.
Per prima cosa, occorre recarsi allo Sportello unico della
attività produttive del Comune d'appartenenza e compilare la
Scia, la segnalazione certificata di inizio attività. Non
serve nessuna iscrizione alla sezione speciale del registro
delle imprese, mentre devono essere rispettati alcuni
requisiti, come quelli igienico-sanitari previsti dal
regolamento edilizio e dal regolamento d'igiene comunale,
oltre alla normativa vigente in materia di sicurezza e di
somministrazione di cibi e bevande. In linea di massima,
anche se ogni regione detta le proprie regole, è necessario
che le stanze abbiano dimensioni adeguate e siano presenti
due servizi igienici (se l'attività si svolge in più di una
stanza). E ancora occorre garantire: l'accesso diretto alle
camere da letto destinate agli ospiti; il cambio di
biancheria almeno tre volte alla settimana (e all'arrivo do
ogni nuovo ospite) e la pulizia quotidiana dei servizi.
Il responsabile dell'attività, oltre a registrare le
presenze e comunicarle alle autorità di pubblica sicurezza,
è tenuto a sottoscrivere una polizza assicurativa di
responsabilità civile, per eventuali danni arrecati agli
ospiti. Le tariffe, sono decise liberamente e vanno
comunicate alla Provincia, che ogni anno redige un elenco
dettagliato con le strutture ricettive operanti nel
territorio di competenza.
Per quanto riguarda gli asili nido in famiglia, bisogna
prestare un po' più di attenzione al regolamento
condominiale. Qualora, ad esempio, non siano consentiti
«assembramenti o passaggi più o meno consistenti di persone
che possano determinare un disturbo per la collettività
condominiale», anche se non esplicitamente indicato il
servizio può essere vietato.
Appurata la possibilità di iniziare l'attività in
condominio, occorre presentare il progetto a Comune e Asl,
con la descrizione dettagliata della propria attività. Anche
in questo caso ci sono dei requisiti da rispettare e, come
per i b&b, ogni regione ha dettato le proprie norme. A
cominciare dai locali in cui si svolge il servizio: c'è
bisogno di uno spazio per l'accoglienza; un'area gioco
protetta; una zona riposo con lettini separata dal resto
della casa; un bagno con fasciatoio e una cucina dove
preparare i pasti.
In Trentino, la regione italiana dove il nido famiglia è più
diffuso, il responsabile dell'attività è obbligato a seguire
un corso di formazione da 250 ore, con lezioni in aula e
tirocinio pratico. Solitamente, si possono accudire fino a
un massimo di sei bambini e i costi variano dai 3 ai 6 euro
all'ora, senza nessuna quota d'iscrizione.
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In sintesi
01 IL REGOLAMENTO
Con la sentenza 24707 del 20.11.2014 la Cassazione ha
inoltre stabilito che l’attività di b&b è consentita anche
in presenza di un regolamento condominiale che vieti, come
nel caso specifico, di «destinare gli appartamenti a uso
diverso da quello di civile abitazione o di ufficio
professionale privato»
02 NIENTE PARTITA IVA
L’attività di bed and breakfast non è considerata un vero
e proprio lavoro e quindi
non necessita di iscrizione
alla Camera di Commercio e apertura di partita Iva
03 LA SOSPENSIONE
Il responsabile dell’attività è però obbligato a sospenderla
per tre mesi l’anno, anche non consecutivi, e affittare un
numero massimo di tre camere per sei posti letto.
04 L’ASILO NIDO
Un po’ più complesso è avviare un nido famiglia. In molti
casi è obbligatorio un titolo
di studio, in altri è sufficiente seguire un corso ad hoc.
Non è sempre necessario costituire un’impresa
o far parte di una cooperativa:
se, ad esempio, ad avviare l’asilo è una famiglia,
basterà una scrittura
privata tra le famiglie associate. Attenzione al
regolamento: se, esempio, non siano consentiti
«assembramenti
o passaggi più o meno consistenti di persone
che possano determinare
un disturbo per la collettività condominiale»,
anche se non esplicitamente indicato il servizio può
essere vietato (articolo Il Sole 24 Ore
del 02.12.2014).
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MASSIMA
Non è illegittimo adibire
l’abitazione privata condominiale ad attività commerciale di
“affitta camere”, purché non si dimostri l’effettivo
pregiudizio in danno ai vicini di casa.
Le disposizioni contenute nel regolamento condominiale che
si risolvano nella compressione delle facoltà e dei poteri
inerenti al diritto di proprietà dei singoli partecipanti,
devono essere espressamente e chiaramente manifestate dal
testo o, comunque, devono risultare da una volontà
desumibile in modo non equivoco da esso.
L’interpretazione del giudice di merito del regolamento
condominiale è insindacabile dalla Cassazione salvo vizi
logici. E il giudice di appello, nel caso di specie, con
ragionamento «coerente» e «logico» ha ritenuto che il
regolamento non vietasse l’attività ricettiva «tenuto conto
che la destinazione a civile abitazione costituisce il
presupposto per la utilizzazione di una unità abitativa ai
fini dell’attività di bed and breakfast».
Una affermazione coerente anche con il regolamento regionale
del Lazio n. 16 del 2008, in cui si chiarisce che l’utilizzo
degli appartamenti a tale scopo non comporta il cambio di
destinazione d’uso ai fini urbanistici
(link a http://renatodisa.com). |
APPALTI: Si tratta dunque di stabilire se la mancata dichiarazione
della presenza di soggetti «cessati» nel periodo compreso
tra la pubblicazione del bando di gara ed il termine di
presentazione dell'istanza di partecipazione potesse dar
luogo, nel contesto normativo nel quale si è innestato il
procedimento di gara, all'espulsione della procedura.
Se è pacifico che una tale omessa dichiarazione dovesse dar
luogo alla sanzione espulsiva in ipotesi di cessazioni
intervenute nell'anno precedente la pubblicazione del bando
di gara perché così espressamente previsto dalla legge, è
anche vero che una lettura di tale disposizione tendente a
tratteggiare un'esenzione da tali obblighi dichiarativi per
le cessazioni intervenute dopo la pubblicazione del bando
non sarebbe in linea con la ratio e le finalità della
previsione normativa del requisito e del connesso obbligo di
dichiararlo. Una contraria lettura condurrebbe ad
assoggettare ad un trattamento meno rigoroso tutte quelle
variazioni societarie che, poste in essere in occasione
dell'indizione della gara, si prestano agevolmente a
finalità elusive della disciplina il cui rigore è stato,
invero, ampiamente tratteggiato dalla giurisprudenza
amministrativa.
In tal senso il periodo, a ritroso, di un anno dalla
pubblicazione del bando di gara nel quale considerare
rilevanti le cd. «cessazioni» deve considerarsi, secondo una
lettura che garantisca anche una certa effettività alla
disposizione, il limite massimo entro il quale
l'amministrazione può considerare le stesse rilevanti ai
fini dell'accertamento della sussistenza dei requisiti di
ammissione.
Nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di
conversione del decreto legge n. 70 del 2011 con il quale fu
ridotto da tre ad un anno il medesimo periodo, si legge, in
linea con tale impostazione, che tale contrazione del
periodo di riferimento «consente […] il permanere di un
congruo periodo idoneo a evitare che la cessazione dalle
cariche di soggetti condannati consenta automaticamente la
partecipazione alle gare» (atto Camera 4357, disegno di
legge «conversione in legge del decreto-legge 13.05.2011, n. 70, concernente Semestre Europeo - Prime
disposizioni urgenti per l'economia»).
L'interpretazione logica della disposizione deve condurre, a
fortiori, a ritenere sussistente l'obbligo di produrre le
dichiarazioni di moralità anche per gli amministratori in
carica al momento della pubblicazione del bando e cessati
successivamente, in quanto il periodo intercorrente fra la
data di pubblicazione del bando e quella di presentazione
della domanda rappresenta l'arco temporale più rilevante ai
fini della dichiarazione medesima; la ratio evidente della
norma è quella di escludere dalla partecipazione le società
i cui soggetti abbiano o abbiano avuto un significativo
ruolo decisionale e gestionale nella compagine di
appartenenza. In tal senso è anche la condivisibile
giurisprudenza del Consiglio di Stato che, con riferimento
ad ipotesi successiva all'introduzione della comminatoria di
nullità delle clausole dei bandi in violazione del principio
di tassatività delle cause di esclusione di cui all'art. 46,
comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, ha sottolineato, con
sentenza n. 6271 del 2013 che:
- rispetto agli obblighi di cui all’art. 38 del d.lgs. n.
163 del 2006, deve ritenersi che la data della pubblicazione
del bando di gara costituisce il discrimine temporale che
definisce sia i soggetti in carica sia quelli cessati,
imponendo le dichiarazioni di rito ad entrambe le categorie
con riferimento quindi tanto alla situazione esistente a
quella data quanto a quella antecedente;
- tale onere dichiarativo rimane quindi indifferente al
mutamento, dopo il giorno di pubblicazione dell’atto
indittivo, delle persone nelle cariche sociali e negli
incarichi previsti dalla norma;
- è priva di consistenza giuridica la tesi secondo la quale
il soggetto cessato dalla carica nel periodo tra l’indizione
del bando e la presentazione dell’offerta non sarebbe tenuto
a rendere la dichiarazione del pregiudizio penale;
- tale prospettazione presuppone l’esistenza di una vacatio
tra l’indizione del bando e la presentazione dell’offerta,
una specie di zona neutra che non trova ragione né nella
ratio della norma né nell’interpretazione letterale, atteso
che la norma non individua i soggetti tenuti alla
dichiarazione del pregiudizio penale esclusivamente in
coloro che sono amministratori muniti di poteri
rappresentativi al momento dell’offerta, sicché non può che
farsi riferimento alla data di indizione del bando.
Premesso che dopo il restyling dell'art.
38 del d.lgs. n. 163 del 2006 operato, da ultimo, con il
d.l. n. 90 del 2014 nel testo risultante dalla conversione
in legge, una fattispecie quale quella sottoposta
all'attenzione del Tribunale avrebbe verosimilmente scontato
gli effetti della distinzione tra «irregolarità essenziali»
ed «irregolarità non essenziali» introdotta dall'art. 39,
comma 1, del d.l. n. 90 del 2014 con le conseguenze che,
dall'applicazione di tale disposizione, sarebbero
ipoteticamente derivate.
L'inapplicabilità, come si è sopra specificato, della
predetta disposizione al caso di specie, impone di valutare
la censura di parte ricorrente con un approccio scevro da
ogni suggestione a cui la predetta innovazione legislativa
può dar luogo in termini di estensione dei confini entro i
quali è ammesso il soccorso istruttorio.
Si tratta dunque di stabilire se la mancata dichiarazione
della presenza di soggetti «cessati» nel periodo compreso
tra la pubblicazione del bando di gara ed il termine di
presentazione dell'istanza di partecipazione potesse dar
luogo, nel contesto normativo nel quale si è innestato il
procedimento di gara, all'espulsione della procedura.
Se è pacifico che una tale omessa dichiarazione dovesse dar
luogo alla sanzione espulsiva in ipotesi di cessazioni
intervenute nell'anno precedente la pubblicazione del bando
di gara perché così espressamente previsto dalla legge, è
anche vero che una lettura di tale disposizione tendente a
tratteggiare un'esenzione da tali obblighi dichiarativi per
le cessazioni intervenute dopo la pubblicazione del bando
non sarebbe in linea con la ratio e le finalità della
previsione normativa del requisito e del connesso obbligo di
dichiararlo. Una contraria lettura condurrebbe ad
assoggettare ad un trattamento meno rigoroso tutte quelle
variazioni societarie che, poste in essere in occasione
dell'indizione della gara, si prestano agevolmente a
finalità elusive della disciplina il cui rigore è stato,
invero, ampiamente tratteggiato dalla giurisprudenza
amministrativa.
In tal senso il periodo, a ritroso, di un anno dalla
pubblicazione del bando di gara nel quale considerare
rilevanti le cd. «cessazioni» deve considerarsi, secondo una
lettura che garantisca anche una certa effettività alla
disposizione, il limite massimo entro il quale
l'amministrazione può considerare le stesse rilevanti ai
fini dell'accertamento della sussistenza dei requisiti di
ammissione.
Nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di
conversione del decreto legge n. 70 del 2011 con il quale fu
ridotto da tre ad un anno il medesimo periodo, si legge, in
linea con tale impostazione, che tale contrazione del
periodo di riferimento «consente […] il permanere di un
congruo periodo idoneo a evitare che la cessazione dalle
cariche di soggetti condannati consenta automaticamente la
partecipazione alle gare» (atto Camera 4357, disegno di
legge «conversione in legge del decreto-legge 13.05.2011, n. 70, concernente Semestre Europeo - Prime
disposizioni urgenti per l'economia»).
L'interpretazione logica della disposizione deve condurre,
a
fortiori, a ritenere sussistente l'obbligo di produrre le
dichiarazioni di moralità anche per gli amministratori in
carica al momento della pubblicazione del bando e cessati
successivamente, in quanto il periodo intercorrente fra la
data di pubblicazione del bando e quella di presentazione
della domanda rappresenta l'arco temporale più rilevante ai
fini della dichiarazione medesima (TAR Emilia Romagna,
Bologna, 29.04.2013, n. 322); la ratio evidente della
norma è quella di escludere dalla partecipazione le società
i cui soggetti abbiano o abbiano avuto un significativo
ruolo decisionale e gestionale nella compagine di
appartenenza. In tal senso è anche la condivisibile
giurisprudenza del Consiglio di Stato che, con riferimento
ad ipotesi successiva all'introduzione della comminatoria di
nullità delle clausole dei bandi in violazione del principio
di tassatività delle cause di esclusione di cui all'art. 46,
comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, ha sottolineato, con
sentenza n. 6271 del 2013 che:
- rispetto agli obblighi di cui all’art. 38 del d.lgs. n.
163 del 2006, deve ritenersi che la data della pubblicazione
del bando di gara costituisce il discrimine temporale che
definisce sia i soggetti in carica sia quelli cessati,
imponendo le dichiarazioni di rito ad entrambe le categorie
con riferimento quindi tanto alla situazione esistente a
quella data quanto a quella antecedente;
- tale onere dichiarativo rimane quindi indifferente al
mutamento, dopo il giorno di pubblicazione dell’atto
indittivo, delle persone nelle cariche sociali e negli
incarichi previsti dalla norma;
- è priva di consistenza giuridica la tesi secondo la quale
il soggetto cessato dalla carica nel periodo tra l’indizione
del bando e la presentazione dell’offerta non sarebbe tenuto
a rendere la dichiarazione del pregiudizio penale;
- tale prospettazione presuppone l’esistenza di una vacatio
tra l’indizione del bando e la presentazione dell’offerta,
una specie di zona neutra che non trova ragione né nella
ratio della norma né nell’interpretazione letterale,
atteso che la norma non individua i soggetti tenuti alla
dichiarazione del pregiudizio penale esclusivamente in
coloro che sono amministratori muniti di poteri
rappresentativi al momento dell’offerta, sicché non può che
farsi riferimento alla data di indizione del bando
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 20.11.2014 n. 2927 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Relativamente
alla mancata indicazione, nell’atto di accertamento di
inottemperanza all'ordinanza di demolizione, dei dati
catastali, per costante giurisprudenza amministrativa,
“scaduto il termine di novanta giorni per la demolizione
fissato nell'ingiunzione di demolizione ai sensi dell'art. 7
l. n. 47 del 1985, l'acquisizione della proprietà dell'opera
abusiva, del sedime e dell'area di pertinenza si verifica di
diritto, ed è subordinata soltanto all'accertamento
dell'inottemperanza all'ingiunzione, anche se l'ingiunzione
non identifica l'area passibile di acquisizione”.
---------------
Il provvedimento di acquisizione al patrimonio del comune di
un'opera abusivamente realizzata ha come unico presupposto
l'accertata inottemperanza ad un ordine di demolizione del
manufatto abusivo, di cui è meramente dichiarativo, con la
conseguenza che, essendo atto dovuto, è sufficientemente
motivato con l'affermazione dell'accertata inottemperanza,
essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico alla sua adozione.
---------------
Il provvedimento dirigenziale di acquisizione gratuita al
patrimonio comunale delle opere abusive nonché del terreno
sottostante e circostante costituisce atto dichiarativo
dell'intervenuta acquisizione "ex lege" in conseguenza
dell'inutile decorso del termine fissato dall'art. 7 L. n.
47 del 1985 al trasgressore per l'ottemperanza
all'ingiunzione di demolizione.
Tale atto, quindi, può essere annullato, in sede
giurisdizionale amministrativa, soltanto in accoglimento di
censure dirette a contestare la verificazione
dell'acquisizione, per mancanza di un presupposto necessario
richiesto dalla legge (come la mancata preventiva notifica
dell'ingiunzione di demolizione, ovvero la già avvenuta
tempestiva spontanea ottemperanza alla stessa), e non anche
in accoglimento di censure, quali quelle espresse dal
ricorrente nel caso di specie, asserente un vizio di
identificazione del terreno di sua proprietà contenuto
nell’ordine di demolizione.
---------------
Per consolidata giurisprudenza amministrativa, “la
comunicazione di avvio del procedimento amministrativo,
prescritta dall’art. 7 della legge 07.08.1990 n. 241, deve
ritenersi non richiesta ai fini dell’adozione degli atti di
repressione degli abusi edilizi. Infatti, tali procedimenti
essendo tipizzati, in quanto compiutamente disciplinati da
legge speciale e presupponendo meri accertamenti tecnici
sulla consistenza e sul carattere abusivo delle opere
realizzate, non richiedono l’apporto partecipativo del
destinatario”.
A ciò si aggiunga che “l'acquisizione gratuita al patrimonio
comunale di un'opera edilizia abusiva consegue
all'inottemperanza all'ordine di demolizione come atto
dovuto e non necessita del previo avviso dell'inizio del
procedimento, non essendo questo dovuto nei casi in cui
l'interessato non possa apportare all'azione amministrativa
procedimentalizzata una qualche utilità”.
5. Il ricorso è infondato.
5.1. Relativamente alla mancata indicazione, nell’atto di
accertamento di inottemperanza impugnato, dei dati
catastali, per costante giurisprudenza amministrativa,
“scaduto il termine di novanta giorni per la demolizione
fissato nell'ingiunzione di demolizione ai sensi dell'art. 7
l. n. 47 del 1985, l'acquisizione della proprietà dell'opera
abusiva, del sedime e dell'area di pertinenza si verifica di
diritto, ed è subordinata soltanto all'accertamento
dell'inottemperanza all'ingiunzione, anche se l'ingiunzione
non identifica l'area passibile di acquisizione” (in tal
senso Consiglio Stato sez. V, 26.01.2000, n. 341;
TAR Sicilia, sez. III, 20.06.2006, n. 1499).
Nella
specie, il provvedimento impugnato appare perfetto, in
quanto contiene il riferimento all’ordine di demolizione
rimasto inottemperato –come relazionato dal Comando della
Polizia Municipale il 27/10/2011- ed è, quindi, corredato
di tutti i presupposti necessari.
5.2. Relativamente al postulato difetto di motivazione,
osserva il Collegio che “il provvedimento di acquisizione al
patrimonio del comune di un'opera abusivamente realizzata ha
come unico presupposto l'accertata inottemperanza ad un
ordine di demolizione del manufatto abusivo, di cui è
meramente dichiarativo, con la conseguenza che, essendo atto
dovuto, è sufficientemente motivato con l'affermazione
dell'accertata inottemperanza, essendo "in re ipsa"
l'interesse pubblico alla sua adozione” (TAR Campania,
sez. IV, Napoli, 17.06.2002, n. 3620).
5.3. Con riferimento ai vizi contenuti nell’ingiunzione di
demolizione, deve rilevarsi che il provvedimento
dirigenziale di acquisizione gratuita al patrimonio comunale
delle opere abusive nonché del terreno sottostante e
circostante costituisce atto dichiarativo dell'intervenuta
acquisizione "ex lege" in conseguenza dell'inutile decorso
del termine fissato dall'art. 7 L. n. 47 del 1985 al
trasgressore per l'ottemperanza all'ingiunzione di
demolizione. Tale atto, quindi, può essere annullato, in
sede giurisdizionale amministrativa, soltanto in
accoglimento di censure dirette a contestare la
verificazione dell'acquisizione, per mancanza di un
presupposto necessario richiesto dalla legge (come la
mancata preventiva notifica dell'ingiunzione di demolizione,
ovvero la già avvenuta tempestiva spontanea ottemperanza
alla stessa), e non anche in accoglimento di censure, quali
quelle espresse dal ricorrente nel caso di specie, asserente
un vizio di identificazione del terreno di sua proprietà
contenuto nell’ordine di demolizione.
Infatti, considerata l’omessa impugnazione, da parte
dell’odierno ricorrente, dell’ordinanza di demolizione n. 2
del 17/02/2011, notificata in data 26/02/2011, divenuta
ormai inoppugnabile, alla stregua del superiore indirizzo
giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, esso è ormai
decaduto dalla possibilità di rimettere in discussione
l’atto di accertamento di inottemperanza costituente mero
atto consequenziale rispetto al provvedimento presupposto
rappresentato, appunto, dall’ordinanza di demolizione, a
meno di vizi propri ed autonomi dell’atto di accertamento
medesimo. Nel caso di specie deve, infatti, rilevarsi che
con il ricorso il ricorrente muove, avverso il provvedimento
gravato, anche censure che avrebbero dovuto rivolgere nei
confronti del provvedimento di demolizione, viceversa mai
impugnato.
5.4. Relativamente, infine, alla dedotta violazione
dell’art. 7 L. 241/1990 per omessa comunicazione di avvio del
procedimento finalizzato alla demolizione dell’opera abusiva
–in disparte quanto già riferito in ordine alla
inoppugnabilità dell’ordinanza di demolizione n. 2 del
17/02/2011– rileva comunque il Collegio che per consolidata
giurisprudenza amministrativa, “la comunicazione di avvio
del procedimento amministrativo, prescritta dall’art. 7
della legge 07.08.1990 n. 241, deve ritenersi non
richiesta ai fini dell’adozione degli atti di repressione
degli abusi edilizi. Infatti, tali procedimenti essendo
tipizzati, in quanto compiutamente disciplinati da legge
speciale e presupponendo meri accertamenti tecnici sulla
consistenza e sul carattere abusivo delle opere realizzate,
non richiedono l’apporto partecipativo del destinatario”
(Cons. St., V, 08.02.2011 n. 840).
A ciò si aggiunga che “l'acquisizione gratuita al patrimonio
comunale di un'opera edilizia abusiva consegue
all'inottemperanza all'ordine di demolizione come atto
dovuto e non necessita del previo avviso dell'inizio del
procedimento, non essendo questo dovuto nei casi in cui
l'interessato non possa apportare all'azione amministrativa procedimentalizzata una qualche utilità” (TAR Campania
sez. IV, Napoli, 17.06.2002, n. 3620; TAR Sicilia,
sez. III, 11.05.2006, n. 1126)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 20.11.2014 n. 2898 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
proprietario deve ritenersi passivamente legittimato
rispetto al provvedimento di demolizione, indipendentemente
dall'essere o meno estraneo alla realizzazione dell’abuso.
Tuttavia, nel caso in cui il proprietario dimostri la sua
assoluta estraneità all’abuso edilizio commesso da altri e
manifesti il suo attivo interessamento, con i mezzi
consentitigli dall'ordinamento, per la rimozione dell'opera
abusiva, resta salva la sua tutela dagli effetti
dell'inottemperanza all'ordine di demolizione che lo stesso
sia stato impossibilitato a eseguire.
Secondo la consolidata giurisprudenza condivisa dal
Collegio, l’estraneità del proprietario agli abusi edilizi
commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed
esclusiva disponibilità non implica l'illegittimità
dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino
dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo
l’inidoneità del provvedimento repressivo a costituire
titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale
dell'area di sedime sulla quale insiste il bene.
Sul punto, infatti, la Corte Costituzionale ha precisato che
l'acquisizione gratuita dell'area non è una misura
strumentale per consentire al Comune di eseguire la
demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma
costituisce una sanzione autonoma che consegue
all'inottemperanza all'ingiunzione, abilitando
l'Amministrazione ad una scelta fra la demolizione d'ufficio
e la conservazione del bene, definitivamente già acquisito,
in presenza di prevalenti interessi pubblici, vale a dire
per la destinazione a fini pubblici, e sempre che l'opera
non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o
ambientali.
Ne discende che, essendo l'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale una sanzione prevista per l'ipotesi di
inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, essa si
riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso non
potendo operare nella sfera giuridica di altri soggetti e,
in particolare, nei confronti del proprietario dell'area
quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa
estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone
egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con
gli strumenti offerti dall'ordinamento.
La Cassazione ha, inoltre, affermato che al fine di
configurare la responsabilità del proprietario di un'area
per la realizzazione di una costruzione abusiva è necessaria
la sussistenza di elementi in base ai quali possa
ragionevolmente presumersi che questi abbia concorso, anche
solo moralmente, con il committente o l'esecutore dei
lavori, tenendo conto della piena disponibilità giuridica e
di fatto del suolo e dell'interesse specifico ad effettuare
la nuova costruzione, così come dei rapporti di parentela o
affinità tra responsabile e proprietario, della sua
eventuale presenza in loco, dello svolgimento di attività di
vigilanza dell'esecuzione dei lavori, del regime
patrimoniale dei coniugi, ovvero di tutte quelle situazioni
e comportamenti positivi o negativi dai quali possano trarsi
elementi integrativi della colpa.
L'art. 31, commi 2 e 3, del D.P.R. n.
380/2001 prevede che "il dirigente o il responsabile del
competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di
interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal
medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai
sensi dell'articolo 32, ingiunge al proprietario e al
responsabile dell' abuso la rimozione o la demolizione,
indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di
diritto, ai sensi del comma 3. Se il responsabile dell'abuso
non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato
dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione,
il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria,
secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla
realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono
acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del
comune".
Dall'esame della disposizione richiamata emerge che il
proprietario deve ritenersi passivamente legittimato
rispetto al provvedimento di demolizione, indipendentemente
dall'essere o meno estraneo alla realizzazione dell’abuso.
Tuttavia, nel caso in cui il proprietario dimostri la sua
assoluta estraneità all’abuso edilizio commesso da altri e
manifesti il suo attivo interessamento, con i mezzi
consentitigli dall'ordinamento, per la rimozione dell'opera
abusiva, resta salva la sua tutela dagli effetti
dell'inottemperanza all'ordine di demolizione che lo stesso
sia stato impossibilitato a eseguire (cfr. tra le tante
Cons. Stato, IV, 03.05.2011, n. 2639; TAR Lazio, Roma, II,
14.02.2011, n. 1395; TAR Umbria, 25.11.2008, n. 787).
Secondo la consolidata giurisprudenza condivisa dal
Collegio, l’estraneità del proprietario agli abusi edilizi
commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed
esclusiva disponibilità non implica l'illegittimità
dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino
dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo
l’inidoneità del provvedimento repressivo a costituire
titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale
dell'area di sedime sulla quale insiste il bene (cfr. in
termini Tar Lazio, Latina, 01.09.2008, n. 1026; Tar Campania,
Napoli, II, 19.10.2006, n. 8673).
Sul punto, infatti, la Corte Costituzionale (cfr. sentenza
n. 345 del 15.07.1991, citata da parte ricorrente) ha
precisato che l'acquisizione gratuita dell'area non è una
misura strumentale per consentire al Comune di eseguire la
demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma
costituisce una sanzione autonoma che consegue
all'inottemperanza all'ingiunzione, abilitando
l'Amministrazione ad una scelta fra la demolizione d'ufficio
e la conservazione del bene, definitivamente già acquisito,
in presenza di prevalenti interessi pubblici, vale a dire
per la destinazione a fini pubblici, e sempre che l'opera
non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o
ambientali. Ne discende che, essendo l'acquisizione gratuita
al patrimonio comunale una sanzione prevista per l'ipotesi
di inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, essa si
riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso non
potendo operare nella sfera giuridica di altri soggetti e,
in particolare, nei confronti del proprietario dell'area
quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa
estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone
egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con
gli strumenti offerti dall'ordinamento.
La Cassazione ha, inoltre, affermato che al fine di
configurare la responsabilità del proprietario di un'area
per la realizzazione di una costruzione abusiva è necessaria
la sussistenza di elementi in base ai quali possa
ragionevolmente presumersi che questi abbia concorso, anche
solo moralmente, con il committente o l'esecutore dei
lavori, tenendo conto della piena disponibilità giuridica e
di fatto del suolo e dell'interesse specifico ad effettuare
la nuova costruzione, così come dei rapporti di parentela o
affinità tra responsabile e proprietario, della sua
eventuale presenza in loco, dello svolgimento di attività di
vigilanza dell'esecuzione dei lavori, del regime
patrimoniale dei coniugi, ovvero di tutte quelle situazioni
e comportamenti positivi o negativi dai quali possano trarsi
elementi integrativi della colpa (cfr. Cassazione penale,
sez. III, 12.04.2005, n. 26121)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 20.11.2014 n. 2889 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Per le attività extra non autorizzate il dipendente deve
versare all'amministrazione i compensi netti, non lordi.
L’art. 53, comma 7, del d.l.vo n.
165/2001 stabilisce che i dipendenti pubblici non possono
svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti
o previamente autorizzati dall’amministrazione di
appartenenza, rinviando, in relazione ai professori
ordinari, agli statuti e ai regolamenti degli atenei in
ordine alla determinazione dei criteri e delle procedure per
il rilascio dell’autorizzazione.
La norma prevede, altresì, il versamento in favore
dell’amministrazione di appartenenza dei compensi
illegittimamente percepiti dal pubblico dipendente, ma non
chiarisce se il recupero delle somme debba avvenire al lordo
o scomputando le imposte già corrisposte dal contribuente.
Sul punto il Tribunale ribadisce che la norma deve essere
interpretata nel senso di prevedere il recupero al netto
delle imposte già corrisposte, in quanto la richiesta di
restituzione dei compensi illegittimamente percepiti dal
pubblico dipendente non può che avere ad oggetto “le somme
da quest'ultimo percepite in eccesso, ossia quanto e solo
quanto effettivamente sia entrato nella sfera patrimoniale
del dipendente, non potendosi, invece, pretendere la
ripetizione di somme al lordo delle ritenute fiscali (e
previdenziali e assistenziali), dal momento che le stesse
non siano mai entrate nella sfera patrimoniale del
dipendente”.
Con decreto del Direttore Generale, Rep. n. 3327/2013 prot.
n. 39355, datato 11.12.2013, il Politecnico di Milano ha
disposto nei confronti di M.G., professore ordinario a tempo
pieno presso il medesimo istituto, il recupero delle somme
percepite in forza di incarichi esterni assunti senza
l’autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza.
In particolare, l’amministrazione ha preteso la restituzione
di complessivi euro 42.250,23 calcolati al lordo delle
imposte dovute.
Il fatto concreto posto a fondamento del provvedimento
impugnato non è oggetto di contestazione; viceversa, il
ricorrente si duole della pretesa dell’amministrazione di
recuperare i compensi da lui percepiti al lordo delle
imposte e sostiene che il recupero possa essere effettuato
solo al netto dei tributi già applicati sulle somme
percepite per gli incarichi non autorizzati.
La domanda è fondata.
La questione è già stata esaminata dal Tribunale con la
sentenza n. 614, del 07.03.2013, proprio in relazione ad
altri incarichi assunti da G. senza autorizzazione.
Vale premettere che l’art. 53, comma 7, del d.l.vo n.
165/2001 stabilisce che i dipendenti pubblici non possono
svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti
o previamente autorizzati dall’amministrazione di
appartenenza, rinviando, in relazione ai professori
ordinari, agli statuti e ai regolamenti degli atenei in
ordine alla determinazione dei criteri e delle procedure per
il rilascio dell’autorizzazione.
La norma prevede, altresì, il versamento in favore
dell’amministrazione di appartenenza dei compensi
illegittimamente percepiti dal pubblico dipendente, ma non
chiarisce se il recupero delle somme debba avvenire al lordo
o scomputando le imposte già corrisposte dal contribuente.
Sul punto il Tribunale ribadisce che la norma deve essere
interpretata nel senso di prevedere il recupero al netto
delle imposte già corrisposte, in quanto la richiesta di
restituzione dei compensi illegittimamente percepiti dal
pubblico dipendente non può che avere ad oggetto “le
somme da quest'ultimo percepite in eccesso, ossia quanto e
solo quanto effettivamente sia entrato nella sfera
patrimoniale del dipendente, non potendosi, invece,
pretendere la ripetizione di somme al lordo delle ritenute
fiscali (e previdenziali e assistenziali), dal momento che
le stesse non siano mai entrate nella sfera patrimoniale del
dipendente” (cfr., Consiglio Stato, sez. III,
04.07.2011, n. 3984 e Tar Lombardia Milano, sez. IV,
07.03.2013, n. 614).
Ne deriva che il ricorso, in parte qua, deve essere
accolto, con conseguente annullamento della determinazione
amministrativa nella parte in cui ha disposto il recupero
delle somme al lordo e non al netto delle imposte già
versate dal ricorrente
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 20.11.2014 n. 2789
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
cauzione provvisoria non deve essere necessariamente firmata
da tutte le imprese della costituenda ATI, alla luce di
quanto chiarito dal Consiglio di Stato, Adunanza plenaria –
04/10/2005 n. 8.
In buona sostanza, in caso di raggruppamento la garanzia
fideiussoria non richiede necessariamente la sottoscrizione
delle imprese associate, operando la garanzia stessa fra
garante e beneficiario (quest’ultimo, nel caso di specie,
identificabile nella stazione appaltante), con piena
efficacia anche se uno dei soggetti garantiti non è a
conoscenza del contratto.
Ciò che rileva è che la cauzione provvisoria, nel caso di
costituenda ATI, sia intestata a tutte le imprese associate.
Nel caso in esame, l’ATI e l’allegato alla polizza
fideiussoria specifica che la garanzia è prestata per
entrambe le componenti e specifica la ragione sociale e la
sede di ciascuna. Dunque la polizza consente con
immediatezza di ritenere assolta la garanzia prevista
dall'art. 75 del codice, senza imporre un lavorio
interpretativo in ordine all'individuazione dell'esatta
portata soggettiva ed oggettiva del patto contrattuale.
---------------
Il Consiglio di Stato ha precisato che <<alla stregua del
condivisibile orientamento ermeneutico sostenuto da questo
Consiglio (Cons. Stato, Ad. Plen., 13.06.2012, n. 22 e
05.07.2012, n. 26), nelle procedure aventi per oggetto
l’affidamento di servizi, l'obbligo, nella specie adempiuto,
di provvedere alla specificazione delle parti del servizio
da eseguire ad opera delle singole imprese raggruppate o
consorziate, sancito dall'art. 37, comma 4, del codice dei
contratti pubblici, è espressione di un principio generale
che non consente distinzioni legate alla natura morfologica
del raggruppamento (verticale o orizzontale), non
distinguendo il dettato normativo tra associazioni di tipo
orizzontale e associazioni di tipo verticale, alla tipologia
delle prestazioni (principali o secondarie, scorporabili o
unitarie) o al dato cronologico del momento della
costituzione dell'associazione (costituita o costituenda)>>.
Comunque, anche se la modifica introdotta con D.L. 95/2012
conv. in L. 135/2012 ha limitato l’applicazione
dell’enunciato principio ai soli appalti di lavori, nel caso
di specie l’adempimento si correla a una precisa scelta
della stazione appaltante, la quale preclude di qualificare
la condotta dell’ATI vincitrice come assunta in violazione
di una norma di legge.
---------------
Nel settore dei servizi, in mancanza di una
predeterminazione normativa o regolamentare dei requisiti di
capacità tecnico-organizzativa ed economico-finanziaria, è
stato stabilito che spetta alla stazione appaltante il
compito di definire nella lex specialis, in relazione al
contenuto della prestazione, i requisiti di idoneità che
devono essere posseduti dalle imprese componenti il
raggruppamento.
In difetto di una clausola che introduca specifici requisiti
di qualificazione in capo alle singole imprese riunite in
ATI, i medesimi devono essere posseduti dal raggruppamento
nel suo complesso.
---------------
L’avvenuta valorizzazione –per attestare la capacità tecnica
e professionale– di servizi analoghi a quelli oggetto
dell’appalto permette all’amministrazione di apprezzare, in
concreto, la specifica attitudine dell’impresa
all’effettiva, puntuale e compiuta realizzazione delle
prestazioni oggetto della gara, costituendo le precedenti
esperienze significativi elementi sintomatici in tal senso.
---------------
Considerato:
- che, secondo quanto statuito da TAR Puglia Lecce, sez. II –
07/05/2014 n. 1179, la cauzione provvisoria non doveva
essere necessariamente firmata da tutte le imprese della
costituenda ATI, alla luce di quanto chiarito dal Consiglio
di Stato, Adunanza plenaria – 04/10/2005 n. 8;
- che, in buona sostanza, in caso di raggruppamento la
garanzia fideiussoria non richiede necessariamente la
sottoscrizione delle imprese associate, operando la garanzia
stessa fra garante e beneficiario (quest’ultimo, nel caso di
specie, identificabile nella stazione appaltante), con piena
efficacia anche se uno dei soggetti garantiti non è a
conoscenza del contratto (Consiglio di Stato, sez. VI –
27/03/2012 n. 1799);
- che ciò che rileva è che la cauzione provvisoria, nel caso
di costituenda ATI, sia intestata a tutte le imprese
associate (Consiglio di Stato, sez. VI – 23/01/2013 n. 387);
- che, nel caso in esame, l’ATI formata da Cascina Paradiso
Fa e Cooperazione Famiglia figura come contraente, e
l’allegato alla polizza fideiussoria specifica che la
garanzia è prestata per entrambe le componenti e specifica
la ragione sociale e la sede di ciascuna;
- che dunque la polizza consente con immediatezza di
ritenere assolta la garanzia prevista dall'art. 75 del
codice, senza imporre un lavorio interpretativo in ordine
all'individuazione dell'esatta portata soggettiva ed
oggettiva del patto contrattuale (cfr. a contrario Consiglio
di Stato, sez. IV – 13/03/2014 n. 1213);
- che per il resto neppure la lex specialis stabiliva
l’obbligo testuale di una pluralità di sottoscrizioni nel
caso di RTI, in disparte la significativa portata dell’art.
46-bis del D.Lgs. 163/2006;
Ritenuto:
- che, in risposta alla domanda di chiarimenti della
controinteressata, la stazione appaltante ha puntualizzato
che la dichiarazione delle imprese in ATI doveva comprendere
la quota di partecipazione al raggruppamento di ciascuna
impresa associata e le parti del servizio da eseguire da
parte dei singoli operatori riuniti (cfr. chiarimento del
28/07/2014 – doc. 2 controinteressata);
- che la dichiarazione presentata è perfettamente conforme
alle indicazioni fornite dall’Ente locale;
- che il Consiglio di Stato (sez. V – 02/07/2014 n. 3317) ha
precisato che <<alla stregua del condivisibile orientamento
ermeneutico sostenuto da questo Consiglio (Cons. Stato, Ad. Plen., 13.06.2012, n. 22 e
05.07.2012, n. 26), nelle
procedure aventi per oggetto l’affidamento di servizi,
l'obbligo, nella specie adempiuto, di provvedere alla
specificazione delle parti del servizio da eseguire ad opera
delle singole imprese raggruppate o consorziate, sancito
dall'art. 37, comma 4, del codice dei contratti pubblici, è
espressione di un principio generale che non consente
distinzioni legate alla natura morfologica del
raggruppamento (verticale o orizzontale), non distinguendo
il dettato normativo tra associazioni di tipo orizzontale e
associazioni di tipo verticale, alla tipologia delle
prestazioni (principali o secondarie, scorporabili o
unitarie) o al dato cronologico del momento della
costituzione dell'associazione (costituita o costituenda)>>;
- che detto principio è stato ribadito da Consiglio di
Stato, sez. V – 17/07/2014 n. 3787;
- che, anche se la modifica introdotta con D.L. 95/2012 conv.
in L. 135/2012 ha limitato l’applicazione dell’enunciato
principio ai soli appalti di lavori, nel caso di specie
l’adempimento si correla a una precisa scelta della stazione
appaltante, la quale preclude di qualificare la condotta
dell’ATI vincitrice come assunta in violazione di una norma
di legge;
- che peraltro, nello specifico, non appare neppure
convincente la classificazione del raggruppamento vincitore
come di tipo verticale, poiché dall’esame delle prestazioni
elencate all’art. 1 del capitolato d’oneri, non risultano
enucleabili servizi di tipo secondario o accessorio;
- che relativamente alle molteplici ma unitarie attività
evocate, le due associate hanno effettuato una ripartizione
interna (l’una si sarebbe occupata di coordinamento e
attività educativa e l’altra di personale ausiliario,
approvvigionamenti e attività accessorie), che non introduce
una parcellizzazione fra singole prestazioni principali e
specifiche prestazioni secondarie, ma risulta operata nel
contesto inscindibile del Servizio “Asilo nido comunale”
(cfr. Consiglio di Stato, sez V – 16/04/2013 n. 2093);
- che infatti il servizio, inteso nel suo complesso, si
articola in attività educative e attività di vigilanza,
assistenza, cura dell’igiene personale, pulizia, acquisto,
preparazione e distribuzione pasti, manutenzione locali e
attrezzature e attività amministrativa;
- che le singole prestazioni erogate ai bambini in tenera
età, sono strettamente coordinate e tra loro trasversali,
senza che sia possibile riconoscere maggior spessore ad
alcune di esse (si pensi all’attività di intrattenimento
rispetto a quella di pulizia e vigilanza);
Atteso:
- che la disciplina della selezione non racchiude alcuna
disposizione che imponga la corrispondenza tra quota di
partecipazione al raggruppamento e requisiti di
partecipazione alla gara (cfr. si vedano punto 3 e 11 del
bando);
- che nel settore dei servizi, in mancanza di una
predeterminazione normativa o regolamentare dei requisiti di
capacità tecnico-organizzativa ed economico-finanziaria, è
stato stabilito che spetta alla stazione appaltante il
compito di definire nella lex specialis, in relazione al
contenuto della prestazione, i requisiti di idoneità che
devono essere posseduti dalle imprese componenti il
raggruppamento (cfr. TAR Lazio Roma, sez. II-quater –
15/09/2014 n. 9670, che richiama Consiglio di Stato, Adunanza
plenaria – 13/06/2012 n. 22);
- che, in difetto di una clausola che introducesse specifici
requisiti di qualificazione in capo alle singole imprese
riunite in ATI, i medesimi dovevano essere posseduti dal
raggruppamento nel suo complesso;
- che di conseguenza la capogruppo mandataria poteva da sola
soddisfare i requisiti di partecipazione stabiliti dalla
legge di gara (circostanza comprovata dall’apposita
dichiarazione resa da Cascina Paradiso Fa – doc. 5
controinteressata);
Evidenziato:
- che la mandante non può essere ritenuta responsabile di
una dichiarazione falsa per aver erroneamente compilato il
modello prestampato (allegato n. 2 del bando);
- che infatti il modulo utilizzato per il concorrente
singolo (non modificabile dal compilatore dell’istanza)
esigeva l’attestazione di un requisito che, nel caso
dell’ATI, doveva essere posseduto dal raggruppamento nel suo
complesso;
- che la lex specialis non racchiudeva regole specifiche per
le dichiarazioni da rendere da parte delle imprese in
raggruppamento, cosicché risulta in questo caso giustificato
il ricorso al “soccorso istruttorio” ad opera della stazione
appaltante;
- che la mandante Cooperazione Famiglia risulta in possesso
di un fatturato per servizi analoghi superiore a quello
stabilito (importo del contratto elevato del 50%);
- che le prescrizioni del bando sul punto devono essere
interpretate in senso conforme all’ordinamento comunitario,
teso alla massima apertura alla concorrenza tra le imprese
sul mercato;
- che in questo senso l’avvenuta valorizzazione –per
attestare la capacità tecnica e professionale– di servizi
analoghi a quelli oggetto dell’appalto permette
all’amministrazione di apprezzare, in concreto, la specifica
attitudine dell’impresa all’effettiva, puntuale e compiuta
realizzazione delle prestazioni oggetto della gara,
costituendo le precedenti esperienze significativi elementi
sintomatici in tal senso (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV –
11/11/2014 n. 5530);
- che la menzione del “servizio oggetto della presente
procedura” (punto 11 del bando, paragrafo n. 2) attiene
viceversa al diverso requisito della capacità finanziaria e
economica, e dunque non consente di esigere la “prestazione”
di un servizio identico a quello in esame (anche alla luce
di quanto stabilito al punto 11, par. 3, lettera a, ove si
richiedono espressamente “servizi analoghi”)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 20.11.2014 n. 1259 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Sul diritto di accesso ad un esposto alla P.A. nei propri
confronti.
Il diritto di accesso è ormai
pacificamente riconosciuto come diritto soggettivo ad
un’informazione qualificata, a fronte del quale
l’amministrazione pone in essere un’attività materiale
vincolata.
L’istanza del richiedente deve essere sorretta da un
interesse giuridicamente rilevante, così inteso come un
qualsiasi interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non
emulativo, non riducibile a mera curiosità e ricollegabile
all’istante da uno specifico nesso.
Il diritto alla trasparenza dell’azione amministrativa
costituisce una situazione giuridica attiva meritevole di
autonoma protezione, da garantire qualora sia funzionale a
qualunque forma di tutela, sia giudiziale che
stragiudiziale, anche prima e indipendentemente
dall'effettivo esercizio di un'azione giudiziale.
---------------
Il privato che subisce un procedimento di controllo vanta un
interesse qualificato a conoscere tutti i documenti
utilizzati per l’esercizio del potere –inclusi, di regola,
gli esposti e le denunce che hanno attivato l’azione
dell’autorità– suscettibili per il loro particolare
contenuto probatorio di concorrere all’accertamento di fatti
pregiudizievoli per il denunciato.
L’esposto, una volta pervenuto nella sfera di conoscenza
dell’amministrazione, costituisce un documento che assume
rilievo procedimentale come presupposto di un’attività
ispettiva o di un intervento in autotutela, e di conseguenza
il denunciante perde il controllo sulla propria segnalazione
la quale diventa un elemento nella disponibilità
dell’amministrazione.
La sua divulgazione non è preclusa da esigenze di tutela
della riservatezza, giacché il predetto diritto non assume
un’estensione tale da includere il diritto all’anonimato di
colui che rende una dichiarazione a carico di terzi.
La tolleranza verso denunce segrete e/o anonime è un valore
estraneo al nostro ordinamento giuridico e gli autori degli
esposti sono tutelati dagli strumenti predisposti
dall’ordinamento contro ogni forma di ritorsione o vendetta
privata.
---------------
Non può seriamente dubitarsi che la conoscenza integrale
dell’esposto rappresenti uno strumento indispensabile per la
tutela degli interessi giuridici dell’istante, essendo
intuitivo che solo in questo modo egli potrebbe proporre
(eventualmente) contro-denunce a tutela della propria
immagine verso l’esterno.
Detto rilievo rende privi di qualsiasi fondamento giuridico
i dubbi sull’uso strumentale e ritorsivo della conoscenza
dell’esposto che ha dato luogo ai procedimenti a carico del
ricorrente, non potendo ammettersi che pretese esigenze di
riservatezza possano determinare un vulnus intollerabile ad
un diritto fondamentale della persona, quale quello
dell’onore.
Il principio di trasparenza dell’attività amministrativa
vale sia per il denunciato nei confronti del denunciante sia
in senso inverso, in quanto la posizione di denunciante
legittima l’accesso agli atti della procedura che ha preso
origine dall’esposto.
Infatti, specularmente, la qualità di autore di un esposto
che abbia dato luogo a un procedimento lato sensu
sanzionatorio è circostanza idonea a radicare la titolarità
di una situazione giuridicamente rilevante di accesso agli
atti della pubblica amministrazione.
E' pur vero che, in un caso particolare sul quale si è
confrontata la giurisprudenza –ossia quello dell’accesso ai
verbali redatti dalle autorità amministrative (INPS e
INAIL), titolari delle funzioni di vigilanza sui rapporti di
lavoro– è stata affermata una stringente esigenza di tutela
dei lavoratori che hanno reso le dichiarazioni agli organi
ispettivi, per il possibile rischio di condotte ritorsive
provenienti dalla parte “forte” del rapporto contrattuale.
E' stato tuttavia affermato che le suesposte necessità
appaiono in ogni caso recessive, rispetto alle esigenze
difensive del datore, ove il rapporto d’impiego sia cessato.
... per l'esercizio del diritto di accesso MEDIANTE
ESTRAZIONE DI COPIA, ALLE GENERALITA’ DELL’AUTORE DELLA
SEGNALAZIONE DEL 23/09/2013, TRASMESSA ALL’A.S.L. DI
BERGAMO.
...
Rilevato:
- che il diritto di accesso è ormai pacificamente
riconosciuto come diritto soggettivo ad un’informazione
qualificata, a fronte del quale l’amministrazione pone in
essere un’attività materiale vincolata;
- che l’istanza del richiedente deve essere sorretta da un
interesse giuridicamente rilevante, così inteso come un
qualsiasi interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non
emulativo, non riducibile a mera curiosità e ricollegabile
all’istante da uno specifico nesso;
- che il diritto alla trasparenza dell’azione amministrativa
costituisce una situazione giuridica attiva meritevole di
autonoma protezione, da garantire qualora sia funzionale a
qualunque forma di tutela, sia giudiziale che
stragiudiziale, anche prima e indipendentemente
dall'effettivo esercizio di un'azione giudiziale (Consiglio
di Stato, sez. V – 23/02/2010 n. 1067);
Considerato:
- che il privato che subisce un procedimento di controllo
vanta un interesse qualificato a conoscere tutti i documenti
utilizzati per l’esercizio del potere –inclusi, di regola,
gli esposti e le denunce che hanno attivato l’azione
dell’autorità– suscettibili per il loro particolare
contenuto probatorio di concorrere all’accertamento di fatti
pregiudizievoli per il denunciato (Consiglio di Stato, sez.
V – 19/05/2009 n. 3081; sez. VI – 25/06/2007 n. 3601);
- che l’esposto, una volta pervenuto nella sfera di
conoscenza dell’amministrazione, costituisce un documento
che assume rilievo procedimentale come presupposto di
un’attività ispettiva o di un intervento in autotutela, e di
conseguenza il denunciante perde il controllo sulla propria
segnalazione la quale diventa un elemento nella
disponibilità dell’amministrazione;
- che la sua divulgazione non è preclusa da esigenze di
tutela della riservatezza, giacché il predetto diritto non
assume un’estensione tale da includere il diritto
all’anonimato di colui che rende una dichiarazione a carico
di terzi (TAR Veneto, sez. III – 03/02/2012 n. 116);
- che la tolleranza verso denunce segrete e/o anonime è un
valore estraneo al nostro ordinamento giuridico (si veda la
sentenza di questo TAR 29/10/2008 n. 1469), e gli autori
degli esposti sono tutelati dagli strumenti predisposti
dall’ordinamento contro ogni forma di ritorsione o vendetta
privata;
Tenuto conto:
- che non può pertanto seriamente dubitarsi che la
conoscenza integrale dell’esposto rappresenti uno strumento
indispensabile per la tutela degli interessi giuridici
dell’istante, essendo intuitivo che solo in questo modo egli
potrebbe proporre (eventualmente) contro-denunce a tutela
della propria immagine verso l’esterno;
- che detto rilievo rende privi di qualsiasi fondamento
giuridico i dubbi sull’uso strumentale e ritorsivo della
conoscenza dell’esposto che ha dato luogo ai procedimenti a
carico del ricorrente, non potendo ammettersi che pretese
esigenze di riservatezza possano determinare un vulnus
intollerabile ad un diritto fondamentale della persona,
quale quello dell’onore (Consiglio di Stato, sez. V –
28/09/2012 n. 5132);
- che il principio di trasparenza dell’attività
amministrativa vale sia per il denunciato nei confronti del
denunciante sia in senso inverso, in quanto la posizione di
denunciante legittima l’accesso agli atti della procedura
che ha preso origine dall’esposto;
- che infatti, specularmente, la qualità di autore di un
esposto che abbia dato luogo a un procedimento lato sensu
sanzionatorio è circostanza idonea a radicare la titolarità
di una situazione giuridicamente rilevante di accesso agli
atti della pubblica amministrazione (TAR Toscana, sez. III –
16/10/2014 n. 1569 e la giurisprudenza ivi richiamata);
- che è pur vero che, in un caso particolare sul quale si è
confrontata la giurisprudenza –ossia quello dell’accesso ai
verbali redatti dalle autorità amministrative (INPS e
INAIL), titolari delle funzioni di vigilanza sui rapporti di
lavoro– è stata affermata una stringente esigenza di tutela
dei lavoratori che hanno reso le dichiarazioni agli organi
ispettivi, per il possibile rischio di condotte ritorsive
provenienti dalla parte “forte” del rapporto
contrattuale;
- che è stato tuttavia affermato che le suesposte necessità
appaiono in ogni caso recessive, rispetto alle esigenze
difensive del datore, ove il rapporto d’impiego sia cessato
(cfr. TAR Umbria – 21/01/2013 n. 31)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 20.11.2014
n. 1251 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Agli avvocati serve il contratto. Non basta la delibera per
avviare rapporti col comune.
CASSAZIONE/ Sentenza sulle prestazioni d'opera rese dai
professionisti alla p.a..
Una semplice delibera della giunta comunale è del tutto
inidonea a far sorgere il vincolo negoziale tra l'ente
pubblico e un professionista: è necessario un regolare
contratto formale tra le parti.
Questo hanno affermato i
giudici della Sez. I civile della Corte di Cassazione con
sentenza 19.11.2014 n. 24654.
È evidente, secondo
i giudici di piazza Cavour, che in tema di rapporto di
prestazione d'opera professionale con la p.a. la delibera
della giunta comunale rappresenti una fase meramente
preparatoria e che, pertanto, non sembra assolutamente
idonea a dar luogo a quelli che sono gli elementi essenziali
dell'attività negoziale e, anzi, risulta essere, in un certo
qual senso, attività del tutto autonoma rispetto alla
successiva ed eventuale fase di definizione del contratto
tra l'organo che rappresenterà l'ente pubblico e il
professionista. La vicenda posta all'attenzione dei giudici
di legittimità era centrata sulla assenza di un contratto
formale tra la pubblica amministrazione e il professionista
e dall'esistenza della sola delibera di giunta.
Gli
Ermellini hanno osservato come in un rapporto di opera
professionale con la p.a., la fase della deliberazione della
giunta comunale a contrarre va a concretizzarsi in attività
interna alla stessa amministrazione, meramente preparatoria,
e perciò «inidonea a dar luogo all'incontro di consensi e
irrilevante ai fini della individuazione della disciplina
negoziale; e conserva perciò piena autonomia, logica e
giuridica, rispetto alla successiva (e solo eventuale)
attività negoziale esterna dell'ente pubblico».
Sarà logica conseguenza che tale attività preparatoria dovrà
«tradursi» nella stipulazione documentale di un
contratto, che nel caso era di opera professionale sarà
disciplinato dalle disposizioni comuni degli artt. 1325 e
1350 n. 13 cod. civ. E dal contratto dovrà, inoltre,
desumersi la concreta instaurazione del rapporto con le
indispensabili determinazioni in ordine alla prestazione da
rendere e al compenso da corrispondere
(articolo ItaliaOggi Sette
dell'01.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PATRIMONIO: 1.
Beni pubblici. Affidamento a privati. Qualificazione del
rapporto. Nomen iuris individuato dalle parti contraenti.
Irrilevanza.
In tema di rapporti negoziali aventi
ad oggetto beni pubblici, la formale qualificazione quale
concessione dei provvedimenti e dei contratti intercorsi tra
P.A. e privati non è vincolante per il giudice avendo
esclusivo rilievo la natura ed il fine del potere esercitato
in concreto dall’Amministrazione, e dovendo essere
necessariamente preceduti da concessione amministrativa, in
senso tecnico, soltanto gli atti di disposizione di diritti
inerenti beni appartenenti al demanio o al patrimonio
indisponibile.
2. (segue): attività di camping su area di proprietà
comunale. Concessione di servizio pubblico locale.
Insussistenza.
Nel caso di affidamento a privati di un
fondo di proprietà comunale al fine di esercitare attività
economica di gestione di camping, non si ha una forma di
concessione di servizio pubblico locale. In linea di
principio, alla luce dell’ampia formulazione di cui all’art.
112 del T.u.e.l. approvato con D.lgs. 267/2000, l’attività
economica di gestione di un campeggio potrebbe ricondursi al
concetto di servizio pubblico locale soltanto allorquando vi
sia -tra l’altro- l’assenza ovvero l’inadeguatezza del
mercato di riferimento ovvero nell'ipotesi in cui
l’Amministrazione concedente imponga al concessionario
obblighi di servizio pubblico a tutela della collettività,
quali la continuità e doverosità e/o la sottoposizione ad un
regime regolatorio delle tariffe.
3. Diniego di proroga di concessione di bene pubblico. Gara
pubblica. Necessità. Giurisdizione. Appartiene al Giudice
Amministrativo.
3.1. Nell'ipotesi in cui la P.A. conceda a
privati beni pubblici, ai sensi dell'art. 3, comma 1, R.D.
n. 2240/1923 ed in applicazione dei principi di trasparenza,
eguaglianza e non discriminazione, deve indire un
procedimento di evidenza pubblica, per darli in concessione
al migliore offerente, sia perché da tale concessione la
medesima P.A. ricava un'entrata, sia perché la concessione
di un bene pubblico costituisce un'occasione di guadagno per
il soggetto privato che utilizza tale bene.
3.2. Il provvedimento della P.A. concedente che neghi al
concessionario di bene pubblico il richiesto rinnovo del
rapporto contrattuale in scadenza, si inserisce nella fase
pubblicistica di scelta del soggetto contraente che assume
carattere tipicamente autoritativo, si da radicare la
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in
materia di controversie aventi ad oggetto “atti e
provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni
pubblici” di cui all’art. 133, c. 1, lett. b), cod. proc.
amm..
3.3. La necessità della P.A. di procedere all’affidamento in
uso di un bene pubblico mediante procedimento ad evidenza
pubblica, risponde a un preciso obbligo ai sensi del diritto
comunitario ed interno. Anche i provvedimenti concessori di
beni pubblici di rilevanza economica sono soggetti alla
regola dell’evidenza pubblica in applicazione dei principi
di trasparenza, eguaglianza e non discriminazione,
fornendosi una occasione di guadagno a soggetti operanti sul
mercato.
3.4. La posizione del gestore c.d. uscente aspirante al
rinnovo o proroga di un rapporto contrattuale pubblico in
scadenza, presenta carattere del tutto recessivo rispetto
alla scelta dell’Amministrazione di indire una gara per la
scelta del contraente, anche laddove una limitata
possibilità di proroga dell'affidamento in scadenza sia
consentita dalla lex specialis o in ragione di circostanze
eccezionali non imputabili all'Amministrazione, potendo
quest'ultima comunque liberamente optare per l'indizione
della gara, senza onere di particolare motivazione essendo
imposto un particolare onere motivazionale solo nell’ipotesi
opposta.
4. Beni appartenenti al patrimonio pubblico disponibile di
Comuni. Ordine di rilascio. Controversie. Giurisdizione.
Appartiene all'A.G.O.
Va dichiarato il difetto di giurisdizione
circa controversie aventi ad oggetto la domanda di
annullamento dell'ordine di rilascio di beni pubblici
appartenenti al patrimonio disponibile di Amministrazione
comunale, formulata da concessionario di tali beni, poiché
nei confronti di tali beni l'A.C. è sfornita di potestà
autoritativa, essendo il potere di autotutela pubblicistica
(c.d. polizia demaniale) di cui all’art. 823 c.c.
circoscritto alla tutela dei beni appartenenti al demanio ed
al patrimonio indisponibile.
2. E’ materia del contendere la legittimità del
provvedimento, emesso il 31.10.2013, con cui il Comune di
Terni ha respinto l’istanza della ricorrente di proroga
all'uso temporaneo degli immobili di proprietà del medesimo
Comune necessari per l'esercizio del campeggio in località
Campacci di Marmore ed intimatone la riconsegna entro il
31.12.2013.
3. Preliminarmente deve essere esaminata la questione di
giurisdizione.
Ad avviso della ricorrente, il rapporto intercorso con
l’Amministrazione comunale inerente l’utilizzo dell’area
adibita a campeggio sarebbe di tipo privatistico,
riconducibile allo schema tipico della locazione, avendo ad
oggetto beni del patrimonio disponibile comunale, non
essendo l’area de qua destinata ad un pubblico servizio
(art. 826 c.c.) e dovendosi altresì escludere i tratti
distintivi della concessione di servizio pubblico locale.
A prescindere da ogni considerazione in merito alla
strumentalità di tali affermazioni, poiché la ricorrente
avrebbe allora dovuto coerentemente adire il giudice
ordinario, osserva il Collegio quanto segue.
Anzitutto, la formale qualificazione quale concessione dei
provvedimenti e dei contratti intercorsi tra le parti, come
noto, non è vincolante per il giudice (ex multis
Consiglio di Stato sez. V, 16.09.2011, n. 5211; T.A.R.
Campania-Napoli sez I, 06.02.2006, n. 1623) avendo esclusivo
rilievo la natura ed il fine del potere esercitato in
concreto dall’Amministrazione, e dovendo essere
necessariamente preceduti da concessione amministrativa, in
senso tecnico, soltanto gli atti di disposizione di diritti
inerenti beni appartenenti al demanio o al patrimonio
indisponibile (ex multis Cassazione Sez. Unite,
26.06.2003, 10157).
In linea di principio, alla luce dell’ampia formulazione di
cui all’art. 112 del T.u.e.l. approvato con D.lgs. 267/2000,
l’attività economica di gestione di un campeggio potrebbe
ricondursi al concetto di servizio pubblico locale soltanto
allorquando vi sia -tra l’altro- l’assenza ovvero
l’inadeguatezza del mercato di riferimento, circostanza non
prospettata dalle parti né desumibile dagli atti versati in
giudizio.
Emerge invece nei vari provvedimenti di “concessione”
annuale depositati, il completo disinteresse
dell’Amministrazione nella imposizione di obblighi di
servizio pubblico a tutela della collettività, quali la
continuità e doverosità (TAR Puglia-Bari sez. I, 11.10.2012,
n. 1756) e/o la sottoposizione ad un regime regolatorio
delle tariffe, si da far ritenere l’attività in questione
quale libera attività di impresa.
Ciò premesso, risulta del tutto indimostrata dal Comune
l’asserita appartenenza dell’area de qua al patrimonio
indisponibile comunale (né tantomeno al demanio); infatti,
ai sensi dell’art. 826 c.c. non si rinviene come il bene in
esame possa ricomprendersi tra detti beni, tranne per
l’ipotesi, di cui all’ultimo comma, di destinazione ad un
pubblico servizio, destinazione tuttavia negata dalla stessa
Amministrazione.
Ritiene tuttavia il Collegio che indipendentemente dalla
qualificazione del bene in questione e del servizio di
gestione del campeggio quale servizio pubblico, l’attività
di cui si chiede annullamento presenti carattere
autoritativo limitatamente al diniego di proroga del
contratto in luogo dell’esperimento di evidenza pubblica,
tale da radicare in parte qua la giurisdizione di
legittimità del giudice adito.
Infatti, trattandosi di terreni comunque di proprietà
comunale, risulta decisivo il rilievo secondo cui
l'Amministrazione, una volta deciso di volerli concedere ad
un soggetto privato, ai sensi dell'art. 3, comma 1, R.D. n.
2240/1923 ed in applicazione dei principi di trasparenza,
eguaglianza e non discriminazione, deve indire un
procedimento di evidenza pubblica, per darli in concessione
al migliore offerente, sia perché da tale concessione il
Comune ricava un'entrata, sia perché la concessione di un
bene pubblico costituisce un'occasione di guadagno per il
soggetto privato che utilizza tale bene.
A riprova di ciò, va richiamato l'orientamento
giurisprudenziale in materia di concessioni demaniali
marittime (cfr. Consiglio di Stato sez. VI 25.01.2005, n.
168; id. sez. IV, 26.03.2013, n. 1698) quello in tema
impianti pubblicitari (cfr. Consiglio di Stato Ad. Plen.,
25.02.2013, n. 5), oltre a quello relativo alle cave di
proprietà comunale (ex multis TAR Basilicata
30.08.2013, n. 406).
Ne consegue che il provvedimento impugnato, nella parte in
cui nega il richiesto rinnovo del rapporto contrattuale in
scadenza, si inserisce nella fase pubblicistica di scelta
del soggetto contraente che assume carattere tipicamente
autoritativo, si da radicare la giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo in materia di controversie aventi ad
oggetto “atti e provvedimenti relativi a rapporti di
concessione di beni pubblici” di cui all’art.133 c. 1
lett. b) cod. proc. amm.
Tanto più che, come si vedrà in prosieguo, il motivo o
almeno uno dei motivi per cui il Comune resistente ha optato
per il diniego dell’istanza di rinnovo consiste proprio
nella volontà di procedere alla scelta del concessionario
mediante evidenza pubblica.
3.1. Deve invece dichiararsi il difetto di giurisdizione per
quanto riguarda la domanda di annullamento dei provvedimenti
impugnati inerenti l’ordine di rilascio della struttura
ricettiva entro il termine del 31 dicembre 2013, trattandosi
di intimazione al rilascio di immobile appartenente al
patrimonio comunale disponibile nei confronti del quale il
Comune è sfornito di potestà autoritativa, essendo il potere
di autotutela pubblicistica (c.d. polizia demaniale) di cui
all’art. 823 c.c. circoscritto alla tutela dei beni
appartenenti al demanio ed al patrimonio indisponibile (ex
multis Consiglio di Stato sez. V, 06.12.2007, n. 6259;
TAR Campania-Napoli sez. VII, 01.09.2011, n. 4269; id.
12.03.2010, n.1390; TAR Lombardia-Milano, sez. III,
14.03.2012, n.854).
A diverse conclusioni non può giungersi nemmeno per ragioni
di connessione e concentrazione della tutela
giurisdizionale, dal momento il giudice della giurisdizione
afferma all’opposto il tendenziale criterio della
inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione
(ex multis Cassazione Sez. Un. 07.06.2012, n. 9185;
id. 25.02.2011, n. 4615; id. 12.03.2010, n.1390; id.
24.06.2009, n. 14805; id. 28.02.2007, n. 4636; cfr.
Consiglio di Stato sez IV, 04.02.2011, n. 804; TAR Campania
Salerno, sez. II, 14.01.2011, n. 43)
3.2. Va dunque affermata la giurisdizione del giudice
amministrativo limitatamente alla domanda di annullamento
dei provvedimenti impugnati inerenti il diniego dell’istanza
di proroga, mentre sussiste il difetto di giurisdizione in
favore del giudice ordinario quanto alla concorrente domanda
demolitoria avente ad oggetto l’ordine di rilascio della
struttura.
4. Può prescindersi, per ragioni di economia processuale,
dalle eccezioni in rito di inammissibilità sollevate dalla
difesa civica, poiché il ricorso è in parte qua infondato
nel merito.
5. Ritiene il Collegio dirimente la necessità del Comune di
Terni, inequivocabilmente manifestata nei provvedimenti
impugnati, di procedere all’affidamento in uso del campeggio
mediante procedimento ad evidenza pubblica, come suo preciso
obbligo ai sensi del diritto comunitario ed interno.
Secondo giurisprudenza del tutto consolidata da cui il
Collegio non ha ragione per discostarsi, anche i
provvedimenti concessori di beni pubblici di rilevanza
economica sono soggetti alla regola dell’evidenza pubblica (ex
multis Consiglio di Stato sez VI, 25.09.2009, n. 5765,
TAR Campania-Napoli, sez VII, 09.07.2009, n. 3828; Consiglio
di Stato sez VI, 25.01.2005, n. 168) in applicazione dei
principi di trasparenza, eguaglianza e non discriminazione,
fornendosi una occasione di guadagno a soggetti operanti sul
mercato (ex multis TAR Liguria sez. I, 24.04.2013, n.
718).
D’altronde secondo giurisprudenza altrettanto pacifica, la
posizione del gestore c.d. uscente aspirante al rinnovo o
proroga di un rapporto contrattuale pubblico in scadenza,
presenta carattere del tutto recessivo rispetto alla scelta
dell’Amministrazione di indire una gara per la scelta del
contraente, anche laddove una limitata possibilità di
proroga dell'affidamento in scadenza sia consentita dalla
lex specialis o in ragione di circostanze eccezionali
non imputabili all'Amministrazione, potendo quest'ultima
comunque liberamente optare per l'indizione della gara,
senza onere di particolare motivazione (ex multis TAR
Puglia-Lecce sez. II, 03.01.2013, n. 8; TAR Puglia-Bari sez.
I, 20.08.2012 n. 1579; Consiglio di Stato sez. VI,
24.11.2011, n. 6194) essendo imposto un particolare onere
motivazionale solo nell’ipotesi opposta (Consiglio di Stato
sez. III, 01.08.2014, n. 4081; TAR Trentino Alto Adige
03.04.2013, n. 114).
Alla luce di tali considerazioni, possono agevolmente
respingersi le doglianze di cui ai primi tre motivi di
gravame.
5.1. Parimenti prive di pregio risultano le ulteriori
censure dedotte.
5.2. Nessuna consistenza ha la doglianza di lesione
dell’affidamento ingenerato nei confronti della Pellegrini,
dal momento che a parte l’assorbente rilievo in merito al
carattere sempre espressamente temporaneo e precario del
rapporto in questione, la stessa deliberazione G.C. 214/2013
indicava inequivocabilmente nel 31.12.2013 il termine
improrogabile per la prosecuzione del rapporto.
5.3. Va infine escluso ogni effetto viziante alla pur
sussistente violazione dell’art. 10-bis della legge
241/1990, atteso il carattere del tutto vincolato
dell’attività comunale all’osservanza delle regole
dell’evidenza pubblica che ne imponevano il diniego del
richiesto rinnovo, si da escludere - seppur in via
necessariamente prognostica - la possibilità di addivenire
ad un diverso esito procedimentale.
6. Per i suesposti motivi il ricorso va in parte respinto,
mentre va dichiarato il difetto di giurisdizione sulla
residua parte, come da motivazione; quanto alla conseguente
traslatio iudicii, occorre salvaguardare il principio
della salvezza degli effetti sostanziali e processuali
prodotti dalla domanda proposta al giudice privo di
giurisdizione nel processo davanti al giudice che ne risulta
munito, secondo le disposizioni di cui all’art 11 cod. proc.
amm.
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
TAR Umbria,
sentenza 19.11.2014 n. 549
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nei delitti contro la fede pubblica l’innocuità
del falso non va ritenuta con riferimento all’uso che si
intende fare del documento, ma solo se si esclude l’idoneità
dell’atto falso ad ingannare comunque la fede pubblica.
Sussiste, pertanto, il falso innocuo solo quando esso si
riveli in concreto inidoneo a ledere l’interesse tutelato
dalla genuinità dei documenti e cioè quando non abbia la
capacità di conseguire uno scopo antigiuridico, nel senso
che l’infedele attestazione (nel falso ideologico) o la
compiuta alterazione (nel falso materiale) appaiano del
tutto irrilevanti ai fini del significato dell’atto e del
suo valore probatorio e, pertanto, inidonee al conseguimento
delle finalità che con l’atto falso si intendevano
raggiungere; in tal caso, infatti, la falsità non esplica
effetti sulla funzione documentale che l’atto è chiamato a
svolgere, che è quella di attestare i dati in esso indicati,
con la conseguenza che l’innocuità non deve essere valutata
con riferimento all’uso che dell’atto falso venga fatto.
3. Il ricorso è infondato.
4. Come chiarito dal prevalente e condivisibile orientamento
della giurisprudenza di legittimità, infatti, nei delitti
contro la fede pubblica l’innocuità del falso non va
ritenuta con riferimento all’uso che si intende fare del
documento, ma solo se si esclude l’idoneità dell’atto falso
ad ingannare comunque la fede pubblica (cfr. Cass., sez. III,
19.07.2011, n. 34901, rv. 250825; Cass., sez. V, 30/09/1997,
n. 11681).
Sussiste, pertanto, il falso innocuo solo quando esso si
riveli in concreto inidoneo a ledere l’interesse tutelato
dalla genuinità dei documenti e cioè quando non abbia la
capacità di conseguire uno scopo antigiuridico, nel senso
che l’infedele attestazione (nel falso ideologico) o la
compiuta alterazione (nel falso materiale) appaiano del
tutto irrilevanti ai fini del significato dell’atto e del
suo valore probatorio e, pertanto, inidonee al conseguimento
delle finalità che con l’atto falso si intendevano
raggiungere; in tal caso, infatti, la falsità non esplica
effetti sulla funzione documentale che l’atto è chiamato a
svolgere, che è quella di attestare i dati in esso indicati,
con la conseguenza che l’innocuità non deve essere valutata
con riferimento all’uso che dell’atto falso venga fatto
(cfr. Cass., sez. V, 17.10.2013, n. 2809, rv. 258946; Cass.,
sez. V, 07/11/2007, n. 3564).
Orbene tali caratteristiche non sono certamente
riscontrabili nella falsificazione addebitata all’imputato,
che, in violazione di quanto previsto dall’art. 38, co. 1,
lett. c), d.lgs. 12.4.2006, n. 163, ha falsamente attestato
di possedere i requisiti per partecipare alle procedure di
affidamento delle concessioni e degli appalti pubblici,
laddove dal certificato del casellario giudiziale si evince,
invece, che egli ha riportato una sentenza di condanna
(passata in giudicato l’01.12.2005, quindi precedentemente
alla data di presentazione della richiesta di partecipazione
alla gara bandita dalla società appaltante in precedenza
indicata), per il reato di corruzione; circostanza
espressamente presa in considerazione dalla menzionata
disposizione normativa, quale causa di esclusione della
possibilità di partecipare alle procedure di evidenza
pubblica in tema di concessioni e di appalti.
Appare, dunque, evidente l’idoneità dell’atto ad ingannare
la fede pubblica, nell’attestare il possesso da parte del
soggetto richiedente dei requisiti previsti dalla legge per
partecipare alle procedure di affidamento delle concessioni
e degli appalti pubblici, tacendo, al tempo stesso,
l’esistenza di una specifica causa di esclusione,
normativamente prevista dalla disciplina in materia.
Ne consegue che tutte le considerazioni svolte, peraltro
genericamente, dal L. sulla incongruità della disciplina
normativa in tema di formalità da rispettate per la
partecipazione a gare pubbliche, sul carattere innocuo del
falso e sulla pretesa “buona fede” dell’imputato,
desumibile dalla dedotta innocuità del falso, non colgono
nel segno, stante l’impossibilità di configurare, per le
ragioni innanzi apposte, la falsa dichiarazione proveniente
dal L. in termini di falso innocuo.
Corretto, pertanto, è l’assunto della corte territoriale,
che, con motivazione sintetica, ma esaustiva, nell’escludere
la configurabilità di un falso innocuo, ha evidenziato
l’idoneità dell’anzidetta dichiarazione a fuorviare l’ente
appaltante nelle sue valutazioni (cfr. p. 4 della sentenza
impugnata).
5. Sulla base delle svolte considerazioni, dunque, il
ricorso va rigettato, con condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali (Corte
di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 18.11.2014 n. 47601 -
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VARI:
In tema di comodato l’art. 1810 c.c.. stabilisce
una regola, e due eccezioni ad essa. La regola è che
l’immobile concesso in comodato debba essere restituito non
appena il comodante lo richieda. Le due eccezioni sono: (a)
che sia stato pattuito espressamente un termine di durata;
(b) che il termine di durata del comodato “risulti dall’uso
cui la cosa è destinata”.
La norma prevede dunque tre ipotesi: quella in cui al
comodato non sa fissato alcun termine; quella in cui sia
fissato un termine esplicito, e quella in cui sia fissato un
termine implicito. Il termine di durata risultante “dall’uso
cui la cosa è destinata”, cui fa riferimento l’art. 1810
c.c., è un termine implicito. In quanto implicito può non
essere previsto espressamente, ma in quanto termine deve
essere inequivoco. Tale ipotesi ricorre, ad esempio, nel
caso di comodato di un immobile destinato ad ammassare
prodotti agricoli all’epoca del raccolto: in una simile
ipotesi è innegabile che, terminata l’epoca del raccolto, il
comodato cessa; ovvero nel caso di comodato di un immobile
per consentire al comodatario di soggiornarvi durante gli
studi universitari.
L’apposizione al comodato d’un termine derivante “dall’uso
cui la cosa è destinata” non può invece ravvisarsi nel solo
fatto che nell’immobile si svolga una determinata attività,
commerciale o di altro tipo: per la semplice ragione che
tale attività potrebbe non avere alcun termine prevedibile,
nel qual caso il comodato sarebbe di fatto sine die.
Conclusione, quest’ultima, che snaturerebbe la causa del
contratto (il “prestito ad uso” degli antichi) ed
esproprierebbe di fatto il comodante.
Esistono attività il cui svolgimento è necessariamente
espressione d’un termine implicito di durata del comodato
(esigenze temporanee, occupazioni stagionali, necessità
transeunti); ed attività che non sono soggette ad alcun
termine di durata. Solo il primo tipo di attività, se svolte
nell’immobile dato in comodato, consentono di ritenere che
quest’ultimo sia soggetto ad un termine implicito.
Nel caso di specie la Corte d’appello ha confuso il termine
del comodato col termine dell’attività che si svolge
nell’immobile dato in comodato, ritenendo che il fatto
stesso che nell’immobile si svolga una attività commerciale
ancori la durata del comodato alla cessazione di
quell’attività.
1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta che
la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di
violazione di legge di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c. Si
assumono violati gli artt. 1803, 1809 e 1810 c.c..
Espone, al riguardo, che l’immobile era stato concesso in
comodato senza fissazione di termine: esso pertanto doveva
ritenersi “precario”, e risolubile ad nutum
del comodante.
1.2. Il motivo è fondato.
La Corte d’appello ha correttamente ritenuto che, anche
quando un immobile sia concesso in comodato senza fissazione
espressa d’un termine, l’apposizione d’un termine di durata
possa comunque desumersi dall’uso cui è destinato il bene.
Ne ha tratto però l’erronea conseguenza che quando
l’immobile oggetto di comodato sia destinato ad un uso
specifico, la restituzione potrebbe essere domandata solo
una volta che sia cessato dell’uso cui l’immobile è
destinato.
1.3. Tale affermazione della Corte d’appello è erronea in
diritto.
L’errore in ture commesso dalla Corte d’appello è consistito
nel ritenere che il comodato di un immobile che sia
destinato ad una determinata attività sia implicitamente
soggetto ad un termine di durata corrispondente alla durata
dell’attività che vi si svolge.
Questa interpretazione non è consentita dall’art. 1810 c.c..
Tale norma stabilisce infatti una regola, e due eccezioni ad
essa.
La regola è che l’immobile concesso in comodato debba essere
restituito non appena il comodante lo richieda.
Le due eccezioni sono:
(a) che sia stato pattuito espressamente un termine di
durata;
(b) che il termine di durata del comodato “risulti
dall’uso cui la cosa è destinata”.
La norma prevede dunque tre ipotesi: quella in cui al
comodato non sa fissato alcun termine; quella in cui sia
fissato un termine esplicito, e quella in cui sia fissato un
termine implicito.
Il termine di durata risultante “dall’uso cui la cosa è
destinata”, cui fa riferimento l’art. 1810 c.c., è un
termine implicito. In quanto implicito può non essere
previsto espressamente, ma in quanto termine deve essere
inequivoco.
Tale ipotesi ricorre, ad esempio, nel caso di comodato di un
immobile destinato ad ammassare prodotti agricoli all’epoca
del raccolto: in una simile ipotesi è innegabile che,
terminata l’epoca del raccolto, il comodato cessa; ovvero
nel caso di comodato di un immobile per consentire al
comodatario di soggiornarvi durante gli studi universitari.
L’apposizione al comodato d’un termine derivante “dall’uso
cui la cosa è destinata” non può invece ravvisarsi nel
solo fatto che nell’immobile si svolga una determinata
attività, commerciale o di altro tipo: per la semplice
ragione che tale attività potrebbe non avere alcun termine
prevedibile, nel qual caso il comodato sarebbe di fatto
sine die. Conclusione, quest’ultima, che snaturerebbe la
causa del contratto (il “prestito ad uso” degli
antichi) ed esproprierebbe di fatto il comodante.
Esistono infatti attività il cui svolgimento è
necessariamente espressione d’un termine implicito di durata
del comodato (esigenze temporanee, occupazioni stagionali,
necessità transeunti); ed attività che non sono soggette ad
alcun termine di durata. Solo il primo tipo di attività, se
svolte nell’immobile dato in comodato, consentono di
ritenere che quest’ultimo sia soggetto ad un termine
implicito.
La Corte d’appello ha dunque confuso il termine del comodato
col termine dell’attività che si svolge nell’immobile dato
in comodato, ritenendo che il fatto stesso che nell’immobile
si svolga una attività commerciale ancori la durata del
comodato alla cessazione di quell’attività.
Tale conclusione è tuttavia non solo contraria alla lettera
dell’art. 1810 c.c., per quanto già detto, ma anche
insostenibile sul piano logico, perché condurrebbe a
conclusioni aberranti, ed in particolare:
(a) il comodato di immobili destinato ad attività che vi si
svolgono sine die, sarebbe pur esso sine die;
(b) poiché la destinazione d’uso dipende dalla volontà del
comodatario, e poiché non può concepirsi che un immobile non
abbia una destinazione d’uso (sia pure solo di svago), a
seguire il ragionamento della Corte d’appello la durata di
ogni comodato finirebbe per essere rimessa alla volontà mera
del comodatario.
Le conclusioni che precedono sono state già più volte
affermate da questa Corte: pacifico, in particolare, è il
principio secondo cui il termine del comodato può risultare
dall’uso cui la cosa deve essere destinata solo “se tale
uso abbia in sé connaturata una durata predeterminata nel
tempo”. In mancanza, invece, di particolari prescrizioni
di durata, ovvero di elementi certi ed oggettivi che
consentano ab origine di prestabilirla, l’uso
corrispondente alla generica destinazione dell’immobile
configura un comodato a tempo indeterminato e, perciò, a
titolo precario, e, dunque, revocabile ad nutum da
parte del comodante, a norma dell’art. 1810 c.c. (Cass.
civ., sez. III, 25.06.2013, n. 15877, nonché, in precedenza,
Cass. civ., sez. un., 09.02.2011, n. 3168).
1.4. La sentenza impugnata deve dunque essere cassata, in
applicazione del seguente principio di diritto: La
circostanza che nell’immobile dato in comodato sia svolta
una attività commerciale non basta per ritenere quel
comodato soggetto ad un termine implicito, ai sensi
dell’art. 1810 c.c., e di conseguenza che il comodante non
possa chiedere la restituzione dell’immobile sino a che non
cessi l’attività in esso svolta (Corte
di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 18.11.2014 n. 24468 -
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INCARICHI PROFESSIONALI: Pec
ricevuta anche con la casella piena.
Occhio alla Pec. Dopo il decreto semplificazioni 90/2014 gli
avvocati amministrativisti hanno l'obbligo di controllare la
propria Posta elettronica certificata: la comunicazione di
cancelleria si dà comunque per ricevuta anche se la casella
è piena o il messaggio risulta segnato come letto. E ciò
perché l'articolo 42 del decreto legge ha esteso in tutto e
per tutto al processo davanti al Tar e al Consiglio di stato
la disciplina delle comunicazioni a mezzo Pec del processo
civile contenuta nell'art. 16 del dl 179/2012.
È quanto emerge
dalla
sentenza
18.11.2014 n. 11534 della
Sez. III-bis del TAR Lazio-Roma.
Alla controversia si
applicano le vecchie regole, ma le nuove costituiscono
soprattutto chiarimenti, come ha spiegato il Cds. La parte
non può essere rimessa in termini per ottemperare alla
richiesta di integrazione del contraddittorio: è escluso
infatti che possa trovare ingresso la tesi secondo cui non
sarebbe stata ricevuta dalla parte la Pec con cui la
segreteria della sezione terza bis del Tar Lazio ha
comunicato il deposito della ordinanza «incriminata»;
sbaglia infatti quest'ultima a sostenere che la
comunicazione in oggetto avrebbe dovuto essere inviata
all'account di posta elettronica certificata del difensore domiciliatario laddove è lo stesso ricorrente che ha
indicato nel ricorso introduttivo il proprio account di
posta elettronica certificata al quale ricevere le
comunicazioni, in alternativa a quello del domiciliatario.
Alla data del messaggio, comunque, era già stato emanato il
dl 90/2014 che dispone l'obbligo di controllare la casella
Pec e pone a carico del destinatario la mancata ricezione
per cause imputabili a quest'ultimo. E in ogni caso
l'obbligo a carico del difensore scaturisce già dall'art.
16, comma 3, dl 185/2008, secondo cui le comunicazioni tra i
soggetti che hanno provveduto agli adempimenti previsti,
possono essere inviate attraverso Pec «senza che il
destinatario debba dichiarare la propria disponibilità ad
accettarne l'utilizzo». Spese di giudizio compensate
(articolo ItaliaOggi del 29.11.2014). |
ESPROPRIAZIONE: 1.
Espropriazione per pubblica utilità. Controversie aventi per
oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi e i
comportamenti, riconducibili, anche mediatamente,
all'esercizio di un pubblico potere della P.A.
Giurisdizione. Appartiene al G.A. Questioni pregiudiziali
attinenti a diritti. Potere del G.A. di pronunciarsi
incidenter tantum. Sussiste.
1.1. Rientrano nella giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi
per oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi e i
comportamenti, riconducibili, anche mediatamente,
all'esercizio di un pubblico potere della Pubblica
amministrazione in materia di espropriazione per pubblica
utilità ai sensi dell'art. 133, comma 1, lett. g), del
c.p.a.
1.2. Il G.A., a norma dell'art. 8 c.p.a., ha il potere di
pronunciarsi, incidenter tantum, su questioni pregiudiziali,
ancorché veicolate in via di eccezione, attinenti a diritti
(con esclusione, in ogni caso, dell'incidente di falso e
delle questioni sullo stato e capacità delle persone), ai
circoscritti fini della soluzione della vertenza ad esso
demandata in via principale.
2. (segue): natura della pretesa del proprietario
illegittimamente spogliato di un'area per fini
pubblicistici. Unicità e complessità della pretesa. Acquisto
per usucapione ventennale dell'area appresa dalla P.A.
Ammissibilità.
2.1. Il proprietario di un’area
illegittimamente occupata dalla P.A. al fine di realizzarvi
opera pubblica o di pubblica utilità può perseguire in sede
giurisdizionale una pretesa che è sostanzialmente unica (in
quanto è fondata sullo ius omnes alios excludendi insito nel
diritto di proprietà ex art. 832 Cod. civ.), ma al contempo
è anche complessa (in quanto si può articolare
rispettivamente sia in una richiesta restitutoria che in una
risarcitoria; ovvero soltanto in quella risarcitoria,
laddove il bene sia stato irreversibilmente trasformato e
l’Amministrazione intenda utilizzarlo per fini
pubblicistici).
2.2. Sebbene vada qualificata come un illecito permanente
l’occupazione di suolo privato da parte della P.A. per fini
pubblicistici in assenza di un titolo valido, nondimeno
l'illecito de quo è suscettibile di cessare per effetto
rispettivamente di un accordo transattivo; ovvero di un
provvedimento ex art. 42-bis del d.p.r. n. 327/2001, o
infine a seguito dell’accertamento dell’usucapione del bene
da parte dell’occupante che lo ha trasformato.
3. (segue): interversione del possesso. Decorrenza. A
partire dalla scadenza del termine di occupazione legittima.
Nel caso in cui la Pubblica amministrazione
occupi, in via d'urgenza e in vista dell'espropriazione, un
fondo privato senza far poi luogo all'adozione del
provvedimento di esproprio nei termini previsti dall'art.
22-bis, comma 6, T.U. 08.06.2001 n. 327, la detenzione del
fondo -per un primo periodo- sarà legittima.
Conseguentemente tale rapporto di fatto con la cosa non è
utile per far maturare l'usucapione acquisitiva, mentre una
volta scaduto il termine di occupazione legittima, la
mancata restituzione del fondo legittimamente occupato (ma
non altrettanto legittimamente espropriato in assenza di
decreto di esproprio) e la contemporanea utilizzazione delle
opere pubbliche realizzate sul fondo possono qualificarsi
come atti di opposizione nei confronti del
proprietario-possessore, compiuti dalla P.A., ai sensi
dell'art. 1141 comma 2 Cod. civ., come tali idonei a
trasformare l’originaria detenzione in possesso.
Pertanto, verificandosi il mutamento della detenzione in
possesso, inizia a decorrere il termine utile per realizzare
l'acquisto per usucapione prevista dall'art. 1158 Cod. civ..
4. (segue): eccezione di usucapione. Questione incidentale
ex art. 8 c.p.a. esaminabile dal G.A.
4.1. Ove il privato, spogliato del proprio
fondo per fini pubblicistici, agisca in sede giurisdizionale
lamentando la mancata emissione del decreto di
espropriazione e chiedendo la restituzione delle aree,
l'eccezione di usucapione sollevata dall'Amministrazione non
sposta la giurisdizione al Giudice ordinario, per cui il
giudice amministrativo può e deve pronunciarsi anche
sull'eccezione di usucapione.
