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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di DICEMBRE 2014

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aggiornamento al 31.12.2014

aggiornamento al 31.12.2014 (in evidenza)

aggiornamento al 22.12.2014

aggiornamento all'11.12.2014

aggiornamento all'01.12.2014

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 31.12.2014

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Nel caso di "lavori di somma urgenza" qual'è il soggetto che li può ordinare e come si regolarizzano dal punto di vista contabile??

     Un illuminante ed esaustivo parere della Corte dei Conti (riportato a seguire) affronta la questione in ordine a diversi quesiti posti da un comune. Prima, però, leggiamo cosa dispone la normativa di riferimento:

D.Lgs. 18.08.2000 n. 267 (nel testo in vigore sino al 31.12.2014)

Art. 191. Regole per l'assunzione di impegni e per l'effettuazione di spese
1. Gli enti locali possono effettuare spese solo se sussiste l'impegno contabile registrato sul competente intervento o capitolo del bilancio di previsione e l'attestazione della copertura finanziaria di cui all'articolo 153, comma 5. Il responsabile del servizio, conseguita l'esecutività del provvedimento di spesa, comunica al terzo interessato l'impegno e la copertura finanziaria, contestualmente all'ordinazione della prestazione, con l'avvertenza che la successiva fattura deve essere completata con gli estremi della suddetta comunicazione. Fermo restando quanto disposto al comma 4, il terzo interessato, in mancanza della comunicazione, ha facoltà di non eseguire la prestazione sino a quando i dati non gli vengano comunicati.
2. Per le spese previste dai regolamenti economali l'ordinazione fatta a terzi contiene il riferimento agli stessi regolamenti, all'intervento o capitolo di bilancio ed all'impegno.
3. Per i lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile, la Giunta, qualora i fondi specificamente previsti in bilancio si dimostrino insufficienti, entro venti giorni dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del procedimento, sottopone al Consiglio il provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), prevedendo la relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento e' adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte della Giunta, e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato e' data contestualmente all'adozione della deliberazione consiliare.
(comma così sostituito dall'art. 3, comma 1, lettera i), legge n. 213 del 2012)
4. Nel caso in cui vi è stata l'acquisizione di beni e servizi in violazione dell'obbligo indicato nei commi 1, 2 e 3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per la parte non riconoscibile ai sensi dell'articolo 194, comma 1, lettera e), tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura. Per le esecuzioni reiterate o continuative detto effetto si estende a coloro che hanno reso possibili le singole prestazioni.
5. Agli enti locali che presentino, nell'ultimo rendiconto deliberato, disavanzo di amministrazione ovvero indichino debiti fuori bilancio per i quali non sono stati validamente adottati i provvedimenti di cui all'articolo 193, è fatto divieto di assumere impegni e pagare spese per servizi non espressamente previsti per legge. Sono fatte salve le spese da sostenere a fronte di impegni già assunti nei precedenti esercizi.

Art. 193. Salvaguardia degli equilibri di bilancio
1. Gli enti locali rispettano durante la gestione e nelle variazioni di bilancio il pareggio finanziario e tutti gli equilibri stabiliti in bilancio per la copertura delle spese correnti e per il finanziamento degli investimenti, secondo le norme contabili recate dal presente testo unico.
2. Con periodicità stabilita dal regolamento di contabilità dell'ente locale, e comunque almeno una volta entro il 30 settembre di ciascun anno, l'organo consiliare provvede con delibera ad effettuare la ricognizione sullo stato di attuazione dei programmi. In tale sede l'organo consiliare dà atto del permanere degli equilibri generali di bilancio o, in caso di accertamento negativo, adotta contestualmente i provvedimenti necessari per il ripiano degli eventuali debiti di cui all'articolo 194, per il ripiano dell'eventuale disavanzo di amministrazione risultante dal rendiconto approvato e, qualora i dati della gestione finanziaria facciano prevedere un disavanzo, di amministrazione o di gestione, per squilibrio della gestione di competenza ovvero della gestione dei residui, adotta le misure necessarie a ripristinare il pareggio. La deliberazione è allegata al rendiconto dell'esercizio relativo.
3. Ai fini del comma 2 possono essere utilizzate per l'anno in corso e per i due successivi tutte le entrate e le disponibilità, ad eccezione di quelle provenienti dall'assunzione di prestiti e di quelle aventi specifica destinazione per legge, nonché i proventi derivanti da alienazione di beni patrimoniali disponibili con riferimento a squilibri di parte capitale. Per il ripristino degli equilibri di bilancio e in deroga all'articolo 1, comma 169, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, l'ente può modificare le tariffe e le aliquote relative ai tributi di propria competenza entro la data di cui al comma 2.
(comma così modificato dall'art. 1, comma 444, legge n. 248 del 2012)
4. La mancata adozione, da parte dell'ente, dei provvedimenti di riequilibrio previsti dal presente articolo è equiparata ad ogni effetto alla mancata approvazione del bilancio di previsione di cui all'articolo 141, con applicazione della procedura prevista dal comma 2 del medesimo articolo.

Art. 194. Riconoscimento di legittimità di debiti fuori bilancio

1. Con deliberazione consiliare di cui all'articolo 193, comma 2, o con diversa periodicità stabilita dai regolamenti di contabilità, gli enti locali riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da:
   a) sentenze esecutive;
   b) copertura di disavanzi di consorzi, di aziende speciali e di istituzioni, nei limiti degli obblighi derivanti da statuto, convenzione o atti costitutivi, purché sia stato rispettato l'obbligo di pareggio del bilancio di cui all'articolo 114 ed il disavanzo derivi da fatti di gestione;
   c) ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal codice civile o da norme speciali, di società di capitali costituite per l'esercizio di servizi pubblici locali;
   d) procedure espropriative o di occupazione d'urgenza per opere di pubblica utilità;
   e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza.
2. Per il pagamento l'ente può provvedere anche mediante un piano di rateizzazione, della durata di tre anni finanziari compreso quello in corso, convenuto con i creditori.
3. Per il finanziamento delle spese suddette, ove non possa documentalmente provvedersi a norma dell'articolo 193, comma 3, l'ente locale può far ricorso a mutui ai sensi degli articoli 202 e seguenti. Nella relativa deliberazione consiliare viene dettagliatamente motivata l'impossibilità di utilizzare altre risorse.

D.P.R. 05.10.2010 n. 207

Art. 176. Provvedimenti in casi di somma urgenza
(art. 147, d.P.R. n. 554/1999)

1. In circostanze di somma urgenza che non consentono alcun indugio, il soggetto fra il responsabile del procedimento e il tecnico che si reca prima sul luogo, può disporre, contemporaneamente alla redazione del verbale di cui all'articolo 175 la immediata esecuzione dei lavori entro il limite di 200.000 euro o comunque di quanto indispensabile per rimuovere lo stato di pregiudizio alla pubblica incolumità.
2. L'esecuzione dei lavori di somma urgenza può essere affidata in forma diretta ad uno o più operatori economici individuati dal responsabile del procedimento o dal tecnico.
3. Il prezzo delle prestazioni ordinate è definito consensualmente con l'affidatario; in difetto di preventivo accordo si procede con il metodo previsto all'articolo 163, comma 5.
4. Il responsabile del procedimento o il tecnico compila entro dieci giorni dall'ordine di esecuzione dei lavori una perizia giustificativa degli stessi e la trasmette, unitamente al verbale di somma urgenza, alla stazione appaltante che provvede alla copertura della spesa e alla approvazione dei lavori.
5. Qualora un'opera o un lavoro intrapreso per motivi di somma urgenza non riporti l'approvazione del competente organo della stazione appaltante, si procede alla liquidazione delle spese relative alla parte dell'opera o dei lavori realizzati.

     Ed ecco il parere della Corte dei Conti:

LAVORI PUBBLICI: Sulla questione dei lavori di somma urgenza: chi li può ordinare e come si regolarizzano dal punto di vista contabile.
  
I. Con il primo quesito, premesso che l’inciso del comma 3 dell’art. 191 TUEL (“qualora i fondi specificamente previsti in bilancio si dimostrino insufficienti”) determina l’applicazione della procedura di riconoscimento dei debiti fuori bilancio nel caso di assenza o insufficienza di fondi, ma nulla dispone nel caso in cui in bilancio vi siano risorse sufficienti, il Sindaco chiede quando la Giunta possa ritenere sussistenti i predetti fondi. In particolare solo nel caso in cui esista in bilancio una voce di spesa avente ad oggetto specificamente somme urgenze oppure anche in presenza di un capitolo di spesa avente un oggetto conforme alla natura dei lavori eseguiti in somma urgenza.
La valutazione della sufficienza o meno dei fondi per l’esecuzione di lavori di somma urgenza dipende dalla strutturazione del singolo bilancio, come approvato dal Consiglio comunale e specificato, con il piano esecutivo di gestione, dalla Giunta.
Pertanto il responsabile del procedimento, competente all’ordinazione dei lavori (ex art. 176 DPR n. 207/2010), deve valutare (assieme al responsabile del servizio economico e finanziario, ex art. 153, comma 5, TUEL) la presenza di risorse sufficienti negli interventi a lui assegnati o, se necessario, promuovere la variazione del piano esecutivo di gestione da parte della Giunta (ex art. 169 TUEL).
Nel caso in cui invece non vi siano nei capitoli o interventi assegnati sufficienti risorse, per reperirne di ulteriori, il responsabile del servizio, ai sensi dell’art. 191, comma 3, del TUEL deve proporre alla Giunta di investire della competenza il Consiglio in aderenza ai principi generali
(specificati, per il caso di specie dei lavori di somma urgenza, dal novellato art. 191, comma 3).
   II. Con il secondo quesito
il Comune chiede quale procedura debba seguire, considerato che la regolarizzazione dell’ordinazione fatta senza impegno era prevista dal testo previgente dell’art. 191, comma 3, riformulato nel 2012.
La Sezione ritiene che il dubbio afferisca alla sola ipotesi in cui il bilancio presenti disponibilità sufficienti.
In presenza in bilancio di fondi sufficienti (come definiti nel precedente paragrafo), il RUP (o altro tecnico competente, ai sensi dell’art. 176 del DPR n. 207/2010) contestualmente all’ordinazione dei lavori, deve procedere all’assunzione di impegno ed alla richiesta di attestazione della relativa copertura al responsabile del servizio economico e finanziario (ex art. 153, comma 5, TUEL), comunicando i relativi estremi al terzo appaltatore (tendendo conto che, come prevede l’art. 191, comma 1, TUEL, fino alla ricezione di tale comunicazione quest’ultimo può rifiutarsi di eseguire la prestazione).
   III. Con il terzo quesito
il Comune chiede, ove sussista somma urgenza e vi sia un fondo specificamente disponibile, se spetti al RUP procedere tempestivamente ad assumere il relativo impegno (con propria determinazione) oppure possa farlo solo dopo l’atto deliberativo della Giunta (di autorizzazione). In alternativa, il Sindaco chiede se debba essere la Giunta stessa ad assumere l’impegno.
E' possibile precisare che,
ove le risorse presenti sul pertinente intervento di bilancio assegnato al responsabile del servizio siano capienti, spetta a quest’ultimo assumere l’impegno di spesa (in aderenza alla previsione generale posta dall’art. 183, comma 9, del TUEL), cui accede, ai fini della regolarizzazione necessaria per la corretta ordinazione della spesa, l’attestazione della copertura da parte del responsabile del servizio economico e finanziario.
L’assunzione dell’impegno da parte del RUP prescinde in tale ipotesi, come esposto, dall’intervento di una delibera di Giunta (o di Consiglio), essendo già presenti e disponibili a bilancio i relativi fondi.