Per questo, ai sensi dell'art. 8 c. proc. amm. trattandosi
di una questione incidentale relativa a diritti la cui
risoluzione è necessaria per pronunciare sulla questione
principale, sulla domanda di restituzione di un'area
occupata illegittimamente dinanzi al giudice amministrativo,
il giudice può accertare se sia intervenuta l'acquisizione
per usucapione ventennale, ai sensi dell'art. 1158 c.c., ed
accertare la venuta in esistenza del diritto di proprietà
della p.a., in conseguenza del mero possesso
ultraventennale.
Tra richiesta risarcitoria e azione restitutoria c’è
un’intima connessione in quanto ontologicamente sono
entrambe due profili opposti di un’unica questione,
afferente la materia espropriativa.
4.2. Rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo le controversie relative al risarcimento
danni da occupazione di aree private per fini pubblicistici,
le relative eccezioni e le domande riconvenzionali -ivi
comprese quelle relative all'accertamento del compimento
dell'usucapione in favore della p.a.- su beni
illegittimamente occupati con irreversibile trasformazione
del bene immobile e ultimazione dei lavori, senza che alla
dichiarazione di pubblica utilità sia seguito il tempestivo
decreto di esproprio o altro atto idoneo a produrre
l'effetto traslativo della proprietà.
4.3. L’eventuale accertamento, in via incidentale,
dell’eccepito acquisto per usucapione della P.A. della
proprietà del bene privato, è idoneo a determinare
l’estinzione dei diritti azionati dal privato medesimo e fa
venir meno "ab origine" l'elemento costitutivo della
fattispecie risarcitoria, consistente nell’illiceità della
condotta lesiva della situazione giuridica soggettiva
dedotta, non solo per il periodo successivo al decorso del
termine ventennale, ma anche per quello anteriore, in virtù
della retroattività degli effetti dell’acquisto a titolo
originario per usucapione.
5. (segue): omessa pronuncia del G.A. sull'eccezione di
usucapione. Errore di procedura. Rinvio al primo giudice.
Necessità.
Laddove il Giudice di primo grado ometta di
pronunciarsi sull'eccezione di usucapione sollevata dalla
P.A. che abbia illecitamente trasformato un bene privato per
finalità pubblicistiche, si ha un “difetto di procedura”
della sentenza, che non consente di trattenere la totalità
della causa in decisione, per l’effetto devolutivo
dell'appello.
Cosicché è necessario rinviare al primo giudice per “errore
di procedura” non potendo essere sottratte a tutte le parti,
ivi compresi i soggetti controinteressati, le piene garanzie
del doppio grado di giudizio.
Come è noto, rientrano nella giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto
gli atti, i provvedimenti, gli accordi e i comportamenti,
riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un
pubblico potere della Pubblica amministrazione in materia di
espropriazione per pubblica utilità ai sensi dell'art. 133,
comma 1, lett. g), del c.p.a. .
Il G.A. tuttavia, a norma dell'art. 8 c,p,a,, ha il potere
di pronunciarsi, incidenter tantum, su questioni
pregiudiziali, ancorché veicolate in via di eccezione,
attinenti a diritti (con esclusione, in ogni caso,
dell'incidente di falso e delle questioni sullo stato e
capacità delle persone), ai circoscritti fini della
soluzione della vertenza ad esso demandata in via principale
(cfr. in senso sostanzialmente analogo: Consiglio di Stato
sez. IV 16/04/2014 n. 1883).
Ciò posto nel caso in esame,dato che la Corte di Cassazione
con ordinanza delle Sezioni Unite del 30.06.2009, su ricorso
di AQP Sp.a., ha dichiarato la giurisdizione del giudice
amministrativo proprio in ordine alla cognizione della
controversia in esame, è evidente che il TAR dovesse
conoscere, seppur in via incidentale, di tutte le questioni
pregiudiziali o incidentali relative a diritti la cui
risoluzione si appalesasse necessaria per pronunciare sulla
questione principale.
Ciò perché il proprietario di un’area illegittimamente
occupata persegue una pretesa che è sostanzialmente unica
(in quanto è fondata sullo ius omnes alios excludendi
insito nel diritto di proprietà ex art. 832 Cod. civ.), ma
al contempo è anche complessa (in quanto si può articolare
rispettivamente sia in una richiesta restitutoria che in una
risarcitoria; ovvero soltanto in quella risarcitoria,
laddove il bene sia stato irreversibilmente trasformato e
l’Amministrazione intenda utilizzarlo per fini
pubblicistici).
La Cassazione Civile, se pure ha definito l’occupazione in
assenza di un titolo valido come un illecito permanente,
nondimeno ha rilevate che esso è suscettibile di cessare per
effetto rispettivamente di un accordo transattivo; ovvero di
un provvedimento ex art. 42-bis del d.p.r. n. 327/2001, o
infine a seguito dell’accertamento dell’usucapione del bene
da parte dell’occupante che lo ha trasformato (cfr.
Cassazione Civile Sez. I, ord. 15.05.2013, n. 11684) .
Nel caso in cui la Pubblica amministrazione occupi, in via
d'urgenza e in vista dell'espropriazione, un fondo senza far
poi luogo all'adozione del provvedimento di esproprio nei
termini previsti dall'art. 22-bis, comma 6, T.U. 08.06.2001
n. 327, la detenzione del fondo -per un primo periodo- sarà
legittima. Conseguentemente tale rapporto di fatto con la
cosa non è utile per far maturare l'usucapione acquisitiva,
mentre una volta scaduto il termine di occupazione
legittima, la mancata restituzione del fondo legittimamente
occupato (ma non altrettanto legittimamente espropriato in
assenza di decreto di esproprio) e la contemporanea
utilizzazione delle opere pubbliche realizzate sul fondo
possono qualificarsi come atti di opposizione nei confronti
del proprietario-possessore, compiuti dalla P.A., ai sensi
dell'art. 1141, comma 2, Cod. civ., come tali idonei a
trasformare l’originaria detenzione in possesso. Pertanto,
verificandosi il mutamento della detenzione in possesso,
inizia a decorrere il termine utile per realizzare
l'acquisto per usucapione prevista dall'art. 1158 Cod. civ.
(così: C.G.A. Reg. Sicilia Sez. giurisdizionale 14.01.2013
n. 9).
In ogni caso, ove la parte ricorrente lamenti la mancata
emissione del decreto di espropriazione e chieda la
restituzione delle aree, l'eccezione di usucapione sollevata
dall'Amministrazione non sposta la giurisdizione al Giudice
ordinario, per cui il giudice amministrativo può e deve
pronunciarsi anche sull'eccezione di usucapione.
Per questo, ai sensi dell'art. 8 c. proc. amm. trattandosi
di una questione incidentale relativa a diritti la cui
risoluzione è necessaria per pronunciare sulla questione
principale, sulla domanda di restituzione di un'area
occupata illegittimamente dinanzi al giudice amministrativo,
il giudice può accertare se sia intervenuta l'acquisizione
per usucapione ventennale, ai sensi dell'art. 1158 c.c., ed
accertare la venuta in esistenza del diritto di proprietà
della p.a., in conseguenza del mero possesso ultraventennale
(cfr. C.G.A. n. 9 cit.).
Tra richiesta risarcitoria e azione restitutoria c’è
un’intima connessione in quanto ontologicamente sono
entrambe due profili opposti di un’unica questione,
afferente la materia espropriativa.
Dunque rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo le controversie relative al risarcimento
danni da occupazione, le relative eccezioni e le domande
riconvenzionali –ivi comprese quelle relative
all'accertamento del compimento dell'usucapione in favore
della p.a.- su beni illegittimamente occupati con
irreversibile trasformazione del bene immobile e ultimazione
dei lavori, senza che alla dichiarazione di pubblica utilità
sia seguito il tempestivo decreto di esproprio o altro atto
idoneo a produrre l'effetto traslativo della proprietà.
Nel caso in esame la richiesta di accertamento della
sussistenza di un’usucapione dall’AQP, introdotta in via di
“eccezione riconvenzionale”, restava dunque attratta
nella sfera di cognizione del giudice amministrativo della
domanda principale in forza del generale principio di cui
all’art. 8 Cod. proc. amm. .
Pertanto la dichiarazione del difetto di giurisdizione del
giudice amministrativo sulla predetta domanda
riconvenzionale statuita dal TAR non può essere condivisa.
L’eventuale accertamento, in via incidentale, dell’eccepito
acquisto per usucapione della P.A. della proprietà del bene
privato, determinerebbe infatti l’estinzione dei diritti
azionati dal privato medesimo e farebbe venir meno "ab
origine" l'elemento costitutivo della fattispecie
risarcitoria, consistente nell’illiceità della condotta
lesiva della situazione giuridica soggettiva dedotta, non
solo per il periodo successivo al decorso del termine
ventennale, ma anche per quello anteriore, in virtù della
retroattività degli effetti dell’acquisto a titolo
originario per usucapione.
La mancata pronuncia sul punto tuttavia deve essere ritenuta
un “difetto di procedura” della sentenza appellata,
che non consente di trattenere la totalità della causa in
decisione, per l’effetto devolutivo dell'appello.
In tal senso si è infatti espressa anche la difesa del
Datoli che, in via subordinata al rigetto dei relativi
motivi, nella sua memoria di replica per la discussione,
aveva comunque richiesto specificamente il rinvio al primo
giudice.
In conclusione l’accoglimento dei motivi in esame determina
dunque l’annullamento della sentenza ed al contempo la
necessità di rinvio al primo giudice per “errore di
procedura” (sia pure su una questione altamente
opinabile ed incerta). Tale rinvio infatti appare
esclusivamente ancorato all’evidente esigenza di non
sottrarre a tutte le parti, ivi compresi i soggetti
controinteressati, le piene garanzie del doppio grado di
giudizio specie sui profili di fatto della vicenda
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.11.2014 n. 5665
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1.
Legittimazione a ricorrere in materia di urbanistica e
edilizia. Criterio della c.d. vicinitas. Sufficienza.
1.1. In materia di urbanistica e
edilizia, è sufficiente a legittimare la proposizione da
parte del vicino dell’impugnazione in sede giurisdizionale
del titolo edilizio, la mera vicinitas, ossia il
collegamento stabile con la zona interessata dai lavori.
Infatti, la c.d. vicinitas è di per sé sufficiente al fine
di configurare l’interesse al ricorso, così come previsto
dall’art. 100 c.p.c..
1.2. In presenza del requisito della vicinitas non è
necessario accertare, in concreto, se i lavori assentiti
dall’atto impugnato comportino o no un effettivo pregiudizio
per il soggetto che propone l’impugnazione. Specie se si
considerano i consistenti oneri economici collegati al
contenzioso, deve escludersi, di norma, che vi sia una
qualsiasi necessità di accertare, in concreto, se i lavori
assentiti dall’atto impugnato comportino, o no, un effettivo
pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione.
La realizzazione di consistenti interventi che comportano
un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed
edilizio è pregiudizievole ‘in re ipsa’, in quanto il
nocumento è immediatamente conseguente all’inevitabile
diminuzione della qualità panoramica, ambientale,
paesaggistica; o anche solo alla possibile diminuzione di
valore dell’immobile connesso con l’eccesso di offerta sul
mercato.
1.3. In presenza del requisito della vicinitas, è senz'altro
legittimato a insorgere in sede giurisdizionale avverso
titolo edilizio rilasciato a favore di terzo il proprietario
del fondo confinante con l'area interessata da intervento
edilizio consistente in un aumento di volumetria e
nell'innalzamento dei colmi rispetto all’edificio
preesistente, posto che tale intervento finisce per minare
le vedute, diminuendo comunque la fruizione dell’area, della
luce ed il valore dello stabile del ricorrente.
---------------
5. Ristrutturazione edilizia. Nozione. Ristrutturazione
edilizia pesante. Riforma di cui all'art. 30, comma 1°,
lettera a) D.L. n. 69/2013 conv. in legge n. 98/2013.
Ristrutturazione di edifici ruinati. Presupposti.
5.1. Anteriormente alla novella di
cui all'articolo 30, comma 1, lettera a), del D.L. n.
69/2013 convertito nella legge 98/2013, l’art. 3, comma 1,
lett. d), D.P.R. 06.06.2001, n. 380 riconduceva la nozione
di ‘ristrutturazione edilizia’ alla finalità di recupero del
patrimonio esistente: per cui, nei casi in cui ricorra la
demolizione parziale o totale dell’edificio, la
ricostruzione deve rispettare le linee essenziali della
sagoma; l’identità della complessiva volumetria del
fabbricato, e la copertura dell'area di sedime.
5.2. Anteriormente alla novella di cui all'articolo 30,
comma 1, lettera a), del D.L. n. 69/2013 convertito nella
legge 98/2013, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d),
D.P.R. 06.06.2001, n. 380, l’intervento di ristrutturazione
edilizia si doveva tradurre nell’esatto ripristino
dell'edificio operato senza alcuna variazione rispetto alle
originarie dimensioni dell’edificio, e, in particolare,
senza aumenti né delle volumetrie, né delle superfici
occupate, e né delle originarie sagome di ingombro perché
altrimenti, qualora si fossero verificati i detti
incrementi, si sarebbe trattato di ‘nuova costruzione’, che
quindi doveva rispettare tutte le specifiche norme in
materia di nuove edificazioni.
5.3. Anteriormente alla novella di cui all'articolo 30,
comma 1, lettera a), del D.L. n. 69/2013 convertito nella
legge 98/2013, l’art. 3, comma 1, lett. d), D.P.R.
06.06.2001, n. 380 prevedeva la "ricostruzione con la stessa
volumetria e sagoma di quello preesistente" e di conseguenza
collegava direttamente e funzionalmente la demolizione e la
ricostruzione in un unico contesto e quindi li disciplinava
di norma nello stesso provvedimento.
Tale inscindibile nesso non è stato superato nemmeno
dall'articolo 30, comma 1, lettera a), del D.L. n. 69/2013
convertito nella legge 98/2013) che, di recente, ha
novellato l'art. 3 lett. d) ultimo cpv. del Testo Unico
Edilizia di cui al D.P.R. 380/2001 distinguendo nell'ambito
degli interventi di ristrutturazione edilizia:
i) gli interventi contestuali cioè “quelli consistenti nella
demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di
quello preesistente”;
ii) “ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati
o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia
possibile accertarne la preesistente consistenza”.
5.4. Anche nel vigore della novella di cui all'articolo 30,
comma 1, lettera a), del D.L. n. 69/2013 convertito nella
legge 98/2013, nel caso di rovina di edificio risalente ad
epoca remota (nella specie quasi 28 anni), ove il
proprietario non possa fornire una prova documentale certa
dello status quo ante antecedente, il rilascio del permesso
edilizio per la ricostruzione dell'immobile deve comunque
rispettare la disciplina urbanistica in vigore al momento
della presentazione dell’istanza.
Il riferimento alle mappe catastali costituisce un elemento
probatorio generico e di carattere sussidiario e,
notoriamente, esse non assumono una rilevanza probatoria per
provare la reale precedente consistenza dell’immobile.
Pertanto, in difetto di elementi che diano la certezza
assoluta delle originarie dimensioni, non si può procedere
alla autonoma ricostruzione di un edificio demolito da tempo
come ristrutturazione, ma si deve fare richiesta di “nuova
costruzione”.
__1.§. Preliminarmente deve
essere affrontata la censura di carenza di interesse a
ricorrere della sig.ra Iorio, che non sarebbe stata rilevata
in primo grado: il TAR avrebbe ritenuto sufficiente a
legittimare la proposizione dell’impugnazione del titolo
edilizio, la mera vicinitas, ovvero il collegamento
stabile con la zona interessata dai lavori.
Secondo l’appellante invece, tale requisito, da interpretare
in senso relativo, non esimerebbe la confinante dall’obbligo
di dimostrare il pregiudizio -personale, attuale e concreto-
derivante dall’esecuzione del provvedimento gravato.
L’assunto è privo di pregio.
Secondo un orientamento costante di questo Collegio, dal
quale non v’è motivo per discostarsi, la c.d. vicinitas
è di per sé sufficiente al fine di configurare l’interesse
al ricorso, così come previsto dall’art. 100 c.p.c. (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV 22.01.2013 n. 361; id.
17.09.2012 n. 4926; id. 29.08.2012 n. 4643; id. 10.07.2012
n. 4088; C.G.A. della Regione Siciliana 04.06.2013 n. 553).
In presenza del suddetto requisito “non è necessario
accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto
impugnato comportino o no un effettivo pregiudizio per il
soggetto che propone l’impugnazione. Specie se si
considerano i consistenti oneri economici collegati al
contenzioso, deve escludersi, di norma, che vi sia una
qualsiasi necessità di accertare, in concreto, se i lavori
assentiti dall’atto impugnato comportino, o no, un effettivo
pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione.
La realizzazione di consistenti interventi che comportano
un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed
edilizio è pregiudizievole ‘in re ipsa’, in quanto il
nocumento è immediatamente conseguente all’inevitabile
diminuzione della qualità panoramica, ambientale,
paesaggistica; o anche solo alla possibile diminuzione di
valore dell’immobile connesso con l’eccesso di offerta sul
mercato" (cfr. Consiglio di Stato Sez. IV 18.04.2014 n.
1995).
La vicinitas, normalmente, è dunque condizione
necessaria e sufficiente a fondare la legittimazione e
l’interesse al ricorso (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV,
10.06.2014 n. 2965; id. 13.03.2014 n. 1210; id. 13.11.2012
n. 5715; id. 17.09.2012, n. 4924).
Nella fattispecie in esame, si rileva che comunque la
posizione legittimante della ricorrente in primo grado
appare direttamente collegata alla circostanza per cui
l’intervento previsto nel titolo edilizio annullato,
prevedendo una maggiore volumetria ed innalzamento dei colmi
rispetto all’edificio preesistente, avrebbe finito per
minare le vedute, diminuendo comunque la fruizione
dell’area, della luce ed il valore dello stabile.
In definitiva del tutto esattamente il TAR ha ritenuto
sussistente l’interesse al ricorso della controinteressata
alla verifica giudiziale della legittimità del titolo
edilizio dei confinanti.
---------------
__4.§. Infine l’appellante censura, nel merito, la sentenza
di primo grado, assumendo l’inesattezza della qualificazione
da parte del TAR dell’intervento edilizio come “nuova
costruzione”, solo perché sarebbe stata erroneamente
ritenuta rilevante la mancata contestualità fra demolizione
e ricostruzione.
Quest’ultimo fatto invece non si attaglierebbe alla
fattispecie de qua poiché qui la demolizione, a suo tempo,
era scaturita da ragioni di pubblica incolumità. In tali
casi sussisterebbe, in deroga alle norme ordinarie, un
diritto imprescrittibile alla ricostruzione, collegato alla
ratio emergenziale che aveva imposto l’emanazione del
provvedimento di demolizione.
Il giudice di prime cure avrebbe dunque erroneamente
quantificato le dimensioni dell’immobile preesistente e, su
tale dato, avrebbe annullato il permesso di costruire.
Come risulterebbe da una perizia del 1981 le dimensioni
dell’edificio oggetto del titolo edilizio annullato in primo
grado, coinciderebbero sostanzialmente con quelle
dell’edificio demolito nel 1981, il quale, tra l’altro, non
sarebbe mai stato eliminato dalla documentazione catastale.
Il motivo è infondato.
In primo luogo deve escludersi che, in materia, siano
configurabili diritti “imprescrittibili” rispetto
alla posizione di un proprietario di un immobile demolito
per pubblica incolumità.
E’ evidente che, in assenza di una specifica norma di legge
che disponga espressamente in tal senso, tale fattispecie
non può certo essere ricondotta al novero dei “diritti
indisponibili” di cui all’art. 2934, II° co. c.c.. La
giurisprudenza di questo Collegio, formatasi sul testo in
vigore al momento dei provvedimenti impugnati in prime cure,
aveva affermato che “L’art. 3 comma 1 lett. d), D.P.R.
06.06.2001, n. 380 riconduce, come è noto, la nozione di
‘ristrutturazione edilizia’ alla finalità di recupero del
patrimonio esistente: per cui, nei casi in cui ricorra la
demolizione parziale o totale dell’edificio, la
ricostruzione deve rispettare le linee essenziali della
sagoma; l’identità della complessiva volumetria del
fabbricato, e la copertura dell'area di sedime" (cfr.
Consiglio di Stato sez. IV 21.10.2013 n. 5120; id.
30.05.2013 n. 2972).
L’intervento si doveva cioè tradurre nell’esatto ripristino
dell'edificio operato senza alcuna variazione rispetto alle
originarie dimensioni dell’edificio, e, in particolare,
senza aumenti né delle volumetrie, né delle superfici
occupate, e né delle originarie sagome di ingombro perché
altrimenti, qualora si fossero verificati i detti
incrementi, si sarebbe trattato di ‘nuova costruzione’,
che quindi doveva rispettare tutte le specifiche norme in
materia di nuove edificazioni (cfr. Consiglio di Stato sez.
IV 29.05.2014 n. 2781; id. 06.12.2013 n. 5822; id.
02.12.2013 n. 5733; sez. III 20.11.2013 n. 5488).
Infatti al tempo dell’emanazione dei provvedimenti, il testo
(derivante dalle modifiche di cui al d.lgs. 27.12.2002, n.
301) dell’art. 3 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380 al comma 1°,
lettera d), prevedeva la "ricostruzione con la stessa
volumetria e sagoma di quello preesistente" e di
conseguenza collegava direttamente e funzionalmente la
demolizione e la ricostruzione in un unico contesto e quindi
li disciplinava di norma nello stesso provvedimento.
Nel concreto caso in esame ha ragione il TAR quando
sottolinea che l’opera edilizia eseguita dall’appellante non
poteva essere ascritta alle ipotesi di “ristrutturazione”,
sia a causa della mancanza del nesso di contestualità che
necessariamente deve legare la demolizione -a prescindere
dalla ragione ad essa sottesa- e la successiva ricostruzione
e sia per il differente dimensionamento.
Nel caso in esame non vi sono dubbi che l’opera edilizia
iniziata dall’appellante non potesse affatto essere
qualificata come di “ristrutturazione” sia pure nella
forma di intervento di demolizione e di ricostruzione (c.d.
“ristrutturazione pesante”).
Il progetto presentato da Iorio Gaetano prevedeva la
realizzazione di un fabbricato di circa 342 mc., differente
per tipologia costruttiva e per destinazioni d’uso, che non
poteva in alcun modo essere riconducibile ai due vecchi
immobili di piccole dimensioni (per lo stesso appellante una
assommava a mq. 51,83 e l’altro a mq. 5,1).
Tale inscindibile nesso, del resto, non è stato superato
nemmeno dall'articolo 30, comma 1, lettera a), del d.l.
69/2013 (convertito nella legge 98/2013) che, di recente, ha
novellato l'art. 3, lett. d), ultimo cpv. del Testo Unico
Edilizia di cui al D.P.R. 380/2001 distinguendo nell'ambito
degli interventi di ristrutturazione edilizia:
- gli interventi contestuali cioè “quelli consistenti
nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria
di quello preesistente”;
- i “ripristino di edifici, o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro
ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza.”
In sostanza anche adesso la notevole distantia temporis
(quasi 28 anni) dalla demolizione dell’immobile originario
fa sì che, -nel caso in cui il proprietario non possa
fornire una prova documentale certa dello status quo ante
antecedente- il rilascio del permesso edilizio deve comunque
rispettare la disciplina urbanistica in vigore al momento
della presentazione dell’istanza.
Anche il riferimento alle mappe catastali costituisce un
elemento probatorio generico e di carattere sussidiario e,
notoriamente, esse non assumono una rilevanza probatoria per
provare la reale precedente consistenza dell’immobile.
Pertanto, anche adesso, in difetto di elementi che diano la
certezza assoluta delle originarie dimensioni, non si può
procedere alla autonoma ricostruzione di un edificio
demolito da tempo come ristrutturazione, ma si deve fare
richiesta di “nuova costruzione”.
Con tutte le relative conseguenze ed implicazioni
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.11.2014 n. 5662 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
c.d. vicinitas è di per sé sufficiente al fine di
configurare l’interesse al ricorso, così come previsto
dall’art. 100 c.p.c..
In presenza del suddetto requisito “non è necessario
accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto
impugnato comportino o no un effettivo pregiudizio per il
soggetto che propone l’impugnazione. Specie se si
considerano i consistenti oneri economici collegati al
contenzioso, deve escludersi, di norma, che vi sia una
qualsiasi necessità di accertare, in concreto, se i lavori
assentiti dall’atto impugnato comportino, o no, un effettivo
pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione. La
realizzazione di consistenti interventi che comportano
un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed
edilizio è pregiudizievole ‘in re ipsa’, in quanto il
nocumento è immediatamente conseguente all’inevitabile
diminuzione della qualità panoramica, ambientale,
paesaggistica; o anche solo alla possibile diminuzione di
valore dell’immobile connesso con l’eccesso di offerta sul
mercato".
La vicinitas, normalmente, è dunque condizione necessaria e
sufficiente a fondare la legittimazione e l’interesse al
ricorso.
L’assunto è privo di pregio.
Secondo un orientamento costante di questo Collegio, dal
quale non v’è motivo per discostarsi, la c.d. vicinitas è di
per sé sufficiente al fine di configurare l’interesse al
ricorso, così come previsto dall’art. 100 c.p.c. (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV 22.01.2013 n. 361; id. 17.09.2012 n. 4926; id. 29.08.2012 n. 4643; id. 10.07.2012 n. 4088; C.G.A. della Regione Siciliana
04.06.2013 n. 553).
In presenza del suddetto requisito “non è necessario
accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto
impugnato comportino o no un effettivo pregiudizio per il
soggetto che propone l’impugnazione. Specie se si
considerano i consistenti oneri economici collegati al
contenzioso, deve escludersi, di norma, che vi sia una
qualsiasi necessità di accertare, in concreto, se i lavori
assentiti dall’atto impugnato comportino, o no, un effettivo
pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione.
La realizzazione di consistenti interventi che comportano
un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed
edilizio è pregiudizievole ‘in re ipsa’, in quanto il
nocumento è immediatamente conseguente all’inevitabile
diminuzione della qualità panoramica, ambientale,
paesaggistica; o anche solo alla possibile diminuzione di
valore dell’immobile connesso con l’eccesso di offerta sul
mercato" (cfr. Consiglio di Stato Sez. IV 18.04.2014 n.
1995).
La vicinitas, normalmente, è dunque condizione necessaria e
sufficiente a fondare la legittimazione e l’interesse al
ricorso (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 10.06.2014 n.
2965; id. 13.03.2014 n. 1210; id. 13.11.2012 n.
5715; id. 17.09.2012, n. 4924).
Nella fattispecie in esame, si rileva che comunque la
posizione legittimante della ricorrente in primo grado
appare direttamente collegata alla circostanza per cui
l’intervento previsto nel titolo edilizio annullato,
prevedendo una maggiore volumetria ed innalzamento dei colmi
rispetto all’edificio preesistente, avrebbe finito per
minare le vedute, diminuendo comunque la fruizione
dell’area, della luce ed il valore dello stabile.
In definitiva del tutto esattamente il TAR ha ritenuto
sussistente l’interesse al ricorso della controinteressata
alla verifica giudiziale della legittimità del titolo
edilizio dei confinanti
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
18.11.2014 n. 5662 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza di questo Collegio, formatasi sul testo in
vigore al momento dei provvedimenti impugnati in prime cure,
aveva affermato che “L’art. 3, comma 1, lett. d), D.P.R.
06.06.2001, n. 380 riconduce, come è noto, la nozione di
‘ristrutturazione edilizia’ alla finalità di recupero del
patrimonio esistente: per cui, nei casi in cui ricorra la
demolizione parziale o totale dell’edificio, la
ricostruzione deve rispettare le linee essenziali della
sagoma; l’identità della complessiva volumetria del
fabbricato, e la copertura dell'area di sedime".
L’intervento si doveva cioè tradurre nell’esatto ripristino
dell'edificio operato senza alcuna variazione rispetto alle
originarie dimensioni dell’edificio, e, in particolare,
senza aumenti né delle volumetrie, né delle superfici
occupate, e né delle originarie sagome di ingombro perché
altrimenti, qualora si fossero verificati i detti
incrementi, si sarebbe trattato di ‘nuova costruzione’, che
quindi doveva rispettare tutte le specifiche norme in
materia di nuove edificazioni.
Infatti al tempo dell’emanazione dei provvedimenti, il testo
(derivante dalle modifiche di cui al d.lgs. 27.12.2002, n.
301) dell’art. 3 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380 al comma 1°,
lettera d), prevedeva la "ricostruzione con la stessa
volumetria e sagoma di quello preesistente" e di conseguenza
collegava direttamente e funzionalmente la demolizione e la
ricostruzione in un unico contesto e quindi li disciplinava
di norma nello stesso provvedimento.
Il motivo è infondato.
In primo luogo deve escludersi che, in materia, siano
configurabili diritti “imprescrittibili” rispetto alla
posizione di un proprietario di un immobile demolito per
pubblica incolumità.
E’ evidente che, in assenza di una specifica norma di legge
che disponga espressamente in tal senso, tale fattispecie
non può certo essere ricondotta al novero dei “diritti
indisponibili” di cui all’art. 2934, II° co. c.c.. La
giurisprudenza di questo Collegio, formatasi sul testo in
vigore al momento dei provvedimenti impugnati in prime cure,
aveva affermato che “L’art. 3, comma 1, lett. d), D.P.R.
06.06.2001, n. 380 riconduce, come è noto, la nozione di
‘ristrutturazione edilizia’ alla finalità di recupero del
patrimonio esistente: per cui, nei casi in cui ricorra la
demolizione parziale o totale dell’edificio, la
ricostruzione deve rispettare le linee essenziali della
sagoma; l’identità della complessiva volumetria del
fabbricato, e la copertura dell'area di sedime" (cfr.
Consiglio di Stato sez. IV 21.10.2013 n. 5120; id. 30.05.2013 n. 2972).
L’intervento si doveva cioè tradurre nell’esatto ripristino
dell'edificio operato senza alcuna variazione rispetto alle
originarie dimensioni dell’edificio, e, in particolare,
senza aumenti né delle volumetrie, né delle superfici
occupate, e né delle originarie sagome di ingombro perché
altrimenti, qualora si fossero verificati i detti
incrementi, si sarebbe trattato di ‘nuova costruzione’, che
quindi doveva rispettare tutte le specifiche norme in
materia di nuove edificazioni (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 29.05.2014 n. 2781; id. 06.12.2013 n. 5822; id.
02.12.2013 n. 5733; sez. III 20.11.2013 n.
5488).
Infatti al tempo dell’emanazione dei provvedimenti, il testo
(derivante dalle modifiche di cui al d.lgs. 27.12.2002, n. 301) dell’art. 3 del d.p.r.
06.06.2001, n. 380 al
comma 1°, lettera d), prevedeva la "ricostruzione con la
stessa volumetria e sagoma di quello preesistente" e di
conseguenza collegava direttamente e funzionalmente la
demolizione e la ricostruzione in un unico contesto e quindi
li disciplinava di norma nello stesso provvedimento.
Nel concreto caso in esame ha ragione il TAR quando
sottolinea che l’opera edilizia eseguita dall’appellante non
poteva essere ascritta alle ipotesi di “ristrutturazione”,
sia a causa della mancanza del nesso di contestualità che
necessariamente deve legare la demolizione -a prescindere
dalla ragione ad essa sottesa- e la successiva
ricostruzione e sia per il differente dimensionamento.
Nel caso in esame non vi sono dubbi che l’opera edilizia
iniziata dall’appellante non potesse affatto essere
qualificata come di “ristrutturazione” sia pure nella
forma di intervento di demolizione e di ricostruzione (c.d.
“ristrutturazione pesante”)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
18.11.2014 n. 5662 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
collegio ritiene di dover aderire a quell’indirizzo
giurisprudenziale che interpreta la previsione normativa che
impone all’impresa di dimostrare la completa ed effettiva
dissociazione della condotta penalmente sanzionata dei
soggetti cessati dalla carica nell'anno antecedente la data
di pubblicazione del bando di gara secondo un criterio di
equilibrio e proporzionalità, onde evitare il raggiungimento
di conclusioni eccessivamente punitive che possono
comportare una sostanziale paralisi di attività
imprenditoriali, senza una reale ragione di interesse
generale sufficiente a giustificare tali esiti di assoluto
rigore.
In tale ottica, se da un lato la dissociazione, non
trattandosi di istituto giuridico codificato, può aver luogo
in svariate forme, purché risulti esistente, univoca e
completa, dall’altro le concrete modalità di soddisfacimento
dell’onere probatorio richiesto all’impresa non possono
essere individuate aprioristicamente ma vanno correttamente
parametrate alla specificità del caso specifico oggetto di
valutazione.
La doglianza non è fondata.
Ritiene in proposito il collegio di dover aderire a
quell’indirizzo giurisprudenziale che interpreta la
previsione normativa che impone all’impresa di dimostrare la
completa ed effettiva dissociazione della condotta
penalmente sanzionata dei soggetti cessati dalla carica
nell'anno antecedente la data di pubblicazione del bando di
gara secondo un criterio di equilibrio e proporzionalità,
onde evitare il raggiungimento di conclusioni eccessivamente
punitive che possono comportare una sostanziale paralisi di
attività imprenditoriali, senza una reale ragione di
interesse generale sufficiente a giustificare tali esiti di
assoluto rigore (cfr., in termini, TAR Campania, sez. III,
20.12.2013, n. 5965).
In tale ottica, se da un lato la dissociazione, non
trattandosi di istituto giuridico codificato, può aver luogo
in svariate forme, purché risulti esistente, univoca e
completa, dall’altro le concrete modalità di soddisfacimento
dell’onere probatorio richiesto all’impresa non possono
essere individuate aprioristicamente ma vanno correttamente
parametrate alla specificità del caso specifico oggetto di
valutazione.
Nel caso in esame, non emergono elementi tali, quali ad
esempio la sussistenza di rapporti di parentela con il nuovo
amministratore e/o il possesso di quote sociali in capo al
precedente legale rappresentante, che possano far supporre
che la dissociazione sia una mera “operazione di facciata” e
che il soggetto cessato possa ancora ingerirsi nelle
attività della nuova compagine sociale e minarne la moralità
professionale.
Di fronte a una simile circostanza fattuale, la
dimostrazione della dissociazione può essere fornita anche
attraverso la semplice produzione di un verbale
dell'assemblea della società in cui sia chiaramente indicata
la volontà di dissociazione; e ciò anche se la società abbia
anche meramente dichiarato la intenzione di riservarsi la
possibilità di intentare una causa civile di responsabilità
nei confronti del soggetto cessato e non anche dimostrato di
averla concretamente iniziata.
La scelta di intraprendere o meno l’azione di
responsabilità, del resto, risponde a una serie di
valutazioni spettanti alla compagine sociale e connesse a
una serie di fattori (quali la sussistenza e la possibilità
di dimostrare un danno risarcibile derivante dalla condotta
illecita dell’amministratore, nonché l’entità del danno
stesso) che rispondono a logiche giuscivilistiche differenti
rispetto agli interessi tutelati dalla previsione sulla
dissociazione.
Non appare dunque congruo imporre in ogni caso alla società,
al solo fine strumentale di poter continuare a partecipare a
gare pubbliche, l’avvio dell’azione di responsabilità contro
l’amministratore al fine di dimostrare la concreta
dissociazione dal suo operato (Cons. Stato, sez. V, 28.07.2014, n. 3992; 14.09.2010, n. 6694; 11.09.2007, n. 4804).
Ritiene conseguentemente il Collegio che la produzione del
verbale assembleare sopra citato faccia piena fede circa la
effettività dell'intento della Krea di dissociarsi dalla
condotta dell'ex legale rappresentante ed è quindi idonea e
sufficiente a fornire la dimostrazione richiesta dall'art.
38, comma 1, lettera c), del D.Lgs. n. 163/2006.
Conclusivamente, il ricorso principale va accolto mentre
quello principale deve essere respinto, con annullamento,
per l’effetto, dell’aggiudicazione della gara a Impresalv
srl e con obbligo per la stazione appaltante di aggiudicare
la gara stessa alla ricorrente Segipa s.r.l. (fatti salvi
gli accertamenti preliminari d’obbligo).
L’aggiudicazione della gara alla ricorrente principale
costituisce adeguato risarcimento in forma specifica,
restando dunque irrilevante quant’altro e diversamente
preteso a titolo risarcitorio
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza
18.11.2014 n. 2914 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Dinanzi ad una condotta prolungata nel tempo di
un pubblico ufficiale, il quale, dietro pagamento, vanifica
la sua funzione di controllo nell’acquisizione di forniture
pubbliche, è ravvisabile una vendita della funzione, nel
senso di mercimonio della discrezionalità da parte del
soggetto, in luogo di una pluralità di episodi di corruzione
uniti in continuazione.
Ne deriva che non è possibile dichiarare di prescrizione per
alcune porzioni della condotta medesima, non potendo le
stesse essere considerate singoli reati.
5. Appare, altresì, destituita di fondamento la censura
concernente la pretesa estinzione del reato in addebito,
ancorché limitatamente alle condotte antecedenti il
04.06.2008.
Al C. è contestato, infatti, il delitto di cui agli artt.
319 e 321 cod. pen., in particolare per avere concorso con
l’Assessore alle Infrastrutture Ch.Re. , di cui era il Capo
di Gabinetto, a ricevere ingenti somme di denaro (tra i
200.000 e 250.000 Euro all’anno secondo quanto riferito da
Ma.Gi. , v. ordinanza riguardante Ch. prodotta dalla difesa
del ricorrente) che con frequenza annuale all’amministratore
regionale venivano corrisposte da varie persone per conto di
società del gruppo Mantovani e del Consorzio Venezia Nuova.
Orbene, secondo la prospettazione d’accusa, la dazione di
dette somme è andata avanti fino a poco tempo prima
dell’emissione della misura cautelare ed in particolare dal
2005 al 2012 secondo l’imputazione di cui al capo 8)
dell’ordinanza cautelare ed anzi fino al giorno 07.02.2013
secondo la distinta ordinanza resa dallo stesso Tribunale
del Riesame di Venezia in data 28/06/2014 concernente il Ch.
in prima persona (v. copia provvedimento prodotto dalla
difesa del ricorrente).
Detto altrimenti, il flusso di denaro pervenuto
all’amministratore regionale costituiva il corrispettivo
della vendita della sua funzione, messa al servizio dei
soggetti corruttori, che in tal modo ne avevano acquisito la
disponibilità, presente e futura, a soddisfare le rispettive
esigenze.
In tal modo inquadrata la fattispecie, deve rilevarsi che,
secondo quanto già affermato dalla giurisprudenza di questa
Corte e di questa Sezione, essa ricadeva già nel fuoco della
previsione dell’art. 319 cod. pen. nella versione
antecedente la novella rappresentata dalla legge n. 190 del
2012, essendosi infatti stabilito che dinanzi ad una
condotta prolungata nel tempo di un pubblico ufficiale
(nella specie: un primario ospedaliero) il quale, dietro
pagamento, vanificava la sua funzione di controllo
nell’acquisizione di forniture pubbliche, correttamente il
giudice di merito aveva ravvisato una vendita della
funzione, nel senso di mercimonio della discrezionalità da
parte del soggetto, in luogo di una pluralità di episodi di
corruzione uniti in continuazione, derivandone la
correttezza della mancata dichiarazione di prescrizione per
alcune porzioni della condotta medesima, erroneamente
ritenute singoli reati (Cass. Sez. 6 sent. n. 34735 del
14/06/2011, Anzillotti e altri).
Principio ribadito da Sez. 6 sent. n. 9079 del 24/01/2013,
Di Nardo e altri, Rv. 254162 in cui si è affermato che la
messa a disposizione del proprio ufficio corrisponde oggi
alla fattispecie di cui al nuovo testo dell’art. 318 cod.
pen. e che tale condotta, peraltro, già rientrava nell’art.
319 cod. pen. costituendo atto contrario ai doveri d’ufficio
e atteso che le due norme prevedono la medesima pena
(massima), stante l’evidente continuità normativa tra le
stesse, appare irrilevante chiedersi se una condotta
pregressa rientri nell’una o nell’altra disposizione; nonché
da Sez. 6 sent. n. 9883 del 15/10/2013, Terenghi, Rv. 258521
la quale ha stabilito che la riconduzione della vendita
della funzione all’attuale art. 318 cod. pen. non incide
sulla natura del fatto pregresso, che resta riconducibile
all’art. 319 cod. pen. vigente all’epoca dei fatti, anche
sotto il profilo della sanzione in quanto norma più
favorevole dell’attuale art. 319 cod. pen..
La giurisprudenza di questa sezione ha, inoltre, affermato
gli altri principi secondo cui i fatti di corruzione
impropria per atto conforme ai doveri d’ufficio continuano
ad essere penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 318 cod.
pen. per come novellato dalla legge 190 del 2012 che, nella
sua ampia previsione, li ricomprende integralmente (Cass.
sez. 6 sent. n. 19189 dello 11/01/2013, Abruzzese, Rv.
255073) ed anzi che la nuova norma ha allargato l’area di
punibilità ad ogni fattispecie di monetizzazione del munus
publicus, pur se sganciata da una logica di “formale
sinallagmaticità” (Sez. 6 sent. del 13/01/2014, Menna).
La fattispecie considerata dalla prima delle citate
pronunzie appare del tutto sovrapponibile a quella in esame,
con l’aggiunta che –al pari di quanto già rilevato con le
successive decisioni– devesi oggi prendere atto
dell’intervenuta trasposizione normativa da parte del
legislatore di quell’orientamento giurisprudenziale,
mediante la previsione del nuovo art. 318 cod. pen. che
sanziona espressamente la corruzione per la funzione,
rompendo con l’impostazione propria del dispositivo
normativo ancorato al rapporto sinallagmatico tra atto
dell’ufficio (contrario o dovuto) ed accettazione di
promessa e/o percezione di utilità da parte del pubblico
agente.
Trattasi, invero, di impostazione che ancora permane nel
sistema, dal momento che la legge n. 190 del 2012 non ha
eliminato l’ipotesi di corruzione per un atto contrario ai
doveri d’ufficio (nuovo art. 319 cod. pen.), il quale è però
sanzionato in maniera più grave rispetto alla figura di
reato di cui all’art. 318 cod. pen..
Ad avviso di questo Collegio, anzi, la stessa collocazione
topografica delle due norme, in rapporto di progressione
sanzionatoria tra loro, evidenzia che alla luce della
revisione normativa la previsione di base è appunto
costituita dall’art. 318 cod. pen., la cui presenza infatti
ha eliminato la necessità non solo di prevedere un’espressa
sanzione per la corruzione collegata al compimento di atti
dell’ufficio non contrari a legge ma anche di stabilire il
compimento o meno di un atto dell’ufficio e la relativa
natura, mentre il nuovo art. 319 cod. pen. contempla i casi
di maggiore gravità, in cui il pubblico ufficiale omette o
ritarda un atto di sua competenza o ne compie di addirittura
contrari ai doveri d’ufficio, situazioni che come tali
esigono una risposta più rigorosa da parte dell’ordinamento.
Non v’è dubbio, tuttavia, che come nella fattispecie,
possano darsi casi in cui all’accettazione di indebite
promesse o (evenienza più verosimile) alla percezione di
indebite utilità collegate semplicemente all’esercizio della
pubblica funzione si accompagnino situazioni in cui è,
invece, riconoscibile il sinallagma tra quelle ed il
compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio ovvero
l’omissione o il ritardo di un atto dovuto.
In tali casi, si pone il problema di definire i rapporti tra
le due figure di reato di cui agli artt. 318 e 319 cod. pen.,
al fine di stabilire se debbano applicarsi congiuntamente o
meno.
A tale riguardo, ritiene il collegio, in linea di continuità
con la richiamata giurisprudenza, che l’art. 318 cod. pen.
non abbia coperto integralmente l’area della vendita della
funzione, ma soltanto quelle situazioni in cui non sia noto
il finalismo del suo mercimonio o in cui l’oggetto di questo
sia sicuramente rappresentato da un atto dell’ufficio.
Residua, infatti, tuttora un’area di applicabilità dell’art.
319 cod. pen. quando la vendita della funzione sia connotata
da uno o più atti contrari ai doveri d’ufficio, accompagnati
da indebite dazioni di denaro o prestazioni d’utilità, sia
antecedenti che susseguenti rispetto all’atto tipico, il
quale finisce semplicemente per evidenziare il punto più
alto di contrarietà ai doveri di correttezza che si
impongono al pubblico agente.
Deve, pertanto, essere riaffermata la perdurante validità
della citata giurisprudenza (su tutte Sez. 6 n. 34735/11
Anzillotti e al.) che, alla luce del mutato quadro normativo
determinato dalla legge n. 190 del 2012, finisce per
costituire applicazione della categoria dogmatica della
progressione criminosa, che consente di individuare un unico
reato (e un’unica pena) in fattispecie, come quella in
esame, al confine tra l’applicabilità del concorso di norme
sullo stesso fatto ed il concorso materiale di reati (Corte
di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 17.11.2014 n. 47271 -
link a http://renatodisa.com). |
APPALTI: 1.
Appalti pubblici. Requisiti di carattere generale.
Certificazione di qualità. Produzione a pena di esclusione.
Equivalenza.
Nel caso in cui un bando di gara
prescriva, a pena di esclusione, l'obbligo di produrre la
certificazione di qualità UNI EN ISO 9001:2000 che riporti
la dicitura “Progettazione, costruzione, installazione,
manutenzione e ristrutturazione di: impianti di
riscaldamento, termosanitari, condizionamento, cogenerazione
e loro gestione” e “Progettazione, costruzione,
ristrutturazione e manutenzione di immobili”, deve ritenersi
equivalente la certificazione di qualità UNI EN ISO
9001:2008 avente ad oggetto attività di «Progettazione,
installazione, manutenzione e conduzione, anche in global
service, di impianti tecnologici».
Detta certificazione di qualità, difatti, definisce i
requisiti, di carattere generale, implementabili da ogni
tipologia di organizzazione relativa al settore di
accreditamento rientrando, quindi, nella previsione del
bando concernente le attività di servizi integrati «agli
immobili e/o agli impianti», e, per altro verso, è
comprensiva delle capacità dell’impresa certificata di
governare le caratteristiche del servizio e dei prodotti
forniti, in modo da erogare effettivamente la qualità
attesa, e quindi comprende anche i c.d. servizi di governo.
2. (segue): associazione temporanea di impresa. Requisiti di
capacità economico-finanziaria. Corrispondenza tra quote di
qualificazione e quote di esecuzione. Necessità. Non
sussiste.
In tema di gara per l'affidamento di
appalti pubblici di servizi, con riferimento a concorrenti
che assumano le vesti di associazione temporanea d’impresa,
i requisiti di capacità economico-finanziaria vanno riferiti
all’a.t.i. nel suo complesso in virtù della disciplina degli
artt. 37 e 41 d.lgs. n. 163/2006 (nel testo applicabile
ratione temporis alla presente procedura di gara, il cui
bando è stato pubblicato nel luglio 2010) in quanto, nel
settore dei servizi e delle forniture, prevede solo che, in
caso di a.t.i. orizzontale, debbano essere specificate
nell’offerta le parti del servizio o della fornitura che
saranno eseguite dalle singole imprese associate o
associande, ma non impone una rigida corrispondenza tra
quota di qualificazione e quota di esecuzione, essendo
rimessa alla stazione appaltante la determinazione dei
requisiti di qualificazione con riguardo ad ogni singola
gara.
3. (segue): moralità professionale. Soggetto tenuto alla
dichiarazione. Procura limitata a determinati contratti non
oggetto della gara. Obbligo. Non sussiste. Dichiarazione del
responsabile tecnico. Mancata previsione della lex specialis.
Necessità. Non sussiste. Omessa dichiarazione. Sussistenza
dei requisiti. Esclusione. Inammissibilità.
3.1. In tema di dichiarazioni di moralità
professionale, qualora il disciplinare di gara preveda
l’onere dichiarativo ex art. 38 d.lgs. 163/2006 con riguardo
ai «procuratori dotati di poteri decisionali rilevanti e
sostanziali che non siano di sola rappresentanza esterna
dell’impresa», nel caso in cui i poteri conferiti a uno dei
procuratori siano limitati a contratti di valore
sproporzionati per difetto rispetto ai lotti oggetto della
gara, non può configurarsi un potere gestorio idoneo a
considerare detto soggetto quale amministratore di fatto
tenuto all’obbligo dichiarativo in esame.
3.2. In tema di dichiarazioni di moralità professionale, in
difetto di espressa previsione della lex specialis, l’onere
dichiarativo ex art. 38, commi 1 e 2, d.lgs. n. 163 del 2006
non può ritenersi esteso anche alla figura del responsabile
tecnico.
3.3. In tema di dichiarazioni di moralità professionale, in
caso di mancata comminatoria di esclusione contenuta nella
lex specialis con riguardo a dette dichiarazioni relative a
determinate categorie di cariche sociali e/o aziendali,
l’esclusione non può essere disposta per la mera omessa
dichiarazione, ma solo qualora si riscontri l’effettiva
assenza del requisito.
4. (segue): apertura dei plichi contenenti le offerte
tecniche. Procedure concluse o pendenti alla data di entrata
in vigore del d.l. 07.05.2012, n. 52. Seduta pubblica.
Obbligatorietà. Non sussiste.
In tema di apertura dei plichi contenti le
offerte tecniche, l’art. 12 d.l. 07.05.2012, n. 52,
convertito nella legge 06.07.2012, n. 94, ha innovativamente
previsto l’obbligo della commissione di gara di aprire in
seduta pubblica detti plichi, mentre, per le procedure
concluse o pendenti alla data del 09.05.2012, ha previsto la
sanatoria del vizio ritenuto sussistente dalla sentenza Ad.
Plen. n. 13/2011, per il caso in cui i medesimi plichi siano
stati aperti in seduta riservata, di guisa che l’obbligo
della seduta pubblica per la fase di apertura dei plichi
contenenti le offerte tecniche va ritenuto sussistente solo
per le gare indette dopo l’entrata in vigore della citata
disposizione.
6.1. In accoglimento dell’appello proposto avverso le
statuizioni sub 2.(i) e 2.(ii), è decisivo rilevare che:
- il bando di gara, al punto III.2.3, lett. a), prescriveva,
tra i requisiti di capacità tecnica, il «possesso della
certificazione UNI EN ISO 9001:2000 per l’attività di
servizi integrati agli immobili e/o agli impianti»;
- la stazione appaltante, con il chiarimento n. 7,
confermava l’equivalenza, con la certificazione quale
prevista nel bando, del «certificato di qualità UNI EN
ISO 9001:2000 che riporti la dicitura “Progettazione,
costruzione, installazione, manutenzione e ristrutturazione
di: impianti di riscaldamento, termosanitari,
condizionamento, cogenerazione e loro gestione” e
“Progettazione, costruzione, ristrutturazione e manutenzione
di immobili”»;
- la certificazione di qualità UNI EN ISO 9001:2008,
prodotta in sede di gara dalla S.A.C.C.I.R. s.p.a., datata
21.01.2010, si riferisce, tra l’altro, al settore di
accreditamento EAC 28 e, per quanto qui interessa, ha ad
oggetto attività di «Progettazione, installazione,
manutenzione e conduzione, anche in global service, di
impianti tecnologici»;
- tale certificazione di qualità –che, in quanto tale,
definisce i requisiti, di carattere generale, implementabili
da ogni tipologia di organizzazione relativa al settore di
accreditamento che, nel caso concreto, viene in rilievo–,
contemplante la gestione delle elencate attività in global
service, per un verso, rientra nella previsione del bando
concernente le attività di servizi integrati «agli
immobili e/o agli impianti», e, per altro verso, è
comprensiva delle capacità dell’impresa certificata di
governare le caratteristiche del servizio e dei prodotti
forniti, in modo da erogare effettivamente la qualità
attesa, e quindi comprende anche i c.d. servizi di governo
(v., nello stesso senso, in fattispecie analoga, Cons. St.,
Sez. VI, 10.05.2013, n. 2563).
Pertanto, contrariamente a quanto ritenuto nell’impugnata
sentenza, la mandataria dell’a.t.i. terza classificata,
S.A.C.C.I.R. s.p.a., indicata quale esecutrice del 100% dei
servizi di governo e del 64% dei servizi di manutenzione,
deve considerarsi munita del requisito di capacità tecnica
previsto al punto III.2.3 del bando di gara (dove, peraltro,
manca una specificazione esatta del settore di
accreditamento, discorrendosi genericamente di “certificazione
UNI EN ISO 9001:2000 per l’attività di servizi integrati
agli immobili e/o agli impianti”), e, in riforma
dell’impugnata sentenza, il correlativo motivo di ricorso
incidentale deve dunque essere disatteso, con conseguente
ammissibilità del ricorso principale di primo grado (e dei
relativi motivi aggiunti).
6.2. Scendendo all’esame dei motivi del ricorso principale
di prima istanza, si premette che, per ragioni di economia
processuale, in via preliminare si affrontano i motivi di
natura escludente dedotti avverso l’ammissione alla gara
dell’aggiudicataria a.t.i. Manitalidea, la cui infondatezza
–per le ragioni di seguito esposte– esime dall’esame dei
motivi dedotti dall’originaria ricorrente, terza
classificata, nei confronti della seconda classificata CNS,
per il venir meno del correlativo interesse a ricorrere.
6.2.1. Privi di pregio sono i motivi sub 3.c) e 3.f), tra di
loro connessi e da esaminare congiuntamente, di asserita
violazione dell’art. 37, commi 4 e 13, d.lgs. n. 163 del
2006, sotto vari profili.
In linea di fatto, si rileva che l’a.t.i. aggiudicataria ha
indicato la mandataria Manitalidea s.p.a. quale esecutrice
della quota del 60% delle prestazioni d’appalto, mentre la
mandante Manital s.c.p.a. è stata indicata quale esecutrice
della quota del 40% dell’attività di manutenzione
impiantistica e di pulizia.
Occorre, altresì, rimarcare che il disciplinare di gara, per
un verso, precisa che, in caso di associazione temporanea
d’impresa, i requisiti di capacità economico-finanziaria di
cui al punto III.2.2. lett. b) del bando di gara vanno
riferiti all’a.t.i. nel suo complesso (v. anche i
chiarimenti sul punto forniti dalla stazione appaltante), e
che, per altro verso, secondo l’orientamento di questo
Consiglio di Stato, formatosi sulla disciplina degli artt.
37 e 41 d.lgs. n. 163/2006 (nel testo applicabile ratione
temporis alla presente procedura di gara, il cui bando è
stato pubblicato nel luglio 2010), questa, nel settore dei
servizi e delle forniture, prevede solo che, in caso di
a.t.i. orizzontale, devono essere specificate nell’offerta
le parti del servizio o della fornitura che saranno eseguite
dalle singole imprese associate o associande, ma non impone
una rigida corrispondenza tra quota di qualificazione e
quota di esecuzione, essendo rimessa alla stazione
appaltante la determinazione dei requisiti di qualificazione
con riguardo ad ogni singola gara (v. Cons. St., Ad. Plen.,
05.07.2012, n. 26; Cons. St., Ad. Plen., 13.06.2012, n. 22).
Il fatturato specifico richiesto è, quindi, stato
correttamente riferito all’a.t.i. nel suo complesso, e non
alle singole imprese associate in rapporto alla quota di
esecuzione, in aderenza alla disciplina della lex
specialis [v., in senso conforme, la recente sent. Ad.
Plen., 28.08.2014, n. 27, affermativa del principio secondo
cui, ai sensi dell’art. 37, commi 4 e 13, nel testo
antecedente alle modifiche apportate dall’art. 1, comma
2-bis, lett. a), d.l. 06.07.2012 n. 95, convertito nella
legge 07.08.2012 n. 135, negli appalti di servizi da
affidarsi a raggruppamenti temporanei di imprese non vige
ex lege il principio della necessaria corrispondenza tra
la qualificazione di ciascuna impresa e la quota della
prestazione di rispettiva pertinenza, essendo la relativa
disciplina rimessa alle disposizioni della lex specialis
della gara; nello stesso senso, Cons. St., Sez. III,
30.09.2014, n. 4865].
In reiezione del correlativo, ulteriore profilo di censura,
deve ritenersi legittima la mancata indicazione delle parti
o quote di esecuzione delle prestazioni assegnate alle
imprese consorziate della mandataria Manital s.c.p.a.,
trattandosi di consorzio stabile che, a norma dell’art. 34,
comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006, è assoggettato
alla disciplina dell’art. 36 d.lgs. n. 163 del 2006, il cui
comma 5 si limita a richiedere l’indicazione delle imprese
consorziate per le quali il consorzio concorre, mentre la
disciplina di cui all’art. 37 d.lgs. n. 163 del 2006,
invocata dall’odierna appellante, in virtù del richiamo
contenuto nell’art. 34, comma 1, lett. d) ed e), d.lgs. n.
163 del 2006, si applica ai raggruppamenti d’impresa ed ai
consorzi ordinari, e non anche ai consorzi stabili (v. sul
punto, per tutte, Cons. St., Sez. V, 13.10.2010, n. 7470).
6.2.2. Destituito di fondamento è il motivo sub 3.d) –con
cui è stata dedotta l’illegittima duplicazione dei requisiti
di qualificazione economico-finanziaria [con particolare
riguardo al dichiarato fatturato specifico nel biennio, ai
sensi del punto III.2.2 lett. b) del bando] nell’ambito
dell’a.t.i. Manitalidea, sotto il profilo che la mandataria
Manitalidea s.p.a sarebbe, a sua volta, consorziata del
consorzio stabile Manital s.c.p.a., associata dell’a.t.i.
aggiudicataria–, in quanto, per un verso, la documentazione
richiesta (e prodotta) in sede di gara (di cui al punto 6
del disciplinare, non specificamente impugnato) deve
ritenersi idonea a consentire una valutazione compiuta del
requisito del fatturato specifico (mentre rientrava nella
discrezionalità tecnica della stazione appaltante chiedere
eventuali integrazioni e chiarimenti, in caso di ritenuta
incertezza probatoria), e, per altro verso, dalla
documentazione versata in giudizio emerge de plano che il
fatturato specifico dichiarato dalla mandataria Manitalidea
s.p.a. deriva da una serie di specifici contratti intestati
esclusivamente a detta società e non concorre al
raggiungimento del fatturato dichiarato dalla mandante
Manital s.c.p.a., mentre il fatturato dichiarato da
quest’ultima è imputabile ad una serie di specifici
contratti intestati esclusivamente a Manital s.c.p.a. e non
concorre al raggiungimento del fatturato dichiarato dalla
mandataria (v. dichiarazione ex art. 47 d.P.R. n. 445 del
2000 della società di revisione Aleph Auditing s.r.l. del
09.07.2012, resa ad integrazione di precedente dichiarazione
del 26.09.2011).
6.2.3. Del pari infondata è la doglianza relativa alla
mancanza di dichiarazioni di moralità professionale ex art.
38, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006, in relazione ad un
procuratore speciale (cessato dalla carica) della
Manitalidea s.p.a. (Longoni Paolo), un procuratore speciale
(cessato dalla carica) del consorzio Manital s.c.p.a. (Serra
Domenico), un procuratore speciale della consorziata Res
Nova s.p.a. (Roperto Francesco) e un responsabile tecnico
della consorziata Futuro 2000 (Li Vigni Pietro), in quanto:
- il disciplinare di gara prevede l’onere dichiarativo con
riguardo ai «procuratori dotati di poteri decisionali
rilevanti e sostanziali che non siano di sola rappresentanza
esterna dell’impresa»;
- i primi due procuratori speciali, Longoni e Serra, non
solo erano cessati dalla carica ed il disciplinare non si
riferiva espressamente anche ai procuratori cessati, ma i
poteri conferiti al primo erano limitati a contratti di
valore non superiore ad euro 2.000.000, e, dunque, sono da
ritenersi del tutto sproporzionati, per difetto, rispetto al
valore dei lotti in questione, con conseguente
inconfigurabilità di un potere gestorio idoneo a
considerarlo amministratore di fatto soggetto all’obbligo
dichiarativo in esame, mentre il secondo risulta munito di
procura speciale risalente al 06.02.2003, di durata annuale
a decorrere dalla firma della medesima, con conseguente
sostanziale cessazione dalla carica ampiamente prima del
triennio antecedente la data di pubblicazione del bando
(sebbene dalla certificazione CC.I.A.A. risulti la formale
iscrizione della cessazione solo a far tempo dal
05.05.2008);
- pure al procuratore speciale della consorziata Res Nova
s.p.a. (Roperto Francesco) non risultano essere stati
conferiti poteri gestori assimilabili a quelli propri di un
amministratore di fatto, essendo allo stesso conferiti
poteri di rappresentanza limitatamente ad una specifica
commessa esulante dall’ambito oggettivo della presente gara
d’appalto;
- in difetto di espressa previsione della lex specialis,
l’onere dichiarativo ex art. 38, commi 1 e 2, d.lgs. n. 163
del 2006 non può ritenersi esteso anche alla figura del
responsabile tecnico (nella specie, al sign. Li Vigni
Pietro, responsabile tecnico della consorziata Futuro 2000),
né risulta dimostrata l’effettiva insussistenza del
requisito in capo al medesimo (sul principio secondo cui, in
caso di mancata comminatoria di esclusione contenuta nella
lex specialis con riguardo alle dichiarazioni di
moralità professionale relative a determinate categorie di
cariche sociali e/o aziendali, l’esclusione non può essere
disposta per la mera omessa dichiarazione, ma solo qualora
si riscontri l’effettiva assenza del requisito, v. Ad. Plen.
16.10.2013, n. 23).
6.2.4. Infine, in reiezione del motivo sub 3.g), dedotto in
via subordinata, è sufficiente rilevare che l’art. 12 d.l.
07.05.2012, n. 52, convertito nella legge 06.07.2012, n. 94,
ha innovativamente previsto l’obbligo della commissione di
gara di aprire in seduta pubblica i plichi contenenti le
offerte tecniche, mentre, per le procedure concluse o
pendenti alla data del 09.05.2012, ha previsto la sanatoria
del vizio ritenuto sussistente dalla sentenza Ad. Plen. n.
13/2011, per il caso in cui i medesimi plichi siano stati
aperti in seduta riservata, di guisa che l’obbligo della
seduta pubblica per la fase di apertura dei plichi
contenenti le offerte tecniche va ritenuto sussistente solo
per le gare indette dopo l’entrata in vigore della citata
disposizione, con la conseguenza che l’invocata disciplina
non risulta applicabile ratione temporis alla gara
sub iudice [trattandosi di gara indetta nel luglio 2010,
ed essendo l’apertura dei plichi contenenti le offerte
tecniche avvenuta il 17.02.2011 (in seduta riservata)]
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 14.11.2014 n. 5608
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PUBBLICO
IMPIEGO:
Ove dalle proposte rivolte dai pubblici ufficiali
anche le presunte vittime finiscano per ricevere un indebito
vantaggio, il fatto dev’essere qualificato non come
concussione ma come induzione indebita, in quanto la vittima
accetta la proposta del pubblico ufficiale non per evitare
un male ingiusto, ma per conseguire un vantaggio indebito.
4.2. Le conclusioni della Corte territoriale non possono
essere condivise, dovendo riconoscersi la fondatezza dei
motivi dedotti dai ricorrenti, soprattutto a seguito
dell’intervento delle Sezioni unite di questa Corte che, con
la sentenza n. 12228 del 24.10.2013 (ric. Maldera ed altri),
hanno chiarito la distinzione tra concussione e il nuovo
reato di induzione, superando, almeno in parte, alcune
incertezze applicative e interpretative registratesi
all’interno della stessa Cassazione.
La sentenza impugnata ha, in sostanza, ritenuto che le
condotte poste in essere dagli imputati abbiano dato luogo a
vere e proprie forme di costrizione, rispetto alle quali le
vittime non hanno potuto far altro che accettare le proposte
ricevute dai pubblici ufficiali.
Secondo la citata sentenza delle Sezioni unite la
costrizione, cui oggi fa riferimento esclusivo l’articolo
317 c.p., coincide con il concetto di minaccia, intesa come
annuncio da parte dell’agente di un male o danno ingiusto ,
ossia una condotta illecita in grado di incutere timore in
chi la percepisce, così da pregiudicarne l’integrità del
benessere psichico e la libertà di autodeterminazione,
precisando che può assumere anche forme implicite o allusive
o addirittura presentarsi come un consiglio, un’esortazione
purché evidenzi comunque una carica oggettivamente
intimidatoria.
Pertanto la concussione, che origina da un abuso della
qualità o dei poteri, si concretizza nel prospettare un male
ingiusto così da porre la vittima in una condizione di
sostanziale mancanza di alternativa, tale da cedere la
propria disponibilità a dare o promettere una qualche
utilità sapendo che non è dovuta, pur di evitare il male più
grave minacciato.
Diversamente, come è noto, nel reato previsto dall’articolo
319-quater c.p. viene replicato il riferimento all’abuso
della qualità e dei poteri da parte del soggetto attivo, ma
l’elemento oggettivo della sua condotta consiste
nell’indurre taluno a dare o promettere indebitamente. Viene
così realizzato quello sdoppiamento, con definitiva
separazione, della costrizione e dell’induzione ,
indistintamente richiamate nell’originaria formulazione
dell’articolo 317 c.p. prima della riforma di cui alla Legge
06.11.2012, n. 190.
Oggi, come avvertono le Sezioni unite, a seguito di tale
modifica normativa ai due concetti deve necessariamente
attribuirsi un diverso significato non solo in senso
naturalistico, dal momento che il verbo indurre cui si
riferisce l’articolo 319-quater c.p., svolge una funzione di
selettività residuale perché è destinato a coprire quegli
spazi non riferibili alla costrizione di cui all’articolo
317 c.p., cioè quei comportamento pur sempre abusivi, ma che
non si concretizzino nella minaccia di un male ingiusto e,
quindi, non pongano il destinatario dinanzi ad una
alternativa obbligata tra due mali ingiusti.
Coerentemente l’induzione si caratterizza per avere
l’attitudine ad alterare comunque il processo volitivo
altrui, ma lasciando, rispetto alla costrizione, un margine
maggiore di decisione autonoma, tale da far ritenere che
l’indotto possa resistere alle pressioni indebite, con la
conseguenza che in caso di adesione a tali pressioni si
giustifichi la sua punibilità.
Non è un caso che la sentenza Maldera delle Sezioni unite
individui nella previsione della punibilità del privato il
vero indice rivelatore del significato dell’induzione .
Nella dimensione dell’articolo 319-quater c.p. la volontà
del privato non viene piegata dalla pressione del soggetto
attivo, ma solo condizionata ed orientata da pressioni
psichiche che possono assumere diverse forme, ma tutte
diverse dalla minaccia (e dalla violenza), quindi prive del
carattere tendenzialmente coartante.
Per questa ragione le Sezioni unite, nella citata sentenza
Maldera, finiscono per assumere quale criterio distintivo
tra i due concetti la dicotomia minaccia–non minaccia,
riconoscendo che può essere induzione una condotta quale la
persuasione, la suggestione, l’allusione, lo stesso
silenzio, purché non si risolva in una forma di minaccia
implicita di un danno antigiuridico senza alcun vantaggio
indebito per il privato.
Infine, è il vantaggio indebito che individua la fattispecie
induttiva e che, come si è detto, giustifica la punibilità
dell’indotto così come prevista dall’articolo 319-quater
c.p., comma 2, in quanto da costui l’ordinamento penale
esige il dovere di resistere alla pressione. In questo modo
il legislatore si propone lo scopo di disincentivare forme
di sfruttamento opportunistico della relazione viziata
dall’abuso della controparte pubblica imponendo al privato,
nei rapporti con l’amministrazione, di non perseguire
vantaggi ingiusti che possono derivare anche da situazioni
generate da abusi patiti ad opera di funzionari pubblici.
La conclusione cui giungono le Sezioni unite, con la
decisione più volte citata, è che il reato di induzione
indebita si configura quando il funzionario pubblico pone in
essere l’abuso induttivo operando da una posizione di forza
e sfruttando la situazione di debolezza del privato che
presta acquiescenza alla richiesta, non per evitare un danno
ingiusto, ma per conseguire un vantaggio indebito. E’
evidente la collocazione della nuova induzione a metà strada
tra la concussione e la corruzione: della prima conserva
l’elemento dello sfruttamento della posizione di potere di
cui l’agente abusa; della corruzione eredita la
plurisoggettività della struttura del reato che diventa a
concorso tendenzialmente necessario.
Come molto opportunamente avverte la sentenza Maldera, i
parametri del danno ingiusto e del vantaggio indebito,
individuati per distinguere la concussione dall’induzione,
non sempre riescono a raggiungere lo scopo, in quanto in
talune fattispecie concrete possono presentarsi
contemporaneamente, sicché spetta all’interprete valutare a
quale di essi attribuire maggiore significatività.
Ai criteri sopra sinteticamente esposti il Collegio ritiene
di adeguarsi nell’accertamento della corretta qualificazione
dei fatti oggetto di contestazione nel presente processo.
5. La Corte d’appello di Palermo ha bene evidenziato in
fatto che gli imputati utilizzavano sempre la stessa tecnica
per convincere le proprie vittime ad aderire alle loro
proposte: effettuavano controlli presso gli esercizi
commerciali che reputavano appetibili, talvolta anche al di
fuori della loro competenza territoriale, rappresentando ai
titolari la gravità della situazione riscontrata e le
possibili conseguenze per l’attività commerciale, come la
chiusura ovvero il pagamento di sanzioni elevate, quindi
proponevano una soluzione da cui derivava per loro una
utilità, soluzione che la vittima accettava per evitare le
possibili conseguenze dei controlli effettuati: così è
accaduto per quanto riguarda gli episodi presso la rivendita
di automobili del (OMISSIS), presso l’autorimessa del
(OMISSIS) e presso il negozio dell’(OMISSIS); lo stesso è
avvenuto negli altri due episodi ai danni di (OMISSIS) e di
(OMISSIS).
I giudici hanno osservato che in tutti i capi di imputazione
risulta contestata specificamente la condotta di costrizione
e mai quella di induzione, rilevando che in tutte le
fattispecie i pubblici ufficiali non si sono limitati a
determinare, in maniera subdola e larvata, uno stato di
soggezione nel soggetto passivo al fine di vedere
soddisfatte le loro legittime pretese ma esplicitarono, in
modo palese, le loro intenzioni nei confronti dei soggetti
passivi, costringendo questi ultimi a conferire ai predetti
le utilità richieste al fine di non subire le conseguenze
loro prospettate, consistite, nella maggior parte dei casi,
nella chiusura dell’attività commerciale (…) ed in altri
nell’irrogazione di multe salatissime che avrebbero potuto
avere effetti nefasti sulla prosecuzione dell’attività
d’impresa.
In questo modo, il carattere costrittivo delle condotte
viene messo in relazione alla manifestazione esplicita delle
pretese illegittime dei vigili urbani, con una
argomentazione che non dimostra la natura minatoria delle
richieste e, inoltre, non prende in minima considerazione il
vantaggio indebito che le presunte vittime hanno conseguito
nei vari episodi contestati: infatti, risulta apodittica
l’affermazione della sentenza là dove assume che le persone
offese non sono state poste nella facoltà di operare una
libera scelta, ma sono state costrette ad erogare le
prestazioni richieste per non patire il pregiudizio
minacciato.
Invece, emerge con una certa evidenza, dalla stessa
ricostruzione dei fatti contenuta nella sentenza, che gli
imputati non hanno posto in essere condotte minacciose,
rientranti nel concetto di costrizione come sopra inteso, in
quanto prospettare l’applicazione di multe ovvero la
chiusura di attività in presenza di violazioni
amministrative effettivamente riscontrate non coincide con
il prospettare un danno contra ius. Infatti, in tutti
gli episodi contestati, gli imputati rappresentavano,
sicuramente in maniera subdola, le possibili conseguenze che
potevano derivare dagli illeciti amministrativi dopo avere
accertato tali illeciti, a cui potevano effettivamente
seguire le multe e, in alcuni casi più gravi, la chiusura
dell’attività.
Ma soprattutto, i giudici non hanno considerato che dalle
proposte rivolte dai pubblici ufficiali anche le presunte
vittime finivano per ricevere un indebito vantaggio: in
tutti gli episodi le vittime accettano le proposte degli
imputati non per evitare un male ingiusto, ma per conseguire
il vantaggio indebito di non pagare le multe ed evitare la
chiusura dei loro esercizi commerciali.
(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) dinanzi alla
contestazione degli illeciti amministrativi e alla
successiva proposta rivolta loro dagli imputati vi
aderiscono opportunisticamente per conseguire comunque un
vantaggio indebito, adesione che non comporta la
configurabilità di una ipotesi di corruzione proprio perché
la condotta dei pubblici funzionari rientra nel concetto di
induzione, nel senso che da parte loro vi è stata una
condotta persuasiva e suggestiva realizzata abusando della
posizione rivestita, che ha condizionato fortemente il
processo formativo della volontà delle vittime, sicché deve
escludersi la sussistenza di un accordo corruttivo che
necessità di una base paritaria. Un discorso analogo deve
essere fatto anche per l’episodio in cui è stato
riconosciuto il tentativo di concussione.
Identica è stata la strategia dell’imputato che ha prima
contestato al (OMISSIS) una serie di violazioni per le
autovetture dell’autosalone parcheggiate irregolarmente e
successivamente gli ha proposto una permuta per l’acquisto
di un’auto in esposizione, attraverso una pressione morale
con una capacità di condizionare la libertà di
autodeterminazione più blanda, che ha lasciato al
destinatario un ampio margine di decisione, tanto da
rifiutare la proposta, situazione che giustifica la
riqualificazione in termini di induzione tentata.
D’altra parte, la sussistenza del vantaggio indebito
ricavato dai privati assurge a criterio discriminante
rispetto alla ritenuta ipotesi di concussione e orienta
definitivamente a favore dell’induzione indebita di cui
all’articolo 319-quater c.p., che deve essere inteso nella
sua specifica unitarietà di reato plurisoggettivo a concorso
necessario, in cui devono confluire le condotte delle due
parti protagoniste.
Ne consegue che ai fini della riqualificazione non ha
rilievo la circostanza che nella specie non possano essere
presi in considerazione ai fini della responsabilità i
soggetti indotti, dovendo farsi comunque riferimento al
reato così come configurato in astratto dalla norma
incriminatrice (Corte
di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 13.11.2014 n. 47014 -
link a http://renatodisa.com). |
CONDOMINIO: Distacco senza oneri «eccessivi».
Riscaldamento. La Cassazione chiarisce che non si può
chiedere il rimborso di quanto già pagato.
In caso di distacco, il
regolamento non può prevedere oneri economici eccessivi a
carico del distaccato. D’altro canto, anche se è stato
determinato da insufficienza di erogazione di calore
dell’impianto centralizzato, il condomino non può chiedere
in restituzione quanto già pagato.
Sul punto si è pronunziata la Corte di Cassazione -Sez. II
civile- con
sentenza 13.11.2014 n. 24209.
La Corte, aderendo all’ormai consolidato orientamento
giurisprudenziale, ha confermato la legittimità del distacco
per il quale, sussistendo i presupposti, non era (così come
non lo è oggi a seguito della riforma del condominio)
necessaria alcuna approvazione o autorizzazione da parte dei
condomini.
Per quanto attiene alla determinazione delle spese che il
condomino deve continuare a pagare, è utile richiamare altra
sentenza della Corte di cassazione (sentenza 9526/2014) che,
pur pronunziandosi su un caso avvento anni addietro, ha
colto l’occasione per fare chiarezza su un punto dubbio
contenuto nella riforma del condominio.
È infatti stato
ribadito il principio in base al quale a seguito del
distacco, gli altri condòmini devono essere tenuti indenni
da aggravi di spese. Pertanto il distaccato continua a
essere obbligato a partecipare alle spese di manutenzione e
di consumo del carburante o di esercizio se e nella misura
in cui il distacco non ha comportato una diminuzione degli
oneri del servizio a carico degli altri condomini. Nulla di
meno, ma neanche nulla di più.
La sentenza 24209/2014 si sofferma su quest’altro aspetto.
Se è vero che il distaccato deve tenere indenni gli altri
condomini dall’aggravio di spese, è altrettanto vero che il
regolamento condominiale non può prevedere a suo carico un
onere di contribuzione maggiore. Ne consegue che i
regolamenti (o le delibere assembleari) che hanno
determinato a forfait una quantificazione, potrebbero essere
viziati da nullità (rilevabile quindi in ogni tempo) se
prevedono un onere di spesa maggiore rispetto a quanto
dovuto.
Il caso sottoposto all’attenzione della Corte vedeva il
distacco determinato da un’insufficiente erogazione del
calore dell’impianto centralizzato. L’esonero dalla
contribuzione, però, ha effetto solo per il futuro. Il
condòmino che lamenta il disservizio non può pertanto
chiedere restituzioni o danni per quanto pagato in passato.
Il distacco è il rimedio più estremo. In caso di disservizio
il condòmino può percorrere anche altre strade. Per esempio
provocando una delibera condominiale attinente agli
eventuali interventi necessari per la piena funzionalità. In
alternativa, può rivolgersi direttamente all’autorità
giudiziaria per ottenere un provvedimento che obblighi il
condominio ad adottare tutto quanto necessario per sopperire
a guasti o deficienze. Eventualmente, se ricorrono i
presupposti, può anche richiedere il risarcimento del danno
(Cassazione, sentenza 19616/2012) (articolo Il Sole 24 Ore
del 02.12.2014).
---------------
MASSIMA
Legittima la rinuncia di un
condomino all’uso dell’impianto centralizzato anche senza
necessità di autorizzazione o approvazione da parte degli
altri condomini, purché l’impianto non ne sia pregiudicato,
con il conseguente esonero, in applicazione del principio
contenuto nell’art. 1123, II cc, dall’obbligo di sostenere
le spese per l’uso del servizio centralizzato e l’obbligo di
pagare solo le spese di conservazione
(link a http://renatodisa.com). |
APPALTI: Onere
dichiarativo ex art. 38 D.Lgs. 163/2006. Esteso agli
institori. Nozione di institore. Sussistenza della
preposizione institoria. Difetto probatorio. Delegati ai
sensi dell’art. 2 Legge n. 287/1991. Preposti ai sensi
dell’art. 71 D.Lgs. 59/2010.
1.1. L’institore, secondo parte
della giurisprudenza, rientra tra i soggetti indicati
dall'art. 38 d.lgs. 163/2006, ed è tenuto, quindi, a rendere
la correlata dichiarazione attestante il possesso dei
requisiti di ordine generale.
1.2. Ai sensi dell’art. 2203 c.c. “È institore colui che è
preposto dal titolare all'esercizio di un'impresa
commerciale”. L’institore è, dunque, tra gli ausiliari
subordinati dell'imprenditore, quello fornito dei maggiori
poteri di rappresentanza e di amministrazione dell’impresa,
così da essere definito un “alter ego” dell’imprenditore.
1.3. Perché un determinato dipendente possa essere
qualificato institore occorre avere riguardo al tipo di
poteri ad esso conferiti, potendosi ravvisare una vera e
propria preposizione institoria solo laddove risulti
l’attribuzione al soggetto degli ampi poteri rappresentativi
che connotano la figura e che normalmente risultano
contenuti nella procura a questi conferita, che è pure è
soggetta a pubblicità mediante inserimento nel registro
delle imprese.
1.4. La giurisprudenza ha costantemente collegato
l’accertamento della sussistenza della preposizione
institoria alla produzione documentale acquisita agli atti
del giudizio. La giurisprudenza ha altresì rilevato come
l’individuazione dei dipendenti muniti di poteri institori
deve essere effettuata non solo in base alle qualifiche
formali possedute, ma anche alla stregua dei poteri
sostanziali attribuiti, con conseguente inclusione, nel
novero dei soggetti muniti di poteri di rappresentanza,
delle sole persone fisiche in grado di impegnare la società
verso i terzi.
1.5. Al fine di ritenere sussistente l’esistenza di poteri
rappresentativi non è sufficiente il mero richiamo all’art.
2 della legge 287/1991, norma peraltro oggi abrogata ad
opera del d.lgs. n. 59/2011, atteso che la disposizione in
questione, alla luce del suo letterale tenore e della sua
stessa ratio, finalizzata alla regolamentazione
dell’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e
bevande, nulla dice sulla necessità che il delegato iscritto
fosse munito di poteri rappresentativi, né collegava in via
automatica alla esistenza della delega il conferimento di
poteri qualificabili come institori.
1.6. Al fine di ritenere sussistente l’esistenza di poteri
rappresentativi non è sufficiente il mero richiamo al
termine “persona preposta all’attività commerciale”
contenuto nell’art. 71 del d.lgs. 59/2010, laddove difetti
la prova dell’esistenza della citata “preposizione”
all’attività commerciale o ad un ramo di essa.
Come noto, l’articolo 2203 del codice civile stabilisce che
“È institore colui che è preposto dal titolare
all'esercizio di un'impresa commerciale”.
L’institore è, dunque, tra gli ausiliari subordinati
dell'imprenditore, quello fornito dei maggiori poteri di
rappresentanza e di amministrazione dell’impresa, così da
essere definito un “alter ego” dell’imprenditore.
Perché un determinato dipendente possa essere qualificato
institore occorre avere riguardo al tipo di poteri ad esso
conferiti, potendosi ravvisare una vera e propria
preposizione institoria solo laddove risulti l’attribuzione
al soggetto degli ampi poteri rappresentativi che connotano
la figura e che normalmente risultano contenuti nella
procura a questi conferita, che è pure è soggetta a
pubblicità mediante inserimento nel registro delle imprese
(TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 08.03.2010, n. 311).
Proprio in considerazione della specialità della disciplina
applicabile, la giurisprudenza ha costantemente collegato
l’accertamento della sussistenza della preposizione
institoria alla produzione documentale acquisita agli atti
del giudizio (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 14.02.2011,
n. 939 e TAR Calabria, Catanzaro, n. 311/2010, cit. che
rileva come “principio fondamentale è che i poteri
dell'institore sono determinati in relazione al contenuto
della preposizione”).
La giurisprudenza ha pure rilevato come l’individuazione dei
dipendenti muniti di poteri institori deve essere effettuata
non solo in base alle qualifiche formali possedute, ma anche
alla stregua dei poteri sostanziali attribuiti, con
conseguente inclusione, nel novero dei soggetti muniti di
poteri di rappresentanza, delle sole persone fisiche in
grado di impegnare la società verso i terzi (TAR Veneto,
Venezia, sez. I, 18.11.2010, n. 6069).
Nel caso in esame, parte ricorrente si è limitata a desumere
la sussistenza dei poteri institori dal fatto che sei
collaboratori siano indicati, nella visura camerale, come
delegati ai sensi dell’art. 2 della legge 287 del 25.08.1991
e dalla esistenza di uno scontrino rilasciato da un bar
gestito dalla controinteressata, che peraltro non menziona
l’esistenza di un eventuale preposto.
La visura camerale, tuttavia, che pure contempla, in altra
parte, i soggetti muniti di poteri institori, nulla dice in
ordine ai poteri attribuiti ai delegati iscritti nel
registro degli esercenti il commercio, né risultano prodotti
in atti ulteriori documenti dai quali desumere i concreti
poteri attribuiti.
Al fine di ritenere sussistente l’esistenza di poteri
rappresentativi non è, infine, sufficiente il mero richiamo
all’art. 2 della legge 287/1991, norma peraltro oggi
abrogata ad opera del d.lgs. n. 59/2011, atteso che la
disposizione in questione, alla luce del suo letterale
tenore e della sua stessa ratio, finalizzata alla
regolamentazione dell’attività di somministrazione al
pubblico di alimenti e bevande, nulla dice sulla necessità
che il delegato iscritto fosse munito di poteri
rappresentativi, né collegava in via automatica alla
esistenza della delega il conferimento di poteri
qualificabili come institori.
Neppure probante appare il richiamo al termine “persona
preposta all’attività commerciale” contenuto nell’art.
71 del d.lgs. 59/2010, peraltro neppure direttamente
applicabile alla fattispecie in esame, risultando l’impianto
probatorio del ricorso carente proprio in punto di prova
dell’esistenza della citata “preposizione”
all’attività commerciale o ad un ramo di essa.
La mancanza di poteri institori nei soggetti indicati come
delegati nella visura camerale comporta la reiezione della
unica censura articolata in ricorso
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
TAR Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza 13.11.2014 n. 11403 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria per
opere ricadenti in zone sottoposte a vincolo, nella specie
previsto dall’art. 32 l. n. 47 del 1985, l’esistenza del
vincolo va valutata al momento in cui deve essere presa in
considerazione la domanda di condono, a prescindere
dall’epoca della sua introduzione e, quindi, anche per le
opere eseguite anteriormente all’apposizione del vincolo in
questione; tale valutazione corrisponde all’esigenza di
vagliare l’attuale compatibilità, con il vincolo, dei
manufatti realizzati abusivamente.
---------------
In relazione alla disciplina del condono edilizio della l.
n. 47 del 1985 e delle connesse questioni (poste dall’art.
33) relative ai procedimenti di condono riguardanti
territori con vincoli di inedificabilità relativa, si deve
avere riguardo al regime vincolistico sussistente alla data
di esame della domanda di sanatoria, secondo il principio
tempus regit actum; quanto ai vincoli di inedificabilità
assoluta, se è vero che alla stregua dell’art. 33 l. n. 47
del 1985 il vincolo di inedificabilità assoluta non può
operare in modo retroattivo, tuttavia non si può considerare
inesistente per il solo fatto che sia sopravvenuto
all’edificazione (ciò che paradossalmente porterebbe a
ritenere senz’altro sanabili gli interventi, i quali
pertanto fruirebbero di un regime più favorevole di quello
riservato agli abusi interessati da vincoli sopravvenuti di
inedificabilità relativa).
Pertanto, se il vincolo di inedificabilità assoluta
sopravvenuto non può considerarsi sic et simpliciter
inesistente, ne discende che gli va applicato lo stesso
regime della previsione generale dell’art. 32, 1º comma,
stessa l. n. 47 del 1985, che subordina il rilascio della
concessione in sanatoria per opere su aree sottoposte a
vincolo al parere favorevole dell’autorità preposta alla
tutela del vincolo medesimo.
Quanto argomentato in merito alla verifica del vincolo al
momento in cui l’istanza di condono viene ad essere
esaminata, è in linea con la giurisprudenza di questo
Consiglio.
È ius receptum, infatti, che, in sede di rilascio della
concessione edilizia in sanatoria per opere ricadenti in
zone sottoposte a vincolo, nella specie previsto dall’art.
32 l. n. 47 del 1985, l’esistenza del vincolo va valutata al
momento in cui deve essere presa in considerazione la
domanda di condono, a prescindere dall’epoca della sua
introduzione e, quindi, anche per le opere eseguite
anteriormente all’apposizione del vincolo in questione; tale
valutazione corrisponde all’esigenza di vagliare l’attuale
compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati
abusivamente (ex multis: Cons. Stato, Ad. plen., 22.07.1999, n. 20; IV, 29.11.2012, n. 6082; IV, 11.03.2013, n. 1464; VI, 31.05.2013, n. 3015).
In relazione alla disciplina del condono edilizio della l.
n. 47 del 1985 e delle connesse questioni (poste dall’art.
33) relative ai procedimenti di condono riguardanti
territori con vincoli di inedificabilità relativa, si deve
avere riguardo al regime vincolistico sussistente alla data
di esame della domanda di sanatoria, secondo il principio
tempus regit actum; quanto ai vincoli di inedificabilità
assoluta, se è vero che alla stregua dell’art. 33 l. n. 47
del 1985 il vincolo di inedificabilità assoluta non può
operare in modo retroattivo, tuttavia non si può considerare
inesistente per il solo fatto che sia sopravvenuto
all’edificazione (ciò che paradossalmente porterebbe a
ritenere senz’altro sanabili gli interventi, i quali
pertanto fruirebbero di un regime più favorevole di quello
riservato agli abusi interessati da vincoli sopravvenuti di
inedificabilità relativa); pertanto, se il vincolo di
inedificabilità assoluta sopravvenuto non può considerarsi
sic et simpliciter inesistente, ne discende che gli va
applicato lo stesso regime della previsione generale
dell’art. 32, 1º comma, stessa l. n. 47 del 1985, che
subordina il rilascio della concessione in sanatoria per
opere su aree sottoposte a vincolo al parere favorevole
dell’autorità preposta alla tutela del vincolo medesimo
(Cons. Stato, sez. VI, 06.05.2013, n. 2409) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 12.11.2014 n. 5549 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
È diffamazione definire moroso un condomino al di
fuori dell’assemblea e davanti a terzi estranei.
La critica nei confronti di un condomino può legittimamente
estrinsecarsi all’interno di un’assemblea condominiale o nei
rapporti con l’amministratore, ma non può di certo
legittimare affermazioni offensive rivolte nei confronti di
terzi, tanto più se ignari ospiti della persona offesa (con
riferimento alla condotta di colui che aveva definito un
condomino “moroso” e “aduso a non pagare le rate
condominiali”).
1. Il ricorso è infondato; occorre considerare, prima di
tutto, che il travisamento, per essere rilevante in sede di
legittimità, deve essere di tale portata da scardinare il
costrutto argomentativo della sentenza; nel caso di specie
la verità oggettiva dei fatti dedotta dal ricorrente attiene
esclusivamente al mancato pagamento delle spese
condominiali, circostanza che non avrebbe comportato
comunque la sussistenza della invocata scriminante del
diritto di critica, sia perché la parte lesa, pur ammettendo
di non aver pagato le spese condominiali, ha sostenuto di
essere a sua volta in credito con il condominio (il che
esclude la sua morosità, quantomeno fino a prova del
contrario), sia perché il diritto di critica deve essere
esercitato nel giusto contesto e tale non era certamente
quello in cui si è manifestata la frase diffamatoria.
2. La critica nei confronti di un condomino può
legittimamente estrinsecarsi all’interno di un’assemblea
condominiale o nei rapporti con l’amministratore, ma di
certo non può legittimare affermazioni offensive rivolte nei
confronti di terzi, tanto più se, come nel caso di specie,
ignari ospiti della persona offesa.
3. Nel caso di specie, poi, l’intento diffamatorio era
implicito, ma evidente, né va dimenticato che il vizio di “travisamento
della prova” può essere dedotto solo nell’ipotesi di
decisione di appello difforme da quella di primo grado, in
quanto nell’ipotesi di doppia pronuncia conforme il limite
del “devolutum” non può essere superato ipotizzando
recuperi in sede di legittimità, salva l’ipotesi in cui il
giudice di appello, al fine di rispondere alle critiche
contenute nei motivi di gravame, richiami atti a contenuto
probatorio non esaminati dal primo giudice (Cassazione
penale, sez. 2, 28.05.2008, n. 25883).
In tema di ricorso per cassazione, quando ci si trova
dinanzi a una “doppia pronuncia conforme” e cioè a
una doppia pronuncia (in primo e in secondo grado) di eguale
segno (vuoi di condanna, vuoi di assoluzione), l’eventuale
vizio di travisamento può essere rilevato in sede di
legittimità, ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c),
solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con
specifica deduzione) che l’argomento probatorio
asseritamente travisato è stato per la prima volta
introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del
provvedimento di secondo grado (sez. 4, n. 20395 del
10.02.2009) (Corte
di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 11.11.2014 n. 46498 -
link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
La società titolare di
concessione per lo sfruttamento delle sorgenti di acqua
minerale laddove chiede al comune il rilascio di concessioni
edilizie per la realizzazione di un nuovo padiglione dello
stabilimento termale deve versare il contributo di
costruzione.
Con il ricorso introduttivo del giudizio la società <Terme
di Montepulciano s.p.a.>, titolare di concessione per lo
sfruttamento delle sorgenti di acqua minerale in località S.
Albino, espone di aver ottenuto dal Comune di Montepulciano
il rilascio di concessioni edilizie per la realizzazione di
un nuovo padiglione dello stabilimento termale (n. 234 del
1994, n. 21 del 1995, n. 213 del 1995).
La società ricorrente riferisce altresì di aver chiesto e
ottenuto dall’Amministrazione comunale la sospensione del
pagamento degli oneri concessori, nell’attesa dell’esito del
contenzioso relativo alla loro debenza, garantendo la
sospensione stessa dal rilascio di polizze fideiussorie.
Con la presenta azione la società ricorrente chiede
l’accertamento della non debenza degli oneri concessori
relativi alle opere edili autorizzate, ciò ai sensi
dell’art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 10 del 1977,
nonché dell’obbligo dell’Amministrazione di restituire le
somme versate in acconto e di svincolare le garanzie
fideiussorie.
Il Comune di Montepulciano non si è costituito in giudizio.
...
Il ricorso non può essere
accolto.
L’art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 10 del 1977
richiede, affinché un certo intervento edilizio risulti
gratuito (cfr., da ultimo, la sentenza della Sezione n. 1596
del 2014), la ricorrenza di due requisiti, da un lato
il <requisito oggettivo> (deve trattarsi della
edificazione di opera pubblica o di interesse generale) e
dall’altro il <requisito soggettivo> (essere
opere realizzate da “enti istituzionalmente competenti”).
Nella specie i suddetti requisiti non paiono sussistere.
In particolare deve evidenziarsi che il soggetto richiedente
è una società per azioni, che ha un oggetto sociale
commerciale (mirando al “commercio sotto qualsiasi forma
delle acque delle fonti e dei fanghi”: cfr. statuto
societario sub doc. 1 di parte ricorrente) e che quindi non
può rientrare nel concetto normativo di “enti
istituzionalmente competenti”; è vero che la
giurisprudenza estende l’applicazione dell’invocato art. 9,
comma 1, lett. f), della legge n. 10 del 1977 anche oltre i
confini soggettivi dell’ente pubblico, ma richiedendo che il
soggetto privato non agisca per fini di lucro e abbia un “legame
istituzionale con l’azione amministrativa volta alla cura di
interessi pubblici” (Cons. Stato, sez. 4^, 28.10.2011,
n. 5799; id. 08.11.2011, n. 5903), elementi assenti nella
fattispecie.
Qui si è in presenza di una società lucrativa che vuole “realizzare
un nuovo padiglione” nel proprio stabilimento termale,
attività edificatoria che non può dirsi sottratta al
pagamento degli oneri concessori
(TAR Toscana, Sez.
III,
sentenza 11.11.2014 n. 1758 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: A
mente dell'art. 9, t.u. ed. costituisce regola generale ed
imperativa, in materia di governo del territorio, il
rispetto delle previsioni del p.r.g. che impongano, per una
determinata zona, la pianificazione di dettaglio: tali
prescrizioni -di solito contenute nelle n.t.a.- sono
vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto
costruttivo.
Corollari immediati di tale principio fondamentale sono:
a) che quando lo strumento urbanistico generale prevede che
la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di
livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può
essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento
esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando è
concluso il relativo procedimento;
b) che in presenza di una normativa urbanistica generale che
preveda per il rilascio del titolo edilizio in una
determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è
consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla
situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa;
c) l'insurrogabilità dell'assenza del piano attuativo con
l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del
rilascio del titolo edilizio; invero, l'obbligo
dell'interessato di realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione è idoneo a sopperire solo alla mancanza
fisica e materiale di tali opere ma non è in grado di
colmare l'assenza dello strumento esecutivo;
d) l'inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo,
circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa
o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a
verificare se sia tecnicamente possibile edificare
vanificando la funzione del piano attuativo, la cui
indefettibile approvazione, se ritarda, può essere stimolata
dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema;
e) la necessità dello strumento attuativo anche in presenza
di zone parzialmente urbanizzate che sono comunque esposte
al rischio di compromissione dei valori urbanistici e nelle
quali la pianificazione di dettaglio può conseguire
l'effetto di correggere e compensare il disordine
edificativo in atto.
---------------
Alla luce di tale normativa la giurisprudenza ha
individuato, tuttavia, un’eccezione a tale stringente
necessaria presenza di strumenti urbanistici per la
disciplina del territorio: il cd “lotto intercluso”.
Tale fattispecie si realizza, secondo tale impostazione,
allorquando l'area edificabile di proprietà del richiedente:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da
costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie
e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto
conforme al p.r.g.
In sintesi, si consente l’intervento costruttivo diretto
purché si accerti la sussistenza di una situazione di fatto
perfettamente corrispondente a quella derivante
dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo di evitare
defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di
attività procedimentale per l'ente pubblico.
Quindi, lo strumento urbanistico deve considerarsi superfluo
posto che è stata ormai raggiunta la piena edificazione e
urbanizzazione della zona interessata, raggiungendo in tal
modo la scopo e i risultati perseguiti dai piani esecutivi
(i.e. piano attuativo).
L’appello è fondato e merita accoglimento.
Dirimente è la circostanza che il lotto di proprietà del
sig. Bilancio risulta situato nella zona B del PRG, la quale
si trova in una stato di completa urbanizzazione primaria e
secondaria: ci si trova di fronte al cd. lotto intercluso,
essendo assicurata nella zona la sufficiente presenza di
opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
A mente dell'art. 9, t.u. ed. costituisce regola generale ed
imperativa, in materia di governo del territorio, il
rispetto delle previsioni del p.r.g. che impongano, per una
determinata zona, la pianificazione di dettaglio: tali
prescrizioni -di solito contenute nelle n.t.a.- sono
vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto
costruttivo (cfr. Cons. St., sez. IV, 30.12.2008, n.
6625).
Corollari immediati di tale principio fondamentale sono:
a) che quando lo strumento urbanistico generale prevede che
la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di
livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può
essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento
esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando è
concluso il relativo procedimento (cfr. Cons. St., sez. V, 01.04.1997, n. 300);
b) che in presenza di una normativa urbanistica generale che
preveda per il rilascio del titolo edilizio in una
determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è
consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla
situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa
(cfr. Cons. St., sez. IV, 03.11.2008, n. 5471);
c) l'insurrogabilità dell'assenza del piano attuativo con
l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del
rilascio del titolo edilizio; invero, l'obbligo
dell'interessato di realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione è idoneo a sopperire solo alla mancanza
fisica e materiale di tali opere ma non è in grado di
colmare l'assenza dello strumento esecutivo (cfr. Cons. Sr.,
sez. IV, 26.01.1998, n. 67; Cass. pen., sez. III, 26.01.1998, n. 302; Cons. St., sez. V, 15.01.1997, n.
39);
d) l'inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo,
circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa
o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a
verificare se sia tecnicamente possibile edificare
vanificando la funzione del piano attuativo, la cui
indefettibile approvazione, se ritarda, può essere stimolata
dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema
(cfr. Cons. St., sez. IV, 30.12.2008, n. 6625);
e) la necessità dello strumento attuativo anche in presenza
di zone parzialmente urbanizzate che sono comunque esposte
al rischio di compromissione dei valori urbanistici e nelle
quali la pianificazione di dettaglio può conseguire
l'effetto di correggere e compensare il disordine
edificativo in atto (cfr. Cass. pen., sez. III, 19.09.2008, n. 35880).
Alla luce di tale normativa la giurisprudenza ha
individuato, tuttavia, un’eccezione a tale stringente
necessaria presenza di strumenti urbanistici per la
disciplina del territorio: il cd “lotto intercluso”.
Tale fattispecie si realizza, secondo tale impostazione,
allorquando l'area edificabile di proprietà del richiedente:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da
costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie
e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto
conforme al p.r.g.
In sintesi, si consente l’intervento costruttivo diretto
purché si accerti la sussistenza di una situazione di fatto
perfettamente corrispondente a quella derivante
dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo di evitare
defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di
attività procedimentale per l'ente pubblico (cfr. Cons. St.,
sez. IV, 29.01.2008, n. 268; sez. V, 03.03.2004, n.
1013; sez. IV, Sent., 10.06.2010, n. 3699).
Quindi, lo strumento urbanistico deve considerarsi superfluo
posto che è stata ormai raggiunta la piena edificazione e
urbanizzazione della zona interessata, raggiungendo in tal
modo la scopo e i risultati perseguiti dai piani esecutivi
(i.e. piano attuativo)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.11.2014 n. 5488 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
Lottizzazioni, titoli edilizi accessibili ai confinanti.
Urbanistica, il Comune deve mostrare i titoli edilizi se il
vicino ritiene di essere danneggiato dal progetto.
Anche senza l'accesso civico previsto dalla riforma
Severino, l'amministrazione risulta tenuta a mostrare i
documenti sulla lottizzazione dopo che il confinante si è
rivolto al Tribunale contro la variante.
A stabilirlo, la
sentenza
07.11.2014 n. 923, pubblicata dal TAR
Marche.
Fuori, quindi, dall'armadio dell'ufficio, il placet al
progetto. Il Comune, infatti, è tenuto a esibire i titoli
edilizi rilevanti nell'ambito del programma di lottizzazione
se uno dei proprietari, che nel frattempo si è rivolto al
Tribunale, coinvolti nell'iniziativa ritiene di essere
danneggiato dalla variante urbanistica adottata
dall'amministrazione per il terreno attiguo al suo.
E ciò anche prima della novità legislativa rappresentata
dall'accesso civico introdotto dalla riforma Severino: a
tanto bastano le regole del testo unico dell'edilizia e
della legge sulla trasparenza amministrativa.
Il Tar Marche ha, quindi, accolto il ricorso del confinante.
L'ente locale non può, infatti, rifiutare di mostrare i
documenti al richiedente, che è comproprietario del lotto
interessato dall'intervento edilizio.
È lo stesso dpr 380/2001 a prescrivere che dopo il rilascio
di un titolo edilizio deve essere dato l'avviso all'albo
pretorio e che chiunque deve avere facoltà di accedere agli
atti del procedimento, visionando sia gli atti
amministrativi sia gli elaborati progettuali. Sul progetto
della lottizzazione, quindi, non c'è privacy che tenga.
Nella specie il vicino ha soltanto l'esigenza di verificare
la presenza di eventuali abusi edilizi o altre similari
evenienze che possano ledere la sua proprietà, il che non
implica quindi la conoscenza di dati sensibili. Diversamente
si darebbe la possibilità agli autori di abusi edilizi di
poter evitare qualsiasi controllo su impulso di parte
(articolo ItaliaOggi del 09.12.2014).
---------------
SENTENZA
3. Il ricorso è fondato e va dunque accolto.
In effetti, in materia di rilascio dei titoli edilizi
esistono specifiche disposizioni di legge e regolamentari
che, sulla scorta della nota disposizione di cui all’art. 31
della L. n. 1150/1942, come modificato dalla c.d. legge
ponte n. 765/1967, prevedono un regime di pubblicità molto
più esteso di quello che, prima dell’avvento del c.d.
diritto di accesso civico (D.Lgs. n. 33/2013), era
contemplato dalla L. n. 241/1990.
Si veda, in particolare, l’art. 20, comma 6, del T.U. n.
380/2001, nella parte in cui stabilisce che dell’avvenuto
rilascio di un titolo edilizio va dato avviso all’albo
pretorio. Tale disposizione non può che essere interpretata
nel senso che tale onere di pubblicazione è funzionale a
consentire a qualsiasi soggetto interessato di visionare gli
atti del procedimento, in ragione di quel controllo “diffuso”
sull’attività edilizia che il legislatore ha inteso
garantire (vedasi anche l’art. 27, comma 3, del DPR n.
380/2001).
4. Ma nel caso di specie non è nemmeno necessario applicare
tali disposizioni, visto che il ricorrente è comproprietario
di un lotto di terreno attiguo a quelli di proprietà della
ditta controinteressata e incluso nella medesima
lottizzazione, e che egli è stato asseritamente danneggiato
da alcune varianti urbanistiche ed edilizie che il Comune di
Recanati ha approvato negli ultimi tempi. E tale
affermazione non è meramente soggettiva, visto che pende già
davanti a questo Tribunale il ricorso con cui il sig. C.
chiede la condanna dell’amministrazione al risarcimento dei
danni.
5. Sussistono quindi tutti i presupposti di cui all’art. 24,
comma 7, L. n. 241/1990, considerato che in subiecta
materia non può essere affermata l’esistenza di un
diritto alla riservatezza in capo ai controinteressati.
In effetti, il ricorrente ha solo l’esigenza di verificare
la presenza di eventuali abusi edilizi o altre similari
evenienze che possano ledere la sua proprietà (e non importa
se si tratti di proprietà individuale o di comproprietà), il
che non implica quindi la conoscenza di dati sensibili. A
voler diversamente opinare si darebbe, ad esempio, la
possibilità agli autori di abusi edilizi di poter evitare
qualsiasi controllo su impulso di parte, accampando un
inesistente diritto alla riservatezza.
Naturalmente non è scontato che i documenti oggetto di
accesso siano effettivamente utili al ricorrente nell’ambito
del giudizio pendente (così come è da ribadire che la
proposizione di istanze di accesso non riapre ex se i
termini di impugnazione di provvedimenti ormai
consolidatisi), ma in questa sede il giudice deve solo
verificare la non manifesta inutilità della visione degli
atti oggetto della richiesta di accesso.
Il Tribunale, per quanto detto in precedenza, non ritiene
che la visione degli atti in argomento sia icto oculi
irrilevante rispetto alle esigenze di tutela giurisdizionale
delle ragioni del sig. C..
6. In conclusione, il ricorso va accolto, con conseguente
condanna del Comune di Recanati a consentire al ricorrente
la visione e l’estrazione di copia degli atti indicati
nell’istanza di accesso del 18/02/2014 (per la parte rimasta
inevasa), chiarita con le successive note del 10/03/2014 e
del 23/04/2014. |
EDILIZIA PRIVATA:
Il frazionamento evincibile dai titoli di
provenienza anche se semplicemente richiamato costituisce
elemento utile per stabilire la linea di confine tra fondi
limitrofi.
---------------
7) Il primo motivo di ricorso principale e’ infondato.
La Corte di Appello ha desunto gli elementi utili ai fini
dell’individuazione del confine tra gli immobili delle parti
dal rogito notarile del (OMISSIS), con il quale (OMISSIS),
originaria proprietaria dell’intero fondo, alienò a
(OMISSIS) la particella 39/b di are due, venuta ad esistenza
a seguito del tipo di frazionamento catastale redatto dal
geom. (OMISSIS) in data 28.03.1959; frazionamento che,
benché non allegato all’atto di vendita del (OMISSIS), il
giudice del gravame ha ritenuto che fosse stato richiamato
implicitamente, ma in modo preciso e puntuale, dai
contraenti.
A tali conclusioni la sentenza impugnata è pervenuta sulla
base di una motivazione immune da vizi logici, che muove dal
rilievo secondo cui la particella 39/b non esisteva prima
della vendita del (OMISSIS), e fu creata proprio a seguito
del predetto piano di frazionamento ed in ragione
dell’alienazione de qua; il che ha indotto la Corte
territoriale a ritenere, anche in considerazione del breve
lasso di tempo intercorso tra l’avvenuto frazionamento e
l’atto di compravendita al quale il medesimo era
strumentale, che le parti, nel riportare nell’atto di
compravendita la particella 39/b quale elemento di
identificazione del bene immobile venduto, abbiano inteso
effettuare la vendita sulla base del predetto piano, al
quale, quindi, rimasero inequivocabilmente vincolate.
Così statuendo, la sentenza gravata non si è discostata dal
principio enunciato dalla giurisprudenza, secondo cui
il tipo di frazionamento, se espressamente
richiamato nel titolo, concorre all’individuazione
dell’immobile senza bisogno di particolari espressioni né di
apposita sottoscrizione; trattandosi di documento redatto
proprio allo scopo di individuare una determinata area, è
sufficiente il semplice richiamo che ad esso venga fatto nel
titolo, per ritenere che le parti, anche senza sottoscrivere
il documento né indicare nel titolo la finalità del
richiamo, abbiano inteso far riferimento a quel determinato
bene (Cass.
07.02.2008 n. 2857; Cass. 26.01.1998 n. 711).
Il giudice di appello, infatti, ha interpretato il contratto
di compravendita del (OMISSIS) e, fornendo una lettura
plausibile e ragionevole degli accordi in esso racchiusi, ha
maturato il convincimento secondo cui l’indicazione della
particella 39/b, venuta ad esistenza solo a seguito del
frazionamento del 28.03.1959, costituisse un inequivocabile
riferimento a tale atto, ed equivalesse ad espresso richiamo
dello stesso da parte di entrambi i contraenti.
La valutazione espressa al riguardo dalla Corte
territoriale, essendo sorretta da una motivazione immune da
vizi logici e giuridici, si sottrae al sindacato di questa
Corte, in quanto, come è noto, in tema di
interpretazione del contratto, l’accertamento della volontà
degli stipulanti, in relazione al contenuto del negozio, si
traduce in un’indagine di fatto affidata in via esclusiva al
giudice di merito. Correttamente, pertanto, il giudice del
gravame ha escluso la necessità di ricorrere, ai fini della
determinazione della linea di confine, al criterio
sussidiario e residuale delle mappe catastali, avendo
proceduto a tale operazione sulla base di elementi desunti
dal titolo negoziale intercorso tra la dante causa
dell’attrice e il convenuto, di cui ha ritenuto che il tipo
di frazionamento (OMISSIS) costituisse parte integrante.
Secondo l’orientamento di questa Corte, infatti,
in tema di azione di regolamento di confini, per
l’individuazione della linea di separazione fra fondi
limitrofi la base primaria dell’indagine del giudice di
merito è costituita dall’esame e dalla valutazione dei
titoli d’acquisto delle rispettive proprietà; solo la
mancanza o l’insufficienza di indicazioni sul confine
rilevabile dai titoli, ovvero la loro mancata produzione,
giustifica il ricorso ad altri mezzi di prova, ivi comprese
le risultanze
delle mappe catastali (Cass. 09.10.2006 n. 21686; Cass.
15.11.2007 n, 23720; Cass. 06.05.2013 n. 10501) (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 06.11.2014 n. 23695 -
link a http://renatodisa.com). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Non
sussiste alcun obbligo per la pubblica amministrazione di
pronunciarsi su un'istanza del privato volta a ottenere da
essa un provvedimento in via di autotutela, non essendo
coercibile dall'esterno l'attivazione del procedimento di
riesame della legittimità dell'atto amministrativo.
In effetti, l'esercizio del potere di autotutela e la
discrezionalità dell'attività in tema di atti di ritiro
discende dall'esigenza di certezza delle situazioni
giuridiche e di efficienza gestionale che sono alla base
dell’agire della pubblica amministrazione e che verrebbero a
trovare detrimento da una ritenuta doverosità del riesame.
Infatti, non sussiste alcun obbligo per la
pubblica amministrazione di pronunciarsi su un'istanza del
privato volta a ottenere da essa un provvedimento in via di
autotutela, non essendo coercibile dall'esterno
l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità
dell'atto amministrativo (da ultimo Cons. Stato, Sez. IV, 26.08.2014, n. 4309).
In effetti, l'esercizio del potere di
autotutela e la discrezionalità dell'attività in tema di
atti di ritiro discende dall'esigenza di certezza delle
situazioni giuridiche e di efficienza gestionale che sono
alla base dell’agire della pubblica amministrazione e che
verrebbero a trovare detrimento da una ritenuta doverosità
del riesame (Cons. Stato, Sez. IV, 07.07.2014, n. 3426)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 06.11.2014 n. 1733 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Non comporta alcuna illegittimità la circostanza
che una sola delle imprese, facenti parte di un unico
raggruppamento temporaneo di imprese costituito per tale
procedura, abbia effettuato il sopralluogo ai fini della
conoscenza dei luoghi d'esecuzione del contratto, in quanto
tale adempimento è strumentale alla conoscenza e, quindi,
alla miglior formulazione dell'offerta, ossia ad uno scopo
che, in caso di associazione temporanea di imprese, è
raggiunto anche quando a ciò provveda una sola delle imprese
associate, riferendone alle altre.
Il secondo motivo del
ricorso per motivi aggiunti è infondato.
L'art. 1, lett. H, del Disciplinare di gara reca l'obbligo, a
pena di esclusione, di produrre attestazione rilasciata dal
Responsabile Unico del Procedimento di avvenuto sopralluogo.
A parte i dubbi circa la legittimità di tale clausola –che,
non essendo siffatto obbligo previsto per gli appalti di
servizi in alcuna norma né di legge né regolamentare (TAR
Toscana, Sez. I, 17.07.2014, n. 1308; TAR Sicilia–Palermo, Sez. II, 18.12.2012 n. 2656), appare in
contrasto con il principio di tassatività delle clausole di
esclusione di cui all’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, nel testo introdotto dal d.l. 13.05.2011,
n. 70, conv. con mod. dalla l. 12.07.2011, n. 106– essa
non prevedeva, in caso di partecipazione di Associazione
Temporanea di Imprese, la necessità che il sopralluogo
avvenisse ad opera di tutti i soggetti ad essa partecipanti.
Ed infatti, in materia di lavori pubblici la giurisprudenza
del Consiglio di Stato è nel senso che non comporta alcuna
illegittimità la circostanza che una sola delle imprese,
facenti parte di un unico raggruppamento temporaneo di
imprese costituito per tale procedura, abbia effettuato il
sopralluogo ai fini della conoscenza dei luoghi d'esecuzione
del contratto, in quanto tale adempimento è strumentale alla
conoscenza e, quindi, alla miglior formulazione
dell'offerta, ossia ad uno scopo che, in caso di
associazione temporanea di imprese, è raggiunto anche quando
a ciò provveda una sola delle imprese associate, riferendone
alle altre (Cons. Stato, Sez. VI, 04.01.2002, n. 35).
La giurisprudenza citata invece dalla ricorrente (Cons.
Stato, Sez. V, 28.05.2009, n. 2230) non risulta
pertinente, atteso che nel caso in quella sede affrontato la
lex specialis di gara specificamente prevedeva che,
in caso di raggruppamento temporaneo di imprese, tutte le
partecipanti dovessero procedere al sopralluogo obbligatorio
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 06.11.2014 n. 1733 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO:
Sull'illegittimità di una ordinanza sindacale contingibile
ed urgente nei confronti di un privato circa la rimozione di
una frana interessante una strada pubblica.
Anche a
prescindere dall’esistenza o meno dei presupposti del
provvedimento contingibile e urgente, si ravvisa, comunque,
nell'operato dell'amministrazione comunale, uno sviamento
per causa falsa, come denunciato con il secondo ed il quarto
motivo di ricorso.
L'ordinanza contingibile ed urgente per pubblica e privata
incolumità, infatti, può dirigersi nei confronti di privati
proprietari per lavori da eseguirsi su beni che sono nella
loro disponibilità, ma non può valere ad ordinare al privato
l'esecuzione di lavori pubblici. In quest'ultima fattispecie
incombe sull'ente proprietario della strada il potere-dovere
di provvedere all'esecuzione dei lavori d'urgenza, salvo il
recupero delle relative spese nei confronti del soggetto
responsabile del danno.
Non appare quindi legittima questa sorta di sanzione
ripristinatoria atipica, non prevista dall'ordinamento,
mediante la quale l'ente comunale ordina un facere
(esecuzione di lavori pubblici) su strada non privata ma
comunale, lì dove avrebbe dovuto procedere alla
realizzazione dei lavori di ripristino ponendo
conseguentemente le relative spese a carico del responsabile
del danno causato.
Inoltre, il notevole lasso di tempo (quasi cinque mesi)
trascorso dall'incidente che avrebbe provocato il dissesto
stradale conferma che l'ordinanza impugnata appare più
diretta all'esecuzione coattiva dei lavori di ripristino a
carico dei ricorrenti, che non a porre rimedio a una
situazione di pericolo urgente e imprevedibile per la
pubblica e privata incolumità.
Ugualmente, la verifica di eventuali alterazioni alla
regimentazione delle acque meteoriche ed il ripristino di
scoli o scarichi naturali eventualmente occlusi a seguito
del dissesto franoso, costituiscono attività di accertamento
tipicamente amministrative ed interessanti beni pubblici e
che, pertanto, non possono essere demandate ai privati.
... per l'annullamento:
a) dell'ordinanza contigibile ed urgente n. 65 del
26.06.2014 a firma del Sindaco del Comune di Creazzo,
notificata in data 26.06.2014, avente ad oggetto il
ripristino della sede stradale di via Ronchi nel tratto a
monte dei mappali catastalmente censiti al foglio 1, mapp.
882 e 887, provvedimento con cui è ordinato nell'interesse
pubblico ai ricorrenti gli interventi di messa in sicurezza
e ripristino definitivo della sede stradale in
corrispondenza del fronte di frana entro 45 giorni dalla
notifica del provvedimento stesso, disponendo altresì altre
misure ed incombenti a carico dei ricorrenti;
b) degli atti istruttori e presupposti alla emissione
dell'ordinanza di cui sub a), inclusa la perizia geologica
del 10.02.2014, integrata in data 03.03.2014;
...
Rilevato che:
- con l’ordinanza contingibile ed urgente di cui in
epigrafe, il Comune di Creazzo, in seguito a uno smottamento
che aveva interessato nel febbraio 2014 la sede stradale di
via Ronchi, ha ordinato ai ricorrenti, proprietari di un
terreno situato a confine con la detta via, a tutela della
pubblica incolumità ed integrità del patrimonio pubblico:
a) la completa rimozione del materiale di scavo depositato
sui terreni di loro proprietà (deposito ritenuto concausa
dell’evento franoso);
b) la verifica che non siano sopravvenute alterazioni alla
regimentazione delle acque meteoriche, ripristinando
eventuali scoli o scarichi naturali eventualmente occlusi a
seguito del dissesto franoso; c) il ripristino della sede
stradale in corrispondenza del fronte di frana;
Ritenuto che:
- L’eccezione d’inammissibilità del ricorso per mancata
notifica dello stesso ad almeno uno dei controinteressati
-identificati quest’ultimi negli abitanti della zona
interessata dall’evento franoso- sia manifestamente
infondata, trattandosi di soggetti non indicati nel testo
del provvedimento impugnato e che in ogni caso non possono
ricevere alcuna diretta lesione dall’accoglimento del
ricorso, essendo questo diretto a stabilire se le predette
opere debbano essere eseguite dai ricorrenti o
dall’amministrazione;
- Prima di passare all’esame del merito dell’impugnativa, va
evidenziato che i ricorrenti non hanno interesse a
contestare la suddetta ordinanza nella parte in cui ha
imposto loro la rimozione del materiale di scavo dalla ripa
stradale, avendovi essi peraltro già provveduto (come
comprovato dalla documentazione prodotta), incentrandosi,
invece, il ricorso sulla contestazione degli obblighi di cui
ai sopraindicati punti b) e c);
- In tale parte l’ordinanza impugnata appare manifestamente
illegittima;
- Ed infatti, anche a prescindere dall’esistenza o meno dei
presupposti del provvedimento contingibile e urgente, si
ravvisa, comunque, nell'operato dell'amministrazione
comunale, uno sviamento per causa falsa, come denunciato con
il secondo ed il quarto motivo di ricorso.
L'ordinanza contingibile ed urgente per pubblica e privata
incolumità, infatti, può dirigersi nei confronti di privati
proprietari per lavori da eseguirsi su beni che sono nella
loro disponibilità, ma non può valere ad ordinare al privato
l'esecuzione di lavori pubblici. In quest'ultima fattispecie
incombe sull'ente proprietario della strada il potere-dovere
di provvedere all'esecuzione dei lavori d'urgenza, salvo il
recupero delle relative spese nei confronti del soggetto
responsabile del danno;
- Non appare quindi legittima questa sorta di sanzione
ripristinatoria atipica, non prevista dall'ordinamento,
mediante la quale l'ente comunale ordina un facere
(esecuzione di lavori pubblici) su strada non privata ma
comunale, lì dove avrebbe dovuto procedere alla
realizzazione dei lavori di ripristino ponendo
conseguentemente le relative spese a carico del responsabile
del danno causato;
- Inoltre, il notevole lasso di tempo (quasi cinque mesi)
trascorso dall'incidente che avrebbe provocato il dissesto
stradale conferma che l'ordinanza impugnata appare più
diretta all'esecuzione coattiva dei lavori di ripristino a
carico dei ricorrenti, che non a porre rimedio a una
situazione di pericolo urgente e imprevedibile per la
pubblica e privata incolumità;
- Ugualmente, la verifica di eventuali alterazioni alla
regimentazione delle acque meteoriche ed il ripristino di
scoli o scarichi naturali eventualmente occlusi a seguito
del dissesto franoso, costituiscono attività di accertamento
tipicamente amministrative ed interessanti beni pubblici e
che, pertanto, non possono essere demandate ai privati;
- Per tutti i suesposti motivi il ricorso va accolto nei
suddetti limiti, con conseguente annullamento dell'ordinanza
del Sindaco del Comune di Creazzo del 26.06.2014 nella parte
in cui impone ai ricorrenti il ripristino della sede
stradale e le suddette attività di verifica e di eventuale
ripristino degli scoli pubblici
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 06.11.2014 n. 1363 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Ai fini dell’accertamento della controprestazione
offerta dal corruttore, in tema di corruzione per atto
contrario ai doveri d’ufficio, la nozione di “altra utilità”
quale oggetto della dazione o della promessa al pubblico
ufficiale non va circoscritta soltanto alle utilità di
natura patrimoniale, ma comprende tutti quei vantaggi
sociali le cui ricadute patrimoniali siano mediate e
indirette (nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto
accluso nel novero delle “altre utilità” anche le
elargizioni di somme di denaro al circolo sportivo di cui
faceva parte il corrotto pubblico ufficiale).
Inoltre, ai fini della dazione come corrispettivo della
fattispecie prevista dall’art. 319 c.p., non è in alcun modo
rilevante un lasso di tempo ampio con cui questa viene
effettuata.
---------------
Il ricorso è fondato e va accolto per le ragioni di seguito
indicate.
Per quel che attiene al primo profilo di doglianza, erronea
deve ritenersi l’impostazione argomentativa seguita dal
Tribunale allorquando mostra di fondare la sua decisione sul
carattere indiretto del vantaggio che sarebbe stato offerto
al pubblico ufficiale dai vertici della società S.A.,
muovendo essenzialmente dal rilievo che il denaro, quale
prezzo dell’ipotizzata corruzione, sarebbe stato corrisposto
non al G., ma al gruppo sportivo dei Vigili che
costituirebbe un suo ‘centro di interessi’.
Al riguardo, invero, la linea interpretativa tracciata da
questa Suprema Corte (Sez. 6, n. 24656 del 18/06/2010, dep.
30/06/2010, Rv. 248001) è chiara nel ritenere che,
in tema di corruzione per atto contrario ai doveri
d’ufficio, ai fini dell’accertamento della controprestazione
offerta dal corruttore, la nozione di ‘altra utilità’
quale oggetto della dazione o della promessa al pubblico
ufficiale non va circoscritta soltanto alle utilità di
natura patrimoniale, ma comprende tutti quei vantaggi
sociali le cui ricadute patrimoniali siano mediate e
indirette.
In tal senso si è precisato, inoltre, che
la nozione di ‘altra utilità’, quale oggetto della
dazione o promessa, ricomprende qualsiasi vantaggio
materiale o morale, patrimoniale o non patrimoniale, che
abbia valore per il pubblico agente
(Sez. 6, n. 29789 del 27/06/2013, dep. 11/07/2013, Rv.
255617).
Sotto altro profilo, v’è da osservare che nella decisione
impugnata il Tribunale ha ritenuto ‘singolare’ il
dato di fatto inerente alla ‘notevole’ distanza
temporale tra l’accordo corruttivo –risalente a data
precedente il maggio 2009– e il pagamento del prezzo della
corruzione –collocato nel 2011– omettendo tuttavia di
considerare le implicazioni della regula iuris
definita da questa Suprema Corte (Sez. 6, n. 49547 del
03/10/2003, dep. 31/12/2003, Rv. 227888) allorquando ha
precisato che il reato di corruzione di cui all’art. 319
cod. pen. sussiste ogni qual volta la dazione in favore del
pubblico ufficiale costituisca il compenso dei favore
ottenuto, a nulla rilevando che la stessa sia avvenuta a
distanza di tempo dalla formazione dell’atto (in
applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto
corretta la decisione dei giudici di merito che aveva
qualificato come corruzione propria l’emissione da parte di
un assessore regionale di decreti di finanziamento di opere
pubbliche, poi aggiudicate da un imprenditore edile, che
aveva versato al primo, quale compenso per il favore
ottenuto, un contributo elettorale in occasione di
consultazioni svoltesi a distanza di anni) (Corte
di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 05.11.2014 n. 45847 -
link a http://renatodisa.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI:
Condannato il proprietario di alcuni cani, per
aver disturbato il riposo dei vicini non impedendo agli
animali di latrare e per le esalazioni nauseabonde degli
escrementi degli animali medesimi.
1. Il ricorso è inammissibile perché manifestamente
infondato e proposto fuori dai casi consentiti.
2. I motivi di gravame, essendo tra loro connessi, possono
essere congiuntamente esaminato.
2.1. Dalla completa e corretta motivazione della sentenza
impugnata emerge come la penale responsabilità sia stata
fondata sulle precise e circostanziate dichiarazione della
denunciante, (OMISSIS).
La quale, in dibattimento, ha deposto affermando che la sua
abitazione è situata in uno degli edifici condominiali
adiacenti all’abitazione del ricorrente e che, fin dall’anno
2008, si era verificata una situazione intollerabile, tanto
da dover ricorrere, con il coniuge, alle cure di un
psicologo e ad assumere farmaci per riposare, a causa dei
forti cattivi odori (intensa puzza che penetrava
nell’abitazione impedendo di aprire le imposte) e del rumore
costante causati dalla presenza presso la dimora del
(OMISSIS), di vari cani, custoditi dall’imputato nel
giardino (confinante con quello della (OMISSIS)).
In particolare, il continuo abbaiare (di giorno e di notte)
dei cani e l’odore determinato dalle deiezioni degli stessi
erano diventati, a partire da quell’anno, talmente
intollerabili che la (OMISSIS), dopo avere inutilmente
richiesto all’imputato di modificare la situazione, si era
rivolta dapprima ai vigili ed ai Carabinieri e
successivamente anche al Sindaco, tanto che in più occasioni
erano intervenuti gli organi competenti dell’A.S.L. proprio
per verificare le modalità con cui erano tenuti i cani;
tant’è che era stata emessa nei confronti del (OMISSIS)
un’ordinanza sindacale (acquisita agli atti del processo)
che gli imponeva lo spostamento degli animali.
I sopralluoghi del personale dell’Asl, come da deposizione
del competente funzionario, avevano consentito di accertare
la presenza di cinque cani, situati nelle immediate
vicinanze della recinzione dell’edificio condominiale
confinate, ed era stato rilevato l’odore abbastanza
sgradevole; che, nonostante l’invito a spostare i cani e a
tenere pulito il box che li accoglieva, le lamentele erano
continuate al punto che da un ulteriore sopralluogo del
(OMISSIS) era stata nuovamente accertata la presenza di un
forte odore di escrementi e infine solo nell'(OMISSIS), a
seguito di un incontro concordato con l’imputato, era stata
accertata al presenza di due soli cani.
2.2. Alla luce di tali circostanze –dopo aver valutato l’inattendibilita’
di un teste a difesa (OMISSIS), che aveva riferito della
presenza di due cani e dell’assenza di cattivi odori, in
palese contrasto con quanto direttamente accertato dal
personale della Asl, e dopo aver valutato l’irrilevanza di
altro teste ( (OMISSIS)) che aveva parlato di riscontrate
pulizie del box ma in un periodo successivo a quello delle
verifiche dell’Asl– il Tribunale è pervenuto ad affermare la
penale responsabilità dell’imputato con riferimento ad
entrambi i reati ascrittigli sul condivisibile rilievo che,
quanto al reato previsto dall’articolo 674 c.p., la
configurabilità della fattispecie doveva ritenersi integrata
sia per l’entità delle esalazioni maleodoranti (quali
riferite dalla parte offesa e dal teste (OMISSIS) dell’Asl),
determinate dalla presenza di più animali nel cortile
dell’imputato (confinante con l’edificio condominiale
interessato, ed in particolare con l’abitazione della parte
civile, situata al piano terra) ed imputabili a quest’ultimo
(ed alla mancata adozione delle cautele idonee ad evitare
disturbi e molestie ai vicini) e sia per l’evidente
superamento della richiesta tollerabilità, in ragione degli
effetti provocati da tali esalazioni (dei quali aveva
diffusamente riferito in dibattimento la parte civile).
Quanto al reato di cui all’articolo 659 c.p. il Tribunale ha
osservato, rispondendo alle specifiche doglianze mosse dalla
difesa – che, se è vero che la condotta produttiva di rumori
deve incidere sulla tranquillità pubblica (in quanto
l’interesse tutelato dalla norma è la pubblica quiete) e che
la sola parte civile (costituita nel presente processo) ha
presentato querela ed intrapreso specifiche azioni (anche
giudiziarie) nei confronti dell’imputato, è altrettanto vero
che, ai fini della configurabilità del reato, è sufficiente
che l’evento di disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere
risentito da un numero indeterminato di persone, come era
infatti accaduto nel caso di specie posto che, secondo
quanto riferito dal teste (OMISSIS), vari erano stati i
condomini che si erano lamentati delle modalità di tenuta
dei cani, pur se, dopo che si era discusso della possibilità
di intraprendere azioni giudiziarie e delle spese da
sostenere, l’assemblea condominiale aveva deciso, a
maggioranza di non procedere in via giudiziale, non
incidendo ciò sulla potenzialità diffusiva del disturbo e
non escludendo, quindi, l’esistenza del reato.
3. Alla luce di una motivazione così completa che, immune da
qualsiasi rilievo di illogicità, ha tenuto conto di tutte le
emergenze processuali acquisite nel corso del dibattimento,
ed alla luce della corretta applicazione dei principi di
diritto, quanto alla sussunzione del fatto nell’ambito delle
fattispecie incriminatrici contestate, la doglianza
–quantunque ricondotta nel vizio di motivazione ex articolo
606 c.p.p., comma 1, lettera e)– si risolve in una censura
meramente fattuale, del tutto disancorata dalle emergenze
probatorie che risultano dal testo del provvedimento
impugnato, e fonda su deduzioni di carattere assertivo
smentite dagli esiti dell’istruttoria dibattimentale
riportati in sentenza.
Deve essere solo precisato, a conferma della corretta
soluzione fornita dal giudice del merito, che la
contravvenzione prevista dall’articolo 674 c.p. è
configurabile anche nel caso di molestie olfattive con la
specificazione che quando non esista una predeterminazione
normativa dei limiti delle emissioni, si deve avere
riguardo, condizione nella specie sussistente, al criterio
della normale tollerabilità di cui all’articolo 844 c.c.
(Sez. 3, n. 34896 del 14/07/2011, Ferrara, Rv. 250868), che
comunque costituisce un referente normativo, per il cui
accertamento non è certo necessario disporre perizia
tecnica, potendo il giudice fondare il suo convincimento,
come avvenuto nel caso di specie, su elementi probatori di
diversa natura e dunque, anche ricorrendo alle sole
dichiarazioni testimoniali dei confinanti (Sez. 3, n. 21138
del 02/04/2013, Bruzzi, non mass.).
Questa Corte ha già affermato che il reato previsto
dall’articolo 674 c.p. è integrato dalle esalazioni
maleodoranti provenienti da stalle, gabbie o promananti da
escrementi di animali in numero rilevante (Sez. 1, n. 678
del 29/11/1995, dep. 22/01/1996, P.M. in proc. Viale, Rv.
203793) o quelle dovute alla presenza di numerosi cani
tenuti in condizioni di sporcizia (Sez. 1, n. 10336 del
28/09/1993, Grandoni, dep. 15/11/1993, Rv. 197894).
Quanto invece al reato previsto dall’articolo 659 c.p., il
tribunale si è attenuto al principio di diritto più volte
affermato da questa Corte (da ultimo, Sez. 3, n. 40329 del
22/05/2014, Mocci, non mass.) secondo il quale, per aversi
disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, è
necessario che i rumori, gli schiamazzi e le altre fonti
sonore indicate nella norma superino la normale
tollerabilità ed abbiano attitudine a disturbare un numero
indeterminato di persone, essendo stata tale ultima
circostanza espressamente affermata in sentenza (v. pag. 5)
sulla base della testimonianza (OMISSIS) (v. sub. 2.2. del
considerato in diritto) ed anche sulla base della
deposizione (OMISSIS) (v. 2.1. del considerato in diritto).
Consegue l’inammissibilità del ricorso (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.11.2014 n. 45230 -
link a http://renatodisa.com). |
INCARICHI
PROGETTUALI:
La clausola contrattuale che sottoponga il
sorgere del diritto al compenso da parte del professionista
incaricato del progetto di un’opera all’intervenuto
finanziamento dell’opera progettata non limita la
responsabilità del committente il progetto, giacché non
influisce sulle conseguenze del suo eventuale inadempimento,
ma piuttosto delimita il contenuto del mandato conferito,
facendo derivare i diritti del mandatario dal progetto
finanziato e non dal progetto solo redatto.
Ne consegue che una clausola siffatta, non incidendo sulle
conseguenze dell’inadempimento del predisponente, non può
ritenersi vessatoria e non è, pertanto, abbisognevole di
specifica approvazione per iscritto.
6. I motivi settimo, settimo-bis e ottavo del ricorso
principale vanno esaminati congiuntamente per ragioni di
connessione logica.
Con il settimo motivo si lamenta falsa applicazione
dell’articolo 345 cod. proc. civ., per avere la Corte
territoriale ritenuto di dover esaminare solo gli atti
devoluti all’esame del collegio arbitrale.
Con il motivo settimo-bis si lamentano violazione o falsa
applicazione degli articoli 1362, 1364, 1370 e 1341 cod. civ..
Il ricorrente si duole del fatto che la Corte territoriale
abbia ritenuto che la convenzione inter partes
subordinasse il pagamento del corrispettivo all’erogazione
dei fondi, laddove l’accordo si riferiva alla concessione
del finanziamento. D’altra parte, il contrario convincimento
espresso dalla sentenza impugnata avrebbe dovuto comportare
la qualificazione in termini di vessatorietàdella clausola
così intesa.
Con ulteriore articolazione del motivo, si lamenta l’assenza
di motivazione quanto al fatto che il (OMISSIS) non potesse
comunque ottenere il riconoscimento della percentuale minima
del 3%.
Con l’ottavo motivo si lamentano vizi motivazionali e
violazione degli articoli 115 e 116 cod. proc. civ., in
relazione all’esame dei documenti attestanti l’avvenuta
concessione dei finanziamenti. Le censure non sono
meritevoli di accoglimento.
La Corte di appello, dopo aver ribadito la validità della
clausola contrattuale che sottoponga il sorgere del diritto
al compenso da parte del professionista incaricato del
progetto di un’opera pubblica, all’intervenuto finanziamento
della stessa, ha osservato che nel caso mancava la prova
dell’erogazione dei fondi alla AUSL; e che seppure una
delibera li aveva assegnati a detto ente, proprio questo
provvedimento aveva posto specifiche condizioni, fra cui la
redazione dello stato di fattibilità dell’opera (pag. 11
della sentenza), che, nella specie, non risultavano essersi
verificate. E dopo aver ripercorso le vicissitudini del
contratto, ha concluso che non vi era la prova, gravante sul
professionista, della avvenuta erogazione del finanziamento,
che semmai in base agli elementi istruttori acquisiti non
risultava mai corrisposto all’Azienda sanitaria.
Ha in tal modo puntualmente applicato e recepito la
giurisprudenza di legittimità al riguardo, i cui principi
giova appena riassumere:
A) il compenso spettante al professionista, ancorché
elemento naturale del contratto di prestazione d’opera
intellettuale, è liberamente determinabile dalle parti e può
anche formare oggetto di rinuncia da parte del
professionista, salva l’esistenza di specifiche norme
proibitive che, limitando il potere di autonomia delle
parti, rendano indisponibile il relativo diritto per la
prestazione professionale e vincolante la determinazione del
compenso stesso in base a tariffe. Tale soluzione non si
pone in contrasto neppure col principio di inderogabilità
dei minimi tariffari, previsto dalla Legge 05.05.1976, n.
340, come interpretata autenticamente dalla Legge
01.07.1977, n. 404, articolo 6, comma 1, normativa cui ha
fatto seguito il Decreto Legge 02.03.1989, n. 65, articolo
4, comma 12-bis, convertito con modificazioni nella Legge 26
aprile 1989, n. 155;
B) la clausola in questione non limita, inoltre, la
responsabilità del committente il progetto, giacché non
influisce sulle conseguenze del suo eventuale inadempimento,
ma piuttosto delimita il contenuto del mandato conferito,
facendo derivare i diritti del mandatario dal progetto
finanziato e non dal progetto solo redatto; per cui, non
incidendo sulle conseguenze dell’inadempimento del
predisponente, non può ritenersi vessatoria e non è,
pertanto, abbisognevole di specifica approvazione per
iscritto (Cass. 16620/2013; 19000/2004);
C) la condizione in essa apposta intanto può ritenersi
avverata in quanto i fondi oggetto del finanziamento siano
materialmente erogati all’amministrazione richiedente, non
essendo sufficiente a tal fine la loro semplice assegnazione
o, addirittura, la semplice inclusione dell’ente nell’elenco
degli aventi diritto da parte delle autorità preposte alla
loro concessione (Cass. Sez. Un. 18450/2005 e succ.
conformi).
Al lume di questi principi, del tutto correttamente la
sentenza impugnata, dopo aver esaminato proprio i documenti
(ciò che peraltro esclude la dedotta violazione degli
articoli 115 e 116 cod. proc. civ.), li ha interpretati nel
senso che da essi non emergeva alcuna prova dell’effettiva
erogazione dei fondi, peraltro gravante proprio sul
professionista; con eguale conseguenza per l’ulteriore
profilo della censura che investe il compenso del 3% che,
secondo la clausola n. 10 del contratto, riprodotta dallo
stesso ricorrente, rappresenta un acconto del corrispettivo,
talché non può che seguire la sorte della domanda
principale.
E d’altra parte il (OMISSIS) difetta di interesse a
sostenere che nel caso la condizione apposta nella clausola
si limitava a subordinare il compenso alla mera assegnazione
alla AUSL del finanziamento, in quanto in tale ipotesi
sarebbe mancata (nella Delib. e) nel contratto l’indicazione
dei mezzi finanziari per far fronte all’obbligazione assunta
nei confronti del professionista, determinandone la nullità
assoluta ed insanabile per effetto della normativa contenuta
nel Regio Decreto n. 2440 del 1923, nonché nella
legislazione successiva (Cass. Sez. Un. 12195/2005 e succ.)
(Corte di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 30.10.2014 n. 23073 -
link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia edilizia la
differente qualificazione tra provvedimenti di rinnovo
della concessione edilizia e di proroga dei termini
di ultimazione dei lavori è riscontrabile nel senso che
mentre il rinnovo della concessione presuppone la
sopravvenuta inefficacia dell'originario titolo concessorio
e costituisce, a tutti gli effetti, una nuova concessione,
la proroga è atto sfornito di propria autonomia, che accede
all'originaria concessione ed opera semplicemente uno
spostamento in avanti del suo termine (iniziale o finale) di
efficacia.
---------------
Per giurisprudenza pacifica, il termine di durata del
permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente
sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine,
prima della sua scadenza, la presentazione di una formale
istanza di proroga, cui deve comunque seguire un
provvedimento da parte della stessa Amministrazione che ha
rilasciato il titolo ablativo che accerti l'impossibilità
del rispetto del termine, ciò che avviene solamente nei casi
in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis
ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore.
Ed invero, l'apposizione dei termini di efficacia della
concessione edilizia e gli istituti della proroga (nei casi
consentiti dalla legge) e della decadenza di cui all’art. 15
D.P.R. 06.06.2001, n. 380 servono ad assicurare la certezza
temporale dell'attività di trasformazione edilizia ed
urbanistica del territorio, anche al fine di garantire un
efficiente controllo sulla conformità dell'intervento
edilizio a suo tempo autorizzato con il relativo titolo.
---------------
La decadenza dal titolo edilizio opera di diritto e non è
richiesta a tal fine l’adozione di un provvedimento
espresso.
Nonostante la presenza di un minoritario orientamento
diverso, la tesi prevalente in giurisprudenza che il
Collegio condivide, si basa sulla lettera della legge, che
fa dipendere la decadenza non da un atto amministrativo,
costitutivo o dichiarativo, ma dal semplice fatto
dell'inutile decorso del tempo.
Diversamente opinando, del resto, si farebbe dipendere la
decadenza non solo da un comportamento dei titolari del
permesso di costruire ma anche della Pubblica
Amministrazione che potrebbe in taluni casi adottare un
provvedimento espresso e in altri casi no, con possibili
ipotesi di disparità di trattamento tra situazioni che nella
sostanza si presenterebbero identiche.
---------------
Il provvedimento di pronuncia di decadenza del titolo
edilizio per la sua natura di atto dovuto è espressione di
un potere strettamente vincolato non implicante, quindi,
valutazioni discrezionali ma meri accertamenti tecnici,
senza necessità della comunicazione di avvio del
procedimento.
Ritiene anzitutto il Collegio di condividere le conclusioni
dell’ufficio regionale quanto all’affermata decadenza della
concessione edilizia n. 14/1986 a far data dall’11.03.1990.
Non è superfluo ricordare che in materia edilizia la
differente qualificazione tra provvedimenti di rinnovo
della concessione edilizia e di proroga dei termini
di ultimazione dei lavori è riscontrabile nel senso che
mentre il rinnovo della concessione presuppone la
sopravvenuta inefficacia dell'originario titolo concessorio
e costituisce, a tutti gli effetti, una nuova concessione,
la proroga è atto sfornito di propria autonomia, che accede
all'originaria concessione ed opera semplicemente uno
spostamento in avanti del suo termine (iniziale o finale) di
efficacia.
Ebbene, la prima richiesta inoltrata dalla sig.ra P. al
comune di Maracalagonis è inequivocamente una mera richiesta
di proroga, oltretutto immotivata, del termine di validità
della concessione, il cui decorso non era mai stato sospeso
dall’amministrazione che non risulta essere mai stata
investita del problema relativo all’asserita presenza nelle
vicinanze del cantiere di un traliccio dell’alta tensione.
In relazione ad essa il diniego dell’amministrazione è
corretto, restando palesemente infondata la censura con la
quale la ricorrente lamenta che il termine di efficacia
della concessione n. 14/1986 era sospeso per effetto della
predetta situazione di impossibilità nella prosecuzione dei
lavori.
Per giurisprudenza pacifica, infatti, il termine di durata
del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente
sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine,
prima della sua scadenza, la presentazione di una formale
istanza di proroga, cui deve comunque seguire un
provvedimento da parte della stessa Amministrazione che ha
rilasciato il titolo ablativo che accerti l'impossibilità
del rispetto del termine, ciò che avviene solamente nei casi
in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis
ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore (cfr: Tar
Piemonte, n. 666 del 05.06.2012; Consiglio di Stato, sez. IV,
23.02.2012, n. 974).
Ed invero, l'apposizione dei termini di efficacia della
concessione edilizia e gli istituti della proroga (nei casi
consentiti dalla legge) e della decadenza di cui all’art. 15
D.P.R. 06.06.2001, n. 380 servono ad assicurare la certezza
temporale dell'attività di trasformazione edilizia ed
urbanistica del territorio, anche al fine di garantire un
efficiente controllo sulla conformità dell'intervento
edilizio a suo tempo autorizzato con il relativo titolo
(così Cons. di St., V, 23.11.1996, n. 1414).
Mancando nel caso di specie sia una tempestiva richiesta di
proroga, sia un formale provvedimento di sospensione del
termine da parte dell’amministrazione, la concessione
edilizia n. 14/1986 era da ritenersi decaduta fin
dall’11.03.1990.
Sotto questo profilo non è decisivo in senso contrario
l’argomento della ricorrente secondo il quale la decadenza
della concessione doveva essere accertata
dall’amministrazione comunale con un provvedimento espresso
che, a sua volta, doveva essere preceduto dall’avviso di
inizio del procedimento.
In primo luogo, la decadenza dal titolo edilizio opera di
diritto e non è richiesta a tal fine l’adozione di un
provvedimento espresso.
Nonostante la presenza di un minoritario orientamento
diverso, la tesi prevalente in giurisprudenza che il
Collegio condivide, si basa sulla lettera della legge, che
fa dipendere la decadenza non da un atto amministrativo,
costitutivo o dichiarativo, ma dal semplice fatto
dell'inutile decorso del tempo (cfr. TAR Pescara, n. 61 del
04.02.2013; Consiglio di Stato, sentenza n. 2915/2012).
Diversamente opinando, del resto, si farebbe dipendere la
decadenza non solo da un comportamento dei titolari del
permesso di costruire ma anche della Pubblica
Amministrazione che potrebbe in taluni casi adottare un
provvedimento espresso e in altri casi no, con possibili
ipotesi di disparità di trattamento tra situazioni che nella
sostanza si presenterebbero identiche (cfr. Tar Roma
sentenza n. 5530/2005; Consiglio di Stato, sentenza n.
2915/2012).
In ogni caso, nella vicenda in esame l’effetto ricognitorio
connesso all’atto di decadenza formale asseritamente
mancante, meramente accertativo –come detto- del verificarsi
del presupposto fattuale del decorso del tempo, ben può
rinvenirsi nella stessa impugnata determina n. 12 del
10.03.2008, nella quale, in parte motiva, si richiama per
esteso la motivazione della nota regionale n. 5252/2008
sopra ricordata che ribadiva la sopravvenuta inefficacia
della concessione edilizia n. 14/1986 per decorso del
termine.
Con riguardo al secondo profilo della censura (mancato invio
dell’avviso di inizio del procedimento), deve invece
rilevarsi che il provvedimento di pronuncia di decadenza del
titolo edilizio per la sua natura di atto dovuto è
espressione di un potere strettamente vincolato non
implicante, quindi, valutazioni discrezionali ma meri
accertamenti tecnici, senza necessità della comunicazione di
avvio del procedimento (cfr: Cons. Stato, Sez. V, n. 5691
dell’08.11.2012) (TAR
Sardegna, Sez. II,
sentenza 30.10.2014 n. 880 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La mancata indicazione nel verbale di operazioni
singolarmente prese in considerazione (quali, a titolo di
esemplificazione, l’identificazione del soggetto
responsabile della custodia dei plichi, ovvero il luogo di
custodia dei plichi stessi nel tempo che separa ogni seduta
dalla successiva) non può essere di per sé elevato a vizio
del procedimento nel profilo della violazione di legge,
stante l’acclarata assenza al riguardo di specifiche regole
procedimentali a livello di disciplina generale.
In ordine alle
modalità di conservazione delle offerte la giurisprudenza
non risulta essersi unanimemente pronunciata sulla
questione.
---
Un primo orientamento risulta
invero rigoroso in ordine all’individuazione delle misure da
adottare per garantire la conservazione e l’integrità dei
plichi contenenti le offerte, in modo che ne sia assicurata
la segretezza, e richiede che le cautele adottate siano
menzionate ed indicate nel verbale. di gara.
Secondo tale indirizzo “rigorista”, l’integrità dei plichi
contenti le offerte costituisce garanzia della segretezza
delle stesse e della parità di trattamento tra tutti i
concorrenti, assicurando il rispetto dei principi di buon
andamento e di imparzialità cui deve conformarsi l’azione
amministrativa.
L’adesione a tale ordine di argomenti comporta le seguenti
conseguenze:
1) l’individuazione di un soggetto responsabile della
custodia dei plichi o di un consegnatario degli stessi;
2) l’insufficienza di verbalizzazioni con generico
riferimento ai locali di custodia dei plichi, senza
precisare se gli stessi –e, in particolare, proprio le buste
recanti l’offerta tecnica- siano stati nuovamente
risigillati o comunque richiusi in modo adeguato così da
evitare qualsivoglia ipotesi di manomissione;
3) l’obbligo della commissione di adottare le cautele idonee
a garantire la segretezza degli atti di gara ed a prevenire
rischi di manomissioni, indicando nel verbale tali cautele e
dando atto a verbale della integrità dei plichi;
4) nel verbale deve risultare il nominativo di colui cui
siano materialmente consegnati i plichi, che ne assume le
conseguenti responsabilità, ovvero –con chiarezza e
univocità– deve essere indicato l’ufficio cui sono
consegnati e all’interno del quale essi vanno conservati,
con individuazione immediata del suo responsabile; in
qualsiasi momento, ogni autorità giurisdizionale o
amministrativa (e, a seconda dei casi e delle relative
funzioni, anche di vigilanza) dalla lettura dei verbali di
consegna deve poter agevolmente accertare quali siano stati
i passaggi dei plichi, ove essi siano stati collocati nel
corso del tempo, chi abbia posto mano su di essi e ogni
altra circostanza attinente alla loro integrità e
conservazione.
Va soggiunto che, sempre in coerenza con tale indirizzo
della giurisprudenza, le cautele osservate possono reputarsi
idonee allo scopo soltanto se con esse si verifica la
conservazione dei plichi in luogo chiuso, non accessibile al
pubblico, e con l’individuazione di un soggetto o ufficio
responsabile dell’inaccessibilità del luogo a terzi; e
che,sebbene non necessitano formule sacramentali, la
verbalizzazione è legittima se, oltre ad elencare le cautele
adottate, indica, sotto la responsabilità dei verbalizzanti,
che le cautele sono state efficaci in quanto i plichi sono
integri.
Sempre secondo l’orientamento giurisprudenziale ora in
esame, le garanzie a cautela della integrità dei plichi
integrerebbero una fattispecie di pericolo, non una
fattispecie di danno.
In conseguenza di ciò, quindi, sarebbe sufficiente che dalle
risultanze processuali emerga che, per inosservanza di norme
precauzionali, la documentazione di gara sia rimasta esposta
al rischio di manomissione per ritenere invalide le
operazioni di gara, e senza che a carico dell’interessato
possa configurarsi un onere di provare un concreto evento di
danno.
Detto altrimenti, al fine di inficiare le operazioni di gara
sarebbe pertanto di per sé condizione necessaria e
sufficiente la mera esposizione al rischio di manomissione
della documentazione oggetto di valutazione da parte della
Commissione giudicatrice della gara medesima.
---
Un secondo indirizzo giurisprudenziale reputa –per
contro- che la mancata emersione dagli atti di gara
dell’osservanza delle sopradescritte cautele assume soltanto
un profilo indiziario rispetto alla dimostrazione di
elementi che facciano dubitare della c.d. “genuinità” dei
plichi, necessitando comunque la prova che vi sia stata una
violazione dell’integrità e segretezza dei plichi medesimi.
Si è affermato in tal senso che la mancanza di una
dettagliata indicazione nei verbali di gara delle specifiche
modalità di custodia dei plichi e degli strumenti utilizzati
per garantire la segretezza delle offerte non costituisce
-di per sé- motivo di illegittimità delle operazioni di
gara, dovendo invece aversi riguardo al fatto che, in
concreto, non si sia verificata l’alterazione della
documentazione.
Questo diverso indirizzo non condivide pertanto il più
rigoroso orientamento precedentemente descritto, reputandolo
espressione di un indirizzo meramente formalistico, con la
conseguenza che la mancata indicazione in dettaglio, nei
verbali di gara, delle specifiche modalità di custodia dei
plichi e degli strumenti utilizzati per garantire la
segretezza delle offerte non costituirebbe -di per sé
motivo- di illegittimità del verbale medesimo e della
complessiva attività posta in essere dalla Commissione di
gara, laddove il concreto andamento di quest’ultima, ovvero
ulteriori elementi non inducano a dubitare della corretta
conservazione.
---
La questione
sottoposta all’esame del Collegio attiene dunque agli
adempimenti della Commissione giudicatrice della gara che
devono accompagnare le determinazioni di valutazione delle
offerte, ove queste non si esauriscano in un’unica seduta:
adempimenti che, come rilevato innanzi, investono le
modalità di conservazione e di custodia dei plichi a
prevenzione di manomissioni da cui possa derivare
l’alterazioni di atti del procedimento quali inizialmente
introdotti dai partecipati alla gara.
Va evidenziato al riguardo che si tratta di operazioni
materiali che non coinvolgono la volontà negoziale
dell’Amministrazione, ma che sono finalizzate a garantire la
genuinità della documentazione sulla quale la Commissione
giudicatrice della gara è chiamata ad esprimersi.
Invero, sul punto vi è una evidente lacuna normativa: le
oscillazioni giurisprudenziali –che hanno evidenziato come
possano esservi diverse soluzioni ragionevoli della
questione– si sono verificate poiché sia il D.L.vo 163 del
2006, sia il suo regolamento attuativo approvato con D.P.R.
05.10.2010, n. 207, non recano sul punto disposizioni di
dettaglio.
IL regolamento reca, al suo art. 117, un limitato rifermento
alle sedute di gara, per le quali, in particolare, è
prevista la possibilità di sospensione e di aggiornamento a
data successiva, con esclusione della fase di apertura delle
buste contenenti l’offerta economica.
In assenza di disposizioni espresse (che in materia
risulterebbero essenziali per ridurre il contenzioso e
rendere più certi gli esiti delle gare), e poiché
l’ordinamento si sta senz’altro evolvendo verso
l’affermazione di regole che non si basino su soluzioni
formalistiche, il Collegio ritiene, quindi, che la mancata
indicazione nel verbale di operazioni singolarmente prese in
considerazione (quali, a titolo di esemplificazione,
l’identificazione del soggetto responsabile della custodia
dei plichi, ovvero il luogo di custodia dei plichi stessi
nel tempo che separa ogni seduta dalla successiva) non possa
essere di per sé elevato a vizio del procedimento nel
profilo della violazione di legge, stante l’acclarata
assenza al riguardo di specifiche regole procedimentali a
livello di disciplina generale.
In assenza di disposizioni statali di rango legislativo o
regolamentare, peraltro, le singole amministrazioni possono
disciplinare le modalità di conservazione dei plichi con
proprie regole generali ed astratte, volte ad evitare che i
singoli funzionari possano liberamente decidere il da farsi.
6.2. Posto ciò, Olicar ha qui dedotto a sostegno della
propria tesi (secondo la quale l’anzidetta mancanza
inficerebbe ex se l’esito del procedimento di scelta
del contraente) la circostanza che in tutti verbali di gara
non sarebbe dato di rinvenire riferimenti di sorta in ordine
alle modalità di conservazione delle offerte tecniche già
aperte nel lasso di tempo intercorrente tra la conclusione
della relativa seduta della Commissione di gara e quella
successivamente tenuta da quest’ultima: circostanza, questa,
confortata dalla stessa lettura del doc. 2 del fascicolo di
primo grado.
Olicar, in particolare, richiama a conforto della propria
tesi la sentenza n. 978 dd. 18.02.2013 resa da questa stessa
Sezione, laddove tra l’altro –e per quanto qui segnatamente
interessa– si afferma che “se il verbale indica che i
plichi sono conservati in luogo chiuso, senza ulteriori
specificazioni, e se in ciascun verbale si dichiara che i
plichi pervenuti risultano tutti integri e debitamente
sigillati e firmati sui lembi di chiusura, facendo il
verbale prova fino a querela di falso, si deve escludere che
sia avvenuta una manomissione e che le operazioni di gara
siano illegittime”.
Ad avviso dell’appellata, quindi, l’enunciazione
giurisprudenziale surriferita indicherebbe le circostanze
minimali che dovrebbero essere menzionate nel verbale delle
operazioni di gara al fine di garantire l’osservanza dei
principi di segretezza, di intangibilità e di non
conoscibilità delle offerte, assolutamente essenziali per il
legittimo svolgimento dei procedimenti ad evidenza pubblica
e che nella specie risulterebbero -per contro- palesemente
violati a causa dell’omissione riscontrata al riguardo nel
verbale che è stato redatto.
6.3.1. Il Collegio, per parte propria, rileva che nella
stessa sentenza riferita da Olicar a sostegno della propria
tesi si dà atto che la giurisprudenza non risulta essersi
unanimemente pronunciata sulla questione.
6.3.2. Un primo orientamento risulta invero rigoroso
in ordine all’individuazione delle misure da adottare per
garantire la conservazione e l’integrità dei plichi
contenenti le offerte, in modo che ne sia assicurata la
segretezza, e richiede che le cautele adottate siano
menzionate ed indicate nel verbale. di gara (cfr., ad es.,
Cons. Stato, Sez. VI, 27.07.2011, n. 4487; Sez. V,
21.05.2010, n. 3203, e 12.12.2009, n. 7804).
Secondo tale indirizzo “rigorista”, l’integrità dei
plichi contenti le offerte costituisce garanzia della
segretezza delle stesse e della parità di trattamento tra
tutti i concorrenti, assicurando il rispetto dei principi di
buon andamento e di imparzialità cui deve conformarsi
l’azione amministrativa (così la Cons. Stato, Sez. V,
21.05.2010 n. 3203; cfr., altresì, negli stessi termini
Cons. Stato, Sez. V, 20.03.2008 n. 1219).
L’adesione a tale ordine di argomenti comporta le seguenti
conseguenze:
1) l’individuazione di un soggetto responsabile della
custodia dei plichi o di un consegnatario degli stessi;
2) l’insufficienza di verbalizzazioni con generico
riferimento ai locali di custodia dei plichi, senza
precisare se gli stessi –e, in particolare, proprio le buste
recanti l’offerta tecnica- siano stati nuovamente
risigillati o comunque richiusi in modo adeguato così da
evitare qualsivoglia ipotesi di manomissione (cfr. sul punto
l’anzidetta sentenza di Cons. Stato, Sez. V, 21.05.2010 n.
3203);
3) l’obbligo della commissione di adottare le cautele idonee
a garantire la segretezza degli atti di gara ed a prevenire
rischi di manomissioni, indicando nel verbale tali cautele e
dando atto a verbale della integrità dei plichi;
4) nel verbale deve risultare il nominativo di colui cui
siano materialmente consegnati i plichi, che ne assume le
conseguenti responsabilità, ovvero –con chiarezza e
univocità– deve essere indicato l’ufficio cui sono
consegnati e all’interno del quale essi vanno conservati,
con individuazione immediata del suo responsabile; in
qualsiasi momento, ogni autorità giurisdizionale o
amministrativa (e, a seconda dei casi e delle relative
funzioni, anche di vigilanza) dalla lettura dei verbali di
consegna deve poter agevolmente accertare quali siano stati
i passaggi dei plichi, ove essi siano stati collocati nel
corso del tempo, chi abbia posto mano su di essi e ogni
altra circostanza attinente alla loro integrità e
conservazione.
Va soggiunto che, sempre in coerenza con tale indirizzo
della giurisprudenza, le cautele osservate possono reputarsi
idonee allo scopo soltanto se con esse si verifica la
conservazione dei plichi in luogo chiuso, non accessibile al
pubblico, e con l’individuazione di un soggetto o ufficio
responsabile dell’inaccessibilità del luogo a terzi; e
che,sebbene non necessitano formule sacramentali, la
verbalizzazione è legittima se, oltre ad elencare le cautele
adottate, indica, sotto la responsabilità dei verbalizzanti,
che le cautele sono state efficaci in quanto i plichi sono
integri (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 23.06.2011, n.
3803, 30.06.2011, n. 3902, e 27.07.2011, n. 4487).
Sempre secondo l’orientamento giurisprudenziale ora in
esame, le garanzie a cautela della integrità dei plichi
integrerebbero una fattispecie di pericolo, non una
fattispecie di danno.
In conseguenza di ciò, quindi, sarebbe sufficiente che dalle
risultanze processuali emerga che, per inosservanza di norme
precauzionali, la documentazione di gara sia rimasta esposta
al rischio di manomissione per ritenere invalide le
operazioni di gara, e senza che a carico dell’interessato
possa configurarsi un onere di provare un concreto evento di
danno (così Cons. Stato, Sez. V, 21.05.2010, n. 3203).
Detto altrimenti, al fine di inficiare le operazioni di gara
sarebbe pertanto di per sé condizione necessaria e
sufficiente la mera esposizione al rischio di manomissione
della documentazione oggetto di valutazione da parte della
Commissione giudicatrice della gara medesima (Cons. Stato,
Sez. V, 16.03.2011, n. 1617).
6.3.3. Un secondo indirizzo giurisprudenziale reputa
–per contro- che la mancata emersione dagli atti di gara
dell’osservanza delle sopradescritte cautele assume soltanto
un profilo indiziario rispetto alla dimostrazione di
elementi che facciano dubitare della c.d. “genuinità”
dei plichi, necessitando comunque la prova che vi sia stata
una violazione dell’integrità e segretezza dei plichi
medesimi.
Si è affermato in tal senso che la mancanza di una
dettagliata indicazione nei verbali di gara delle specifiche
modalità di custodia dei plichi e degli strumenti utilizzati
per garantire la segretezza delle offerte non costituisce
-di per sé- motivo di illegittimità delle operazioni di
gara, dovendo invece aversi riguardo al fatto che, in
concreto, non si sia verificata l’alterazione della
documentazione (così Cons. Stato, Sez. V, 22.02.2011 n.
1094, 25.07.2006 n. 4657, 10.05.2005 n. 2342 e 20.09.2001 n.
4973; Sez. IV, 05.10.2005 n. 5360).
Questo diverso indirizzo non condivide pertanto il più
rigoroso orientamento precedentemente descritto, reputandolo
espressione di un indirizzo meramente formalistico, con la
conseguenza che la mancata indicazione in dettaglio, nei
verbali di gara, delle specifiche modalità di custodia dei
plichi e degli strumenti utilizzati per garantire la
segretezza delle offerte non costituirebbe -di per sé
motivo- di illegittimità del verbale medesimo e della
complessiva attività posta in essere dalla Commissione di
gara, laddove il concreto andamento di quest’ultima, ovvero
ulteriori elementi non inducano a dubitare della corretta
conservazione.
6.3.4. La questione sottoposta all’esame del Collegio
attiene dunque agli adempimenti della Commissione
giudicatrice della gara che devono accompagnare le
determinazioni di valutazione delle offerte, ove queste non
si esauriscano in un’unica seduta: adempimenti che, come
rilevato innanzi, investono le modalità di conservazione e
di custodia dei plichi a prevenzione di manomissioni da cui
possa derivare l’alterazioni di atti del procedimento quali
inizialmente introdotti dai partecipati alla gara.
Va evidenziato al riguardo che si tratta di operazioni
materiali che non coinvolgono la volontà negoziale
dell’Amministrazione, ma che sono finalizzate a garantire la
genuinità della documentazione sulla quale la Commissione
giudicatrice della gara è chiamata ad esprimersi.
Invero, sul punto vi è una evidente lacuna normativa: le
oscillazioni giurisprudenziali –che hanno evidenziato come
possano esservi diverse soluzioni ragionevoli della
questione– si sono verificate poiché sia il D.L.vo 163 del
2006, sia il suo regolamento attuativo approvato con D.P.R.
05.10.2010, n. 207, non recano sul punto disposizioni di
dettaglio.
IL regolamento reca, al suo art. 117, un limitato rifermento
alle sedute di gara, per le quali, in particolare, è
prevista la possibilità di sospensione e di aggiornamento a
data successiva, con esclusione della fase di apertura delle
buste contenenti l’offerta economica.
6.3.5. In assenza di disposizioni espresse (che in materia
risulterebbero essenziali per ridurre il contenzioso e
rendere più certi gli esiti delle gare), e poiché
l’ordinamento si sta senz’altro evolvendo verso
l’affermazione di regole che non si basino su soluzioni
formalistiche, il Collegio ritiene, quindi, che la mancata
indicazione nel verbale di operazioni singolarmente prese in
considerazione (quali, a titolo di esemplificazione,
l’identificazione del soggetto responsabile della custodia
dei plichi, ovvero il luogo di custodia dei plichi stessi
nel tempo che separa ogni seduta dalla successiva) non possa
essere di per sé elevato a vizio del procedimento nel
profilo della violazione di legge, stante l’acclarata
assenza al riguardo di specifiche regole procedimentali a
livello di disciplina generale.
In assenza di disposizioni statali di rango legislativo o
regolamentare, peraltro, le singole amministrazioni possono
disciplinare le modalità di conservazione dei plichi con
proprie regole generali ed astratte, volte ad evitare che i
singoli funzionari possano liberamente decidere il da farsi.
Non dovendosi applicare nella gara de qua specifiche
disposizioni di ius scriptum, il Collegio deve
pertanto a questo punto soffermarsi sugli adempimenti
complessivamente compiuti dalla Commissione a salvaguardia
della segretezza delle offerte, dell’integrità degli atti di
gara e del pericolo di manomissione.
L’atto da esaminare per verificare se vi sono state idonee
operazioni di salvaguardia della genuinità e della integrità
dei plichi è ovviamente il verbale che deve accompagnare le
operazioni di gara.
Il verbale è redatto in via ordinaria per ogni adunanza
dell’organo collegiale ed ha funzione ricognitiva e
documentale delle operazioni compiute e delle deliberazioni
assunte.
L’art. 78, comma 1, del D.L.vo 163 del 2006 indica gli
elementi informativi essenziali e minimali da cui deve
essere assistito il verbale da redigersi per “ogni
contratto”.
Ivi, peraltro, come sopra osservato, il legislatore non ha
preso in alcuna considerazione le modalità di custodia dei
plichi nella fase che intercorre fra una seduta e l’altra:
ossia, ancora una volta non si rinviene nell’ordinamento un
puntuale dato normativo al quale raccordare il giudizio di
sufficienza della verbalizzazione e ricavare, quindi, il
contestato elemento invalidante della gara.
Queste notazioni di fondo, pertanto, inducono il Collegio a
concludere nel senso che –fermi restando sul piano
funzionale i principi di sufficienza e di esaustività del
verbale- la mancata e pedissequa indicazione in ciascun
verbale di gara delle operazioni specificatamente
finalizzate alla custodia dei plichi non può tradursi, con
carattere di automatismo, in effetto viziante del
procedimento di scelta del contraente, non potendosi
pertanto collegare per implicito all’insufficienza della
verbalizzazione il pregiudizio alla segretezza ed
all’integrità delle offerte.
Tale conclusione risulta, del resto, coerente al generale
principio di conservazione degli atti giuridici, il quale
porta ad escludere che l’atto deliberativo possa essere
viziato per incompletezza dell’atto descrittivo delle
operazioni materiali, tecniche ed intellettive ad esso
preordinate, salvo i casi in cui puntuali regole dettate
dall’Amministrazione aggiudicatrice indichino il contenuto
essenziale del verbale.
Ne consegue che ogni contestazione del concorrente -volta ad
ipotizzare una possibile manomissione, o esposizione a
manomissione dei plichi, idonea ad introdurre un vulnus alla
regolarità del procedimento di selezione del contraente- non
può trovare sostegno nel mero dato formale delle indicazioni
che si rinvengono nel verbale redatto per ogni adunanza
della Commissione preposta all’esame delle offerte, ma deve
essere suffragata dall’allegazione di puntuali circostanze
ed elementi che, su un piano di effettività e di efficienza
causale, abbiano inciso sulla c.d. “genuinità”
dell’offerta, che va preservata in corso di gara.
Né va sottaciuto che, per quanto le modalità di
conservazione siano state accurate e rigorose (ad es.
chiusura in cassaforte o altro) non si potrà mai escludere
che vi sia stata una dolosa manipolazione, ad esempio ad
opera di chi conosceva la combinazione per aprire la
cassaforte), e -nondimeno- che chi sia interessato a farlo
possa darne la prova; e –-per contro, e altrettanto
ragionevolmente- il fatto che le modalità di conservazione
siano state meno rigorose non autorizza a presumere che la
manipolazione vi sia stata, a meno che non vengano prodotte
in tal senso prove o quanto meno indizi.
In linea di principio tutto quanto sopra consente pure di
affermare che sussiste un vizio invalidante del procedimento
di scelta del contraente soltanto qualora esso sia
positivamente provato (se del caso all’esito o nel corso di
un processo penale), o quanto meno vi siano seri indizi, che
la documentazione di gara sia stata manipolata negli
intervalli fra un’operazione e l’altra, e che in tale ordine
delle cose dalla menzione a verbale delle modalità di
conservazione della documentazione medesima discende il mero
effetto della precostituzione di una prova dotata di fede
privilegiata, a’ sensi degli artt. 2699 e 2700 cod. civ.,
idonea quindi a prevenire o a rendere comunque più
difficoltose future contestazioni: ma, per quanto detto
innanzi, tali menzioni a verbale, ancorché accurate nel loro
contenuto, comunque non impediranno l’esercizio dei poteri
della autorità giudiziaria ovvero, a chi vi abbia interesse,
il fornire la prova dell’avvenuta manipolazione, se del caso
anche con il procedimento di querela di falso di cui
all’art. 77 e ss. cod. proc. amm. e di cui alla disciplina
dell’art. 221 cod. proc. civ. ivi presupposta; e -allo
stesso modo- la mancanza o l’incompletezza della
verbalizzazione medesima, ovvero l’eventuale inadeguatezza
delle modalità di custodia prescelte avranno soltanto
l’effetto di rendere meno arduo il compito di chi voglia
raggiungere quella prova, ovvero rappresentare quegli indizi
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.10.2014 n. 5060 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Pannelli liberi in condominio. L'assemblea non può vietare
l'impianto nelle parti comuni.
Il tribunale di Milano: sul fotovoltaico la maggioranza
qualificata indica solo le modalità.
L'assemblea non può vietare al condomino di utilizzare il
tetto per la posa di pannelli fotovoltaici per la produzione
di energia elettrica a uso esclusivo del proprio
appartamento. Gli altri comproprietari, infatti, possono
tutt'al più deliberare con la maggioranza qualificata di cui
all'art. 1122-bis c.c. di prescrivere al condomino delle
modalità alternative per la realizzazione dell'opera o
imporre cautele a salvaguardia della stabilità, della
sicurezza o del decoro architettonico dell'edificio
condominiale. Il condomino interessato alla costruzione
dell'impianto può quindi limitarsi a manifestare tale sua
intenzione all'amministratore, informandolo del contenuto
specifico e delle modalità di esecuzione dell'intervento.
Questi i chiarimenti contenuti nell'interessante
sentenza
07.10.2014 n.
11707, con la quale il TRIBUNALE
di Milano, Sez. XIII civile, ha fatto applicazione della nuova fattispecie di
cui all'art. 1122-bis introdotto dalla legge di riforma del
condominio n. 220/2012.
Nella specie il condomino proprietario dell'ultimo piano
intendeva installare sul tetto dello stabile condominiale
otto pannelli fotovoltaici per la produzione di energia
elettrica a uso del proprio appartamento e, a tale scopo, si
era premurato di avvertire del suo proposito
l'amministratore, inviandogli uno schema relativo
all'ubicazione e alla forma dei pannelli. L'assemblea
condominiale, nel valutare il punto all'ordine del giorno
relativo a tale intervento, aveva quindi negato al
comproprietario la possibilità di procedere
all'installazione degli stessi. Di qui l'impugnazione della
deliberazione assembleare.
Il tribunale di Milano ha quindi esaminato la vicenda alla
luce del predetto art. 1122-bis c.c. che, di fatto, ha
introdotto un vero e proprio diritto soggettivo dei
condomini a utilizzare le parti comuni per l'installazione
di impianti per la produzione di energia da fonti
rinnovabili a uso esclusivo delle singole unità immobiliari.
La norma in questione, che a prima vista può apparire
singolare nella cornice del diritto condominiale, deve
essere però interpretata, come correttamente messo in
evidenza dal giudice meneghino, alla luce dei criteri
generali di utilizzo dei beni comuni di cui all'art. 1102
c.c., in base al quale ciascun comproprietario può servirsi
della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non
impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso
secondo il loro diritto.
Fermo lo schema procedimentale
previsto dal citato art. 1122-bis c.c., dovere del condomino
di informare preventivamente l'amministratore, il quale a
sua volta riferisce all'assemblea, il tribunale di Milano ha
quindi efficacemente messo in rilievo come l'organo
assembleare esorbiti dalle proprie competenze laddove si
arroghi il diritto di vietare tout court al condomino di
realizzare un intervento del genere. Anche perché il
legislatore ha comunque previsto la possibilità che
l'assemblea, a maggioranza qualificata, possa tutelare le
parti comuni sia prescrivendo al condominio modalità
alternative di realizzazione dell'impianto sia imponendogli
ulteriori cautele a salvaguardia dell'edificio condominiale
sia subordinandone l'esecuzione alla prestazione di idonea
garanzia per i danni eventuali.
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Le novità introdotte con la riforma.
Resta il limite invalicabile del danno.
Con la riforma del condominio è stata consentita
l'installazione di impianti per la produzione di energia da
fonti rinnovabili (fotovoltaico, solare termico ecc.)
destinati al servizio di singole unità immobiliari sul
lastrico solare, su ogni altra idonea superficie comune e
sulle parti di proprietà individuale dell'interessato.
Se un condomino utilizza detti spazi di proprietà esclusiva
non ci sono particolari problemi, ma non possono essere
arrecati danni alle parti comuni (per esempio collocando i
pannelli in giardino davanti alla finestra delle scale con
conseguente riduzione della luminosità), né è possibile
creare fastidiose immissioni luminose tali da obbligare i
vicini all'inevitabile chiusura degli infissi: in tal caso
infatti questi ultimi possono rivolgersi al giudice per
richiedere la modifica dell'inclinazione dei pannelli in
modo da evitare la riflessione della luce solare.
In ogni
caso deve essere rispettato il decoro architettonico
dell'edificio. Tale limite, nonostante il silenzio del
legislatore, a differenza di quanto prescritto per
l'installazione di antenne private, dovrebbe riguardare pure
l'installazione di impianti fotovoltaici. Del resto tale
conclusione sembra trovare indiretta conferma nella legge di
riforma della disciplina condominiale che prevede, a tutela
della stabilità, della sicurezza o del decoro architettonico
dell'edificio, che l'assemblea condominiale possa
prescrivere modalità alternative di esecuzione dei lavori o
imporre cautele.
Pannelli solari e modifiche alle parti comuni. Merita di
essere precisato che se il singolo condomino intende
realizzare gli impianti sopra indicati è libero di agire
senza interpellare l'amministratore e poi l'assemblea. Ciò è
particolarmente evidente se gli impianti sono realizzati
nella sola struttura immobiliare di chi è titolare
dell'alloggio al cui servizio sono destinati: in tal caso
non essendovi alcuna invasione nelle parti collettive il
diritto di proprietà dell'alloggio permette al singolo di
eseguire i lavori in piena libertà.
Esiste però un'eccezione a questa regola. Qualora
l'installazione degli impianti richieda necessariamente
modificazioni delle parti comuni, l'interessato deve darne
comunicazione all'amministratore, indicando il contenuto
specifico e le modalità di esecuzione degli interventi. Se
si presume che, nella quasi totalità dei casi, il condomino
non sia un tecnico professionista, questa comunicazione
dovrebbe essere accompagnata da una relazione tecnica che
evidenzi quanto prescritto dalla norma. La stessa ha quindi
lo scopo di permettere all'amministratore e all'assemblea di
evidenziare all'interessato un eventuale intervento
sostitutivo rispetto a quello preventivato di contenuto meno
invasivo per le parti condominiali coinvolte.
I poteri dell'assemblea. L'assemblea può intervenire e
imporre, con un numero di voti che rappresenti la
maggioranza degli intervenuti e almeno i due terzi del
valore dell'edificio, adeguate modalità alternative di
esecuzione o imporre cautele a salvaguardia della stabilità,
della sicurezza o del decoro architettonico dell'edificio.
L'assemblea, con la medesima maggioranza, può altresì
subordinare l'installazione dei pannelli alla prestazione,
da parte dell'interessato, di idonea garanzia per i danni
eventuali.
Tale disciplina coglie quindi in pieno l'esigenza di
tutelare l'estetica e l'aspetto architettonico
dell'edificio. Tuttavia non si comprende perché occorra una
maggioranza così alta, vista la necessità di tutela
dell'interesse della collettività a fronte di quello di un
singolo condomino. Poiché si tratta di una forma di tutela
dell'edificio da eventuali danni che potrebbero derivare a
causa dell'intervento del singolo, a rigor di logica sarebbe
stato più corretto prescrivere le ordinarie maggioranze
dell'assemblea di prima e seconda convocazione.
La ripartizione del lastrico. Uno degli aspetti più
problematici dell'installazione da parte del singolo di
pannelli solari (fotovoltaici o solare termico) sul tetto o
su altre parti comuni riguarda la necessità di garantire, ai
sensi dell'art. 1102 c.c., il pari utilizzo agli altri
condomini.
Certo è che non è possibile occupare in via permanente tutto
o quasi il lastrico o il cortile o il tetto. Per questo
motivo è tecnicamente impossibile, per esempio, che in un
palazzo di dieci piani tutti i condomini possano utilizzare
il tetto per posare i propri pannelli solari in quanto lo
spazio non è sufficiente. In altre parole, ciascun
comproprietario potrebbe avere interesse a installare
pannelli per produrre energia, ma potrebbe non essere
sufficiente per tutti la superficie a disposizione, o
sopportabile dalla struttura il peso di più impianti ecc.
Dette eventualità fanno sì che la disponibilità
dell'installazione non sia affatto scontata, ma debba essere
valutata caso per caso, considerando la volontà e gli
interessi di tutti i condomini.
In effetti è vero che il singolo condomino può usare la cosa
comune a suo piacimento, secondo le proprie necessità e
convenienze, e nella sua interezza, indipendentemente dal
fatto che sia titolare di un piccolo o grosso appartamento,
ma ciò non deve però danneggiare gli altri condomini. In
quest'ottica è molto importante quanto affermato dalla legge
di riforma del condominio, la quale prevede che l'assemblea,
a richiesta degli interessati, proceda a ripartire l'uso del
lastrico solare e delle altre superfici comuni,
salvaguardando le diverse forme di utilizzo previste dal
regolamento di condominio o comunque in atto, che si
potranno eventualmente comprimere, ma non sopprimere del
tutto
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.12.2014). |
CONDOMINIO: Villette a schiera nel condominio.
Beni comuni. Per la Cassazione necessario fare riferimento
al rogito.
La nozione di
«condominio» in senso proprio non riguarda solamente gli
edifici che si estendono in verticale ma si può applicare
anche ai corpi di fabbrica adiacenti orizzontalmente (come i
villini «a schiera»). Anche questi ultimi possono essere
dotati di strutture portanti e di impianti essenziali comuni
«se non risulta il contrario dal titolo» (Cassazione,
sentenza 8066/2005). Un principio che è divenuto norma,
contenuta nell’articolo 1117-bis del Codice civile
(introdotto dalla legge 220/2012).