   IV. Con il quarto quesito
il Comune chiede se la Giunta, nel caso in cui non ritenga sussistente la somma urgenza dichiarata dal RUP o, ancora, in caso di inerzia o ritardo del RUP per un intervento da quest’ultimo non qualificato come di somma urgenza, possa, avendo adeguato stanziamento, regolarizzare l’ordinazione fatta a terzi. E, in questo caso, quale procedura debba essere seguita.
La Giunta può compiere tutti gli atti rientranti, ai sensi dell'articolo 107, commi 1 e 2, del TUEL nelle funzioni degli organi di governo. Quest’ultima disposizione rimette a statuti e regolamenti i criteri per la direzione degli uffici e dei servizi (atti di normazione secondaria che devono uniformarsi al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti), specificando che comunque spetta ai dirigenti l'adozione degli atti e dei provvedimenti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente.
Di conseguenza
solo nel caso in cui lo statuto dell’ente abbia rimesso alla Giunta, nell’esercizio della funzione di controllo amministrativo, la possibilità di ordinare lavori di somma urgenza in caso di inerzia o ritardo da parte del competente responsabile del procedimento, quest’ultima può esercitare (in via sostitutiva) tale potere, seguendo per il resto la procedura prevista dagli artt. 191 e 194 del TUEL (che, come visto, va distinta secondo vi sia o meno capienza nelle disponibilità di bilancio).
Naturalmente, in caso di ingiustificata inerzia o ritardo da parte del RUP, potranno essere avviate nei suoi confronti le ordinarie procedure di responsabilità (penale, amministrativa, disciplinare, dirigenziale).

   V. Con il quinto quesito
il Sindaco chiede se, nel caso in cui sia superato il termine di venti giorni, dato alla Giunta dall’art. 191, comma 3, TUEL, si debba sempre procedere ad applicare la procedura del riconoscimento dei debiti fuori bilancio ex art. 194, comma 1, lett. e), TUEL.
La novella legislativa pone un preciso obbligo di attivazione da parte della Giunta nel caso in cui, a fronte dell’ordinazione dei lavori a terzi effettuata dal RUP per rimuovere lo stato di pregiudizio alla pubblica incolumità, i fondi specificamente previsti in bilancio si dimostrino insufficienti.
In questo caso, entro venti giorni dalla predetta ordinazione, deve sottoporre al Consiglio il provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), TUEL, prevedendo la relativa copertura finanziaria.
Nel caso in cui la Giunta non vi provveda, l’art. 176, comma 5, del DPR n. 207/2010 impone, come già esposto, per il caso in cui un'opera o un lavoro intrapreso per motivi di somma urgenza non riporti l'approvazione del competente organo della stazione appaltante, la liquidazione delle spese relative alla sola parte dell'opera o dei lavori realizzati.
In questo caso, inoltre, sulla scorta della regola di carattere generale posta dall’art. 194, comma 1, lett. e), il Consiglio, ove investito della procedura, deve mantenere responsabile della spesa (ex art. 191, comma 4, TUEL) il solo funzionario ordinatore ove ritenga assenti i presupposti per l’ordinario riconoscimento di debito (utilità della quota parte dei lavori effettuati e conseguente arricchimento per l’ente locale).
   VI. Con l’ultimo quesito
il Sindaco chiede se, nel caso di esercizio provvisorio, concesso ai sensi dell’art. 163, comma 3, del TUEL, sussistano limiti all’applicazione degli artt. 191, comma 3, e 194 del TUEL.
Il dettato legislativo non pone limiti all’applicazione degli artt. 191, comma 3, e 194 del TUEL in caso di esercizio provvisorio, se non quelli esplicitati dal medesimo articolo 163, comma 3, alcuni dei quali fissati in maniera puntuale (misura non superiore mensilmente ad un dodicesimo delle somme previste nel bilancio, salvo le spese tassativamente regolate dalla legge), altri suscettibili di margini di autonoma valutazione da pare dei competenti organi dell’ente locale (le spese non suscettibili di pagamento frazionato in dodicesimi, fra le quali possono rientrare, valutate le circostanze del caso concreto, quelle ordinate per far fronte a lavori di somma urgenza).

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Il Sindaco del Comune di Arcola ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto la corretta interpretazione del nuovo testo dell’art. 191, comma 3, del TUEL, come sostituito dall’art. 3, comma 1, lett. i), del d.l. n. 174/2012, convertito con legge n. 213/2012.
Nello specifico evidenzia come l’inciso “qualora i fondi specificamente previsti in bilancio si dimostrino insufficienti”, contenuto nella predetta norma, determina l’applicazione della procedura del riconoscimento dei debiti fuori bilancio nel caso specifico di assenza o insufficienza di fondi, ma nulla dispone nel caso in cui in bilancio vi siano i fondi previsti e con sufficiente disponibilità. Sulla base di tale premessa, il Sindaco pone vari quesiti, distinti sostanzialmente in tre gruppi.
A) Il primo si compone di due quesiti, con i quali chiede:
   1) quando la Giunta possa ritenere sussistenti i predetti fondi, se nel caso in cui esista in bilancio una voce di spesa avente ad oggetto specificamente lavori di somma urgenza oppure anche solo un capitolo di spesa avente oggetto conforme alla natura dei lavori eseguiti in somma urgenza;
   2) quale procedura debba essere seguita, considerato che la regolarizzazione dell’ordinazione fatta senza impegno era prevista dal testo previgente dell’art. 191, comma 3, del TUEL, ora sostituito.
B) Il secondo gruppo di quesiti attiene al coordinamento fra gli artt. 191-194 TUEL e l’art. 176 del DPR n. 207/2010 (Regolamento di esecuzione ed attuazione del d.lgs. n. 163/2006, recante Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture) che prevede l’obbligo di trasmissione alla stazione appaltante, da parte del responsabile del procedimento o del tecnico, della relazione di somma urgenza, insieme ad una perizia giustificativa, entro dieci giorni dall’ordine di eseguire i lavori. In particolare tale gruppo si suddivide in tre quesiti:
   3) ove sussista somma urgenza e vi sia un fondo specificamente disponibile con sufficiente capienza, se spetti al RUP procedere ad assumere il relativo impegno con propria determinazione oppure possa farlo solo dopo l’atto deliberativo della Giunta che lo autorizzi in tal senso. In alternativa, se debba essere la Giunta stessa ad assumere l’impegno;
   4) se la Giunta, nel caso in cui non ritenga sussistente la somma urgenza dichiarata dal RUP o, anche, in caso di inerzia o ritardo per un intervento non qualificato dal RUP medesimo come di somma urgenza, possa, avendo adeguato stanziamento, regolarizzare l’ordinazione fatta a terzi, e quale sia la procedura da seguire;
   5) se, nel caso in cui sia superato il termine di venti giorni dato alla Giunta dall’art. 191, comma 3, del TUEL, si debba sempre procedere ad applicare la procedura del riconoscimento dei debiti fuori bilancio ai sensi del successivo art. 194, comma 1, lett. e).
C) Il terzo gruppo si sostanzia, infine, in un solo quesito, con il quale il Sindaco chiede:
   6) se, nel caso di esercizio provvisorio, concesso ai sensi dell’art. 163, comma 3, del TUEL, sussistano limiti all’applicazione degli artt. 191, comma 3, e 194 del TUEL.
...
Al fine di analizzare i quesiti avanzati dal Comune, appare opportuna una breve premessa di carattere generale.
Occorre ricordare, infatti, come l’art. 191, comma 1, del TUEL, “Regole per l'assunzione di impegni e per l'effettuazione di spese”, dispone che gli enti locali possono effettuare spese solo se sussiste l'impegno contabile registrato sul competente intervento o capitolo del bilancio di previsione e l'attestazione della copertura finanziaria da parte del responsabile del servizio economico e finanziario (art. 153, comma 5, TUEL).
Il medesimo comma dispone, altresì, che il responsabile del servizio, conseguita l'esecutività del provvedimento di spesa, comunichi al terzo interessato l'impegno e la copertura finanziaria, contestualmente all'ordinazione della prestazione, con l'avvertenza che la successiva fattura deve essere completata con gli estremi della suddetta comunicazione. Il terzo interessato, in mancanza della comunicazione, ha facoltà di non eseguire la prestazione sino a quando i dati non gli vengano comunicati.
Il successivo comma 4 dell’art. 191 TUEL introduce poi specifica sanzione per il caso in cui vi sia stata l'acquisizione di beni e servizi in violazione degli obblighi indicati nel comma 1 (oltre che nei commi 2 e 3, di seguito esaminati) disponendo che il rapporto obbligatorio intercorra, ai fini della controprestazione (per la parte non riconoscibile ai sensi del successivo articolo 194, comma 1, lettera e), tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura (per le esecuzioni reiterate o continuative detto effetto si estende a coloro che hanno reso possibili le singole prestazioni).
Lo scopo della norma è quello di proteggere il bilancio degli enti locali dall’ordinazione di spese in assenza della regolare assunzione di impegni e della relativa copertura finanziaria. Tale tutela opera non solo sul piano amministrativo, ma soprattutto su quello civilistico, prevedendo la norma che, in caso di sua violazione, gli effetti del rapporto obbligatorio fra il funzionario dell’ente e l’impresa privata rimangano a carico del primo, senza riverberarsi sul patrimonio dell’ente. Tutto ciò fatto salvo il caso in cui il Consiglio (organo sovrano in materia di bilancio) riconosca l’utilità delle prestazioni fornite e, nei limiti di queste ultime, ritenga legittimo il debito assunto riportandolo all’interno del bilancio dell’ente (art. 194, comma 1, lett. e).
Il comma 3 dell’art. 191 del TUEL reca poi una disciplina specifica per l’assunzione di impegni e l’ordinazione di spese relativamente ai lavori di somma urgenza.
Il testo del predetto comma, previgente alla novella apportata dalla legge n. 213/2012, disponeva che, per i lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile, l'ordinazione fatta a terzi fosse regolarizzata, a pena di decadenza, entro trenta giorni (e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se a tale data non era scaduto il predetto termine). Il medesimo testo prevedeva che la comunicazione al terzo interessato fosse data contestualmente alla regolarizzazione.
In sostanza, alla luce della particolare tipologia di spesa (lavoro di somma urgenza), la norma prevedeva la possibilità di regolarizzare l’ordinazione effettuata dal RUP (o da altro tecnico legittimato dalle norme in materia di lavori pubblici), ossia di assumere l’impegno sul pertinente capitolo di bilancio e acquisire l’attestazione della copertura finanziaria da parte del servizio economico e finanziario, entro 30 giorni. Disponeva, inoltre, che la comunicazione al terzo fornitore (che, ai sensi del primo comma, nelle altre fattispecie di spesa viene effettuata contestualmente all’ordinazione) venisse invece effettuata contestualmente alla regolarizzazione (una volta assunto l’atto di impegno e l’attestazione della copertura finanziaria).
Tale discrasia temporale fra l’ordinazione dei lavori (che abilita il terzo appaltatore all’esecuzione) e la comunicazione della regolarizzazione (che consolida il rapporto obbligatorio fra l’ente e il terzo appaltatore) risultava del resto conforme alla disciplina generale dettata in tema di esecuzione di lavori di somma urgenza. L’art. 176, comma 5, del DPR n. 207/2010 (Regolamento di esecuzione del codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 163/2006) dispone, infatti, che qualora un'opera o un lavoro intrapreso per motivi di somma urgenza non riporti l'approvazione del competente organo della stazione appaltante (per quanto concerne gli enti locali concretantesi nella regolarizzazione prevista dall’art. 191, comma 3, del TUEL), si procede alla liquidazione delle sole spese relative alla parte dell'opera o dei lavori realizzati (nel caso di specie, l’effetto sul bilancio dell’ente locale discende da apposita previsione normativa).
Il nuovo testo dell’art. 191, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000, come sostituito dall’art. 3, comma 1, lett. i), del d.l. n. 174/2012, convertito con legge n. 213/2012, specifica l’ambito applicativo della disposizione rispetto alla previgente formulazione, prevedendo che, per i lavori pubblici di somma urgenza, la Giunta, qualora i fondi specificamente previsti in bilancio si dimostrino insufficienti, entro venti giorni dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del procedimento, sottoponga al Consiglio il provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), prevedendo la relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità.
Il comma prosegue precisando che il provvedimento di riconoscimento sia adottato dal Consiglio entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte della Giunta (e comunque entro il 31/12 dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto il predetto termine).
Infine, circa la comunicazione al terzo interessato, la norma dispone che sia data contestualmente all'adozione della deliberazione consiliare.
La novella legislativa ha disciplinato in maniera specifica l’ipotesi (abbastanza ricorrente) in cui, a fronte della necessità di ordinare lavori di somma urgenza per prevenire il rischio di pericoli o riparare il danno per l‘incolumità pubblica, i fondi specificamente previsti in bilancio si dimostrino insufficienti.
Mentre la formulazione originaria del comma non distingueva le due ipotesi, lasciando nell’ombra la disciplina da adottare nel caso in cui i fondi di bilancio fossero incapienti, la nuova norma si occupa proprio di tale ipotesi. Per quanto concerne, invece, la fattispecie dell’ordinazione di lavori di somma urgenza in presenza di adeguati fondi nel bilancio, in assenza di specifica previsione normativa, si deve ritenere che la fattispecie sia regolata dalla disciplina generale in tema di impegni e ordinazione di spesa (artt. 191, commi 1 e 4, e 194 TUEL) in combinato disposto con quella, richiamata anche dal Comune istante, prevista nel Regolamento attuativo del codice dei contratti pubblici (art. 176 DPR n. 207/2010).
Il procedimento prefigurato dal legislatore nel novellato art. 191, comma 3, del TUEL si sviluppa secondo un iter che vede il RUP (o altro tecnico abilitato), alla ricorrenza dei presupposti previsti dalla legge (cfr. art. 176 DPR n. 207/2010), ordinare al privato appaltatore l’esecuzione di lavori di somma urgenza.
In questo caso, solo ove i fondi di bilancio si rivelino insufficienti a coprire le relative spese (come da accertamento condotto, ex art. 153 e 191 TUEL, dal responsabile del procedimento e dal responsabile del servizio economico e finanziario), la Giunta, entro 20 giorni dall’ordinazione dei lavori, deve sottoporre al Consiglio una proposta di riconoscimento della spesa ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. e (norma che, come noto, disciplina il riconoscimento dell’acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi posti dai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191, in presenza di dimostrata utilità ed arricchimento per l'ente) prevedendo la relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità.
La norma, in sostanza, in assenza di adeguati stanziamenti a bilancio, rimette al Consiglio, organo sovrano in materia, la responsabilità di verificare la necessità della spesa ordinata per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità e di approvare la relativa copertura finanziaria proposta dalla Giunta (utilizzando le risorse previste dall’art. 193, comma 3, e 194, comma 3, del TUEL).
Nel caso in cui il Consiglio, invece, non provveda al predetto riconoscimento, troverà applicazione il citato art. 176, comma 5, del DPR n. 207/2010 (liquidazione al terzo appaltatore delle spese relative alla parte dell'opera o dei lavori realizzati). Queste ultime, inoltre, potrebbero rimanere a carico del solo funzionario ordinatore in assenza del riconoscimento, da parte del Consiglio (ai sensi dell’ordinaria regola posta dall’art. 194, comma 1, lett. e, del TUEL) dell’utilità di tale quota parte di lavori e del conseguente arricchimento per l’ente locale.
Effettuato tale sommaria illustrazione della disciplina legislativa, è possibile procedere all’esame specifico dei quesiti posti dal Comune.
   I. Con il primo quesito,
premesso che l’inciso del comma 3 dell’art. 191 TUEL (“qualora i fondi specificamente previsti in bilancio si dimostrino insufficienti”) determina l’applicazione della procedura di riconoscimento dei debiti fuori bilancio nel caso di assenza o insufficienza di fondi, ma nulla dispone nel caso in cui in bilancio vi siano risorse sufficienti, il Sindaco chiede quando la Giunta possa ritenere sussistenti i predetti fondi. In particolare solo nel caso in cui esista in bilancio una voce di spesa avente ad oggetto specificamente somme urgenze oppure anche in presenza di un capitolo di spesa avente un oggetto conforme alla natura dei lavori eseguiti in somma urgenza.
Sotto tale profilo va richiamata la normativa in materia di struttura del bilancio e di competenza alla relativa approvazione. L’art. 165 TUEL prevede, al comma 5, che la spesa del bilancio degli enti locali sia ordinata gradualmente in titoli, funzioni, servizi ed interventi (in relazione, rispettivamente, ai principali aggregati economici, alle funzioni degli enti, ai singoli uffici che gestiscono un complesso di attività ed alla natura economica dei fattori produttivi nell'ambito di ciascun servizio).
L’art. 165, comma 8, del TUEL dispone poi che a ciascun servizio sia correlato un reparto organizzativo, composto da persone e mezzi, cui è preposto un responsabile e, a tale servizio, ai sensi del successivo comma 9, è affidato, col bilancio di previsione, un complesso di mezzi finanziari (specificati negli interventi assegnati) del quale risponde il responsabile del servizio (nel caso di specie del servizio tecnico o di altro competente all’ordinazione di lavori di somma urgenza).
L’art. 169 TUEL dispone inoltre che, sulla base dell’annuale bilancio di previsione, deliberato dal Consiglio, l'organo esecutivo (Giunta) definisca il piano esecutivo di gestione, determinando gli obiettivi ed affidando gli stessi, unitamente alle dotazioni necessarie, ai responsabili dei servizi. Il piano esecutivo di gestione contiene inoltre un’ulteriore graduazione, per quanto concerne la spesa, degli interventi in capitoli.
Il bilancio, approvato sino al livello degli “interventi” dal Consiglio comunale, è variabile dal medesimo organo (e, in tal senso, dispone l’art. 175, comma 2, del TUEL), mentre le variazioni al piano esecutivo di gestione sono di competenza della Giunta (sempre simmetricamente alla competenza all’approvazione, cfr. art. 169 TUEL).
La medesima strutturazione del bilancio è fatta propria nel DPR n. 194/1996 (e allegati schemi di bilancio).
Alla luce di quanto esposto,
la valutazione della sufficienza o meno dei fondi per l’esecuzione di lavori di somma urgenza dipende dalla strutturazione del singolo bilancio, come approvato dal Consiglio comunale e specificato, con il piano esecutivo di gestione, dalla Giunta.
Pertanto il responsabile del procedimento, competente all’ordinazione dei lavori (ex art. 176 DPR n. 207/2010), deve valutare (assieme al responsabile del servizio economico e finanziario, ex art. 153, comma 5, TUEL) la presenza di risorse sufficienti negli interventi a lui assegnati o, se necessario, promuovere la variazione del piano esecutivo di gestione da parte della Giunta (ex art. 169 TUEL).
Nel caso in cui invece non vi siano nei capitoli o interventi assegnati sufficienti risorse, per reperirne di ulteriori, il responsabile del servizio, ai sensi dell’art. 191, comma 3, del TUEL deve proporre alla Giunta di investire della competenza il Consiglio in aderenza ai principi generali
(specificati, per il caso di specie dei lavori di somma urgenza, dal novellato art. 191, comma 3).
   II. Con il secondo quesito
il Comune chiede quale procedura debba seguire, considerato che la regolarizzazione dell’ordinazione fatta senza impegno era prevista dal testo previgente dell’art. 191, comma 3, riformulato nel 2012.
Pur rilevando la mancata chiarezza del quesito proposto,
la Sezione ritiene che il dubbio afferisca alla sola ipotesi in cui il bilancio presenti disponibilità sufficienti. Si tratta di una delle due fattispecie, non esplicitate, presenti nell’originaria formulazione del comma 3 dell’art. 191 TUEL (che, come visto, per l’ordinazione di lavori di somma urgenza imponeva la regolarizzazione entro trenta giorni, con comunicazione contestuale al terzo interessato degli estremi di impegno e attestazione di copertura finanziaria).
Il dubbio posto dal Comune può essere risolto applicando i principi di carattere generale, quali esplicitati dal comma 1 dell’art. 191 TUEL (di cui il comma 3 non è altro che una specificazione).
In presenza in bilancio di fondi sufficienti (come definiti nel precedente paragrafo), il RUP (o altro tecnico competente, ai sensi dell’art. 176 del DPR n. 207/2010) contestualmente all’ordinazione dei lavori, deve procedere all’assunzione di impegno ed alla richiesta di attestazione della relativa copertura al responsabile del servizio economico e finanziario (ex art. 153, comma 5, TUEL), comunicando i relativi estremi al terzo appaltatore (tendendo conto che, come prevede l’art. 191 comma 1, TUEL, fino alla ricezione di tale comunicazione quest’ultimo può rifiutarsi di eseguire la prestazione).
   III. Come accennato, il secondo gruppo di quesiti attiene al coordinamento fra gli artt. 191 e 194 TUEL e l’art. 176 del DPR n. 207/2010, che prevede l’obbligo di trasmissione alla stazione appaltante, da parte del responsabile del procedimento o di altro tecnico competente, della relazione di somma urgenza, insieme alla perizia giustificativa, entro dieci giorni dall’ordine di eseguire i lavori.
In particolare, con il terzo quesito
il Comune chiede, ove sussista somma urgenza e vi sia un fondo specificamente disponibile, se spetti al RUP procedere tempestivamente ad assumere il relativo impegno (con propria determinazione) oppure possa farlo solo dopo l’atto deliberativo della Giunta (di autorizzazione). In alternativa, il Sindaco chiede se debba essere la Giunta stessa ad assumere l’impegno.
Sulla scorta di quanto sinora esposto, è possibile precisare che,
ove le risorse presenti sul pertinente intervento di bilancio assegnato al responsabile del servizio siano capienti, spetta a quest’ultimo assumere l’impegno di spesa (in aderenza alla previsione generale posta dall’art. 183, comma 9, del TUEL), cui accede, ai fini della regolarizzazione necessaria per la corretta ordinazione della spesa, l’attestazione della copertura da parte del responsabile del servizio economico e finanziario.
L’assunzione dell’impegno da parte del RUP prescinde in tale ipotesi, come esposto, dall’intervento di una delibera di Giunta (o di Consiglio), essendo già presenti e disponibili a bilancio i relativi fondi.