La Corte di Cassazione (Sez. II civile, sentenza
06.10.2014 n. 20986) si è occupata,
di recente, della fattispecie riguardante i proprietari di
una villetta (attori) che convenivano in giudizio il
condominio per accertare che la villa di loro proprietà non
faceva parte della compagine condominiale. Questi condòmini
non avevano pagato le spese e avevano ricevuto un decreto
ingiuntivo, al quale avevano fatto opposizione.
I giudici della Cassazione, preliminarmente, precisavano
che, per parlare di condominio, è necessario non solo
indagare sulla funzione delle parti comuni ma anche
sull’atto d’acquisto (il «titolo»). Solo così si può
rimuovere ogni dubbio sulla comproprietà (in comunione) di
determinati beni. La Corte d’appello aveva ritenuto che la
comproprietà di alcuni beni derivasse direttamente dal
titolo d’acquisto della proprietà, in ragione della
formulazione letterale dell’atto.
Atto dove peraltro non
risultavano individuate le parti comuni tra l’edificio
acquistato dai ricorrenti e gli altri edifici inseriti nel
complesso immobiliare, ma si prevedeva espressamente
l’acquisto della quota di 39/100 dei diritti sulle parti
comuni del condominio di cui l’immobile faceva parte. La
Cassazione, acquisendo il ragionamento della Corte
d’appello, ha ritenuto che la partecipazione dei padroni
delle villette alla comunione non poteva comunque essere
esclusa dall’accertamento che l’immobile non fruisse dei
beni e servizi comuni.
L’accertamento della natura non condominiale di un bene –per mancanza del presupposto della relazione di accessorietà
strumentale e funzionale con le unità immobiliari comprese
nel condominio- non esclude quindi l’eventuale comunione su
di esso instaurata per volontà delle parti, sulla base del
contenuto dell’atto di acquisto dell’immobile. I proprietari
delle villette sono stati così giudicati vincolati al
pagamento degli oneri condominiali
(articolo Il Sole 24 Ore
del 02.12.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Serve la Dia per il soppalco.
Tar Campania e permessi di costruire.
Non basta la Dia ma serve il permesso di costruire quando si
scopre che nel soppalco c'è il bagno, per quanto chimico:
ciò significa che i locali sono comunque abitabili.
È quanto
emerge dalla
sentenza
25.09.2014 n. 5027, pubblicata dal TAR Campania-Napoli,
Sez. IV.
Confermato l'ordine di demolizione di due soppalchi di otto
metri quadrati ciascuno impostati a due metri dal calpestìo.
Non ha buon gioco il proprietario a sostenere che si tratta
di semplici magazzini. In realtà dal sopralluogo emerge che
si tratta di strutture servite da una scala, dotate di wc,
perfettamente abitabili anche perché posti a un'altezza
compatibile con la natura residenziale, vale a dire a un
metro settanta centimetri dalla copertura.
In realtà si tratta di un'opera qualificabile come
ristrutturazione edilizia ai sensi dell'articolo 10 del
testo unico sull'edilizia, come tale soggetta al rilascio
del permesso di costruire, aumentando la superficie utile. E
il soppalco deve ritenersi abitabile sia per la presenza del
bagno chimico sia per la presenza di un bagno chimico.
Ancora: per l'ordinanza di demolizione emessa dall'ente
locale non sussiste alcun obbligo da parte
dell'amministrazione di comunicare l'avvio del procedimento,
essendo questa un atto repressivo tipizzato e vincolato, per
il quale, dunque, non è richiesta alcuna partecipazione del
privato destinatario, che non avrebbe alcuna utilità, vista
la natura dell'atto.
Al proprietario del manufatto non resta che pagare le spese
processuali al Comune
(articolo ItaliaOggi Sette dell'08.12.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza è pacificamente orientata nel ritenere che
per l'ordinanza di demolizione non sussiste alcun obbligo
della P.A. di comunicare l'avvio del procedimento, essendo
questa un atto repressivo tipizzato e vincolato, per il
quale, dunque, non è richiesta alcuna partecipazione del
privato destinatario, che non avrebbe alcuna utilità, stante
la natura dell’atto.
Infine, va respinta la censura sotto il profilo della
violazione delle disposizioni sulla previa comunicazione di
avvio del procedimento.
Contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, la
giurisprudenza è pacificamente orientata nel ritenere che
per l'ordinanza di demolizione non sussiste alcun obbligo
della P.A. di comunicare l'avvio del procedimento, essendo
questa un atto repressivo tipizzato e vincolato, per il
quale, dunque, non è richiesta alcuna partecipazione del
privato destinatario, che non avrebbe alcuna utilità, stante
la natura dell’atto (ex plurimis, solo per citare
alcune tra le più recenti, Cons. St., sez. VI 31.05.2013 n.
3010; id., 24.05.2013 n. 2873; sez. V, 06.06.2012, n. 3337;
TAR Napoli, sez. VIII, 26.03.2014 n. 1780; id., sez. III,
20.03.2014, n. 1596; sez. VII, 05.03.2014, n. 1332; id.,
01.10.2012, n. 4005; sez. II, 14.12.2012, n. 5214; sez. IV,
17.01.2014, n. 314; id., 08.04.2013, n. 1830)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza
25.09.2014 n. 502
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
trasformazione di un’area boscata di
mq. 277 in zona pavimentata con calcestruzzo cementizio
hanno indubbiamente mutato la conformazione urbanistica del
territorio e, come tali, richiedevano il preventivo rilascio
del permesso di costruire ai sensi del combinato disposto
degli artt. 3 e 10 del D.P.R. n. 380/2001 oltre che della
autorizzazione paesaggistica trattandosi di zona vincolata
ai sensi del D.Lgs. 22.01.2004 n. 42 in virtù del D.M.
22.12.1965 recante dichiarazione di notevole interesse
pubblico ai sensi della L. 29.06.1939 n. 1497.
Si aggiunga che tale conclusione è coerente con gli approdi
della giurisprudenza amministrativa secondo cui occorre il
titolo concessorio per tutte le opere che modifichino
stabilmente il terreno per un uso per cui sia necessaria una
preventiva valutazione di opportunità e di convenienza per
l'armonioso sviluppo dell'aggregato urbano.
Rientra, pertanto, tra tali opere lo sbancamento di un
terreno, pur in assenza di opere in muratura, dando luogo a
modificazione della precedente conformazione di una
determinata area e dell’ambiente circostante.
L’argomentazione non persuade.
A conclusioni opposte deve pervenirsi in considerazione
delle dimensioni e della natura del variato assetto
orografico del territorio, trattandosi di una indubbia
alterazione dello stato dei luoghi, con trasformazione di
un’area boscata di mq. 277 in zona pavimentata con
calcestruzzo cementizio. Tali opere hanno indubbiamente
mutato la conformazione urbanistica del territorio e, come
tali, richiedevano il preventivo rilascio del permesso di
costruire ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 10
del D.P.R. n. 380/2001 oltre che della autorizzazione
paesaggistica trattandosi di zona vincolata ai sensi del
D.Lgs. 22.01.2004 n. 42 in virtù del D.M. 22.12.1965 recante
dichiarazione di notevole interesse pubblico ai sensi della
L. 29.06.1939 n. 1497.
Si aggiunga che tale conclusione è coerente con gli approdi
della giurisprudenza amministrativa (TAR Campania, Napoli,
Sez. III, 04.05.2012 n. 2044; TAR Campania, Napoli, Sez. IV,
23.04.2009 n. 2141; TAR Campania, Napoli, Sez. IV,
20.10.2003 n. 12922; TAR Piemonte, 14.12.2005 n. 4057; TAR
Lazio, Roma, 08.05.2002, n. 4039; TAR Sicilia, Palermo,
25.05.2005 n. 883) secondo cui occorre il titolo concessorio
per tutte le opere che modifichino stabilmente il terreno
per un uso per cui sia necessaria una preventiva valutazione
di opportunità e di convenienza per l'armonioso sviluppo
dell'aggregato urbano. Rientra, pertanto, tra tali opere lo
sbancamento di un terreno, pur in assenza di opere in
muratura, dando luogo a modificazione della precedente
conformazione di una determinata area e dell’ambiente
circostante.
Non può dubitarsi quindi della legittimità dell’ordine di
demolizione.
Com'è noto nelle zone soggette a vincoli di cui al D.Lgs. n.
42/2004 ogni intervento non rientrante tra quelli di cui
all'art. 149 deve essere preceduto da specifica
autorizzazione paesaggistica e, in assenza di quest'ultima,
le opere senza titolo debbono essere ridotte in pristino ai
sensi dell'art. 167 dello stesso decreto legislativo.
Allo stesso modo l'art. 27 del D.P.R. n. 380/2001 prevede
che "il dirigente o il responsabile, quando accerti
l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su
aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre
norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di
inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici
ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di
cui alla legge 18.04.1962, n. 167 , e successive
modificazioni ed integrazioni, nonché in tutti i casi di
difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni
degli strumenti urbanistici, provvede alla demolizione e al
ripristino dello stato dei luoghi".
Nel caso di specie è incontestata la presenza di vincoli
paesaggistici sull'area in questione così come
l'insussistenza di un titolo per le opere realizzate e,
pertanto, correttamente ne è stata ordinata la riduzione in
pristino dello stato dei luoghi ai sensi dell’art. 27 del
DPR n. 380/2001 e dell’art. 167 del D.lgs. n. 4272004.
Neppure merita condivisione la deduzione che si incentra
sulla mancata esplicitazione circa l’attualità
dell’interesse pubblico al ripristino dello stato dei
luoghi.
Sotto un primo profilo, non è stato in alcun modo comprovata
la presunta risalenza nel tempo delle opere e, inoltre, in
ogni caso il potere di reprimere abusi edilizi non è
soggetto né a prescrizione, né a decadenza stante il
carattere permanentemente illegale dell'abuso edilizio
medesimo, per cui non è configurabile alcun possibile
affidamento del privato sulla legittimità di opere edilizie
in realtà abusive. Conseguentemente il doveroso
provvedimento demolitorio non necessita di alcuna specifica
motivazione, sull'esistenza di un interesse pubblico alla
rimozione dell'opera abusiva perché tale interesse pubblico
sussiste in re ipsa
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 01.09.2014 n. 4639 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per pacifico e consolidato orientamento
giurisprudenziale, ove le opere risultino diverse da quelle
sanabili e indicate nell’art. 167 del Codice dei beni
culturali, le competenti autorità non possono che emanare un
atto dal contenuto vincolato e cioè esprimersi nel senso
della reiezione dell’istanza di accertamento di
compatibilità paesaggistica, con l’unica eccezione a tale
rigida prescrizione per il caso in cui i lavori, pur se
realizzati in assenza o difformità dell’autorizzazione
paesaggistica, non abbiano determinato creazione di
superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati.
Difatti, per pacifico e
consolidato orientamento giurisprudenziale, ove le opere
risultino diverse da quelle sanabili e indicate nell’art.
167 del Codice dei beni culturali, le competenti autorità
non possono che emanare un atto dal contenuto vincolato e
cioè esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di
accertamento di compatibilità paesaggistica (Consiglio di
Stato, Sez. VI, 20.06.2012 n. 3578), con l’unica eccezione a
tale rigida prescrizione per il caso -non ravvisabile nella
fattispecie in esame- in cui i lavori, pur se realizzati in
assenza o difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non
abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Alla fattispecie, pertanto, è applicabile l’art. 21-octies
della L. 241/1990 che statuisce la non annullabilità del
provvedimento adottato in violazione delle norme sul
procedimento amministrativo qualora per la sua natura
vincolata sia palese che il suo contenuto non avrebbe potuto
essere diverso da quello concretamente adottato.
Attesa la natura dovuta del diniego di accertamento di
conformità e di compatibilità paesaggistica per le ragioni
illustrate, il relativo procedimento non è quindi inficiato
dall’omissione del preavviso di rigetto dell’istanza
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 01.09.2014 n. 4639 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Trattasi della
realizzazione abusiva di scale, terrazzamenti e piazzali
esterni alla casa colonica, mediante lo spianamento di area
agricola, determinanti un’alterazione urbanisticamente
rilevante dello stato dei luoghi soggetta al regime del
permesso di costruire (anziché della d.i.a.) e non
qualificabili alla stregua di opere pertinenziali della casa
colonica.
Infatti, l’insegnamento giurisprudenziale consolidato in
“subiecta materia” ha chiarito che la realizzazione di un
piazzale attraverso lo spianamento e la deruralizzazione di
un’area agricola, pur senza l’esecuzione di opere in
muratura (e, quindi, senza incremento di volumi utili), non
può essere considerato opera meramente pertinenziale (ai
fini urbanistici ed edilizi) e determina comunque una
alterazione significativa dell’assetto del territorio
rilevante sotto il profilo edilizio e urbanistico.
Il ricorso è infondato nel
merito e va respinto.
Innanzitutto, è necessario rammentare –in punto di fatto–
che l’impugnato diniego di permesso di costruire in
sanatoria si basa sulla seguente motivazione: “…..
L’intervento di cui si chiede sanatoria di fatto aumenta
notevolmente le superfici sui piazzali esterni e determina
anche un uso esclusivo ed indipendente dal bene principale….”.
Ciò premesso, il Collegio ritiene sufficiente osservare,
sinteticamente, -in diritto- che (come, peraltro, già
rilevato nella fase cautelare del giudizio), tutte le
censure formulate dalla ricorrente appaiono prive di pregio
giuridico, ove si consideri, in primo luogo, che trattasi
della realizzazione abusiva di scale, terrazzamenti e
piazzali esterni alla casa colonica, mediante lo spianamento
di area agricola, determinanti un’alterazione
urbanisticamente rilevante dello stato dei luoghi soggetta
al regime del permesso di costruire (anziché della d.i.a.) e
non qualificabili alla stregua di opere pertinenziali della
casa colonica.
Infatti, l’insegnamento giurisprudenziale consolidato in “subiecta
materia” ha chiarito che la realizzazione di un piazzale
attraverso lo spianamento e la deruralizzazione di un’area
agricola, pur senza l’esecuzione di opere in muratura (e,
quindi, senza incremento di volumi utili), non può essere
considerato opera meramente pertinenziale (ai fini
urbanistici ed edilizi) e determina comunque una alterazione
significativa dell’assetto del territorio rilevante sotto il
profilo edilizio e urbanistico (“ex multis”:
Consiglio di Stato, IV Sezione, 13.01.2010 n. 41; TAR Puglia
Bari, III Sezione, 26.02.2009 n. 404; TAR Piemonte, I
Sezione, 25.10.2007 n. 3242).
Peraltro, va sottolineato che il richiamato art. 33 del
Regolamento Edilizio vigente nel Comune di Francavilla
Fontana indica quali opere pertinenziali: i “gazebo”,
i “pergolati”, e le “serre solari”, ossia solo
dei manufatti precari di modesta dimensione consistenti in
una struttura leggera costituita da elementi facilmente
rimovibili.
In conclusione, le opere realizzate abusivamente dalla
ricorrente, in difformità dal permesso di costruire n.
48/2008, (scale, terrazzamenti e piazzali esterni alla casa
colonica) non hanno carattere pertinenziale ed aumentano
notevolmente le superfici deruralizzate esterne alla casa
colonica, in violazione dei parametri previsti e delle
tipologie di opere ammesse (“solamente case coloniche con
specifici annessi e dipendenze”) per la zona “E1” dalle
N.T.A. del Programma di Fabbricazione vigente nel Comune di
Francavilla Fontana
(TAR Puglia-Lecce,
Sez. III,
sentenza 05.08.2014 n. 2128 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - SEGRETARI COMUNALI:
Competenza del segretario comunale in materia di sanzioni
disciplinari.
Osserva il Collegio come sia
incontroverso in causa la circostanza che il Comune non
abbia provveduto alla nomina del Direttore Generale per cui,
ai sensi di quanto espressamente disposto dal Regolamento
dei servizi e degli uffici, non v’è dubbio che spetti al
Segretario Comunale la competenza generale in ordine ai
procedimenti disciplinari.
Nel detto Regolamento, peraltro, non è prevista alcuna
limitazione a tale competenza nel caso in cui vi sia un
rapporto gerarchico e tale profilo non è stato fatto oggetto
di alcuna specifica censura in primo grado.
Erroneamente, pertanto, il Tar ha ritenuto illegittima la
coincidenza tra le funzioni di Segretario e di superiore
gerarchico, senza considerare che tale possibilità era
consentita dal richiamato Regolamento comunale dei servizi e
degli uffici.
Il Segretario Comunale infatti, non aveva avuto l'incarico
di svolgere le funzioni di Direttore Generale, al quale
compete la gestione del personale, bensì lo specifico ed
esclusivo compito, a seguito della delibera G.M. 287/1997,
di esprimere un mero parere preventivo di legittimità sulle
proposte di deliberazioni relative ai piani urbanistici
attuativi.
FATTO
Il Comune di Cermenate, con delibera G.M. n. 287 del
25.10.1997, stabiliva di richiedere in via generale al
Segretario Comunale il parere preventivo di legittimità
sulle proposte di deliberazioni relative ai piani
urbanistici attuativi.
Per quanto sopra, nell'ambito del procedimento di
approvazione del Piano di Recupero denominato Via
Scalambrini, il Segretario richiedeva per ben due volte al
Geom. Summa, quale Responsabile del Settore urbanistica
edilizia privata e pubblica, di eliminare alcune
irregolarità riscontrate nella documentazione relativa al
piano in questione.
Sennonché entrambe tali richieste rimanevano senza
riscontro.
In conseguenza di ciò a carico del Summa veniva avviato dal
Segretario Comunale un procedimento disciplinare, all'esito
del quale veniva irrogata la sanzione della sospensione dal
lavoro e dalla retribuzione per dieci giorni decorrenti dal
19.06.1998.
Ritenendo illegittima tale determinazione, il Summa
proponeva ricorso al Tar Lombardia chiedendone
l'annullamento.
Peraltro, nelle more del giudizio, il ricorrente veniva
licenziato per recidiva ed il relativo provvedimento veniva
confermato dal Tribunale di Como con sentenza n. 338 del
2000.
Il Tar adito, con sentenza n. 6625/2001, accoglieva il
ricorso.
Avverso detta sentenza il Comune di Cermenate ha quindi
interposto l’odierno appello, chiedendone l'integrale
riforma.
L’appellato Geom. Summa, costituitosi in giudizio, decedeva
nel 2011 e pertanto, con ordinanza n. 2759/2013, la Sezione
ha dato atto dell'interruzione del processo.
Il ricorso è stato quindi riassunto dal Comune di Cermenate
e, con successive memorie, le parti hanno insistito nelle
rispettive tesi.
Alla pubblica udienza del 16.01.2014 la causa è stata
trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. Con l’unico articolato mezzo di censura il Comune di
Cermenate deduce l'erroneità della sentenza gravata, laddove
ha censurato la circostanza per cui al Segretario Comunale
sarebbero stati attribuiti anche “... poteri gerarchici nei
confronti del ricorrente, assimilabili a quelli di capo
ufficio”, con conseguente illegittima coincidenza tra le
funzioni di Segretario e di superiore gerarchico al quale
spettano “... solo le segnalazioni e l'applicazione delle
sanzioni più lievi”.
Assume, al riguardo, che ai sensi degli artt. 6 e 7 del
Regolamento dei servizi e degli uffici adottato dal Comune
con delibera G.M. n. 60 del 07.04.1998 spetta al Direttore
Generale o, in mancanza, al Segretario Comunale, provvedere
alle contestazioni di addebito e all'irrogazione delle
sanzioni disciplinari e tale disposizione non trova deroghe
per il caso di sussistenza di un rapporto gerarchico tra
l'organo procedente e il destinatario del provvedimento
sanzionatorio.
Rileva, peraltro, che il sopra detto Regolamento non è stato
impugnato dal ricorrente con la conseguenza che, sotto tale
profilo, il ricorso risulterebbe inammissibile.
Sostiene, infine, che nella specie non si sarebbe
configurato alcun rapporto gerarchico tra il Segretario
Comunale e il Summa e che comunque, anche laddove esistente,
tale rapporto oltre ad implicare il potere di segnalazione e
di applicazione delle sanzioni più lievi, non escluderebbe
quello di applicare le sanzioni più gravi.
2. La doglianza è da condividere.
3. Ed invero, osserva il Collegio come sia incontroverso in
causa la circostanza che il Comune di Cermenate non abbia
provveduto alla nomina del Direttore Generale per cui, ai
sensi di quanto espressamente disposto dal Regolamento dei
servizi e degli uffici approvato con la delibera n. 60/1998,
non v’è dubbio che spetti al Segretario Comunale la
competenza generale in ordine ai procedimenti disciplinari.
Nel detto Regolamento, peraltro, non è prevista alcuna
limitazione a tale competenza nel caso in cui vi sia un
rapporto gerarchico e tale profilo non è stato fatto oggetto
di alcuna specifica censura in primo grado.
Erroneamente, pertanto, il Tar ha ritenuto illegittima la
coincidenza tra le funzioni di Segretario e di superiore
gerarchico, senza considerare che tale possibilità era
consentita dal richiamato Regolamento comunale dei servizi e
degli uffici, non impugnato dal Geom. Summa.
A ciò aggiungasi che, in ogni caso, nella specie non
sussisteva alcun formale né sostanziale rapporto gerarchico.
Il Segretario Comunale infatti, non aveva avuto l'incarico
di svolgere le funzioni di Direttore Generale, al quale
compete la gestione del personale, bensì lo specifico ed
esclusivo compito, a seguito della delibera G.M. 287/1997, di
esprimere un mero parere preventivo di legittimità sulle
proposte di deliberazioni relative ai piani urbanistici
attuativi.
Funzione questa, all’evidenza, che non implicava
l'attribuzione di alcun potere gerarchico nei confronti del
Summa.
Anche sotto questo profilo,quindi, il primo giudice ha errato
nel ritenere che al Segretario Comunale fossero stati
attribuiti “... poteri gerarchici nei confronti del
ricorrente, assimilabili a quelli di capo ufficio”, facendo
discendere da tale insussistente presupposto l’illegittimità
della determinazione impugnata.
4. Per quanto sopra l'appello si appalesa fondato e, come
tale, da accogliere con conseguente riforma della gravata
sentenza (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 13.05.2014 n. 2433 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO ALL'01.12.2014 |
ã |
UTILITA' |
SICUREZZA LAVORO: Quaderni
Tecnici per i cantieri temporanei o mobili -
Reti di sicurezza
(ottobre 2014 - tratto da www.inail.it). |
SICUREZZA LAVORO: Quaderni
Tecnici per i cantieri temporanei o mobili -
Scale portatili
(ottobre 2014 - tratto da www.inail.it). |
SICUREZZA LAVORO: Quaderni
Tecnici per i cantieri temporanei o mobili -
Sistemi di protezione degli scavi a cielo aperto (ottobre
2014 - tratto da www.inail.it). |
SICUREZZA LAVORO: Quaderni
Tecnici per i cantieri temporanei o mobili -
Sistemi di protezione individuale dalle cadute
(ottobre 2014 - tratto da www.inail.it). |
SICUREZZA LAVORO: Quaderni
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Ponteggi fissi
(ottobre 2014 - tratto da www.inail.it). |
SICUREZZA LAVORO: Quaderni
Tecnici per i cantieri temporanei o mobili -
Ancoraggi
(ottobre 2014 - tratto da www.inail.it). |
SICUREZZA LAVORO: Quaderni
Tecnici per i cantieri temporanei o mobili -
Parapetti provvisori
(ottobre 2014 - tratto da www.inail.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Rinnovo delle autorizzazioni “ordinarie” alle
emissioni in atmosfera (ANCE di Bergamo,
circolare 28.11.2014 n. 211). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Depositi di GPL fino a 13 m3.
Indicazioni applicative del DM 04.03.2014 di modifica del DM
14.05.2004 (Ministero dell'Interno, Dipartimento dei
Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e della Difesa
Civile,
nota 21.11.2014 n. 13818 di prot.). |
INCARICHI
PROGETTUALI:
OGGETTO: CFP per aggiornamento Informale - Modulo di
autocertificazione (Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare 19.11.2014 n. 449).
---------------
Si veda anche il
modulo di autocertificazione editabile. |
ENTI LOCALI:
OGGETTO: Consulenza giuridica – L’obbligo di
tracciabilità previsto dall’articolo 25, comma 5, della
legge 13.05.1999, n. 133, trova applicazione anche nei
confronti delle associazioni senza fini di lucro e delle
associazioni pro-loco (Agenzia delle Entrate,
risoluzione 19.11.2014 n. 102/E). |
PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Rapporti tra indennità di turno e disposizioni
di cui al comma 2 dell’art. 24 del CCNL del 14.09.2000
(Ministero dell'Economia e delle Finanze, Dipartimento della
Ragioneria Generale dello Stato,
nota 16.06.02014 n. 51662 di prot.).
---------------
L'operatore di polizia locale che presta
servizio in turno in un giorno festivo infrasettimanale non
ha diritto ad un riposo compensativo ma solo ad una
maggiorazione retributiva. |
SINDACATI |
PUBBLICO
IMPIEGO: Le
relazioni sindacali nel pubblico impiego ... Gli obblighi
del datore spesso dimenticati (CGIL-FP
di Bergamo,
nota 17.11.2014). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
RSU 2015
(C.S.A. di Roma,
comunicato 31.10.2014 n. 2). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 49 dell'01.2014, "Disposizioni
per la riduzione del consumo di suolo e per la
riqualificazione del suolo degradato" (L.R.
28.11.2014 n. 31). |
VARI: G.U.
28.11.2014 n. 277 "Semplificazione fiscale e
dichiarazione dei redditi precompilata"
(D.Lgs.
21.11.2014 n. 175). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 48 del 27.11.2014,
"Integrazioni alla legge regionale 05.12.2008, n. 31
(Testo unico delle leggi regionali in materia di
agricoltura, foreste, pesca e sviluppo rurale). Istituzione
della Banca della Terra Lombarda" (L.R.
26.11.2014 n. 30). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 48 del 27.11.2014, "Disposizioni
in materia di servizio idrico integrato. Modifiche al Titolo
V, Capi I, II e III, della legge regionale 12.12.2003, n. 26
(Disciplina dei servizi locali di interesse economico
generale. Norme in materia di gestione dei rifiuti, di
energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche)"
(L.R.
26.11.2014 n. 29). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 25.11.2014, "Settimo
aggiornamento 2014 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 20.11.2014 n. 10908). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 21.11.2014, "Disposizioni
relative al rilascio, ai sensi dell’art. 29 commi 2 e 3 del
d.lgs. 46/2014, della prima autorizzazione integrata
ambientale alle installazioni esistenti «non già soggette ad
AIA»" (deliberazione
G.R. 14.11.2014 n. 2645). |
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 18.11.2014, "Finanziamento
interventi per l’adeguamento strutturale e antisismico degli
edifici scolastici, nonché di costruzione di nuovi immobili
sostitutivi di edifici esistenti a rischio sismico, a valere
sul fondo per interventi straordinari della presidenza del
Consiglio dei Ministri" (deliberazione
G.R. 14.11.2014 n. 2640). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
18.11.2014 n. 268 "Istituzione dell’elenco degli alberi
monumentali d’Italia e principi e criteri direttivi per il
loro censimento" (Ministero delle Politiche
Agricole, Alimentari e Forestali,
decreto 23.10.2014). |
ENTI LOCALI:
G.U. 17.11.2014 n. 267 "Approvazione del modello tipo
della Dichiarazione Sostitutiva Unica a fini ISEE,
dell’attestazione, nonché delle relative istruzioni per la
compilazione ai sensi dell’articolo 10, comma 3, del decreto
del Presidente del Consiglio dei Ministri 05.12.2013, n. 159" (Ministero
del Lavoro e delle Politiche Sociali,
decreto 07.11.2014). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
P. Palazzi,
Sblocca Italia - perplessità - nuovo articolo 6, comma 5,
D.P.R. 380/2001 - CIAL e CATASTO... un altro disastro ... e
vediamo il perché (28.11.2014 - link a
http://ufficiotecnico2012.blogspot.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
F. Lorenzotti,
La manutenzione straordinaria in edilizia dopo la
conversione in legge del decreto “Sblocca Italia” (26.11.2014
- link a www.diritto.it). |
APPALTI - ESPROPRIAZIONE:
M. C. Agnello,
La comunicazione di avvio del procedimento in due
fattispecie paradigmatiche affrontate dalla giustizia
amministrativa: l’annullamento dell’aggiudicazione
provvisoria e l’espropriazione per pubblica utilità connessa
a variante di piano urbanistico (25.11.2014 -
link a www.diritto.it). |
ENTI LOCALI:
Tracciabilità dei pagamenti anche per associazioni no profit
e pro-loco (20.11.2014 - tratto da www.ispoa.it). |
APPALTI: A.
Masaracchia,
Un orientamento troppo "morbido" che va oltre la norma
(commento a Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza
05.11.2014 n. 5456)
(tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
La novità della fattispecie decisa dalla sentenza in
esame è che in questo caso il RUP era stato chiamato a far
parte come semplice membro della commissione di gara. Il che
costituisce un qualcosa di nuovo rispetto alla
giurisprudenza precedente, la quale si era unicamente
riferita al cumulo di funzioni tra RUP e presidente di
commissione. |
CORTE DEI CONTI |
APPALTI:
Debito fuori bilancio.
La corresponsione di interessi di mora per
ritardato pagamento da parte di un ente locale dà luogo a un
debito fuori bilancio, in quanto l’obbligazione è sprovvista
del requisito dell’utilità per l’ente ed è da considerarsi
fuori bilancio ogni debito che non risulti preventivamente
previsto nel bilancio dell’ente e quindi impegnato su quel
bilancio a fronte di obbligazione giuridicamente
perfezionata.
A nulla rileva la circostanza che l’ente abbia previsto in
apposito capitolo di bilancio uno stanziamento per far
fronte a interessi di mora per ritardati pagamenti.
Inoltre, nel caso in questione, l’obbligo alla
corresponsione degli interessi di mora è stabilito da
sentenza esecutiva del tribunale, ciò che dà luogo a debito
fuori bilancio ai sensi dell’art. 194, comma 1, lettera a)
TUEL. Lo stesso art. 194, comma 1, stabilisce che il
riconoscimento del debito fuori bilancio necessita di
delibera consiliare.
La stessa delibera, a norma dell’art. 23, comma 5 della
legge 289/2002 (legge finanziaria per il 2003) dovrà essere
trasmessa alla Procura della Corte dei conti per la
valutazione di eventuali responsabilità.
---------------
Il Sindaco del Comune di Parma ha formulato alla Sezione una
richiesta di parere in ordine alla necessità o meno di
adottare un atto consiliare di riconoscimento di debito
fuori bilancio, a seguito di richiesta di interessi per
ritardato pagamento, avanzata da alcune imprese.
Nella richiesta di parere si precisa che l’Ente ha comunque
predisposto, nel PEG allegato al bilancio di previsione per
il 2014, un capitolo “per interessi per ritardato
pagamento” con gli stanziamenti finalizzati a far fronte
alle richieste di corresponsione di interessi di mora che
alcune imprese hanno avanzato in riferimento ai ritardati
pagamenti avvenuti negli anni dal 2010 al 2012.
...
Il quesito sul quale la Sezione è chiamata a pronunciarsi
riguarda la necessità di assoggettare alla procedura di
riconoscimento dei debiti fuori bilancio, di cui all’art.
194 TUEL, la corresponsione delle somme assegnate ai
creditori a titolo di interessi per ritardato pagamento a
seguito di sentenza del tribunale, ovvero se sia possibile
procedere con atti gestionali delegati sulla base delle
disponibilità di bilancio e degli indirizzi contenuti nella
RPP e nel PEG.
La risposta è univocamente determinata dall’art. 194, comma
1, lettera a), del D.lgs. 267/2000 (TUEL). Precisa infatti
la norma che gli enti locali riconoscono la
legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da sentenze
esecutive, (e da altre fattispecie, eventi o incombenze) con
delibera consiliare.
Il caso prospettato nella richiesta di parere è dunque
tipicamente contemplato dalla lettera della norma. Né può
dubitarsi circa la natura di debito fuori bilancio della
spesa per corresponsione di interessi di mora, in quanto
essa è evidentemente sprovvista del requisito dell’utilità
per l’ente (art. 194, comma 1, lettera e TUEL).
Come precisato inoltre in alcune deliberazioni di Sezioni
regionali di controllo della Corte (cfr., per tutte, Sezione
di controllo per la Regione Sardegna, deliberazione n.
118/2011/PAR), deve ritenersi debito fuori
bilancio “ogni debito che non risulti preventivamente
previsto nel bilancio dell’ente e, quindi, impegnato, su
quel bilancio, nelle forme di legge, in coincidenza con
l’assunzione di un’obbligazione giuridicamente perfezionata”.
A nulla rileva in proposito che in apposito
capitolo del PEG l’Ente in questione abbia inserito uno
stanziamento volto a fronteggiare la spesa per interessi per
ritardato pagamento di somme dovute in esercizi precedenti.
La delibera consiliare si rende pertanto necessaria per il
riconoscimento motivato del debito fuori bilancio, cioè per
accertare che l’obbligazione si riferisce a funzioni e
servizi di propria competenza e, nel caso in questione, che
essa deriva da sentenza esecutiva del tribunale. Esso dovrà
contenere inoltre le indicazioni sul quantum
riconosciuto della spesa che dovrà essere posta a carico del
bilancio dell’Ente.
Infine, la deliberazione dovrà essere
trasmessa alla Procura della Corte dei conti. L’art. 23
della legge 27.12.2002 (legge finanziaria per il 2003), che
dispone in materia di razionalizzazione delle spese e
flessibilità di bilancio, pone infatti quest’obbligo in capo
all’Ente (comma 5) per la valutazione di eventuali
responsabilità per danno erariale connesse all’emersione del
debito fuori bilancio
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 20.11.2014 n. 205). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Ai progettisti incentivi tagliati solo per le attività
svolte dopo metà agosto.
Il personale degli uffici tecnici dei Comuni va incentivato
con le nuove regole che le singole amministrazioni si devono
dare in attuazione dei principi dettati dal Dl 90/2014 per
le attività svolte successivamente alla metà dello scorso
mese di agosto, cioè dopo l'entrata in vigore della legge di
conversione.
Le attività svolte precedentemente devono
essere incentivate con le regole previgenti.
La pronuncia
Sono queste le principali indicazioni contenute nel
parere 13.11.2014 n. 300 della sezione regionale di controllo della
Corte dei Conti della Lombardia, che riprende e
amplia i primi suggerimenti della deliberazione della
sezione Emilia-Romagna della magistratura contabile,
parere 19.09.2014 n. 183.
In questo modo si colma l'assenza di una
specifica disposizione per la fase di prima applicazione,
mentre lo stesso provvedimento detta regole precise per
l'entrata in vigore delle nuove regole sulla incentivazione
degli avvocati e sulla erogazione dei diritti di rogito ai
segretari.
Ambedue questi documenti fanno riferimento alle
indicazioni dettate dalla sezione Autonomie della Corte dei
Conti nella
deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG, che affrontò una
questione analoga: la decorrenza della applicazione del
taglio di questa incentivazione.
La competenza
Queste indicazioni scelgono la strada della «competenza»,
quindi i compensi devono essere calcolati sulla base delle
regole in vigore al momento in cui le attività sono state
svolte, e non quella della «cassa», per la quale i compensi
dovrebbero seguire le regole in vigore al momento in cui
sono effettuati i pagamenti, strada che negli anni scorsi fu
invece suggerita dalla Ragioneria generale dello Stato.
Sono
molto importanti anche le indicazioni che il parere dei
giudici contabili lombardi dà sulla fase di prima
applicazione, intendendo come tale quella che intercorre tra
la data di entrata in vigore della legge di conversione,
l'approvazione del regolamento e la stipula del contratto
decentrato: «L'ente, rimanendo per il resto libero
nell'esercizio della propria attività discrezionale, nel
periodo transitorio dovrà fare riferimento, quanto ai
presupposti e ai beneficiari dell'incentivo, alla previgente
disciplina mentre, per quel che concerne l'ammontare
complessivo delle risorse destinabili al singolo
beneficiario, al limite inderogabile fissato dalla norma con
riferimento al trattamento economico spettante al momento
dell'erogazione».
Sulla decorrenza del divieto di erogazione
del compenso ai dirigenti la sezione regionale di controllo
della Corte dei Conti dell'Emilia-Romagna ha chiarito dal
canto suo che «fino all'entrata in vigore della legge di
conversione anche il dirigente di ruolo di un ufficio
tecnico del Comune potrebbe beneficiare degli incentivi, in
quanto il contratto collettivo nazionale di lavoro dell'area II prevede espressamente quale deroga al principio
dell'onnicomprensività la spettanza di incentivi per la
progettazione» (commento tratto da
www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: Richiesta
di parere inerente all’impatto derivante dall’applicazione
degli artt. 9 d.l. 66/2014 – 23 d.l. 90/2014 sulle procedure
di affidamento di servizi e di acquisto di beni e forniture
- Ricorso alle centrali di committenza nelle ipotesi
previste dall’art. 12511 d.lgs. 163/2006 e nelle ipotesi di
cottimo fiduciario sotto i 40.000,00 euro – Ammissibilità -
Possibilità di acquistare beni e servizi al di fuori del MEPA - Ammissibilità condizionata dal limite imperativo ed
ablativo del rispetto dei limiti massimi dei prezzi presenti
sul mercato elettronico - Possibilità, in caso di evento con
artista curato da un’agenzia di spettacoli non iscritta al
MEPA, di procedere all’affidamento diretto previsto
dall’art. 57 d.lgs. 163/2006 – Ammissibilità - Possibilità
di collaborazione diretta con associazioni di promozione
culturale o sportiva, che non possono iscriversi al MEPA,
con il pagamento di una prestazione di servizi in occasione
di manifestazioni ed eventi inseriti nel calendario
istituzionale - Ammissibilità con limiti.
L’ordinamento privilegia gli strumenti
delle centrali di committenza e delle procedure selettive
nel presupposto, imposto anche dal diritto comunitario, che
la massima concorrenzialità consenta i migliori risparmi di
spesa, contemperando però tale esigenza con il principio di
efficienza dell’azione amministrativa in quanto –come è
facile arguire– il ricorso a tali procedure implica sicuri
costi temporali e procedimentali incompatibili con l’agere
quotidiano di un ufficio pubblico.
Questa è la ragione per cui gli acquisti sotto i 40mila euro
possono essere fatti direttamente dall’Ufficio economale
senza attivazione di procedure concorrenziali. Nulla osta,
pertanto, all’adozione delle procedure più garantistiche e
al ricorso alle centrali di committenza ove l’ente locale,
nel caso specifico, ritenga maggiormente opportuno
intraprendere questa seconda strada.
---------------
Si può ritenere che i Comuni siano legittimati ad acquistare
beni e servizi al di fuori del MEPA con il limite imperativo
ed ablativo dell’assoluto rispetto dei limiti massimi di
prezzo presenti sul mercato elettronico.
---------------
Il mero presupposto soggettivo, e cioè l’impossibilità di
aderire al mercato elettronico non può essere da solo
requisito sufficiente per derogare al medesimo, considerato
che la ragione della sua istituzione risponde ad esigenze di
carattere pubblicistico di trasparenza, imparzialità ed
economicità che sono prevalenti rispetto a quelle del
singolo soggetto associativo di collaborare con l’ente
pubblico, quand'anche tale volontà non sia supportata da
finalità lucrative ma dal perseguimento di scopi ideali, che
però assumono rilevanza economica, trattandosi di
prestazioni fornite a titolo oneroso.
Diverso è il caso in cui l’associazione sia in grado di
fornire un servizio non rinvenibile sul mercato elettronico
(ovvero, per quanto detto sopra, rinvenibile ad un
prezzo/qualità superiore): in questo caso non sembrano
esservi preclusioni a consentire tale collaborazione
diretta, purché appunto limitata a prestazioni non
altrimenti rinvenibili sui mercati elettronici.
---------------
Con istanza in data
30.09.2014, trasmessa dal Presidente del Consiglio delle
Autonomie Locali della Liguria con nota n. 89 del 10.10.2014
ed assunta al protocollo della Segreteria della Sezione
regionale di controllo della Corte dei conti per la Liguria
il 14 ottobre con il n. 0002842 – 14.10.2014 – SC _ LIG -
T85 – A, il Sindaco del Comune di Loano ha inviato al
Consiglio delle Autonomie Locali una richiesta di parere
inerente all’impatto derivante dall’applicazione degli artt.
9 d.l. n. 66/2014 – 23 d.l. n. 90/2014 sulle procedure di
affidamento di servizi e di acquisto di beni e forniture.
In particolare l’Ente chiede se:
a) sia da escludersi l’applicabilità del ricorso alle
centrali di committenza nelle ipotesi previste dall’art. 12511
d.lgs. 163/2006 e nelle ipotesi di cottimo fiduciario sotto
i 40.000,00 euro, in considerazione che in tali casi la
normativa consente di non intraprendere la procedura
concorsuale;
b) sia possibile acquistare beni e servizi al di fuori
del MEPA qualora il ricorso all’esterno persegua l’obiettivo
del contenimento della spesa pubblica;
c) sia possibile, qualora si debba organizzare un evento
con un determinato artista curato in esclusiva da un’agenzia
di spettacoli non iscritta al MEPA, procedere
all’affidamento diretto previsto dall’art. 57 d.lgs.
163/2006, senza ricorrere al mercato elettronico;
d) sia ammissibile una collaborazione diretta con
associazioni di promozione culturale o sportiva, che non
possono iscriversi al MEPA, con il pagamento di una
prestazione di servizi in occasione di manifestazioni ed
eventi inseriti nel calendario istituzionale.
...
L’art. 333-bis d.lgs. 12.04.2006 n. 163,
introdotto dall’art. 23-ter d.l. 24.06.2014, n. 90, conv. in
l. 11.08.2014 n. 114, prevede che <<i Comuni non
capoluoghi di provincia procedono all’acquisizione di
lavori, beni e servizi nell’ambito delle unioni dei comuni
di cui all’art. 32 del decreto legislativo 18.08.2000 n.
267, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo
consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei
competenti uffici anche delle province, ovvero ricorrendo ad
un soggetto aggregatore o alle province, ai sensi della
legge 07.04.2014 n. 56. In alternativa, gli stessi Comuni
possono acquisire beni e servizi attraverso gli strumenti
elettronici di acquisto gestiti da Consip S.p.A. o da altro
soggetto aggregatore di riferimento>>.
L’art. 12511 d.lgs. 163/2006 specifica che <<Per
servizi o forniture inferiori a quarantamila euro è
consentito l’affidamento diretto da parte del responsabile
del procedimento>>.
L’art. 1449, 450 l. 27.12.2006 n. 296
indica che <<449. Nel rispetto del sistema delle
convenzioni di cui agli articoli 26 della legge 23.12.1999
n. 488 e successive modificazioni, e 58 della legge
23.12.2000 n. 388, tutte le amministrazioni statali centrali
e periferiche sono tenute ad approvvigionarsi utilizzando le
convenzioni quadro. Le restanti amministrazioni pubbliche di
cui all’articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001 n. 165
possono ricorrere alle convenzioni di cui al presente comma
e al comma 456 del presente articolo, ovvero ne utilizzano i
parametri di prezzo–qualità come limiti massimi per la
stipulazione dei contratti. Gli enti del Servizio sanitario
nazionale sono in ogni caso tenuti ad approvvigionarsi
utilizzando le convenzioni stipulate dalle centrali
regionali di riferimento ovvero, qualora non siano operative
convenzioni regionali, le convenzioni quadro stipulate da
Consip S.p.A.
450. Dal 01.07.2007, le amministrazioni statali centrali e
periferiche per gli acquisti di beni e servizi al di sotto
della soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare
ricorso al mercato elettronico della pubblica
amministrazione di cui all’articolo 328, comma 1, del
regolamento di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 05.10.2010 n. 207. Fermi restando gli obblighi e
le facoltà previsti dal comma 449 del presente articolo, le
altre amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1 del
decreto legislativo 30.03.2001 n. 165 per gli acquisti di
beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo
comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato
elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri
mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo
328>>.
L’art. 572 d.lgs. 163/2006 consente la procedura
negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara <<qualora,
per ragioni di natura tecnica o artistica ovvero attinenti
alla tutela di diritti esclusivi, il contratto possa essere
affidato unicamente ad un operatore economico determinato>>.
Il secondo e il quarto quesito formulato dal
Comune di Loano sono già stati oggetto di approfondimento da
parte delle Sezioni Regionali di controllo.
C.d.C. Sez. contr. Marche 27.11.2012 n. 169 e 25.03.2013 n.
17, C.d.C. Sez. contr. Lombardia 26.03.2013 n. 112 e C.d.C.
Sez. contr. Piemonte 23.05.2013 n. 211 ritengono che
sussista un obbligo di ricorso ad un
mercato elettronico, sia esso quello della pubblica
amministrazione, ovvero quello realizzato direttamente dalla
stazione appaltante o dalle centrali di committenza, al fine
di garantire la tracciabilità dell’intera procedura di
acquisto ed una maggiore trasparenza della stessa, con
conseguente riduzione dei margini di discrezionalità
dell’affidamento e la possibilità, da parte di imprese
concorrenti che riescano ad offrire prezzi più convenienti,
di aderire ai medesimi mercati. La Sezione piemontese,
peraltro, ha specificato come tale obbligo venga meno
nell’ipotesi di indisponibilità o inidoneità dei beni
presenti su tali mercati a soddisfare le esigenze dell’ente
locale richiedente.
C.d.C. Sez. contr. Toscana 30.05.2013 n. 151 e C.d.C. Sez.
contr. Emilia Romagna 17.12.2013 n. 286 specificano che
i principi generali di economicità e di
efficienza dell’azione amministrativa, perseguiti dalle
disposizioni sopra richiamate, consentono di mitigare
l’obbligo di ricorrere ai mercati elettronici ogni qualvolta
il ricorso all’esterno persegua la ratio di
contenimento della spesa pubblica insita nelle varie norme.
3. La valutazione della Sezione sulle questioni
sottoposte
La richiesta di parere concerne distintamente cinque quesiti
relativi, lato sensu, ai limiti di derogabilità alle
procedure elettroniche, o comunque concorrenziali, per
l’acquisto di beni e servizi da parte degli enti locali.
Con il primo quesito, in particolare, si chiede se
l’art. 23-ter d.l. 24.06.2014, n. 90, conv. in l. 11.08.2014
n. 114, che ha introdotto l’art. 333-bis d.lgs.
163/2006, escluda <<l’applicabilità del ricorso alle
centrali di committenza nelle ipotesi di una procedura di
affidamento diretto in base all’art. 125 comma 11 del codice
dei contratti e nelle ipotesi di cottimo fiduciario sotto i
40.000,00 euro, atteso che in tali casi la normativa ammette
la non attivazione della procedura concorsuale>>.
In altre parole, il Comune intende sapere se sia possibile
anche in questi casi ricorrere alle centrali di committenza
–che in ipotesi dovrebbero assicurare risparmi di non minima
entità avendo la possibilità di fare ordini di rilevante
entità- anche nelle fattispecie in cui l’ordinamento
consente l’acquisizione mediante amministrazione diretta per
ragioni di semplificazione e di celerità, stante il ridotto
importo della medesima.
La risposta è positiva.
L’ordinamento privilegia gli strumenti
delle centrali di committenza e delle procedure selettive
nel presupposto, imposto anche dal diritto comunitario, che
la massima concorrenzialità consenta i migliori risparmi di
spesa, contemperando però tale esigenza con il principio di
efficienza dell’azione amministrativa in quanto –come è
facile arguire– il ricorso a tali procedure implica sicuri
costi temporali e procedimentali incompatibili con l’agere
quotidiano di un ufficio pubblico.
Questa è la ragione per cui gli acquisti sotto i 40mila euro
possono essere fatti direttamente dall’Ufficio economale
senza attivazione di procedure concorrenziali. Nulla osta,
pertanto, all’adozione delle procedure più garantistiche e
al ricorso alle centrali di committenza ove l’ente locale,
nel caso specifico, ritenga maggiormente opportuno
intraprendere questa seconda strada.
Con il secondo e il quarto quesito, che
possono essere affrontati congiuntamente, il Comune di Loano
chiede se sia possibile acquistare beni e servizi al di
fuori del MEPA (Mercato Elettronico delle Pubbliche
Amministrazioni), eventualmente anche solo limitatamente
alle spese economali.
La questione è più complessa della precedente.
L’art. 1450 l. 296/2006 dispone che <<fermi
restando gli obblighi e le facoltà previsti dal comma 449
del presente articolo, le altre amministrazioni pubbliche di
cui all’articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001 n. 165
[tra cui rientrano gli enti locali] per gli acquisti di beni
e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo
comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato
elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri
mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo
328>>.
Il chiaro obbligo di ricorso ad un mercato elettronico
(altro significato semantico non può assumere la locuzione
<<sono tenuti>>), previsto dal comma 450, deve però
tenere conto dell’espressa clausola di riserva prevista
dalla disposizione che si pone in una evidente posizione di
sussidiarietà rispetto alle <<facoltà previst[e] dal
comma 449 del presente articolo>>, le quali
ricomprendono la possibilità per gli enti locali di
rivolgersi al libero mercato con il limite imperativo,
soggetto alla eterointegrazione prevista dall’art. 1339
c.c., dello stesso prezzo – qualità/quantità previsto dal
sistema delle convenzioni CONSIP e dei mercati elettronici.
Tale interpretazione congiunta, oltre a coordinarsi
sistematicamente con il principio generale di economicità
dell’attività amministrativa, codificato nell’art. 11
l. 7.08.1990 n. 241, trova ulteriore conferma letterale
nell’ultima parte dell’art. 1449 l. cit. che
espressamente stabilisce che i soli <<enti del Servizio
sanitario nazionale sono in ogni caso tenuti ad
approvvigionarsi utilizzando le convenzioni stipulate dalle
centrali regionali di riferimento ovvero, qualora non siano
operative convenzioni regionali, le convenzioni quadro
stipulate da Consip S.p.A.>>.
Pertanto si può ritenere che i Comuni siano
legittimati ad acquistare beni e servizi al di fuori del
MEPA con il limite imperativo ed ablativo dell’assoluto
rispetto dei limiti massimi di prezzo presenti sul mercato
elettronico.
Con il terzo quesito il Comune di Loano chiede se sia
possibile procedere all’affidamento diretto mediante
trattativa privata senza pubblicazione di bando qualora si
intenda organizzare un evento con un determinato artista
curato in esclusiva da un’agenzia di spettacoli non iscritta
al MEPA.
La risposta è ugualmente positiva.
In primo luogo si deve rilevare come la
prestazione artistica non possa rientrare di per sé nella
materia dell’appalto di servizi, costituendo una prestazione
di opera professionale disciplinata dall’art. 2229 c.c. Non
sussistono pertanto, ab origine, le ragioni per
l’applicazione del codice dei contratti pubblici alla
fattispecie in esame.
Quand’anche si dovesse ritenere che la
medesima possa rientrare tra gli appalti di servizi, essa
deve essere ricompresa nell’ambito di applicazione dell’art.
572 d.lgs. 163/2006 che consente la procedura
negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara <<qualora,
per ragioni di natura tecnica o artistica … il contratto
possa essere affidato unicamente ad un operatore economico
determinato>>. E’ di tutta evidenza che l’infungibilità
della prestazione artistica rende la medesima inidonea ad
essere oggetto di procedure comparative o elettroniche (le
quali, tra l’altro, possono essere utilizzate solo per
acquistare beni e servizi tra cui certamente non può
rientrare quella in questione).
Infine, con il quarto quesito l’Ente locale chiede
se, in presenza di manifestazioni ed eventi inseriti nel
calendario istituzionale, sia possibile la collaborazione
diretta con associazioni di promozione culturale e sportiva
che, in quanto tali, non possono iscriversi al MEPA, con il
pagamento di una prestazione di servizi.
Anche in quest’ultimo caso la risposta è positiva, seppure
con alcune precisazioni.
Il mero presupposto soggettivo, e cioè
l’impossibilità di aderire al mercato elettronico non può
essere da solo requisito sufficiente per derogare al
medesimo, considerato che la ragione della sua istituzione
risponde ad esigenze di carattere pubblicistico di
trasparenza, imparzialità ed economicità che sono prevalenti
rispetto a quelle del singolo soggetto associativo di
collaborare con l’ente pubblico, quand'anche tale volontà
non sia supportata da finalità lucrative ma dal
perseguimento di scopi ideali, che però assumono rilevanza
economica, trattandosi di prestazioni fornite a titolo
oneroso.
Diverso è il caso in cui l’associazione sia in grado di
fornire un servizio non rinvenibile sul mercato elettronico
(ovvero, per quanto detto sopra, rinvenibile ad un
prezzo/qualità superiore): in questo caso non sembrano
esservi preclusioni a consentire tale collaborazione
diretta, purché appunto limitata a prestazioni non
altrimenti rinvenibili sui mercati elettronici
(Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere 10.11.2014 n. 64). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Gli incarichi a contratto nelle Autonomie
territoriali sono regolamentati dall’art. 110 del TUEL (D.Lgs. n. 267/2000).
I detti incarichi possono avere a oggetto anche il
conferimento di funzioni dirigenziali a soggetti che non
abbiano con l’ente un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato in virtù di un criterio di attribuzione
fondato sull’“intuitus personae”.
Al di fuori della dotazione organica della dirigenza o
dell’area direttiva, per gli enti in cui tale dotazione è
comunque prevista, possono essere conferiti, con contratto a
tempo determinato, incarichi per i soli dirigenti e le alte
specializzazioni (art. 110, comma 2, 1° periodo). In questi
casi, gli incarichi così conferibili non possono superare il
5% del totale della dotazione organica “della dirigenza e
dell’area direttiva” (vd. art. 110, comma 2, 2° periodo).
Per gli Enti di piccole dimensioni possono essere stipulati,
al di fuori della dotazione organica dell’ente, contratti a
tempo determinato “di dirigenti, alte specializzazioni o
funzionari dell’area direttiva, fermi restando i requisiti
richiesti per la qualifica da ricoprire” (art. 110, comma 2,
3° periodo). Tali contratti sono stipulati in misura
complessivamente non superiore al 5% della dotazione
organica dell’ente. Infine, per gli enti con dotazione
inferiore alle 20 unità è consentito il conferimento di un
solo incarico.
Tutti gli Enti presi in considerazione dal secondo comma
dell’art. 110 del TUEL devono procedere a stabilire limiti,
criteri e modalità di stipula dei relativi contratti in sede
di adozione del Regolamento sull’ordinamento degli uffici e
dei servizi.
---------------
Il comma 6
dell’articolo 19 D.Lgs. n. 165/2001 prevede che gli incarichi
dirigenziali di cui ai precedenti commi da 1 a 5 “sono
conferiti, fornendone esplicita motivazione, a persone di
particolare e comprovata qualificazione professionale, non
rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione, che abbiano
svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati
ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita
per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che
abbiano conseguito una particolare specializzazione
professionale, culturale e scientifica desumibile dalla
formazione universitaria e postuniversitaria, da
pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di
lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso
amministrazioni statali, ivi comprese quelle che
conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste
per l’accesso alla dirigenza, o che provengano dai settori
della ricerca, della docenza universitaria, delle
magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello
Stato.(…)”.
---------------
Il requisito del possesso del diploma di
laurea costituisce requisito essenziale per l’accesso alle
qualifiche dirigenziali nel rapporto di lavoro alle
dipendenze delle Amministrazioni pubbliche di cui all’art.
1, co. 2, del D.Lgs. n. 165/2001, trattandosi di un
requisito di base e necessariamente propedeutico, come si
evince dalla lettura del necessariamente correlato art. 28
successivo, che disciplina l’accesso alla qualifica
dirigenziale.
Né tale piana interpretazione può subire eccezioni allorché
il conferimento dell’incarico provenga da un Ente Locale con
contratto a termine (giusta il combinato disposto dell’art.
110 TUEL e del comma 6 dell’art. 19 D.Lgs. n. 165/2001),
ipotesi nella quale, anzi, l’accesso alla dirigenza è
consentito dal comma 6 a soggetti particolarmente
qualificati che, oltre al requisito di base del titolo di
studio, posseggano alternativamente uno o più degli
ulteriori requisiti di specifica preparazione ed esperienza
professionale.
E’ stato infatti affermato che “le previsioni normative in
esame non sono sostitutive del requisito di base del
possesso della laurea, ma sono aggiuntive, nel senso che,
purché in possesso del diploma di laurea, i soggetti che
siano dotati di uno dei requisiti delineati nell’art. 19,
comma 6, possono ottenere un incarico dirigenziale
temporaneo”.
---------------
Con la nota indicata in epigrafe l’Ente ha formulato alla
Sezione una richiesta di motivato avviso in materia di
corretta interpretazione del dettato normativo del comma 6
dell’art. 19 del Testo unico sul rapporto di p.i. di cui al
D.Lgs. n. 165/2001 e s.m. e i. in vista del conferimento di
un incarico dirigenziale a tempo determinato.
...
1. Ritiene il Collegio di dover preliminarmente procedere a
un inquadramento sistematico della disciplina sul
conferimento degli incarichi a contratto negli Enti locali,
anche a fini di utilità generale per la platea degli Enti
potenzialmente interessati a conoscere l’avviso
interpretativo della Sezione sulle tematiche di che
trattasi.
Come noto, gli incarichi a contratto nelle Autonomie
territoriali sono regolamentati dall’art. 110 del TUEL (D.Lgs. n. 267/2000).
I detti incarichi possono avere a oggetto anche il
conferimento di funzioni dirigenziali a soggetti che non
abbiano con l’ente un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato in virtù di un criterio di attribuzione
fondato sull’“intuitus personae”.
Al di fuori della dotazione organica della dirigenza o
dell’area direttiva, per gli enti in cui tale dotazione è
comunque prevista, possono essere conferiti, con contratto a
tempo determinato, incarichi per i soli dirigenti e le alte
specializzazioni (art. 110, comma 2, 1° periodo). In questi
casi, gli incarichi così conferibili non possono superare il
5% del totale della dotazione organica “della dirigenza e
dell’area direttiva” (vd. art. 110, comma 2, 2° periodo).
Per gli Enti di piccole dimensioni possono essere stipulati,
al di fuori della dotazione organica dell’ente, contratti a
tempo determinato “di dirigenti, alte specializzazioni o
funzionari dell’area direttiva, fermi restando i requisiti
richiesti per la qualifica da ricoprire” (art. 110, comma 2,
3° periodo). Tali contratti sono stipulati in misura
complessivamente non superiore al 5% della dotazione
organica dell’ente. Infine, per gli enti con dotazione
inferiore alle 20 unità è consentito il conferimento di un
solo incarico.
Tutti gli Enti presi in considerazione dal secondo comma
dell’art. 110 del TUEL devono procedere a stabilire limiti,
criteri e modalità di stipula dei relativi contratti in sede
di adozione del Regolamento sull’ordinamento degli uffici e
dei servizi.
Tale surrichiamata disciplina non trova più nel TUEL la
propria fonte esclusiva, posto che puntuali norme sono state
inserite nel già citato D.Lgs. n. 165/2001, nonché in
disposizioni di carattere ordinamentale recate da varie
leggi finanziarie.
In particolare, talune disposizioni dell’art. 19 del D.Lgs.
n. 165/2001 sono state espressamente estese alle
Amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, e quindi anche
ai Comuni e alle Province, già in forza dell’intervento
interpretativo fornito dalla Corte costituzionale con la
decisione n. 324/2010.
Detta estensione è stata poi normativizzata a opera del
comma 6-ter dell’art. 19, introdotto dall’art. 40, comma 1,
lett. f), del D.Lgs. n. 150/2009.
In particolare, per quel che qui interessa,
il comma 6
dell’articolo 19 citato prevede che gli incarichi
dirigenziali di cui ai precedenti commi da 1 a 5 “sono
conferiti, fornendone esplicita motivazione, a persone di
particolare e comprovata qualificazione professionale, non
rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione, che abbiano
svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati
ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita
per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che
abbiano conseguito una particolare specializzazione
professionale, culturale e scientifica desumibile dalla
formazione universitaria e postuniversitaria, da
pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di
lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso
amministrazioni statali, ivi comprese quelle che
conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste
per l’accesso alla dirigenza, o che provengano dai settori
della ricerca, della docenza universitaria, delle
magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello
Stato.(…)”.
Ricordato che talune questioni riconducibili ai rapporti tra
l’art. 110 TUEL e l’art. 19 -commi 6 e 6-bis- del D.Lgs. n.
165/2001 sono state scrutinate dalle Sezioni riunite di
questa Corte con le delibere nn. 12-13-14/CONTR/11, tutte
dell’08.02.2011, conviene affrontare nello specifico il
quesito inerente al possesso del diploma di laurea quale
requisito necessario ai fini del conferimento dell’incarico
di che trattasi.
Riferisce l’Ente istante che, a una lettura testuale,
parrebbero distinguersi all’interno del comma 6, due
ipotesi, delle quali la prima sembrerebbe ammettere il
conferimento di incarichi a “persone di particolare e
comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei
ruoli dell’Amministrazione, che abbiano svolto attività in
organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende
pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un
quinquennio in funzioni dirigenziali”; mentre la seconda lo prevederebbe per i soggetti “che abbiano conseguito una
particolare specializzazione professionale, culturale e
scientifica desumibile dalla formazione universitaria e
postuniversitaria”.
Nella prima, sostiene l’Ente, non verrebbe fatto alcun
riferimento al possesso di una formazione universitaria
(diploma di laurea), supponendosi che l’affidamento possa
avvenire anche a favore di soggetti non laureati, purché
sussistano gli altri requisiti.
Accedendo a tale interpretazione, dovrebbe ritenersi
operante una deroga rispetto alla disciplina generale sui
requisiti necessari per l’accesso alle qualifiche
dirigenziali, recata dall’art. 28, comma 2, del D.Lgs.
165/2001, non riguardando il citato comma 6 dell’art. 19
procedure concorsuali pubblicistiche per l’accesso al
pubblico impiego.
La riferita opzione ermeneutica si fonderebbe sull’assunto
secondo cui la qualificazione professionale, particolare e
comprovata, acquisibile “sul campo” per il fatto di aver
svolto funzioni dirigenziali in organismi o enti o aziende
pubblici o privati per almeno un quinquennio, costituirebbe
requisito professionale alternativo rispetto alla
particolare “specializzazione professionale, culturale e
scientifica desumibile dalla formazione universitaria e
postuniversitaria”.
Tale tesi, tuttavia, non è stata ritenuta condivisibile da
pacifica e consolidata giurisprudenza di questa Magistratura
contabile, formatasi sia in sede consultiva (vd. ex plurimis
sez. reg.le Basilicata, delib. n. 29/2011/PAR) che in sede
di controllo di legittimità (cfr. sez. controllo di
legittimità su atti del Governo delib. n. 3/2003 e sez. del
controllo di legittimità su atti del Governo e delle Amm.ni
dello Stato n. 2/2005/P).
A tale conclusione si è pervenuti in base a una lettura non
solo “testuale”, ma altresì sistematica del richiamato comma
6, secondo cui il requisito del possesso del diploma di
laurea costituisce requisito essenziale per l’accesso alle
qualifiche dirigenziali nel rapporto di lavoro alle
dipendenze delle Amministrazioni pubbliche di cui all’art.
1, co. 2, del D.Lgs. n. 165/2001, trattandosi di un
requisito di base e necessariamente propedeutico, come si
evince dalla lettura del necessariamente correlato art. 28
successivo, che disciplina l’accesso alla qualifica
dirigenziale.
Né tale piana interpretazione può subire eccezioni allorché
il conferimento dell’incarico provenga da un Ente Locale con
contratto a termine (giusta il combinato disposto dell’art.
110 TUEL e del comma 6 dell’art. 19 D.Lgs. n. 165/2001),
ipotesi nella quale, anzi, l’accesso alla dirigenza è
consentito dal comma 6 a soggetti particolarmente
qualificati che, oltre al requisito di base del titolo di
studio, posseggano alternativamente uno o più degli
ulteriori requisiti di specifica preparazione ed esperienza
professionale.
E’ stato infatti affermato che “le previsioni normative in
esame non sono sostitutive del requisito di base del
possesso della laurea, ma sono aggiuntive, nel senso che,
purché in possesso del diploma di laurea, i soggetti che
siano dotati di uno dei requisiti delineati nell’art. 19,
comma 6, possono ottenere un incarico dirigenziale
temporaneo” (vd. sez. reg.le Lombardia delib. n. 504/2011 e,
già in precedenza alla novella normativa recata dall’art. 40
del D.Lgs. n. 150/2009, delib. n. 20/2006).
Peraltro, come ricordato, a identiche conclusioni era
pervenuta la giurisprudenza di legittimità di questa
Magistratura contabile ancor prima dell’estensione della
disposizione dell’originario comma 6 alle Autonomie locali,
pervenendo alla ricusazione del visto a un provvedimento di
nomina a dirigente di seconda fascia di un soggetto esterno
al ruolo dirigenziale dell’Amministrazione per difetto del
titolo adeguato di studio (vd. delib. n. 3/2003 della Sez.
centrale di legittimità su atti del Governo).
Osservava la Sezione che, “a tacere che il richiamo
contenuto nell’art. 19, c. 6, alla <formazione universitaria
e post-universitaria> equivale nella sostanza a quello
fatto dall’art. 28 novellato dello stesso decreto
legislativo n. 165/2001 al diploma di laurea, osserva la
Sezione che il criterio secondo il quale il legislatore ha
inteso disciplinare l’immissione nell’esercizio di funzioni
dirigenziali di soggetti, quali essi siano, in precedenza
già non investiti di tale qualifica, risulta evidentemente
informato alla volontà di acquisire professionalità
estranee, tali da presentare qualità aggiuntive e comunque
non minori rispetto ai già elevati requisiti previsti per le
nomine di funzionari appartenenti ai ruoli dirigenziali.
Tanto premesso, consegue da ciò attraverso una lettura
sistematica dell’art. 19, c. 6, che la facoltà da tale norma
prevista richiede, nei suoi destinatari, il concorrente
possesso di una particolare specializzazione, sia
professionale, che culturale e scientifica; quando si passi
all’accertamento di tali requisiti, in relazione alle
funzioni da attribuire, l’interprete, dal canto suo, non può
sottrarsi alla verifica, sotto ogni profilo, della presenza
di tutti gli elementi che complessivamente rendono il
soggetto idoneo all’incarico.
Ne discende che, ferma rimanendo l’esigenza
dell’accertamento di un livello di formazione culturale
identificabile nel possesso della laurea, gli elementi che
configurano e completano in estranei il profilo della
professionalità debbano, insieme ad altri, ricavarsi dal già
disimpegnato esercizio di funzioni almeno di pari rilevanza
di quelle previste nel nuovo compito.
Quindi, oltre all’accertato possesso di sufficiente
formazione culturale, in un contesto normativo in cui è però
prevista l’attribuzione di incarichi dirigenziali previa
verifica della sussistenza di livelli di formazione
particolarmente elevati, occorre che la valutazione venga
estesa ad un puntuale esame dei curricula degli incaricandi”.
A conclusioni analoghe è poi giunto anche il Dipartimento
per la funzione pubblica, con parere n. 35/2008, nel quale
ha stabilito che per gli Enti locali il requisito del titolo
di studio richiesto dalla legge per il conferimento di
incarico dirigenziale è lo stesso disposto, in generale,
dall’art. 28 del D.Lgs. 165/2001, e consiste nel titolo di
laurea.
A conferma delle argomentazioni, peraltro univocamente
orientate, articolate a sostegno della tesi della
necessarietà del possesso del titolo di laurea per il
conferimento di qualsivoglia incarico di funzioni
dirigenziali, anche a tempo determinato, per tutte le PPAA,
compresi gli Enti locali, vale ricordare che la stessa Corte
costituzionale, con la già richiamata decisione n. 324 del
2010, ha ritenuto che la disciplina dettata dall’art. 19,
commi 6 e 6-bis del D.Lgs. n. 165/2001, riguardi tutte le
amministrazioni pubbliche, anche quelle locali, e attiene ai
requisiti soggettivi che devono essere posseduti dal privato
contraente, requisiti che, dunque, non possono che essere
identici per tutte le fattispecie in cui si dà luogo a un
incarico dirigenziale.
Gli indirizzi ermeneutici sopra riportati, ai quali il
Collegio aderisce, rimangono inalterati pur nell’intervenuta
modifica normativamente introdotta alla disciplina del
conseguimento del titolo di “formazione universitaria” e del
relativo valore legale, che, ai fini del conferimenti degli
incarichi de quibus, non può essere inferiore al possesso
del titolo di laurea specialistica o magistrale ovvero al
diploma di laurea conseguito secondo l’ordinamento
didattico previgente al regolamento di cui al decreto del
Ministro dell’università, ricerca scientifica e tecnologica
03.11.1999, n. 509 (vd. art. 6, ult. periodo, come
introdotto dall’art. 2, comma 8-quater, del D.L. n.
101/2013, convertito in legge n. 125/2013, peraltro
correttamente richiamato dall’Amministrazione istante).
Su tale consolidato impianto interpretativo si innestano le
recentissime novelle normative recate sul dettato dall’art. 11, comma 1, lett. a), del D.L. 24.06.2014,
che, nel mantenere fermi i requisiti già normativamente
fissati per la qualifica da ricoprire, espressamente
introduce il necessario previo esperimento di apposita
procedura selettiva pubblica, volta ad accertare, in capo ai
soggetti interessati, “il possesso di comprovata esperienza
pluriennale e specifica professionalità nelle materie
oggetto dell’incarico”.
2. Ritiene il Collegio di dover ancora formulare indirizzi
in merito all’ulteriore quesito posto nell’odierna
richiesta, specificatamente volto a individuare la corretta
interpretazione dell’inciso “non rinvenibile nei ruoli
dell’Amministrazione” che nel testo del più volte richiamato
comma 6 dell’art. 19 segue il riferimento alle “persone di
particolare e comprovata qualificazione professionale” le
quali, in presenza di tutti i requisiti normativamente
posti, possono essere destinatarie degli incarichi di
funzioni dirigenziali di che si sta trattando.
Ora, facendo applicazione dei consueti canoni ermeneutici,
in primo luogo di quello letterale, può agevolmente
inferirsi che l’inciso “non rinvenibile nei ruoli
dell’Amministrazione” deve coordinarsi con la “particolare e
comprovata qualificazione professionale” che deve essere
posseduta dai soggetti estranei incaricandi (le “persone”
del dettato normativo considerato), la quale qualificazione,
peraltro, deve essere in concreto valutata
dall’Amministrazione conferente in stretta e inscindibile
connessione con la particolarità dei compiti che la medesima
intende affrontare e portare a compimento.
In altri termini, ritiene il Collegio che il comma 6, avente
valenza di norma di carattere complementare all’ordinario
sistema di provvista delle professionalità dirigenziali, sia
finalizzato ad accrescere le capacità operative delle
Amministrazioni attingendo a un bacino più ampio di quello
delle unità dirigenziali già presenti nei ruoli delle
Amministrazioni medesime, all’uopo acquisendo
professionalità esterne altamente specializzate e
qualificate, con esperienze maturate in ruoli dirigenziali
disimpegnati per almeno un quinquennio presso aziende od
organismi pubblici o privati, ovvero in possesso di valori
culturali e scientifici ricavati dalla formazione
universitaria e post-universitaria, o da pubblicazioni
scientifiche, ovvero, ulteriormente, in quanto provenienti
dai settori della ricerca, della docenza universitaria,
delle magistrature e degli avvocati e procuratori dello
Stato (soggetti, questi ultimi, già direttamente considerati
idonei dalla norma, per la posizione rivestita,
all’espletamento di un compito dirigenziale).
Tale elencazione è stata ulteriormente ampliata ad opera
dell’art. 40, comma 1, lett. e), del D.Lgs. 27.10.2009,
n. 150 (c.d. riforma “Brunetta”), che, tra le altre modifiche,
ha aggiunto anche la previsione delle “persone” che per
almeno un quinquennio abbiano maturato esperienze
professionali in posizioni funzionali previste per l’accesso
alla dirigenza, oltreché in possesso del necessario,
relativo titolo di studio di “formazione universitaria", come
sopra definito.
L’impianto normativo così ricostruito è stato fatto oggetto
di una ponderosa attività ermeneutica da parte di questa
Corte, in particolare in sede di giurisprudenza di
legittimità.
Si è così chiarito che, rispetto all’originaria
formulazione, le modifiche apportate dal ricordato art. 40,
comma 1, lette. e) della “legge Brunetta” “tendono a
limitare ulteriormente la facoltà di ricorrere a soggetti
esterni, consentendone il conferimento a persone di
particolare e comprovata qualificazione professionale solo
nell’ipotesi in cui (…)tale qualificazione non sia
rinvenibile nell’ambito del personale dirigenziale
dell’Amministrazione”.
In tal modo, si osserva, “la disposizione citata crea un
onere di previa verifica della sussistenza di risorse
interne all’Amministrazione in possesso dei requisiti
professionali richiesti dall’incarico: soltanto ove tale
indagine dia esito negativo sarà possibile attribuire il
posto vacante a soggetto esterno, se dotato della
particolare specializzazione richiesta” (cfr. delib. Corte
dei conti n. SCCLEG/18/2010/PREV).
In definitiva, coerentemente agli ordinari canoni secondo
cui compete all’Amministrazione conferente dotare di
adeguata motivazione la scelta amministrativo/gestionale in
concreto operata, è rimesso all’operato dell’Ente procedere
preliminarmente alla ricognizione delle professionalità
interne, potendo, solo in caso di esito negativo di tale
verifica, procedere alla provvista all’esterno della
professionalità necessaria all’assolvimento dei compiti
connessi all’incarico.
Nelle suesposte considerazioni è il parere della Sezione
(Corte dei Conti, Sez. controllo Friuli Venezia Giulia,
parere 07.10.2014 n. 159). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: I presupposti di legittimità per il ricorso
ad incarichi di collaborazione sono specificamente enucleati
dall’art. 7 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165 (norme generali
sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche).
I citati presupposti
costituiscono la codificazione di quanto ampiamente
affermato dalla giurisprudenza contabile in ordine al
conferimento di atti riferiti all’estesa tipologia di spese
soggette a controllo da parte della Sezione (le consulenze,
gli studi, le ricerche, le spese per relazioni,
rappresentanza, mostre, convegni, pubblicità).
In particolare, la disciplina vigente prevede che:
a) l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle
competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione
conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati
e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità
dell'amministrazione conferente; è stato in proposito
chiarito che: “il requisito della corrispondenza della
prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento
all’amministrazione conferente è determinato dal poter
ricorrere a contratti di collaborazione autonoma solo con
riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla
legge”;
b) l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato
l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane
disponibili al suo interno.
Al proposito va rammentato che in base ai principi generali
di organizzazione amministrativa gli enti pubblici devono di
norma svolgere i compiti istituzionali avvalendosi di
proprio personale. Tale regola trae il suo fondamento dal
principio costituzionale di buon andamento della pubblica
amministrazione e il conferimento degli incarichi di
consulenza a professionisti esterni alla P.A. si pone come
eccezione in presenza di speciali e peculiari condizioni.
D’altro canto il legislatore ha ormai da ben oltre un
decennio previsto in linea generale l’eccezionalità del
ricorso a collaborazioni esterne condizionandolo all’assenza
di personale idoneo (art. 7, co. 6, d.lgs. n. 165/2001),
ribadendo più volte tale regola e la necessità di fornire
adeguata motivazione in caso di ricorso all’esterno
dell’amministrazione;
c) la prestazione deve essere di natura temporanea e
altamente qualificata e deve soddisfare esigenze
straordinarie ed eccezionali; non è ammesso il rinnovo;
l'eventuale proroga dell'incarico originario è consentita,
in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e
per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando
la misura del compenso pattuito in sede di affidamento
dell'incarico;
d) devono essere preventivamente determinati durata, luogo,
oggetto e compenso della collaborazione;
e) deve sussistere il requisito della “comprovata
specializzazione anche universitaria”: le amministrazioni,
per esigenze cui non possono far fronte con personale in
servizio, possono conferire incarichi individuali (con
contratti di lavoro autonomo professionale, occasionale o di
collaborazione coordinata e continuativa) a esperti muniti
di tale requisito. Si prescinde dal requisito della
comprovata specializzazione universitaria in caso di
stipulazione di contratti di collaborazione di natura
occasionale o coordinata e continuativa per attività che
debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o
albi o con soggetti che operino nel campo dell'arte, dello
spettacolo, dei mestieri artigianali o dell’attività
informatica nonché a supporto dell’attività didattica e di
ricerca, per i servizi di orientamento, compreso il
collocamento, e di certificazione dei contratti di lavoro di
cui al decreto legislativo 10.09.2003, n. 276, purché
senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza
pubblica, ferma restando la necessità di accertare la
maturata esperienza nel settore.
Va inoltre aggiunto, sotto un profilo generale, che
in caso
di conferimento di un incarico di studio o di consulenza
occorre altresì osservare i limiti di spesa introdotti
dall’art. 6, co. 7, d.l. 78/2010 convertito con legge. n.
122/2010 e s.m.i..
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La Provincia di Asti con nota pervenuta in data 11.07.2014, prot. n. 7166, ha trasmesso a questa Sezione Regionale di
Controllo, ai sensi dell’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266, la determinazione del Dirigente del
Servizio programmazione e gestione finanziaria, n. 2682 del
25.06.2014, avente ad oggetto l’affidamento dell’incarico di
assistenza in ordine al servizio di tenuta della contabilità
IVA e adempimenti fiscali per il periodo 01.07.2014-30.06.2015,
a favore del dr. G.M.L., già affidatario
del suddetto incarico per il periodo luglio 2011-giugno
2014, per una spesa complessiva di € 6.400,00.
Dall’esame di tale determinazione, come rilevato con nota
istruttoria, si è evinto che non risultava:
- l’espletamento
di una procedura comparativa adeguatamente pubblicizzata,
- la
previa circostanziata ricognizione dell’assenza di strutture
organizzative o professionalità interne all’ente in grado di
svolgere l’incarico,
- l’eccezionalità e la straordinarietà
delle esigenze da soddisfare con l’incarico conferito,
- l’avvenuta pubblicazione sul sito web dell’incarico, né
l’inclusione o meno dell’incarico nell’ambito del programma
da approvarsi ai sensi dell’art. 42, co. 2, d.lgs. n. 267/2000.
Con nota istruttoria prot. 7329 del 22.07.2014 il Magistrato
istruttore richiedeva alla Provincia di Asti atti, documenti
e informazioni a chiarimento di quanto sopra.
Con nota di risposta prot. 73910/2014 del 06.08.2014, a firma
del Dirigente del Servizio programmazione e gestione
finanziaria, pervenuta al prot. n. 7686 del 06.08.2014, l’ente
comunicava “che con nota prot. n. 52258/2014 è stata inviata
a tre professionisti iscritti all’albo dei Dottori
commercialisti la richiesta di preventivo per l’affidamento
di servizio di tenuta contabilità IVA ed adempimenti fiscali
per il periodo luglio 2014/giugno 2015, stante la mancanza
di professionalità interne a cui affidare la gestione della
normativa fiscale e che potesse assicurare altresì la
necessaria consulenza agli uffici dell’Ente”.
La nota proseguiva inoltre descrivendo la situazione
dell’ente in particolare sotto il profilo della dotazione di
personale, dando atto che la situazione era peggiorata
rispetto al periodo di vigenza del precedente affidamento di
consulenza fiscale, conferito per il periodo
01.07.2011-30.06.2014.
Sotto il profilo procedurale l’ente comunicava poi “in
ordine alla procedura comparativa scelta, alle modalità e
formalizzazione dell’affidamento sono state seguite le
disposizioni previste dal vigente REGOLAMENTO PER I LAVORI
LE FORNITURE E I SERVIZI IN ECONOMIA E PER LA GESTIONE
DELL’ALBO FORNITORI” aggiungendo che “Con determina
dirigenziale n. 2682 del 25/06/2014, a seguito dell’esame
comparato dei curricula si è quindi proceduto
all’affidamento al dott. Garbarino Mario Luciano del
servizio di tenuta contabilità IVA e adempimenti fiscali”.
Quanto alla pubblicazione, infine, l’ente aggiungeva “si
precisa che la determina di affidamento dell’incarico
succitata è stata pubblicata in data 07/07/2014 (ed è
tutt’ora visibile) sul sito web della provincia di Asti,
nell’area Amministrazione Trasparente= Consulenti e
Collaboratori = categoria Programmazione e Gestione
Finanziaria”.
Non ritenendo superati tutti i rilievi mossi sull’atto
oggetto di controllo, il Magistrato istruttore chiedeva al
Presidente della Sezione la convocazione dell’odierna
adunanza per l’esame collegiale della questione.
...
I. L’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266,
ha previsto che gli atti di spesa relativi ai precedenti
commi 9, 10, 56 e 57 di importo superiore a 5.000 euro
devono essere trasmessi alla competente sezione della Corte
dei conti per l'esercizio del controllo successivo sulla
gestione. La finalità di tale previsione normativa è
riconducibile all’accertamento, di tipo collaborativo, da
parte della Corte, dell’idoneità dell’attività
amministrativa posta in essere dagli enti controllati a
raggiungere determinati risultati, attraverso una verifica
della sua efficacia, efficienza ed economicità, che non può
comunque prescindere da un riscontro della conformità della
stessa a norme giuridiche.
La giurisprudenza contabile ha già affermato che
”l’accertamento dell’illegittimità per il mancato rispetto
di uno o più dei requisiti di legge (talora verificabile nei
limiti di sindacabilità di scelte discrezionali) comporta da
un lato l’obbligo di rimuovere, ove possibile, l’atto con un
provvedimento di secondo grado e dall’altro la
responsabilità del soggetto che lo ha posto in essere” (Sez.
reg. contr. Lombardia, n. 244/2008).
Preliminarmente alla verifica di conformità alla legge
dell’incarico conferito dalla Provincia di Asti occorre
rammentare che i presupposti di legittimità per il ricorso
ad incarichi di collaborazione sono specificamente enucleati
dall’art. 7 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165 (norme generali
sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche). I citati presupposti
costituiscono la codificazione di quanto ampiamente
affermato dalla giurisprudenza contabile in ordine al
conferimento di atti riferiti all’estesa tipologia di spese
soggette a controllo da parte della Sezione (le consulenze,
gli studi, le ricerche, le spese per relazioni,
rappresentanza, mostre, convegni, pubblicità); in tal senso,
si richiama la recente deliberazione di questa Sezione n.
362/2013/SRCPIE/INPR.
In particolare, la disciplina vigente prevede che:
a) l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle
competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione
conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati
e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità
dell'amministrazione conferente; è stato in proposito
chiarito che: “il requisito della corrispondenza della
prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento
all’amministrazione conferente è determinato dal poter
ricorrere a contratti di collaborazione autonoma solo con
riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla
legge” (Sez. contr. Reg. Lombardia, n. 37/2009, nonché Sez.
Reg. Lombardia, n. 244/08);
b) l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato
l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane
disponibili al suo interno.
Al proposito va rammentato che in base ai principi generali
di organizzazione amministrativa gli enti pubblici devono di
norma svolgere i compiti istituzionali avvalendosi di
proprio personale. Tale regola trae il suo fondamento dal
principio costituzionale di buon andamento della pubblica
amministrazione e il conferimento degli incarichi di
consulenza a professionisti esterni alla P.A. si pone come
eccezione in presenza di speciali e peculiari condizioni.
D’altro canto il legislatore ha ormai da ben oltre un
decennio previsto in linea generale l’eccezionalità del
ricorso a collaborazioni esterne condizionandolo all’assenza
di personale idoneo (art. 7, co. 6, d.lgs. n. 165/2001),
ribadendo più volte tale regola e la necessità di fornire
adeguata motivazione in caso di ricorso all’esterno
dell’amministrazione;
c) la prestazione deve essere di natura temporanea e
altamente qualificata e deve soddisfare esigenze
straordinarie ed eccezionali; non è ammesso il rinnovo;
l'eventuale proroga dell'incarico originario è consentita,
in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e
per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando
la misura del compenso pattuito in sede di affidamento
dell'incarico;
d) devono essere preventivamente determinati durata, luogo,
oggetto e compenso della collaborazione;
e) deve sussistere il requisito della “comprovata
specializzazione anche universitaria”: le amministrazioni,
per esigenze cui non possono far fronte con personale in
servizio, possono conferire incarichi individuali (con
contratti di lavoro autonomo professionale, occasionale o di
collaborazione coordinata e continuativa) a esperti muniti
di tale requisito. Si prescinde dal requisito della
comprovata specializzazione universitaria in caso di
stipulazione di contratti di collaborazione di natura
occasionale o coordinata e continuativa per attività che
debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o
albi o con soggetti che operino nel campo dell'arte, dello
spettacolo, dei mestieri artigianali o dell’attività
informatica nonché a supporto dell’attività didattica e di
ricerca, per i servizi di orientamento, compreso il
collocamento, e di certificazione dei contratti di lavoro di
cui al decreto legislativo 10.09.2003, n. 276, purché
senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza
pubblica, ferma restando la necessità di accertare la
maturata esperienza nel settore.
Va inoltre aggiunto, sotto un profilo generale, che
in caso
di conferimento di un incarico di studio o di consulenza
occorre altresì osservare i limiti di spesa introdotti
dall’art. 6, co. 7, d.l. 78/2010 convertito con legge. n.
122/2010 e s.m.i. (salve particolari ipotesi.; es. la
copertura della spesa mediante finanziamenti aggiuntivi e
specifici trasferiti da altri soggetti pubblici o privati,
cfr. sez. contr. Piemonte 25.10.2013, n. 362).
II. Esaurita questa breve ricognizione dei presupposti di
legittimità per il conferimento dell’incarico occorre
evidenziare che all’esito dei chiarimenti forniti dalla
Provincia di Asti con la nota pervenuta il 06.08.2014, mentre
per gli aspetti inerenti alla pubblicazione sul sito web
dell’ente risultano essere state fornite indicazioni
adeguate e chiarificatorie, in ordine ai restanti rilievi non
può dirsi ugualmente.
1. Innanzitutto sotto il profilo procedurale va osservato
che l’obbligo di seguire procedure comparative per il
conferimento degli incarichi di collaborazione è
puntualmente declinato nel comma 6-bis del richiamato art. 7 D.Lgs. n. 165/2001. Tale obbligo è considerato dalla
giurisprudenza amministrativa un adempimento essenziale per
la legittima attribuzione di incarichi di collaborazione; in
proposito è stato affermato che “il conferimento di
incarichi di collaborazione esterna da parte delle P.A. deve
avvenire previo esperimento di procedure para-selettive e
non già in base alla sola valutazione di idoneità del
prescelto” (TAR Puglia n. 494 del 19.02.2007).
Tale
obbligo deve ritenersi generalizzato, in ossequio ai
principi generali di trasparenza, pubblicità e massima
partecipazione: la giurisprudenza amministrativa ha poi
ricordato che “l'affidamento di incarichi di consulenza e/o
di collaborazione da conferire a soggetti esterni alla
Pubblica amministrazione non può prescindere dal preventivo
svolgimento di una selezione comparativa adeguatamente
pubblicizzata” (Cons. St., 28.05.2010, n. 3405) ed
ancora: “qualsivoglia pubblica amministrazione può
legittimamente conferire ad un professionista esterno un
incarico di collaborazione, di consulenza, di studio, di
ricerca o quant’altro, mediante qualunque tipologia di
lavoro autonomo, continuativo o anche occasionale, solo a
seguito dell’espletamento di una procedura comparativa
previamente disciplinata ed adottata e adeguatamente
pubblicizzata, derivandone in caso di omissione
l’illegittimità dell’affidamento della prestazione del
servizio” (TAR Piemonte, 29.09.2008 n. 2106; cfr. Corte
Conti sez. reg. contr. Lombardia, 11.02.2009. n. 37;
27.11.2012, n. 509 che ribadiscono i principi in questione).
Anche a livello centrale la magistratura contabile ha avuto
modo di statuire che: “il comma 6-bis dell’art. 7 del d.lgs.
n. 165/2001, prevedendo l’obbligo per le amministrazioni di
disciplinare e rendere pubbliche le procedure comparative
per il conferimento di incarichi di collaborazione, ha in
concreto posto la necessità dell’espletamento della
procedura concorsuale, nella considerazione che un simile
modus operandi, implicando il rispetto di precisi
adempimenti procedurali e moduli operativi, concorra a
rendere l’operato dell’Amministrazione conforme ai parametri
di efficienza, efficacia, economicità e trasparenza,
costituzionalmente tutelati ex art. 97” (Corte Conti, sez.
centrale controllo prev. legittimità Stato, 02.10.2012, n.
23; analogamente la stessa sezione, delibera 26.10.2011, n.
21).
Pertanto, il ricorso a procedure comparative adeguatamente
pubblicizzate può essere derogato con affidamento diretto
nei limitati casi individuati dalla giurisprudenza:
a) procedura comparativa andata deserta;
b) unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo;
c) assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile
necessità della collaborazione in relazione ad un termine
prefissato o ad un evento eccezionale, ricordando che la
“particolare urgenza” deve essere “connessa alla
realizzazione dell’attività discendente dall’incarico” (ex plurimis, deliberazione Sez. Contr. Lombardia n. 67/2012/IADC).
In conseguenza di quanto detto dunque, come ripetutamente
chiarito dalla giurisprudenza contabile, non può ritenersi
legittima la previsione di affidamenti di incarichi senza
procedura comparativa al di sotto di una soglia individuata
in valore monetario (o di un numero massimo di ore della
prestazione richiesta al collaboratore), poiché “la materia
è del tutto estranea a quella degli appalti di lavori, di
beni o servizi, pertanto non può farsi ricorso neppure per
analogia a detti criteri”, in particolare agli affidamenti
in economia (Corte Conti, Sez. contr. Reg. Lombardia, n.
37/09; Sez. contr. Prov. Trento, n. 2/10 e n. 8/10; cfr le
recenti Sez. contr. reg. Piemonte n. 362/2013; 421/2013).
In proposito va rilevato il fatto che in passato questa
Sezione (deliberazione 20.12.2012, n. 5)
ha già avuto modo
di affermare, esaminando un regolamento comunale che
prevedeva l’osservanza di una procedura comparativa, resa
pubblica con pubblicazione all’albo pretorio, solo per
incarichi di importo superiore ad € 5.000,00, che una
siffatta disciplina “non risulta conforme a quanto prevede
l’art. 7, comma 6-bis, del D.lgs. n. 165/2001, come introdotto
dall’art. 32 D.L. 223/2006 e relativa legge di conversione, a
mente del quale “Le amministrazioni pubbliche disciplinano e
rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, procedure
comparative per il conferimento degli incarichi di
collaborazione”, senza lasciare spazio all’introduzione di
soglie di valore al di sotto delle quali le procedure
comparative non sono necessarie o non sono rese pubbliche.”
La sezione piemontese puntualizzava altresì “Va aggiunto che
si è posto il problema del se e in quali limiti sia
consentito l’affidamento diretto dell’incarico senza
ricorrere a procedure concorsuali, in taluni casi facendo
riferimento ai limiti previsti nel codice degli appalti
pubblici. La materia, peraltro, è del tutto estranea a
quella degli appalti di lavori, di beni o servizi, cui,
quindi, non può farsi ricorso neppure per analogia. Va
quindi ribadito che il ricorso a procedure concorsuali deve
essere generalizzato, salve circostanze del tutto
particolari ed eccezionali (quali, ad es., la procedura
concorsuale andata deserta, l’unicità della prestazione
sotto il profilo soggettivo, l’assoluta urgenza determinata
dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione
ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale, ecc.)
(cfr. Sez. Lombardia Del. n. 379 del 26.06.2009)” (cfr.
di recente sez. controllo Piemonte, 11.4.2014, n. 11). Di
conseguenza in questa sede non è applicabile la disciplina
di cui al d.lgs. n. 163/2006.
In proposito, quindi, la risposta fornita dall’ente
provinciale secondo cui sarebbero state seguite le
disposizioni previste dal Regolamento per i lavori, le
forniture e i servizi in economia non è affatto idonea a
giustificare l’operato dell’ente, anzi non fa altro che
confermare che non è stata osservata la procedura corretta.
Infatti in proposito trattandosi di collaborazione esterna
di carattere professionale, e non già di appalto di servizi
di cui al d.lgs. n. 163/2006, avrebbe dovuto esser osservato
il disposto dell’art. 142 “Selezione degli esperti mediante
procedure comparative” del “Regolamento degli uffici e dei
servizi del personale provinciale”, adottato dalla Provincia
di Asti con DGP n. 38 del 21.2.2011.
Nel caso di specie l’attivazione di una procedura
ultraristretta (richiesta di preventivo rivolta a 3
professionisti) per la selezione del consulente esterno non
risulta essere in linea con la previsione di cui all’art. 7, co. 6-bis, d.lgs. n. 165/2001, né risulta essere rispettosa
dell’art. 142 del citato Regolamento provinciale che prevede
che l’amministrazione debba procedere “alla selezione degli
esperti esterni ai quali conferire incarichi professionali
mediante procedure comparative, pubblicizzate con appositi
avvisi …” e che “la Pubblicazione dell’avviso deve avvenire
almeno 15 giorni prima della scadenza del termine previsto
per la presentazione delle domande”.
La procedura seguita dalla Provincia di Asti, non appare
dunque legittima.
E’ infatti evidente che l’ente riservandosi di scegliere di
volta in volta i soggetti esterni da incaricare sulla base
di una comparazione del tutto ristretta a pochi, rectius a
pochissimi soggetti (come nell’incarico in questione)
individuati discrezionalmente dall’amministrazione, attiva
un procedimento che non solo non garantisce una pubblicità
minimamente adeguata, ma che rischia di divenire strumento
idoneo a consentire di fatto affidamenti di tipo fiduciario
in radicale contrasto con il dettato legislativo.
Nella fattispecie dunque la procedura seguita
dall’Amministrazione provinciale non risulta conforme alla
disciplina legislativa ed in particolare alla previsione
circa la necessità di una procedura comparativa
adeguatamente pubblicizzata, né alla specifica normativa
regolamentare dell’ente che prevede l’espletamento di una
procedura aperta con pubblicazione di un avviso di
selezione.
2. In secondo luogo nel caso di specie non risulta in alcun
modo che l’Ente, prima di procedere all’avvio dell’iter
procedimentale per l’affidamento dell’incarico, abbia
effettuato una puntuale ricognizione circa l’assenza di
strutture organizzative o professionalità interne all’ente
in grado di far fronte all’esigenza sottesa all’incarico in
questione.
Invero nella risposta istruttoria il Dirigente si
è limitato ad affermare in modo peraltro generico “le
condizioni dell’ente, in particolare le sue attuali
dimensioni e le ridotte risorse di personale, inducono ad
attestare che, anche ad una reale e circostanziata
ricognizione, siano assenti strutture organizzative o
professionalità interne in grado di assicurare detto
servizio specialistico”. Aggiungendo ancora che all’interno
del settore “non sono presenti figure professionali in
possesso dell’abilitazione di ragioniere/dottore
commercialista o comunque necessari per l’espletamento del
servizio oggetto della presente”.
In realtà quanto riferito nella nota non dà nessun riscontro
di quella preventiva ricognizione che l’ente avrebbe per
legge dovuto effettuare, anzi la stessa formulazione
letterale della nota conferma il fatto che non sia stata
fatta preventivamente tale ricognizione. Ciò è tanto più
grave in ragione del fatto il “Regolamento degli uffici e
dei servizi del personale provinciale” nell’ambito del capo XII “Conferimento di incarichi professionali ad esperti
esterni all’amministrazione” prevede all’art. 141 quale
presupposto per l’affidamento di incarichi esterni che “Il
dirigente competente deve aver preliminarmente accertato
l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane
disponibili all’interno del Servizio e delle altre strutture
dell’Ente. La verifica deve essere adeguatamente riportata
nel provvedimento di attivazione della procedura”.
Anche il fatto che non vi sarebbero dipendenti muniti
dell’abilitazione quale ragioniere/dottore commercialista
appare irrilevante, posto che per lo svolgimento dei compiti
nel settore fiscale nell’ambito di un ente pubblico non è
necessaria tale abilitazione, propeduetica all’iscrizione
del relativo albo per l’esercizio della libera professione.
Parimenti l’affermazione circa il fatto che non vi sarebbero
figure idonee allo svolgimento dei compiti in questione
risulta apodittica e pare scontrarsi con la realtà
effettiva.
Invero la stessa natura dell’incarico (attività di tenuta
della contabilità e adempimenti fiscali) depone nel senso
che nel caso di specie sia stato fatto ricorso all’esterno
della struttura per far fronte ad un’ordinaria esigenza che
avrebbe potuto essere normalmente fronteggiata con le
risorse interne.
E’ infatti evidente che la legittimità di un incarico di
assistenza e consulenza in campo fiscale e tributario per le
esigenze di una Provincia, presupporrebbe la mancanza in
tutta la struttura amministrativa dell’ente di alcuna figura
professionale in grado di far fronte ad adempimenti di
carattere fiscale e tributario e munita delle necessarie
conoscenze per far fronte ad ordinarie esigenze cui in detto
campo è chiamata ad operare qualsivoglia amministrazione
pubblica.
Dunque quanto dichiarato dal Dirigente della Provincia di
Asti circa l’assenza di figure professionali in grado di
fronteggiare il compito in questione appare del tutto
inverosimile atteso che si tratta di un ente pubblico di
considerevoli dimensioni, munito di un’apposita
articolazione nell’ambito finanziario. Infatti dalla
risposta istruttoria del 06.08.2014 e dai relativi allegati
trasmessi, emerge il fatto che all’interno della Provincia
esiste un’apposita articolazione denominata “Servizio
Programmazione e gestione Finanziaria”, munita di vari
dipendenti di categorie “C” e “D”. In particolare
dall’elenco del personale in servizio suddiviso per
qualifica e mansione presso la suddetta articolazione,
allegato alla nota di risposta dell’ente locale, risultano
effettivamente assegnati: tre funzionari finanziari, tutti
inquadrati quali “D6”, sei Coordinatori
amministrativo-contabile, tutti appartenenti alla categoria
apicale “D” (di cui tre D1, due D3 ed uno D4), ed ancora 4
istruttori amministrativo-contabili appartenenti alla
categoria “C” (due C5, uno C3 ed uno C2).
Del resto proprio
il citato Servizio, secondo informazioni fornite dalla
stessa Provincia mediante il proprio sito accessibile alla
generalità degli utenti, è intestatario tra le varie
ordinarie competenze (nell’ambito dell’ufficio spese) della
gestione degli “Adempimenti fiscali in materia di IVA,
IRAP,INPS ed Irpef …” nonché della ”Consulenza a tutti gli
uffici per le informazioni necessarie all'attività in
materia finanziaria”. In siffatto quadro è evidente che non
possa risultare veritiero il fatto per cui la Provincia
sarebbe priva di qualsivoglia figura professionale in alcun
modo idonea a occuparsi di tematiche ed adempimenti in campo
fiscale e tributario.
Tale circostanza si riverbera indubbiamente sulla
legittimità della determinazione di conferimento
dell’incarico a favore del dott. G., non constando
affatto un presupposto essenziale affinché l’Amministrazione
possa rivolgersi all’esterno della propria struttura.
Dagli elementi sopra rappresentati emerge altresì in modo
evidente il fatto che l’incarico esterno sia stato
attribuito non già per fare fronte ad esigenze eccezionali e
straordinarie dell’Ente pubblico, ma per ottemperare ad una
serie di precisi ed inderogabili obblighi di legge ed
espletare compiti del tutto ordinari e di assoluta routine
per qualunque organizzazione amministrativa. Infatti il
suddetto incarico ha come oggetto non già un’attività
peculiare e non consueta della Provincia, ma inequivocamente
compiti inerenti l’ordinaria gestione amministrativa
(compresa la consulenza agli uffici dell’ente). D’altro
canto il fatto che l’incarico de quo non attenga ad
un’esigenza dell’ente locale temporanea ed eccezionale
(bensì di carattere ordinario e stabile) è altresì
confermato dal fatto il consulente esterno è affidatario del
servizio di assistenza e consulenza ininterrottamente sin
dal luglio 2011, come esplicitato nella stessa premessa
della determinazione dirigenziale n. 2682 del 25.06.2014.
In proposito la condotta in questione appare altresì
illegittima in quanto in puntuale contrasto con quanto
previsto dall’art. 7, co. 6, d.lgs. n. 165/2001, come
modificato dall’art. 46, comma 1, D.L. 25.06.2008, n.
112, convertito, con modificazioni, dalla L. 06.08.2008,
n. 133, nella parte in cui dispone “Il ricorso a contratti
di collaborazione coordinata e continuativa per lo
svolgimento di funzioni ordinarie o l'utilizzo dei
collaboratori come lavoratori subordinati è causa di
responsabilità amministrativa per il dirigente che ha
stipulato i contratti”.
Alla luce delle argomentazioni sopra esposte l’attribuzione
della consulenza de qua da parte dell’amministrazione,
altresì alla luce della previsione di cui al d.lgs. n.
165/2001 che delinea una espressa fattispecie di
responsabilità erariale, impone la trasmissione della
presente delibera alla Procura regionale per il Piemonte per
quanto di propria competenza.
3. L’atto di conferimento dell’incarico in questione si
appalesa altresì in contrasto con la disciplina di legge
anche in ordine alla mancata inclusione nel programma di
competenza del Consiglio Provinciale ai sensi dell’art. 42
d.lgs. n. 267/2000.
La Provincia di Asti a seguito delle contestazioni mosse in
sede istruttoria circa la mancanza di ogni riferimento
all’inclusione nell’ambito del programma annuale non ha
fornito alcuna giustificazione al riguardo.
Nel caso di specie, trovando applicazione –come già detto-
la disciplina generale di cui all’art. 7 d.lgs n. 165/2001 e
le puntuali previsioni dettate successivamente in materia
dal legislatore in materia di incarichi e non certo la
normativa del codice dei contratti pubblici, doveva
osservarsi altresì il vincolo della programmazione imposto
dall’art. 3, co. 55, l. n. 244/2007, così come modificato
dall’art. 46, co. 2, d.l. 112/2008.
In conclusione alle rilevate irregolarità dell’attribuzione
della collaborazione consegue l’obbligo della Provincia di
Asti di conformare la propria azione amministrativa in
materia di affidamento di incarichi alla legge e di dare
tempestivo riscontro alla Sezione delle iniziative assunte
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 26.09.2014 n. 194). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Un caso di danno erariale per uso eccessivo di
buoni-pasto.
All’esame del giudice d’appello è pervenuto un incredibile
quanto sintomatico caso di mala gestio, tipico,
purtroppo, di una cultura amministrativa fin troppo
caratterizzata da distorte interpretazioni normative.
Il fatto
La sezione contabile campana aveva condannato un nutrito
numero di funzionari statali, il dirigente e il vice di un
Centro per la giustizia minorile, nonché i reggenti dei
servizi nei quali il Centro si articolava, per le
irregolarità commesse nella gestione dei buoni-pasto.
In
esito al giudizio di primo grado era emerso che il dirigente
si era limitato a chiedere ai servizi chi beneficiasse dei
buoni-pasto, senza effettuare alcun controllo sui
presupposti dell’erogazione; i servizi, a loro volta,
inoltravano solo il numero dei buoni-pasto occorrenti (e i
nominativi dei beneficiari), senza effettuare verifiche in
merito alle modalità di attribuzione; la direzione del
Centro, infine, recepiva pedissequamente i prospetti dei
servizi, inviando, alla società erogatrice, la conseguente
richiesta di buoni-pasto.
La sentenza di primo grado aveva
condannato i direttori dei servizi poiché questi “avevano
autonomia funzionale” e, nel segnalare il quantitativo
necessario di buoni-pasto, non avevano evidenziato
all’Ufficio di livello gerarchico superiore di aver omesso i
necessari controlli preventivi; la responsabilità dei
dirigenti del Centro, invece, è stata dichiarata per omessa
vigilanza.
Incertezza normativa?
In sede di appello, i dipendenti hanno sostenuto che la
normativa di settore non prevedeva una obbligatoria
pausa-pranzo, puntualizzando che l’articolo 19, comma 4, del
Ccnl Ministeri, stipulato nel 1995, stabiliva solamente che
la pausa dovesse essere prevista, ma non necessariamente
effettuata.
Il giudice di secondo grado, negando fondamento alle tesi
dei ricorrenti, ha statuito che “l’art. 19, comma 4, del Ccnl del 16.05.1995 ha disposto che nel caso di
prolungamento dell’orario di Servizio oltre sei ore deve
essere prevista una pausa che comunque non può essere
inferiore ai 30 minuti” (disposizione ribadita ed attuata
dall’art. 7 del Ccnl del 12.01.1996).
Nello stesso senso, è stato precisato, si esprimevano
l’articolo 2, comma 11, della legge n. 550/1995 (come
interpretato dall’articolo 3 della legge n. 334/1997) e
l’articolo 4 del Ccnl del 30.04.1996 (comparto
Ministeri).
Medesime conclusioni l’organo giudicante ha tratto, inoltre,
dall’esame della circolare del ministero della Giustizia del
10.02.1998. Ha infatti precisato come la stessa abbia
espressamente puntualizzato che, per maturare il diritto al
buono-pasto, fosse, di norma, imprescindibile effettuare la
pausa-pranzo, specificando, altresì, che, in alcuni
eccezionali casi, il dipendente avrebbe anche potuto
rinunciare, con il consenso dell’ente, alla pausa-pranzo,
pur conservando il diritto al buono-pasto. Tale assenso,
però, avrebbe potuto essere concesso solo per motivate
esigenze di Servizio.
La circolare, ha soggiunto la sezione, non ha neppure
previsto un diritto del dipendente a rinunciare alla pausa,
pur percependo il buono-pasto, ma ha semplicemente chiarito
che una simile ipotesi, del tutto eccezionale, si sarebbe
potuta verificare quando, per esigenze di Servizio,
l’attività lavorativa avrebbe dovuto essere prestata senza
interruzioni o attraverso turnazioni di almeno otto ore
continuative senza pausa (ai sensi dell’articolo 22 della
legge n. 724/1994).
Attraverso un diverso approccio alla tematica e aderendo,
implicitamente, alla tesi della eccezionalità della mancata
effettuazione della pausa-pranzo, gli appellanti hanno
affermato la “sussistenza dei presupposti per la concessione
‘in deroga’ del buono-pasto anche senza pausa-pranzo”, o che
si sarebbero verificate le condizioni per poter desumere,
dalle condotte poste in essere, una “rinunzia alla pausa,
accettata dalla amministrazione”. In particolare, hanno
insistito sul fatto che la presenza di determinate
circostanze (la situazione organizzativa degli uffici,
caratterizzata da carenze di organico; il fatto che rinuncia
e accettazione dovevano essere considerate implicite nella
richiesta di buoni-pasto (elenchi dei beneficiari) inoltrata
dai vari Servizi e nella liquidazione del beneficio; il
mancato recupero dei buoni-pasto, da intendersi come
approvazione dell’operato degli Uffici) avrebbe indotto i
funzionari a supporre la legittimità del loro operato.
Il Collegio ha dissentito da tale prospettazione, ribadendo
che la pausa-pranzo non può essere elusa, e che un’eventuale
rinuncia può essere consentita solo sulla base di esigenze
di Servizio concretamente accertate.
Nessuna rilevanza, poi, è stata attribuita al verbale di
riunione sindacale (svoltasi in un Servizio) che avrebbe
consentito di erogare i buoni pasto, aggiungendo i 30 minuti
di pausa al termine dell’orario giornaliero, per di più
senza effettiva prestazione di lavoro: sia perché il verbale
costituiva una mera manifestazione di intenti purché un vero
e proprio accordo, sia perché, comunque, una simile
contrattazione decentrata sarebbe stata affetta da
illegittimità per contrasto con il superiore livello
(nazionale) di contrattazione.
Modello organizzativo e responsabilità
I ricorrenti, che rivestivano nell’ambito
dell’organizzazione amministrativa ruoli diversi, in parte
gerarchicamente ordinati ed in parte sovrapponibili tra
loro, come spesso accade, hanno sostenuto le tesi più
diversificate al fine di provare l’assenza di responsabilità
personale ma, al contempo, la colpevolezza dei colleghi, sia
che questi fossero superiori gerarchici che dipendenti
subordinati.
In tale armonico scenario, nell’ambito del quale piovevano
accuse incrociate, infine, il dirigente del Centro ha
asserito che, a prescindere dalla generica sovraordinazione
del Centro rispetto agli uffici coinvolti nel giudizio, “i
Direttori delle varie strutture operavano in piena
autonomia”.
Il Collegio di secondo grado ha evidenziato la
sovraordinazione gerarchica del dirigente del Centro
rispetto ai direttori dei vari servizi nei quali il Centro
si articolava e ribadito che la gestione delle somme di
denaro relative ai buoni era affidata ai Centri di giustizia
minorile in qualità di funzionari delegati. “Tali richieste
di elenchi implicavano inequivocabilmente una delega
all’accertamento delle condizioni per l’attribuzione dei
buoni”. Sarebbe bastato, in buona sostanza, applicare
criteri logici e di buon senso.
Conclusioni
Il tenore delle argomentazioni del Collegio non poteva che
portare alla conclusione della “mancanza di violazioni
gravemente colpevoli dei doveri di ufficio da parte degli
uffici ministeriali, che si limitavano ad accreditare somme,
ma non avevano competenza nella verifica della sussistenza
dei requisiti per la concessione dei buoni-pasto
(diversamente dal Centro e dagli uffici sottordinati) e non
risulta fossero a precisa conoscenza degli orari di lavoro
rispettati da ogni dipendente in Servizio in sede
periferica”.
Relativamente al vice-dirigente, la sezione ha deliberato
che “non può affermarsi che egli non avesse alcun compito in
materia e si limitasse a dare attuazione alle direttive
dell’altro appellante, dovendosi invece ritenere che la
violazione dei doveri di ufficio nella verifica della debenza dei buoni e quindi la causazione del danno sia
imputabile in primo luogo al F. (il vice direttore del
centro, che gestiva le pratiche dei buoni pasto solo con
delega di firma), che istruiva le pratiche e firmava (sia
pure per delega) gli atti di spesa, assumendosene la
responsabilità ”.
Per quanto riguarda il dirigente del Centro, infine,
partendo dalla constatazione che era titolare di poteri di
indirizzo e direttiva, la sua responsabilità è stata
accertata poiché “non prese alcuna concreta iniziativa
correttiva dell’operato del suo vice (ordini o direttive,
revoca della delega di firma o simili), benché fosse a
perfetta conoscenza delle modalità di concessione dei
buoni-pasto senza pausa-pranzo” (se non altro, e con
sintetica valutazione, poiché egli stesso beneficiava dei
buoni-pasto senza effettuare pausa).
In merito all’elemento soggettivo della responsabilità, il
giudice regionale aveva condannato gli appellanti
considerando il loro comportamento come frutto di dolo; i
funzionari statali avevano negato che un tale atteggiamento
psicologico avesse caratterizzato la loro condotta,
affermando di aver operato, in perfetta buona fede, entro un
quadro normativo incerto e pieno di sfumature grigie.
La sezione d’appello ha invece ribadito che il quadro
normativo era perfettamente comprensibile, statuendo che “la
chiarezza della normativa sui buoni-pasto emerge anche dal
fatto che solo presso il Centro in oggetto si instaurò la
prassi di conferire tale beneficio senza che si effettuasse
la pausa-pranzo, tanto è vero che al singolo Centro venne
attribuita quasi la metà dell’importo per i buoni-pasto
complessivamente speso per tutti i Centri di giustizia
minorile italiani (…); senza considerare che presso altri
uffici della stessa amministrazione si dava corretta
applicazione alle norme in esame, imponendo la pausa-pranzo
come presupposto del beneficio in questione”.
Non sembra improprio, in conclusione, affermare che i buoni
pasto, per una volta, discostandosi dalla loro naturale
funzione, sono risultati altamente indigesti (commento
tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com -
Corte dei Conti, Sez. II centrale di appello,
sentenza 05.09.2014 n. 534). |
ARAN |
PUBBLICO
IMPIEGO:
FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ E’
obbligatorio fruire di almeno due settimane di ferie durante
l’anno di maturazione? I residui giorni possono essere
fruiti entro i diciotto messi successivi all’anno di
maturazione?
Relativamente a tali problematiche, si ritiene utile
precisare quanto segue:
a) le previsioni dell’art. 10, comma 1, del D.Lgs. n.
66/2003, espressamente, impongono, come obbligatoria, la
fruizione da parte del lavoratore, entro l'anno di
maturazione, di almeno due settimane di ferie, che, in
presenza di una richiesta in tal senso del lavoratore
stesso, devono essere continuative;
b) i termini per la fruizione delle ferie continuano ad
essere quelli indicati nell'art. 18 del CCNL del 06.07.1995,
sia per l'eventuale differimento per esigenze personali
(entro il 30 aprile dell’anno successivo a quello di
maturazione) sia per il differimento per esigenze di
servizio (30 giugno dell’anno successivo a quello di
maturazione), e la loro violazione si può tradurre solo in
una forma di inadempimento contrattuale, anche suscettibile
di dar luogo a contenzioso giudiziario.
Il diverso termine dei 18 mesi successivi all’anno di
maturazione, previsto dal D.Lgs. n. 66/2003, per la
fruizione delle ferie eccedenti le due settimane, che
obbligatoriamente devono essere fruite nell’anno di
maturazione deve intendersi utile ai soli fini della
possibile applicazione delle sanzioni amministrative, di cui
all’art. 18-bis del medesimo D.Lgs. n. 66/2003.
Il dipendente, quindi, non può chiedere di spostare la
fruizione fino al 18° mese successivo a quello di
maturazione; né tale spostamento può essere autonomamente
operato dal datore di lavoro (parere
14.10.2014 n. RAL-1722 - link a
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PUBBLICO
IMPIEGO:
FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/
Nell’ambito di un servizio associato di polizia municipale
relativo a tre comuni, l’unico dipendente di polizia
municipale, titolare di posizione organizzativa, ha diritto
in occasione della festività del santo patrono ad usufruire
della giornata di recupero su ogni singolo comune visto che
i dipendenti degli altri uffici nell’occasione della
festività usufruiscono della giornata non lavorativa in
quanto “festiva”?
In ordine a tale problematica, si ritiene utile precisare
quanto segue:
1. in base alla disciplina contrattuale (art. 18, comma 6,
del CCNL del 06.07.1995) si considera giorno festivo solo
quello coincidente con la ricorrenza del Santo Patrono della
località in cui il dipendente presta effettivamente
servizio, purché si tratti di un giorno lavorativo;
2. conseguentemente, ad avviso della scrivente Agenzia, tale
festività nell’anno ordinariamente non può che essere unica,
anche nella particolare ipotesi prospettata, stante comunque
l’unicità ed unitarietà del rapporto di lavoro del
dipendente (con l’ente di appartenenza) anche in presenza di
un servizio associato;
3. già in altre occasioni, con riferimento ad ipotesi
similari, è stato evidenziato che se alcuni dipendenti, per
una particolare articolazione dell’orario di servizio, si
trovano a svolgere la loro attività lavorativa anche in una
sede di lavoro diversa da quella ordinaria dove ricade, in
giorno diverso, la festa del Santo Patrono, questa produce
necessariamente la chiusura degli uffici e rende,
conseguentemente, inutile la prestazione di lavoro dei
suddetti dipendenti in quella sede;
4. per quella giornata, sembra ragionevole ipotizzare far
rientrare i dipendenti di cui si tratta nella sede ordinaria
(comune di appartenenza del dipendente o comune individuato
come sede dell’ufficio associato), per rendere la normale
prestazione lavorativa, poiché potranno usufruire della
giornata festiva del Santo Patrono quando questa si
verificherà nella suddetta sede, che per essi è comunque la
sede effettiva di lavoro;
5. analogamente il lavoratore renderà la propria prestazione
lavorativa anche presso l’altro ente diversa dalla sede
ordinaria e da quella presso la quale ricade il Santo
Patrono;
6. è evidente, peraltro, che l’amministrazione deve adottare
i preventivi atti organizzativi in ordine alle modalità di
utilizzazione;
7. con specifico riferimento alla fattispecie in esame,
pertanto, al fine di evitare la duplicazione o la
triplicazione del beneficio (non considerata dal CCNL e
possibile fonte di costi aggiuntivi), potrebbe acquistare un
rilievo particolare l’adozione di una regolamentazione in
tal senso nella convenzione di utilizzo parziale del
personale, che è alla base del servizio associato (parere
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PUBBLICO
IMPIEGO:
FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Un
dipendente assente per malattia, alla fine del predetto
periodo, deve necessariamente rientrare in servizio o può,
senza che vi sia ripresa dell’attività lavorativa, fruire
immediatamente delle ferie subito dopo il termine del
periodo di malattia?
In relazione a
tale problematica, si rileva che nessuna disposizione,
legale o contrattuale, vieta in assoluto la fruizione delle
ferie da parte del dipendente, dopo la fruizione di un
periodo di assenza per malattia dello stesso.
Tuttavia, si deve ricordare che, in base all’art. 2109 del
codice civile e all’art. 18 del CCNL del 06.07.1995, la
fruizione delle ferie deve essere sempre preventivamente
autorizzata dal competente dirigente, che deve valutare la
compatibilità delle stesse con le prioritarie esigenze di
servizio.
Pertanto, il dipendente dovrà sempre formulare in via
preventiva una specifica richiesta in tal senso al dirigente
e solo a seguito dell’intervenuta autorizzazione potrà
assentarsi dal servizio a titolo ferie (parere
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PUBBLICO
IMPIEGO:
FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Se dal
calcolo delle ferie maturate risulta un numero non intero,
come devono essere arrotondate le frazioni?
L’avviso dell’Agenzia è nel senso che, se dal calcolo delle
ferie maturate dal personale risultano, oltre a giornate
intere, anche delle frazioni, sia ragionevole, in assenza di
espresse previsioni al riguardo, procedere ad arrotondamenti
all’unità superiore in presenza di frazioni superiori a ½
(>0,5) (parere
14.10.2014 n. RAL-1710 - link a
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PUBBLICO
IMPIEGO:
FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ In
caso di assenza per malattia di un dipendente con rapporto
di lavoro a tempo pieno, con retribuzione prima al 90% e
successivamente al 50%, allo stesso devono essere
proporzionalmente ridotte anche le ferie relative ai
suddetti periodi?
Ai sensi dell’art. 18, comma 15, del CCNL del 06.07.1995 “il
periodo di ferie non è riducibile per assenze per malattia o
infortunio, anche se tali assenze si siano protratte per
l’intero anno solare” (parere
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PUBBLICO
IMPIEGO:
FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Si
chiede di sapere quanti sono i giorni di ferie spettanti
nelle seguenti ipotesi:
a) lavoratore a tempo parziale con un orario di 21 ore
settimanali, articolato su cinque giorni lavorativi
settimanali su sei;
b) lavoratore a tempo parziale con un orario di 27 ore
settimanali, articolato su cinque giorni lavorativi
settimanali su sei.
Relativamente a
tale particolare problematica, si ritiene utile precisare
quanto segue:
a) in entrambi i casi sottoposti, sembrano venire in
considerazione rapporti di lavoro a tempo parziale di tipo
misto. Infatti, ai fini della determinazione concreta dei
contenuti del rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo
misto, occorre tenere conto della definizione contenuta
nell’art. 1, comma 2, lett. d-bis, del D.Lgs. n. 61/2000,
introdotto dall'art. 1, comma 1, lettera a), del D.Lgs. n.
100/2001. In sostanza l’orario ridotto prescelto deve essere
distribuito in modo tale da realizzare sia le condizioni
tipiche del tempo parziale orizzontale (orario ridotto in
tutti i giorni della settimana) sia quelle proprie del tempo
parziale verticale (attività lavorativa concentrata a tempo
pieno in alcuni giorni della settimana, del mese o dell’anno
con conseguente assenza della prestazione lavorativa negli
altri giorni);
b) trattandosi di rapporti di lavoro a tempo parziale di
tipo misto, ai sensi dell’art. 6, comma 8, del CCNL del
14.09.2000, per le ferie (ma anche per tutte le altre
tipologie di assenza) trovano applicazione entrambe le forme
di riproporzionamento previste, sia quella per il tempo
parziale verticale che quella per il tipo orizzontale;
pertanto, ai fini della quantificazione dei giorni di ferie
spettanti, in considerazione dell’articolazione dell’orario
solo su 5 giorni (rispetto ai 6 previsti per il tempo
pieno), troverà applicazione la medesima regola prevista per
il tempo parziale verticale. Per ciò che attiene al
trattamento economico delle stesse, invece, troverà
applicazione il riproporzionamento previsto per il tempo
parziale orizzontale, nel senso che esso sarà commisurato
alla durata della prestazione giornaliera (che sarà diverso
nei casi considerati per effetto della diversa durata della
prestazione lavorativa prevista nell’uno e nell’altro caso);
c) come detto, il calcolo per la quantificazione delle ferie
è lo stesso previsto per il rapporto a tempo parziale di
tipo verticale: i lavoratori hanno diritto a un numero di
giorni di ferie proporzionati al numero di giornate
lavorative prestate nell'anno. Nei casi prospettati le ferie
sono pari ai 5/6 di quelle previste per i lavoratori a tempo
pieno in quanto la settimana lavorativa è articolata su 6
giorni. L'unica particolarità è che, come previsto dall'art.
6, comma 8, del CCNL del 14.09.2000, il trattamento
economico di ciascuna giornata di ferie è commisurato alla
effettiva durata della prestazione giornaliera nell’uno e
nell’altro caso.
Pure in mancanza di una espressa indicazione in tal senso
nell’art. 6, comma 8, del CCNL del 14.09.2000, si ritiene
ragionevole che, se il principio di proporzionalità trova
applicazione nel caso delle ferie, esso, nell’ambito di un
rapporto a tempo parziale verticale, non può non trovare
applicazione anche per le quattro giornate di riposo
dell’art. 18, comma 6, del CCNL del 06.07.1995.
Conseguentemente, esso troverà applicazione anche nel caso
del rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo misto (parere
28.10.2013 n. RAL-1579 - link a
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PUBBLICO
IMPIEGO:
FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Un
dipendente usufruisce nel 2012 di un giorno in più di ferie
rispetto a quelle spettanti; è possibile detrarre il giorno
dal quantitativo delle ferie spettanti per il 2013?
La soluzione proposta non può essere in alcun modo
condivisa. Infatti, essa si tradurrebbe nella sostanziale
ammissibilità della anticipazione in un anno delle ferie
relative all’anno successivo, che, nel lavoro pubblico come
in quello privato, non è mai stata possibile o lecita (parere
28.10.2013 n. RAL-1567 - link a
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PUBBLICO
IMPIEGO:
FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Un
dipendente precedentemente licenziata, a seguito di sentenza
del giudice del lavoro, è stata reintegrata in servizio, con
il riconoscimento delle retribuzioni dovute dalla data di
cessazione del rapporto a quella della reintegrazione.
Può essere accolta la richiesta della suddetta dipendente
volta ad ottenere il riconoscimento delle ferie per il
periodo di sospensione del rapporto di lavoro?
Durante il periodo di sospensione del rapporto di lavoro,
intercorrente tra il licenziamento e la reintegrazione in
servizio disposta dal giudice del lavoro, il dipendente non
matura ferie, per la mancanza del necessario presupposto
della prestazione lavorativa effettivamente resa (sul
necessario collegamento delle ferie al servizio
effettivamente prestato si veda (CdS, Sez. III n. 1127/1988;
Corte Cass. n. 6872 del 1988 e n. 504 del 1985;
sull’impossibilità di maturare le ferie in caso di assenza
non retribuita si veda Corte Cass. 1315 del 1985).
Infatti, anche la giurisprudenza tende a collegare il
diritto alla maturazione delle ferie al solo servizio
effettivamente prestato (parere
07.08.2012 n. RAL-1431 - link a
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PUBBLICO
IMPIEGO:
FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Se un
lavoratore (turnista o meno) è richiamato in servizio dalle
ferie nella giornata del sabato, non lavorativa, quale
disciplina contrattuale trova applicazione? E nel caso in
cui il richiamo in servizio avvenga, invece, nel giorno del
riposo settimanale?
Nel caso in cui il dipendente sia richiamato dalle ferie
nella giornata del sabato non lavorativa (come può avvenire
in presenza di una settimana lavorativa articolata su cinque
giorni), allo stesso andrà applicata (secondo le regole
generali valevoli per tutti i lavoratori che si trovano
nella medesima condizione, a prescindere dal richiamo dalle
ferie) la disciplina dell’art. 24, comma 3, del CCNL del
14.09.2000: a richiesta del dipendente, per le ore di lavoro
effettivamente prestate, allo stesso è riconosciuto o un
riposo compensativo di durata equivalente oppure alla
corresponsione del compenso per lavoro straordinario non
festivo.
Nella diversa ipotesi del richiamo nel giorno del riposo
settimanale, al lavoratore andrà applicata, invece, la
disciplina dell’art. 24, comma 1, del CCNL del 14.09.2000.
Secondo la norma richiamata, per la prestazione resa, il
lavoratore ha diritto al pagamento di un compenso aggiuntivo
pari ad una maggiorazione del 50% della retribuzione oraria
di cui all'art. 52, comma 2, lett. b), del CCNL del
14.09.2000, come sostituito dall’art. 10 del CCNL del
09.05.2006, commisurato alle ore di lavoro effettivamente
prestate (pertanto, ad esempio, fatto 100 il valore della
retribuzione oraria di cui all’art. 52, comma 2, lett. b,
l’importo del compenso dovuto al lavoratore sarà pari a 50
-e non a 150 come pure ipotizzato sulla base di distorte
interpretazioni di carattere estensivo- per ogni ora di
lavoro prestato) e, accanto alla remunerazione, anche un
riposo compensativo di durata esattamente corrispondente a
quella della prestazione lavorativa (parere
07.08.2012 n. RAL-1429 - link a
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PUBBLICO
IMPIEGO:
FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ In
materia di sospensione della fruizione delle ferie per
motivi di servizio si chiede: presso un ente, una giornata
lavorativa della settimana si svolge dalle ore 8,00 alle ore
14,00. Se un dipendente (turnista o meno) è richiamato in
servizio dalle ferie in questa giornata e lavora solo dalle
10, alle 14,00, come deve essere valutata questa
prestazione, anche sotto il profilo del trattamento
economico?
In mancanza di una diversa e specifica disciplina
nell’ambito delle previsioni dell’art. 18, comma 11, del
CCNL del 06.07.1995, si ritiene che il dipendente richiamato
dalle ferie per motivi di servizio sia tenuto a rendere
l’ordinaria prestazione di lavoro, anche sotto il profilo
della durata.
Pertanto, rispetto a questa fattispecie, non assume alcun
rilievo l’ora specifica in cui si sia presentato in
servizio. Infatti, la giornata del rientro in servizio è
tornata ad essere una ordinaria giornata lavorativa (la
stessa sarà fruita dal dipendente nel prosieguo del tempo).
Se, quindi, il richiamo avviene in una giornata in cui
l’orario di lavoro ha una durata di sei ore e la prestazione
effettiva del dipendente si svolge per quattro ore, questi
avrà comunque un debito orario di due ore (che potrà
recuperare successivamente).
Analogo discorso vale nel caso di un eventuale rientro nelle
sole ore pomeridiane.
Non si pone, quindi, un problema di particolare trattamento
economico da riconoscere al dipendente, in quanto venendo in
considerazione una ordinaria giornata lavorative essa viene
remunerata nell’ambito dello stipendio mensile (parere
07.08.2012 n. RAL-1428 - link a
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PUBBLICO
IMPIEGO:
FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Una
dipendente assunta a tempo determinato,è stata assente dal
lavoro, prima a titolo di congedo di maternità e poi di
congedo parentale, per l’intera durata del contratto di
lavoro.
La suddetta dipendente ha diritto al pagamento delle ferie
non godute?
In materia di “monetizzazione” delle ferie, la regola
generale, sancita dall’art. 18 del CCNL del 06.07.1995, è
che essa può aver luogo solo all’atto della cessazione del
rapporto di lavoro ed esclusivamente con riferimento a
quelle non godute dal dipendente per rilevanti ed
indifferibili ragioni di servizio, risultanti da atto
formale avente date certa (comprovante la richiesta del
dipendente di fruizione delle ferie e l’impossibilità di
assegnazione delle stesse da parte del datore di lavoro per
le ragioni di servizio di cui si è detto).
Questa Agenzia ha già chiarito che la monetizzazione delle
ferie, all’atto della risoluzione del rapporto di lavoro,
deve ritenersi consentita, oltre che nei casi espressamente
indicati nel CCNL, anche in ogni caso in cui la mancata
fruizione delle stesse sia determinata da eventi oggettivi
di carattere impeditivo non imputabili al dipendente, nel
senso cioè che si tratti di eventi tali da non essere in
alcun modo riconducibili ad una precisa volontà in tal senso
del dipendente.
Si fa l’ipotesi, ad esempio, della malattia del dipendente
che, per il suo protrarsi nel tempo fino alla data di
collocamento a riposo, non abbia lasciato alcuna possibilità
di fruizione delle ferie da parte del dipendente stesso.
Alla stessa fattispecie si può ricondurre anche la
particolare fattispecie esposta, in quanto il godimento dei
periodi di congedo di maternità e di congedo parentale,
previsti dalla legge a favore della lavoratrice, hanno
impedito la fruizione dei giorni di ferie a questa spettanti
in base alla durata del contratto a termine.
In proposito, si ritiene che la monetizzazione possa avere
luogo solo con riferimento ai giorni di ferie maturati
nell’ambito del periodo di congedo di maternità (cinque mesi
complessivi + l’eventuale periodo di astensione obbligatoria
anticipata fruita dal dipendente dato che, per legge è
equiparato al congedo di maternità) nonché nel periodo di 30
giorni di congedo parentale che, come espressamente previsto
dall’art. 17, comma 5, del CCNL del 14.09.2000, è retribuito
per intero e non riduce le ferie.
Per gli ulteriori periodi di assenza per congedo parentale
fruiti dalla lavoratrice, al di là dei trenta giorni
complessivi presi in considerazione dalla disciplina
contrattuale, trova applicazione l’art. 34 del D.Lgs. n.
151/2001, secondo il quale:
a) “Per i periodi di congedo parentale di cui
all'articolo 32 alle lavoratrici e ai lavoratori è dovuta
fino al terzo anno di vita del bambino, un'indennità pari al
30 per cento della retribuzione, per un periodo massimo
complessivo tra i genitori di sei mesi.” (comma 1);
b) “I periodi di congedo parentale sono computati
nell'anzianità' di servizio, esclusi gli effetti relativi
alle ferie …”. ( comma 5). Proprio tale ultima
previsione consente di escludere che i periodi di congedo
parentale di cui si tratta possano essere computati ai fini
della maturazione delle ferie (parere
07.08.2012 n. RAL-1425 - link a
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PUBBLICO
IMPIEGO:
FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Presso
un ente il personale dirigente e non dirigente non ha fruito
delle ferie maturate nei termini previsti dai contratti. Si
è così determinata una situazione di accumulo negli anni di
“ferie storiche”.
Come comportarsi?
E’ corretto disporre un piano di smaltimento e, qualora non
svolto, è possibile eliminare le ferie?
In quali responsabilità incorrono i dirigenti?
Per quanto di competenza, si ritiene utile fornire le
seguenti indicazioni di carattere generale relative alle
modalità applicative delle vigenti regole contrattuali in
materia di fruizione e di eventuale monetizzazione delle
ferie.
Come già evidenziato in diversi orientamenti applicativi già
formulati in materia dall’ARAN, le situazioni di accumulo
nel tempo di diversi giorni di ferie non godute con
conseguente richiesta di monetizzazione all’atto della
cessazione del rapporto di lavoro, devono considerarsi
aspetti patologici della disciplina dell’istituto. Infatti,
occorre ricordare che nella vigente regolamentazione, fermo
restando la necessità di assicurare la fruizione del diritto
da parte del dipendente, l’ente, in base, alle previsioni
dell’art. 18 del CCNL del 06.07.1995, è chiamato a governare
responsabilmente l’istituto attraverso la programmazione
delle ferie. Tale aspetto assume particolare rilevo anche
nei casi in cui il dipendente non abbia fruito delle ferie
nell’anno di maturazione per ragioni di servizio. Infatti,
l’istituto non dipende, nelle sue applicazioni,
esclusivamente dalla volontà del dipendente. L'art. 2109
c.c. espressamente stabilisce che le ferie sono assegnate
dal datore di lavoro, tenuto conto delle esigenze
dell'impresa e degli interessi del lavoratore.
L'applicazione di tale disciplina, pertanto, nel caso di
inerzia del lavoratore o di mancata predisposizione del
piano ferie annuale, consente all'ente anche la possibilità
di assegnazione di ufficio delle ferie. L’art. 2109 c.c.
espressamente stabilisce che le ferie sono assegnate dal
datore di lavoro, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e
degli interessi del lavoratore. L’applicazione di tale
disciplina, pertanto, nel caso di inerzia del lavoratore o
di mancata predisposizione del piano ferie annuale, consente
all’ente anche la possibilità di assegnazione di ufficio
delle ferie. Si veda, su tale materia, anche l’art. 10,
comma 2, del D.Lgs. n. 66/2003.
Relativamente alle modalità temporali di fruizione delle
ferie annuali, la disciplina del D.Lgs. n. 213/2004 si
applica a tutti i datori di lavoro pubblici e privati
dall'01.09.2004, facendo salva la eventuale disciplina
contrattuale vigente in materia di ferie.
Conseguentemente la disciplina dei CCNL in materia di ferie
è sempre valida ed efficace, deve essere quindi rispettata
come vincolo negoziale. I termini di fruizione delle ferie
previsti dall’art.18 del CCNL del 06.07.1995 devono, quindi,
ritenersi prevalenti rispetto a quelli previsti dal D.Lgs.
n. 66/2003, nel testo modificato dal D.Lgs. n. 213/2004, per
la esplicita salvaguardia disciplina contrattuale contenuta
nel citati decreti; indicazioni in tal senso si ricavano dai
contenuti della circolare n. 8/2005 del Ministero del Lavoro
e delle Politiche Sociali.
Pertanto, i termini per la fruizione delle ferie continuano
ad essere quelli indicati nell'art. 18 del CCNL del
06.07.1995, sia per l'eventuale differimento per esigenze
personali (entro il 30 aprile dell’anno successivo a quello
di maturazione) sia per il differimento per esigenze di
servizio (30 giugno dell’anno successivo a quello di
maturazione), e la loro violazione si può tradurre solo in
una forma di inadempimento contrattuale,anche suscettibile
di dar luogo a contenzioso giudiziario. In tal senso, si è
espressamente pronunciato il Ministero del Lavoro e delle
Politiche Sociali con la circolare n.8 del 2005. Il diverso
termine dei 18 mesi successivi all’anno di maturazione,
previsto dal D.Lgs. n. 66/2003, per la fruizione delle ferie
eccedenti le due settimane che obbligatoriamente devono
essere fruite nell’anno di maturazione, come confermato dal
Ministero del Lavoro nella medesima circolare n.8 del 2005,
deve intendersi utile ai soli fini della possibile
applicazione delle sanzioni amministrative, di cui all’art.
18-bis del medesimo D.lgs. n. 66/2003. Il dipendente,
quindi, non può chiedere di spostare la fruizione fino al
18° mese successivo a quello di maturazione; né tale
spostamento può essere autonomamente operato dal datore di
lavoro.
La disciplina legale (D.Lgs. n. 213/2004) ha valore, invece,
per quanto riguarda gli aspetti sanzionatori collegati ai
seguenti inadempimenti:
a) mancata concessione di due settimane di ferie nel primo
anno di maturazione, l'iniziativa compete sempre al
dirigente, non occorre necessariamente la domanda del
lavoratore (art. 2119 del codice civile);
b) mancata concessione di altre due settimane di ferie entro
i 18 mesi successivi all'anno di maturazione.
In materia di fruizione di ferie, si richiamano i seguenti
principi già espressi nei vari orientamenti applicativi
rilasciati da parte dell’Agenzia:
a) le ferie sono un diritto irrinunciabile;
b) le ferie non fruite nel periodo previsto dal CCNL,
possono sempre essere fruite anche in periodi successivi;
infatti, la data del 30 giugno dell’anno successivo a quello
di maturazione è solo il termine massimo entro il quale il
datore di lavoro ha la possibilità di richiedere il
differimento delle ferie precedentemente maturate dal
dipendente e non fruite fino a tale momento per esigenze di
servizio;
c) la monetizzazione delle ferie è consentita solo al
momento della cessazione del rapporto di lavoro;
d) il divieto di monetizzazione è anche contenuto nel D.Lgs.
n.66/2003.
Per il caso della mancata fruizione delle ferie per ragioni
di servizio entro il primo semestre o nel caso di mancata
fruizione derivi dalla mancata richiesta del dipendente dopo
tale termine, si richiamano i contenuti dello specifico
orientamento applicativo RAL 498, secondo il quale:
◦ in queste ipotesi, patologiche e che dovrebbero essere
perciò anche di eccezionale verificazione, esclusa sia la
monetizzazione delle ferie sia la perdita delle stesse, dato
che si tratta di un diritto irrinunciabile, il dipendente
può fruirne anche al di là dei termini fissati ma è
l’amministrazione, eventualmente, a fissare i periodi di
fruizione, in applicazione dell’art. 2109 del c.c., anche in
mancanza di richieste del dipendente (le ferie sono
assegnate dal datore di lavoro tenuto conto delle esigenze
dell’impresa e degli interessi del lavoratore);
◦ normalmente, infatti, l’amministrazione garantisce la
continuità dei servizi ed assicura il godimento delle ferie
ai propri dipendenti, nel rispetto anche delle scadenze
previste dal contratto, avvalendosi del citato art.2109 del
c.c. attraverso la predisposizione di appositi e completi
piani ferie e in caso di inerzia dei lavoratori o di mancata
predisposizione dei piani stessi anche attraverso
l’assegnazione d’ufficio delle ferie;
◦ in caso di disfunzioni organizzative determinatesi a
seguito della cattiva gestione dei poteri datoriali, tra cui
rientrano sicuramente quelli di amministrazione del
personale, e tradottesi in un danno, anche funzionale, per
l’amministrazione, il dirigente potrebbe essere chiamato a
risponderne alla luce di quella responsabilità dirigenziale
più volte richiamata dal D.Lgs. n. 165/2001.
Alla luce della suesposta ricostruzione delle vigenti regole
legali e contrattuali in materia, si può affermare che esse
richiedano comunque l’attribuzione e, quindi, la fruizione
delle ferie entro l’anno solare successivo a quello di
maturazione e comunque entro i termini fissati dal D.Lgs. n.
66/2003.
In materia di “monetizzazione” delle ferie, la regola
generale sancita dall’art. 18 del CCNL del 06.07.1995 è che
essa può aver luogo solo all’atto della cessazione del
rapporto di lavoro ed esclusivamente con riferimento a
quelle non godute dal dipendente per rilevanti ed
indifferibili ragioni di servizio, risultanti da atto
formale avente data certa (comprovante la richiesta del
dipendente di fruizione delle ferie e l’impossibilità di
assegnazione delle stesse da parte del datore di lavoro per
le ragioni di servizio di cui si è detto).
Relativamente al precedente punto, si può affermare che
qualunque atto formale, di data certa, dell’ente comprovante
la richiesta del dipendente di fruizione delle ferie e
l’impossibilità di assegnazione delle stesse da parte del
datore di lavoro per rilevanti e perciò indifferibili
esigenze di servizio è sufficiente ai fini dell’applicazione
della disciplina contrattuale (utili indicazioni si possono
ritrovare nella sentenza del CDS, sez.V, n. 7989/2001). La
mancanza dei requisiti contrattuali non consente, pertanto,
la “monetizzazione” delle ferie. Per ulteriori
indicazioni, si rinvia ai contenuti degli orientamenti
applicativi RAL 484 e ss (in particolare agli orientamenti
RAL 486 e RAL 487 per l’ipotesi delle dimissioni del
dipendente).
In base all’art. 10 del CCNL del 05.10.2001, il compenso per
ferie non godute deve essere determinato con riferimento
all’anno di mancata fruizione delle stesse e, quindi, con
riferimento all’anno di maturazione dato che le ferie
dovrebbe essere godute dal dipendente nel corso dell’anno di
maturazione; nessuna regola contrattuale o legale prevede o
prescrive la rivalutazione, annuale, degli importi dei
compensi per ferie non godute.
Nel sistema complessivo delineato dal D.Lgs. n. 165/2001,
tutte le attività connesse all’amministrazione e gestione
del personale sono rimesse all’autonoma valutazione e
decisione degli Enti, con conseguente e piena assunzione di
responsabilità in materia. Inoltre, già nella vigenza
dell’originario testo del D.Lgs. n. 29/1993, ma a maggior
ragione dopo l'avvenuto completamento del processo di
privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico ad opera dei
DD.Lgs. n. 80/1998 e n. 387/1998, l'attività di gestione del
personale non costituisce più attività amministrativa e non
richiede quindi determine amministrative o altri
provvedimenti amministrativi. Essa, infatti, in base
all'art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001, rientra tra
quelle ricondotte alla esclusiva competenza del dirigente ("del
responsabile del servizio, in caso di enti privi di
dirigenza") che vi provvede con la capacità ed i poteri
del privato datore di lavoro e, quindi, con atti di diritto
privato. Nell’ambito di ciascun ente o amministrazione,
quindi, compete al responsabile della struttura
organizzativa presso la quale presta servizio il dipendente,
secondo il disegno organizzativo definito nel regolamento di
organizzazione dell’ente (art. 2 D.Lgs. n. 165/2001 – art.
89 D.Lgs. n. 267/2000), o alla diversa figura eventualmente
individuata nello stesso regolamento, il compito di
assicurare che le ferie rinviate per indifferibili esigenze
di servizio siano fruite nel primo semestre dell’anno
successivo, tenendo conto anche delle richieste del
dipendente (ma si ricordi che in materia è sempre
applicabile l’art. 2109, comma 2, del codice civile) oppure
anche oltre detto termine, ove le esigenze di servizio
abbiano impedito la fruizione delle ferie entro il termine
del 30 giugno dell’anno successivo a quello di maturazione.
Pertanto, in caso di disfunzioni organizzative determinatesi
a seguito della cattiva gestione dei poteri datoriali, tra
cui rientrano sicuramente quelli di amministrazione del
personale, anche con riferimento all’applicazione delle
regole in materia di ferie, tradottesi in un danno,
funzionale o anche patrimoniale per l’ente, il dirigente
potrebbe essere chiamato a risponderne alla luce di quella
responsabilità dirigenziale più volte richiamata dal D.Lgs.
n. 165/2001.
Analoghe considerazioni valgono anche per la dirigenza.
In relazione a tale categoria di personale, per completezza
informativa, si ritiene utile aggiungere anche che, secondo
la giurisprudenza (Cassazione civile, sez. lav., 27.08.1996,
n. 7883; Cassazione civile, sez. lav., 07.03.1996, n. 1793;
Cassazione civile, sez. lav., 06.11.1982, n. 5825; Corte
appello Milano, 29.11.2001; Pretura Como, 01.10.1985; Cass.
Sez. Lav. n. 11786/2005; Cons. Stato n. 560/2007), il
diritto al compenso sostitutivo delle ferie (monetizzazione)
non spetta quando il mancato godimento delle stesse sia
imputabile esclusivamente al dirigente, circostanza che
ricorre tutte le volte in cui il dirigente abbia il potere
di attribuirsi le ferie senza alcuna ingerenza del datore di
lavoro, salvo che non sia dimostrata la ricorrenza di
eccezionali ed obiettive necessità aziendali ostative alla
fruizione delle stesse (parere
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IMPIEGO:
FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Il
termine massimo di fruizione delle ferie è quello previsto
dall’art. 10 del D.Lgs. n. 66/2003 (18 mesi successivi allo
scadere dell’anno di maturazione delle ferie) o quello
dell’art. 18 del CCNL del 06.07.1995 (il 30 giugno dell’anno
successivo a quello di maturazione delle ferie)?
La disciplina del D.Lgs. n. 213/2004 si applica a tutti i
datori di lavoro pubblici e privati dall'01.09.2004, facendo
comunque salva la eventuale disciplina contrattuale vigente
in materia di ferie.
Conseguentemente la disciplina dei CCNL in materia di ferie
è sempre valida ed efficace e deve essere, quindi,
rispettata come vincolo negoziale.
I termini di fruizione delle ferie previsti dall’art.18 del
CCNL del 06.07.1995 devono, quindi, ritenersi prevalenti
rispetto a quelli previsti dal D.Lgs. n. 66/2003, nel testo
modificato dal D.Lgs. n. 213/2004, per la esplicita
salvaguardia disciplina contrattuale contenuta nel citati
decreti (indicazioni in tal senso si ricavano dai contenuti
della circolare n. 8/2005 del Ministero del Lavoro e delle
Politiche Sociali, in particolare ai punti 16 e 17).
I termini, quindi, per la fruizione delle ferie continuano
ad essere quelli indicati nell'art. 18 del CCNL del
06.07.1995, sia per l'eventuale differimento per esigenze
personali sia per il differimento per esigenze di servizio,
e la loro violazione si può tradurre solo in una forma di
inadempimento contrattuale, anche suscettibile di dar luogo
a contenzioso giudiziario (Ministero del Lavoro, circolare
n. 8 del 2005).
Il diverso termine dei 18 mesi successivi all’anno di
maturazione, previsto dal D.Lgs. n. 66/2003, per la
fruizione delle ferie eccedenti le due settimane che
obbligatoriamente devono essere fruite nell’anno di
maturazione, come confermato dal Ministero del Lavoro nella
medesima circolare n. 8 del 2005, deve intendersi utile ai
soli fini della possibile applicazione delle sanzioni
amministrative, di cui all’art. 18-bis del medesimo D.Lgs.
n. 66/2003.
Il dipendente, quindi, non può chiedere di spostare la
fruizione fino al 18° mese successivo a quello di
maturazione; né tale spostamento può essere operato dal
datore di lavoro.
La disciplina legale (D.Lgs. n. 213/2004) ha valore, invece,
per quanto riguarda gli aspetti sanzionatori collegati ai
seguenti inadempimenti:
a) mancata concessione di due settimane di ferie nel primo
anno di maturazione, l'iniziativa compete sempre al
dirigente, non occorre necessariamente la domanda del
lavoratore (art. 2119 del codice civile);
b) mancata concessione di altre due settimane di ferie entro
i 18 mesi successivi all'anno di maturazione (parere
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IMPIEGO:
FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Ad un
dipendente è stata applicata la sospensione cautelare
facoltativa dal servizio in corso di procedimento penale, ai
sensi dell’art. 5, comma 2, del CCNL dell’11.04.2008.
Poiché al momento della sospensione il suddetto dipendente
aveva maturato e non goduto un discreto numero giorni di
ferie, lo stesso può fruirne a seguito della riammissione in
servizio, anche in assenza all’epoca di istanze di rinvio?
L’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che al
lavoratore, a seguito della riammissione in servizio, debba
essere riconosciuta la possibilità di fruire del residuo di
ferie maturate e non godute nella fase del rapporto di
lavoro antecedente alla applicazione della misura cautelare
della sospensione dal servizio.
Infatti, anche se il dipendente all’epoca non ha presentato
domanda di fruizione di quelle ferie, non può trascurarsi la
rilevanza del “factum principis” rappresentato
dall’adozione da parte del datore di lavoro di un
provvedimento di sospensione, successivamente venuto meno,
che comunque, oggettivamente, ha impedito il godimento delle
ferie maturate.
In proposito, si ritiene utile richiamare i seguenti
principi già espressi nei vari orientamenti applicativi
pubblicati sul sito istituzionale www.aranagenzia.it:
1 le ferie sono un diritto irrinunciabile;
2 le ferie non fruite nel periodo previsto dal CCNL, possono
sempre essere fruite anche in periodi successivi;
3 la monetizzazione delle ferie è consentita solo al momento
della cessazione del rapporto di lavoro;
4 il divieto di monetizzazione è contenuto anche nel D.Lgs.
n. 66/2003.
Nell’ipotesi considerata, quindi, potrebbe trovare
applicazione, in via analogica, la previsione dell’art. 18,
comma 15, del CCNL del 06.07.1995 che, per i casi di
malattia protrattasi per lungo tempo, prevede che la
fruizione delle ferie maturate e non godute sia
preventivamente autorizzata dal dirigente, in relazione alle
esigenze di servizio, anche al di là dei termini
ordinariamente previsti a tal fine (30 aprile e 30 giugno
dell’anno successivo a quello di maturazione).
Si ricorda che, durante il periodo di sospensione cautelare,
il dipendente non matura ferie, per la mancanza del
necessario presupposto della prestazione lavorativa
effettivamente reso (sul necessario collegamento delle ferie
al servizio effettivamente prestato si veda Corte Cass. n.
6872 del 1988 e n. 504 del 1985 – sull’impossibilità di
maturare le ferie in caso di assenza non retribuita si veda
Corte Cass. 1315 del 1985).
Per il futuro, si consiglia, comunque, maggiore attenzione
anche al problema del consistente accumulo di ferie non
godute nel corso degli anni, che emerge chiaramente anche
nella fattispecie prospettata con riferimento al periodo
antecedente alla sospensione.
Come già evidenziato in altri orientamenti applicativi, con
riferimento all’istituto delle ferie, le situazioni di
accumulo di ferie non godute dai lavoratori devono
considerarsi aspetti patologici della disciplina
dell’istituto.
Infatti, occorre ricordare che nella vigente
regolamentazione, fermo restando la necessità di assicurare
la fruizione del diritto da parte del dipendente, l’ente, in
base, alle previsioni dell’art. 18 del CCNL del 06.07.1995,
è chiamato a governare responsabilmente l’istituto
attraverso la programmazione delle ferie.
Tale aspetto assume particolare rilevo anche nei casi in cui
il dipendente non abbia fruito delle ferie nell’anno di
maturazione per ragioni di servizio.
Infatti, l’istituto non dipende, nelle sue applicazioni,
esclusivamente dalla volontà del dipendente. L'art. 2109
c.c. espressamente stabilisce che le ferie sono assegnate
dal datore di lavoro, tenuto conto delle esigenze
dell'impresa e degli interessi del lavoratore.
L'applicazione di tale disciplina, pertanto, nel caso di
inerzia del lavoratore o di mancata predisposizione del
piano ferie annuale, consente all'ente anche la possibilità
di assegnazione di ufficio delle ferie. L’art.2109 c.c.,
infatti, espressamente stabilisce che le ferie sono
assegnate dal datore di lavoro, tenuto conto delle esigenze
dell’impresa e degli interessi del lavoratore.
Su tale materia, si suggerisce di prendere visione delle
previsioni contenute nell’art. 10, comma 2, del D.Lgs. n.
66/2003 (parere
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IMPIEGO:
FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ In una
Unione di Comuni alcuni dipendenti prestano servizio presso
due enti.
Possono essere riconosciuti due giorni festivi qualora, nel
medesimo anno, la ricorrenza del Santo Patrono dovesse
coincidere con i giorni in cui il dipendente deve prestare
servizio nei due enti (ad esempio, il 10 agosto nell’ente A
ed il 7 ottobre nell’ente B)?
In materia, si evidenzia quanto segue:
1 .in base alla disciplina contrattuale (art. 18, comma 6,
del CCNL del 06.07.1995) si considera giorno festivo solo
quello coincidente con la ricorrenza del Santo Patrono della
località in cui il dipendente presta effettivamente
servizio, purché si tratti di un giorno lavorativo;
2 .conseguentemente, ad avviso della scrivente Agenzia, tale
festività nell’anno ordinariamente non può che essere unica,
anche nella particolare ipotesi prospettata, stante comunque
l’unicità ed unitarietà del rapporto di lavoro, come
evidenziato dalle stesse previsioni dell’art. 14, commi 1 e
2, del CCNL del 22.01.2004;
3. già in altre occasioni, con riferimento ad ipotesi
similari, è stato evidenziato che se alcuni dipendenti, per
una particolare articolazione dell’orario di servizio, si
trovano a svolgere la loro attività lavorativa anche in una
sede di lavoro diversa da quella ordinaria dove ricade, in
giorno diverso, la festa del Santo Patrono, questa produce
necessariamente la chiusura degli uffici e rende,
conseguentemente, inutile la prestazione di lavoro dei
suddetti dipendenti in quella sede;
4. per quella giornata, sembra ragionevole ipotizzare far
rientrare i dipendenti di cui si tratta nella sede
ordinaria, per rendere la normale prestazione lavorativa,
poiché potranno usufruire della giornata festiva del Santo
Patrono quando questa si verificherà nella suddetta sede,
che per essi è comunque la sede effettiva di lavoro;
5. è evidente, peraltro, che l’amministrazione deve adottare
i preventivi atti organizzativi in ordine alle modalità di
utilizzazione;
6. con specifico riferimento alla fattispecie in esame,
pertanto, al fine di evitare la duplicazione del beneficio
(non considerata dal CCNL e fonte di costi aggiuntivi),
acquista un rilievo particolare l’adozione di una
regolamentazione in tal senso nella convenzione di utilizzo
parziale del personale, stipulata ai sensi del citato art.
14, comma 1, del CCNL del 22.01.2004 (parere
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IMPIEGO:
FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ I
lavoratori assunti con contratto di lavoro a termine possono
fruire delle ferie maturate e non godute nell’ambito di un
precedente rapporto a termine con lo stesso ente oppure
queste ferie devono essere monetizzate?
All’atto della scadenza di un contratto di lavoro a tempo
determinato, con l’estinzione del rapporto di lavoro, come
noto, vengono meno tutte quelle situazioni soggettive che in
quel rapporto trovavano il proprio fondamento (ferie,
malattia, aspettative, ecc.).
Non si ritiene, pertanto che, nel caso in cui con il
medesimo dipendente venga stipulato un nuovo contratto di
lavoro a termine, lo stesso possa fruire delle ferie
maturate nel precedente rapporto a termine nell’ambito del
nuovo rapporto di lavoro. Tale esclusione trova applicazione
anche nel caso in cui il nuovo contratto a termine segua
senza soluzione di continuità quello precedente venuto a
scadenza.
Come evidenziato nell’orientamento RAL 511, anche il
dipendente assunto a termine, alla scadenza di tale
tipologia di rapporto di lavoro, ha diritto alla
monetizzazione delle ferie maturate e non fruite, alle
stesse condizioni e negli stessi limiti stabiliti per il
personale a tempo indeterminato; tale orientamento non può
non trovare applicazione anche nel caso prospettato.
In materia di “monetizzazione” delle ferie, si deve
ricordare che, in generale, sulla base dell’art. 18 del CCNL
del 06.07.1995 , essa può aver luogo solo all’atto della
cessazione del rapporto di lavoro ed esclusivamente con
riferimento a quelle non godute dal dipendente per rilevanti
ed indifferibili ragioni di servizio, risultanti da atto
formale avente data certa (comprovante la richiesta del
dipendente di fruizione delle ferie e l’impossibilità di
assegnazione delle stesse da parte del datore di lavoro per
le ragioni di servizio di cui si è detto).
Con riferimento a tale ultimo aspetto, si può affermare che
qualunque atto formale, di data certa, dell’ente comprovante
la richiesta del dipendente di fruizione delle ferie e
l’impossibilità di assegnazione delle stesse da parte del
datore di lavoro per rilevanti e perciò indifferibili
esigenze di servizio è sufficiente ai fini dell’applicazione
della disciplina contrattuale (utili indicazioni si possono
ritrovare nella sentenza del CDS, sez. V, n. 7989/2001).
La mancanza dei requisiti contrattuali non consente,
pertanto, la “monetizzazione” delle ferie (parere
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PUBBLICO
IMPIEGO:
FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Per i
lavoratori turnisti, le giornate festive infrasettimanali
ricadenti in un periodo di ferie devono essere escluse dal
conteggio delle giornate di ferie complessivamente godute
nel periodo stesso oppure devono essere fruite anch’esse
come giornate di ferie?
Se il turno è stato articolato sui giorni lavorativi della
settimana (cinque o sei, secondo la specifica organizzazione
del tempo di lavoro adottata), esso ricomprende anche le
eventuali festività infrasettimanali ricadenti in tale arco
temporale e che, conseguentemente, tali giornate per i
turnisti devono considerarsi lavorative, con diritto alla
corresponsione della sola indennità di turno festivo.
Pertanto, se nel giorno di festività infrasettimanale, il
lavoratore, sulla base delle caratteristiche
dell'organizzazione del turno adottata, dovrebbe
ordinariamente prestare servizio, nel momento in cui decide
di fruire di un periodo di ferie comprendente anche il
suddetto giorno, questo non può non essere computato come
giorno di ferie.
A tal fine è sufficiente la sola considerazione del fatto
che, se non avesse fruito delle ferie, in quella giornata
avrebbe dovuto rendere comunque la sua prestazione
lavorativa (parere
18.07.2012 n. RAL-1306 - link a
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QUESITI & PARERI |
ENTI LOCALI:
La gestione associata.
DOMANDA:
Può essere stipulata una convenzione attuativa per la
gestione associata dell'area tecnica nella quale vengono
inserite 4 funzioni fondamentali previste dal D.L. 95/2012:
catasto, urbanistica, protezione civile e rifiuti, senza
stipulare singole convenzioni?
RISPOSTA:
L’art. 1, comma 530, della legge n. 147/2013 impone ai
comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti entro il
31.12.2014 di completare il convenzionamento per la gestione
delle funzioni fondamentali, così come elencate dal comma 1
dell’art. 14 del d.l. 78/2010 e successive modificazioni.
Per formalizzare il convenzionamento può essere sufficiente
anche la sottoscrizione di un’unica convenzione che
raggruppi più funzioni fondamentali. La convenzione è un
accordo di natura contrattuale con il quale gli enti
regolano, in piene autonomia, aspetti di comune interesse
patrimoniale e non.
Dette convenzioni sono disciplinate dall’art. 30 del Tuel
che prevede due modalità per l'esercizio associato delle
funzioni e dei servizi in convenzione e precisamente o la
costituzione di uffici comuni che operano con personale
distaccato dagli enti partecipanti, ai quali affidare
l'esercizio delle funzioni o dei servizi in luogo degli enti
partecipanti all'accordo, ovvero la delega di funzioni da
parte degli enti partecipanti all'accordo a favore di uno di
essi, che opera in luogo e per conto degli enti deleganti
(comune capofila) (cfr. comma 4).
La Corte dei Conti ed in particolare la sezione regionale di
controllo per la Lombardia con
parere 10.12.2012 n. 513 ha fornito suggerimenti
operativi per la redazione delle convenzioni per la gestione
associate delle funzioni che non siano elusive degli intenti
perseguiti dal legislatore di riduzione della spesa e di
efficacia, efficienza ed economicità delle gestione.
La corte ha precisato: ”Per quel che concerne la concreta
organizzazione di ciascuna funzione, è evidente che gli Enti
interessati alla gestione associata debbano unificare gli
uffici e, a seconda delle attività che in concreto
caratterizzano la funzione, prevedere la responsabilità del
servizio in capo ad un unico soggetto che disponga dei
necessari poteri organizzativi e gestionali, nominato
secondo le indicazioni contenute nell’art. 109 del Tuel.
L’esercizio unificato o associato della funzione implica che
sia ripensata ed organizzata ciascuna attività, cosicché
ciascun compito che caratterizza la funzione sia considerato
in modo unitario e non quale sommatoria di più attività
simili. Lo svolgimento unitario di ciascuna funzione non
implica necessariamente che la stessa debba far capo ad un
unico ufficio in un solo Comune, potendosi ritenere, in
relazione ad alcune funzioni, che sia possibile il
mantenimento di più uffici in Enti diversi. Ma anche in
questi casi l’unitarietà della funzione comporta che la
stessa sia espressione di un disegno unitario guidato e
coordinato da un Responsabile, senza potersi escludere, in
linea di principio, che specifici compiti ed attività siano
demandati ad altri dipendenti o anche agli organi di vertice
dell’amministrazione comunale partecipante alla convenzione”
(link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
La tracciabilità dei rifiuti.
DOMANDA:
Alla luce della recente normativa inerente all’obbligo di
utilizzo del sistema SISTRI, una Piattaforma Ecologica,
gestita in proprio dal Comune ed autorizzata dalla
Provincia, in cui vengono conferiti anche rifiuti urbani
pericolosi è obbligata a mantenere l’iscrizione al SISTRI?
In caso di risposta affermativa, il numero dei dipendenti,
che determina l’eventuale esclusione dall’obbligo
d’iscrizione, deve essere calcolato, nel caso specifico di
un Comune, in base al numero totale dei dipendenti oppure
devono essere conteggiati solo i dipendenti direttamente
coinvolti nella gestione della Piattaforma (operatori
ecologici impiegati in Piattaforma - istruttore
amministrativo Servizio Ecologia).
RISPOSTA:
Va premesso che il nuovo Sistema di controllo della
tracciabilità dei rifiuti (SISTRI) risulta istituito, ai
sensi dell’articolo 189 del D.leg.vo n. 152/2006 e
dell’articolo 14-bis del decreto-legge n. 78/2009 conv. con
modificazioni, dalla legge n. 102 del 2009, con decreto del
Ministero dell’ambiente 17.12.2009, al fine di rendere
digitali le tradizionali scritture ambientali (registro di
carico e scarico, formulario e Mud) attraverso dispositivi
elettronici.
In sostanza si tratta di un sistema che si colloca nel più
ampio quadro di innovazione e modernizzazione della Pubblica
Amministrazione per permettere l'informatizzazione
dell'intera filiera dei rifiuti speciali a livello nazionale
e dei rifiuti urbani per la Regione Campania. Ciò premesso
si osserva che, come rilevato anche dall’ANCI Lombardia, “tutti
gli enti locali (regioni, province, comuni), qualora
producano rifiuti pericolosi sono quindi tenuti ad
iscriversi al SISTRI, come produttori di rifiuti pericolosi,
secondo la tempistica di cui all’articolo 1, comma 1,
lettere a) e b), del DM 17.12.2009. Gli stessi soggetti,
qualora titolari di autorizzazioni di impianti di
recupero/smaltimento di rifiuti urbani sono, altresì,
obbligati ad iscriversi al SISTRI, ai sensi dell’articolo 1,
comma 1, lettera a), dello stesso decreto, nella categoria
recuperatori/smaltitori. I centri di raccolta che operano ai
sensi del DM 08.04.2008 sono esentati dall’obbligo di
iscrizione. I comuni non sono, invece, tenuti ad iscriversi
al SISTRI come produttori di rifiuti urbani. Solo i comuni
della regione Campania devono, ai sensi dell’articolo 2 del
citato DM 17.12.2009, iscriversi al SISTRI, come produttori
di rifiuti urbani”.
La stessa Anci Lombardia ha quindi rilevato che risulta “sicuramente
più opportuno e più facile avviare SISTRI ponendo in capo
anche al soggetto giuridico gestore della piattaforma
ecologica, a tutti gli effetti considerata unità locale,
l’obbligatorietà della iscrizione al SISTRI con tutti gli
adempimenti conseguenti” e ciò in quanto “…..così
facendo, si raggiungerebbero facilmente molti degli
obiettivi di SISTRI con una netta semplificazione dei
processi e delle modalità operative che nessuno esclude
possano essere ulteriormente approfonditi ed eventualmente
migliorati in successive fasi”.
Per quanto attiene il numero dei dipendenti che determina
l’eventuale esenzione dall’obbligo di iscrizione si osserva
infine che l’art. 1 del cit. DM fa riferimento in generale
ai “dipendenti” di enti o imprese produttori di
rifiuti senza alcuna ulteriore specificazione o deroga onde
si è dell’avviso che una interpretazione che ne limiti
l’applicazione ai soli impiegati nella gestione della
piattaforma non trovi un sicuro fondamento normativo
(link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le opere a scomputo.
DOMANDA:
Per opere a scomputo di opere di urbanizzazione una ditta
(che è diventata stazione appaltante) ha effettuato una gara
con relativa richiesta del CIG.
In questo caso il Comune non deve comunicare nulla
all'Osservatorio regionale dei LL.PP.?
RISPOSTA:
L’articolo 32, comma 1, lett. g), primo periodo, del Codice
dei contratti, attribuisce al privato, titolare del permesso
di costruire, la funzione di stazione appaltante per la
realizzazione delle opere a scomputo dei relativi oneri di
urbanizzazione; il privato è, dunque, esclusivo responsabile
dell’attività di progettazione, affidamento ed esecuzione
delle opere di urbanizzazione, ferma restando la vigilanza
da parte dell’amministrazione consistente, tra l’altro,
nell’approvazione del progetto e del collaudo.
La norma configura una titolarità "diretta" della
funzione di stazione appaltante in capo al privato titolare
del permesso di costruire (ovvero titolare del piano di
lottizzazione o di altro strumento urbanistico attuativo
contemplante l'esecuzione di opere di urbanizzazione), che,
in quanto "altro soggetto aggiudicatore", è tenuto ad
appaltare tali opere a terzi, nel rispetto del Codice e
della normativa sulle gare pubbliche (procedure di gara
previste dal Codice -procedura aperta o ristretta e, solo
nei casi tassativamente indicati dagli artt. 56 e 57, la
procedura negoziata-, le norme sulla pubblicità, quelle sul
rispetto dei termini, sui requisiti di partecipazione, la
cauzione provvisoria, i criteri di aggiudicazione -prezzo
più basso o offerta economicamente più vantaggiosa-, la
disciplina delle offerte anomale, la corresponsione del
contributo all'Autorità, le comunicazioni obbligatorie
all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici).
Quindi, l’affidamento e l’esecuzione delle opere di
urbanizzazione sono sottoposti alla vigilanza dell’Autorità,
e le relative informazioni sono da ritenersi obbligatorie e,
di conseguenza, devono essere comunicate all’Osservatorio
dei contratti pubblici (“i dati riguardanti l'affidamento
e la realizzazione delle opere di urbanizzazione sono
compresi nelle comunicazioni obbligatorie all' Osservatorio
dei Contratti pubblici”, cfr. Determinazione Avcp n. 7
del 16.07.2009) (link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le misure progettuali.
DOMANDA:
In merito alla tolleranza prevista dal DPR 380/2001 art. 34,
comma 2-ter, si chiede: la flessibilità del 2% è ammessa
solo rispetto alle misure previste in progetto o anche
rispetto ai parametri fissati dal piano urbanistico?
Il 2% aggiuntivo é in deroga agli indici di piano, alla
volumetria assentita col piano di recupero, alla volumetria
prevista dagli ambiti di trasformazione o, sommata a quanto
concesso dal titolo abilitativo, vi deve restare compresa?
Idem dicasi per le altezze e le superfici coperte? Il 2% va
anche in deroga al DM 1444/1968 per le distanze?
RISPOSTA:
Il quesito in esame concerne l’interpretazione dell’art. 34,
comma 2-ter, del D.P.R. n. 380/2001 che così recita: «Ai
fini dell'applicazione del presente articolo, non si ha
parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di
violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie
coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2
per cento delle misure progettuali».
L’articolo 34 del Testo unico delle disposizioni legislative
e regolamentari in materia edilizia disciplina gli
interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di
costruire, prevedendone la rimozione o la demolizione a
spese dei responsabili degli abusi, ovvero l’applicazione di
una sanzione nel caso in cui le misure predette arrechino
pregiudizio.
Il testo dell’articolo in esame, così come la relazione
illustrativa al D.L. 13 n. 70/2011 (che ha introdotto la
versione vigente del comma 2-ter), prevedono espressamente
che nella definizione di parziale difformità del titolo
abilitativo siano comprese le violazioni di altezza,
distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano
per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure
progettuali.
Già dal tenore letterale si intuisce come la misura
suindicata si riferisca esclusivamente alle misure previste
in progetto e non anche ai parametri urbanistici. A conferma
di ciò, il TAR Basilicata (sentenza n. 574 del 02.10.2013)
ha statuito che il comma 2-ter dell’art. 34 DPR n. 380/2001
(introdotto dall’art. 5, comma 2, lett. a, n. 5, D.L. n.
70/20011 conv. nella L. n. 106/2011), il quale prevede che “non
si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza
di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie
coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2%
delle misure progettuali” non trova sempre attuazione,
atteso che l’eccedenza nella misura massima del 2% non può
comunque violare i parametri urbanistici stabiliti dagli
strumenti urbanistici.
Discorso diverso va fatto per quanto riguarda il rapporto
tra la disposizione in esame e il D.M. n. 1444/1968 in
materia di distanze. In questo caso, infatti, si ritiene che
la costruzione realizzata ad una distanza inferiore a quella
prevista e progettata ma contenuta nella soglia del 2%, sia
da considerare come errore costruttivo tollerato che non
determina violazione edilizia. Il D.L. n. 70/2011, infatti,
contempla nella tolleranza lo scostamento dei distacchi tra
cui pertanto può ricomprendersi lo scostamento delle
distanze tra edifici
(link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ La carta non tramonta. Non
può essere negata la copia dei documenti.
Ai consiglieri può essere riconosciuto l'accesso
all'intranet del comune.
Ai fini dell'esercizio del diritto
di accesso da parte di un consigliere comunale, i documenti
richiesti possono essere rilasciati dagli uffici comunali
esclusivamente su supporto informatico o devono essere
forniti anche in forma cartacea?
Il diritto di accesso e di informazione dei consiglieri
comunali nei confronti della p.a. è disciplinato dall'art.
43 del decreto legislativo n. 267/2000 che riconosce ai
consiglieri comunali e provinciali il «diritto di ottenere
dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia,
nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le
notizie e le informazioni in loro possesso, utili
all'espletamento del proprio mandato».
Dal contenuto della citata norma si evince il
riconoscimento, in capo al consigliere comunale, di un
diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai
documenti amministrativi attribuito al cittadino nei
confronti del comune di residenza (art. 10, Tuel) che, più
in generale, nei confronti della p.a. quale disciplinato
dalla legge n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in
ragione del particolare munus espletato dal consigliere
comunale, affinché questi possa valutare con piena
cognizione di causa la correttezza e l'efficacia
dell'operato dell'amministrazione, onde poter esprimere un
giudizio consapevole sulle questioni di competenza
dell'amministrazione, considerando il ruolo di garanzia
democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata
(cfr. pareri del 23 giugno e del 07.07.2011, resi dalla
commissione per l'accesso ai documenti amministrativi).
La citata Commissione si è espressa su un quesito posto dal
segretario di un comune, relativo all'accesso dei
consiglieri comunali all'albo pretorio on-line.
Si chiedeva, in particolare, di sapere se il regolamento
comunale sull'accesso ai documenti amministrativi potesse
prevedere che gli interessati all'accesso, e in particolare
i consiglieri comunali, non dovessero più richiedere copia
cartacea di quanto già pubblicato nell'albo pretorio on-line.
In merito, la commissione ha ritenuto di esprimere parere
negativo, sia perché l'esercizio del diritto d'accesso non
ha alcun rapporto con il valore legale del documento al
quale si chiede di accedere, sia perché non tutti possono
essere in grado di connettersi con la rete comunale e di
navigare in essa.
Pertanto, il mancato rilascio della copia cartacea potrebbe
costituire una discriminazione dei soggetti privi di
adeguata cultura informatica, con conseguente lesione sia
del principio generale di uguaglianza che dello specifico
diritto d'accesso, che pure attiene a quelle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti a tutti i cittadini.
Va, però, considerato che il legislatore con l'art. 32 della
legge n. 69 del 18.06.2009, per comprimere le spese
correnti, finalità che rientra tra le esigenze generali
prioritarie della politica economica finanziaria nazionale,
ha espressamente previsto la pubblicazione on-line.
Tali esigenze non vengono compromesse qualora le copie in
forma cartacea (quelle rilasciate per e-mail sono
praticamente a costo zero e quindi gratuite) siano richieste
da privati cittadini, dal momento che, in tal caso,
l'accesso è subordinato ad un sia pur limitato onere
finanziario a carico del richiedente.
Possono, però, essere compromesse nel caso in cui i
consiglieri comunali avanzino richieste generalizzate o,
comunque, di dimensioni manifestamente esorbitanti, con
conseguente, ingiustificato aggravio economico e operativo
per il comune.
Fermo restando, dunque, alla luce dei sopra citati pareri,
che non può essere negata la copia cartacea dei documenti
richiesti, dovrebbe evitarsi la presentazione, da parte dei
consiglieri, di istanze eccessivamente onerose per l'ente.
Proprio al fine di evitare che le continue richieste di
accesso si trasformino in un aggravio della ordinaria
attività amministrativa dell'ente locale, la Commissione per
l'accesso, con parere del 29.11.2011, ha riconosciuto la
possibilità per il consigliere comunale di avere accesso
diretto al sistema informatico interno dell'ente attraverso
l'uso di password di servizio (articolo ItaliaOggi del 28.11.2014
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
TRIBUTI:
Tasi sui fabbricati demoliti.
Domanda
I fabbricati che
sono stati demoliti o che sono oggetto di restauro e
risanamento conservativo o di ristrutturazione edilizia o
ancora di ristrutturazione urbanistica come devono essere
considerati ai fini del Tributo sui servizi indivisibili (Tasi)?
Risposta
Come è noto, la
legge del 27.12.2013, numero 147, detta legge di
stabilità per l'anno 2014, composta di un solo articolo, al
comma 639, ha introdotto, a partire dall'anno 2014, una
nuova imposta, detta imposta unica comunale (Iuc).
Il tributo, pur definito come «imposta unica», contiene al
suo interno la componente patrimoniale, data dall'Imposta
municipale propria (Imu), e la componente relativa ai
servizi.
La componente relativa ai servizi, a sua volta, si articola:
- nella Tasi, che è un tributo dovuto per i servizi
indivisibili resi dai comuni;
- nella Tari, che è un tributo dovuto per finanziare i costi
del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti.
Ora, ai fini della Tasi, i fabbricati, individuati dalla
legge numero 457 del 1978, che sono stati demoliti o che
sono oggetto di restauro e risanamento conservativo o di
ristrutturazione edilizia o ancora di ristrutturazione
urbanistica devono essere considerati come area edificabile.
E, al riguardo, si ricorda che, ai sensi dell'articolo 36,
comma 2, del decreto legge numero 223, del 2006, convertito
con la legge numero 248, del 2006, «un'area è da
considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo
edificatorio in base allo strumento urbanistico generale
adottato dal comune, indipendentemente dall'approvazione
della regione e dall'adozione di strumenti attuativi del
medesimo»
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014). |
TRIBUTI: Tasi,
la quota del proprietario.
Domanda
Quale proprietario
del bene, sono tenuto al pagamento della quota del Tributo
sui servizi indivisibili (Tasi) non versato dall'occupante
un appartamento di mia proprietà?
Risposta
La Tasi (tassa sui servizi indivisibili) è un tributo
istituito per coprire le spese sostenute dai comuni
nell'espletamento di servizi necessari per la collettività,
quali: servizi di illuminazione pubblica, servizi per la
manutenzione delle strade, servizi per la cura del verde
pubblico, servizi per la pubblica sicurezza e la vigilanza,
nonché servizi per la protezione civile, servizi per le aree
cimiteriali ecc.
Essa è dovuta, come già si è avuto modo di dire, anche
dall'occupante del bene in una misura determinata dal comune
con proprio regolamento.
Pertanto, la Tasi, per lo stesso immobile, se posseduto da
un soggetto diverso dal titolare del diritto reale, è dovuta
da due soggetti distinti, ciascuno dei quali ha un'autonoma
obbligazione tributaria. Ne consegue che, se l'utilizzatore
dell'immobile non provvede al versamento della quota di sua
spettanza, il proprietario del bene non ha alcuna
responsabilità e il comune non potrà chiedergli il
versamento del tributo, omesso dal detentore del bene.
Se i detentori del bene sono più di uno, allora la
responsabilità per il pagamento della Tasi è solidale tra i
detentori, per cui il comune, in caso di inadempienza, si
può rivolgersi all'uno o all'altro dei coobbligati per la
riscossione del dovuto
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014). |
TRIBUTI: Esenzione
Imu collinare.
Domanda
Proprietario di un
terreno non edificabile, vorrei conferma che anche ai fini
Imu continua a valere, come mi è stato detto, l'esenzione
prevista per i terreni collinari e montani.
Risposta
La risposta è
affermativa, almeno in linea di principio. Infatti, l'art.
7, lett. h), del dlgs n. 504/1992 (che stabiliva l'esenzione ai
fini Ici) è richiamato dalla disciplina Imu (duplice
richiamo nell'articolo 9, 8° c. del dlgs n. 23/2011 e
nell'articolo 13, 13° c. del dl «Salva Italia» n. 201/2011),
ma alla condizione, peraltro già prevista in vigenza
dell'Ici, che i terreni in questione siano «agricoli» nel
senso stabilito dall'art. 2, lett. c) del dlgs n. 504/92: ciò
significa che i terreni in questione devono essere «adibiti
all'esercizio delle attività indicate nell'art. 2135 del
codice civile» e pertanto alla coltivazione del fondo, alla
selvicoltura, all'allevamento di animali e attività
connesse.
Il semplice possesso di terreni in comuni (o parti di
comuni) ricadenti nell'ambito dell'art. 7 del dlgs n.504/92
non è quindi sufficiente a legittimare l'esenzione da Imu.
Ricordiamo che un elenco dei predetti comuni (o zone di
essi) «ricadenti in aree montane o di collina delimitate ai
sensi dell'articolo 15 della L. n. 984/1977» è allegato alla
circolare del ministero delle finanze n. 9/1993.
Segnaliamo anche che l'art. 4, c. 5-bis del dl n. 16/2012,
introdotto nella recente conversione in legge (L. n.
44/2012), ha stabilito che «Con decreto di natura non
regolamentare del ministro dell'economia e delle finanze, di
concerto con il ministro delle politiche agricole alimentari
e forestali, possono essere individuati comuni nei quali si
applica l'esenzione di cui alla lettera h) del comma 1
dell'articolo 7 del dlgs n. 504/1992, sulla base della
altitudine riportata nell'elenco dei comuni italiani
predisposto dall'Istituto nazionale di statistica (Istat),
nonché, eventualmente, anche sulla base della redditività
dei terreni». Riservandosi tale facoltà, il ministro
dell'economia può pertanto emanare, in qualsiasi momento
(non è previsto alcun termine), un decreto che modifica
radicalmente l'elenco dei comuni (attualmente sono
moltissimi) nei quali l'esenzione opera.