   IV. Con il quarto quesito
il Comune chiede se la Giunta, nel caso in cui non ritenga sussistente la somma urgenza dichiarata dal RUP o, ancora, in caso di inerzia o ritardo del RUP per un intervento da quest’ultimo non qualificato come di somma urgenza, possa, avendo adeguato stanziamento, regolarizzare l’ordinazione fatta a terzi. E, in questo caso, quale procedura debba essere seguita.
In proposito vanno richiamate le regole procedurali previste dall’art. 176 del DPR n. 207/2010 che
rimettono al “soggetto fra il responsabile del procedimento e il tecnico che si reca prima sul luogo” il potere di disporre (contemporaneamente alla redazione del verbale di cui al precedente art. 175) l’immediata esecuzione dei lavori entro il limite di 200.000 euro o comunque di quanto indispensabile per rimuovere lo stato di pregiudizio alla pubblica incolumità.
Allo stesso modo
l’art. 191, comma 3, del TUEL (sia nella formulazione attuale che in quella precedente) rimette l’iniziativa dell’ordinazione dei lavori e dell’avvio dell’eventuale procedura di regolarizzazione al responsabile del procedimento, alla luce della natura prettamente tecnica della relativa valutazione (si ricorda, per inciso, che ai sensi dell’art. 9 del DPR n. 207/2010, il responsabile del procedimento nelle procedure di realizzazione di lavori pubblici deve essere un tecnico, di regola abilitato all’esercizio della professione).
La ripartizione appare in linea con l’attribuzione delle competenze spettanti agli organi politici rispetto a quelle dei dirigenti (o dei funzionari negli enti in cui non è prevista la dirigenza), delineata in linea generale dal d.lgs. n. 165/2011 e, nello specifico, dagli artt. 107 e 183 (definenti le attribuzioni, amministrative e contabili, dei dirigenti e dei responsabili dei servizi) e 48 del TUEL (definente le competenze della Giunta).
Sotto tale ultimo profilo può ricordarsi
come la Giunta possa compiere tutti gli atti rientranti, ai sensi dell'articolo 107, commi 1 e 2, del TUEL nelle funzioni degli organi di governo. Quest’ultima disposizione rimette a statuti e regolamenti i criteri per la direzione degli uffici e dei servizi (atti di normazione secondaria che devono uniformarsi al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti), specificando che comunque spetta ai dirigenti l'adozione degli atti e dei provvedimenti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente (sulla ripartizione di competenze fra dirigenti e organi di governo dell’ente locale si rinvia a TAR Puglia, Bari, n. 1131/2008; TAR Lazio, Roma, n. 1236/2012; TAR Campania, Napoli, n. 2610/2012).
Di conseguenza
solo nel caso in cui lo statuto dell’ente abbia rimesso alla Giunta, nell’esercizio della funzione di controllo amministrativo, la possibilità di ordinare lavori di somma urgenza in caso di inerzia o ritardo da parte del competente responsabile del procedimento, quest’ultima può esercitare (in via sostitutiva) tale potere, seguendo per il resto la procedura prevista dagli artt. 191 e 194 del TUEL (che, come visto, va distinta secondo vi sia o meno capienza nelle disponibilità di bilancio).
Naturalmente, in caso di ingiustificata inerzia o ritardo da parte del RUP, potranno essere avviate nei suoi confronti le ordinarie procedure di responsabilità (penale, amministrativa, disciplinare, dirigenziale).

   V. Con il quinto quesito
il Sindaco chiede se, nel caso in cui sia superato il termine di venti giorni, dato alla Giunta dall’art. 191, comma 3, TUEL, si debba sempre procedere ad applicare la procedura del riconoscimento dei debiti fuori bilancio ex art. 194, comma 1, lett. e), TUEL.
La novella legislativa pone un preciso obbligo di attivazione da parte della Giunta nel caso in cui, a fronte dell’ordinazione dei lavori a terzi effettuata dal RUP per rimuovere lo stato di pregiudizio alla pubblica incolumità, i fondi specificamente previsti in bilancio si dimostrino insufficienti. In questo caso, entro venti giorni dalla predetta ordinazione, deve sottoporre al Consiglio il provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), TUEL, prevedendo la relativa copertura finanziaria.
Nel caso in cui la Giunta non vi provveda, l’art. 176, comma 5, del DPR n. 207/2010 impone, come già esposto, per il caso in cui un'opera o un lavoro intrapreso per motivi di somma urgenza non riporti l'approvazione del competente organo della stazione appaltante, la liquidazione delle spese relative alla sola parte dell'opera o dei lavori realizzati.
In questo caso, inoltre, sulla scorta della regola di carattere generale posta dall’art. 194, comma 1, lett. e), il Consiglio, ove investito della procedura, deve mantenere responsabile della spesa (ex art. 191, comma 4, TUEL) il solo funzionario ordinatore ove ritenga assenti i presupposti per l’ordinario riconoscimento di debito (utilità della quota parte dei lavori effettuati e conseguente arricchimento per l’ente locale).
   VI. Con l’ultimo quesito
il Sindaco chiede se, nel caso di esercizio provvisorio, concesso ai sensi dell’art. 163, comma 3, del TUEL, sussistano limiti all’applicazione degli artt. 191, comma 3, e 194 del TUEL.
Il richiamato art. 163, comma 3, del TUEL dispone che, ove la scadenza del termine per la deliberazione del bilancio di previsione sia stata fissata da norme statali in un periodo successivo all'inizio dell'esercizio finanziario di riferimento (come usualmente ormai da tempo avviene; da ultimo il DM Interno del 29/04/2014 ha prorogato la scadenza per la presentazione del bilancio di previsione per il 2014 al 31/07/2014), l'esercizio provvisorio si intende automaticamente autorizzato sino a tale termine. In questo caso si applicano le modalità di gestione previste dal comma 1 della medesima norma, intendendosi come riferimento l'ultimo bilancio definitivamente approvato.
Il predetto comma 1 dispone che, in caso di esercizio provvisorio, gli enti locali possano effettuare, per ciascun intervento, spese in misura non superiore mensilmente ad un dodicesimo delle somme previste nel bilancio, con esclusione di quelle tassativamente regolate dalla legge o non suscettibili di pagamento frazionato in dodicesimi.
Il dettato legislativo non pone limiti all’applicazione degli artt. 191, comma 3, e 194 del TUEL in caso di esercizio provvisorio, se non quelli esplicitati dal medesimo articolo 163, comma 3, alcuni dei quali fissati in maniera puntuale (misura non superiore mensilmente ad un dodicesimo delle somme previste nel bilancio, salvo le spese tassativamente regolate dalla legge), altri suscettibili di margini di autonoma valutazione da pare dei competenti organi dell’ente locale (le spese non suscettibili di pagamento frazionato in dodicesimi, fra le quali possono rientrare, valutate le circostanze del caso concreto, quelle ordinate per far fronte a lavori di somma urgenza) (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 09.05.2014 n. 31).

IN EVIDENZA

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Sulla questione del riconoscimento –o meno- dell’incentivo per la progettazione al R.U.P..    
Un comune lombardo si è posto un interrogativo sicuramente fondato, tenuto conto di cosa si è verificato all'inizio del corrente anno in merito all'incentivo (30%) in materia di atti di pianificazione urbanistica. Invero, nonostante i termini della questione fossero sufficientemente chiari laddove si contrapponeva la sola Sez. di controllo Veneto a tutto il resto d'Italia, la Sez. controllo Liguria ha ritenuto ugualmente necessario rimettere la controversia alla Sez. Autonomie la quale, siccome notorio, ha sconfessato la tesi della Sez. Veneto.
Ne caso di specie, invece, la contrapposizione è all'incirca pari al 50% fra due tesi: 1) chi sostiene  l’erogazione dell’incentivo
al R.U.P. sempre e comunque e 2) chi sostiene l’erogazione dell’incentivo al R.U.P. solo in caso di progettazione interna.
Il quesito posto è di seguito riportato:

   Per formulare compiutamente il quesito necessita operare una breve premessa siccome rappresentata a seguire.
   La recente legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n. 90/2014, ha abrogato i commi 5 e 6 dell’articolo 92 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, in materia di incentivi per la progettazione, e con l’art. “13-bis (Fondi per la progettazione e l’innovazione)” ha introdotto all’art. 93 del codice degli appalti i nuovi commi 7-bis, 7-ter, 7-quater, 7-quinquies.
   Nel recente
parere 01.10.2014 n. 247 di codesta spettabile Corte, in ordine alle novità in materia di incentivo per la progettazione apportate dalla suddetta legge 114/2014, si può leggere un passaggio che desta perplessità e cioè: “Limitando l’analisi ai soli quesiti avanzati dal comune istante, i punti fermi che il regolamento interno deve rispettare (sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non previsti, si rimanda al parere 30.05.2012 n. 259 della Sezione) sono i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, di un appalto di fornitura di beni o di servizi).
La norma non richiede, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di una o più attività (per esempio, la progettazione), purché il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni;”.
   La perplessità non sta tanto nell’affermazione in sé, che risulta assolutamente condivisibile (
La norma non richiede, ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di una o più attività), quanto nel fatto che la stessa non risulta pacifica ed unanime fra le varie sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti, col potenziale rischio di svolgere un’attività amministrativa cagionevole di danno erariale laddove fosse erogato l’incentivo e, successivamente, dichiarata la stessa illegittima da un eventuale pronunciamento della sez. Autonomie della Corte dei Conti.
   Invero, la questione che qui interessa è quella relativa al riconoscimento –o meno- al R.U.P. (Responsabile Unico del Procedimento) della quota-parte di incentivo prevista dall’apposito regolamento comunale e la stessa risulta controversa laddove alcune Corti regionali propendono per il riconoscimento della quota-parte di incentivo sempre e comunque ed altre propendono per la tesi secondo cui, invece, spetti nel sol caso di progettazione interna. E citiamo la figura del R.U.P. poiché fra quelle previste dalla norma (il responsabile del procedimento, gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché loro collaboratori) è l’unica che ricorre sempre e comunque, sia che la progettazione venga affidata all’esterno dell’ente sia che la stessa venga espletata all’interno.
   Infatti, per quanto di nostra conoscenza:
1. sono per l’erogazione dell’incentivo
al R.U.P. sempre e comunque:
   o Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 01.10.2014 n. 247
   o Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 15.07.2014 n. 220
   o Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 26.03.2014 n. 135
   o Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 05.02.2014 n. 45
   o Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere 18.04.2013 n. 18
   o Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 24.10.2012 n. 453
   o Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 24.10.2012 n. 452
   o Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 08.10.2012 n. 425
2. sono per l’erogazione dell’incentivo
al R.U.P. solo in caso di progettazione interna:
   o Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 02.10.2014 n. 197
   o Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 28.02.2014 n. 39
   o Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 19.12.2013 n. 434
   o Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria,
parere 21.12.2012 n. 284
   o Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 30.08.2012 n. 290
3. sono per l’erogazione dell’incentivo
(alle varie figure contemplate dal codice) solo in caso di progettazione interna:
   o Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 23.10.2012 n. 440
   o Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana,
parere 27.09.2012 n. 256
   o Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259
   Orbene, non v’è dubbio che le due tesi contrapposte sono di fatto, per la quasi totalità, ad opera della sezione di controllo della Corte piemontese e della Corte lombarda e ciò non garantisce la necessaria tranquillità nell’operare quotidiano.
   Siccome già anticipato in premessa, si condivide la tesi di codesta Corte in ordine alla spettanza dell’incentivo (quota-parte) al R.U.P. sempre e comunque, e cioè a prescindere che la progettazione sia effettuata all’esterno ovvero all’interno dell’ente poiché in entrambi i casi le numerosissime incombenze di legge in capo a tale soggetto devono essere comunque espletate.
   Tuttavia, al di là di chiedere -con la presente nota- a codesta spettabile Corte l’eventuale conferma –o meno- di quanto già affermato col proprio parere citato in premessa, si chiede altresì se non si ravvisi l’opportunità -se non addirittura la necessità- di rimettere alla Sez. Autonomie il suddetto contrasto interpretativo e ciò al fine di non incorrere in attività amministrativa potenzialmente foriera di danno erariale, siccome già operato dalla Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria (
deliberazione 21.01.2014 n. 6), in ordine alla (notoria) questione dell’incentivo sugli atti di pianificazione ovverosia se quest’ultimi dovessero –o meno- essere correlati all’esecuzione di un’opera pubblica ... poi definitivamente risolta con
deliberazione 15.04.2014 n. 7.
   Nell’attesa di un cortese riscontro, si ringrazia e si porgono distinti saluti.