Ricordiamo infine, per necessaria completezza, che, sempre
nella conversione in legge del dl n. 16/2012, nell'art. 4
sono state tra l'altro, da un lato, inserite norme
agevolative per la determinazione dell'Imu relativa ai
terreni agricoli posseduti e condotti da coltivatori diretti
o da imprenditori agricoli professionali e per i fabbricati
rurali strumentali ubicati in comuni montani o parzialmente
montani, dall'altro ulteriormente elevato a 135 il
moltiplicatore generale da applicare al reddito dominicale
(da rivalutare del 25%, come già si faceva per l'Ici) dei
terreni agricoli e di quelli non coltivati; resta invece
confermato a 110 il moltiplicatore previsto «per i
terreni agricoli, nonché per quelli non coltivati, posseduti
e condotti dai coltivatori diretti e dagli imprenditori
agricoli professionali iscritti nella previdenza agricola»
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014). |
TRIBUTI:
Imu e invenduto.
Domanda
Impresa di
costruzioni edili con un magazzino di immobili invenduti a
causa della crisi economica: è vero che spetta una specifica
agevolazione Imu? Quale e in quali termini?
Risposta
L'art. 13, c. 9-bis del dl «Salva Italia» n. 201/2011 prevede: «I comuni
possono ridurre l'aliquota di base fino allo 0,38% per i
fabbricati costruiti e destinati dall'impresa costruttrice
alla vendita, fintanto che permanga tale destinazione e non
siano in ogni caso locati, e comunque per un periodo non
superiore a tre anni dall'ultimazione dei lavori».
Questi i
termini e le condizioni dell'agevolazione che, tuttavia, per
poter in concreto operare, deve essere espressamente
deliberata dal Comune. In mancanza, resta applicabile a tali
immobili l'aliquota ordinaria. In ogni caso, ai fini
dell'acconto da versare entro il 18 giugno prossimo
occorrerà applicare l'aliquota ordinaria di legge (0,76%) e
verificare poi se il Comune avrà deliberato (lo può fare
entro il 30 settembre) di introdurre la predetta
agevolazione e/o di modificare le aliquote rispetto a quelle
di legge.
In sede di acconto (dovuto entro il 17 dicembre)
dovrà essere versata l'imposta a conguaglio per l'intero
anno, determinata con le aliquote definitive applicabili in
ogni singolo comune e, in mancanza, con quelle di legge,
scomputando l'importo già versato a titolo di acconto.
Si segnala che anche il governo si è riservato la facoltà di
modificare le aliquote e le detrazioni con uno o più
Provvedimenti da emanare entro il termine del 10.12.2012
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014). |
CONSIGLIERI
COMUNALI - ENTI LOCALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Partecipate senza conflitti. Incompatibilità per i
dipendenti delle in house. Solo queste società sono
articolazioni interne degli enti controllanti.
Sussiste una causa d'incompatibilità di cui all'art.
67-quater, comma 11, del decreto legge 22.06.2012, n. 83,
convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n.
134, nei confronti del presidente e amministratore di una
società a partecipazione pubblica, che eserciti attività
libero-professionali correlate alle opere e ai lavori della
ricostruzione post-sisma?
La questione prospettata è complessa e di non agevole
decisione, non potendosi prescindere dall'esatto
inquadramento delle società in esame, la cui natura e il cui
regime giuridico costituiscono oggetto di dibattito tra gli
operatori del diritto.
In assenza di elementi specifici riguardanti l'entità della
partecipazione comunale e il tipo di attività svolta
dall'impresa, le considerazioni che seguono fanno
necessariamente riferimento ai diversi modelli di società
partecipata in astratto ipotizzabili e dovranno essere
adattate alle specificità del caso concreto. Nell'affrontare
la problematica, si deve comunque tenere conto, da un lato,
della ratio della norma e, dall'altro, delle
direttive ermeneutiche elaborate dalla giurisprudenza. Sotto
il primo profilo, in linea con le disposizioni che
sanciscono analoghe ipotesi d'incompatibilità, la finalità
della norma richiamata può essere ravvisata nell'esigenza di
impedire che possano concorrere all'esercizio delle funzioni
degli organi di governo degli enti ivi indicati soggetti
portatori di interessi confliggenti con quelli degli enti
medesimi o i quali si trovino comunque in condizioni che ne
possano compromettere l'imparzialità.
Peraltro, le cause ostative all'espletamento del mandato
elettivo, pur essendo di stretta interpretazione e, quindi,
non suscettibili di applicazione analogica, possono essere
intese in maniera estensiva, nel rispetto del canone di
ragionevolezza (ex multis, Corte costituzionale,
sentenza 20.02.1997, n. 44).
Premessa, quindi, l'ammissibilità di un'interpretazione
estensiva, ove necessaria per salvaguardare le finalità
perseguite dalla norma, nella fattispecie, si tratta
sostanzialmente di verificare se e in quali termini le
società partecipate da un'istituzione locale possano essere
considerate entità assimilabili agli enti di stampo
pubblicistico. Sul punto, la giurisprudenza ha elaborato una
serie di univoci criteri ai quali ricorrere per stabilire se
la veste privatistica di un'impresa abbia carattere
meramente formale.
In tal senso, particolarmente pregnanti sono alcune recenti
sentenze dei giudici di legittimità secondo cui le società
di capitali, costituite o comunque partecipate da soggetti
pubblici per il perseguimento delle finalità loro proprie
non cessano di essere società di diritto privato, la cui
disciplina, se non diversamente disposto, risiede nelle
norme dettate dal codice civile, tanto più alla luce
dell'art. 4 della legge 20.03.1975, n. 70, a tenore del
quale occorre l'intervento del legislatore per l'istituzione
di un ente pubblico.
In linea generale, pertanto, le società a partecipazione
pubblica sono enti di diritto privato, dotate di autonoma
personalità giuridica e conseguentemente non assimilabili a
una pubblica amministrazione ai fini che qui interessano (in
tal senso, cfr. anche Corte di cassazione, Sezioni Unite
Civili, ordinanza 19.12.2009, n. 26806; Id, sentenza
09.03.2012, n. 3692).Nondimeno, a diverse conclusioni si
deve pervenire qualora si tratti di società di fonte legale,
regolate da una disciplina sui generis di chiara impronta
pubblicistica (quale, per esempio, la Rai.: cfr. Corte di
cassazione, sezioni unite civili, ordinanza 22.12.2009, n.
27092), nonché laddove ricorrano i connotati qualificanti
del cosiddetto in house providing, figura di origine
eminentemente giurisprudenziale, in seguito recepita in
diverse disposizioni normative e, in particolare, dall'art.
113 del dlgs n. 267 del 2000.
Tre condizioni connotano la società in house: la natura
esclusivamente pubblica dei soci, l'esercizio dell'attività
in prevalenza a favore dei soci stessi e la sottoposizione a
un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti
pubblici sui propri uffici. Tali caratteristiche non
consentono alla società in house di collocarsi alla
stregua di un'entità posta al di fuori dell'ente o degli
enti pubblici da cui promana, i quali ne dispongono come di
una propria articolazione interna.
In altri termini, la stessa non è altro che una longa
manus dell'amministrazione e non può considerarsi terza
rispetto al soggetto controllante. Alla luce della
giurisprudenza evocata, la situazione d'incompatibilità
sussiste, pertanto, ogni qual volta l'interessato sia
dipendente di una società sottoposta a un peculiare regime
di carattere pubblicistico ovvero di una società partecipata
ascrivibile al novero delle società in house
(articolo ItaliaOggi del 21.11.2014). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Impianti fotovoltaici.
Domanda
Lessi tempo addietro un qualcosa su come calcolare l'aumento
della rendita di un immobile a seguito dell'installazione di
un impianto fotovoltaico. Potete darmene gentilmente
nozione, dal momento che non ricordo più dove la lessi?
Risposta
Verosimilmente il cortese lettore si riferisce a un «question
time» in commissione finanze della Camera del 30/04/2014. In
quella sede il sottosegretario all'economia Zanetti ebbe a
precisare che, per quel che concerne gli incrementi delle
rendite degli immobili, la variazione della rendita deve
avvenire soltanto quando l'impianto fotovoltaico «integrato»
incrementa il valore capitale (o la redditività ordinaria)
del 15%, con ulteriori salvaguardie (potenza nominale
inferiore a 3 kwt per ogni unità, potenza nominale
complessiva non superiore a tre volte il numero delle unità
immobiliari e volume dell'impianto inferiore a 150 mc per le
installazioni a terra) in presenza delle quali non risulta
obbligatoria la dichiarazione di variazione in catasto (articolo ItaliaOggi Sette del
17.11.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Terrazze a verde.
Domanda
Il mio architetto mi ha detto che posso usufruire della
detrazione del 65% per il risparmio energetico ricoprendo il
mio terrazzo «a verde». Dal momento che l'affermazione mi
lascia un po' perplesso, chiedo il parere dei vostri
esperti.
Risposta
Il ministero per l'ambiente, comitato per lo sviluppo del
verde pubblico, ha, delibera n. 10017 del 13.05.2014,
precisato che le coperture «a verde» di terrazze e tettoie,
a meno che non si tratti di opere dal mero valore estetico
e/o paesaggistico e privi di apprezzabili effetti sul piano
del risparmio energetico, fruiscono della detrazione fiscale
del 65% prevista per gli interventi di miglioramento delle
prestazioni energetiche delle unità immobiliari (articolo ItaliaOggi Sette del
17.11.2014). |
URBANISTICA:
Comune di Gaeta -
Parere in merito
alla necessità di acquisire il parere regionale di cui
all'art. 16 della legge 1150/1942 in merito a modifiche
apportate a piani attuativi già approvati (Regione
Lazio,
parere 17.10.2014 n. 296506 di prot.). |
URBANISTICA:
Comune di Tivoli - Parere in merito all'acquisizione del
parere paesaggistico di cui agli artt. 16 e 28 della Legge
n. 1150/1942 nell'ambito del procedimento di formazione
degli strumenti urbanistici attuativi previsto dalla L.R. n.
36/1987 (Regione Lazio,
parere 12.07.2012 n. 14717 di prot.). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA: Per
gli interventi liberi sparisce il "Docfa". Catasto: gli
oneri di aggiornamento passano a carico delle Entrate, ma si
rischia di gonfiare nuovamente l'arretrato.
Con lo Sblocca-Italia (articolo 17, comma 1, lettera c,
punto 3) viene prevista una modifica all'art. 6, comma 5,
del Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia (Dpr 380/2001) che
ingenera però dei problemi in tema di procedimenti di
variazione catastale di immobili già censiti.
L'art. 6 del testo unico disciplina le tipologie degli
interventi liberi ... (... continua)
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.11.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Sanzioni
per le vecchie violazioni. Saranno i comuni a modulare la
cifra da pagare, variabile da 2mile a 20mila euro.
Edilizia: la novità dello Sblocca-Italia per chi non adempie
alle ordinanze di demolizione operative per irregolarità
permanenti.
Il decreto Sblocca-Italia (Dl 133/2014, divenuto legge 164)
ha già messo in moto le amministrazioni comunali per
irrogare e riscuotere sanzioni pecuniarie a carico di tutti
coloro che risultino non aver adempiuto ad ordinanze di
demolizione per abusi edilizi.
La norma (art. 31, comma q-bis, del Dpr 380/2001, introdotto
in sede di conversione del decreto 133) è di immediata
applicazione ... (... continua) (articolo Il Sole 24 Ore del 26.11.2014). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Inammissibili le Pec seriali. Vietati invii tesi a frenare
l'ufficio per avere indennizzi. Bloccato dalla Gdf il sistema usato da una ditta sfruttando
la norma del dl del Fare.
Vietato inviare alla p.a. centinaia di richieste via Pec,
tutte uguali, solo al fine di paralizzare l'attività del
Comune e ottenere, quindi, l'indennizzo previsto dalla legge
per il danno da ritardo. A seguito del procedimento penale
(n. 4941/14/21) avviato dalla procura di Imperia è stato
bloccato, nei giorni scorsi, dalla Guardia di finanza, il
dominio internet di una società che intendeva sfruttare, a
proprio vantaggio la difficoltà per il comune di rispondere
entro i termini fissati dalla legge.
La giurisprudenza (da
ultimo il Consiglio di stato, sez. V, con la sentenza
3045/2013) ha più volte affermato il diritto, per gli
operatori economici, di ottenere un risarcimento poiché il
ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento è
sempre un costo.
Per evitare ogni dubbio sul fronte del
riconoscimento dell'indennizzo per il disagio sopportato dal
privato a seguito della violazione dei termini di
conclusione del procedimento, è intervenuto il legislatore:
nell'estate del 2013, con una specifica modifica
all'articolo 2-bis della legge 241/1990 introdotta dal
decreto del Fare (dl 69/2013) è stato previsto l'indennizzo
da erogare in ogni caso, a prescindere da una causa. Nel
senso che il pagamento delle somme è dovuto anche
nell'eventualità in cui il ritardo nella emanazione
dell'atto sia connesso ad un comportamento scusabile e
astrattamente lecito.
In seguito è stata emanata anche, il 9
gennaio scorso, una specifica direttiva da parte del
Ministero della semplificazione, con la quale è stata
fissata in 30 euro la misura dell'indennizzo per ogni giorno
di ritardo, nel limite massimo di 2 mila euro. Da qui, la
strumentale iniziativa di inviare centinaia di Pec ai comuni
inventata dalla ditta, tutti relativi all'installazione di
cartelloni pubblicitari.
Per fronteggiare la situazione,
tuttavia, i comuni non sono rimasti inerti. Ad esempio, il
comune di Arona ha predisposto una nota fatta girare via
web, che ha fornito indicazioni su come gestire il problema.
E anche il Consorzio dei comuni trentini, con una circolare
del 29 ottobre, si è mosso in tal senso, dando atto dell'apertura di un'inchiesta da parte della magistratura per il
reato ipotizzato di interruzione o turbativa di pubblico
servizio
(articolo ItaliaOggi del 25.11.2014). |
LAVORI PUBBLICI: Appalti, rischi penali per chi permette varianti
ingiustificate. Anticorruzione. L’allarme dell’Anac.
Più sono «aggressivi» i
ribassi con i quali vengono aggiudicati gli appalti, più
frequenti sono le varianti in corso d’opera, che spesso
consentono all’appaltatore di recuperare gli “sconti”
offerti all’inizio e si giustificano solo formalmente con le
classiche «cause impreviste e imprevedibili» che permettono
di riformare i contratti. E non è solo un fatto di
frequenza:?quando il ribasso d’asta iniziale è stato
superiore al 30%, almeno il 50% delle varianti approvate
presentano problemi di varia importanza, che se messi sotto
controllo potrebbero sfociare in responsabilità anche penali
nei confronti di chi ha aggiudicato la gara. Non solo: nel
90% dei casi, l’importo della variante è vicinissimo al
ribasso d’asta iniziale, annullando di fatto il risparmio.
A dirlo è il primo esame delle varianti effettuato
dall’Autorità nazionale anticorruzione guidata da Raffaele
Cantone. Il rapporto a volte perverso fra aggiudicazioni con
ribassi extra e “correzioni” successive in corso d’opera è
un fatto noto, al punto che proprio per contrastare fenomeni
di questo tipo il decreto sulla Pubblica amministrazione
(articolo 37 del Dl 90/2014)?ha imposto agli enti pubblici
di trasmettere le varianti all’Autorità. I numeri elaborati
dall’Anac, però, offrono per la prima volta una misurazione
puntuale del fenomeno, e già evidenziano «condotte
ricorrenti» che «nella loro reiterazione testimoniano
un’applicazione distorta dell’istituto della variante in
corso d’opera».
Il rapporto evidenzia in particolare undici di queste
condotte ricorrenti, a partire dalle varianti approvate
sulla base di «motivazioni non coerenti» o addirittura «in
sanatoria» di lavori già eseguiti o ultimati fino alle
modifiche che coprono errori di progettazione oppure che si
presentano come migliorative, ma in realtà finiscono per
«comportare una sensibile riduzione della qualità
complessiva della realizzazione», per esempio quando
prevedono l’utilizzo di materiali e tecnologie meno pregiate
di quelle previste nel contratto originario senza però
modificare il costo.
L’analisi dell’Anac non si limita, tuttavia, a passare in
rassegna la “fenomenologia della variante”. Il passaggio
cruciale, anzi, è quello successivo, che porta l’autorità a
evidenziare le ricadute che queste prassi possono avere in
termini di responsabilità a carico delle stazioni
appaltanti. Il Codice dei contratti (articolo 132 del Dlgs
163/2006) permette infatti di modificare il contratto
iniziale solo quando ricorrono precise circostanze, come le
cause o i rinvenimenti «imprevisti e imprevedibili» oppure
le «sopravvenute disposizioni legislative e regolamentari»
che mettono fuori regola l’appalto originario.
L’ampia
maggioranza dei casi arrivati all'Anac sono giustificati con
il primo gruppo di motivazioni, quelle legate ai fattori
imprevedibili, che però nelle relazioni dei responsabili del
procedimento spesso non sono dimostrate e servono «a
nascondere carenze progettuali». Quando il responsabile
unico del procedimento riporta nella relazione «circostanze
non veritiere» oppure «motivazioni incoerenti con gli
elementi di fatto», avverte il documento firmato da Cantone,
non si limita a perseguire «una scarsa trasparenza
amministrativa», ma rischia di «integrare la fattispecie
penalmente rilevante di falso in atto pubblico». Non solo,
perché?con la trasmissione della relazione all’Anac può
scattare la sanzione fino a 51.545 euro dedicata dal Codice
(articolo 6, comma 11 del Dlgs 163/2006) a chi «fornisce
informazioni o esibisce documenti non veritieri»: a far
scattare la sanzione sarebbe la stessa Autorità.
Conseguenze importanti possono ricadere anche sul
responsabile del procedimento che approva varianti «in
sanatoria», per regolarizzare opere già eseguite. Chi firma
queste correzioni ex post, spiega l’Anac, «finisce per
declinare alle proprie funzioni di controllo, nonché ai
compiti di vigilanza sull’ammissibilità delle varianti in
corso d’opera», e presta il fianco alle responsabilità
erariali e disciplinari (articolo Il Sole 24 Ore del 25.11.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Spazio agli incarichi per i pensionati.
Pubblico impiego. Una circolare limiterà il divieto.
Il divieto di conferire a
pensionati incarichi dirigenziali o direttivi, di studio o
di consulenza o, ancora, cariche di governo di
amministrazioni, enti o società controllate nonché
authority, compresa la Consob, non si applicherà ai
commissari straordinari nominati temporaneamente al vertice
di enti pubblici o per specifici mandati governativi. E lo
stesso vale per la nomina di eventuali sub-commissari.
Esclusi dal divieto saranno, poi, gli incarichi di ricerca
(l’amministrazione che li conferisce deve aver prima
definito uno specifico programma di ricerca) e quelli di
docenza, a patto che siano “effettivi” e non fatti per
aggirare il divieto. E consentiti saranno pure gli incarichi
in commissioni di concorso e gara oppure la partecipazione a
organi collegiali consultivi, come per esempio gli organi
collegiali delle scuole.
Eccole le attese eccezioni alla norma contenuta nel decreto
Madia (articolo 6 del Dl 90/2014), in vigore dal 25 giugno,
che ha perfezionato il divieto di affidare incarichi
soggetti in quiescenza. Sono specificate in una circolare
della Funzione pubblica di imminente uscita.
Un divieto già
voluto due anni fa dal Governo Monti (Dl 95/2012, articolo
5) ma che è stato facilmente aggirato con numerose nomine
successive, non solo governative. Ora il nuovo Esecutivo è
tornato sul punto con un orientamento rafforzato dalla
volontà di realizzare una vera e propria “staffetta
generazionale” nelle pubbliche amministrazioni, da
realizzare anche con strumenti come il divieto del
trattenimento in servizio, sul quale pure è attesa una
circolare interpretativa.
Tra i divieti che dovranno rispettare tutte le
amministrazioni la circolare interpretativa messa a punto a
palazzo Vidoni comprende anche quelli per contratti d’opera
intellettuale a pensionati. Ma non, per esempio, per altri
tipi di contratti d’opera, come un caso di cui s’è occupata
anche la Corte dei conti, di conferimenti d’incarico a un
falegname in pensione da parte di un ateneo universitario
per la realizzazione di un mobile. Possibili, inoltre,
incarichi di carattere professionale, come per esempio
quelli legati ad attività legale o sanitaria, a patto di non
ricadere nei casi super gettonati di studio e consulenza.
La circolare è molto attesa dalle amministrazioni che, in
queste settimane, hanno inviato numerosi quesiti alla
Funzione pubblica. Ma offre un’interpretazione che dovrebbe
proteggere la norma anche da eventuali ricorsi alla
Consulta, visto che si escluderebbe la volontà di qualunque
forma di discriminazione nei confronti dei pensionati.
Obiettivo vero è evitare aggiramenti a un divieto con
incarichi camuffati, in particolare di consulenza e studio,
con cui di fatto si sono finora attribuiti incarichi
direttivi.
Le nomine vietate sono quelle successive all’entrata in
vigore del decreto e vale per tutti i pensionati, compresi
quelli degli organi costituzionali, i quali ultimi si devono
adeguare alle nuove norme nell’ambito dello loro autonomia.
Nella circolare si invitano le amministrazioni anche a non
dare incarichi a persone prossime alla pensione, a meno di
non optare per la gratuità. Una carta, quest’ultima,
prevista dalla norma e che consente il superamento di tutti
i divieti indicati solo a patto che, appunto, l'incarico sia
gratuito, non più lungo di un anno e non sia prorogabile né
rinnovabile (articolo Il Sole 24 Ore del 25.11.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO: La polizza non è d’obbligo.
Amministratore senza responsabilità se si verifica un «caso
fortuito».
Assicurazioni. Contro le calamità (come i nubifragi) nessun
vincolo - Mandato dell’assemblea per il contratto.
Nubifragi e altre
calamità naturali che stanno flagellando la Penisola
spingono a chiedersi se ci siano delle reponsabilità (del
sindaco o del prefetto, della Protezione civile e anche
dell’amministratore di condominio) e se ci sia, per il
professionista, l’obbligo di assicurare l’edificio a tutela
delle parti comuni e di compiere tutti quegli atti
conservativi e quelle azioni a tutela della sicurezza del
condominio.
Nonostante il comune convincimento che l’amministratore sia
tenuto per legge ad assicurare l’immobile a lui affidato, la
normativa nulla prevede al riguardo. In particolare, la
giurisprudenza di legittimità (Cassazione civile, sezione
III, n. 15872 del 06.07.2010, confortata dalla Cassazione
civile 8233 del 03.04.1997 e 15735 del 13.08.2004) ha
affermato che «l’amministratore non è legittimato a
concludere il contratto di assicurazione del fabbricato se
non abbia ricevuto l’autorizzazione da una deliberazione
dell’assemblea dei partecipanti alla comunione».
La Corte aggiunge che l’articolo 1130, n. 4 del Codice
civile obbliga l’amministratore a eseguire gli atti
conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni
dell’edificio, intendendo con ciò riferirsi ai soli atti
materiali (riparazione dei muri portanti, di tetti e
lastrici) e giudiziali (azioni contro comportamenti illeciti
posti in essere da terzi) necessari per la salvaguardia
della integrità dell’edificio.
Tra questi atti non si può far rientrare il contratto di
assicurazione, perché questo non ha gli scopi conservativi
ai quali si riferisce la norma, avendo, viceversa, come suo
unico e diverso fine quello di evitare pregiudizi economici
ai proprietari dell’edificio danneggiato.
Il Governo, dopo averci provato invano con il Dl 59/2012,
che prevedeva l’obbligo di estendere la garanzia
assicurativa anche alle calamità naturali, consentendo uno
sgravio fiscale (ma questa parte non fu convertita in
legge), ora sta effettuando studi per introdurre
l’obbligatorietà dell’assicurazione sui fabbricati in caso
di calamità naturali, senza che questo comporti, come invece
oggi accade nelle zone a rischio, un eccessivo aumento dei
premi assicurativi per il privato.
Ma che cosa succede all’amministratore quando il fabbricato
viene colpito da un evento climatico estremo? La Cassazione,
con ordinanza 3767 del 18.02.2014, esprimendosi in un
caso in cui il responsabile poteva essere considerato il
Comune, ha ritenuto che la responsabilità oggettiva per le
cose in custodia in base all’articolo 2015 del Codice
civile, che ben può essere attribuita all’amministratore per
i beni e gli impianti comuni in condominio, può essere
esclusa solamente dal caso fortuito che interrompe il nesso
causale tra i beni sottoposti alla sua custodia e il danno
lamentato, intendendosi come «caso fortuito» un fatto
estraneo, eccezionale e imprevedibile e, quindi,
inevitabile.
Insomma, la Corte ha individuato il caso fortuito nel
nubifragio che colpì il Comune di Acri tra la notte del 27 e
28.11.1984, e che comportò l’allagamento del
fabbricato che si sarebbe comunque verificato, a prescindere
dalla idoneità o meno delle opere poste in essere
dall’amministratore a evitare o contenere tale evento.
Chiarito questo aspetto, occorre affrontarne un altro.
L’amministratore di condominio, in caso di un evento
naturale di estrema entità e gravità, può essere ritenuto
responsabile penalmente? La responsabilità penale
dell’amministratore va ricondotta nell’ambito della
disposizione di cui all’articolo 40, secondo comma, del
Codice penale, per cui «non impedire un evento che si ha
l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo». Per
rispondere del mancato impedimento di un evento, quindi, è
necessario che esista un obbligo giuridico di attivarsi allo
scopo.
È quindi chiaro che l’amministratore non ha l’obbligo di
assicurare il fabbricato, se non su espressa autorizzazione
dell’assemblea di condominio e che questi eventi climatici
sono considerati casi fortuiti che interrompono il nesso
causale nella responsabilità oggettiva dei beni e degli
impianti in custodia dell’amministratore. Quindi, anche
sotto questo profilo l’amministratore non potrà essere
ritenuto responsabile delle conseguenze e dei danni
cagionati dall’evento medesimo (articolo Il Sole 24 Ore del 25.11.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO: Dopo la condanna non è facile tornare alla professione.
Reati. Lo strumento della riabilitazione.
L’amministratore
condannato penalmente può tornare a svolgere l’attività ma
solo a determinate condizioni.
L’articolo 71-bis, comma 1, lettera b) delle Disposizioni di
attuazione del Codice civile, introdotto dalla legge
220/2012, stabilisce che non possono svolgere l’attività di
amministratore coloro che sono stati condannati per delitti
contro la pubblica amministrazione o contro
l’amministrazione della giustizia, la fede pubblica, il
patrimonio o per ogni altro delitto non colposo per il quale
la legge commina la pena della reclusione non inferiore, nel
minimo, a due anni e, nel massimo, a cinque anni. Sono
altresì esclusi (lettera c) i sottoposti a misure di
prevenzione divenute definitive salvo che non sia la
riabilitazione.
Dal confronto delle due norme si deduce che la
riabilitazione (articolo 178 del Codice penale) viene
specificatamente prevista solo nel caso in cui vi sia stata
la sottoposizione a misure di prevenzione divenute
definitive (lettera c), mentre non viene fatto alcun
riferimento a tale istituto nel caso di condanna
dell’amministratore, con sentenza passata in giudicato, per
uno di quei reati indicati nella lettera b. L’articolo 14
delle preleggi al Codice civile, esclude infatti
l’interpretazione analogica in ordine alle norme eccezionali
(come quella dell’articolo 71-bis). Per tali norme vige il
principio di stretta interpretazione.
L’istituto della riabilitazione, però, può essere
applicabile anche ai condannati per i delitti di cui al
citato primo comma, lettera b) quando ricorrano determinate
condizioni. La Cassazione (sentenza 6617/2000) ha infatti
chiarito che, ai fini della decorrenza del termine per poter
ottenere la riabilitazione, si fa riferimento, oltre
all’avvenuta esecuzione della pena, anche alla sua eventuale
estinzione per altra causa, quale è quella prodotta,
appunto, dalla sospensione condizionale della pena (ma non
dall’abrogazione o depenalizzazione del reato).
Per presentare la domanda di riabilitazione servono questi
presupposti: a) devono essere trascorsi almeno tre anni
(otto, se vi è stata dichiarazione di recidiva e dieci, se
vi è dichiarazione di delinquenza abituale, professionale o
per tendenza) dal momento in cui la pena è espiata,
l’ammenda o multa pagata, o dalla data del passaggio in
giudicato della sentenza in caso di pena sospesa; b) durante
il periodo il condannato non deve avere denunce o pendenze;
c) il richiedente non deve essere stato sottoposto a misura
di sicurezza (salvo sia stata revocata); d) deve essere
stato risarcito il danno.
La riabilitazione consente alla persona condannata, che ha
manifestato segni di ravvedimento, di ottenere l’estinzione
delle pene accessorie e di ogni altro effetto penale della
condanna. La persona riacquista le capacità eventualmente
perdute e la capacità di esercitare quei diritti e quei
doveri ai quali aveva dovuto rinunciare a causa della
sentenza di condanna (articolo Il Sole 24 Ore del 25.11.2014). |
ENTI LOCALI: Conti p.a., grandi pulizie al via. Occorre riaccertare
crediti e debiti: sì solo a quelli esigibili.
Conto alla rovescia per l'operatività della riforma della
contabilità di regioni ed enti locali.
Dal prossimo anno, i bilanci di regioni ed enti locali
cambieranno pelle.
Lo prevede la riforma della contabilità
pubblica varata dal dlgs 118/2011 (come modificato e
integrato dal recente dlgs 126/2014), le cui disposizioni,
dopo un periodo di sperimentazione triennale che ha
coinvolto una minoranza di amministrazioni, saranno
applicabili a tutte a decorrere dal 01.01.2015.
Si
tratta di una rivoluzione finora rimasta sotto traccia e
perlopiù confinata nel mondo dei «ragionieri» pubblici. Ma
le sue implicazioni andranno ben oltre, coinvolgendo in modo
diretto i professionisti dei controlli, ossia i revisori dei
conti, e indirettamente tutti gli stakeholders della p.a.
locale (fornitori e semplici cittadini).
In estrema sintesi, la riforma (che è stata portata avanti
in parallelo anche per le altre amministrazioni pubbliche)
si prefigge due obiettivi di fondo: 1) uniformare il
linguaggio contabile di tutti i livelli di governo, in modo
da rendere i rispettivi bilanci facilmente confrontabili e
aggregabili; 2) fare in modo che i conti siano più
trasparenti, disinnescando la prassi (diffusa) di nascondere
le magagne finanziarie sotto il tappeto.
La normativa finora vigente, in effetti, non si è dimostrata
in grado di rappresentare correttamente la situazione
finanziaria, patrimoniale ed economica degli enti, come
confermato dalle difficoltà nel determinare l'esatta
dimensione dello stock di debiti commerciali.
Inoltre, la babele di regole di registrazione di entrate e
spese ha creato enormi disallineamenti fra debiti e crediti
reciproci: per esempio, molti comuni attendono di ricevere
dalle regioni somme che per queste ultime non sono dovute o
lo sono con una tempistica diversa.
Per ovviare a tali criticità, la riforma mette in campo due
strumenti: da un lato, definisce un unico sistema di
classificazione contabile (un po' come fa il codice civile
per le imprese private). Si tratta del cosiddetto piano dei
conti integrato, che consente la rilevazione contestuale dei
fatti gestionali in termini finanziari ed
economico-patrimoniali. In tal modo, sarà possibile
confrontare in modo più agevole le singole voci fra i
diversi enti.
Dall'altro lato, introduce in contabilità finanziaria una
nuova regola (la cosiddetta competenza potenziata) per la
copertura delle spese. In pratica, queste ultime dovranno
obbligatoriamente essere finanziate o da entrate già
disponibili o da entrate che diventeranno esigibili
contestualmente alle spese medesime. In pratica, nel nuovo
regime saranno tassativamente vietati gli impieghi di
risorse future, in modo da responsabilizzare gli
amministratori ed evitare l'avvio di opere prive di adeguate
coperture finanziarie. Simmetricamente, sarà possibile
verificare in modo più agevole lo stato di avanzamento dei
singoli lavori, individuando i ritardi e i possibili danni
per le casse pubbliche (si pensi alla prassi, non
infrequente purtroppo, delle amministrazioni che attivano
prestiti onerosi per finanziare opere che non partono).
Nella nuova contabilità, inoltre, i bilanci dovranno
contenere solo crediti e debiti (che in contabilità pubblica
sia chiamano residui attivi e residui passivi)
effettivamente esigibili, evitando di gonfiare l'attivo o di
tenere ferme risorse che non verranno utilizzate e
dovrebbero essere riprogrammate.
Ciò imporrà fin da subito una profonda ripulitura dei conti,
che partirà da quelli attuali, attraverso l'obbligo di
procedere (contestualmente all'approvazione del rendiconto
2014, ossia entro il prossimo 30 aprile) al cosiddetto
riaccertamento straordinario dei residui (attivi e passivi).
In molti casi, tale operazione farà emergere dei disavanzi
(talora anche consistenti) che dovranno essere assorbiti
entro dieci anni.
Sempre per puntellare gli equilibri finanziari, infine,
viene imposto di congelare una quota delle proprie entrate
di dubbia o difficile esazione in un fondo non impegnabile,
che dovrà essere attentamente monitorato nel corso della
gestione e in sede di bilancio consuntivo per valutarne
l'adeguatezza ed eventualmente integrarlo. Questo per
evitare che risorse «ballerine» vengano utilizzare per
finanziare spese certe, con il rischio che nei già
traballanti conti comunali si aprano ulteriori buchi.
L'entità dell'accantonamento a fondo dovrà essere
direttamente proporzionale all'entità delle previsioni di
entrata e inversamente proporzionale alla capacità di
riscossione mostrata da ciascun ente nel quinquennio
precedente: in altri termini, tanto più si prevede di
incassare e tanto meno si è effettivamente incassato negli
ultimi cinque anni, tanto più alto dovrà essere il fondo.
La riforma avrà un avvio graduale: per il primo anno,
infatti, la funzione autorizzatoria sarà svolta ancora dai
vecchi schemi di bilancio, a cui saranno affiancati quelli
nuovi con funzione conoscitiva. La grammatica, però, sarà
già quella dettata dalla competenza finanziaria potenziata,
con obbligo di costituire il fondo crediti di dubbia
esigibilità
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
SICUREZZA LAVORO: Valutazioni rischi al raddoppio. Atti duplicati in caso di
nuove imprese o rielaborazione.
Le misure in materia di lavoro della legge europea 2013-bis,
operative dal 25/2011.
Le scartoffie vincono ancora. Di turno, stavolta, è la
sicurezza del lavoro con la duplicazione di atti e documenti
che comprovino l'effettuazione della valutazione dei rischi.
Dal 25 novembre, infatti, l'impresa che diventi «datore di
lavoro» (cioè assuma lavoratori, non necessariamente con
contratto dipendente) deve «immediatamente» dimostrare con
«idonea documentazione» di avere adempiuto l'obbligo di
valutazione rischi di cui potrà/dovrà fare dettagliata
relazione in uno specifico documento (DVR) entro 90 giorni.
Stessa cosa in caso di rielaborazione della valutazione
rischi, in occasione di modifiche del processo produttivo o
dell'organizzazione del lavoro o per altre necessità:
l'impresa è tenuta a dimostrare «immediatamente» con «idonea
documentazione» di aver effettuato la rielaborazione, anche
se di essa potrà/dovrà aggiornare il DVR entro 30 giorni. In
entrambi i casi (nuove imprese/rielaborazione), inoltre, il
datore di lavoro deve dare «immediata» comunicazione al
rappresentante dei lavoratori (Rls), che deve peraltro poter
accedere, su sua richiesta, alla «idonea documentazione».
A
introdurre i nuovi obblighi è la legge n. 161/2014, c.d.
Comunitaria 2013-bis, in vigore proprio dal 25 novembre
(pubblicata sul S.O. n. 83 alla G.U. n. 261/2014), che
modifica gli artt. 28 e 29 del T.u. sicurezza approvato dal dlgs n. 81/2008.
La valutazione dei rischi.
Il T.u. sicurezza definisce la valutazione dei rischi come
«valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la
salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell'ambito
dell'organizzazione in cui prestano la propria attività
finalizzata a individuare le adeguate misure di prevenzione
e di protezione e a elaborare il programma delle misure atte
a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute
e sicurezza».
L'operazione va effettuata da tutti i datori
di lavoro, in collaborazione con il responsabile del
servizio di prevenzione e protezione (Rspp: persona in
possesso delle capacità e dei requisiti professionali
prescritti dal T.u. all'art. 32, designata dal datore di
lavoro a cui risponde, per coordinare il servizio di
prevenzione e protezione dai rischi in azienda) e previa
consultazione del rappresentante dei lavoratori per la
sicurezza (Rls: persona eletta dai lavoratori per essere
rappresentati per ciò che riguarda gli aspetti di salute e
sicurezza sul lavoro), nonché, nei casi di sorveglianza
sanitaria, con la collaborazione del medico competente.
Il DVR.
Al termine della procedura di valutazione deve essere
elaborato uno specifico documento che può essere tenuto su
supporto informatico, purché sia munito di data certa. Il
documento, in particolare, deve contenere:
a) una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la
sicurezza e la salute durante l'attività lavorativa, nella
quale siano specificati i criteri adottati per la
valutazione stessa;
b) l'indicazione delle misure di prevenzione e protezione
attuate e dei dispositivi di protezione individuali
adottati;
c) il programma delle misure ritenute opportune per
garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di
sicurezza;
d) l'individuazione delle procedure per l'attuazione delle
misure da realizzare, nonché dei ruoli dell'organizzazione
aziendale che vi debbono provvedere;
e) l'indicazione del nominativo del responsabile del
servizio di prevenzione e protezione (Rspp), del
rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (Rls) e del
medico competente che ha partecipato alla valutazione del
rischio;
f) l'individuazione delle mansioni che eventualmente
espongono i lavoratori a rischi specifici che richiedono una
riconosciuta capacità professionale, specifica esperienza,
adeguata formazione e addestramento.
Nuovi datori di lavoro.
L'art. 28 prevede che, in caso di costituzione di nuova
impresa, il datore di lavoro è tenuto a effettuare
immediatamente la valutazione dei rischi e a elaborare il
DVR entro 90 giorni. Ciò vale fino al 24 novembre; dal
giorno seguente opera la norma della legge n. 161/2014 (art.
13, comma 1, lett. a), che aggiunge in coda al comma 3-bis
del citato art. 28 i seguenti periodi: «Anche in caso di
costituzione di nuova impresa, il datore di lavoro deve
comunque dare immediata evidenza attraverso idonea
documentazione dell'adempimento degli obblighi di cui al
comma 2, lettere b), c), d), e) ed f), e al comma 3, e
immediata comunicazione al rappresentante dei lavoratori
sicurezza. A tale documentazione accede, su richiesta, il
rappresentante dei lavoratori per la sicurezza».
Gli
obblighi previsti al comma 2, lettere b, c, d, e, f sono
indicati in tabella. Del loro assolvimento, in virtù della
disposizione in vigore dal 25 novembre, il datore di lavoro
deve dare «immediata» evidenza con «idonea documentazione»;
e inoltre deve darne «immediata» comunicazione al
rappresentante dei lavoratori (Rls) che, su richiesta, potrà
accedere alla documentazione. Il nuovo adempimento,
pertanto, costringerà le imprese a elaborare prima il
documento di valutazione dei rischi, cioè prima di procedere
alla prima assunzione di personale (che la trasformerà in un
«datore di lavoro» soggetto alle norme sulla sicurezza sul
lavoro).
Rielaborazione della valutazione rischi.
L'art. 29 del T.u. sicurezza prevede che la valutazione dei
rischi deve essere immediatamente rielaborata in occasione
di modifiche del processo produttivo oppure
dell'organizzazione del lavoro significative ai fini della
salute e sicurezza dei lavoratori oppure in relazione al
grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della
protezione oppure in seguito a infortuni significativi
oppure quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne
evidenzino la necessità.
A seguito della rielaborazione,
anche le misure di prevenzione debbono essere aggiornate; e
il documento di valutazione rischi (DVR) deve essere
rielaborato nel termine di 30 giorni. Ciò vale fino al 24
novembre; dal giorno seguente opera la norma della legge n.
161/2014 (art. 13, comma 1, lett. b, che aggiunge in coda al
comma 3 del citato art. 29 i seguenti periodi: «Anche in
caso di rielaborazione della valutazione dei rischi, il
datore di lavoro deve comunque dare immediata evidenza,
attraverso idonea documentazione, dell'aggiornamento delle
misure di prevenzione e immediata comunicazione al
rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. A tale
documentazione accede, su richiesta, il rappresentante dei
lavoratori per la sicurezza».
Responsabilità del datore di lavoro.
Il fine della modifica legislativa è quello di risolvere la
procedura d'infrazione n. 2010/4227 per il mancato corretto
recepimento degli artt. 5 e 9 della direttiva Ue 89/391 in
materia di sicurezza sul lavoro che avrebbe avuto, secondo
la commissione europea, l'effetto di una sorta di
«deresponsabilizzazione» del datore di lavoro, nel periodo
di vacatio dei termini (90/30 giorni) per la redazione del
documento di valutazione.
In particolare, la Commissione
rileva che l'ordinamento italiano sembrerebbe permettere ai
datori di lavoro di essere dispensati, sia pure per un tempo
limitato (90/30 giorni), dall'obbligo di disporre di un
documento di valutazione rischi (anche se la valutazione è
immediata) nonché dell'obbligo di assicurarsi che i
lavoratori abbiano accesso al documento stesso. Questo ad
avviso della Commissione appare contrario alla direttiva
89/391 la quale non lascia spazio all'interpretazione degli
Stati membri sul momento di formalizzazione della
valutazione dei rischi (art. 9).
Inoltre, il rinvio della
redazione del documento di valutazione rischi potrebbe
comportare per un periodo non trascurabile la mancata o
insufficiente valutazione del rischio per i lavoratori,
quindi l'insufficiente tutela degli stessi, perché ad avviso
della Commissione solo la formalizzazione di un documento
costituisce valida certificazione dell'effettiva esecuzione
della valutazione dei rischi
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Tutela acque verso standard Ue. Stretta contro
l'inquinamento acustico e il legno illegale.
In arrivo l'adeguamento a norme comunitarie anche su
valutazione impatto ambientale.
Stretta su sostanze inquinanti nelle acque e trattamento
delle reflue, nuove regole su inquinamento acustico da
infrastrutture, attività industriali e impianti eolici.
Con
l'approdo sulla Gazzetta ufficiale delle attese «Leggi
europee 2013 - bis» unitamente a un dm del Minambiente si
riduce il gap tra le norme ambientali nazionali e quelle
comunitarie.
Le nuove leggi 154/2014 e 161/2014 avviano, infatti, il
recepimento entro tempi certi delle direttive Ue su tutela
delle acque e abbattimento del rumore, mentre il dm 17.10.2014 rivede gli standard di qualità delle acque con
nuovi obblighi di depurazione.
A spingere verso
l'adeguamento alle ultime norme verdi Ue concorrono anche il
decreto legislativo in corso di pubblicazione sulla lotta al
legno da disboscamento illegale e la «Legge di delegazione
europea 2014» licenziata dal Consiglio dei ministri il 30.10.2014 che aprirà la strada all'attuazione delle più
recenti regole comunitarie sulla valutazione di impatto
ambientale.
Sostanze pericolose nelle acque.
È affidato al Governo dalla legge 154/2014 (cd. «Legge di
delegazione europea 2013 - bis», G.U. 28.10.2014 n.
251) il recepimento della direttiva 2013/39/Ue che allarga
l'elenco delle cd. «sostanze prioritari», ossia delle
particelle chimiche che presentano un alto rischio per
l'ambiente acquatico.
Mediante decreto legislativo
l'esecutivo dovrà, infatti, entro luglio 2015 tradurre sul
piano nazionale le nuove disposizioni recate dal
provvedimento Ue che (mediante la modifica delle precedenti
direttive 2000/60/Ue e 2008/105/Ue) introduce 12 nuove
sostanze tra quelle da monitorare. L'upgrade delle norme
nazionali arriverà presumibilmente con la riscrittura del dlgs 152/2006 (cd. «Codice ambientale»), nella cui Parte III
trovano già collocazione le regole sancite dalle citate
direttive 2000 e 2008.
Standard qualità acque.
Con decreto ministeriale 17.10.2014 (G.U. del 10.11.2014, n. 261) il dicastero dell'ambiente ha inoltre
definito (in attuazione del dlgs 190/2005, atto di
recepimento della direttiva 2008/56/Ce) i nuovi requisiti e
traguardi per conseguire il buono stato ambientale delle
acque marine.
Tra le prescrizioni direttamente applicabili
vi è l'obbligo di prevedere sistemi di trattamento
secondario sia delle acque reflue provenienti da agglomerati
con carico generato da oltre 2 mila abitanti e punto di
scarico in acque interne, sia di quelle derivanti da
insediamenti di oltre 10 mila abitanti con scarico in acque
marine costiere. Lo stesso Dm prescrive l'obbligo di un
trattamento più spinto (di quello attualmente previsto
dall'articolo 105, comma 3 del dlgs 152/2006) per le acque
reflue urbane provenienti da agglomerati con oltre 10 mila
abitanti che scaricano in acque recipienti individuate in
aree sensibili, ove non si riesca a dimostrare che la
percentuale di fosforo e azoto in entrata agli impianti di
depurazione sia almeno del 75% inferiore a quella prevista
dal citato «Codice ambientale».
Così come dovranno, infine,
essere ridotti i carichi di nutrienti derivanti da fonti
diffuse afferenti all'ambiente marino, e questo mediante
apporti fluviali e dilavamenti.
Inquinamento acustico.
Parte con la delega conferita al governo dalla legge
161/2014 (cd. «Europea 2013 - bis», G.U. del 10.11.2014, n. 261) l'adeguamento alle norme Ue in materia di
contenimento del rumore nell'ambiente esterno ed abitativo.
Mediante decreti legislativi l'Esecutivo dovrà entro il
maggio 2016 dare completa attuazione alle prescrizioni
recate dalle direttive 2002/49/CE, 2000/14/Ce e 2006/123/Ce
e dal regolamento (Ce) n. 765/2008 mediante la riscrittura
delle norme nazionali recate dalla legge 447/1995 (e
relativi attuativi) e dal dlgs 194/2005 (rimasto invece
sostanzialmente inapplicato, per mancanza dei relativi
decreti regolamentari).
Con la riformulazione della
disciplina in parola (atto necessario per dare vigore alle
novità previste dal decreto del 2005 e armonizzare, di
conseguenza, quella della legge del 1995) arriveranno anche
nuove regole per l'abbattimento dell'inquinamento acustico
proveniente dalle grandi infrastrutture di trasporto (come
aeroporti, assi ferroviari e stradali ad alta percorrenza)
ed attività industriali (porti compresi).
Saranno altresì
introdotte nuove regole per il rumore prodotto da attività
sportive e impianti eolici, così come saranno rivisti i
requisiti acustici degli edifici (già previsti dal dpcm 05.12.1997, ma disapplicabili dal 2009 in virtù della
legge 96/2010 - cd. «Comunitaria 2009» - e della sentenza
della Corte Costituzionale 103/2013).
Le altre novità in arrivo.
Entro la deadline fissata dall'Ue nel 20.05.2016
l'Italia dovrà adeguare l'Ordinamento interno (anche in
questo caso mediante la riformulazione del Dlgs 152/2006)
alla all'esordiente direttiva 2014/101/Ue (Guue 31.10.2014 n. L 311) recante le norme tecniche sul monitoraggio
della qualità biologica delle acque (in aggiornamento di
quelle previste dal citato e analogo provvedimento
2000/60/Ce).
Scatteranno invece a breve, dopo l'imminente
pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del decreto
legislativo che rende operative sul piano nazionale le
regole contro il disboscamento selvaggio sancite dai
regolamenti Ue 2173/2005 e 995/2010/Ue, sia il divieto
d'importare legno illegalmente tagliato che gli obblighi di
tracciamento e iscrizione ad apposito Registro per gli
operatori del settore. Il tutto presidiato da sanzioni che
puniranno a titolo di illecito penale i casi più gravi con
l'arresto fino ad un anno e la confisca del corpo del reato.
Arriverà infine con la nuova legge di delegazione europea
2014 (il cui Ddl di iniziativa governativa è già stato
licenziato dal Consiglio dei ministri lo scorso 30 ottobre)
il recepimento della direttiva 2014/52/Ue sulla valutazione
dell'impatto ambientale di progetti pubblici e privati, le
cui norme imporranno la riscrittura (entro il termine finale
del 16.05.2017 imposto dall'Ue) della Parte II del Dlgs
152/2006, dedicata alla materia.
Il nuovo provvedimento Ue, lo ricordiamo, modifica la
direttiva madre 2011/92/Ue introducendo, tra le altre, nuovi
aspetti da considerare nella valutazione ambientale, come
sensibilità di determinate aree, gravi incidenti e calamità
naturali dovuti a cambiamenti climatici, impatto delle
demolizioni, rischi per il patrimonio culturale dovuti alla
realizzazione di nuovi progetti
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rotatorie multiple, da destra si vince.
CIRCOLAZIONE/2 Parere del Mintrasporti.
Nell'accesso alle rotatorie stradali con ingresso multiplo
il conducente posizionato sulla corsia di sinistra deve dare
la precedenza a quello in arrivo dalla sua destra.
Lo ha evidenziato il Ministero dei trasporti con il
parere n. 2534/2014.
È complesso circolare affiancati nelle rotatorie stradali e
in prossimità di questi manufatti. Non solo perché
sconsigliato ma anche perché gli autisti sono puntuali nel
tagliare la strada ed effettuare manovre repentine. Un
piccolo comune emiliano ha quindi richiesto chiarimenti al
ministero per limitare i rischi e disciplinare meglio la
circolazione.
Le rotatorie di dimensioni più limitate sono state
disciplinate con il dm 19.04.2006, specifica innanzitutto il
parere centrale, laddove al paragrafo 4.5 specifica che la
circolazione sull'anello deve avvenire sempre su un'unica
corsia «lungo la quale i veicoli devono necessariamente
procedere in accodamento, godendo del diritto di precedenza».
I maggiori problemi sorgono per i manufatti che non
rispettano questo dm e sono quindi costruiti per regolare la
circolazione di maggiori volumi di traffico, ammettendo la
circolazione su più corsie. In questi casi le criticità si
verificano nell'ingresso e nell'uscita dal manufatto.
L'immissione a due corsie è regolata dalla disciplina
generale della precedenza a destra, specifica il ministero.
Quindi l'utente posizionato sulla corsia di sinistra
nell'ingresso sull'anello deve dare la precedenza al
conducente posizionato sulla corsia di destra. Se le
condizioni del traffico lo richiedono le due corsie
potrebbero essere specializzate, conclude il parere, previa
idonea segnaletica ad hoc. L'immissione a destra
indirizzerebbe verso la prima uscita mentre l'accesso a
sinistra per tutte le altre direzioni di marcia
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Varianti
ai permessi: possibile la Scia. Titoli abilitativi: come
cambiano le procedure.
Il decreto Sblocca Italia accorcia la lista degli interventi
edilizi realizzabili con la dichiarazione di inizio attività
(Dia) e amplia l'elenco di quelli per i quali è sufficiente
la segnalazione certificata di inizio attività (Scia).
Diventa anche più facile realizzare, in regime di attività
di edilizia libera, alcune tipologie di manutenzioni
straordinarie.
Con le modifiche introdotte dal Dl 133/2014 all'articolo 22
del Dpr 380/2001, d'ora in avanti potranno essere eseguiti
con Scia, e non più con Dia, tutti gli interventi non
classificati tra le attività di edilizia libera e quelli per
i quali non è richiesto il permesso di costruire, a
condizione che siano conformi alle previsioni degli
strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della
disciplina urbanistico-edilizia vigente. Di fatto si
restringono (... continua)
(articolo Il Sole 24 Ore del
24.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sanzioni rafforzate sui mini-abusi. Mille euro
per chi non invia all'ufficio la comunicazione di inizio
lavori.
Dl sblocca-Italia. Punita anche l'inottemperanza all'ordine
di demolizione con una multa fino a 20mila euro.
Avviare ristrutturazioni di immobili o
nuove costruzioni senza essere in regola con i titoli
edilizi necessari costa sempre di più.
Con la legge di conversione del Dl 133/2014 sblocca-Italia
(legge 164/2014) sono state introdotte sanzioni maggiorate a
carico di chi trasgredisce le regole che autorizzano nuove
costruzioni e le ristrutturazioni. (... continua)
(articolo Il Sole 24 Ore del
24.11.2014). |
APPALTI: Sugli
appalti controlli solo formali. Quasi assente la valutazione
su fornitori ed esecuzione dei lavori.
Contratti. L'analisi di PromoPa Fondazione: nel 68% dei casi
si sceglie in base al prezzo più basso.
Le stazioni appaltanti fanno ampio
utilizzo delle procedure negoziate per l'affidamento degli
appalti, in un contesto di forte contrazione del mercato e
con una maggiore complessità dei percorsi selettivi.
La fondazione PromoPA e l'Università di Roma Tor Vergata
hanno analizzato, nell'edizione 2014 del rapporto «Come
appalta la Pa» (che sarà presentato domani a Roma alla
sede Ance) le dinamiche del sistema degli affidamenti di
lavori, servizi e forniture, mediante un confronto con gli
esperti delle amministrazioni aggiudicatrici e
l'elaborazione delle informazioni rilasciate dall'Autorità
di vigilanza. (... continua)
(articolo Il Sole 24 Ore del
24.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: Entro
giovedì primi "censimenti" dalle Province. Legge Dalrio. La
staffetta con le Regioni.
Le Province devono cominciare a svolgere da subito, e le
città metropolitane dovranno cominciare dal prossimo 1°
gennaio, i compiti loro attribuiti in materia di minoranze
linguistiche, mentre l'esercizio delle funzioni trasferite
dalla Regioni sarà fissato da queste.
Entro novembre le Province dovranno censire (... continua)
(articolo Il Sole 24 Ore del
24.11.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi edilizi, multe a chi non demolisce.
Sanzioni (reiterabili) fino a 20mila euro a carico
dell'attuale proprietario dell'immobile.
Prime incertezze applicative sul decreto legge 133/2014
(cosiddetto "Sblocca Italia"), convertito nella legge 164/2014
ed entrato in vigore dal 12 novembre scorso.
La norma prevede, infatti, un'immediata sanzione pecuniaria
tra 2mila e 20mila euro per gli abusi edilizi di maggior
calibro e in particolare per i casi di demolizioni non
eseguite spontaneamente.
Dopo il pagamento di una prima sanzione, imposta dalla legge
statale, le Regioni potranno prevedere che le sanzioni
stesse siano periodicamente reiterabili qualora l'ordine di
demolizione non venga eseguito nemmeno dopo il primo
pagamento. Questo rischio di sanzioni rinnovate ciclicamente
riguarda gli interventi realizzati senza permesso di
costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali
(articolo 31, commi 4-bis e 4-quater del Dpr 380/2001,
introdotti dalla legge 164/2014).
Sono interessati dalla novità una schiera di abusivisti,
destinatari di ordinanze non eseguite, che confidavano
nell'inerzia delle amministrazioni o nelle lungaggini della
giustizia amministrativa. Oggi, proprio per rimediare a
situazioni di abusivismo rimaste nel limbo della mancata
esecuzione, l'articolo 17 del Dl 133/2014 prevede una
sanzione supplementare collegata alla mera inottemperanza
all'ordine di ripristino e quindi non sostitutiva della
demolizione.
Chi realizza un abuso edilizio integrale (senza permesso di
costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali)
ha 90 giorni di tempo per eliminarlo o per mettersi in
regola con un eventuale permesso in sanatoria. Già dal 91º
giorno successivo all'invito del Comune a demolire (articolo
31 del Dpr 380/2001, Testo Unico Edilizia), le Regioni
potranno deliberare la reiterabilità della sanzione, facendo
scattare una nuova sanzione pecuniaria che potrebbe essere
anche trimestrale, trattandosi di abusi edilizi di
particolare gravità.
Indipendentemente dalla reiterazione, che spetta agli enti
territoriali decidere, la prima richiesta, appunto da 2mila
a 20mila euro, è oggi inevitabile perché prevista
direttamente dal legislatore statale. Questa sanzione
pecuniaria colpisce il proprietario attuale dell'immobile,
senza che abbia rilievo la circostanza che l'abuso sia stato
eseguito da altri o anni prima. La sanzione colpisce anche
coloro i quali hanno un ricorso pendente, visto che ne sono
esclusi solo coloro i quali hanno ottenuto un sospensiva da
parte del giudice amministrativo.
Poiché si tratta di una sanzione di tipo dissuasivo,
finalizzata a rendere effettiva la demolizione disposta dal
Comune, risulta difficile pensare alla possibilità di un
ricorso che ostacoli la riscossione: la sanzione pecuniaria
completa, infatti, la reazione dell'ordinamento contro gli
abusi di maggiori dimensioni e non riapre i termini per
contestare innanzi il Tar l'ordine di demolizione del Comune
(che andava impugnato nei 60 giorni).
In taluni casi, si può pensare a chiedere una sanatoria
specialmente se l'evoluzione dello strumento urbanistico
recepisce l'abuso e quindi rende possibile chiedere il
rilascio del permesso di costruire che sani la situazione:
sul punto, tuttavia, vi è un contrasto giurisprudenziale in
quanto gli articoli 36 e 37 del Dpr 380/2001 richiedono una
doppia conformità per la sanatoria, ossia la conformità sia
al momento della realizzazione dell'abuso, sia al momento
della richiesta di sanatoria.
In specifici casi può essere possibile far presente
l'esistenza di difficoltà tecniche nell'eliminazione
dell'abuso (quando cioè si intaccherebbe la struttura di un
edificio, come prevede l'articolo 33 del Dpr 380/2001 per le
ristrutturazioni in totale difformità). Anche questa,
tuttavia, è una strada difficile da percorrere, perché
presuppone un vero e proprio dissesto statico di opere
illegittime nell'eliminazione dell'abuso
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Le altre novità dello «Sblocca Italia»
COMUNICAZIONE D'INIZIO ATTIVITÀ
Nel decreto legge 133/14 sono state introdotte alcune
modifiche alla disciplina relativa al Testo unico
dell'edilizia sull'attività edilizia libera.
Si tratta, nello specifico, degli interventi per i quali non
è richiesto alcun titolo abilitativo e che si possono
effettuare liberamente.
Per quanto concerne gli interventi esenti anche dalla
comunicazione d'inizio lavori, alcune novità sono previste
poi in materia di manutenzione ordinaria.
Il Dl 133/2014 inserisce, infatti, un richiamo normativo al
fine di definire gli interventi di manutenzione ordinaria,
ossia gli interventi edilizi che riguardano le opere di
riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture
degli edifici e quelle necessarie a integrare o mantenere in
efficienza gli impianti tecnologici esistenti
SEGNALAZIONE CERTIFICATA D'INIZIO ATTIVITÀ
La Segnalazione certificata di inizio attività (Scia) prende
il posto a tutti gli effetti della Dia e si applica in tutti
i casi intermedi rispetto a quelli di calibro superiore
all'edilizia libera (articolo 6 Dpr 380/2001, edilizia
libera) e di calibro inferiore all'attività che richiede
permesso di costruire (articolo 10 Dpr 380/2001). Serve una
doppia valutazione di coerenza alla previsione e di
conformità alle previsioni di strumenti urbanistici,
regolamenti edilizi e della disciplina urbanistica edilizia
vigente. L'errore non è consentito perché se c'è discordanza
tra le previsioni del Testo unico e le normative locali,
prevale la norma più di dettaglio e cioè quella che
motivatamente imponga un titolo diverso dalla Scia. Il
limite massimo per modificare con Scia il permesso di
costruire, è rappresentato dalla dichiarazione di
ultimazione dei lavori
PERMESSO DI COSTRUIRE
Lo Sblocca Italia introduce due novità in materia di
permesso di costruire.
La prima riguarda il termine per l'istruttoria; non è,
infatti, più prevista una durata doppia (120 e non 60
giorni) per i Comuni con popolazione superiore ai 100mila
abitanti.
La possibilità di avere tempi più lunghi per l'istruttoria
viene mantenuta solo per i progetti particolarmente
complessi.
In tutti i Comuni il permesso di costruire deve quindi
essere rilasciato entro 90 giorni (60 giorni per
l'istruttoria della domanda e 30 per la decisione).
Il Dl 133/2014 ha inoltre ampliato i casi in cui è possibile
ricorrere alla proroga del permesso di costruire mentre
rimangono invariati i termini di decadenza del titolo
edilizio: un anno dal rilascio per l'avvio dei lavori e tre
anni, successivi all'avvio, per il completamento dell'opera
I PERMESSI IN DEROGA
Per facilitare e incentivare gli interventi volti al
recupero edilizio e alla riqualificazione urbana lo Sblocca
Italia ha previsto che i permessi di costruire possano
essere in deroga (anche alle destinazioni d'uso) per gli
interventi privati di ristrutturazione edilizia attuati
anche in aree industriali dismesse.
Questa previsione permette di intervenire anche sforando i
limiti del piano regolatore, quali destinazioni d'uso,
altezze, indici edilizi, previo accertamento dell'interesse
pubblico con specifica delibera del consiglio comunale. Il
mutamento della destinazione d'uso non deve, tuttavia,
comportare un aumento della superficie coperta prima
dell'intervento di ristrutturazione, ossia un aumento di
superficie coperta rispetto a quella esistente prima
dell'intervento
L'APPARATO SANZIONATORIO
Rafforzate le sanzioni per la mancata presentazione della
comunicazione d'inizio lavori. L'omessa trasmissione della
comunicazione d'inizio lavori, prevista per alcune opere di
edilizia libera, o della comunicazione asseverata da un
tecnico abilitato, per gli interventi di manutenzione
straordinaria e le opere di modifica interna sulla
superficie coperta dei fabbricati adibiti all'esercizio di
impresa, o di modifica della destinazione d'uso degli
stessi, comporta la sanzione pecuniaria di mille euro.
Quest'ultima viene ridotta di due terzi nel caso in cui la
comunicazione d'inizio lavori venga effettuata
spontaneamente se l'intervento è ancora in corso di
esecuzione. L'incremento della sanzione si deve anzitutto al
tentativo di combattere il fenomeno dell'abusivismo edilizio
GLI ONERI DI CONCESSIONE
Le semplificazioni dello Sblocca Italia hanno un contrappeso
di tipo economico. Alle agevolazioni burocratiche, che
consentono un più semplice riordino delle unità immobiliari,
corrisponde la possibilità per i Comuni di modulare gli
oneri di concessione. Questi si suddividono in costo di
costruzione e oneri di urbanizzazione: i primi sono una
percentuale sul valore delle opere che si realizzano; i
secondi corrispondono all'aumento del peso urbanistico
dell'intervento e quindi delle spese che l'ente locale
sopporta per consentire standard qualitativi adeguati.
Mentre si esclude il contributo di costruzione per le opere
di manutenzione straordinaria, è previsto uno sconto del 20%
sui costi di costruzione per le ristrutturazioni, ma solo
per le ristrutturazioni ed il recupero di immobili dismessi (articolo Il Sole 24 Ore del
23.11.2014). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Online solo i redditi degli eletti. Per gli altri
la p.a. autocertificherà il deposito dei dati.
Il presidente dell'Anac ha annunciato il
restyling del decreto su pubblicità e trasparenza.
Dietrofront sugli obblighi di pubblicità e trasparenza nella
p.a. I dati patrimoniali e reddituali dovranno essere
pubblicati online solo da chi ricopre cariche elettive. Per
gli incarichi non elettivi, invece, potrebbe bastare
«un'attestazione da parte dell'ente che la documentazione su
redditi e patrimonio è stata depositata».
E a quel punto chiunque abbia un interesse giuridicamente
tutelato potrebbe chiedere di accedervi. Senza però la
necessità di mettere tutto indiscriminatamente online.
Perché «le norme su pubblicità e trasparenza realizzano una
significative compressione della privacy e per questo vanno
contemperate in base al rischio effettivo». Per il dlgs
33/2013, che tanti problemi applicativi sta creando agli
enti locali e alla pubblica amministrazione, sembra essere
arrivato il momento di «fare il tagliando».
Ad annunciarlo è stato Raffaele Cantone, presidente
dell'Autorità nazionale anticorruzione, che ha confermato la
prossima presentazione di un pacchetto di emendamenti
all'interno del disegno di legge delega sulla riforma della
p.a. all'esame del senato.
Secondo Cantone, il maggiore punto debole della normativa su
pubblicità e trasparenza risiede nel fatto che impone
adempimenti in maniera indifferenziata, con il rischio di
vanificare la ratio stessa della legge che è la
prevenzione della corruzione. Proprio qui, secondo il
presidente dell'Anac, si deve intervenire.
«È necessaria una graduazione della pubblicità dei dati
in relazione alla tipologia di incarichi», ha osservato
Cantone parlando all'Università Cattolica del Sacro Cuore di
Milano. «Le regole non possono essere le stesse per il
comune di 5 mila anime e per il grande ente previdenziale.
Bisogna capire che la funzione delle norme sulla trasparenza
è la prevenzione della corruzione e che obblighi
eccessivamente restrittivi finiscono per realizzare
l'effetto contrario».
Dopo l'auspicio del ministro della funzione pubblica Maria
Anna Madia, che all'assemblea Anci svoltasi a Milano aveva
messo in guardia dal rischio di «un'eccessiva
procedimentalizzazione degli obblighi di pubblicità», le
parole del numero uno dell'Anac sembrano voler marcare una
distanza rispetto all'istituto dell'«accesso civico»
che costituisce il vero elemento di novità del dlgs 33,
avendo mandato in soffitta il diritto d'accesso disciplinato
dalla legge 241/1990 sul procedimento amministrativo
(articolo ItaliaOggi del 22.11.2014). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Polizze omnibus ai professionisti. Danni a terzi
risarciti anche fuori dai termini di copertura.
Il governo prepara un ventaglio di emendamenti in
campo assicurativo alla legge di stabilità.
Il professionista sarà coperto da una polizza assicurativa
che risarcirà i danni da lui commessi a terzi nell'ambito
della propria attività, anche quando questi «sinistri
professionali» siano stati denunciati al di fuori del
periodo di stipula dei contratti.
L'importante è che la richiesta di risarcimento da parte del
terzo danneggiato sia pervenuta all'assicuratore durante il
tempo per il quale è stata stipulata l'assicurazione. A
fronte dell'obbligatorietà dell'assicurazione per la
responsabilità civile per l'attività professionale, si
potranno offrire polizze differenziate nelle condizioni
economiche, che garantiscano la prestazione assicurativa
prevista dall'articolo 1917 c.c. prive delle clausole
cosiddette claims made. Ma in virtù della nuova clausola
l'assicuratore si obbliga a tenere indenne
l'assicurato-professionista dalle conseguenze dannose dei
fatti illeciti da lui commessi anche prima della stipula.
La novità è contenuta in un pacchetto di norme redatte dal
ministero dello sviluppo economico, che fonti interne a
palazzo Ghigi sostengono confluiranno nella legge di
stabilità 2015 in materia assicurativa. Norme che prevedono
anche una definizione della tabella unica, a livello
nazionale, per l'attribuzione del valore alle menomazioni di
non lieve entità di cui all'articolo 138 del dlgs
07.09.2005, n. 209 (codice delle assicurazioni private).
E l'attribuzione della medesima sottoclasse riconosciuta
dalla vecchia compagnia assicurativa al fine di garantire
(almeno) il medesimo trattamento economico. Ma c'è anche
altro. In materia di responsabilità civile auto viene
previsto l'inserimento di modelli contrattuali che
garantiscano all'assicurato significative riduzioni del
premio in caso di installazione di strumenti elettronici che
registrano l'attività del veicolo, ciò tuttavia in assenza
di meccanismi fidelizzanti nel tempo.
In deroga agli articoli contenuti nel libro IV, titolo I,
capo V, del codice civile, viene stabilito che, a fronte
dell'ottenimento di sconti di livello significativo a favore
dell'assicurato, il diritto al risarcimento dei danni
derivanti dalla circolazione dei veicoli a motore e dei
natanti non sia cedibile a terzi senza il consenso
dell'assicuratore.
La responsabilità civile per l'attività professionale, la
cui obbligatorietà è stata di recente introdotta è, infatti,
strettamente connessa alla modifica normativa, di cui
all'art. 3, c. 5, lett. e) del dl 13.08.2011, n. 138,
convertito, con modificazioni, in legge 14.09.2011, n. 148,
la quale ha disposto che i professionisti sono tenuti a
stipulare idonea assicurazione per la responsabilità civile
per l'attività professionale da essi svolta.
Un simile obbligo dal lato della domanda richiede la
garanzia che, dal lato dell'offerta, vi sia un effettivo
contesto concorrenziale e modelli contrattuali che evitino
il rischio di sfruttamento, in termini di premi elevati e/o
di clausole vincolanti e/o abbinamenti di più servizi, della
rigidità della domanda
(articolo ItaliaOggi del 21.11.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Province, esuberi in periferia. Dipendenti verso
tribunali, agenzie, Motorizzazione.
LEGGE DI STABILITA'/ Ecco tutte le novità degli emendamenti
presentati dal governo.
I dipendenti provinciali in mobilità saranno dirottati nelle
articolazioni periferiche dello stato: non solo uffici
giudiziari, ma anche agenzie fiscali (Demanio, Entrate),
motorizzazione civile e scuole. Sarà sostanzialmente questa
la soluzione alla trattativa che il governo sta conducendo
con le autonomie (regioni in primis) per risolvere la grana
dei 20 mila lavoratori in esubero originati dalla
trasformazione delle province in enti di secondo livello.
L'accordo sarà trasposto in un emendamento alla legge di
stabilità, anche se per il momento non si sa ancora se la
proposta arriverà già alla camera o durante il passaggio al
senato.
Ieri il governo ha scoperto le carte, prima con il ministro
delle riforme Maria Elena Boschi, in audizione in Bicamerale
per il federalismo, e poi con il viceministro all'economia
Enrico Morando durante i lavori della manovra in commissione
bilancio alla camera. Dall'esecutivo, ovviamente, bocche
cucite sui dettagli dell'accordo. Ma qualcosa trapela
ugualmente.
Al momento, l'intesa potrebbe essere trovata sulla proposta
delle regioni di dirottare verso le amministrazioni
periferiche dello stato i dipendenti in eccesso. Tribunali,
scuole, uffici della Motorizzazione civile e delle Agenzie
fiscali sarebbero tenuti ad assumere gli esuberi delle
province con precedenza rispetto alle proprie graduatorie. E
per sfoltire il contingente umano da trasferire, saranno
previsti prepensionamenti per coloro che hanno maturato i
requisiti pre riforma Fornero.
In attesa che il governo formalizzi gli emendamenti pro
comuni che recepiscono l'accordo raggiunto con l'Anci per
alleggerire gli oneri della manovra e della riforma della
contabilità (oltre alla partenza soft per il fondo crediti
di dubbia esigibilità, si prevede la spalmatura fino a 30
anni dei buchi di bilancio che dovessero emergere dal
riaccertamento dei residui attivi, ma anche la possibilità
di utilizzare il 50% degli oneri di urbanizzazione per
finanziare la spesa corrente, nonché la copertura statale
per i nuovi mutui e la possibilità di rinegoziare i vecchi
prestiti), la giornata di ieri ha visto l'approvazione di un
nutrito pacchetti di emendamenti molto eterogenei. Dalla
carta acquisti, al rifinanziamento della legge Sabatini,
dall'Iva sugli ebook al made in Italy passando per
l'agroalimentare. Vediamoli nel dettaglio.
Carta acquisti.
Il governo ha presentato un emendamento che punta a
«garantire» la continuità del programma carta acquisti per
cittadini comunitari ed extracomunitari e la sperimentazione
nei 12 comuni con popolazione superiore ai 250mila abitanti.
L'emendamento rimedia alla mancata conversione della norma
contenuta nell'articolo 9, comma 15, del dl 150/2013
(decreto proroga termini).
Tale disposizione garantiva la continuità del programma
Carta acquisti consentendo a Poste italiane di erogare il
servizio di pagamento in favore degli aventi diritto alla
social card in attesa dell'espletamento della gara per la
nuova aggiudicazione del servizio. Lo stralcio della norma
in sede di conversione in legge del decreto avrebbe privato
Poste Italiane della titolarità giuridica ad effettuare il
servizio con l'effetto di dover recuperare dai soggetti
indigenti le somme erogate da gennaio 2014 a marzo 2014,
quando la società, dopo aver vinto la gara indetta dal Mef
ha stipulato il relativo contratto.
Non cambia nulla invece sulle condizioni personali per
usufruire della carta acquisti a cui già possono accedere
gli extracomunitari con regolare permesso di soggiorno di
lungo periodo,
Più risorse per la non autosufficienza.
In arrivo 150 milioni di euro in più nel 2015 per la non
autosufficienza i cui fondi per l'anno prossimo salgono a
400 milioni di euro. Ad annunciarlo il relatore alla legge
di stabilità, Mauro Guerra. Restano confermati gli
stanziamenti a decorrere dal 2016 che ammontano a 250
milioni di euro l'anno.
Legge Sabatini.
Via libera al rifinanziamento della legge Sabatini, che
prevede incentivi all'acquisto di beni strumentali per le
imprese. Il governo ha stanziato 12 milioni di euro per il
2015, 31,6 milioni di euro per il 2016 e 46,6 per il 2017.
Iva sull'ebook.
La commissione ha dato il via libera all'emendamento
presentato dal ministro per i beni culturali Dario
Franceschini che taglia l'aliquota Iva per gli e-book dal
22% al 4% (si veda ItaliaOgggi di ieri). I libri e i
periodici in formato elettronico vengono quindi equiparati a
quelli in formato cartaceo. Il minor gettito, pari a 7,2
milioni di euro all'anno, viene coperto dal fondo per
interventi strutturali di politica economica.
Fondo emergenze.
In arrivo 60 milioni di euro per il fondo per le emergenze
nazionali per l'anno 2015. Le risorse, si legge nella
relazione tecnica all'emendamento, saranno prelevate da
quelle destinate alla copertura del pagamento dei mutui, che
«per il prossimo anno sono eccedenti rispetto al
fabbisogno».
Ice.
Il governo stanziera' 220 mln di euro nel triennio 2015-2017
per le attivita' dell'Ice. Nel dettaglio, per la
realizzazione delle azioni relative al piano straordinario
per la promozione del made in Italy e l'attrazione degli
investimenti in Italia verranno assegnati all'Ice per il
triennio 2015-2017 ulteriori 130 milioni di euro per l'anno
2015, 50 milioni di euro per il 2016 e 40 milioni di euro
per il 2017.
Agricoltura.
Per incentivare l'imprenditoria giovanile in agricoltura e
favorire il ricambio generazionale alla guida delle aziende
agricole, il governo rifinanzia con 30 mln di euro (10 mln
l'anno per il triennio 2015/2017) la concessione di mutui
agevolati per gli investimenti.
I fondi andranno in abbattimento degli interessi e avranno
come destinazione l'Ismea, l'istituto per i servizi al
mercato agroalimentare controllato dal dicastero delle
politiche agricole, che gestisce le agevolazioni all'autoimprenditorialità
e all'autoimpiego in agricoltura.
Inoltre, il governo destina altri 30 mln di euro al
finanziamento dei contratti di filiera agricola e
agroalimentare e di distretto, concepiti con la Finanziaria
2003 (legge 289/2002, art. 66)
(articolo ItaliaOggi del 21.11.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Alberi monumentali da censire.
Entro il 31/7.
Entro il 31 luglio del prossimo anno, i comuni dovranno
effettuare il censimento degli alberi monumentali che
ricadono nel proprio territorio. La raccolta di questi dati,
effettuata su base regionale, confluirà in un elenco
generale degli alberi monumentali d'Italia alla cui gestione
provvederà il Corpo forestale dello stato.
Sono queste alcune delle indicazioni contenute nel testo del
decreto 23/10/2014 del ministero delle politiche Agricole,
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dello scorso 18
novembre, in attuazione delle disposizioni previste
all'articolo 7, comma 2, della legge n. 10 del 2013, recante
norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani.
Un elenco che, come detto, per formarsi necessita dei dati
inseriti a livello regionale e che, a loro volta, devono
fondarsi sugli elenchi degli alberi monumentali che tutti i
comuni del territorio nazionale sono tenuti a redigere sulla
base di un censimento da effettuare nel proprio territorio.
Pertanto, occorrerà che entro il 31 luglio del prossimo anno
i comuni, sotto il coordinamento delle regioni, completino
le operazioni relative al predetto censimento, così da
permettere alle Regioni di redigere i successivi elenchi
entro il 31.12.2015. Il decreto in esame evidenzia altresì
le modalità di realizzazione del censimento. Questo, potrà
essere effettuato sia mediante ricognizione territoriale con
rilevazione diretta che attraverso la verifica sul posto
delle segnalazioni pervenute dai cittadini, dalle
associazioni, dalle scuole e dal mondo dell'associazionismo.
La definizione di «albero monumentale» raggruppa una
vasta gamma di possibilità. Pertanto, al fine di garantire
una uniformità dei dati che dovranno confluire nell'elenco
nazionale, il decreto ministeriale rileva che è necessario
utilizzare un'apposita scheda di segnalazione che i comuni e
i soggetti segnalatori potranno reperire al sito internet
www.corpoforestale.it. Una volta redatto e ottenuto il via
libera dalla regione, l'elenco dovrà essere affisso all'albo
pretorio del comune e aggiornato con cadenza almeno annuale
(articolo ItaliaOggi del 21.11.2014). |
TRIBUTI:
Terreni, esenzioni Imu solo sopra i 600 metri.
Pronto il dm. Fino a 280 metri
contribuenti alla cassa il 16/12.
È in dirittura d'arrivo il decreto del Mef che individuerà i
comuni nei quali i terreni agricoli continueranno a non
pagare l'Imu. L'esenzione piena rimarrà solo nei municipi
collocati ad oltre 600 metri sul livello del mare, mentre
fra 281 e 600 metri sarà limitata ai terreni posseduti da
coltivatori diretti o imprenditori agricoli professionali.
Fino a 280 metri, invece, tutti dovranno presentarsi alla
cassa già il prossimo 16 dicembre, versando l'intera imposta
dovuta per il 2014.
Il provvedimento, ora alla firma del ministro Pier Carlo
Padoan, dà attuazione all'art. 22, comma 2, del dl 66/2014,
che ha imposto di circoscrivere l'esenzione per i terreni
agricoli prevista dall'art. 7, comma 1, lett. h, del dlgs
504/1992 sulla base della diversa altitudine dei comuni e
diversificando quelli posseduti da coltivatori diretti e
imprenditori agricoli professionali iscritti nella
previdenza agricola.
Dal provvedimento è atteso un maggior gettito pari a 350
milioni di euro, che saranno immediatamente recuperati al
bilancio dello Stato decurtando il fondo di solidarietà dei
comuni esclusi dall'ambito di applicazione dell'esenzione.
Non a caso, i più allarmati (dopo i contribuenti) sono
proprio i sindaci, che temono di perdere altre risorse.
Mentre, infatti, i tagli al fondo saranno automatici, le
maggiori entrate tributarie rischiano di essere aleatorie,
dato che si tratta di far pagare contribuenti che finora non
hanno mai versato né l'Imu né l'Ici.
Ricordiamo, infatti, che, in base alle regole attuali, nelle
aree montane e di collina non sono soggetti ad imposta né i
terreni agricoli né quelli diversi (ad esempio quelli
incolti). Finora, ha fatto fede l'elenco allegato alla
circolare 9/1993. Il nuovo decreto, invece, modifica
radicalmente il quadro, individuando tre diverse fasce
altimetriche. In quella più alta (oltre i 600 metri),
l'esenzione continuerà a essere totale: nessuno dovrà pagare
e i comuni non subiranno nuovi tagli.
Nella fascia intermedia (fra 281 e 600 metri), l'esenzione
sarà solo parziale, ossia limitata ai coltivatori diretti e
agli iap. Fino a 280 metri, infine, l'esenzione verrà
cancellata del tutto. Negli ultimi due casi, i comuni
vedranno aprirsi un buco, che in teoria dovrebbe essere
riempito dai versamenti dei contribuenti, che saranno
chiamati a pagare già il prossimo 16 dicembre. In proposito,
merita ricordare che, a causa della tardiva approvazione del
decreto, per i terreni non più esenti non è stato versato
alcun acconto a giugno, per cui in sede di saldo occorrerà
sborsare l'importo dovuto per l'intero anno.
La base imponibile si ottiene applicando all'ammontare del
reddito dominicale risultante in catasto, vigente al 1°
gennaio dell'anno di imposizione, rivalutato del 25%, un
moltiplicatore pari a 130, che scende a 110 per i
coltivatori diretti e gli iap. A favore di questi ultimi,
inoltre, è prevista una franchigia di 6 mila euro e una
riduzione per scaglioni sull'eccedenza fino a 32 mila euro.
Rimangono esenti i terreni a immutabile destinazione
agro-silvo-pastorale a proprietà collettiva indivisibile e
inusucapibile
(articolo ItaliaOggi del 19.11.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Semplificazioni e recupero, spinta all'edilizia.
Più facile dividere e unire alloggi, sconti agli oneri. Ma
non tutto si applica subito.
Con lo Sblocca-Italia (decreto
legge 12.09.2014, n. 133, convertito dalla legge 11.11.2014,
n. 164, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 262 dell'11
novembre) si allarga il raggio di azione dell'edilizia
libera, gli interventi cioè di manutenzione e piccola
trasformazione realizzabili con semplice comunicazione di
inizio attività (Cil) asseverata da un progettista.
Diventano in particolare liberi, e gratuiti (purché non
venga alterata la volumetria complessiva dell'edificio), i
frazionamenti o accorpamenti di unità immobiliari, e più in
generale tutte le manutenzioni straordinarie che comportino
anche modifiche a volumi e superfici delle singole unità.
È questa la semplificazione più chiara e di impatto più
ampio, potenzialmente in grado di interessare tutti i circa
26 milioni di italiani proprietari di casa, tra quelle
introdotte dallo Sblocca-Italia. Inoltre, dopo le modifiche
alle superfici degli alloggi, grazie allo Sblocca-Italia
sarà possibile affidare al Comune tutte le pratiche di
modifica catastale con semplice comunicazione di fine
lavori.
In tutto nel Dl 133/2014 ci sono 48 modifiche al Testo unico
edilizia (Dpr 380/2001), che si pongono tre obiettivi:
allargare l'edilizia autocertificata, favorire il recupero e
la riqualificazione (con sconti agli oneri, varianti
semplificate, incentivi in cubature per delocalizzare,
cambio d'uso più facile), semplificare la disciplina
edilizia (pompe di calore in Cil ordinaria, tempi rapidi sui
permessi di costruire, proroghe e varianti non essenziali
più facili, debutto del permesso di costruire
convenzionato).
Le procedure
L'edilizia realizzabile con semplice "asseverazione" del
progettista abilitato, anziché dover aspettare il
provvedimento espresso del Comune, ha debuttato nel 1997
(governo Prodi I) con la Dia, e da allora si è via via
allargata con un orientamento legislativo sostanzialmente
condiviso, pur con sfumature. Il Pd, ad esempio, ha aggiunto
in commissione Ambiente alla Camera un emendamento allo Sblocca-Italia che impone alle Regioni di rafforzare i
controlli sull'attività edilizia libera (Cil e Cil
asseverata).
Il recupero
Il secondo filone dello Sblocca-Italia sono gli incentivi al
recupero. Il contributo costo di costruzione è sempre
ridotto del 20%, rispetto ai casi di nuova costruzione, per
gli interventi di recupero o riuso di immobili dismessi o in
via di dimissione, purché non in variante. Altri sconti agli
oneri e al contributo sono invece subordinati all'attuazione
comunale.
Si cerca di spingere i Comuni (ma la norma è di indirizzo) a
riqualificare aree con edifici incongrui anche con «forme di
compensazione rispondenti all'interesse pubblico». Poco
incisive, e soggette all'attuazione regionale, sembrano
anche le norme che dovrebbero facilitare i cambi di
destinazione d'uso.
Sempre per incentivare il recupero si ammette la richiesta,
da parte dei privati, di permessi di costruire in deroga al
Prg per interventi di ristrutturazione edilizia, previa
deliberazione del consiglio comunale. La norma è però
controversa, tant'è che il Parlamento ha tolto l'estensione
anche alla ristrutturazione urbanistica.
I tempi
In materia di semplificazione, viene eliminato il raddoppio
del termine per l'istruttoria (da 60 a 120 giorni) per i
Comuni con oltre 100mila abitanti; è prevista la possibilità
di chiedere la proroga della validità del permesso per
difficoltà tecniche o fatti sopravvenuti; possibile infine
chiedere con semplice Scia alcune varianti non essenziali al
progetto.
Tre modifiche che puntano a semplificare un po' la vita ai
cittadini anche in caso di interventi più complessi
(ristrutturazioni edilizie con cambio di volume o prospetti,
ampliamenti, nuove costruzioni). Debutta infine a livello
nazionale il permesso di costruire convenzionato, già
presente in alcune leggi regionali.
C'è poi il regolamento edilizio unico. Atteso da
professionisti e imprese per eliminare la babele di regole
comunali diverse una dall'altra, il regolamento unico resta
tuttavia, per ora, solo un obiettivo dopo le norme dello
Sblocca-Italia (articolo Il Sole 24 Ore del
19.11.2014 - tratto da www.fiscooggi.it). |
EDILIZIA PRIVATA: P.a., niente più ripensamenti. Uno scudo su Scia, revoca e
annullamento d'ufficio.
Più tutele per le imprese con le modifiche alla legge sul
procedimento amministrativo.
Più tutele per le imprese, messe al riparo da brutte
sorprese da parte della pubblica amministrazione. Si tratta
di modifiche alla legge generale sul procedimento
amministrativo (n. 241/1990), che intervengono sulla Scia,
sulla revoca e sull'annullamento d'ufficio, attuate dal
decreto Sblocca Italia, convertito nella legge. n. 164
pubblicata sul S.O. della G.U. n. 262 dell'11/11.
Il senso
degli interventi è bloccare il ripensamento
dell'amministrazione e consolidare la posizione
dell'impresa, che non può essere messa fuori gioco
all'improvviso. Così viene alzato uno scudo a protezione
della segnalazione certificata di inizio attività (Scia),
che non può essere revocata o annullata a meno che non vi
siano pericoli per rilevanti interessi pubblici e sempre che
non si possa rimediare con qualche accorgimento e senza
bloccare l'attività in corso.
Qui siamo di fronte a un
perfezionamento di uno strumento di semplificazione del
procedimento amministrativo. La revoca degli atti
amministrativi, poi, potrà avvenire solo sopravviene un
mutamento imprevedibile della situazione: la pubblica
amministrazione è sempre nella condizione di cambiare idea e
prendere una nuova decisione in una situazione che è
cambiata, ma solo se la modifica non potesse essere
prevista; mai la revoca potrà toccare benefici economici e
solo per un ripensamento della p.a. sulla valutazione degli
interessi pubblici.
Qui siamo di fronte non a una
semplificazione, ma a una norma di garanzia che argina la
discrezionalità amministrativa. A volte la valutazione
modificata dell'interesse pubblico deriva da differenti
scelte d'indirizzo politico. La norma vuole proteggere le
imprese da prese di posizione che potrebbero rasentare
l'arbitrio. La manovra sull'annullamento d'ufficio blinda
gli atti amministrativi illegittimi, ma che prendono una
decisione di fatto corretta.
La norma si concentra sul
risultato dell'attività amministrativa, mettendo in un
angolo i cavilli da leguleio. Se l'atto prende la giusta
decisione non potrà essere azzerato, solo per un vizio di
forma o di procedura. La direzione complessiva del decreto è
quella del giusto procedimento amministrativo, con una
riduzione dell'ambito di vigilanza e controllo, da riservare
solo al merito dei problemi (e non alla forma degli atti).
D'altra parte nei casi di atti formalmente invalidi, ma
sostanzialmente corretti, non è neppure possibile
l'annullamento in sede giurisdizionale. Ora l'atto viziato
nella forma o nella procedura non può essere annullato né
dai Tar né dalla p.a. che lo ha adottato.
Scia. La Scia,
Segnalazione certificata di inizio attività, nei casi in cui
è ammessa, consente di avviare immediatamente l'attività,
anche se all'amministrazione è riservata la possibilità di
intervenire per bloccare o impedire la prosecuzione
(articolo 19 della legge 241/1990). Il decreto Sblocca
Italia interviene a limitare la possibilità per
l'amministrazione di assumere determinazioni in via di
autotutela e cioè per stoppare la Scia.
In base alle nuove
norme, questo potrà avvenire solo in presenza del pericolo
di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per
l'ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la
difesa nazionale e previo motivato accertamento
dell'impossibilità di tutelare comunque tali interessi
mediante conformazione dell'attività dei privati alla
normativa vigente.
In base all'articolo 19 della legge
241/1990 la pubblica amministrazione ha 60 giorni di tempo
per disporre il divieto di prosecuzione dell'attività e di
rimozione degli eventuali effetti e ha, senza limiti di
tempo, il potere di revoca e di annullamento di ufficio
(cosiddetta autotutela). La norma in esame limita la
possibilità della autotutela alle ipotesi di pregiudizio per
rilevanti interessi, ma solo dopo avere escluso che
l'attività possa continuare, anche se seguendo alcune
specifiche precauzioni, che sta alla stessa amministrazione
di indicare.
Revoca. La legge 241/1990 stabilisce la facoltà di revoca
del provvedimento amministrativo a efficacia durevole, da
parte della p.a. (articolo 21-quinquies). In particolare la
p.a. può tornare sui propri passi e revocare l'atto
precedente solo in tre casi: 1) mutamento della situazione
di fatto; 2) insorgenza di un nuovo interesse pubblico; 3)
riconsiderazione dell'interesse pubblico originario.
Il
decreto Sblocca Italia prevede che la revoca per mutamento
della situazione di fatto è possibile solo se tale mutamento
fosse «non prevedibile al momento dell'adozione del
provvedimento»: questo significa che la p.a. non può
revocare nel caso in cui l'evoluzione fosse prevedibile.
Inoltre, per quanto riguarda le ipotesi di una nuova
valutazione dell'interesse pubblico originario, il decreto
Sblocca Italia esclude la revoca per i provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici.
Questo significa che i vantaggi economici rimangono fermi,
nonostante la rivalutazione dell'interesse pubblico. Rimane
fermo che la revoca, quando ancora possibile, espone
l'amministrazione all'obbligo di indennizzare economicamente
il privato che patisce pregiudizio per effetto del nuovo
provvedimento. Se, poi, la revoca incide su un rapporto
contrattuale (per esempio la revoca di una concessione),
l'indennizzo è parametrato al danno emergente (senza
considerare la perdita di lucro).
---------------
Limitazioni al potere di annullamento.
In base al decreto legge Sblocca Italia, viene limitato il
potere della p.a. di annullare d'ufficio i propri
provvedimenti amministrativi illegittimi (articolo 21-nonies
della legge n. 241/1990). In effetti il provvedimento
amministrativo illegittimo può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati. Mentre la revoca agisce
su atti legittimi, l'annullamento presuppone provvedimenti
amministrativi invalidi.
La norma di riferimento, nella sua
versione vigente, consente di annullare il provvedimento
affetto da qualsiasi vizio. Il decreto Sblocca Italia limite
tale potere e salva i provvedimenti formalmente illegittimi,
ma «buoni» nella sostanza. In particolare la p.a. non potrà
far decadere i provvedimenti adottati in violazione di norme
sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la
natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato; i provvedimenti rimangono
validi anche nel caso di mancata comunicazione dell'avvio
del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in
giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al
mancato annullamento del provvedimento illegittimo. Come
dire l'impossibilità di annullamento non sana le
responsabilità disciplinari del funzionario che ha adottato
un atto formalmente illegittimo.
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Conferenza servizi, cambia la
decorrenza.
Il decreto Sblocca Italia modifica due aspetti della
disciplina della conferenza di servizi. La conferenza di
servizi serve ad acquisire velocemente e in unico contesto i
pareri delle varie amministrazioni coinvolte, per esempio,
in una stessa opera pubblica oppure per fare assumere,
sempre in unico contesto, le decisioni che devono
contribuire a un'unica finalità.
La legge prevede due tipi
di conferenza dei servizi: istruttoria e decisoria. Nel caso
della conferenza istruttoria, il procedimento non è
necessario ai fini dell'adozione del provvedimento finale,
ma può essere utile per consentire un confronto tra le
amministrazioni portatrici di più interessi pubblici
coinvolti nel procedimento. La conferenza decisoria, invece,
interviene nei procedimenti che prevedono, per il loro
perfezionamento, l'assenso, sotto forma di intesa, concerto,
nulla osta, o comunque altrimenti denominato, di più
amministrazioni.
La prima modifica del decreto Sblocca
Italia riguarda i termini di validità dei pareri
autorizzazioni, concessioni, nulla osta o atti di assenso
comunque denominati, acquisiti nell'ambito della conferenza
di servizi, che, nella versione attuale, decorrono dal
momento della loro espressione. La novità sposta la
decorrenza all'adozione del provvedimento conclusivo della
conferenza, in modo da armonizzare i tempi di validità degli
atti endoprocedimentali acquisiti all'interno di una
conferenza con quelli del provvedimento finale.
La relazione illustrativa al provvedimento spiega la
finalità pratica della norma: nel caso di conferenza di
servizi per l'ottenimento dell'autorizzazione unica alla
realizzazione di un'opera, tra il rilascio dei singoli atti
di assenso e l'autorizzazione finale intercorrono anche
anni, e quindi quando l'amministrazione proponente è messa
nella condizione di poter iniziare i lavori, i termini di
validità dei singoli pareri si siano già notevolmente
ridotti. In secondo luogo, il decreto in esame qualifica
come atto di alta amministrazione la deliberazione del
consiglio dei ministri, a cui l'amministrazione procedente
rimette la decisione conclusiva nei casi di dissenso tra
amministrazioni statali all'interno delle conferenza.
Questo serve a limitare e di molto la possibilità che gli
atti siano bocciati dal Tar. Per gli atti di alta
amministrazione, infatti, i magistrati possono intervenire
con un annullamento solo in caso di palese illegittimità,
contraddittorietà e irragionevolezza. In sostanza questo
potrà avvenire mai o quasi mai (articolo ItaliaOggi Sette del
17.11.2014). |
APPALTI: Appalti, bandi standardizzati. I costi della sicurezza
possono essere chiesti in offerta. Pubblicato in G.U. il modello Anac per l'affidamento dei
lavori pubblici oltre 150 mila.
Più certezza negli appalti pubblici di lavori con il
bando-tipo Anac, che detta le regole per gestire le
procedure; i costi della sicurezza possono essere sempre
chiesti in offerta. Mentre costo del lavoro richiesto
soltanto per appalti edili e conferma della verifica dei
requisiti con il sistema Avcpass.
Infine, clausole di esclusione anche per rispetto della
legge anticorruzione.
Sono alcune delle indicazioni fornite
dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) con il
bando-tipo n. 2 del 02.09.2014, pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale del n. 246 del 22.10.2014.
Il
documento è stato emesso in attuazione dell'art. 64, comma
4-bis, del dlgs 163/2006 (codice dei contratti pubblici) e
consiste in un modello di disciplinare di gara per procedura
aperta di un appalto di sola esecuzione di lavori di importo
superiore a 150 mila euro con aggiudicazione al prezzo più
basso. Il documento, finalizzato a dare regole certe e
omogenee per ogni appalto, si compone di un contenuto
prescrittivo vincolante, in cui sono ricomprese le clausole
relative alle cause tassative di esclusione, e di un
contenuto prescrittivo discrezionale, riferito ad aspetti
della procedura che devono necessariamente essere
regolamentati nella documentazione di gara.
Per quel che riguarda la qualificazione dei concorrenti il
bando-tipo riporta correttamente tutte le modifiche
intervenute rispetto alla qualificazione per lavori
appartenenti alla categoria prevalente e quella per lavori
specialistici (parere Consiglio di stato del 26.06.2013,
n. 3014 e Dpr 30.10.2013). Si mette l'accento, in
particolare, sul fatto che la nuova disciplina comporta, fra
le altre cose, che alcune categorie (OS 3-impianti idrico
sanitari, OS 8-opere di impermeabilizzazione, OS 20A e OS
20B-rilievi topografici e indagini geognostiche), possono
essere svolte dall'aggiudicatario se ne ha l'attestazione di
qualificazione, oppure affidate in subappalto.
La norma
quindi, chiarisce l'Anac, non comporta più l'obbligo, in
questi casi (assenza del requisito) di raggrupparsi con
l'impresa specialistica per le parti di opere che
l'aggiudicatario non può eseguire per carenza di
qualificazione. Uno dei chiarimenti di maggiore rilevanza
attiene alla disciplina degli oneri di sicurezza, che non
sono oggetto di ribasso in sede di gara. A tale riguardo l'Anac,
dopo avere richiamato l'articolo 84, comma 7 del codice dei
contratti (che include i costi della sicurezza fra gli
elementi oggetto di verifica delle offerte anomale, ma
impone la richiesta di indicazione in sede di offerta
soltanto nel settore delle forniture e dei servizi, ma non
nei lavori), precisa che tali costi possono essere richiesti
(ma non a pena di esclusione) anche negli appalti di lavori.
L'unica differenza risiede nel fatto che se il concorrente
non fornisce le indicazioni la stazione appaltante non può
procedere automaticamente all'esclusione dalla gara come
avverrebbe se si fosse in un appalto di forniture o di
servizi. Fra le diverse indicazioni emerge anche quella sul
costo del lavoro, elemento utile nell'aggiudicazione con
offerte a prezzi unitari e che quindi può essere richiesto
soltanto per gli appalti di natura edile o prevalentemente
edile, mentre risulterebbe inapplicabile negli altri casi.
Per la verifica dei requisiti confermata l'utilizzabilità
del sistema Avcpass messo a punto dall'Anac. In merito alla
disciplina sui raggruppamenti temporanei di imprese si dà
atto dell'abrogazione del comma 11 dell'articolo 37 del dlgs
163/2006 (abolizione del principio di corrispondenza fra
quote di requisiti di qualificazione, di partecipazione al
raggruppamento e quote di esecuzione dei lavori), con la
conseguenza che la quota di partecipazione in Ati non può
superare la percentuale dei requisiti di qualificazione che
il concorrente raggruppato possiede. L'Anac ricorda anche
che la mandataria deve partecipare con una quota (e con
requisiti) sempre superiori a ciascuna delle mandanti.
Sul subappalto, in attuazione dell'articolo 118 del codice e
dell'articolo 170 del dpr 207/2010, l'Anac conferma
l'obbligo per i concorrenti di indicare i lavori o le parti
dei lavori che vuole sub-affidare o concedere in cottimo,
avvertendo che senza questa dichiarazione il subappalto
risulta vietato. Inoltre si prende atto della recente
giurisprudenza sul cosiddetto subappalto necessario (obbligo
di indicare in offerta i nominativi dei subappaltatori se il
concorrente non possiede i requisiti per i lavori a
qualificazione obbligatoria, cioè per i lavori che l'impresa
generale non possiede) e si precisa che la mancanza di
questa indicazione determina l'esclusione dalla gara.
Sulle cause di esclusione il bando-tipo chiede alle stazioni
appaltanti (con lo schema di disciplinare) di inserire una
clausola finalizzata (in base alla legge anticorruzione
190/2012) a richiedere ai concorrenti un'apposita
dichiarazione relativa all'assenza di rapporti contrattuali
con dipendenti pubblici che abbiano cessato il rapporto di
lavoro, nei tre anni successivi a tale cessazione, divieto
che opera laddove i dipendenti abbiano esercitato poteri
autoritativi o negoziali nei confronti del concorrente
stesso (articolo ItaliaOggi Sette del
17.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Sì al soccorso istruttorio, non prima di aver pagato una
sanzione.
Possibile il «soccorso istruttorio» in gara per l'assenza di
documenti o dichiarazioni, previo pagamento di una sanzione,
ma non quando è violata la segretezza delle offerte.
È
questo uno dei casi di irregolarità dichiarate non sanabili
dall'Anac in base al recente vademecum messo in
consultazione pubblica con il quale si forniscono
indicazioni alle stazioni appaltanti sulle modalità
applicative dell'articolo 39 del decreto 90/2014 (legge
114/2014).
La norma del decreto 90 ha introdotto il principio per cui
possibile sanabile ogni carenza, omissione o irregolarità
«essenziale» dell'offerta (pagando una sanzione non
superiore a 50 mila euro) con l'unico limite derivante
dall'esigenza di garantire l'inalterabilità del contenuto
dell'offerta, la certezza sulla provenienza e sulla
segretezza dell'offerta, nonché le situazioni in cui versano
i concorrenti alla scadenza del termine di partecipazione
alla gara.
L'Anac interviene per chiarire quali irregolarità essenziali
non possono essere oggetto di sanatoria: in primis si dice
che il soccorso istruttorio non vale «per supplire a carenze
dell'offerta» o per l'assenza di un requisito (ben diverso è
invece il caso in cui manchi il documento relativo al
requisito, che invece esiste in concreto).
Fra le irregolarità essenziali non sanabili si citano: la
mancata indicazione del riferimento di gara sulla busta
esterna o il mancato inserimento in due diverse buste
dell'offerta tecnica e di quella economica; la mancata
sottoscrizione dell'offerta da parte del titolare
dell'impresa; la mancata sigillatura dei plichi; il mancato
sopralluogo; l'assenza della dichiarazione di ricorso all'avvalimento.
Non sanabile è anche il mancato versamento del contributo
dovuto all'Anac per partecipare alle gare. Sono invece
regolarità essenziali, ma sanabili quelle relative a
«irregolarità nella redazione della dichiarazione, oltre
l'omissione e l'incompletezza, che non consentano alla
stazione appaltante di individuare con chiarezza il soggetto
e il contenuto della dichiarazione stessa, ai fini
dell'individuazione dei singoli requisiti di ordine generale
che devono essere posseduti dal concorrente».
Un esempio: avere fatto il sopralluogo, ma non avere
dichiarato la data di effettuazione le documento di gara. Vi
sono infine irregolarità non essenziali ma che toccano
elementi indispensabili (per esempio l'indicazione della
posizione Inps, Inail, Cassa edile, ai fini della verifica
della regolarità contributiva). In questi casi
l'amministrazione deve invitare il concorrente a sanare
l'irregolarità senza però chiedere di pagare la sanzione (articolo ItaliaOggi Sette del
17.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’Italia digitale avanza al Nord.
Con lo sblocca-Italia obbligo di dotazioni avanzate nelle
abitazioni.
L’Italia delle tecnologie
dell’informazione si muove a due velocità: il Centro-Nord va
a un passo decisamente più sostenuto di alcune aree del
Meridione. Ed è probabilmente questo scarto che relega il
nostro Paese nella parte bassa delle classifiche europee
relative alle infrastrutture e dotazioni digitali e agli
investimenti per svilupparle.
Lo dimostra l’analisi del centro studi della web agency MM
One group, che elaborando una serie di dati Istat ha
fotografato il grado di informatizzazione di ciascuna
regione italiana in tre ambiti: quello imprenditoriale,
della pubblica amministrazione e dei cittadini. Sono stati
presi in considerazione vari fattori. Tra gli altri: la
disponibilità di personal computer; gli accessi a internet;
l’uso della rete sia per la vendita, sia per l’acquisizione
di informazioni o l’accesso a servizi; il dialogo online con
la pubblica amministrazione; la titolarità (questo
soprattutto per imprese e uffici pubblici) di siti . Il
risultato, seppure con alcuni distinguo, è sempre lo stesso:
ai posti alti delle tre classifiche si situano le regioni
centro-settentrionali, mentre a fare da fanalino di coda
sono le realtà del Sud.
Il dato è eclatante riguardo, in particolare, al livello di
informatizzazione raggiunto da aziende e famiglie. In
relazione al primo ambito, l’elaborazione assegna infatti i
primi cinque posti a regioni del Nord : primo il Trentino
Alto Adige, secondo il Friuli Venezia Giulia, terza la
Lombardia, quarta l’Emilia Romagna, quinto il Veneto. A
voler proseguire nella classifica, al sesto posto c’è la
Toscana, al settimo il Piemonte e all’ottavo la Sardegna.
Di contro, Campania, Puglia, Sicilia e Calabria occupano,
rispettivamente, le ultime quattro posizioni, anche se poi
per trovare l’ultimissima in classifica bisogna risalire al
Nord, dove la Liguria fa registrare performance poco
lusinghiere in tutti e tre i settori: ventesima nella
graduatoria riservata alla aziende, diciottesima in quella
dei servizi digitali della Pa, dodicesima
nell’informatizzazione delle famiglie.
La Liguria non è l’unica regione del Nord a scivolare nelle
parti basse della classifica. Per esempio, si può registrare
un quattordicesimo posto della Valle d’Aosta nella
graduatoria relativa alle imprese, così come una tredicesima
posizione del Piemonte in quella riferita ai cittadini,
nonché la maglia nera della provincia autonoma di Trento
nella digitalizzazione della Pa, scavalcata solo dal Molise.
Tra le regioni del Nord, la Liguria è però quella che non
riesce mai a riscattarsi. Il Trentino, per esempio, oltre al
primo posto della graduatoria relativa alle imprese, si
situa al sesto in quella che riguarda i cittadini, dove la
Valle d’Aosta agguanta la terza posizione.
Lo stesso discorso non si può, invece, fare per le regioni
meridionali, che non brillano in nessuna delle tre
classifiche: non si va più in là di un settimo posto
conquistato dalla Puglia nell’informatizzazione della
pubblica amministrazione.
Diventa, pertanto, urgente colmare il divario e portare
tutte le regioni a viaggiare a velocità simili. Anche perché
l’economia generata da internet assume sempre più valore, è
in grado di generare posti di lavoro, di ridurre determinati
costi (come quelli delle transazioni commerciali) e di
creare servizi più efficienti.
L’imperativo è, dunque, accelerare nell’applicazione
dell’agenda digitale. Gli ultimi Governi ci hanno provato in
diverse riprese, ma i risultati sono stati finora scarsi e
poco coordinati. Sull’argomento è tornato, da ultimo, il
decreto legge sblocca-Italia (Dl 133/2014, convertito dalla
legge 164) con la norma che impone, a partire dal 1° luglio
prossimo, la realizzazione di infrastrutture digitali tanto
negli edifici di nuova costruzione che in quelli
ristrutturati.
In particolare, si chiede che siano
realizzati punti di accesso per i servizi in fibra ottica a
banda ultralarga. In questo modo gli immobili potranno
beneficiare - ai fini della cessione, dell’affitto o della
vendita - dell’etichetta, volontaria e non vincolante, di
“edificio predisposto alla banda larga”, patente che dovrà
essere rilasciata da un tecnico abilitato (articolo Il Sole 24 Ore del
17.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il labirinto dei regolamenti edilizi.
In attesa del modello unico definizioni e calcoli diversi da
Comune a Comune.
Il primo passo verso
l’unificazione dei regolamenti edilizi è realtà: nella legge
di conversione del decreto Sblocca-Italia (legge 164/2014,
pubblicata sulla «Gazzetta» dell’11 novembre) è avviato il
percorso che vede coinvolti Comuni e Regioni verso
l’adozione di un modello unico di regolamento, da adattare
comunque alle realtà locali. Ma i tempi per arrivare a
questo traguardo non sono ancora definiti. Nell’attesa,
proprietari di immobili e professionisti devono ancora fare
i conti con gli oltre 8mila regolamenti edilizi, diversi da
Comune a Comune.
Le differenze
Secondo la definizione contenuta nell’articolo 4 del Testo
unico dell’edilizia (Dpr 380/2001) i regolamenti edilizi
comunali disciplinano le modalità costruttive, con
particolare riguardo al rispetto delle normative
tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza e
vivibilità degli immobili.
Architetti, ingegneri, geometri e, più in generale, tutti i
professionisti dell’edilizia, quando si trovano ad
approcciare interventi ricadenti nel territorio di più
Comuni ad oggi devono confrontarsi con normative a volte
anche profondamente (e ingiustificatamente) discordanti tra
loro.
Queste difformità possono riguardare anche definizioni
fondamentali, quale quella relativa alla superficie degli
edifici a volte definita utile lorda (Sul) o di pavimento (Slp)
e da cui, ai fini urbanistici, vengono normalmente escluse
(ma ogni Comune ha le sue regole) le aree porticate, le
logge, le autorimesse, piuttosto che i vani tecnici.
Così il regolamento edilizio del Comune di Milano del 1999 -regolamento che resterà in vigore sino alla pubblicazione
del nuovo regolamento edilizio (si veda l’articolo a fianco)- esclude dal conteggio della Slp gli spazi comuni destinati
ad attività di pertinenza dell’intero fabbricato, mentre
Bologna non conteggia gli spazi di servizio dell’unità
edilizia di uso comune e gli spazi tecnici collegati a parti
comuni.
I regolamenti comunali possono poi disporre distanze
maggiori rispetto a quella di 3 metri prescritta dal Codice
civile. Sfruttando questa possibilità, i Comuni di Bologna,
Firenze e Lecce, ad esempio, hanno quindi previsto una
distanza minima di 5 metri; il regolamento milanese del
1999, invece, dispone una distanza dal confine di 3 metri,
pari a quella del Codice.
E così, ancora, non mancano discordanze riguardo all’altezza
massima. Il Comune di Lecce ha previsto che l’altezza
massima dei fabbricati sia pari alla distanza misurata in
verticale tra il punto più basso del marciapiede a filo
fabbricato, o del terreno adiacente, e la quota
dell’intradosso dell’ultimo solaio orizzontale di copertura
dei locali abitativi.
Il regolamento edilizio di Napoli, invece, prevede che
l’altezza massima delle costruzioni sia equivalente
all’altezza maggiore tra tutte quelle relative alla facciata
della costruzione, la quale è a sua volta definita come
l’altezza all’estradosso del solaio di copertura del piano
utile più alto.
Verso il modello unico
Il decreto Sblocca Italia prevede che il Governo, le Regioni
e le autonomie locali concludano in sede di Conferenza
unificata accordi o intese per adottare uno schema di
regolamento edilizio-tipo.
Il regolamento edilizio-tipo costituirà il riferimento a cui
i Comuni dovranno attenersi e dal quale non potranno
discostarsi significativamente nell’adozione della
regolamentazione locale. A dettare i tempi di adeguamento
saranno però gli accordi.
La norma costituisce un primo importante passo verso
l’omogeneità delle disposizioni in materia edilizia. Ma i
tempi di adozione del regolamento-tipo e dell’adeguamento
dei regolamenti locali verosimilmente non saranno brevi. Il
nuovo regolamento unico richiederà ai Comuni anche
un’importante attività di coordinamento rispetto alle
previsioni, anche terminologiche, contenute nei propri
strumenti urbanistici (articolo Il Sole 24 Ore del
17.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Ferie in dodicesimi a inizio e fine carriera.
Gli incarichi di
posizione organizzativa possono essere conferiti a
dipendenti di categoria D, posizione giuridica 1, anche se
nell'ente vi sono dipendenti di categoria D posizione
giuridica 3. In questo caso non matura neppure il diritto al
riconoscimento delle mansioni superiori. Le ferie maturano
in dodicesimi solo nel primo e nell'ultimo anno di attività,
mentre in tutti gli altri anni possono essere godute senza
questa limitazione.
Possono essere così riassunte le più recenti indicazioni
dettate dall'Aran nella applicazione dei contratti
collettivi dei dipendenti degli enti locali.
Il contratto del 31.03.1999 stabilisce che gli incarichi
di posizione organizzativa siano conferiti a dipendenti di
categoria D, senza operare distinzioni tra le posizioni
giuridiche di inquadramento iniziale.
Molto opportunamente l'Aran ricorda che le amministrazioni
devono comunque essere molto prudenti nell'applicazione
della disposizione contrattuale. Il che vuol dire in
concreto che si devono applicare in modo “rigoroso” i
criteri che le amministrazioni si devono preventivamente
dare, sulla base delle previsioni dettate dal contratto
nazionale.
In questa sede gli enti possono darsi delle
specifiche regole, anche per quanto riguarda il conferimento
degli incarichi a dipendenti di categoria D1 o D3. E ancora
l’Aran chiarisce che, nel caso in cui l’incarico di
posizione organizzativa sia conferita ad un dipendente di
categoria D1, non si debbano conferire allo stesso mansioni
superiori
Le ferie non devono essere ordinariamente godute per
dodicesimi, quindi solamente dopo che esse sono maturate nel
corso dell’anno. Per il personale del comparto Regioni ed
enti locali le disposizioni contrattuali, che sono contenute
nell’articolo 18 del contratto del 6 luglio 1995, impongono
infatti il godimento in dodicesimi solamente nel primo e
nell’ultimo anno, per cui –in assenza di una specifica
disposizione- nella gran parte del periodo lavorativo i
dipendenti possono godere delle ferie dell’anno anche se le
stesse non sono ancora maturate.
L’Aran ritiene cioè che non vi sia un principio legislativo
di carattere generale dettato dalla legislazione, ma che la
materia sia compresa tra quelle contrattuali, quindi con la
possibilità di avere regole differenziate tra i vari
comparti (articolo Il Sole 24 Ore del
17.11.2014). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: L'onere
di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso
edilizio incombe sull'interessato, e non
sull'amministrazione, la quale, in presenza di un'opera
edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha
solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di
adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di
demolizione.
Ai sensi dell’art. 63, comma 1, e dell’art. 64, comma 1,
c.p.a. spetta al ricorrente, l'onere della prova in
relazione a circostanze che rientrano nella sua piena
disponibilità.
Nello specifico, la prova circa il tempo di ultimazione
delle opere edilizie è stato sempre posto sul privato, e non
sull'Amministrazione, dato che solo l'interessato può
fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi
probatori che siano in grado di radicare la ragionevole
certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto.
---------------
Il Collegio non ritiene che i rilevamenti tratti da Google
Earth prodotti in giudizio possano costituire, di per sé ed
in assenza di più circostanziati elementi che la ricorrente
non ha fornito, documenti idonei al prefato scopo e ciò, in
particolare, in considerazione della provenienza del
suddetto rilevamento, delle incertezze in merito all’epoca
di risalenza delle immagini visualizzate (come emerge dallo
stesso sito – alla pagina: https://support.google.com/earth/answer/21417?hl=it
– per impostazione predefinita il software “visualizza le
immagini di qualità migliore disponibili per una determinata
località”, con la precisazione che “a volte potrebbero
essere visualizzate immagini meno recenti se sono più nitide
rispetto a quelle più recenti”), della genericità delle
informazioni relative ai metodi di esecuzione del
rilevamento medesimo (a tale riguardo si osserva, peraltro,
che le immagini depositate in giudizio risultano essere
tratte dalla versione “base” del software e non da quelle
più evolute predisposte per scopi commerciali).
Occorre chiarire, infatti, che, come evidenziato dalla
consolidata giurisprudenza, l'onere di fornire la prova
dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe
sull'interessato, e non sull'amministrazione, la quale, in
presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che
la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai
sensi di legge e di adottare, ove ricorrano i presupposti,
il provvedimento di demolizione (Cons. St., sez. IV,
14.02.2012, n. 703; TAR Campania Napoli, sez. VIII,
02.07.2010, n. 16569).
Si sottolinea, sul punto, che, ai sensi dell’art. 63, comma
1, e dell’art. 64, comma 1, c.p.a. spetta al ricorrente,
l'onere della prova in relazione a circostanze che rientrano
nella sua piena disponibilità (cfr. Consiglio di Stato sez.
IV 10/01/2014 n. 46. Consiglio di Stato sez. III 13/09/2013
n. 4546).
Nello specifico, la prova circa il tempo di ultimazione
delle opere edilizie è stato sempre posto sul privato, e non
sull'Amministrazione, dato che solo l'interessato può
fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi
probatori che siano in grado di radicare la ragionevole
certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto (cfr.
infra multa Consiglio di Stato Sez. VI 20.12.2013 n. 6159;
Consiglio di Stato sez. V 20.08.2013 n. 4182; Consiglio di
Stato sez. V 15.07.2013 n. 3834; Consiglio di Stato Sez. VI
01.02.2013 n. 631).
---------------
Del pari, il Collegio non
ritiene che i rilevamenti tratti da Google Earth prodotti in
giudizio possano costituire, di per sé ed in assenza di più
circostanziati elementi che la ricorrente non ha fornito,
documenti idonei al prefato scopo e ciò, in particolare, in
considerazione della provenienza del suddetto rilevamento,
delle incertezze in merito all’epoca di risalenza delle
immagini visualizzate (come emerge dallo stesso sito – alla
pagina: https://support.google.com/earth/answer/21417?hl=it
– per impostazione predefinita il software “visualizza le
immagini di qualità migliore disponibili per una determinata
località”, con la precisazione che “a volte
potrebbero essere visualizzate immagini meno recenti se sono
più nitide rispetto a quelle più recenti”), della
genericità delle informazioni relative ai metodi di
esecuzione del rilevamento medesimo (a tale riguardo si
osserva, peraltro, che le immagini depositate in giudizio
risultano essere tratte dalla versione “base” del
software e non da quelle più evolute predisposte per scopi
commerciali) (TAR
Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 27.11.2014 n. 6118 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Legali, tariffe controllate. Sanzioni in arrivo per compensi
fuori misura. La Cassazione sul patto di quota lite. Le parcelle sono
valutabili.
Linea dura della Suprema corte sul patto di quota lite.
Rischia infatti di essere sanzionato l'avvocato che chiede
compensi sproporzionati rispetto all'attività che dovrà
svolgere. Ma non solo: è legittima una valutazione
preventiva della parcella.
Sono queste le conclusioni a cui
sono giunte le Sezioni unite civili della Corte di
cassazione con la sentenza 25.11.2014 n. 25012.
Il giudici di piazza Cavour hanno respinto il ricorso di un
legale che aveva fatto sottoscrivere al cliente una
scrittura privata nella quale era previsto un compenso del
30% in relazione a una richiesta di risarcimento del danno
per un incidente stradale.
Per questo motivo il legale era stato sospeso e poi
censurato.
Ora gli Ermellini hanno reso definitivo il verdetto. Sul
punto, la Cassazione ha spiegato che l'art. 45 del codice
deontologico forense, nel testo modificato con la delibera
dell'organismo di autogoverno dell'avvocatura del 18.01.2007, conseguente alla riforma legislativa del 2006,
consente all'avvocato di pattuire «con il cliente compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti»,
alla condizione, tuttavia, «che i compensi siano
proporzionati all'attività svolta».
La possibilità di pattuire tariffe speculative si
accompagna, quindi, all'introduzione di particolare cautele
sul piano deontologico, tese a prevenire il rischio di abusi
commessi a danno del cliente e a precludere la conclusione
di accordi iniqui.
La proporzione e la ragionevolezza nella pattuizione del
compenso rimangono l'essenza comportamentale richiesta
all'avvocato, indipendentemente dalle modalità di
determinazione del corrispettivo a lui spettante.
La norma dell'art. 45 del codice deontologico riproduce
infatti la previsione contenuta nell'art. 43, punto II,
dello stesso codice, che vieta all'avvocato di «richiedere
compensi manifestamente sproporzionati all'attività svolta.
Peraltro», aggiunge la Corte, «l'aleatorietà dell'accordo quotalizio
non esclude la possibilità di valutarne l'equità» se,
cioè, la stima effettuata dalle parti era, all'epoca della
conclusione dell'accordo che lega compenso e risultato,
ragionevole o, al contrario, sproporzionata per eccesso
rispetto alla tariffa di mercato, tenuto conto di tutti i
fattori rilevanti, in particolare del valore e della
complessità della lite e della natura del servizio
professionale, comprensivo dell'assunzione del rischio
(articolo ItaliaOggi del 26.11.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Il concordato evita la gara.
Consiglio di stato/ok al recesso da un rti.
In una gara di appalto pubblico è legittimo il recesso dal
raggruppamento temporaneo (Rti) da parte di una impresa che
ha fatto richiesta di concordato preventivo anche dopo la
presentazione dell'offerta.
La III Sez. del Consiglio
di Stato con la
sentenza 21.11.2014 n. 5752 ha
esaminato gli effetti derivanti dal recesso da un
raggruppamento temporaneo di imprese da parte di una impresa
che aveva formulato richiesta di concordato preventivo dopo
avere anche effettuato una cessione di un ramo d'azienda.
Tutto ciò era avvenuto successivamente alla presentazione
dell'offerta e, quindi, in apparente violazione del disposto
di cui all'articolo 37 del codice dei contratti pubblici (dlgs
163/2006) che vieta qualsiasi modificazione nei
raggruppamenti temporanei di impresa fatta eccezione per
fallimento della mandataria o di una mandante Per i giudici
il recesso è ammissibile a condizione in primo luogo che –all'inizio della gara– i requisiti di qualificazione siano
posseduti da tutte le imprese partecipanti al Rti compreso
quella che recede al momento della presentazione
dell'offerta, pena la violazione del principio della par
condicio tra i concorrenti.
In secondo luogo la sentenza precisa che non ha più rilievo
e non viola il principio della par condicio, il fatto che
l'impresa (qualificata al momento della domanda di
partecipazione) abbia poi esercitato il recesso nel corso
della procedura, anche eventualmente per aver perso i
requisiti di partecipazione; ma ciò vale a condizione che
sia avvenuto «per ragioni legate all'evoluzione delle
attività imprenditoriali che prescindono dalla singola gara,
come ad esempio nel caso di cessione del ramo di azienda»
e di richiesta di concordato preventivo.
Viceversa sarebbe illegittima la modifica soggettiva
successiva all'offerta, finalizzata a non soggiacere a
conseguenze dovute alla mancanza di requisito
(articolo ItaliaOggi del 25.11.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Comune con garanzia fideiussoria può applicare subito le
sanzioni per mancato versamento di contributi concessori.
Con la
sentenza 21.11.2014 n. 5734, la
V Sez. del Consiglio
di Stato ha ribadito il maggioritario orientamento della
giurisprudenza amministrativa, secondo il quale
l'esistenza
di una garanzia fideiussoria (a presidio dell’obbligo di
pagamento dei contributi concessori), non comporta per
l'Amministrazione comunale il dovere di chiedere
l'adempimento al fideiussore prima di poter irrogare le
sanzioni per omesso o ritardato pagamento dei contributi
concessori, né tale dovere potrebbe farsi discendere dal
richiamo all'articolo 1227 Cc, che è disposizione riferibile
alle sole obbligazioni di natura risarcitoria, e non anche a
quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura
sanzionatoria, come è quella in esame (cfr. Consiglio di
Stato, sezione IV, 19.11.2012, n. 5818; Consiglio di
Stato, sezione IV, 30.07.2012, n. 4320; Consiglio di
Stato, sezione V, 24.03.2005, n. 1250; Consiglio di
Stato, sezione V, 11.11.2005, n. 6345; Consiglio di
Stato, sezione V, 16.07.2007, n. 4025).
Contrasto di opinioni in giurisprudenza
Non persuasivo viene invece giudicato dalla III sezione il
diverso orientamento, seguito dai Tar e da una parte dello
stesso Consiglio di Stato, secondo cui le previsioni
legislative di sanzioni per il ritardato pagamento degli
oneri concessori si giustificano con la necessità, per
l'ente locale, di disporre tempestivamente delle somme
spettanti, atteso l'interesse pubblico alla celere
realizzazione e completamento delle opere di urbanizzazione;
la scelta del Comune di non incamerare la fideiussione
tempestivamente si porrebbe, pertanto, in contrasto con
l'esigenza di una celere acquisizione della disponibilità
delle somme e determina nel contempo un ingiustificato
aggravamento della posizione del debitore.
Per questo
secondo orientamento, tale scelta del Comune finirebbe per
ledere il principio di correttezza e buona fede, tenuto
conto che al privato è stato imposto un onere finanziario
(costo della polizza) per una finalità (certezza di tempi
nella disponibilità della somma) che l'Ente pubblico, per
scelta non aderente alla funzione della disposizione
normativa, abbandona per perseguire, nella sostanza, una
finalità secondaria (ottenere una consistente maggior somma)
a danno del privato, il quale presumibilmente non adempie
nei termini per temporanei problemi di liquidità, tenuto
conto che l'obbligazione di pagamento non viene meno, ma
cambia soltanto il soggetto creditore (da Comune ad
assicurazione), con l'aggravio del pagamento degli interessi
convenuti in polizza (cfr. Consiglio di Stato, sezione V, 10.01.2003, n. 32).
La tesi ritenuta preferibile
In conclusione, secondo la sentenza n. 5734/2014, la
sanzione scaturente dalla applicazione dell'articolo 3,
legge n. 47 del 1985, è da considerare regolata da tutte le
disposizioni di principio in materia di obbligazioni e in
particolare dal principio secondo il quale il creditore ha
il dovere di cooperare con il debitore per il puntuale
adempimento dell'obbligazione (cfr., cit. Consiglio di
Stato, sezione V, 10.01.2003, n. 32 e Consiglio di Stato,
sezione I, 17.05.2013, n. 11663) (commento tratto da
www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'incompatibilità di un componente emersa durante la
valutazione, fa cadere la commissione di gara.
Riguardo al funzionamento di quella
peculiare forma di organo collegiale che è la commissione
giudicatrice chiamata a valutare le offerte pervenute
nell’ambito di una procedura di evidenza pubblica,
naturale punto di partenza è l’orientamento fatto proprio
nel tempo dal Consiglio di Stato, secondo il quale
non esiste un principio assoluto di unicità o
immodificabilità delle commissioni giudicatrici, poiché tale
principio è destinato ad incontrare deroghe ogni volta vi
sia un caso di indisponibilità da parte di uno dei
componenti della commissione a svolgere le proprie funzioni.
Il caso
Ciò posto, mentre è stata ammessa, per conseguenza, la
sostituzione avvenuta per indisponibilità di un componente
in un momento in cui la commissione non aveva ancora
cominciato le operazioni valutative (cfr. Consiglio di
Stato, sezione III, 25.02.2013, n. 1169), secondo il
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.11.2014 n. 5732, la nomina di una
commissione di gara contenente un commissario incompatibile
non solo inficia le decisioni e le determinazioni a valle,
assunte dalla commissione stessa in quanto manifestazioni di
volontà complessa imputabili a tale organo, ma preclude
anche la nomina di tutti i medesimi commissari (e non solo
di quello dichiarato incompatibile), a tutela dei principi
di trasparenza e di imparzialità delle operazioni di gara.
La deroga imposta dai principi di trasparenza e
imparzialità
Emerge, quindi, come al di fuori di tali limitati casi in
cui la commissione non abbia ancora iniziato ad operare, la
giurisprudenza consideri questo organismo quale organo
collegiale centrale a garanzia dell’imparzialità e della
professionalità, sotto il profilo tecnico, delle valutazioni
effettuate nelle gare pubbliche idonee a determinare la
graduatoria, e quindi la vittoria, di un appalto pubblico.
Pertanto, ogni qualvolta emergano elementi che siano idonei,
anche soltanto sotto il profilo potenziale, a comprometterne
tale delicato e cruciale ruolo di garante di imparzialità
delle valutazioni affidato alle commissioni di gara, la
semplice sostituzione di un componente rispetto al quale sia
imputabile la causa di illegittimità dovrebbe dunque
ritenersi né ammissibile, né consentita, in particolare
nelle ipotesi in cui la commissione abbia già operato e
fornito le sue valutazioni in merito alle offerte
presentate, come nel caso di specie e come l’ordinanza
cautelare di questo Consiglio ha sinteticamente evidenziato.
L’osservazione critica
La delicatezza evidente degli interessi in gioco, quando si
tratta di selezionare le offerte delle imprese interessate
ad aggiudicarsi una commessa della Pa, rende plausibile
l’orientamento, rigoroso, ispirato all’idea che il rischio
che il ruolo e l’attività di uno dei commissari dichiarato
incompatibile possano avere inciso nei confronti anche degli
altri commissari durante le operazioni di gara,
influenzandoli verso un determinato esito valutativo,
impedisce la sua semplice sostituzione ed implica la
decadenza e la necessaria sostituzione di tutti gli altri
commissari.
Se una notazione di ordine critico si può fare, al riguardo,
è che il sistema deve peraltro trovare una sua coerenza
sistemica, che sembra smarrirsi di fronte ad es., per quanto
qui interessa, all’articolo 1, comma 1-ter, della legge
20/1994, che tende ad escludere una responsabilità
amministrativa in capo a coloro che si siano limitati ad
influire sul convincimento degli altri componenti,
attraverso la partecipazione alla discussione, senza
partecipare alla votazione finale
(commento tratto
da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il documento unico di
regolarità contributiva è una dichiarazione di scienza che
si colloca fra gli atti di certificazione o di attestazione
aventi carattere meramente dichiarativo di dati in possesso
dell'ente, assistiti da pubblica fede ai sensi dell'articolo
2700 c.c. e facenti pertanto prova fino a querela di falso;
le inesattezze o gli errori contenuti in detto contenuto,
investendo posizioni di diritto soggettivo, possono essere
corretti solo dal giudice ordinario o all'esito della
proposizione della querela di falso o a seguito di
un'ordinaria controversia in materia di previdenza ed
assistenza obbligatoria.
---------------
L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha tra l'altro
precisato, quanto al contenuto del d.u.r.c., che "la
valutazione compiuta dagli enti previdenziali sia vincolante
per le stazioni appaltanti e preclusa, ad esse, una
valutazione autonoma" e che "... la mancanza di d.u.r.c.
comporta una presunzione legale iuris et de iure di gravità
delle violazioni previdenziali", enunciando poi il principio
di diritto secondo cui "ai sensi e per gli effetti dell'art.
38, comma 1, lett. i), d.lgs. n. 163 del 2006, anche nel
testo vigente anteriormente al d.l. n. 70 del 2011, secondo
cui costituiscono causa di esclusione dalle gare di appalto
le gravi violazioni alle norme in materia previdenziale e
assistenziale, la nozione di violazione grave non è rimessa
alla valutazione caso per caso della stazione appaltante, ma
si desume dalla disciplina del documento unico di regolarità
contributiva; ne consegue che la verifica della regolarità
contributiva delle imprese partecipanti a procedure di gara
per l'aggiudicazione di appalti con la pubblica
amministrazione è demandata agli istituti di previdenza, le
cui certificazioni (d.u.r.c.) si impongono alle stazioni
appaltanti che non possono sindacarne il contenuto".
Ciò posto, com'è noto, il documento
unico di regolarità contributiva è una dichiarazione di
scienza che si colloca fra gli atti di certificazione o di
attestazione aventi carattere meramente dichiarativo di dati
in possesso dell'ente, assistiti da pubblica fede ai sensi
dell'articolo 2700 c.c. e facenti pertanto prova fino a
querela di falso; le inesattezze o gli errori contenuti in
detto contenuto, investendo posizioni di diritto soggettivo,
possono essere corretti solo dal giudice ordinario o
all'esito della proposizione della querela di falso o a
seguito di un'ordinaria controversia in materia di
previdenza ed assistenza obbligatoria (Cons. St., sez. V, 17.05.2013, n. 2682; da ultimo, Cons. St., V, 26.03.2014, n. 1468).
L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza
n. 8 del 04.05.2012, ha tra l'altro precisato, quanto al
contenuto del d.u.r.c., che "la valutazione compiuta dagli
enti previdenziali sia vincolante per le stazioni appaltanti
e preclusa, ad esse, una valutazione autonoma" e che "... la
mancanza di d.u.r.c. comporta una presunzione legale iuris
et de iure di gravità delle violazioni previdenziali",
enunciando poi il principio di diritto secondo cui "ai sensi
e per gli effetti dell'art. 38, comma 1, lett. i), d.lgs.
n. 163 del 2006, anche nel testo vigente anteriormente al
d.l. n. 70 del 2011, secondo cui costituiscono causa di
esclusione dalle gare di appalto le gravi violazioni alle
norme in materia previdenziale e assistenziale, la nozione
di violazione grave non è rimessa alla valutazione caso per
caso della stazione appaltante, ma si desume dalla
disciplina del documento unico di regolarità contributiva;
ne consegue che la verifica della regolarità contributiva
delle imprese partecipanti a procedure di gara per
l'aggiudicazione di appalti con la pubblica amministrazione
è demandata agli istituti di previdenza, le cui
certificazioni (d.u.r.c.) si impongono alle stazioni
appaltanti che non possono sindacarne il contenuto" (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 21.11.2014 n. 5731 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il danno da mancata aggiudicazione richiede la prova
rigorosa delle specifiche voci che lo compongono.
Il principio di diritto
L’impresa che si ritenga pregiudicata da un comportamento
della Pa non può limitarsi ad indicare il fatto (anche se
incontestato) dell’effetto pregiudizievole prodotto
dall’attività dell’Amministrazione in termini di contrazione
delle vendite, ma deve adempiere all’onere indefettibile di
rigorosa prova e quantificazione delle varie “voci di danno”
da tale “fatto” derivanti e cioè delle singole perdite
economiche prodotte dal fatto dannoso.
E’ evidente, infatti,
che la perdita di fatturato non costituisce di per sé voce
di danno, quanto piuttosto l’evento lesivo, dal quale
derivano “voci di danno”, in astratto coerenti con la
lesione lamentata, che la domanda risarcitoria deve
necessariamente specificare e quantificare al fine di
consentire al giudice adìto di stabilire, mediante un
giudizio ipotetico, se, in che misura e con riferimento a
quali specifici aspetti si sarebbe incrementata (o non
sarebbe diminuita) la sfera giuridica del ricorrente in caso
di legittimo esercizio dei poteri della stazione appaltante,
così da poter stabilire, in base alla sua concreta
consistenza, quale pregiudizio egli abbia eventualmente
sofferto e quindi quali siano le distinte conseguenze
economiche negative che hanno fatto ingresso in quella
sfera.
E’ questo l’importante principio di diritto affermato
dal Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 21.11.2014 n.
5729.
L’onere della prova è a carico dell’impresa che lamenti una
diminuzione del fatturato
Ad avviso dei giudici di Palazzo Spada, non può infatti
considerarsi assolto detto onere probatorio quando l’impresa
non abbia dedotto e provato le specifiche voci di danno
correlate all’evento della perdita di fatturato (ad es. la
mancata percezione dell’utile, la perdita del consolidamento
o comunque di posizioni dell’impresa sul mercato, le
diminuzioni del proprio avviamento o della sua capacità di
innovazione e ricerca, il fermo od il rallentamento della
sua capacità produttiva, il danno curriculare ecc.); in tal
caso, infatti, il singolo, relativo, pregiudizio economico
non è risarcibile; né, in mancanza di specifica pretesa di
tali voci (ed in particolare della prima), è possibile al
Giudice una loro individuazione e quantificazione in via
presuntiva e deduttiva, dal momento che ciò si porrebbe in
insanabile contrasto col principio del preciso onere per il
danneggiato di allegare e provare tutti gli elementi
costitutivi della fattispecie risarcitoria.
Nemmeno, ha
aggiunto il Consiglio di Stato, può considerarsi di per sé
“voce di danno” la mera perdita del fatturato, dal momento
che, ai fini della decisione sulla domanda risarcitoria, non
può prescindersi dall’esame concreto delle voci che la
compongono, posto che il risarcimento deve ristorare tutto
il danno effettivamente subìto, ma non può eccederlo, perché
non può tradursi in uno strumento di arricchimento
(Consiglio di Stato, sezione IV, 13.12.2013, n. 6000).
Necessaria la prova rigorosa della percentuale di utile
effettivo che l’impresa aggiudicataria avrebbe conseguito
Ne discende, in particolare, che il danno consistente nella
perdita dell’utile (quello più all’evidenza connaturato alla
perdita di fatturato) non può essere ricostruito in via
presuntiva dal giudice, essendo ormai pacifico in
giurisprudenza l'onere dell'impresa di una prova rigorosa
della percentuale di utile effettivo che essa avrebbe
conseguito qualora fosse risultata aggiudicataria
dell'appalto ( Consiglio di Stato, sezione V, 06.04.2009,
n. 2143; 17.10.2008, n. 5098; 05.04.2005, n. 1563;
sezione VI, 04.04.2003, n. 478; da ultimo, Consiglio di
Stato, sezione V, n. 5846/2012 e IV, n. 6000/2013, cit. ),
o, mutatis mutandis, dell’utile traibile dalla fornitura nel
caso in cui non si fosse contratta.
A ben vedere, ha concluso la III sezione, va respinta la
domanda risarcitoria quando sia mancata la prova, ancor
prima della “entità del pregiudizio”, della stessa “sussistenza”
del danno, in ragione della mancata specificazione delle
singole voci di danno (commento tratto da
www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell'art. 11, d.P.R. n. 380/2001, la
proprietà del suolo non è condizione indispensabile per il
conseguimento o il rilascio del permesso di costruire,
essendo sufficiente che il richiedente abbia titolo per
richiederlo.
Sono pertanto legittimati a richiedere il permesso di
costruire, i soggetti che hanno la disponibilità giuridica
dell'area e la titolarità di un diritto reale o personale di
godimento che dia facoltà di eseguire le opere oggetto del
progetto.
Nel caso di specie tale legittimazione è da ritenersi
sussistente, ciò in quanto il ricorrente -anche ove non
abbia la proprietà dell’area su cui sono state realizzate le
opere in questione- dispone, pacificamente, di un diritto di
“uso esclusivo con destinazione a giardino” sulla stessa,
titolo idoneo in considerazione anche della tipologia di
opere realizzate, qualificate dalla stessa amministrazione
comunale quali “opere di giardinaggio e sistemazione
esterna”.
---------------
Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza
amministrativa, nel corso dell'istruttoria sul rilascio del
permesso di costruire, il Comune ha l'obbligo di verificare
che esista il titolo per intervenire sull'immobile per il
quale è richiesto il permesso di costruire e che, quindi,
questo sia rilasciato al proprietario dell'area o a chi
abbia titolo per richiederla.
A carico dell'amministrazione incombe, però, solo tale
adempimento e non, invece, di compiere complesse
ricognizioni giuridico-documentali ovvero accertamenti in
ordine ad eventuali pretese che potrebbero essere avanzate
da soggetti estranei al rapporto concessorio.
Una volta appurata la sussistenza di un titolo il Comune è,
dunque, tenuto al rilascio del permesso di costruire -sempre
che sussistessero gli ulteriori presupposti richiesti
dall’art. 36, d.P.R. n. 380/2001- non dovendo entrare nel
merito di possibili contestazioni o controversie con i
condomini.
Il Collegio ritiene di
confermare le valutazioni espresse in sede cautelare circa
la fondatezza del ricorso.
Quanto all’area identificata in catasto al foglio 3, mappale
1979, essa è stata usucapita dal sig. P., così come
affermato nella sentenza del Tribunale di Como del
12.06.2008 (p. 4) ed ammesso dagli stessi controinteressati
(v. doc. n. 1).
Quanto all’area di cui al mappale 1598, ne è contestata la
proprietà ma è pacifico il diritto di uso esclusivo, con
destinazione a giardino, in capo al sig. P..
Anche ove le opere siano state realizzate, per la gran
parte, su quest’ultimo mappale, ad avviso del Collegio, il
ricorrente dispone comunque di titolo idoneo per ottenere a
nome proprio il permesso di costruire in sanatoria, senza
che gli altri condomini possano legittimamente opporvisi.
Ai sensi dell'art. 11, d.P.R. n. 380/2001, la proprietà del
suolo non è condizione indispensabile per il conseguimento o
il rilascio del permesso di costruire, essendo sufficiente
che il richiedente abbia titolo per richiederlo.
Sono pertanto legittimati a richiedere il permesso di
costruire, i soggetti che hanno la disponibilità giuridica
dell'area e la titolarità di un diritto reale o personale di
godimento che dia facoltà di eseguire le opere oggetto del
progetto.
Nel caso di specie tale legittimazione è da ritenersi
sussistente, ciò in quanto il ricorrente -anche ove non
abbia la proprietà dell’area su cui sono state realizzate le
opere in questione- dispone, pacificamente, di un diritto di
“uso esclusivo con destinazione a giardino” sulla
stessa, titolo idoneo in considerazione anche della
tipologia di opere realizzate, qualificate dalla stessa
amministrazione comunale quali “opere di giardinaggio e
sistemazione esterna” (cfr. parere della commissione
edilizia per i beni ambientali del 05.12.2008: doc. n. 15
del ricorrente).
Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza
amministrativa, nel corso dell'istruttoria sul rilascio del
permesso di costruire, il Comune ha l'obbligo di verificare
che esista il titolo per intervenire sull'immobile per il
quale è richiesto il permesso di costruire e che, quindi,
questo sia rilasciato al proprietario dell'area o a chi
abbia titolo per richiederla (cfr. ex multis: Cons.
Stato, sez. V, 07.07.2005 n. 3730; TAR Lombardia, Brescia,
19.10.2005 n. 995).
A carico dell'amministrazione incombe, però, solo tale
adempimento e non, invece, di compiere complesse
ricognizioni giuridico-documentali ovvero accertamenti in
ordine ad eventuali pretese che potrebbero essere avanzate
da soggetti estranei al rapporto concessorio.
Una volta appurata la sussistenza di un titolo il Comune
era, dunque, tenuto al rilascio del permesso di costruire
-sempre che sussistessero gli ulteriori presupposti
richiesti dall’art. 36, d.P.R. n. 380/2001- non dovendo
entrare nel merito di possibili contestazioni o controversie
con i condomini.
L’eventuale mancato rispetto, da parte del sig. P., del
vincolo di destinazione d'uso dell’area in questione
derivante dal titolo di acquisto è questione che concerne le
relazioni privatistiche tra condomini, cui resta estranea
l’amministrazione: il rilascio del permesso di costruire
avviene, difatti, con la clausola della salvezza dei diritti
dei terzi, diritti che sono tutelabili dinanzi alla
competente autorità giudiziaria.
Per le ragioni esposte il ricorso è fondato e va pertanto
accolto, con assorbimento delle ulteriori censure dedotte.
Per l’effetto vanno annullati il provvedimento del
07.10.2009, di diniego di permesso di costruire e
l’ordinanza di demolizione n. 2 del 21.10.2009, viziata per
illegittimità derivata
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 21.11.2014 n. 2814
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Questo Tribunale ha più volte ribadito il proprio
orientamento sul punto che il potere di applicare misure
repressive in materia urbanistica ed edilizia può essere
esercitato in ogni tempo, senza necessità, per i relativi
provvedimenti, di alcuna specifica motivazione in ordine
alla sussistenza dell'interesse pubblico a disporre una
demolizione.
Questo TAR, pertanto, non condivide l’orientamento difforme,
espresso ad esempio da C.d.S. sez. V 04.03.2008 n. 883,
secondo il quale invece “il lungo lasso di tempo trascorso
dalla commissione dell'abuso” e “il protrarsi dell'inerzia
dell'amministrazione preposta alla vigilanza” potrebbero
ingenerare un affidamento del privato, rispetto al quale
sussisterebbe un “onere di congrua motivazione” circa il
“pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al
ripristino della legalità, idoneo a giustificare il
sacrificio del contrapposto interesse privato”.
In proposito, si impone anzitutto il rilievo fatto proprio
dalla citata decisione C.d.S. 5509/2009, ovvero che di
affidamento si può parlare solo ove il privato, il quale
abbia correttamente e in modo compiuto reso nota la propria
posizione alla p.a., venga indotto da un provvedimento della
stessa a ritenere la legittimità del proprio operato, non
già nel caso che rileva, in cui si commette un abuso a tutta
insaputa della p.a. medesima.
Inoltre, come osservato dalla Sezione nella pure citata
sentenza 860/2010, l’abuso edilizio integra un illecito
permanente, rappresentato dalla violazione dell’obbligo,
perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a
diritto lo stato dei luoghi; di talché ogni provvedimento
repressivo dell’amministrazione non è emanato a distanza di
tempo da un illecito ormai esaurito, ma interviene su una
situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento.
Parimenti è infondato il secondo motivo, incentrato sulla
pretesa illegittimità della repressione del cd. “abuso
risalente”.
Questo Tribunale ha più volte ribadito il proprio
orientamento sul punto, e affermato già con la sentenza sez.
I 22.02.2010 n. 860, che il potere di applicare misure
repressive in materia urbanistica ed edilizia può essere
esercitato in ogni tempo, senza necessità, per i relativi
provvedimenti, di alcuna specifica motivazione in ordine
alla sussistenza dell'interesse pubblico a disporre una
demolizione; in senso conforme anche numerose decisioni del
C.d.S., ad esempio sez. IV, 15.09.2009, n. 5509, che si cita
per tutte.
Questo TAR, pertanto, non condivide l’orientamento difforme,
espresso ad esempio da C.d.S. sez. V 04.03.2008 n. 883,
secondo il quale invece “il lungo lasso di tempo
trascorso dalla commissione dell'abuso” e “il
protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla
vigilanza” potrebbero ingenerare un affidamento del
privato, rispetto al quale sussisterebbe un “onere di
congrua motivazione” circa il “pubblico interesse,
evidentemente diverso da quello al ripristino della
legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del
contrapposto interesse privato”.
In proposito, si impone anzitutto il rilievo fatto proprio
dalla citata decisione C.d.S. 5509/2009, ovvero che di
affidamento si può parlare solo ove il privato, il quale
abbia correttamente e in modo compiuto reso nota la propria
posizione alla p.a., venga indotto da un provvedimento della
stessa a ritenere la legittimità del proprio operato, non
già nel caso che rileva, in cui si commette un abuso a tutta
insaputa della p.a. medesima.
Inoltre, come osservato dalla Sezione nella pure citata
sentenza 860/2010, l’abuso edilizio integra un illecito
permanente, rappresentato dalla violazione dell’obbligo,
perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a
diritto lo stato dei luoghi; di talché ogni provvedimento
repressivo dell’amministrazione non è emanato a distanza di
tempo da un illecito ormai esaurito, ma interviene su una
situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 21.11.2014 n. 1282 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Si controverte della corretta interpretazione
dell’art. 17, comma 3, lettera b), T.U. 380/2001, secondo il
quale, alla lettera, “Il contributo di costruzione non é
dovuto:… b) per gli interventi di ristrutturazione e di
ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici
unifamiliari…”.
Si deve decidere allora se la norma si applichi al solo caso
in cui l’intervento riguardi un edificio già in origine
unifamiliare, ovvero anche al caso, che ricorre nella
specie, come pacifico, in cui si accorpino più unità
abitative in un edificio originariamente plurifamiliare e si
crei un edificio unifamiliare come risultato finale.
Secondo giurisprudenza, l’esenzione in esame si giustifica
come aiuto alla famiglia che, banalmente, necessiti di
ulteriore spazio per la propria decorosa sistemazione
abitativa: è quindi del tutto conforme a questa logica
applicarla al solo caso di ampliamento dell’unità
unifamiliare esistente, e non a quello per cui è causa, di
accorpamento in una di più unità preesistenti.
Si controverte della corretta interpretazione dell’art. 17,
comma 3, lettera b), T.U. 380/2001, secondo il quale, alla
lettera, “Il contributo di costruzione non é dovuto:… b)
per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in
misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari…”.
Si deve decidere allora se la norma si applichi al solo caso
in cui l’intervento riguardi un edificio già in origine
unifamiliare, ovvero anche al caso, che ricorre nella
specie, come pacifico, in cui si accorpino più unità
abitative in un edificio originariamente plurifamiliare e si
crei un edificio unifamiliare come risultato finale.
In proposito, si devono richiamare i principi già condivisi
da questo Tribunale nella sentenza sez. I 23.10.2014 n.
1111: il contributo di cui si ragiona è un tributo
propriamente detto perché ha natura di prestazione
patrimoniale imposta per ragioni di pubblica utilità – così
fra le molte C.d.S. sez. V 13.03.2014 n. 2438 e, nella
giurisprudenza della Sezione, sez. I 03.05.2014 n. 464; di
conseguenza, le ipotesi in cui esso non è dovuto hanno
natura di esenzioni tributarie, di carattere eccezionale, e
quindi insuscettibile di interpretazioni estensive ed
analogiche, in quanto eccezioni al principio costituzionale
di capacità contributiva, come ritenuto da costante
giurisprudenza della Corte costituzionale, da ultimo
20.04.2012 n. 103, e nella fattispecie in esame in modo
specifico da TAR Campania Napoli sez. VIII 09.05.2012 n.
2136.
Ciò posto, si deve osservare che, sempre secondo la
giurisprudenza –la decisione del TAR Napoli citata, nonché
TAR Campania Salerno sez. I 08.01.2013 n. 25 e TAR Marche
10.05.2012 n. 310- l’esenzione in esame si giustifica come
aiuto alla famiglia che, banalmente, necessiti di ulteriore
spazio per la propria decorosa sistemazione abitativa: è
quindi del tutto conforme a questa logica applicarla al solo
caso di ampliamento dell’unità unifamiliare esistente, e non
a quello per cui è causa, di accorpamento in una di più
unità preesistenti (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 21.11.2014 n. 1280 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
No al licenziamento senza preavviso del
dipendente pubblico in difetto di sentenza di condanna.
Interessante questione è quella decisa con la
sentenza 20.11.2014 n. 24728
dalla Suprema Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la quale
quest'ultima si è pronunciata in tema di licenziamento,
senza preavviso, di un dipendente di un ente pubblico
arrestato in flagranza di reato per il delitto di corruzione
e destinatario di un provvedimento di custodia cautelare in
carcere.
L'impugnazione
Nella fattispecie, l'ente aveva impugnato presso la Corte
d'Appello il lodo con il quale il collegio di disciplina
costituito presso il suo dipartimento del personale aveva
annullato il suddetto licenziamento senza preavviso,
adducendo quale motivazione che il collegio aveva
disapplicato l'articolo 68, comma 8, lettera g), del
contratto collettivo, sul presupposto che esso contrastasse
con il disposto normativo di cui alla legge 97/2001, e poi
perché non aveva tenuto conto che le disposizioni del suo
statuto regionale conferivano autonomia normativa all'ente
in materia di stato giuridico ed economico dei suoi
impiegati e funzionari.
La Corte d'Appello rigettava l'impugnazione ritenendo che la
legge 97/2001 avesse disciplinato esaustivamente il rapporto
tra procedimento penale e procedimento disciplinare e, di
conseguenza, dovesse ritenersi illegittima la disposizione
contenuta nella contrattazione collettiva, addotta a
fondamento del provvedimento espulsivo.
La Cassazione
A tale decisione non si atteneva l'ente pubblico il quale
impugnava la decisione per cassazione, osservando che la
fattispecie in esame, cioè il licenziamento senza preavviso
di un dipendente per l'arresto in flagranza per i reati di
peculato, concussione e corruzione, non fosse espressamente
disciplinato dalla legge 97/2001 e che, in ogni caso,
essendo tale fatto configurabile come grave infedeltà, lo
stesso avesse forza tale da rompere, in maniera
irreversibile ed irrimediabile, il rapporto di fiducia tra
la pubblica amministrazione ed il lavoratore medesimo.
Osservava, inoltre, l'ente che la norma contenuta nel
contratto collettivo costituiva integrazione della norma
contenuta nella legge suddetta.
La decisione
Il giudice di legittimità non ha condiviso tale assunto,
osservando intanto che le disposizioni contenute nel
contratto collettivo non possono mai prevalere sulla
normativa prevista dalla legge. In particolare,
quest'ultima, nel regolare il rapporto tra procedimento
penale e quello disciplinare, ha stabilito che l'estinzione
del rapporto di lavoro o di impiego segue di diritto
soltanto alla sentenza di condanna alla reclusione, non
inferiore a tre anni, per i delitti di cui agli articoli
314, rimo comma, 317, 318, 319, 319-ter e 320 del codice
penale, mentre negli altri casi l'estinzione può essere
disposta soltanto a seguito di procedimento disciplinare.
La Corte ha, inoltre, considerato del tutto infondata non
solo la tesi dell'ente secondo cui la previsione del
contratto collettivo fosse del tutto autonoma rispetto alla
disciplina di legge e che, addirittura, non interferirebbe
sulla stessa, ma anche quella secondo cui l'autonomia
normativa, conferita dallo statuto regionale in materia,
fosse tale da poter attribuire al contratto collettivo un
rango superiore a quello della legge
(tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com). |
APPALTI SERVIZI: La
giurisprudenza risulta orientata nel senso di considerare
che per “servizi analoghi” vadano addirittura intesi quelli
attinenti allo stesso settore dell’appalto da aggiudicare,
ma concernenti, in riferimento allo specifico oggetto della
procedura, tipologie diverse ed eterogenee.
Sotto il profilo del concetto di similarità dei servizi
pregressi, invero, deve rammentarsi che i servizi analoghi
non significano servizi identici, poiché la formula “servizi
analoghi” implica la necessità di ricercare elementi di
similitudine tra i servizi presi in considerazione, elementi
che non possono che scaturire dal confronto tra le
prestazioni oggetto dell’appalto da affidare e le
prestazioni oggetto dei servizi indicati dai concorrenti al
fine di dimostrare il possesso della capacità
economico-finanziaria dal bando, senza quindi fermarsi alla
verifica del tipo di contratto in cui tali prestazioni sono
inserite.
“Pertanto, quando la lex specialis di gara richiede, come
nella fattispecie, di dimostrare il pregresso svolgimento di
servizi simili, non è consentito alla stazione appaltante di
escludere i concorrenti che non abbiano svolto tutte le
attività rientranti nell’oggetto dell’appalto, né le è
consentito di assimilare impropriamente il concetto di
servizi analoghi con quello di servizi identici, considerato
che la ratio di siffatte clausole è proprio quella di
perseguire un opportuno contemperamento tra l’esigenza di
selezionare un imprenditore qualificato ed il principio
della massima partecipazione alle gare pubbliche”.
Ne consegue, perciò, che è invece l’eventuale esclusione
dalla valutazione, come servizio non analogo a quello
oggetto della gara di appalto, di un servizio che con quello
presenti alcuni aspetti in comune, che necessiterebbe di una
motivazione logica, puntuale e razionale, coerentemente con
la finalità che giustifica la richiesta ai concorrenti di
documentare il pregresso svolgimento di servizi non
identici, ma solo analoghi a quelli oggetto dell’appalto,
finalità rintracciabile nell’acquisizione da parte
dell’amministrazione appaltante dell’adeguata conoscenza
della precedente attività svolta e nella conseguente
possibilità di apprezzare, in concreto, la specifica
attitudine alla effettiva, puntuale e compiuta realizzazione
delle prestazioni oggetto della gara, costituendo le
precedenti esperienze significativi elementi sintomatici in
tal senso.
La giurisprudenza, d’altronde, risulta
orientata nel senso di considerare che per “servizi
analoghi” vadano addirittura intesi quelli attinenti allo
stesso settore dell’appalto da aggiudicare, ma concernenti,
in riferimento allo specifico oggetto della procedura,
tipologie diverse ed eterogenee.
Sotto il profilo del concetto di similarità dei servizi
pregressi, invero, deve rammentarsi che i servizi analoghi
non significano servizi identici, poiché la formula “servizi
analoghi” implica la necessità di ricercare elementi di
similitudine tra i servizi presi in considerazione, elementi
che non possono che scaturire dal confronto tra le
prestazioni oggetto dell’appalto da affidare e le
prestazioni oggetto dei servizi indicati dai concorrenti al
fine di dimostrare il possesso della capacità
economico-finanziaria dal bando, senza quindi fermarsi alla
verifica del tipo di contratto in cui tali prestazioni sono
inserite.
“Pertanto, quando la lex specialis di gara richiede, come
nella fattispecie, di dimostrare il pregresso svolgimento di
servizi simili, non è consentito alla stazione appaltante di
escludere i concorrenti che non abbiano svolto tutte le
attività rientranti nell’oggetto dell’appalto, né le è
consentito di assimilare impropriamente il concetto di
servizi analoghi con quello di servizi identici, considerato
che la ratio di siffatte clausole è proprio quella di
perseguire un opportuno contemperamento tra l’esigenza di
selezionare un imprenditore qualificato ed il principio
della massima partecipazione alle gare pubbliche” (Cons.
Stato, V, 25.06.2014, n. 3220).
Ne consegue, perciò, che è invece l’eventuale esclusione
dalla valutazione, come servizio non analogo a quello
oggetto della gara di appalto, di un servizio che con quello
presenti alcuni aspetti in comune, che necessiterebbe di una
motivazione logica, puntuale e razionale, coerentemente con
la finalità che giustifica la richiesta ai concorrenti di
documentare il pregresso svolgimento di servizi non
identici, ma solo analoghi a quelli oggetto dell’appalto,
finalità rintracciabile nell’acquisizione da parte
dell’amministrazione appaltante dell’adeguata conoscenza
della precedente attività svolta e nella conseguente
possibilità di apprezzare, in concreto, la specifica
attitudine alla effettiva, puntuale e compiuta realizzazione
delle prestazioni oggetto della gara, costituendo le
precedenti esperienze significativi elementi sintomatici in
tal senso (Cons. Stato, sez. V, 08.04.2014 n. 1668; id.,
sez. III, 25.06.2013, n. 3437) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 20.11.2014 n. 2892 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In applicazione dei
principi del “favor partecipationis” e di tutela
dell'affidamento, non può procedersi all'esclusione di
un'impresa nel caso in cui questa abbia compilato l'offerta
in conformità al fac-simile all'uopo approntato dalla
stazione appaltante, potendo eventuali parziali difformità
rispetto al disciplinare costituire oggetto di richiesta di
integrazione.
Oltre ciò, non può che
essere condiviso, nel caso di specie, l’orientamento
giurisprudenziale secondo il quale, in applicazione dei
principi del “favor partecipationis” e di tutela
dell'affidamento, non può procedersi all'esclusione di
un'impresa nel caso in cui questa abbia compilato l'offerta
in conformità al fac-simile all'uopo approntato dalla
stazione appaltante, potendo eventuali parziali difformità
rispetto al disciplinare costituire oggetto di richiesta di
integrazione (Cons. Stato, V, 05.07.2011, n. 4029; VI, n.
7278, 10.11.2004) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 20.11.2014 n. 2892 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
In orario anomalo l’accesso non è abusivo. Non è
reato il collegamento in tempi non previsti dalla prassi
interna. Sistema informatico. La
Cassazione annulla la condanna del dipendente.
È escluso il reato di accesso
abusivo per il dipendente che entra nel sistema informatico
in orari diversi da quelli previsti dalla prassi aziendale.
La Corte di Cassazione, -V Sez. penale- con la
sentenza 19.11.2014 n. 47938, annulla la
condanna nei confronti di un dipendente dell’agenzia delle
Entrate che nel pomeriggio –quindi in orario di chiusura
degli uffici al pubblico– aveva effettuato diverse
operazioni relative alla posizione di uno studio
professionale.
L’Agenzia gli aveva contestato, oltre all’accesso abusivo,
anche l’abuso d’ufficio. Il presupposto della contestazione
era che l’impiegato, con la sua “solerzia”, aveva
procurato un ingiusto vantaggio allo studio, col quale
avrebbe collaborato. L’ultima accusa era però caduta dopo la
verifica della regolarità contabile, degli interventi
effettuati.
Restava in piedi la contestazione dell’accesso abusivo,
giustificata dall’ora anomala nella quale il lavoro era
stato svolto. Una motivazione che il ricorrente ritiene non
valida alla luce della giurisprudenza della Cassazione che,
anche a Sezioni Unite, fa scattare il reato di accesso
abusivo ,nonostante il dipendente sia abilitato quando
vengono superati i limiti e le condizioni dell’abilitazione,
indipendente mente dagli scopi per i quali il soggetto è
andato oltre il “mandato”.
Il diretto interessato considera dunque ingiustificato
qualunque addebito mosso solo in virtù dell’orario in cui
aveva operato. E i giudici della Quinta sezione gli danno
ragione. La Cassazione sottolinea che quando il reato
(previsto dall’articolo 615-ter del Codice penale) viene
contestato a un soggetto autorizzato all’accesso, quello che
conta, perché l’accusa regga, è che questi, pur essendo
entrato legittimamente, si sia trattenuto nel sistema oltre
i limiti fissati dal titolare o vi abbia svolto attività non
consentite dal suo contratto o dalla prassi aziendale. Nel
caso esaminato non era accaduto nulla di tutto ciò.
Venuta meno l’imputazione dell’ingiusto vantaggio, la
condanna inflitta dalla Corte d’appello si reggeva solo
sulla circostanza che le pratiche erano state evase in un
orario in cui l’ufficio era chiuso al pubblico. Per la
Suprema corte non è una buona ragione. Eventuali
disposizioni sulla collocazione oraria degli accessi
telematici, nella giornata lavorativa del dipendente, non
possono essere considerate rilevanti ai fini della
violazione contestata.
Infatti, la norma incriminatrice tutela il domicilio
informatico riguardo alle modalità che ne regolano
l’accesso, allo scopo di dare la possibilità al titolare di
esercitare il suo “potere di esclusione”. Obiettivo
rispetto al quale sono del tutto irrilevanti le indicazioni
sull’orario in cui chi è autorizzato ad operare può entrare
nei programmi aziendali: i tempi riguardano semmai
l’organizzazione interna dell’ufficio nel quale il sistema è
operativo. Diverso, in questa prospettiva è il problema
della permanenza nel sistema, che diventa penalmente
rilevante se protratta oltre quanto stabilito dalle
disposizioni del titolare
(articolo Il Sole 24 Ore del
20.11.2014). |
APPALTI:
La moralità professionale si deve valutare in relazione alla
gara pubblica e al reato.
La moralità
professionale di chi partecipa ad una gara pubblica, deve
essere valutata in ragione delle caratteristiche della gara
e della gravità del reato in discussione.
Questo, il principio ribadito dal Consiglio di Stato, Sez.
III, con la
sentenza 18.11.2014 n. 5679,
nell’ambito di una procedura ad evidenza pubblica
concernente l’affidamento del servizio di recupero ed
acquisto di veicoli oggetto di provvedimenti di sequestro
amministrativo, fermo o confisca.
La vicenda
Nel caso in esame, la commissione di gara decideva di non
ammettere un raggruppamento temporaneo, visto che era emersa
la sussistenza, a carico di uno dei soggetti partecipanti,
di un decreto penale di condanna, emesso perché “con più
azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, quale
custode giudiziario di un’autovettura sottoposta a sequestro
preventivo penale, rifiutava indebitamente di consegnare il
bene al legittimo proprietario chiedendogli il pagamento di
spese non previste dal decreto di restituzione della Procura”.
L’esclusione, era quindi fondata sulla violazione
dell’articolo 38, comma 1, lett. c), del Dlgs 163/2006.
La decisione
Giunta la questione dinanzi al Consiglio di Stato, viene
confermata la decisione assunta dalla commissione sulla base
del fatto che l’articolo 38, comma 1, lett. c) contempla tra
le ipotesi di esclusione anche quella di condanna con
decreto penale divenuto irrevocabile. Secondo la decisione,
la commissione ha inoltre correttamente rilevato che “trattasi
di delitto in danno dello Stato, quindi già di per sé grave
anche solo per la rubrica”. I Giudici, rilevano altresì che
“nell’apprezzamento della gravità del reato ai sensi
dell’articolo 38, comma 1, lett. c), del Codice dei
contratti pubblici, la stazione appaltante dispone di ampia
discrezionalità, non sindacabile dal giudice amministrativo
se non per i noti profili di irrazionalità, illogicità,
incongruità o travisamento dei fatti”.
La stazione appaltante, ha dunque legittimamente escluso il
concorrente, visto che trattavasi di un delitto contro la
pubblica amministrazione, strettamente attinente con
l’oggetto della gara
(tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Il primario può fare il consigliere comunale.
Consiglio di Stato. Nessuna incompatibilità nei
centri con più di 10mila abitanti.
Il primario di una azienda sanitaria
locale può essere nello stesso tempo consigliere comunale in
un centro con più di 15mila abitanti, poiché le nuove norme
“anticorruzione” nella pubblica amministrazione prevedono
l’incompatibilità con la carica politica solo per il
direttore generale, sanitario e amministrativo.
L’ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. III, con la
sentenza 12.11.2014 n. 5583.
I giudici hanno accolto il ricorso di un medico di una Asl
con mansioni di dirigente medico di chirurgia generale e
pronto soccorso contro l’incompatibilità contestatagli dal
direttore generale per la contemporanea carica di componente
dell’organo di indirizzo politico di una amministrazione
locale, in generale vietata dall’articolo 12 del decreto
attuativo della legge “anticorruzione” (Dlgs 39/2013)
ai dirigenti, interni e esterni, di Pa, enti pubblici e di
diritto privato sotto il controllo pubblico.
Il collegio, annullando lo “stop” al primario, ha
spiegato che in tal caso va applicata la disciplina speciale
per il personale del Servizio sanitario nazionale (articolo
14 della legge) che elenca i casi di contrasto tra gli
incarichi direttivi e le cariche di componenti degli organi
di indirizzo politico nelle amministrazioni statali,
regionali e locali, incluso quello di consigliere (e
assessore) nei Comuni medio-grandi come nel caso in esame.
Questa norma, afferma la sentenza, «prevede
esplicitamente una disciplina apposita per il personale
delle Asl e delle Aziende ospedaliere al fine di
“comprendere” nel regime dell’incompatibilità i tre
incarichi di vertice (direttore generale, direttore
sanitario, direttore amministrativo)» e «implicitamente
ma inequivocamente esclude da quel regime il personale ad
essi subordinato, pur se rivestito di funzioni denominate
“dirigenziali”». Per i giudici, la “ratio legis”
sta nelle «caratteristiche peculiari alquanto diverse» dei
dirigenti della Pa rispetto a quelle dei dirigenti medici i
quali non hanno «competenze provvedimentali e gestionali,
se non forse in misura del tutto marginale e limitata al
momento organizzativo interno del reparto» (articolo Il Sole 24 Ore del
20.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Niente peculato per le telefonate private dall'ufficio se
non c'è danno apprezzabile per la Pa.
Il dipendente pubblico che utilizza il
telefono d'ufficio per fini personali ricade nel reato di
peculato d'uso se produce un danno apprezzabile al
patrimonio dell'amministrazione o danneggia la funzionalità
dell'ufficio. Il comportamento deve ritenersi penalmente
irrilevante se non presenta conseguenze economicamente e
funzionalmente significative.
Con questo interessante distinguo la VI Sez. penale della
Corte di Cassazione con la
sentenza
10.11.2014 n. 46282 annulla, rinviandola ad altra
sezione, la sentenza del 17.12.2013 con cui la Corte di
Appello di Palermo ha condannato una dirigente del settore
pubblico per peculato in quanto aveva utilizzato il telefono
del proprio alloggio di servizio per telefonate private,
procurando all'amministrazione di appartenenza "un danno
economico stimabile in varie decine di euro, dunque non
trascurabile, né al di sotto della soglia minima di
rilevanza penale del fatto".
L'orientamento dirimente delle Sezioni
Unite
Già le Sezioni Unite penali, con sentenza del 02.05.2013 n.
19054 ha sancito che il comportamento del dipendente
pubblico che danneggia l'ente di appartenenza, con chiamate
private dal cellulare di servizio, configura il reato di
peculato d'uso.
In quell'occasione la Suprema Corte era stata chiamata ad
accertare se l'utilizzo, per fini privati, di un'utenza
telefonica, assegnata per ragioni di ufficio, integri o meno
l'appropriazione richiesta per la configurabilità del
delitto di cui all'articolo 314, secondo comma, del Codice
penale, ovvero una condotta distrattiva o fraudolenta
rispettivamente inquadrabile nel delitto di abuso di ufficio
o in quello di truffa aggravata a danno dello Stato. Sulla
questione si erano, infatti, sviluppati diversi
orientamenti:
1) la condotta sopra descritta integrerebbe il reato di
peculato d'uso, in quanto la stessa non realizzerebbe una
appropriazione degli impulsi elettronici, "ma solo una
interversione momentanea del possesso, seguita dalla
restituzione immediata dell'apparecchio" (Cassazione
penale, sezione VI, sentenza 28.01.1996 n. 3009);
2) la condotta in esame integra gli estremi del reato di
peculato comune in quanto "l'uso del telefono si
connoterebbe non nella fruizione dell'apparecchio
telefonico, in quanto tale, ma nell'utilizzazione
dell'utenza telefonica, con la conseguenza che l'oggetto
della condotta appropriativa sarebbe rappresentato
dall'energia occorrente per le conversazioni la quale,
possedendo valore economico, può costituire oggetto
materiale del peculato in virtù della sua equiparazione alla
"cosa mobile", con conseguente vera e definitiva
appropriazione, da parte del pubblico funzionario, degli
impulsi elettrici" (Cassazione penale, sezione VI,
sentenze 15.01.2003 n. 10671 e 14.01.2003 n. 7347);
3) si tratterebbe di abuso di ufficio anche se non è
configurabile nella condotta una violazione di norme di
legge o di regolamento, quale elemento essenziale per la
sussistenza della fattispecie (Cassazione penale, sezione VI,
sentenza 09.04.2008 n. 31688).
Le Sezioni Unite, con la richiamata sentenza n. 19054/2013
ha riconosciuto che, l'uso per fini personali da parte del
pubblico funzionario, del telefono assegnatogli per esigenze
di ufficio, riveste natura di peculato d'uso, in quanto
l'agente distoglie il bene fisico costituito
dall'apparecchio telefonico, di cui ha il possesso per
ragioni di ufficio, dalla sua destinazione pubblicistica,
piegandolo a fini personali, per il tempo dell'uso,
restituendolo, alla cessazione dell'uso, alla sua
destinazione originaria, essendo del tutto irrilevante il
fatto che il bene stesso non fuoriesca materialmente dalla
sfera di disponibilità della pubblica amministrazione.
La soglia di rilevanza penale
Il raggiungimento della soglia di rilevanza penale
presuppone, però, l'offensività del fatto che, nel caso di
specie, si realizza con la produzione di un apprezzabile
danno al patrimonio della Pa o di terzi ovvero con una
concreta lesione della funzionalità dell'Ufficio.
Nel rinviare ad altra sezione della Corte di Appello di
Palermo la sentenza impugnata, la Corte di cassazione con la
sentenza n. 46282/2014 in commento sottolinea che la
significatività del danno procurato all'amministrazione di
appartenenza deve essere valutata alla luce dell'arco
temporale di utilizzo privato del telefono di servizio,
verificando se si sia verificata in taluni giorni o periodi
una concentrazione tale di chiamate da consentirne una
valutazione unitaria.
Il riesame del ricorso presentato dal difensore
dell'imputata dovrà, quindi, evidenziare se le condotte così
unitariamente considerate superino o meno la soglia di
rilevanza penale
(tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Nominare l'Assessore è scelta politica, ma revocarlo è
scelta amministrativa che va motivata.
Gli atti di nomina e revoca degli
Assessori degli Enti territoriali non hanno, secondo la
giurisprudenza amministrativa, natura politica (fra molti,
Consiglio di Stato, sezione V, sentenza n. 4905 del
25.08.2011; sezione V, n. 2357 del 27.04.2010; sezione V, n.
6253 del 12.10.2009), anche se l’articolo 46, comma 4, del
Dlgs n. 267 del 18.08.2000, prevede che nell’ordinamento
generale degli Enti locali “Il Sindaco e Presidente della
Provincia possono revocare uno o più Assessori, dandone
motivata comunicazione al Consiglio".
Inoltre, se è vero che la valutazione degli interessi
coinvolti nel procedimento di revoca di un Assessore è
rimessa in via esclusiva al Sindaco, cui compete in
autonomia la scelta delle persone di cui avvalersi per
l’amministrazione dell’ente e che possono essere anche
esterne al Consiglio comunale (c.d. Assessori tecnici), è
anche vero che il primo cittadino non decide in solitudine,
atteso che la valutazione di merito delle scelte operate dal
Sindaco è poi rimessa alla esclusiva valutazione del
Consiglio comunale quale organo di indirizzo e di controllo
dell’Ente.
Questa, in estrema sintesi, l’avviso espresso dal TAR
Puglia-Lecce, Sez. I, nella
sentenza
07.11.2014 n. 2692.
Le caratteristiche della revoca
dell’Assessore
In concreto, hanno ribadito i giudici pugliesi sulla scorta
di un preciso indirizzo giurisprudenziale (Tar Puglia Lecce,
sez. I, n. 831 del 06.03.2007, n. 546 del 21.02.2008, n. 593
del 27.03.2009 e n. 1620 del 23.06.2009), la revoca
dell’Assessore non può essere motivata da ragioni di
carattere meramente politico, ma deve necessariamente
radicarsi nell’esigenza primaria costituita dal buon
andamento dell’organo di gestione, perché “una volta (…)
che gli organi del comune si sono costituiti sulla base
della legittimazione elettorale, essi devono pur sempre
funzionare nell’interesse dell’intera collettività
territoriale e nel rispetto del principio di imparzialità e
buon andamento (articolo 97 della Costituzione)”. In
altri termini, le ragioni meramente politiche si arrestano
alla fase costitutiva.
Al riguardo, i giudici pugliesi fanno notare che la revoca
dell’Assessore secondo l’articolo 46 Tuel, deve essere
motivata, e ciò, evidentemente, non per ragioni politiche ma
per le comuni esigenze di trasparenza, imparzialità e buon
andamento. Le ragioni politiche possono assumere rilievo
nella comunicazione della revoca che il Sindaco deve fare al
Consiglio comunale: essa può incidere anche su valutazioni
relative al rapporto di fiducia politica tra il Consiglio
stesso ed il Sindaco.
Non sono però tali esigenze quelle poste alla base della
motivazione espressamente richiesta dalla norma. Richiedendo
una vera e propria motivazione -e non una mera illustrazione
anche orale delle ragioni del Sindaco, ove richiesto dal
Consiglio, così come può avvenire per le nomine degli
Assessori- il legislatore dimostra infatti di ricondurre
espressamente la revoca degli Assessori alle garanzie
formali e sostanziali proprie dei provvedimenti
amministrativi.
Da ciò si deduce agevolmente –ad avviso del Tar Puglia- che
la revoca sindacale del singolo Assessore deve essere
ispirata e motivata da ragioni che attengono comunque al
buon andamento dell’organo di gestione e non a mere esigenze
di partito o di coalizione, che devono restare decisamente
sullo sfondo.
La regola della motivazione e le eccezioni
Alla regola della motivazione, secondo il Tar Puglia, fanno
peraltro eccezione i casi in cui viene a mutare l’assetto
politico risultante dalle urne e quindi la legittimazione
elettorale degli organi di governo dell’ente (si pensi ad
esempio ai casi di sopravvenuto mutamento della maggioranza
con conseguente sfiducia del Sindaco e scioglimento del
Consiglio comunale).
La rilevanza della ricorrenza di contrasti
politici e amministrativi in ordine alle scelte
dell’amministrazione comunale
Se la regola dell’insufficienza di un motivo puramente
politico per la revoca dell’Assessore è legata alla
necessità dell’esistenza di un interesse di carattere
generale alla rimozione dell’Assessore, il riferimento alla
previsione costituzionale del buon andamento e
dell’imparzialità della pubblica amministrazione esige che
la ricorrenza di questo interesse si concretizzi in
comportamenti che siano stati formalizzati o documentati in
qualche modo all’interno del circuito decisionale pubblico,
ossia in specifiche circostanze che denotino la
disfunzionalità dell’apparato pubblico (che si intende
appunto superare e risolvere attraverso la revoca della
funzione assessorile).
Il che non può riscontrarsi, ha aggiunto il Tar Puglia,
laddove la sostanziale assenza di veri e propri contrasti
politici e amministrativi in ordine alle scelte
dell’amministrazione comunale o, comunque, concrete e
specifiche disfunzioni all’interno della Giunta e
dell’apparato amministrativo-politico in generale sia
comprovata dalla circostanza che le delibere di Giunta siano
state assunte all’unanimità e con la partecipazione
prevalente del ricorrente
(tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Permessi di costruire senza privacy.
Tar Marche. Qualsiasi interessato ha diritto di accesso agli
atti, anche prima della legge sulla trasparenza.
In tema di edilizia,
l’accesso agli atti amministrativi e agli elaborati
progettuali è garantito a qualsiasi soggetto interessato con
la pubblicazione delle autorizzazioni approvate nell’albo
pretorio della pubblica amministrazione. Una forma di
pubblicità non prevista dalla normativa precedente, m€a
nemmeno impedita da ragioni di riservatezza. E comunque più
estesa di quella prevista dalla legge sul diritto d’accesso
e utile al controllo pubblico dell’attività urbanistico-edilizia.
Lo ha stabilito il TAR Marche con la
sentenza
07.11.2014 n. 923.
I giudici hanno accolto il ricorso di un privato a cui un
Comune, per tutelare un presunto diritto alla riservatezza
dei terzi interessati, aveva negato la visione dell’intera
documentazione relativa ai titoli edilizi rilasciati ad
un’azienda titolare di una lottizzazione comprendente un
terreno di comproprietà. La documentazione era utile per una
causa legale pendente contro lo stesso ente pubblico per il
risarcimento dei danni derivanti da varianti urbanistiche ed
edilizie.
A parere del collegio, l’accesso agli atti deve essere
garantito in quanto necessario a curare o difendere gli
interessi giuridici del richiedente secondo quanto stabilito
in generale dalle norme sul procedimento amministrativo in
tema di accesso (articolo 24 della legge 241/1990), ma in
particolare da quelle del Testo unico in materia edilizia (Dpr
380/2001). Secondo il Tar, quest’ultime, obbligando la Pa a
pubblicare nell’albo pretorio il concesso permesso di
costruire (articolo 20, comma 6, del Testo unico), ne
prevedono «un regime di pubblicità molto più esteso», almeno
«prima dell’avvento del c.d. diritto di accesso civico»
fissato con la legge sulla trasparenza (articolo 5 del Dlgs
33/2013).
Tale onere, afferma la sentenza, consente «a qualsiasi
soggetto interessato di visionare gli atti del procedimento,
in ragione di quel controllo “diffuso” sull’attività
edilizia che il legislatore ha inteso garantire». Per questo
poi, sull’accesso a tali atti «non può essere affermata
l’esistenza di un diritto alla riservatezza» di terzi dato
che, come nel caso in esame, chi li richiede «ha solo
l’esigenza di verificare la presenza di eventuali abusi
edilizi o altre similari evenienze che possano ledere la sua
proprietà» (articolo Il Sole 24 Ore del 27.11.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di rilascio dei titoli edilizi esistono specifiche
disposizioni di legge e regolamentari che, sulla scorta
della nota disposizione di cui all’art. 31 della L. n.
1150/1942, come modificato dalla c.d. legge ponte n.