La Sez. di controllo Lombardia si è così espressa:

...
la richiesta in esame deve ritenersi oggettivamente inammissibile.
Per come formulata, infatti, essa appare diretta non tanto ad ottenere chiarimenti sull’interpretazione delle disposizioni di legge richiamate (rispetto alla quale il comune istante non manifesta alcun dubbio, dichiarando espressamente di condividere i precedenti di questa Sezione) quanto piuttosto a segnalare l’esistenza di un preteso contrasto tra gli orientamenti manifestati in materia da diverse Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti.
La scrivente Sezione, confermando il proprio orientamento, da ultimo ribadito con il parere reso con il
parere 01.10.2014 n. 247, ricorda che la facoltà riconosciuta a Regioni ed enti locali dal citato art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131 è limitata alla richiesta di pareri in materia di contabilità pubblica nei termini sopra precisati.
Spetta viceversa esclusivamente alla Sezione investita della richiesta, valutare, con riferimento allo specifico quesito proposto, la sussistenza di contrasti interpretativi da sottoporre alla Sezione delle Autonomie perché emani la deliberazione di orientamento di cui all’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012, n. 174 convertito dalla legge 07.12.2012, n. 213.


Beh, non c'è che dire: una "non risposta" che certamente non contribuisce a dormire sonni tranquilli.
Ma se vogliamo vedere il bicchiere "mezzo pieno" potremmo dire che -almeno in Lombardia- possiamo stare (relativamente) rilassati, senza avere il terrore che la Procura regionale della Corte dei Conti possa accusare di avere elargito indebitamente l'incentivo al R.U.P. (
sempre e comunque): infatti, col suddetto parere, è stato confermato il proprio orientamento da ultimo ribadito col parere
parere 01.10.2014 n. 247.
Ma abbiamo un presentimento nefasto: presto o tardi che sia, la questione sarà sicuramente rimessa alla Sez. Autonomie -per dirimere il suddetto contrasto interpretativo- e vedrete che la stessa sposerà la tesi propugnata dalla Sez. Piemonte. Scommettiamo?? (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 15.12.2014 n. 371).

INCARICHI PROGETTUALI: Per i comuni vige il divieto di effettuare qualsiasi spesa in assenza di impegno contabile registrato dal ragioniere (o in mancanza dal segretario) sul competente capitolo di bilancio di previsione.
L'incarico di progettare l'opera pubblica affidato al professionista non sfugge alla regola: l'ente locale non può effettuare alcuna spesa se non c'è una delibera ad hoc che l'autorizza e un relativo impegno contabile a bilancio da comunicare ai terzi interessati: diversamente, dunque, rispondono il sindaco o il dirigente che l'hanno consentito. La previsione della clausola di copertura finanziaria nel contratto stipulato con il professionista non può comunque consentire di rinviare il momento in cui il comune deve indicare l'ammontare della spesa e i mezzi per farvi fronte.
Insomma: non si può differire all'arrivo del finanziamento l'osservanza delle modalità procedimentali previste per gli enti locali. Nel caso in cui l'incarico è affidato senza prima mettere nero su bianco l'impegno contabile e attestare l'impegno finanziario ecco che si rompe il nesso di immedesimazione organica con l'amministrazione, la quale non può essere considerata responsabile, diversamente dall'amministratore locale o dal funzionario pubblico. E anche quando la provvista è a carico di un altro ente l'obbligazione di pagamento resta sempre a carico del comune, che è il soggetto finanziato.

Il divieto, per i Comuni, in base all’art. 23, commi terzo e quarto, del D.L. 66/1989 convertito, con modifiche, nella L. n. 144/1989
di effettuare qualsiasi spesa in assenza di impegno contabile registrato dal Ragioniere (o dal Segretario, in mancanza del ragioniere) sul competente capitolo del bilancio di previsione, trova applicazione anche qualora la spesa dell’Ente territoriale sia interamente finanziata da altro Ente Pubblico, dovendo anche in tal caso avere luogo la verifica della copertura della spesa nel bilancio del Comune che assume l’impegno di spesa.
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Il contratto d’opera professionale, con il quale un Ente Pubblico territoriale abbia affidato la progettazione di un’opera pubblica subordinando con apposita clausola il pagamento del compenso al professionista alla concessione di un finanziamento per la realizzazione dell’opera da progettarsi, non si sottrae all’applicazione dell’art. 23 commi terzo e quarto, del D.L. 66/1989 convertito, con modifiche nella L. n. 144/1989.
In particolare
la previsione della clausola c.d. di copertura finanziaria non consente di rinviare all’ottenimento del finanziamento l’osservanza delle modalità procedimentali, inderogabilmente dettate dalla norma di cui all’art. 23 cit.; con la conseguenza che, in difetto, il rapporto obbligatorio non è riferibile all’Ente, intercorrendo -ai fini della contro prestazione- fra il privato e l’amministratore o funzionario che abbia assunto l’impegno.

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… dovendo affermarsi i seguenti principi:
7.1
la norma di cui all’art. 23, commi terzo e quarto, del D.L. n. 66 del 1989 convertito, con modifiche nella L. n. 144 del 1989 (abrogato dall’art. 123, comma primo, lett. n), D.Lgs. 25/2/1995 n. 77, e sostituito dall’art. 35 del medesimo decreto, poi modificato dall’art. 4 del D.Lgs. 15.09.1997 n. 342 e, quindi, abrogato dall’art. 274, lett. h), del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, e sostituito dall’art. 191 del medesimo decreto) –dettando una disciplina che, nel dare applicazione al disposto dell’art. 97 Cost., rende estraneo l’ente pubblico all’attività posta in essere dal suo funzionario o amministratore senza le modalità procedimentali previste– viene ad incidere sull’efficacia del contratto, collocandosi nell’area dell’ordinamento civile riservata alla competenza esclusiva del legislatore statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lett. l), Cost. ed è, pertanto, applicabile anche ai Comuni della Regione Sicilia, a prescindere dal suo formale recepimento nella legislazione regionale;
7.2
il divieto, per i Comuni, in base all’art. 23, commi terzo e quarto, del D.L. 66 del 1989 convertito, con modifiche, nella L. n. 144 del 1989 (abrogato dall’art. 123, comma primo, lett. n), D.Lgs. 25.02.1995 n. 77, e sostituito dall’art. 35 del medesimo decreto, poi modificato dall’art. 4 del D.Lgs. 15.09.1997 n. 342 e, quindi, abrogato dall’art. 274, lett. h), del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, e sostituito dall’art. 191 del medesimo decreto) di effettuare qualsiasi spesa in assenza di impegno contabile registrato dal Ragioniere (o dal Segretario, in mancanza del ragioniere) sul competente capitolo del bilancio di previsione, trova applicazione anche qualora la spesa dell’Ente territoriale sia interamente finanziata da altro Ente Pubblico, dovendo anche in tal caso avere luogo la verifica della copertura della spesa nel bilancio del Comune che assume l’impegno di spesa.
7.3
il contratto d’opera professionale, con il quale un Ente Pubblico territoriale abbia affidato la progettazione di un’opera pubblica subordinando con apposita clausola il pagamento del compenso al professionista alla concessione di un finanziamento per la realizzazione dell’opera da progettarsi, non si sottrae all’applicazione dell’art. 23 commi terzo e quarto, del D.L. 66 del 1989 convertito, con modifiche nella L. n. 144 del 1989 (abrogato dall’art. 123, comma primo, lett. n), D.Lgs. 25.02.1995 n. 77, e sostituito dall’art. 35 del medesimo decreto, poi modificato dall’art. 4 del D.Lgs. 15.09.1997 n. 342 e, quindi, abrogato dall’art. 274, lett. h), del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, e sostituito dall’art. 191 del medesimo decreto).
In particolare
la previsione della clausola c.d. di copertura finanziaria non consente di rinviare all’ottenimento del finanziamento l’osservanza delle modalità procedimentali, inderogabilmente dettate dalla norma di cui all’art. 23 cit.; con la conseguenza che, in difetto, il rapporto obbligatorio non è riferibile all’Ente, intercorrendo -ai fini della contro prestazione- fra il privato e l’amministratore o funzionario che abbia assunto l’impegno (
Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 18.12.2014 n. 26657).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Definizione di "centro abitato" ai fini della necessità della licenza edilizia ante legge Ponte (765/1967) ed in assenza del P. di F.
La c.d. legge-Ponte (765/1967) ha imposto -per la prima volta- il previo rilascio della licenza edilizia sull'intero territorio nazionale.
Sicché, laddove il manufatto è stato costruito nel 1965 ed era in concreto inserito in un centro abitato -ancorché posto al di fuori del centro storico- per ciò stesso s’imponeva, pure in assenza di uno strumento urbanistico generale, il possesso del titolo ad aedificandum di cui all’art. 31 della legge n. 1150 del 17.08.1942 (c.d. legge urbanistica ).
In particolare, l’Amministrazione sul punto ha avuto modo di evidenziare come sulla base dei dati tecnici desumibili dagli elaborati cartografici, all’epoca i terreni ora di proprietà dell’appellante erano compresi in una zona contrassegnata dalla presenza di case continue e vicine, potendosi per tale situazione parlare di un centro abitato.
Com’è noto, la definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci dovendosi fare riferimento a criteri empirici elaborati dalla giurisprudenza, secondo cui il centro abitato va individuato nella situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e vicine, anche distante dal centro, ma suscettibile di espansione.

L’appello si appalesa infondato, meritando l’impugnata sentenza integrale conferma.
Oggetto di contestazione giudiziale sono gli atti con cui il Comune di Forte dei Marmi ha denegato il condono edilizio chiesto per due manufatti (prefabbricati in lamiera) risalenti al 1965 e rigettato altresì l’autorizzazione alla ristrutturazione degli stessi.
Col primo mezzo d’impugnazione rivolto specificatamente avverso il diniego di sanatoria parte appellante fa in sostanza valere la tesi che in realtà per i due manufatti non vi sarebbe stato bisogno di titolo abilitativo essendo la loro realizzazione precedente alla c.d. legge-Ponte (1967) che ha imposto per la prima volta il previo rilascio dell’autorizzazione comunale.
La tesi va disattesa, avendo il Comune prima e il Tar poi convincentemente rilevato come i due manufatti insistevano in area che all’epoca in questione (il 1965) era in concreto inserita in un centro abitato ancorché posto al di fuori del centro storico e per ciò stesso s’imponeva, pure in assenza di uno strumento urbanistico generale, il possesso del titolo ad aedificandum di cui all’art. 31 della legge n. 1150 del 17.08.1942 (c.d. legge urbanistica ).
In particolare, l’Amministrazione sul punto ha avuto modo di evidenziare come sulla base dei dati tecnici desumibili dagli elaborati cartografici, all’epoca i terreni ora di proprietà dell’appellante erano compresi in una zona contrassegnata dalla presenza di case continue e vicine, potendosi per tale situazione parlare di un centro abitato.
Com’è noto, la definizione di centro abitato non è rinvenibile in termini univoci dovendosi fare riferimento a criteri empirici elaborati dalla giurisprudenza, secondo cui il centro abitato va individuato nella situazione di fatto costituita dalla presenza di un aggregato di case continue e vicine, anche distante dal centro, ma suscettibile di espansione e tale stato dei luoghi è proprio quello che contrassegna la zona dove insiste l’area de qua sulla quale si trovano i due manufatti così come rilevato in termini squisitamente ricognitivi dall’Amministrazione con la determina dirigenziale n. 301 del 10/04/2008 (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.10.2014 n. 5173 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Definizione di "centro abitato" ai fini della necessità della licenza edilizia ante legge Ponte (765/1967) ed in assenza del P. di F.
La determina dirigenziale definisce, con effetto ricognitivo, il perimetro del centro abitato con riferimento al 1942 e sino all’anno precedente all’entrata in vigore della legge n. 765/1967, al fine di chiarire per tale periodo in quali zone, ai sensi dell’art. 31 della legge n. 1150/1942, occorreva la licenza edilizia nonostante la mancanza di piano regolatore generale.
All’epoca in cui sono state ultimate le opere de quibus, dichiarata dall’interessato e non contestata con l’impugnato provvedimento, vigeva infatti il citato art. 31, il quale imponeva la licenza edilizia, indipendentemente dall’esistenza di un piano regolatore, a chiunque volesse eseguire nuove costruzioni o modificare quelle esistenti situate nei centri abitati.
Quest’ultimi vanno identificati nella situazione di fatto esistente, costituita da case continue e vicine, con interposte strade, piazze e simili, a prescindere dall’esistenza di una delibera di perimetrazione antecedente alla realizzazione del manufatto.

Con la prima censura il ricorrente sostiene che la costruzione dei manufatti in argomento, risalendo al 1965 (ovvero essendo precedente all’entrata in vigore dell’art. 10 della legge n. 765/1967) e ricadendo al di fuori del centro abitato, non richiede titolo edilizio; aggiunge che non rileva l’individuazione del centro abitato di cui alla determina comunale n. 301 del 10/04/2008, in quanto la stessa descrive uno stato dei luoghi successivo all’abuso edilizio commesso e, comunque, non può avere applicazione retroattiva.
Il motivo è infondato.
La predetta determina definisce, con effetto ricognitivo, il perimetro del centro abitato con riferimento al 1942 e sino all’anno precedente all’entrata in vigore della legge n. 765/1967, al fine di chiarire per tale periodo in quali zone, ai sensi dell’art. 31 della legge n. 1150/1942, occorreva la licenza edilizia nonostante la mancanza di piano regolatore generale.
All’epoca in cui sono state ultimate le opere de quibus, dichiarata dall’interessato e non contestata con l’impugnato provvedimento, vigeva infatti il citato art. 31, il quale imponeva la licenza edilizia, indipendentemente dall’esistenza di un piano regolatore, a chiunque volesse eseguire nuove costruzioni o modificare quelle esistenti situate nei centri abitati.
Quest’ultimi vanno identificati nella situazione di fatto esistente, costituita da case continue e vicine, con interposte strade, piazze e simili, a prescindere dall’esistenza di una delibera di perimetrazione antecedente alla realizzazione del manufatto (TAR Lombardia, Milano, II, 09/03/2009, n. 1768).
Orbene, la contestata determinazione n. 301/2008 si richiama ad una cartografia del 1957 e delimita il centro abitato quale risultante negli anni 1942, 1957 e 1969 (documento n. 11 depositato in giudizio dal deducente). Del resto, nella stessa perizia tecnica prodotta dall’interessato (documento n. 9) si afferma che la zona in questione è stata la prima ad adattarsi dal punto di vista urbanistico ed edilizio, nel dopoguerra, all’avvento del turismo nel Comune di Forte dei Marmi
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 04.02.2011 n. 202 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Definizione di "centro abitato" ai fini della necessità della licenza edilizia ante legge Ponte (765/1967) ed in assenza del P. di F.
In assenza di una delibera di perimetrazione, il centro abitato va identificato nella situazione di fatto, in presenza di un aggregato di case continue e vicine, con interposte strade, piazze e simili, o comunque brevi soluzioni di continuità, in quanto la perimetrazione dei centri abitati è necessaria solo quando il tessuto dell'insediamento abitativo non sia di sicura delimitazione.
Quanto alla questione sull’applicazione del Regolamento ai soli insediamenti abitativi all’interno del centro abitato, si deve osservare che le planimetrie prodotte dalla difesa dell’Amministrazione Comunale (doc. 7 e 8) mostrano come il fabbricato di cui si or dina la demolizione fosse collocato già negli anni 60/70 in una zona altamente edificata, mentre la produzione documentale del ricorrente, in cui l’area sarebbe a latere della zona edificata, risale al 1900 e al 1945.
In assenza di una delibera di perimetrazione, il centro abitato va identificato nella situazione di fatto, in presenza di un aggregato di case continue e vicine, con interposte strade, piazze e simili, o comunque brevi soluzioni di continuità, in quanto la perimetrazione dei centri abitati è necessaria solo quando il tessuto dell'insediamento abitativo non sia di sicura delimitazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.03.2009 n. 1768 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

APPALTI: Centrali di committenza - Pubblichiamo le FAQ relative al seminario on-line Ifel del 12.12.2014.
Pubblichiamo alcune delle FAQ (domande e risposte) relative al tema centrali di committenza. Le domande sono state poste da alcuni Comuni nel corso del seminario on-line organizzato da Ifel lo scorso 12 dicembre. Si precisa che si tratta di un elenco di FAQ che Anci integrerà successivamente con ulteriori risposte ai dubbi più frequenti e quindi, deve ritenersi, come “work in progress”.
L’Ufficio Lavori Pubblici, Edilizia ed Urbanistica dell’Anci, con un gruppo tecnico di esperti, predisporrà un “pacchetto” documenti a supporto dei Comuni (schemi di convenzione, regolamento, atti di organizzazione ecc) che verranno inseriti sul sito dell’Associazione entro la prima metà del mese di gennaio 2015 (link a www.anci.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Approvazione automatica degli atti di aggiornamento del Catasto Terreni con contestuale aggiornamento della mappa e dell’archivio censuario. Circolare di accompagnamento alla procedura Pregeo 10 versione 10.6.0. (Agenzia delle Entrate, circolare 29.12.2014 n. 30/E).

EDILIZIA PRIVATA: Aggiornamento degli importi previsti dal Decreto del Direttore dell’Agenzia del Territorio 04.05.2007 disciplinante lo “Accesso al sistema telematico dell’Agenzia del territorio per la consultazione delle banche dati ipotecaria e catastale” (Agenzia delle Entrate, provvedimento provvedimento 17.12.2014 n. 160950 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIAOggetto: Applicazioni disposizioni decreto 03.06.2014 n. 120 (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, nota 15.12.2014 n. 1140 di prot.).
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Albo gestori ambientali: 15.12.2014, chiarimenti dal Comitato nazionale sul nuovo regime d'iscrizione.
Con la circolare n. 1140 del 15.12.2014, il Comitato nazionale dell'Albo gestori ambientali fornisce chiarimenti su alcune disposizioni del decreto 03.06.2014, n. 120, che disciplina il nuovo regime d'iscrizione all'Albo, in seguito agli interrogativi avanzati dalle varie sezioni regionali.
Le indicazioni del Comitato riguardano: i requisiti per l'iscrizione all'Albo (in particolare relativamente ai soggetti condannati con sospensione condizionale della pena); le variazioni della dotazione veicoli (che vanno deliberate con urgenza e con precedenza sulle altre domande); la variazione di sede legale di cui all'art. 18, comma 4, del D.M. 120/2014; i provvedimenti disciplinari (soprattutto in caso di omissione del pagamento del diritto annuo di iscrizione, comportante la cancellazione dall'Albo).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 53 del 31.12.2014, "Disposizioni per l’attuazione della programmazione economico-finanziaria regionale, ai sensi dell’articolo 9-ter della legge regionale 31.03.1978, n. 34 (Norme sulle procedure della programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della Regione) – Collegato 2015" (L.R. 30.12.2014 n. 35).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 31.12.2014, "Approvazione dei criteri di classificazione delle aziende agrituristiche di Regione Lombardia ai sensi dell’articolo 9, comma 2, della legge 20.02.2006, n. 96" (decreto D.S. 23.12.2014 n. 12589).

ENTI LOCALI: G.U. 30.12.2014 n. 301 "Differimento al 31.03.2015 del termine per la deliberazione del bilancio di previsione 2015 degli enti locali" (Ministero dell'Interno, decreto 24.12.2014).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI - VARI: G.U. 29.12.2014 n. 300, suppl. ord. n. 99, "Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)" (Legge 23.12.2014 n. 190).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 53 del 29.12.2014, "Disposizioni attuative quadro «Infrastrutture verdi a rilevanza ecologica e di incremento della naturalità (comma 2-bis e seguenti, art. 43, l.r. 12/2005)»" (deliberazione G.R. 19.12.2014 n. 2944).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 27.12.2014 n. 299, suppl. ord. n. 97, "Approvazione del modello unico di dichiarazione ambientale per l’anno 2015" (D.P.C.M. 17.12.2014).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 52 del 23.12.2014, "Approvazione della nuova modulistica per la presentazione della richiesta di autorizzazione unica (AU) per la costruzione, installazione ed esercizio di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili e revoca della precedente modulistica, approvata con decreto del 06.12.2013, n. 11674" (decreto D.S. 19.12.2014 n. 12481).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 52 del 23.12.2014, "Disposizioni in materia di vendita dei carburanti per autotrazione. Modifiche al titolo II, capo IV della legge regionale 02.02.2010, n. 6 (Testo unico delle leggi regionali in materia di commercio e fiere)" (L.R. 19.12.2014 n. 34).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE - PUBBLICO IMPIEGO: Personale News (tratto da www.gianlucabertagna.it, 09.12.2014 n. 23).
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Di interesse si leggano:
● M. Ferrari, IL FONDO PER LA PROGETTAZIONE E L’INNOVAZIONE E IL RELATIVO REGOLAMENTO
● P. Aldigeri, ATTIVITÀ EXTRA LAVORATIVE NON AUTORIZZATE
● MODELLI DELLA PROGETTAZIONE INTERNA:
   1- Oggetto: Contratto decentrato sui criteri per la ripartizione del fondo per la progettazione e l'innovazione
   2- Oggetto: Regolamento per la ripartizione del fondo per la progettazione e l'innovazione

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: A. Scialò e S. Giampietro, Fresato d’asfalto “sottoprodotto”: il Consiglio di Stato impone condizioni e limiti non previsti dall’art. 184-bis del TUA (nota a Consiglio di Stato, n. 4978 del 06.10.2014) (18.11.2014 - link a www.lexambiente.it).

URBANISTICA: G. Cocchi, Vincoli conformativi - vincoli espropriativi la terza via: vincoli espropriativi ad effetto sospeso nel tempo (17.11.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, Le Zone A ex D.M. 1444/1968 quali beni paesaggistici in potenza, a cui il Codice dei beni culturali e del paesaggio accorda anticipata tutela (17.11.2014 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Amendola, Abbruciamento di scarti vegetali, inquinamento da leggi e cassazione (24.10.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: A. Verderosa, Il Piano di Lottizzazione, la Convenzione di Lottizzazione ed il lotto intercluso o residuale (20.10.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: T. Millefiori, Note minime sulla nuova disciplina del mutamento di destinazione d’uso urbanisticamente “irrilevante” contenuta nel d.l. 12.09.2014, n. 133 (“sblocca Italia”) (10.10.2014 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: G. Aiello, Anche per la Corte di Cassazione l’ordinanza di rimozione avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti in stato di abbandono, nonché il termine entro cui provvedere deve essere firmata dal Sindaco e non dal dirigente del settore (07.10.2014 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. Volpato, Prime notazioni sugli abbruciamenti: il reato è legittimato! (19.09.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: S. Deliperi, Le valutazioni di compatibilità paesaggistica vanno effettuate alla luce del vigente quadro normativo (16.09.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: T. Millefiori, Contributo per il rilascio del permesso di costruire: tempus regit actum ed autotutela amministrativa nella relativa quantificazione (nota a margine della sentenza del C.d.S., Sez. IV, 12.06.2014, n. 3009) (03.09.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: C. Manni, Appunti sul concetto di vicinalità delle strade (13.08.2014 - link a www.lexambiente.it).