765/1967, prevedono un regime di pubblicità molto più esteso
di quello che, prima dell’avvento del c.d. diritto di
accesso civico (D.Lgs. n. 33/2013), era contemplato dalla L.
n. 241/1990.
Si veda, in particolare, l’art. 20, comma 6, del T.U. n.
380/2001, nella parte in cui stabilisce che dell’avvenuto
rilascio di un titolo edilizio va dato avviso all’albo
pretorio. Tale disposizione non può che essere interpretata
nel senso che tale onere di pubblicazione è funzionale a
consentire a qualsiasi soggetto interessato di visionare gli
atti del procedimento, in ragione di quel controllo
“diffuso” sull’attività edilizia che il legislatore ha
inteso garantire (vedasi anche l’art. 27, comma 3, del DPR
n. 380/2001).
Il ricorso è fondato e va dunque accolto.
In effetti, in materia di rilascio dei titoli edilizi
esistono specifiche disposizioni di legge e regolamentari
che, sulla scorta della nota disposizione di cui all’art. 31
della L. n. 1150/1942, come modificato dalla c.d. legge
ponte n. 765/1967, prevedono un regime di pubblicità molto
più esteso di quello che, prima dell’avvento del c.d.
diritto di accesso civico (D.Lgs. n. 33/2013), era
contemplato dalla L. n. 241/1990.
Si veda, in particolare, l’art. 20, comma 6, del T.U. n.
380/2001, nella parte in cui stabilisce che dell’avvenuto
rilascio di un titolo edilizio va dato avviso all’albo
pretorio. Tale disposizione non può che essere interpretata
nel senso che tale onere di pubblicazione è funzionale a
consentire a qualsiasi soggetto interessato di visionare gli
atti del procedimento, in ragione di quel controllo “diffuso”
sull’attività edilizia che il legislatore ha inteso
garantire (vedasi anche l’art. 27, comma 3, del DPR n.
380/2001).
Ma nel caso di specie non è nemmeno necessario applicare
tali disposizioni, visto che il ricorrente è comproprietario
di un lotto di terreno attiguo a quelli di proprietà della
ditta controinteressata e incluso nella medesima
lottizzazione, e che egli è stato asseritamente danneggiato
da alcune varianti urbanistiche ed edilizie che il Comune di
Recanati ha approvato negli ultimi tempi. E tale
affermazione non è meramente soggettiva, visto che pende già
davanti a questo Tribunale il ricorso con cui il sig. C.
chiede la condanna dell’amministrazione al risarcimento dei
danni.
Sussistono quindi tutti i presupposti di cui all’art. 24,
comma 7, L. n. 241/1990, considerato che in subiecta
materia non può essere affermata l’esistenza di un
diritto alla riservatezza in capo ai controinteressati.
In effetti, il ricorrente ha solo l’esigenza di verificare
la presenza di eventuali abusi edilizi o altre similari
evenienze che possano ledere la sua proprietà (e non importa
se si tratti di proprietà individuale o di comproprietà), il
che non implica quindi la conoscenza di dati sensibili. A
voler diversamente opinare si darebbe, ad esempio, la
possibilità agli autori di abusi edilizi di poter evitare
qualsiasi controllo su impulso di parte, accampando un
inesistente diritto alla riservatezza.
Naturalmente non è scontato che i documenti oggetto di
accesso siano effettivamente utili al ricorrente nell’ambito
del giudizio pendente (così come è da ribadire che la
proposizione di istanze di accesso non riapre ex se i
termini di impugnazione di provvedimenti ormai
consolidatisi), ma in questa sede il giudice deve solo
verificare la non manifesta inutilità della visione degli
atti oggetto della richiesta di accesso.
Il Tribunale, per quanto detto in precedenza, non ritiene
che la visione degli atti in argomento sia icto oculi
irrilevante rispetto alle esigenze di tutela giurisdizionale
delle ragioni del sig. C..
In conclusione, il ricorso va accolto, con conseguente
condanna del Comune di Recanati a consentire al ricorrente
la visione e l’estrazione di copia degli atti indicati
nell’istanza di accesso del 18/2/2014 (per la parte rimasta
inevasa), chiarita con le successive note del 10/03/2014 e
del 23/04/2014
(TAR Marche,
sentenza
07.11.2014 n. 923
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
L'uso privato occasionale della macchina di servizio non
costituisce peculato.
Non c'è reato di peculato nel caso in
cui i massimi dirigenti di una azienda sanitaria abbiano
utilizzato, in una sola occasione, l'auto di servizio con
autista per affari personali.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con
la
sentenza 06.11.2014 n. 46061.
Il fatto
La vicenda vede coinvolti un commissario straordinario di
un'azienda ospedaliera e il direttore sanitario; ai due
dirigenti pubblici era stato contestato, in concorso fra
loro, il delitto di peculato per avere fatto uso delle
autovetture in dotazione all'ente, al di fuori dei compiti
strettamente istituzionali, peraltro utilizzando anche
l'autista per attività non riconducibili al suo servizio.
Inoltre, al direttore sanitario era stato attribuito anche
il reato di truffa aggravata perché aveva autorizzato, a
favore dell'autista la liquidazione delle somme per lo
svolgimento dello straordinario, relativo agli
accompagnamenti non rientranti nei compiti istituzionali.
Il giudice di primo grado aveva escluso che le condotte
contestate agli imputati integrassero il reato di peculato,
in quanto è risultato che il direttore sanitario, fosse
pienamente legittimato ad utilizzare l'autovettura con
l'autista, precisando che i viaggi effettuati nel periodo
considerato si esaurivano nel percorso casa-ufficio, ad
eccezione di un unico episodio, che però è stato ritenuto
irrilevante dal punto di vista penale. Per le stesse ragioni
è stato assolto il commissario straordinario dell'Asl, al
quale era stato contestato di avere autorizzato l'uso
improprio delle autovetture; il manager della Asl è
risultato del tutto estraneo alla vicenda.
L'esclusione del peculato ha, conseguentemente, determinato
l'assoluzione del direttore sanitario anche dal reato di
truffa. Avverso la decisione del Tribunale, il Procuratore
ha proposto ricorso in Cassazione deducendo l'erronea
applicazione della legge penale e la manifesta illogicità
della motivazione. In particolare, il Procuratore ricorrente
censura l'affermazione contenuta nella sentenza, secondo cui
il tragitto casa-ufficio rientrerebbe nel concetto di
attività istituzionale, in assenza di una specifica
autorizzazione al riguardo; inoltre, contesta la
ricostruzione operata dal giudice che ha limitato ad un
unico episodio l'uso improprio dell'autovettura.
Va ricordato che il peculato, previsto e disciplinato dagli
articoli 314 e 316 del Cp, è un delitto che si configura
quando "il pubblico ufficiale o l'incaricato di un
pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o
servizio il possesso o comunque la disponibilità di danaro o
di altra cosa mobile altrui, se ne appropria".
Il peculato è un "reato proprio", per cui può essere
commesso, come stabilisce chiaramente l'incipit
dell'articolo 314 del Cp, da un soggetto che rivesta la
qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico
servizio. Ai fini della configurazione del reato, secondo la
giurisprudenza di legittimità, per pubblico ufficiale deve
intendersi sia colui che tramite la sua attività concorre a
formare quella della Pa, sia colui che è chiamato a svolgere
attività aventi carattere accessorio o sussidiario ai fini
istituzionali (ovvero colui che partecipa al procedimento
amministrativo, con funzioni, propedeutiche o accessorie,
aventi effetti "certificativi, valutativi o autoritativi"),
poiché, anche in tal caso, attraverso l'attività stessa, si
verifica una partecipazione alla formazione della volontà
dell'amministrazione pubblica.
La sentenza della Cassazione
I giudici di legittimità osservano che la sentenza
impugnata, oltre ad aver accertato che l'uso
dell''autovettura di servizio, da parte del direttore
sanitario dell'Asl, è stato limitato al percorso
casa-ufficio, ha anche precisato che un tale utilizzo non ha
contravvenuto ad alcuna disposizione regolamentare che
impedisse di impiegare l'autovettura, con autista,
chiarendo, quindi, che l'accompagnamento in ufficio
rientrava tra le ragioni di servizio.
La giurisprudenza ha avuto modo di affermare che l'uso
dell'autovettura di servizio da parte del funzionario può
essere disposto per compiere itinerari cittadini, compreso
il percorso casa-ufficio, specificando che il limite
dell'uso legittimo deve essere individuato nel divieto
assoluto della utilizzazione per motivi personali e privati.
Ne consegue che qualora l'uso sia esclusivamente preordinato
ad esigenze di servizio deve escludersi che possa
ipotizzarsi quella forma di appropriazione che costituisce
l'elemento materiale del peculato, in quanto il bene di cui
il pubblico ufficiale ha la disponibilità rimane nell'ambito
della sua normale destinazione giuridica, cioè nella sfera
della pubblica amministrazione.
I giudici di legittimità concordano con quanto affermato dal
Tribunale che ha escluso che vi sia stato un uso
dell'autovettura per motivi personali; l'episodio
incriminato non configura il reato ipotizzato, essendosi
trattato di un uso momentaneo dell'autovettura, inidoneo a
ledere in modo apprezzabile l'interesse all'integrità
patrimoniale dell'amministrazione pubblica. Il ricorso è,
pertanto, respinto (tratto da
www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com). |
APPALTI:
Negli appalti dei Comuni il responsabile del procedimento
può entrare in commissione.
Il responsabile unico del procedimento può essere nominato
componente della commissione giudicatrice nelle gare con
l'offerta economicamente più vantaggiosa.
Il Consiglio di
Stato, Sez. III, con la
sentenza
05.11.2014 n. 5456 ribalta una
linea interpretativa consolidata nella giurisprudenza
amministrativa e sancisce che il responsabile del
procedimento può essere componente della commissione
giudicatrice, anche se non svolge le funzioni di presidente
della stessa.
La norma
La disposizione su cui la pronunzia propone l'innovativa
interpretazione è il comma 4 dell'articolo 84 del Codice dei
contratti, nella quale si stabilisce che i commissari
diversi dal presidente non devono aver svolto né possono
svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o
amministrativo relativamente al contratto del cui
affidamento si tratta.
La giurisprudenza precedente
In precedenza la giurisprudenza si era posta su una linea
interpretativa molto restrittiva, nella quale evidenziava
come il rup, qualora soggetto non coincidente con la figura
del presidente del particolare organo collegiale, non
potesse essere nominato come altro componente, in quanto
svolgente altra funzione nell'ambito dell'appalto.
La nuova sentenza
La sentenza del Consiglio di Stato rivede totalmente questa
posizione, affermando che nelle procedure di appalti
pubblici non vi è una incompatibilità assoluta e
insuperabile tra le funzioni di responsabile del
procedimento e quelle di componente di commissione di gara,
poiché le prime non attengono a compiti di controllo, ma
soltanto a verifica interna della correttezza del
procedimento, in modo che non vi è sovrapposizione né
identità tra controllato e controllante e le due funzioni
restano compatibili tra loro.
L'analisi parte dal
presupposto che nell'ambito degli enti locali non sussiste
un rigido divieto di partecipazione dei dirigenti alle
commissioni di gara e che il rafforzamento del modello della
responsabilità dirigenziale nel pubblico impiego valorizza
l'opposta esigenza, per la quale il dirigente deve seguire
direttamente le procedure del cui risultato è tenuto a
rispondere.
In questo quadro risulta dirimente l'articolo
107 del Dlgs 267/2000, che prevede tra le attribuzioni di
competenza dirigenziale il potere di presiedere le
commissioni di gara e di stipulare i contratti in
correlazione con la responsabilità per l'esito delle gare
medesime.
Le conseguenze
L'analisi evidenzia quindi come il dirigente o il
responsabile di servizio esercitante le competenze previste
dall'articolo 107 del Tuel intervenga nelle procedure di
gara come figura con responsabilità piena, tale da
consentirgli di ricoprire più ruoli e di superare
l'incompatibilità funzionale definita dall'articolo 84,
comma 4, del Codice.
La pronuncia del Consiglio di Stato,
tuttavia, precisa come la condizione di incompatibilità
sussista invece quando il dirigente o responsabile di
servizio svolga il ruolo di direttore dell'esecuzione del
contratto (dec). Inoltre, il dato interpretativo elaborato
dal Consiglio di Stato non fornisce alcuna indicazione in
merito ai casi nei quali il ruolo di Rup sia ricoperto da un
soggetto che non sia dirigente o responsabile di servizio:
in tal caso l'esimente non sembra potersi applicare e,
pertanto, tale dipendente non potrà essere nominato
componente della commissione giudicatrice (commento tratto da
www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
L'obbligazione della Pa nei confronti del professionista
nasce con il contratto di incarico.
La stipula del contratto costituisce la base giuridica da
cui nasce l'obbligazione di una pubblica amministrazione nei
confronti di un professionista; dalla fase precedente, cioè
quella in cui l'ente ha assunto la determinazione a
contrattare non scaturisce alcun vincolo per l'ente e non
scaturisce una pretesa attivabile dinanzi al giudice
ordinario per il professionista.
Sono queste le indicazioni di maggiore rilievo contenute
nella sentenza n. 24654/2014
della I Sez. civile della Corte di
Cassazione.
L'importanza della sentenza non è data tanto dall'affermare
un principio innovativo, ma dal considerare una indicazione
consolidata quella per cui gli obblighi delle Pa maturano
solamente a far data dalla stipula del contratto.
Si deve
considerare che le argomentazioni della sentenza sono
sicuramente convincenti e la logica che è alla sua base è
quanto mai stringente, ciò non di meno non si può mancare di
sottolineare come la posizione delle amministrazioni venga
tutelata in misura preponderante rispetto all'interesse dei
professionisti.
Il principio
La sentenza della Cassazione considera principio acquisito
che "a) in un rapporto di opera professionale con la Pa la fase
della deliberazione a contrarre si concreta in attività
interna alla stessa amministrazione, meramente preparatoria
e perciò inidonea ai fini della individuazione della
disciplina negoziale e conserva perciò piena autonomia –logica e giuridica- rispetto alla successiva (e solo
eventuale) attività negoziale esterna dell'ente pubblico, la
quale a) deve tradursi nella stipulazione documentale del
contratto; b) è peraltro di competenza di un organo diverso
(dalla giunta o dal consiglio) che per i comuni è il sindaco
(ndr: la materia sia per la determinazione a contrarre che
per il contratto è da considerare attribuita ai dirigenti,
dal che ne consegue per questo aspetto un indebolimento
della logica ispiratrice della pronuncia); c) comporta
conseguentemente che è soltanto detto atto contrattuale
quello in cui la menzionata normativa richiede la
contestuale sottoscrizione del sindaco nella qualità di
rappresentante legale dell'ente e del professionista".
Le prescrizioni del contratto
Altro passaggio di grande rilievo della sentenza è il
seguente: sono esclusivamente le prescrizioni del contratto
"a costituire il momento genetico dei diritti e delle
obbligazioni di ciascuna delle parti, a consentire
l'identificazione dello specifico contenuto negoziale che
diverrà oggetto dei controlli dell'attività tutoria ed a
garantire che le specifiche obbligazioni assunte
dall'amministrazione traggano fonte e nel contempo sostegno
nella esplicita previsione dei mezzi finanziari per far
fronte al compenso da corrispondersi al professionista:
perciò svolgendo la contestuale funzione di fissare il
limite massimo della spesa sostenibile da ciascun ente
pubblico" (commento tratto da
www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: In
linea di diritto va, comunque, osservato che il procedimento
di valutazione di anomalia deve essere ampiamente motivato
solo nel caso in cui abbia esito negativo e determini
l’esclusione dalla gara dell’offerta mentre è sufficiente
una motivazione meno ampia ed il riferimento alle
giustificazioni fornite dai candidati qualora nell’ambito
della discrezionalità tecnica riservata l’amministrazione,
le stesse siano ritenute sufficienti.
Ancora, a titolo di premessa, si deve ricordare che le
disposizioni in materia di verifica delle offerte anomale,
contenute nell'art. 55 della direttiva CE n. 18/2004, e
puntualmente recepite dagli artt. 87 e 88 del Codice dei
contratti, rispondono primariamente allo scopo di garantire
il concorrente contro il pericolo di perdere
l'aggiudicazione, a motivo di una supposta anomalia
dell'offerta, senza aver potuto dare tutte le
giustificazioni del caso e senza che queste siano state
debitamente prese in considerazione.
In altre parole, le disposizioni in esame (come molte altre
delle direttive comunitarie) hanno lo scopo di tutelare la
concorrenza e dunque di evitare che gli enti appaltanti
possano eluderla eliminando le offerte migliori sotto il
pretesto dell'anomalia.
Solo indirettamente e in via di fatto la verifica
dell'anomalia tutela l'interesse del secondo graduato a
vedere escluso il primo graduato.
E’ per questo che la giurisprudenza consolidata afferma che
occorre una motivazione analitica e specifica solo nel caso
che le giustificazioni vengano respinte, mentre quando
vengono accolte è sufficiente che esse vengano richiamate a
guisa di motivazione per relationem.
---------------
A seguito dell'impugnativa del secondo classificato, il
sindacato giurisdizionale sull'accettazione delle
giustificazioni fornite dall'aggiudicatario è ammesso solo
con riferimento ai vizi di manifesta e macroscopica
erroneità e irragionevolezza; invero il giudizio di
accettazione è espressione di un apprezzamento discrezionale
riferito alla convenienza complessiva dell'offerta.
L'eventuale incongruità di taluni prezzi, o di talune voci
di costo, non comporta necessariamente l'anomalia
dell'offerta nel suo insieme, giacché quello che ha
rilevanza determinante è, in ogni caso, l'importo
complessivo.
7. Sono, altresì, inammissibili le censure dedotte con i
motivi aggiunti di ricorso tutte dirette a contestare la
valutazione di congruità delle offerte delle prime tre
classificate, aggiudicatarie, a seguito del procedimento di
verifica delle offerte sospette di anomalia, attivato
dall’amministrazione ai sensi degli articoli 86 e seguenti
del decreto legislativo 163 del 2006.
7.1. Le stesse, infatti, riguardano soltanto le prime tre
classificate e nel caso del loro eventuale accoglimento non
potrebbero che comportare lo scorrimento della ricorrente
dall’ottava alla quinta posizione e, quindi, non utile per
l’aggiudicazione che riguarda soltanto le prime tre
classificate.
8. In linea di diritto va, comunque, osservato che il
procedimento di valutazione di anomalia deve essere
ampiamente motivato solo nel caso in cui abbia esito
negativo e determini l’esclusione dalla gara dell’offerta
mentre è sufficiente una motivazione meno ampia ed il
riferimento alle giustificazioni fornite dai candidati
qualora nell’ambito della discrezionalità tecnica riservata
l’amministrazione, le stesse siano ritenute sufficienti.
8.1. Ancora, a titolo di premessa, si deve ricordare che le
disposizioni in materia di verifica delle offerte anomale,
contenute nell'art. 55 della direttiva CE n. 18/2004, e
puntualmente recepite dagli artt. 87 e 88 del Codice dei
contratti, rispondono primariamente allo scopo di garantire
il concorrente contro il pericolo di perdere
l'aggiudicazione, a motivo di una supposta anomalia
dell'offerta, senza aver potuto dare tutte le
giustificazioni del caso e senza che queste siano state
debitamente prese in considerazione. In altre parole, le
disposizioni in esame (come molte altre delle direttive
comunitarie) hanno lo scopo di tutelare la concorrenza e
dunque di evitare che gli enti appaltanti possano eluderla
eliminando le offerte migliori sotto il pretesto
dell'anomalia.
Solo indirettamente e in via di fatto la verifica
dell'anomalia tutela l'interesse del secondo graduato a
vedere escluso il primo graduato (Cons. Stato, sez. III
27/03/2014, n. 1487).
E’ per questo che la giurisprudenza consolidata afferma che
occorre una motivazione analitica e specifica solo nel caso
che le giustificazioni vengano respinte, mentre quando
vengono accolte è sufficiente che esse vengano richiamate a
guisa di motivazione per relationem.
8.2. Nella stessa logica, la giurisprudenza consolidata
afferma che, a seguito dell'impugnativa del secondo
classificato, il sindacato giurisdizionale sull'accettazione
delle giustificazioni fornite dall'aggiudicatario è ammesso
solo con riferimento ai vizi di manifesta e macroscopica
erroneità e irragionevolezza; invero il giudizio di
accettazione è espressione di un apprezzamento discrezionale
riferito alla convenienza complessiva dell'offerta (Cons.
Stato, sez. III 27/03/2014, n. 1487).
8.3. Un terzo principio consolidato in giurisprudenza è che
l'eventuale incongruità di taluni prezzi, o di talune voci
di costo, non comporta necessariamente l'anomalia
dell'offerta nel suo insieme, giacché quello che ha
rilevanza determinante è, in ogni caso, l'importo
complessivo.
9. In applicazione di questi principi appaiono infondate le
censure di cui ai motivi aggiunti di ricorso diretti a
contestare genericamente il recepimento acritico delle
giustificazioni fornite.
9.1. Non sono, poi, neppure condivisibili le argomentazioni
svolte che contestano in modo più specifico la valutazione
di congruità effettuata dalla stazione appaltante, o meglio
le giustificazioni fornite, ritenute sufficienti dalla
stazione appaltante, dell’offerta delle aggiudicatarie
sempre nell’ambito del procedimento di anomalia.
Infatti, in applicazione dei principi sopra indicati
sembrerebbe potersi escludere a priori che accettando le
giustificazioni dell’aggiudicataria l'amministrazione sia
incorsa nel vizio di manifesta erroneità ed irragionevolezza
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 30.10.2014 n. 1019 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Commissario di concorsi pubblici, per la qualità di esperto
basta una conoscenza specifica della materia.
Secondo il Consiglio di Stato non è
necessario che il componente della commissione giudicatrice
sia in possesso di titoli culturali, accademici tali da
richiedere pubblicazioni scientifiche nei temi oggetto di
selezione ma è sufficiente una competenza approfondita e
idonea a valutare i candidati.
I giudici infatti hanno stabilito che "la qualità di
"esperto" comporta un'approfondita conoscenza della materia,
con attività professionale accademica o di servizio, anche
se non è necessario che siano prodotti titoli culturali
eccezionali o pubblicazioni scientifiche".
Il fatto
Un Comune ha bandito un concorso interno per 12 posti di
istruttore direttivo di Polizia municipale, ed è stata
costituita la commissione giudicatrice, composta anche da
due dirigenti della Polizia municipale. Il candidato, che
non aveva ottenuto l'idoneità per questi posti, ha impugnato
gli atti del concorso, sostenendo che i due dirigenti non
erano in possesso dei titoli necessari per essere
qualificati "esperti della materia oggetto del concorso",
come stabiliva il regolamento di disciplina dell'accesso
agli impieghi in questo Comune.
Il Tar ha accolto il ricorso, e il Comune ha proposto
appello, che è stato considerato fondato dal Consiglio di
Stato (Sez. V,
sentenza 29.10.2014 n.
5341).
La sentenza
I giudici hanno basato la loro decisione sui seguenti
argomenti:
1) Il concetto di "esperto" implica il possesso di un
titolo di studio corrispondente alle materie oggetto delle
prove concorsuali;
2) Tale concetto implica anche il possesso di un'attività
professionale, accademica o di servizio;
3) Non è necessario che l'"esperto" sia in possesso
di titoli culturali, accademici tali da richiedere
pubblicazioni scientifiche nelle materie oggetto di
selezione;
4) E' sufficiente una competenza specifica e idonea a
valutare i candidati, in riferimento al caso concreto.
La valutazione della sentenza
La sentenza è puntuale e bene motivata. In particolare, si è
precisata la necessità di una qualifica superiore a quella
dei posti messa a concorso e si è stabilito che non è
necessaria la presenza di titoli accademici eccezionali o di
pubblicazioni scientifiche. Si è poi messo in luce -come
punto importante dell'atto di nomina della commissione- che
i due esperti nominati avevano svolto la loro attività
lavorativa proprio nelle materie che erano oggetto del
concorso.
Conseguenze per gli altri Comuni
La sentenza è rilevante anche per gli altri Comuni. Infatti,
questi Enti allorché dovranno procedere alla nomina di
"esperti" delle Commissioni di concorso, potranno seguire
puntualmente i principi stabiliti da questa sentenza del
Consiglio di Stato
(tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com). |
CONDOMINIO: Negligenza tutta da dimostrare. L'onere della prova al
condomino infortunato per le scale. Lo ha chiarito la Cassazione in una sentenza in merito agli
incidenti nelle parti comuni.
Il condomino che cada sulle scale per l'improvvisa
interruzione del funzionamento dell'impianto di
illuminazione ha l'onere di provare in giudizio sia il
rapporto causale tra detta parte comune e l'incidente sia la
negligenza del condominio nella custodia dell'impianto dal
quale si sarebbe originato il danno.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nella recente sentenza
27.10.2014 n. 22784.
Nella specie un condomino che sosteneva di essere caduto
sulle scale per l'improvviso spegnimento dell'impianto di
illuminazione aveva citato in giudizio il condominio, in
persona del proprio amministratore, per sentirlo condannare
al risarcimento dei danni che aveva subito a causa di tale
incidente.
Il condominio, nel costituirsi in giudizio, aveva
quindi chiamato in garanzia la propria assicurazione perché
quest'ultima fosse condannata a risarcire il dovuto nel non
creduto caso di accoglimento della domanda avanzata dal
condomino. Sia in primo che in secondo grado la richiesta
dell'incidentato era però stata respinta, con conseguente
condanna alle spese processuali sostenute sia dal condominio
sia dalla compagnia assicuratrice.
Entrambi i giudici di
merito avevano, infatti, rilevato che il condomino non aveva
fornito la prova né del difettoso funzionamento del timer
dell'impianto di illuminazione, né il ritardo
dell'amministratore condominiale nel porvi rimedio né,
soprattutto, la circostanza che tale difetto di
funzionamento fosse stato la causa della caduta.
La questione era quindi stata portata dal condomino
all'esame della Corte di cassazione per ottenere
l'annullamento della sentenza resa dai giudici di appello.
Anche in questo caso, però, l'esito è stato negativo. La
Suprema corte, infatti, ha evidenziato come in caso di
incidenti in condominio l'onere della prova incomba comunque
sul soggetto (condomino o terzo) che si assuma essere stato
danneggiato in conseguenza del difetto di custodia e di
manutenzione di un bene o di un impianto comune.
Quest'ultimo, in particolare, è chiamato a provare il nesso
causale tra la cosa in custodia e il danno, ossia deve
dimostrare che l'evento dannoso si è prodotto come
conseguenza normale della particolare condizione,
potenzialmente lesiva, che sia propria del bene. A questo
proposito la giurisprudenza di legittimità è solita ritenere
che ove la cosa in custodia possa sprigionare una qualche
energia o una dinamica interna alla sua struttura e tale da
provocare il danno (come ad esempio una caldaia) la
responsabilità per la verificazione degli eventi lesivi sia
da considerarsi oggettiva, ritenendo quindi implicito e già
dimostrato il predetto nesso causale.
Allorché, invece, si
tratti di un bene di per sé statico e inerte che richieda
l'agire umano per la verificazione di un evento lesivo
(proprio come nel caso di specie della caduta sulle scale),
spetta allora al danneggiato provare che lo stato dei luoghi
presentasse peculiarità tali da renderne potenzialmente
dannosa la normale utilizzazione.
---------------
I principi generali sugli infortuni.
D'obbligo adottare le misure per non recar pregiudizio.
Non è raro che all'interno del condominio si verifichino
infortuni ai condomini o a terzi che utilizzino le parti
comuni. In tali casi i danneggiati spesso pretendono di
essere risarciti sull'erronea convinzione che il condominio,
per il semplice fatto di essere custode delle parti comuni,
sia obbligato a rispondere di qualunque incidente si
verifichi su di esse.
Il più delle volte è invece necessario
compiere un'indagine specifica, verificando anche la
condotta (attiva o omissiva) del danneggiato e le sue
conseguenze nella concreta dinamica del fatto dannoso.
Infortunio in condominio: i principi generali. Il
condominio, in quanto custode dei beni e dei servizi comuni,
è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie affinché
le cose comuni non rechino pregiudizio ad alcuno: in caso
contrario i comproprietari rispondono dei danni procurati ai
medesimi condomini e ai terzi. Tale responsabilità si fonda
sul rapporto oggettivo sussistente tra il condominio e la
parte comune rispetto alla quale vi è il predetto obbligo di
custodia (scale, cortile, androne ecc.) e prescinde, quindi,
dalle caratteristiche del bene condominiale.
Di conseguenza il danneggiato non deve dimostrare il
carattere insidioso della situazione di pericolo, e cioè che
la stessa non fosse visibile a una certa distanza e che non
fosse quindi evitabile con la normale prudenza: l'anomalia e
il difetto di manutenzione di una parte comune che sia stata
causa del danno è infatti sufficiente, di per sé, ad
addebitare la responsabilità alla collettività condominiale
e il danneggiato non ha l'onere di dimostrare il contrario.
In ogni caso il bene condominiale, pur combinato con
elementi esterni (per esempio le scale rese pericolose dalla
caduta di olio, sapone, fogliame ecc.), deve necessariamente
costituire la causa del danno.
Quando il condominio è responsabile per l'infortunio. Alla
luce dei principi sopra espressi risulta evidente che
ricorre per esempio la responsabilità del condominio nel
caso in cui, per la scarsa illuminazione di una parte
condominiale, un condominio (o un terzo) non abbia visto un
muretto e sia precipitato lungo il vano scale o sia
scivolato su una macchia di olio non visibile perché
ricoperta da polvere. Lo stesso dicasi se i danni siano
arrecati da sporgenze rispetto al piano di calpestio (in
particolare un gancio, inserito in uno dei gradini della
scala relativo a un cancello normalmente chiuso) o se nuovi
manufatti collocati sul pavimento del cortile, per la
posizione e per la novità dell'installazione, presentino i
caratteri dell'insidia.
Allo stesso modo la collettività condominiale è obbligata a
risarcire colui che abbia subito una frattura causata da una
caduta provocata da un pezzo di moquette collocato
nell'androne (con la parte pelosa rivolta verso il suolo e
quella gommosa verso l'alto). In presenza di materiale
caduto dal soffitto e dalle pareti della scala condominiale
è inoltre legittima la richiesta di risarcimento danni di un
condomino che si sia infortunato, anche in assenza di
testimoni: secondo i giudici, infatti, in tali casi la causa
del danno è da individuarsi presuntivamente in relazione al
contesto.
Alle stesse conclusioni si deve arrivare ove un condomino
cada in una strada interna al caseggiato e riesca a
dimostrare le anomale condizioni della sede stradale e la
loro oggettiva idoneità a provocare incidenti del genere di
quello che si è verificato (per esempio la presenza di
pietrisco sul fondo stradale). Anche nel caso in cui si
verifichi una caduta, con conseguenti lesioni, su una rampa
di scale dello stabile che dia accesso al cortile interno e
che sia priva dell'apposito corrimano, si configura
responsabilità per danni da cosa in custodia in capo al
condominio.
Il comportamento del danneggiato. Non è possibile parlare di
responsabilità del condominio-custode di fronte a un'ipotesi
di utilizzazione impropria o anomala della parte comune da
parte del danneggiato la cui pericolosità sia talmente
evidente e immediatamente apprezzabile da chiunque, tale da
renderla del tutto imprevedibile. Tale situazione ricorre,
per esempio, nell'ipotesi in cui, abbandonando il tragitto
predisposto al fine di raggiungere più velocemente la sua
auto, un condomino (o un terzo) abbia scelto un percorso
diverso tra fioriere e gradini nel quale sia poi caduto
subendo gravi danni, anche a causa della scarsa visibilità.
Del resto la Cassazione ha escluso la responsabilità del
condominio in un altro caso di evidente comportamento
colposo del condomino che, pur potendo verificare in
condizioni di normale visibilità che il pavimento delle
scale era scivoloso, non aveva prestato la dovuta
particolare attenzione.
In un altro caso è stata invece esclusa la responsabilità
del condominio per le lesioni subite da un minore il quale
aveva impropriamente utilizzato, peraltro in ora serale e in
condizioni di visibilità evidentemente non ottimale, il
cortile destinato a parcheggio di autovetture per giocare a
calcio e si era ferito a causa dei vetri di copertura delle
grate di areazione del garage.
Il caso fortuito.
Il condomino non è comunque responsabile se prova che i
danni siano derivati da un caso fortuito, cioè dal fatto di
un terzo o da forza maggiore (per esempio un'alluvione).
Inoltre non può essere ritenuto responsabile il condominio
per le lesioni derivate alla testa di un condomino dal
distacco dell'intonaco relativo a una parte del balcone di
proprietà esclusiva di altro condomino. Infatti è pacifico
che per i danni che si siano verificati per fatto del terzo
si interrompa il nesso causale tra questi e la parte
condominiale che abbia occasionato l'evento. Tale principio,
tra l'altro, vale anche se il terzo colpevole sia rimasto
ignoto
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ENTI LOCALI:
Sulla movida parla il consiglio.
Il Consiglio di stato sul caso Venezia.
Stop alla delibera antischiamazzi nel centro storico. Ma non
perché il comune non possa mettere paletti alla movida:
l'ente locale è senz'altro competente eccome in materia di
polizia urbana; il punto è che deve essere il consiglio
comunale a occuparsene, senza poter delegare alla giunta la
chiusura degli esercizi commerciali come i baretti del
centro antico e il divieto di spettacoli di strada, con le
relative multe a chi non si adegua. Risultato: è nullo il
regolamento contro la movida selvaggia.
Lo stabilisce la
sentenza 27.10.2014 n. 5288, pubblicata dalla V
Sez. del Consiglio di Stato.
Il caso.
A Venezia tornano l'allarme degrado, nonostante le proteste
dei residenti che avevano fatto scattare la chiusura dei
locali e lo stop alla musica dal vivo a partire dall'una del
mattino, con la multa di 400 euro per i trasgressori. I
commercianti non ottengono il risarcimento solo perché non
riescono a dimostrare concretamente il danno patito
dall'amministrazione. Fatto sta che palazzo Spada accoglie
anche un motivo dell'appello incidentale subordinato
dichiarando l'illegittimità di un altro articolo del
regolamento che si era salvato dal Tar e l'intera delibera
della giunta. Il tutto per eccesso di delega da parte del
consiglio.
In effetti è proprio la natura del provvedimento antimovida
che radica la competenza nel parlamentino e non
nell'esecutivo comunale: l'atto individua le zone della
società nelle quali si verificano fenomeni di degrado urbano
o allarme sociale, con i giovani che prendono d'assalto i
luoghi della vita notturna, con l'alcol che scorre a fiumi.
L'esigenza di tutelare la qualità della vita, il riposo e le
regole di vita civile tradiscono la natura regolamentare del
provvedimento che è rivolto a un numero indeterminato di
destinatari e, dunque, ha natura generale: l'individuazione
concreta spetta esclusivamente al consiglio comunale,
secondo l'ordinaria ripartizione delle competenze con la
giunta coerentemente peraltro con la natura rappresentativa
dell'organo consiliare.
E ciò indipendentemente da ogni considerazione sulla
adeguatezza e sulla idoneità dell'istruttoria espletata al
riguardo. Gli esercenti, tuttavia, non sono risarciti perché
non forniscono alcun elemento probatorio del pregiudizio
subito
(articolo ItaliaOggi del 21.11.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ordinanze d'urgenza comunali legittime anche
senza comunicazione all'interessato.
Le ordinanze d'urgenza, anche se adottate
in ritardo, non richiedono la comunicazione dell'avvio del
procedimento agli interessati:
questa l'affermazione contenuta nella
sentenza 17.10.2014 n. 5308 della V Sez. del
Consiglio di Stato.
I fatti di causa
Un Sindaco ha emanato un'ordinanza d'urgenza, nella quale ha
imposto a una società di sospendere nel Comune l'attività di
"lavaggio" e "nobilitazione pelli", "e di "emissione di fumi
e vapori". La società ha ritenuto che l'ordinanza fosse
illegittima e ha quindi proposto ricorso al Tar, che lo ha
accolto con la motivazione che il provvedimento non era
stato preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento.
Il Comune ha allora interposto appello, che è stato accolto.
La sentenza d'appello
I giudici del Consiglio di Stato hanno così argomentato:
1) non vi è l'obbligo di comunicazione dell'avvio del
procedimento in quanto l'ordinanza contingente e urgente non
consente, per le esigenze di effettiva e particolare
rapidità, il contraddittorio con l' interessato;
2) l'articolo 7 della legge 241/1990 non esenta dall'obbligo
dell'avvio del procedimento un'intera categoria astratta di
provvedimenti amministrativi, ma impone una verifica delle
peculiari ragioni di ogni singolo caso;
3) è 'importante nell'adozione dell'ordinanza contingibile e
urgente la valutazione dell'attualità della situazione di
pericolo nel momento in cui il Sindaco provvede;
4) il tempo trascorso tra l'avvenimento e l'ordinanza non
incide su questa regola, dal momento che nel caso di specie
questa situazione si è manifestata per la prima volta.
L'orientamento applicato dai giudici
La sentenza, che richiama altra giurisprudenza del Consiglio
di Sato (ad esempio, sezione I, 29.10.2008 n. 2442) è da
condividere ed è bene motivata.
Il punto rilevante della motivazione della sentenza è
l'attualità della situazione di pericolo in base alla quale
il Sindaco provvede e non il tempo trascorso dal momento in
base alla quale la situazione si è manifestata per la prima
volta.
Conseguenze per gli altri Comuni
La sentenza costituisce un utile punto di riferimento per le
ordinanze d'urgenza dei Sindaci perché le situazioni di
urgenza devono essere valutate nel momento in cui le
ordinanze sono emanate. E' peraltro opportuno che i Sindaci
considerino con particolare attenzione sia il momento in cui
la situazione di pericolo si manifesta, sia il momento
dell'emanazione dell'ordinanza. Infatti, questo tempo non
deve essere troppo ampio, perché un rilevante decorso del
tempo potrebbe vanificare le ragioni della necessità e
dell'urgenza che sono alla base dell'ordinanza (commento
tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Tar Lecce.
La spending non vincola l'avvocato.
La spending review non vincola l'avvocato che ha difeso il
comune. Le difficoltà finanziarie del comune non possono
danneggiare l'avvocato che ha difeso l'ente in giudizio: la
delibera con cui l'amministrazione locale adotta un
determinato impegno di spesa per il contenzioso non
costituisce per il legale nominato un vincolo tale da
ridurre le spettanze del professionista.
È quanto emerge
dalla
sentenza
14.10.2014 n. 2500, pubblicata dalla Sez. II del
TAR Puglia-Lecce.
Accolto, dunque, il ricorso del legale che
ha patrocinato l'ente davanti al giudice ordinario e
amministrativo. È annullata la delibera della giunta che
riconosceva i debiti fuori bilancio per il pagamento note
specifiche al professionista «nella misura dei minimi
tariffari all'epoca in vigore».
L'assunzione da parte del
comune di un suo predeterminato impegno di spesa non
condiziona l'avvocato che non ha firmato alcun accordo per
decurtare il suo compenso. E ciò al di là delle conseguenze
che possono derivare all'amministrazione locale sul piano giuridico-contabile. In tema di contratti con la pubblica
amministrazione che devono essere stipulati ad substantiam
per iscritto, il requisito della forma del contratto di
patrocinio è soddisfatto con il rilascio al difensore della
procura ex articolo 83 Cpc.
Il relativo esercizio della
rappresentanza giudiziale, tramite la redazione e la
sottoscrizione dell'atto difensivo perfeziona l'incontro di
volontà fra le parti l'accordo contrattuale in forma
scritta, che rende possibile l'identificazione del contenuto
negoziale e i controlli dell'autorità tutoria e dunque
risponde ai requisiti previsti per i contratti pubblici.
Da
parte del comune manca ogni dimostrazione che le pretese
avanzate da parte dell'avvocato non siano coerenti alle
prestazioni professionali svolte. L'amministrazione paga le
spese
(articolo ItaliaOggi del 25.11.2014
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Se
la cartografia del PRG prevede l’allineamento dell’edificio
al confine questo deroga alla regola generale dei 5 metri
dal confine.
La Corte di Appello di Venezia ritiene che, qualora un PRG
preveda in una NTA come regola generale la distanza di 5
metri dal confine, costituisca una norma speciale (che
prevale su quella generale di cui sopra) la cartografia del
PRG che consente l’allineamento dell’edificio a confine (e,
quindi, l’edificio si può costruire a confine). Quindi la
Corte risolve in base al principio di specialità l’annosa
questione di quale disposizione prevalga nel caso di
conflitto tra disposizioni normative e previsioni grafiche
all’interno dello stesso PRG.
Si legge nella sentenza: “Il primo
Giudice ha individuato quale norma regolante la distanza
degli edifici dal confine di proprietà la norma
amministrativa locale, richiamata dall’art 873 c.c., ma
nell’individuare la norma amministrativa non ha applicato il
criterio di specialità nell’interpretazione della norma
amministrativa richiamata. Il Regolamento locale richiamato
dall’art. 873 c.c. è costituito dal PRG del Comune di Thiene.
Quest’ultimo prevede una norma generale determinante la
distanza degli edifici dal confine, in via generale, e norme
speciali per alcune zone specifiche del Comune di Thiene.
Per principio generale interpretativo delle norme, la norma
speciale prevale sulla norma generale.
Gli edifici delle parti in causa sono pacificamente ubicati
in centro storico e abbiamo visto che in questa zona, il
P.R.G. di Thiene, cui rimandano l’art. 5 del regolamento
edilizio e l’art. 13 delle N.T.A. del Comune di Thiene, per
il centro storico, punto B), sopra illustrati, con
riferimento all’edificio dell’appellante, prevede
espressamente nella cartografia –planivolumetrico–
l’allineamento a confine dell’edificio, come risulta
dall’estratto del P.R.G. dei luoghi per cui è causa.
Il permesso a costruire rilasciato dal Comune di Thiene al
Convenuto per ristrutturare l’edificio oggetto di causa è
conforme al Regolamento locale (P.R.G.) richiamato dall’art.
873 c.c. quale fonte integrativa del C.C.”
(Corte d'Appello di Venezia,
sentenza
23.09.2014 - tratto da e link a http://venetoius.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza amministrativa occupatasi del
problema ha evidenziato che le previsioni per il superamento
e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli
edifici privati –dettate in generale dalla l. n. 13/1989,
poi trasfusa nel d.P.R. n. 380/2001, ed articolate in
dettaglio nel d.m. 14.06.1989, n. 236– hanno elevato il
livello di tutela dei soggetti portatori di minorazioni
fisiche, oramai reputato interesse primario della
collettività, da soddisfare con interventi tesi a rimuovere
situazioni preclusive dello sviluppo della persona e dello
svolgimento di una normale vita di relazione.
Peraltro, la giurisprudenza ha precisato che il sistema di
tutela delle persone disabili è applicabile, nel concreto,
compatibilmente con altri interessi pubblici, i quali non
possono essere pretermessi, ma devono essere bilanciati con
quello, superiore, alla tutela ottimale di tali persone: ne
consegue che le misure necessarie a rendere effettiva la
tutela delle persone disabili, sulla base degli artt. 2, 3 e
32 Cost., possono essere legittimamente graduate in vista
dell’attuazione del principio della parità di trattamento,
tenuto conto di tutti i valori costituzionali in gioco e
fermo, comunque, il rispetto di un nucleo indefettibile di
garanzie per gli interessati.
Il diniego sull’istanza di autorizzazione all’intervento
diretto ad eliminare le barriere architettoniche sarà,
dunque, consentito qualora non sia possibile realizzare le
opere, senza pregiudizio di altri beni ugualmente tutelati,
tenendo peraltro conto che di eliminazione delle barriere
architettoniche si può parlare solo per le opere
tecnicamente necessarie a garantire l’accessibilità,
l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati, come
ad es. servoscale ed ascensori, e non già per le opere tese
alla migliore fruibilità dell’edificio ed alla maggiore
comodità dei residenti, come ad es. porticati o tettoie.
Nell’ottica appena illustrata, va evidenziato che il
Legislatore ha effettuato scelte puntuali in merito alla
graduazione degli interessi coinvolti. Ad es., nel
bilanciamento tra l’interesse alla salvaguardia del
patrimonio storico-artistico nazionale e quello alla tutela
del diritto alla salute e ad una normale vita di relazione
delle persone disabili, la normativa ha dato prevalenza a
quest’ultimo, consentendo il diniego dell’autorizzazione
alla realizzazione degli interventi su un bene vincolato
solo in caso di accertato e motivato serio pregiudizio del
bene stesso. Al contrario, è stato ritenuto prevalente
l’interesse al rispetto della normativa antincendio.
---------------
Il Legislatore, con l'art. 79 del d.P.R. n. 380/2001 e con
le norme dal medesimo richiamate (artt. 873 e 907 c.c.), ha
ritenuto di comporre il contrasto dando prevalenza al
diritto dei terzi di veder rispettate le distanze tra le
costruzioni previste dalle norme del codice civile
richiamate e, dunque, una distanza non inferiore a tre
metri: ciò, al fine di garantire la salubrità delle
costruzioni.
In altre parole, il Legislatore ha considerato l’interesse
delle persone disabili recessivo rispetto al diritto alla
salute dei soggetti “terzi” ed in specie dei proprietari di
immobili finitimi, che non possono patire una lesione di
siffatto diritto per effetto della costruzione di
intercapedini, tali da incidere sulla salubrità delle
costruzioni. E la scelta del Legislatore è stata ritenuta
non illogica dalla giurisprudenza, attesa la pari rilevanza
del diritto alla salute dei soggetti confinanti rispetto a
quello dei portatori di minorazioni.
Peraltro, la giurisprudenza di merito ha chiarito come il
comma 2 dell’art. 3 della l. n. 13/1989 (ora comma 2
dell’art. 79 del d.P.R. n. 380 cit.) debba interpretarsi nel
senso che la distanza minima da mantenere, nella
realizzazione delle opere dirette a rimuovere le barriere
architettoniche, rispetto ai fabbricati vicini, in assenza
di spazi o aree di proprietà o uso comune, è quella di tre
metri prevista dalla prima parte dell’art. 873 c.c.
(indicata anche dall’art. 907 c.c.), poiché il richiamo al
citato art. 873 c.c. deve intendersi limitato alla sola
prima parte di detta disposizione, con esclusione, pertanto,
delle previsioni dei regolamenti locali.
La giurisprudenza di merito ha, inoltre, affermato che
l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 79
del d.P.R. n. 380/2001 porta ad estendere la deroga alle
norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi
(dettata nel comma 1 dell’art. 79 cit.) anche agli atti di
normazione primaria, con il corollario di dover limitare al
dato testuale il richiamo all’art. 873 c.c. e quindi
dell’inapplicabilità ad una fattispecie del tutto analoga a
quella ora in esame (installazione dell’ascensore esterno ad
un edificio) della disciplina sulle distanze dai fabbricati
alieni prevista dall’art. 9 del d.m. n. 1444/1968.
Ciò, al fine di garantire e realizzare il principio di
uguaglianza sostanziale anche nei riguardi dei soggetti
disabili, secondo l’insegnamento espresso dalla Corte
costituzionale con la già ricordata sentenza n. 167/1999.
---------------
L’inapplicabilità alle opere volte a rimuovere le barriere
architettoniche della disciplina sulle maggiori distanze
contenuta nei regolamenti edilizi comunali, discende dalla
deroga espressa a detta disciplina stabilita dell’art. 79,
comma 1, del d.P.R. n. 380/2001.
Tale deroga verrebbe frustrata –e dunque la previsione che
la contiene sarebbe inutiliter data– ove si ritenesse che il
rinvio contenuto nel comma 2 dell’art. 79 cit. all’art. 873
c.c. riguardi anche la seconda parte di siffatta
disposizione del codice civile (la quale, come già
illustrato, ammette che nei regolamenti locali venga fissata
una distanza maggiore di quella di mt. 3 prevista dalla
prima parte dello stesso art. 873 c.c.).
In altre parole, il Legislatore sarebbe incorso in
un’abnorme contraddizione, qualora avesse stabilito al comma
1 dell’art. 79 cit. l’inapplicabilità delle distanze
previste nei regolamenti edilizi comunali alle opere (come
gli ascensori esterni) volte a rimuovere le barriere
architettoniche, per poi, invece, rendere applicabili le
suddette distanze, tramite il rinvio all’art. 873 c.c.
contenuto nel comma 2 del medesimo art. 79: ma la
contraddizione si supera ritenendo che il rinvio operato
dall’art. 79, comma 2, cit., riguardi solamente la prima
parte dell’art. 873 c.c. e, dunque, renda applicabile alle
opere in questione soltanto la distanza di mt. 3 stabilita
dalla prima parte dell’ora vista disposizione codicistica.
---------------
Per quanto concerne l’inapplicabilità delle distanze
previste dal d.m. n. 1444/1968, si richiama –ad ulteriore
supporto– il principio per cui la disciplina in materia di
distanze non opera per quegli impianti che debbono
considerarsi indispensabili ai fini di una reale abitabilità
dell’appartamento e che riflettono l’evoluzione delle
esigenze generali dei cittadini, senza trascurare che nel
caso di specie sono tutelati primari valori costituzionali,
mentre il diritto alla salute, di pari rango costituzionale,
dei proprietari dei fabbricati alieni è già garantito con
l’applicazione della distanza di mt. 3 ex artt. 873 e 907
c.c..
Formano oggetto di impugnazione il provvedimento comunale di
archiviazione della richiesta della società ricorrente
diretta al rilascio del permesso di costruire un ascensore
esterno per disabili in un fabbricato civile ed il parere
negativo della Commissione Edilizia Comunale sul quale si è
basata la medesima archiviazione.
In particolare, il parere negativo richiama il mancato
rispetto delle distanze ex d.m. n. 1444/1968, di quelle
dettate dal codice civile e di quelle previste dal
regolamento edilizio comunale.
La domanda di annullamento formulata con il ricorso è
fondata e meritevole di accoglimento, per le ragioni che di
seguito si espongono.
Va premesso al riguardo che l’art. 79 del d.P.R. n. 380/2001
(il quale ha riprodotto l’art. 3 della l. n. 13/1989), nel
disciplinare le opere dirette all’eliminazione delle
barriere architettoniche, ha disposto al comma 1 che tali
opere possono essere realizzate in deroga alle norme sulle
distanze previste dai regolamenti edilizi, anche per i
cortili e le chiostrine interni ai fabbricati o comuni o di
uso comune a più fabbricati. Al comma 2 ha, poi, stabilito
che è fatto salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di
cui agli artt. 873 e 907 c.c. nell’ipotesi in cui tra le
opere da realizzare ed i fabbricati alieni non sia
interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso
comune.
Il richiamato art. 873 c.c., dal canto suo, nel disciplinare
le distanze tra le costruzioni, stabilisce che le
costruzioni su fondi finitimi, se non unite o aderenti,
devono essere tenute a distanza non minore di tre metri,
potendo peraltro nei regolamenti locali essere dettata una
distanza maggiore. L’art. 907 c.c., infine, stabilisce la
medesima distanza di mt. 3 in relazione alla distanza delle
costruzioni dalle vedute.
Così indicata la normativa di riferimento, la giurisprudenza
amministrativa occupatasi del problema (v. TAR Abruzzo,
Pescara, Sez. I, 24.02.2012, n. 87) ha evidenziato che le
previsioni per il superamento e l’eliminazione delle
barriere architettoniche negli edifici privati –dettate in
generale dalla l. n. 13/1989, poi trasfusa nel d.P.R. n.
380/2001, ed articolate in dettaglio nel d.m. 14.06.1989, n.
236– hanno elevato il livello di tutela dei soggetti
portatori di minorazioni fisiche, oramai reputato interesse
primario della collettività, da soddisfare con interventi
tesi a rimuovere situazioni preclusive dello sviluppo della
persona e dello svolgimento di una normale vita di relazione
(TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 14.11.2011, n. 5343; cfr.,
sul punto, Corte cost., 10.03.1999, n. 167 e 04.07.2008, n.
251).
Peraltro, la giurisprudenza ha precisato che il sistema di
tutela delle persone disabili è applicabile, nel concreto,
compatibilmente con altri interessi pubblici, i quali non
possono essere pretermessi, ma devono essere bilanciati con
quello, superiore, alla tutela ottimale di tali persone: ne
consegue che le misure necessarie a rendere effettiva la
tutela delle persone disabili, sulla base degli artt. 2, 3 e
32 Cost., possono essere legittimamente graduate in vista
dell’attuazione del principio della parità di trattamento,
tenuto conto di tutti i valori costituzionali in gioco e
fermo, comunque, il rispetto di un nucleo indefettibile di
garanzie per gli interessati.
Il diniego sull’istanza di autorizzazione all’intervento
diretto ad eliminare le barriere architettoniche sarà,
dunque, consentito qualora non sia possibile realizzare le
opere, senza pregiudizio di altri beni ugualmente tutelati
(TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, n. 87/2012, cit.), tenendo
peraltro conto che di eliminazione delle barriere
architettoniche si può parlare solo per le opere
tecnicamente necessarie a garantire l’accessibilità,
l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati, come
ad es. servoscale ed ascensori, e non già per le opere tese
alla migliore fruibilità dell’edificio ed alla maggiore
comodità dei residenti, come ad es. porticati o tettoie (v.
TAR Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 08.11.2011, n. 526).
Nell’ottica appena illustrata, va evidenziato che il
Legislatore ha effettuato scelte puntuali in merito alla
graduazione degli interessi coinvolti. Ad es., nel
bilanciamento tra l’interesse alla salvaguardia del
patrimonio storico-artistico nazionale e quello alla tutela
del diritto alla salute e ad una normale vita di relazione
delle persone disabili, la normativa ha dato prevalenza a
quest’ultimo, consentendo il diniego dell’autorizzazione
alla realizzazione degli interventi su un bene vincolato
solo in caso di accertato e motivato serio pregiudizio del
bene stesso (TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, n. 87/2012, cit.,
con i precedenti ivi elencati). Al contrario, è stato
ritenuto prevalente l’interesse al rispetto della normativa
antincendio (C.d.S., Sez. V, 08.03.2011, n. 1437).
Con riferimento, in particolare, al problema che qui rileva
–cioè quello del contrasto tra l’interesse dei soggetti
portatori di minorazioni fisiche e quello dei soggetti terzi
(in particolare, i proprietari di fabbricati alieni)– il
Legislatore, con il surriferito art. 79 del d.P.R. n.
380/2001 e con le norme dal medesimo richiamate (artt. 873 e
907 c.c.), ha ritenuto di comporre il contrasto dando
prevalenza al diritto dei terzi di veder rispettate le
distanze tra le costruzioni previste dalle norme del codice
civile richiamate e, dunque, una distanza non inferiore a
tre metri: ciò, al fine di garantire la salubrità delle
costruzioni.
In altre parole, il Legislatore ha considerato l’interesse
delle persone disabili recessivo rispetto al diritto alla
salute dei soggetti “terzi” ed in specie dei
proprietari di immobili finitimi, che non possono patire una
lesione di siffatto diritto per effetto della costruzione di
intercapedini, tali da incidere sulla salubrità delle
costruzioni. E la scelta del Legislatore è stata ritenuta
non illogica dalla giurisprudenza (TAR Abruzzo, Pescara,
Sez. I, n. 87/2012, cit.), attesa la pari rilevanza del
diritto alla salute dei soggetti confinanti rispetto a
quello dei portatori di minorazioni.
Peraltro, la giurisprudenza di merito ha chiarito come il
comma 2 dell’art. 3 della l. n. 13/1989 (ora comma 2
dell’art. 79 del d.P.R. n. 380 cit.) debba interpretarsi nel
senso che la distanza minima da mantenere, nella
realizzazione delle opere dirette a rimuovere le barriere
architettoniche, rispetto ai fabbricati vicini, in assenza
di spazi o aree di proprietà o uso comune, è quella di tre
metri prevista dalla prima parte dell’art. 873 c.c.
(indicata anche dall’art. 907 c.c.), poiché il richiamo al
citato art. 873 c.c. deve intendersi limitato alla sola
prima parte di detta disposizione, con esclusione, pertanto,
delle previsioni dei regolamenti locali (Trib. Genova,
13.11.1997, in Arch. Locazioni, 1998, 86).
La giurisprudenza di merito ha, inoltre, affermato che
l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 79
del d.P.R. n. 380/2001 porta ad estendere la deroga alle
norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi
(dettata nel comma 1 dell’art. 79 cit.) anche agli atti di
normazione primaria, con il corollario di dover limitare al
dato testuale il richiamo all’art. 873 c.c. e quindi
dell’inapplicabilità ad una fattispecie del tutto analoga a
quella ora in esame (installazione dell’ascensore esterno ad
un edificio) della disciplina sulle distanze dai fabbricati
alieni prevista dall’art. 9 del d.m. n. 1444/1968 (Trib.
Monza, 01.10.2007, in Giur. Merito, 2008, 3, 728). Ciò, al
fine di garantire e realizzare il principio di uguaglianza
sostanziale anche nei riguardi dei soggetti disabili,
secondo l’insegnamento espresso dalla Corte costituzionale
con la già ricordata sentenza n. 167/1999.
Gli arresti ora riferiti debbono essere condivisi.
Invero, l’inapplicabilità alle opere volte a rimuovere le
barriere architettoniche della disciplina sulle maggiori
distanze contenuta nei regolamenti edilizi comunali,
discende dalla deroga espressa a detta disciplina stabilita
dell’art. 79, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001. Tale deroga
verrebbe frustrata –e dunque la previsione che la contiene
sarebbe inutiliter data– ove si ritenesse che il
rinvio contenuto nel comma 2 dell’art. 79 cit. all’art. 873
c.c. riguardi anche la seconda parte di siffatta
disposizione del codice civile (la quale, come già
illustrato, ammette che nei regolamenti locali venga fissata
una distanza maggiore di quella di mt. 3 prevista dalla
prima parte dello stesso art. 873 c.c.).
In altre parole, il Legislatore sarebbe incorso in
un’abnorme contraddizione, qualora avesse stabilito al comma
1 dell’art. 79 cit. l’inapplicabilità delle distanze
previste nei regolamenti edilizi comunali alle opere (come
gli ascensori esterni) volte a rimuovere le barriere
architettoniche, per poi, invece, rendere applicabili le
suddette distanze, tramite il rinvio all’art. 873 c.c.
contenuto nel comma 2 del medesimo art. 79: ma la
contraddizione si supera ritenendo –con la giurisprudenza
sopra richiamata– che il rinvio operato dall’art. 79, comma
2, cit., riguardi solamente la prima parte dell’art. 873
c.c. e, dunque, renda applicabile alle opere in questione
soltanto la distanza di mt. 3 stabilita dalla prima parte
dell’ora vista disposizione codicistica.
Per quanto concerne, poi, l’inapplicabilità delle distanze
previste dal d.m. n. 1444/1968, si richiama –ad ulteriore
supporto– il principio per cui la disciplina in materia di
distanze non opera per quegli impianti che debbono
considerarsi indispensabili ai fini di una reale abitabilità
dell’appartamento e che riflettono l’evoluzione delle
esigenze generali dei cittadini (Pret. Catania, 20.03.1992,
Lirosi c. Pantò), senza trascurare che nel caso di specie
sono tutelati primari valori costituzionali, mentre il
diritto alla salute, di pari rango costituzionale, dei
proprietari dei fabbricati alieni è già garantito con
l’applicazione della distanza di mt. 3 ex artt. 873 e 907
c.c. (TAR Lazio-Latina,
sentenza
22.09.2014 n. 726 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Per l’ammissibilità della
domanda risarcitoria nei confronti della P.A., non basta il
solo annullamento del provvedimento lesivo, ma è, altresì,
necessaria la sussistenza dell’elemento soggettivo della
colpa, dovendo quindi verificarsi se l’adozione e
l’esecuzione dell’atto impugnato siano o meno avvenute in
violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona
fede, a cui l’esercizio della funzione pubblica deve
costantemente attenersi: ne consegue che il giudice
amministrativo potrà affermare la responsabilità della P.A.
per danni conseguenti ad un atto illegittimo, se la
violazione risulti grave e commessa in un contesto di
circostanze di fatto ed in un quadro di riferimenti
normativi e giuridici tali da palesare la negligenza e
l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento
viziato.
In ogni caso, nella vicenda in
esame non è rinvenibile l’elemento soggettivo della colpa
della P.A., requisito necessario affinché possa configurarsi
la responsabilità aquiliana della P.A. nelle materie diverse
dagli appalti pubblici (Cass. civ., Sez. III, 28.10.2011, n.
22508; TAR Lazio, Latina, Sez. I, 21.10.2013, n. 779).
Ha affermato, infatti, la giurisprudenza (v. pure TAR
Campania, Napoli, Sez. V, 08.07.2013, n. 3526; TAR Lazio,
Roma, Sez. II, 01.07.2013, n. 6495) che, per l’ammissibilità
della domanda risarcitoria nei confronti della P.A., non
basta il solo annullamento del provvedimento lesivo, ma è,
altresì, necessaria la sussistenza dell’elemento soggettivo
della colpa, dovendo quindi verificarsi se l’adozione e
l’esecuzione dell’atto impugnato siano o meno avvenute in
violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona
fede, a cui l’esercizio della funzione pubblica deve
costantemente attenersi: ne consegue che il giudice
amministrativo potrà affermare la responsabilità della P.A.
per danni conseguenti ad un atto illegittimo, se la
violazione risulti grave e commessa in un contesto di
circostanze di fatto ed in un quadro di riferimenti
normativi e giuridici tali da palesare la negligenza e
l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento
viziato (TAR Lazio, Latina, Sez. I, n. 779/2013, cit.).
Orbene, la portata invero non perspicua dell’art. 79 del
d.P.R. n. 380/2001 –che, come si è visto, al comma 1 prevede
una deroga alle distanze stabilite dai regolamenti edilizi
comunali, la cui portata sembrerebbe interamente annullata
dal rinvio che il successivo comma 2 fa all’art. 873 c.c.– è
tale da indurre il Collegio a concludere per l’esistenza,
nel caso di specie, di un errore scusabile in capo al Comune
di Sora: errore scusabile riconducibile alla non facile
intelligibilità del menzionato dato normativo, oltre che
all’esistenza di rari precedenti giurisprudenziali in
materia, per giunta talvolta discordanti (TAR Lazio-Latina,
sentenza
22.09.2014 n. 726 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI:
Appalto, offerta simbolica ko. Gare multiservizi, proposte
viziate se prossime a zero. Tar Veneto: inammissibilità scaturente dalla mancanza di un
elemento essenziale.
L'indicazione di un prezzo prossimo allo zero in relazione a
uno dei servizi oggetto di gara si traduce in un'offerta
completamente viziata sotto il profilo strutturale, ossia in
un'offerta inammissibile per mancanza di uno dei suoi
elementi essenziali come riportati nella lex specialis di
gara, indipendentemente dal peso ponderale che a essi viene
attribuito in sede di valutazione dell'offerta economica.
Lo ha stabilito il TAR Veneto, Sez. I, con la
sentenza
11.09.2014 n. 1200.
La vicenda trae origine da una gara d'appalto indetta da un
comune per l'affidamento triennale, con possibilità di
rinnovo per altri due anni, del servizio di gestione delle
attività di prelievo ematico a domicilio e nei punti
periferici oltre che della gestione del servizio di
segreteria.
La selezione è culminata nell'aggiudicazione in favore di un
consorzio. E tuttavia il contratto non è mai stato stipulato
per via del ricorso, presentato dalla seconda classificata,
innanzi al giudice amministrativo. La ricorrente ha
contestato la legittimità degli atti della selezione, in
specie la scelta della stazione appaltante di aggiudicare la
gara in favore del consorzio nonostante l'offerta da questi
presentata contenesse una voce, relativa a uno dei tre
servizi appaltati, quello «di accettazione amministrativa»,
con indicazione di un prezzo meramente simbolico (0,01
centesimi di euro l'anno); il consorzio, per garantirsi la
vittoria, ha infatti costruito la propria offerta riversando
il costo reale del servizio di segreteria sugli altri due
rimanenti, rispettivamente, l'attività dei punti prelievo
periferici e quella di prelievo a domicilio: il che, sempre
secondo la tesi della ricorrente, non poteva che ritenersi
in contrasto con i principi cardine delle procedure
evidenziali oltre che con la stessa lex specialis, la quale
giust'appunto imponeva ai concorrenti di proporre un prezzo
per ciascuna delle tre prestazioni richieste; in questi
termini, così ha concluso la seconda classificata, la
stazione appaltante avrebbe dovuto escludere il consorzio
per inammissibilità dell'offerta anziché affidargli il
servizio appaltato.
Il tribunale ha respinto l'istanza cautelare. Ma il
consiglio di stato, in sede di appello contro l'ordinanza
reiettiva, ha confutato la tesi svolta dal giudice di prime
cure, concedendo la sospensiva degli atti di gara.
Con la sentenza in esame il Tar si è occupato del merito
della vicenda. La decisione trae l'abbrivio dallo stesso
capitolato di gara che ha previsto l'attribuzione di uno
specifico peso ponderale, nell'ambito della valutazione
dell'offerta economica, con l'indicazione, per ogni voce del
servizio, di un valore massimo di punteggio. Ciò premesso, i
giudici toscani hanno rilevato come l'indicazione da parte
del consorzio aggiudicatario di un importo pari a euro 0,01
per uno dei tre servizi appaltati raffigurasse «un prezzo
meramente simbolico», che non consentiva, nella sua valenza
quasi infinitesimale, se non addirittura inesistente, di
attribuire a esso un punteggio che potesse ragionevolmente
rapportarsi al valore concretamente indicato.
In altri termini, così si legge nella pronuncia in commento,
«l'indicazione di un prezzo prossimo allo zero in relazione
a uno dei servizi oggetto di gara, oltre a vanificare
completamente la valenza delle altre offerte formulate, che
in relazione a tale servizio non hanno potuto far altro che
conseguire, in via del tutto anomala, un punteggio quasi
inesistente, si traduce in un'offerta completamente viziata
sotto il profilo strutturale, ossia in un'offerta
inammissibile per mancanza di uno dei suoi elementi
essenziali».
A detta del Tar, dunque, l'offerta di gara, oltre a non
poter essere meramente simbolica, deve sempre poter essere
valutata nella sua completezza, indipendentemente dalle
indicazioni fornite dalla stazione appaltante e contenute
nel bando o nel disciplinare di gara. Diversamente opinando,
infatti, l'indicazione di prezzi fittizi, come tali, privi
di un reale riscontro, affetta la complessità dell'offerta e
obbliga la stazione appaltante a provvedere con l'esclusione
dell'operatore economico.
Conseguentemente il Tar ha accolto il ricorso per l'effetto
annullando l'aggiudicazione in favore del consorzio, e
ordinando il subentro della seconda classificata (articolo ItaliaOggi Sette
del 17.11.201). |
URBANISTICA: Le
zonizzazioni degli strumenti urbanistici si presumono
conformative e non espropriative salva prova contraria.
La Corte di appello di Venezia afferma interessanti principi
in materia di previsioni di zonizzazione contenute negli
strumenti urbanistici. In particolare, la Corte, seguendo
l’insegnamento della Corte di Cassazione, dice che le
zonizzazioni previste dagli strumenti urbanistici si
presumono avere natura conformativa e non espropriativa,
fatta salva la prova contraria, che si può fornire mostrando
che in concreto le disposizioni delle NTA (chiamate “indici”)
consentono solo di realizzare opere pubbliche. Se così non
è, la zonizzazione va considerata conformativa.
Nel caso in esame, il PRG prevedeva una zona da destinare a
verde attrezzato a fini sportivi, su aree degradate alla
periferia del centro abitato, perché in passato utilizzate
come cave e discarica. L’intervento era subordinato a un
progetto speciale, che poteva essere presentato e realizzato
non solo dal Comune, ma anche dal proprietario, previa
convenzione col Comune (Corte di Appello di Venezia, Sez. II
civile,
sentenza 20.06.2014 n. 1504
- link a http://venetoius.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
caso di reiterazione della domanda di concessione edilizia,
quando quella precedentemente rilasciata sia decaduta per
mancato inizio dei lavori, non ci si trova in presenza di
provvedimenti meramente confermativi o di proroga della
concessione già rilasciata ma di una nuova concessione, il
cui rilascio è subordinato all'adempimento degli obblighi
relativi.
---------------
L’art. 4 della L. n. 10/1977 dispone testualmente che
“Nell'atto di concessione sono indicati i termini di inizio
e di ultimazione dei lavori. Il termine per l'inizio dei
lavori non può essere superiore ad un anno; il termine di
ultimazione, entro il quale l'opera deve essere abitabile o
agibile, non può essere superiore a tre anni e può essere
prorogato, con provvedimento motivato, solo per fatti
estranei alla volontà del concessionario, che siano
sopravvenuti a ritardare i lavori durante la loro
esecuzione. Un periodo più lungo per l'ultimazione dei
lavori può essere concesso esclusivamente in considerazione
della mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari
caratteristiche tecnico-costruttive; ovvero quando si tratti
di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più
esercizi finanziari. Qualora i lavori non siano ultimati nel
termine stabilito, il concessionario deve presentare istanza
diretta ad ottenere una nuova concessione; in tal caso la
nuova concessione concerne la parte non ultimata.”.
La decadenza dalla concessione edilizia per mancato inizio
dei lavori nel termine prefissato, a norma dell'art. 4 della
L. 28.01.1977 n. 10, è un istituto giuridico fondato
sull'elemento oggettivo del decorso del tempo e, ai sensi
dell'art. 4, 4º comma, della L. 28.01.1977 n. 10, i predetti
termini indicati nell'atto sono intesi a dare certezza
temporale all'attività edificatoria; detto istituto è
rivolto, previo accertamento dello stato dell'attività
costruttiva alla scadenza del termine suddetto, solo a dare
certezza di una situazione già prodottasi al verificarsi dei
presupposti stabiliti dalla legge.
Il termine per l'inizio dell'attività edificatoria non è
suscettibile né di sospensione né di interruzione e non è,
pertanto, prorogabile; se, infatti, scaduto il termine di
validità del titolo autorizzatorio, l'attività di
trasformazione edilizia non è ancora iniziata, prevale
l'esigenza di consentire, nel preminente interesse pubblico,
la rivalutazione della perdurante conformità dell'intervento
assentito alla vigente normativa urbanistica, esigenza, che,
invece, nell'ottica del legislatore, si attenua in presenza
di un'attività edilizia già iniziata, benché non terminata
per fatti indipendenti dalla volontà del costruttore.
---------------
E' irrilevante lo stato di salute della ricorrente, quale
manifestatosi successivamente al presunto inizio dei detti
lavori di realizzazione degli edifici e ritenuto causa della
predetta interruzione, indipendentemente dalla circostanza
che il predetto stato sia stato previamente portato a
conoscenza dell’amministrazione comunale interessata con
l’istanza di proroga della concessione e non invece dedotto,
esclusivamente, in un momento successivo, in sede di
richiesta di riesame del rigetto di rilascio della nuova
concessione edilizia.
--------------
Deve rilevarsi che l'orientamento giurisprudenziale sulla
necessità di un espresso provvedimento di decadenza della
concessione edilizia non è costante.
Ed infatti una parte della giurisprudenza ritiene che la
decadenza della concessione edilizia per mancato inizio ed
ultimazione dei lavori non sia automatica e, pertanto, tale
decadenza debba essere necessariamente dichiarata con
apposito provvedimento, nei cui riguardi il privato non
vanta che una posizione giuridica di interesse legittimo,
sicché non è configurabile nella specie un giudizio
d'accertamento e che, pertanto, affinché la concessione
edilizia perda, per decadenza, la propria efficacia occorre
un atto formale dell'amministrazione che renda operanti gli
effetti della decadenza accertata.
La decadenza avrebbe, pertanto, dovuto formare oggetto di un
apposito provvedimento sindacale, che ne avesse accertato i
presupposti rendendone operanti gli effetti, come richiesto
per tutti i casi di decadenza di concessioni edilizie,
considerato che la perdita di efficacia della concessione è
subordinata all'esplicazione di una potestà provvedimentale.
Il Collegio, in tale situazione, in aderenza
all’orientamento che appare prevalente nella materia da
ultimo, ritiene che debba farsi riferimento invece alla
lettera della legge, la quale fa dipendere la decadenza, non
da un atto amministrativo, costitutivo o dichiarativo, ma
dal semplice fatto dell'inutile decorso del tempo.
Diversamente opinando, infatti, si farebbe dipendere la
decadenza non solo da un comportamento dei titolari della
concessione ma anche della Pubblica Amministrazione, ai fini
dell’accertamento con apposito atto amministrativa
dell’intervenuta decadenza della concessione edilizia per
l’inutile scadenza del termine di inizio lavori, con
probabili disparità di trattamento tra situazioni che nella
sostanza si presentano identiche sul punto che interessa.
La decadenza della concessione edilizia per mancata
osservanza del termine di inizio dei lavori, pertanto, opera
di diritto, con la conseguenza che il provvedimento, ove
adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto
verificatosi "ex se" con l'inutile decorso del termine.
Segue da ciò che: a) l'eventuale provvedimento di decadenza
è sufficientemente motivato con richiamo al termine ultimo
previsto per l'inizio dei lavori, senza che sia necessaria
una comparazione tra l'interesse del privato e quello
pubblico, essendo quest'ultimo "ope legis" prevalente sul
primo; b) non è necessaria la comunicazione di avvio del
procedimento, essendo la decadenza un effetto "ipso iure"
del mancato inizio dei lavori e non residuando
all'amministrazione alcun margine per valutazioni di ordine
discrezionale.
La decadenza della concessione edilizia si determina,
pertanto, anche in assenza di un'espressa dichiarazione da
parte dell’amministrazione competente.
---------------
Ai fini della sussistenza -o meno- dei presupposti per la
decadenza dalla concessione edilizia, l'effettivo inizio dei
lavori relativi deve essere valutato non in via generale ed
astratta, ma con specifico e puntuale riferimento all'entità
ed alle dimensioni dell'intervento edificatorio programmato
ed autorizzato, all'evidente scopo di evitare che il termine
prescritto possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e
simbolici e non oggettivamente significativi di un effettivo
intendimento del titolare della concessione stessa di
procedere alla costruzione dell'opera progettata.
L'inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza della
concessione edilizia può ritenersi sussistente quando le
opere intraprese siano tali da manifestare una effettiva
volontà da parte del concessionario di realizzare il
manufatto assentito, non essendo sufficiente il semplice
sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti
e materiali da costruzione.
Pertanto l'inizio dei lavori non si configura con la sola
esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento senza che sia
manifestamente messa a punto l'organizzazione del cantiere e
vi siano altri indizi che dimostrino il reale proposito del
titolare della concessione edilizia di proseguire i lavori
sino alla loro ultimazione ed al completamento dell'opera.
E la declaratoria di decadenza della licenza edilizia per
mancato inizio dei lavori entro il termine fissato è
illegittima solo ove il titolare della concessione abbia
eseguito "lo scavo ed il riempimento in conglomerato
cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del
piano di campagna entro il termine di legge" oppure lo
sbancamento interessi un'area di vaste proporzioni.
Né si ritiene che assuma rilevanza, ai fini che interessano
della verifica del regolare e tempestivo inizio dei lavori
ai sensi dell’art. 4 della L. n. 10/1977, la circostanza che
sia stata data comunicazione dell’inizio dei lavori come da
nota prot. n. 06799 del 05.10.1994, atteso che la predetta
circostanza non è idonea ad attestare l’effettivo inizio
degli stessi, in assenza di positivi riscontri materiali al
riguardo; ed altrettanto è a dirsi per la nomina del
direttore dei lavori di cui alla nota prot. n. 06798 della
medesima data.
Con il secondo motivo di censura di cui al ricorso sub A) e
con il primo ed il secondo motivo di censura di cui al
ricorso sub B), la ricorrente ha sostenuto che la
concessione edilizia originariamente rilasciata non era
decaduta per inutile decorso del termine di un anno senza
inizio dei lavori sia perché i lavori erano, invece,
iniziati sia perché, comunque, la decadenza non era stata
dichiarata tempestivamente ed espressamente da parte del
Comune; ha ulteriormente dedotto di avere presentato in data
15.03.1997 istanza di proroga della concessione edilizia
rilasciatagli, che sarebbe, tuttavia, rimasta priva di
riscontro da parte dell’amministrazione comunale.
Si premette che, in caso di reiterazione della domanda di
concessione edilizia, quando quella precedentemente
rilasciata sia decaduta per mancato inizio dei lavori, non
ci si trova in presenza di provvedimenti meramente
confermativi o di proroga della concessione già rilasciata
ma di una nuova concessione, il cui rilascio è subordinato
all'adempimento degli obblighi relativi.
Ne consegue la non rilevanza dell’argomentazione di cui da
ultimo della difesa della ricorrente, secondo cui la
richiesta di rilascio della seconda concessione edilizia, in
realtà nella sostanza, andava interpretata da parte del
Comune come istanza di proroga del termine della concessione
edilizia già rilasciata, reiterativi della precedente
istanza, tempestivamente presentata nelle more di decorrenza
del termine annuale di inizio di lavori di costruzione in
data 15.03.1997.
Ed infatti una volta ritenuta la sostanziale decadenza della
predetta concessione edilizia, correttamente il Comune ha
valutato la nuova istanza alla stregua di quanto emergeva
dal suo dato testuale, ossia di richiesta di rilascio di una
nuova concessione edilizia del medesimo contenuto.
L’art. 4 della L. n. 10/1977 dispone, infatti, testualmente
che “Nell'atto di concessione sono indicati i termini di
inizio e di ultimazione dei lavori.
Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore
ad un anno; il termine di ultimazione, entro il quale
l'opera deve essere abitabile o agibile, non può essere
superiore a tre anni e può essere prorogato, con
provvedimento motivato, solo per fatti estranei alla volontà
del concessionario, che siano sopravvenuti a ritardare i
lavori durante la loro esecuzione. Un periodo più lungo per
l'ultimazione dei lavori può essere concesso esclusivamente
in considerazione della mole dell'opera da realizzare o
delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive;
ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui
finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari.
Qualora i lavori non siano ultimati nel termine stabilito,
il concessionario deve presentare istanza diretta ad
ottenere una nuova concessione; in tal caso la nuova
concessione concerne la parte non ultimata.”.
La decadenza dalla concessione edilizia per mancato inizio
dei lavori nel termine prefissato, a norma dell'art. 4 della
L. 28.01.1977 n. 10, è un istituto giuridico fondato
sull'elemento oggettivo del decorso del tempo e, ai sensi
dell'art. 4, 4º comma, della L. 28.01.1977 n. 10, i
predetti termini indicati nell'atto sono intesi a dare
certezza temporale all'attività edificatoria; detto istituto
è rivolto, previo accertamento dello stato dell'attività
costruttiva alla scadenza del termine suddetto, solo a dare
certezza di una situazione già prodottasi al verificarsi dei
presupposti stabiliti dalla legge (TAR Campania Napoli,
sez. IV, 29.04.2004, n. 7513).
Il termine per l'inizio dell'attività edificatoria non è
suscettibile né di sospensione né di interruzione e non è,
pertanto, prorogabile; se, infatti, scaduto il termine di
validità del titolo autorizzatorio, l'attività di
trasformazione edilizia non è ancora iniziata, prevale
l'esigenza di consentire, nel preminente interesse pubblico,
la rivalutazione della perdurante conformità dell'intervento
assentito alla vigente normativa urbanistica, esigenza, che,
invece, nell'ottica del legislatore, si attenua in presenza
di un'attività edilizia già iniziata, benché non terminata
per fatti indipendenti dalla volontà del costruttore (TAR Sardegna,
06.08.2003, n. 1001).
Ne consegue, ai fini che interessano, la assoluta
irrilevanza dello stato di salute della ricorrente, quale
manifestatosi successivamente al presunto inizio dei detti
lavori di realizzazione degli edifici e ritenuto causa della
predetta interruzione, indipendentemente dalla circostanza
che il predetto stato sia stato previamente portato a
conoscenza dell’amministrazione comunale interessata con
l’istanza di proroga della concessione e non invece dedotto,
esclusivamente, in un momento successivo, in sede di
richiesta di riesame del rigetto di rilascio della nuova
concessione edilizia.
Ed infatti, alla luce della citata interpretazione oggettiva
del suddetto termine di inizio lavori, la proroga dello
stesso non sarebbe giuridicamente configurabile per alcun
motivo, neppure quello inerente allo stato di salute del
titola del titolo edificatorio.
Peraltro la ricorrente, considerata l’inerzia del Comune nel
riscontrare la predetta istanza di proroga, presentata nelle
more di decorrenza del termine annuale di inizio dei lavori
(che si evidenzia non essere stata depositata nemmeno in
copia nel presente giudizio né a cura della ricorrente,
direttamente interessata, né a cura del Comune, che è
rimasto, nella sostanza, assolutamente inottemperante all’O.P.I.
n. 10/2005), avrebbe dovuto tempestivamente, e nei modi di
legge, attivarsi contro la predetta inerzia, ai fini di fare
valere, eventualmente, le proprie ragioni al riguardo nei
confronti dell’amministrazione comunale.
Ciò premesso, deve rilevarsi che l'orientamento
giurisprudenziale sulla necessità di un espresso
provvedimento di decadenza non è costante.
Ed infatti una parte della giurisprudenza ritiene che la
decadenza della concessione edilizia per mancato inizio ed
ultimazione dei lavori non sia automatica e, pertanto, tale
decadenza debba essere necessariamente dichiarata con
apposito provvedimento, nei cui riguardi il privato non
vanta che una posizione giuridica di interesse legittimo,
sicché non è configurabile nella specie un giudizio
d'accertamento (TAR Abruzzo Pescara, 28.06.2002, n.
595) e che, pertanto, affinché la concessione edilizia
perda, per decadenza, la propria efficacia occorre un atto
formale dell'amministrazione che renda operanti gli effetti
della decadenza accertata (Consiglio Stato, sez. V, 26.06.2000, n. 3612).
La decadenza avrebbe, pertanto, dovuto formare oggetto di un
apposito provvedimento sindacale, che ne avesse accertato i
presupposti rendendone operanti gli effetti, come richiesto
per tutti i casi di decadenza di concessioni edilizie (Cfr.
da ultimo V, 15.06.1998, n. 834), considerato che la perdita
di efficacia della concessione è subordinata
all'esplicazione di una potestà provvedimentale.
Il Collegio, in tale situazione, in aderenza
all’orientamento che appare prevalente nella materia da
ultimo, ritiene che debba farsi riferimento invece alla
lettera della legge, la quale fa dipendere la decadenza, non
da un atto amministrativo, costitutivo o dichiarativo, ma
dal semplice fatto dell'inutile decorso del tempo.
Diversamente opinando, infatti, si farebbe dipendere la
decadenza non solo da un comportamento dei titolari della
concessione ma anche della Pubblica Amministrazione, ai fini
dell’accertamento con apposito atto amministrativa
dell’intervenuta decadenza della concessione edilizia per
l’inutile scadenza del termine di inizio lavori, con
probabili disparità di trattamento tra situazioni che nella
sostanza si presentano identiche sul punto che interessa.
La decadenza della concessione edilizia per mancata
osservanza del termine di inizio dei lavori, pertanto, opera
di diritto, con la conseguenza che il provvedimento, ove
adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto
verificatosi "ex se" con l'inutile decorso del termine.
Segue da ciò che: a) l'eventuale provvedimento di decadenza
è sufficientemente motivato con richiamo al termine ultimo
previsto per l'inizio dei lavori, senza che sia necessaria
una comparazione tra l'interesse del privato e quello
pubblico, essendo quest'ultimo "ope legis" prevalente sul
primo; b) non è necessaria la comunicazione di avvio del
procedimento, essendo la decadenza un effetto "ipso iure"
del mancato inizio dei lavori e non residuando
all'amministrazione alcun margine per valutazioni di ordine
discrezionale (TAR Basilicata, 23.05.2003, n. 471).
La decadenza della concessione edilizia si determina,
pertanto, anche in assenza di un'espressa dichiarazione da
parte dell’amministrazione competente.
Ai fini della verifica dell’effettivo inizio dei suddetti
lavori nei termini di legge di cui sopra, in punto di fatto,
non può che prendersi dal contenuto essenziale del verbale
di sopralluogo dell’U.T.C. del 27.02.1998, che, sebbene non
depositato in copia agli atti del giudizio, nonostante
apposita O.P.I. al riguardo, tuttavia è stato riportato,
nella sua parte motivazionale, nel testo del provvedimento
di cui al prot. n. 10466 del 05.11.1998, impugnato con il
ricorso sub B), rileva la consistenza dei lavori effettuati
quali “modesti sbancamenti di terreno oramai ricoperti di
acqua e vegetazione”;
Si ricorda, infatti, come tale attestazione debba
considerarsi veridica fino a prova contraria, prova che la
ricorrente non è riuscita a fornire nel presente giudizio.
Ed infatti anche dall’elencazione dei lavori effettuati,
come riportati nella richiesta di riesame, dette opere
consistono in “picchettatura del terreno interessato dalla
costruzione, livellamento del medesimo terreno al livello
delle fondazioni, creazione degli scavi per il getto dei
plinti di fondazione di entrambi gli assentiti edifici,
realizzazione della strada di accesso”.
Ne consegue che, nella sostanza, non appare esservi un reale
contrasto tra le parti in ordine alla natura dei detti
lavori, che, secondo entrambe le rappresentazioni dello
stato dei fatti, si sono fermati al livello dello
sbancamento dei terreni e della loro preparazione
all’edificazione, senza che, tuttavia, la edificazione in
senso stretto, come intesa dalla prevalente giurisprudenza
sul punto, possa effettivamente considerasi iniziata.
Ed infatti, ai fini della sussistenza -o meno- dei
presupposti per la decadenza dalla concessione edilizia,
l'effettivo inizio dei lavori relativi deve essere valutato
non in via generale ed astratta, ma con specifico e puntuale
riferimento all'entità ed alle dimensioni dell'intervento
edificatorio programmato ed autorizzato, all'evidente scopo
di evitare che il termine prescritto possa essere eluso con
ricorso a lavori fittizi e simbolici e non oggettivamente
significativi di un effettivo intendimento del titolare
della concessione stessa di procedere alla costruzione
dell'opera progettata (Consiglio Stato, sez. V, 16.11.1998, n. 1615).
L'inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza della
concessione edilizia può ritenersi sussistente quando le
opere intraprese siano tali da manifestare una effettiva
volontà da parte del concessionario di realizzare il
manufatto assentito, non essendo sufficiente il semplice
sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti
e materiali da costruzione (Consiglio Stato, sez. V, 22.11.1993, n. 1165).
Pertanto l'inizio dei lavori non si configura con la sola
esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento senza che sia
manifestamente messa a punto l'organizzazione del cantiere e
vi siano altri indizi che dimostrino il reale proposito del
titolare della concessione edilizia di proseguire i lavori
sino alla loro ultimazione ed al completamento dell'opera (Consiglio Stato, sez. IV,
03.10.2000, n. 5242).
E la declaratoria di decadenza della licenza edilizia per
mancato inizio dei lavori entro il termine fissato è
illegittima solo ove il titolare della concessione abbia
eseguito "lo scavo ed il riempimento in conglomerato
cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del
piano di campagna entro il termine di legge" (Consiglio
Stato, sez. V, 15.10.1992, n. 1006) oppure lo
sbancamento interessi un'area di vaste proporzioni (Consiglio Stato, sez. V, 13.05.1996, n. 535).
Né si ritiene che assuma rilevanza, ai fini che interessano
della verifica del regolare e tempestivo inizio dei lavori
ai sensi dell’art. 4 della L. n. 10/1977, la circostanza che
sia stata data comunicazione dell’inizio dei lavori come da
nota prot. n. 06799 del 05.10.1994, atteso che la predetta
circostanza non è idonea ad attestare l’effettivo inizio
degli stessi, in assenza di positivi riscontri materiali al
riguardo; ed altrettanto è a dirsi per la nomina del
direttore dei lavori di cui alla nota prot. n. 06798 della
medesima data.
Non si riscontra, pertanto, la dedotta violazione dell’art.
8, co. 3, della L.R. n. 29/1997, il quale, nel prevedere le
misure di salvaguardia, testualmente dispone che “3.
All'interno delle zone A previste dall'articolo 7, comma 4,
lettera a), numero 1), delle aree naturali protette
individuate dal piano regionale, sono vietati: … omissis …
q) la realizzazione di nuovi edifici all'interno delle zone
territoriali omogenee E) previste dall'articolo 2 del
decreto del Ministro per i lavori pubblici 02.04.1968,
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 16.04.1968, n. 97,
in cui sono comunque consentiti: 1) interventi già
autorizzati e regolarmente iniziati alla data di entrata in
vigore della presente legge”, atteso che, nel caso di
specie, si è ritenuto che non vi fosse stato alcun effettivo
inizio dei lavori tale da giustificare la mancata decadenza
della concessione edilizia in precedenza rilasciata.
Il “regolare inizio”, alla data di entrata in vigore della
presente legge, degli interventi già autorizzati, infatti,
non può essere intesa in senso difforme dall’inizio dei
lavori ai fini della decadenza dalla concessione edilizia di
cui al richiamato art. 4 della L. n. 10/1977,
indipendentemente dalla irrilevante circostanza che
effettivamente il Comune abbia provveduto tempestivamente
all’adozione di un atto formale ed espresso di decadenza
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza
28.06.2005 n. 5370). |
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