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico impiego.
Domanda
Nel pubblico impiego privatizzato è vietata la sottrazione al dipendente delle sue funzioni?
Risposta
In materia di pubblico impiego privatizzato, l'art. 52, comma 1, del dlgs 30.03.2001, n. 165, che sancisce il diritto all'adibizione alle mansioni per le quali il dipendente è stato assunto o ad altre equivalenti, ha recepito, attese le perduranti peculiarità relative alla natura pubblica del datore di lavoro, tuttora condizionato, nell'organizzazione del lavoro, da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria delle risorse, un concetto di equivalenza «formale», ancorato alle previsioni della contrattazione collettiva indipendentemente dalla professionalità acquisita e non sindacabile dal giudice.
Dove, tuttavia, vi sia stato, con la destinazione ad altre mansioni, il sostanziale svuotamento dell'attività lavorativa, la vicenda esula dall'ambito delle problematiche sull'equivalenza delle mansioni, configurandosi la diversa ipotesi della sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell'ambito del pubblico impiego (articolo ItaliaOggi Sette del 22.12.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Bonus ristrutturazioni.
Domanda
La detrazione Irpef per lavori di ristrutturazione autorizzati dal proprietario dell'immobile è possibile per l'inquilino che ha sostenuto i relativi costi?
Risposta
Sì. Il bonus ristrutturazioni spetta, infatti, a chi sostiene la spesa, sia esso il proprietario o altro occupante l'immobile a vario titolo. L'inquilino dell'immobile ristrutturato, pertanto, se ha sostenuto la spesa e i bonifici e le fatture sono a lui intestate, potrà ben usufruire della detrazione Irpef del 50% (articolo ItaliaOggi Sette del 22.12.2014).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: D.Lgs. 22.01.2004 n. 42. Art. 142, comma 1, lett. m). Quesito (MIBACT, nota 01.12.2014 n. 9200 di prot.).
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... questa Direzione regionale interrogava l'Ufficio legislativo sulla nozione di "interesse archeologico" di cui all'art. 142, comma l, lett. m) del decreto legislativo n. 42/2004, chiedendo, in particolare, se
«a quest'ultima, possano essere riferiti non solo i contesti di giacenza dei beni o delle testimonianze tradizionalmente ascritte al novero delle cose che pertengono alle discipline archeologiche (ovverossia databili dalla preistoria al IV secolo d.c., cioè fino al periodo cosiddetto "tardo antico") ma, altresì, tutti quei "contesti di giacenza" sui quali, a prescindere dalla datazione delle cose in essi ricomprendibili (e quali possano dunque risalire anche all'età medievale o moderna), sia necessario tuttavia intervenire con i metodi propri della stratigrafia archeologica, secondo gli orientamenti che caratterizzano da alcuni decenni l'insegnamento universitario, nell'ambito del quale, è dato accertare la presenza di discipline quali l'archeologia medievale, il cui ambito cronologico si spinge ad abbracciare l'intero secolo XIV».

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: La ratio legis dell’intera disciplina è quella di favorire l’ottimale utilizzo delle professionalità interne ad ogni amministrazione e di assicurare un risparmio di spesa sugli oneri che l’amministrazione dovrebbe sostenere per affidare all’esterno incarichi professionali di contenuto analogo.
L’incentivo, infatti, può essere corrisposto al solo personale dell’ente che abbia preso parte a determinate attività e ciò in funzione incentivante e premiale per l’espletamento di servizi altrimenti non rientranti nei doveri propri d’ufficio.

La norma indica espressamente quali beneficiari degli incentivi –da corrispondere “previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte”– il responsabile del procedimento, gli incaricati della redazione delle varie fasi progettuali, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori e del collaudo. Alle figure professionali elencate si aggiungono “i loro collaboratori”.
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Ad avviso del Collegio
non può escludersi, in via di principio, la possibilità che i “collaboratori” a cui fa riferimento la norma siano costituiti anche da dipendenti appartenenti a profili amministrativi e contabili.
Tuttavia, deve evidenziarsi che la maggior parte delle attività incentivate dall’art. 92 cit. presenta un contenuto squisitamente tecnico (progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva, redazione del paino di sicurezza, direzione lavori, collaudo). In virtù del contenuto specialistico delle prestazioni in parola, in caso di affidamento esterno le stazioni appaltanti devono far ricorso a professionisti esterni abilitati ed iscritti ai rispettivi albi professionali (art. 90 del D.Lgs. 163/2006).
Ora, poiché come è già stato ricordato la ratio della normativa in commento mira alla valorizzazione delle professionalità interne ed a limitare il conferimento di incarichi professionali, “i collaboratori” a cui fa riferimento l’art. 92 cit. sono da individuare –di norma– tra il personale del ruolo tecnico che di volta in volta partecipa alla redazione dei vari elaborati (a titolo esemplificativo: progetti e relative varianti, piano di sicurezza, certificato di collaudo o di regolare esecuzione) o al compimento di specifiche attività (direzione lavori e relativa contabilità).
Discorso a parte meritano i collaboratori del responsabile unico del procedimento (RUP).

Infatti,
in base all’art. 10 del D.Lgs. 163/2006 (codice dei contratti pubblici) e agli art. 9 e 10 del DPR 207/2010 (Regolamento di attuazione del codice dei contratti pubblici) il RUP è titolare di una pluralità di competenze che interessano tutte le fasi di realizzazione dell’opera pubblica (progettazione, affidamento dell’appalto, esecuzione dei lavori).
Nonostante per quanto riguarda i lavori attinenti all’ingegneria e all’architettura il RUP deve essere un tecnico (cfr. art. 10, co. 5, del D. Lgs. 163/2006), si evidenzia che non tutte le competenze del RUP hanno un contenuto squisitamente tecnico. Infatti il RUP, tra l’altro, indice la conferenza di servizi ai sensi della L. 241/1990, propone la conclusione di accordi di programma, cura il corretto e razionale svolgimento delle procedure, segnala disfunzioni, impedimenti e ritardi, fornisce all’organo di governo informazioni relative all’attuazione dell’intervento, raccoglie e trasmette i dati all’Osservatorio, proporne la risoluzione del contratto, la transazione e la definizione bonaria delle controversie.
È evidente che per lo svolgimento di tali eterogenei compiti il RUP può avvalersi anche di collaboratori appartenenti al ruolo del personale amministrativo, purché in possesso delle necessarie competenze professionali. Con l’ovvia conseguenza che anche i predetti collaboratori possono essere ricompresi nella ripartizione degli incentivi previsti dall’art. 92 cit..

Questa soluzione è coerente con il contenuto dell’art. 10, co. 5, del DPR 207/2010. La norma citata prevede la possibilità di costituire un ufficio di supporto al RUP in caso di inadeguatezza dell’organico dell’amministrazione aggiudicatrice. Tuttavia, a differenza di quanto previsto per il RUP, per i componenti del predetto ufficio di supporto non è richiesto il possesso di professionalità tecniche.
Ciò posto, una soluzione interpretativa che vietasse di destinare le risorse del Fondo a favore del personale amministrativo impegnato nelle attività di supporto al RUP favorendo in tal modo la costituzione di un ufficio esterno, sarebbe contraria alla ratio e alle finalità della norma.
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Il Fondo previsto dall’art. 92 cit. può essere destinato esclusivamente alle specifiche figure professionali ivi individuate, nonché ai loro collaboratori.
Non trova alcun fondamento normativo una diversa interpretazione della norma tendente ad ampliare il novero dei soggetti beneficiari.
Pertanto, i dipendenti –tecnici ed amministrativi- diversi dal RUP, dal progettista, dal direttore lavori, dall’incaricato del piano di sicurezza, dal collaudatore e dai relativi collaboratori, benché svolgano attività comunque connesse alla realizzazione di opere pubbliche possono essere incentivati utilizzando soltanto gli ordinari istituti contrattuali e le relative risorse finanziarie stanziate in base alle norme dei vigenti Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro.
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Il nuovo testo dell’art. 92 cit. così come risultante dalle modifiche introdotte dal D.L. 90/2014 ha espressamente previsto che i criteri di riparto del fondo stabiliti dal regolamento che ciascuna amministrazione è tenuta ad adottare escludano “le attività manutentive”.
L’interpretazione formatasi sulla precedente formulazione dell’art. 92 cit. aveva già escluso dalle attività remunerabili con l’incentivo in questione gli interventi di manutenzione ordinaria, facendo salve le sole manutenzioni straordinarie
. Infatti, secondo il riferito indirizzo giurisprudenziale le manutenzioni straordinarie sarebbero riconducibili (o comunque assimilabili) alla realizzazione di opere pubbliche al compimento delle quali la norma subordina l’erogazione dell’incentivo.
Il Collegio non ha motivi per discostarsi dal predetto orientamento interpretativo ritenendo che la modifica al testo dell’art. 92 cit. operata con il D.L. 90/2014 non abbia inciso in modo restrittivo sul regime degli incentivi relativi agli interventi di manutenzione straordinaria.
Infatti, premesso che nel sistema delineato dall’art. 92 cit. l’erogazione dell’incentivo è collegato alla realizzazione di un’opera pubblica, si evidenzia che l’art. 3, co. 18, lett. a) e b), della legge 24.12.2003, n. 350 equipara espressamente gli interventi di manutenzione straordinaria alla costruzione di nuove opere qualificandoli come spese d’investimento per le quali, peraltro, è consentito il ricorso all’indebitamento.

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In data 12.11.2014 è pervenuta, per il tramite del CAL della Regione Marche, una richiesta di parere formulata dal Presidente della Provincia di Ancona ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. 131/2003.
Il parere ha per oggetto la corretta interpretazione della normativa in materia di incentivazione della progettazione interna a favore del personale dipendente ai sensi dell’art. 92 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 (codice dei contratti pubblici).
In particolare, il Presidente della Provincia pone a questa Sezione tre differenti quesiti:
1) se tra i "collaboratori" del responsabile del procedimento, degli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori e del collaudo, possano rientrare i dipendenti che prestano, nell'ambito della struttura competente alla realizzazione dell'opera/lavoro, attività amministrativa e/o contabile strettamente collegata ai lavori;
2) se tra i "collaboratori" destinatari delle risorse del fondo possano inoltre rientrare:
   a) il personale tecnico e amministrativo, assegnato alla struttura competente alla realizzazione dell'opera/lavoro, addetto ai procedimenti di esproprio delle aree sulle quali verranno realizzate le opere/i lavori;
   b) il personale tecnico, assegnato alla struttura competente alla realizzazione dell'opera/lavoro, addetto alle attività relative agli accatastamenti e ai frazionamenti delle aree sulle quali verranno realizzate le opere/i lavori;
   c) il responsabile della procedura di gara e i suoi collaboratori;
3) se tra le attività escluse dalla ripartizione delle risorse del fondo per la progettazione e l'innovazione rientrino, oltre ai lavori di manutenzione ordinaria, anche quelli di manutenzione straordinaria.
...
1. I dubbi interpretativi dell’Ente istante concernono la corretta applicazione dell’art. 92, commi 7-bis e 7-ter, del D.Lgs. 163/2006 introdotto dall’art. 13-bis del decreto legge 24.06.2014, n. 90 convertito con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114.
In particolare, i primi due quesiti concernono l’individuazione della platea dei soggetti beneficiari degli incentivi.
Il terzo quesito riguarda l’individuazione degli interventi per i quali è possibile procedere allo stanziamento del fondo per la progettazione e l’innovazione.
2. Il testo dell’art. 92 cit. di cui la Provincia di ancona chiede l’interpretazione è stato recentemente inciso dalla novella normativa della c.d. riforma Madia (D.L. 90/2014).
Infatti, l’art. 13 del D.L. 90/2014 ha abrogato i commi 5 e 6 dell’art. 92 cit. mentre l’art. 13-bis introdotto in sede di conversione ha inserito, dopo il comma il 7, i commi 7-bis, 7-ter, 7-quater e 7-quinquies.
Per quanto riguarda l’individuazione dei soggetti beneficiari degli incentivi, i commi 7-bis e 7-ter sono sostanzialmente riproduttivi dell’abrogato comma 5.
Infatti, le citate disposizioni, stabiliscono: “7-bis. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 7, le amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e l'innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un'opera o di un lavoro; la percentuale effettiva è stabilita da un regolamento adottato dall'amministrazione, in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare.
7-ter. L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo del presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d). La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale
.”
In base alle citate norme la misura complessiva dell’incentivo deve essere stabilita da un regolamento interno adottato da ogni amministrazione in considerazione dell'entità e della complessità dell'opera da realizzare ma, in ogni caso, entro il limite massimo del 2 per cento dell’importo a base d’asta (co. 7-bis).
Il medesimo regolamento deve recepire le modalità ed i criteri definiti in sede di contrattazione decentrata per la ripartizione dell’incentivo tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. In particolare, i criteri di ripartizione delle risorse devono tener conto delle responsabilità connesse alle prestazioni da svolgere, della complessità delle opere e dell'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo (co. 7-ter).
3. L’art. 92 del Codice dei contratti pubblici rubricato “Corrispettivi, incentivi per la progettazione e fondi a disposizione delle stazioni appaltanti”, contiene una serie di norme volte a disciplinare l’assegnazione di specifici incentivi a favore del personale dipendente del comparto impegnato nelle varie attività professionali connesse alla realizzazione delle opere pubbliche.
La ratio legis dell’intera disciplina è quella di favorire l’ottimale utilizzo delle professionalità interne ad ogni amministrazione e di assicurare un risparmio di spesa sugli oneri che l’amministrazione dovrebbe sostenere per affidare all’esterno incarichi professionali di contenuto analogo.
L’incentivo, infatti, può essere corrisposto al solo personale dell’ente che abbia preso parte a determinate attività e ciò in funzione incentivante e premiale per l’espletamento di servizi altrimenti non rientranti nei doveri propri d’ufficio.

La norma indica espressamente quali beneficiari degli incentivi –da corrispondere “previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte”– il responsabile del procedimento, gli incaricati della redazione delle varie fasi progettuali, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori e del collaudo. Alle figure professionali elencate si aggiungono “i loro collaboratori”.
Con il primo quesito l’Amministrazione provinciale chiede di sapere se tra i predetti collaboratori possano ricomprendersi anche i dipendenti che svolgono attività amministrativa e/o contabile strettamente collegate ai lavori.
Ad avviso del Collegio
non può escludersi, in via di principio, la possibilità che i “collaboratori” a cui fa riferimento la norma siano costituiti anche da dipendenti appartenenti a profili amministrativi e contabili.
Tuttavia, deve evidenziarsi che la maggior parte delle attività incentivate dall’art. 92 cit. presenta un contenuto squisitamente tecnico (progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva, redazione del paino di sicurezza, direzione lavori, collaudo). In virtù del contenuto specialistico delle prestazioni in parola, in caso di affidamento esterno le stazioni appaltanti devono far ricorso a professionisti esterni abilitati ed iscritti ai rispettivi albi professionali (art. 90 del D.Lgs. 163/2006).
Ora, poiché come è già stato ricordato la ratio della normativa in commento mira alla valorizzazione delle professionalità interne ed a limitare il conferimento di incarichi professionali, “i collaboratori” a cui fa riferimento l’art. 92 cit. sono da individuare –di norma– tra il personale del ruolo tecnico che di volta in volta partecipa alla redazione dei vari elaborati (a titolo esemplificativo: progetti e relative varianti, piano di sicurezza, certificato di collaudo o di regolare esecuzione) o al compimento di specifiche attività (direzione lavori e relativa contabilità).
Discorso a parte meritano i collaboratori del responsabile unico del procedimento (RUP).

Infatti,
in base all’art. 10 del D.Lgs. 163/2006 (codice dei contratti pubblici) e agli art. 9 e 10 del DPR 207/2010 (Regolamento di attuazione del codice dei contratti pubblici) il RUP è titolare di una pluralità di competenze che interessano tutte le fasi di realizzazione dell’opera pubblica (progettazione, affidamento dell’appalto, esecuzione dei lavori).
Nonostante per quanto riguarda i lavori attinenti all’ingegneria e all’architettura il RUP deve essere un tecnico (cfr. art. 10, co. 5, del D. Lgs. 163/2006), si evidenzia che non tutte le competenze del RUP hanno un contenuto squisitamente tecnico. Infatti il RUP, tra l’altro, indice la conferenza di servizi ai sensi della L. 241/1990, propone la conclusione di accordi di programma, cura il corretto e razionale svolgimento delle procedure, segnala disfunzioni, impedimenti e ritardi, fornisce all’organo di governo informazioni relative all’attuazione dell’intervento, raccoglie e trasmette i dati all’Osservatorio, proporne la risoluzione del contratto, la transazione e la definizione bonaria delle controversie.
È evidente che per lo svolgimento di tali eterogenei compiti il RUP può avvalersi anche di collaboratori appartenenti al ruolo del personale amministrativo, purché in possesso delle necessarie competenze professionali. Con l’ovvia conseguenza che anche i predetti collaboratori possono essere ricompresi nella ripartizione degli incentivi previsti dall’art. 92 cit..

Questa soluzione è coerente con il contenuto dell’art. 10, co. 5, del DPR 207/2010. La norma citata prevede la possibilità di costituire un ufficio di supporto al RUP in caso di inadeguatezza dell’organico dell’amministrazione aggiudicatrice. Tuttavia, a differenza di quanto previsto per il RUP, per i componenti del predetto ufficio di supporto non è richiesto il possesso di professionalità tecniche.
Ciò posto, una soluzione interpretativa che vietasse di destinare le risorse del Fondo a favore del personale amministrativo impegnato nelle attività di supporto al RUP favorendo in tal modo la costituzione di un ufficio esterno, sarebbe contraria alla ratio e alle finalità della norma.

4. All’interno del quadro interpretativo delineato può trovare soluzione anche il secondo quesito posto dall’Amministrazione provinciale.
In particolare l’Ente istante chiede se il Fondo possa essere utilizzato per incentivare il personale tecnico e amministrativo:
a) addetto ai procedimenti di esproprio;
b) addetto alle attività relative agli accatastamenti e ai frazionamenti;
c) responsabile o addetto allo svolgimento della procedura di gara.
Come si è avuto modo di chiarire,
il Fondo previsto dall’art. 92 cit. può essere destinato esclusivamente alle specifiche figure professionali ivi individuate, nonché ai loro collaboratori.
Non trova alcun fondamento normativo una diversa interpretazione della norma tendente ad ampliare il novero dei soggetti beneficiari.
Pertanto, i dipendenti –tecnici ed amministrativi- diversi dal RUP, dal progettista, dal direttore lavori, dall’incaricato del piano di sicurezza, dal collaudatore e dai relativi collaboratori, benché svolgano attività comunque connesse alla realizzazione di opere pubbliche possono essere incentivati utilizzando soltanto gli ordinari istituti contrattuali e le relative risorse finanziarie stanziate in base alle norme dei vigenti Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro.

5. Con l’ultimo quesito l’Amministrazione provinciale chiede se gli interventi di manutenzione straordinaria debbano essere esclusi dalla ripartizione delle risorse del fondo per la progettazione e l'innovazione.
Il nuovo testo dell’art. 92 cit. così come risultante dalle modifiche introdotte dal D.L. 90/2014 ha espressamente previsto che i criteri di riparto del fondo stabiliti dal regolamento che ciascuna amministrazione è tenuta ad adottare escludano “le attività manutentive”.
L’interpretazione formatasi sulla precedente formulazione dell’art. 92 cit. aveva già escluso dalle attività remunerabili con l’incentivo in questione gli interventi di manutenzione ordinaria, facendo salve le sole manutenzioni straordinarie
(cfr. Sezione controllo Toscana parere 19.03.2013 n. 15). Infatti, secondo il riferito indirizzo giurisprudenziale le manutenzioni straordinarie sarebbero riconducibili (o comunque assimilabili) alla realizzazione di opere pubbliche al compimento delle quali la norma subordina l’erogazione dell’incentivo.
Il Collegio non ha motivi per discostarsi dal predetto orientamento interpretativo ritenendo che la modifica al testo dell’art. 92 cit. operata con il D.L. 90/2014 non abbia inciso in modo restrittivo sul regime degli incentivi relativi agli interventi di manutenzione straordinaria.
Infatti, premesso che nel sistema delineato dall’art. 92 cit. l’erogazione dell’incentivo è collegato alla realizzazione di un’opera pubblica, si evidenzia che l’art. 3, co. 18, lett. a) e b), della legge 24.12.2003, n. 350 equipara espressamente gli interventi di manutenzione straordinaria alla costruzione di nuove opere qualificandoli come spese d’investimento per le quali, peraltro, è consentito il ricorso all’indebitamento
(Corte dei Conti, Sez. controllo Marche, parere 17.12.2014 n. 141).

PATRIMONIO: Impianti sportivi - Affidamento in gestione ad associazioni e società sportive dilettantistiche - Possibilità di elargizione di contributi pubblici - Condizioni e vincoli - Necessità di concessione dei beni pubblici ad adeguate condizioni di remuneratività - Sussiste - Enti locali - Divieto di sponsorizzazioni - Concessione del patrocinio con partecipazione alle spese in favore di associazione sportiva - Potrebbe configurare fattispecie di sponsorizzazione.
Il divieto di erogazione di contributi ricomprende l'attività prestata dai soggetti di diritto privato menzionati dalla norma in favore dell'Amministrazione Pubblica quale beneficiaria diretta; risulta, invece, esclusa dal divieto di legge l'attività svolta in favore dei cittadini, id est della "comunità amministrata", seppur quale esercizio -mediato- di finalità istituzionali dell'ente locale e dunque nell'interesse di quest'ultimo.
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La disposizione utilizza il termine “sponsorizzazioni” in senso atecnico, risultando chiaro dal contesto normativo che è vietata qualsiasi forma di contribuzione intesa a valorizzare il nome o caratteristica del comune ovvero eventi di interesse per la collettività locale.
Non rientra invece nella nozione di “sponsorizzazione” la spesa sostenuta dall’ente al fine di erogare o ampliare un servizio pubblico, costituendo in tal caso il contributo erogato a terzi una modalità di svolgimento del servizio. Nelle determinazioni che in tal caso gli enti dovranno assumere deve risultare nell’impianto motivazionale il fine pubblico perseguito e la rispondenza delle modalità in concreto adottate al raggiungimento della finalità sociale.
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Ad essere vietati sarebbero in generale gli accordi di patrocinio comportanti spese; ciò che la norma tende ad evitare sarebbe dunque proprio la concessione del patrocinio -che preveda oneri, da parte delle amministrazioni pubbliche- ad iniziative organizzate da soggetti terzi, ad esempio la sponsorizzazione di una squadra di calcio.
Resterebbero invece consentite, salvi naturalmente ulteriori specifici divieti di legge, le iniziative organizzate dalle amministrazioni pubbliche, sia in via diretta, sia indirettamente, purché per il tramite di soggetti istituzionalmente preposti allo svolgimento di attività di valorizzazione del territorio.
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Qualora sussistano specifiche caratteristiche, la concessione di un contributo elargito ad una associazione sportiva potrebbe rientrare nel concetto di sponsorizzazione.
E’ opportuno anche tener conto che la giurisprudenza contabile ha talora ritenuto sussistente un danno erariale laddove il bene sia concesso a condizioni economiche non adeguatamente remunerative.

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Il Comune di Grottammare, con nota a firma del suo Sindaco, ha formulato, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della L. 131/2003, una richiesta di parere in ordine alla possibilità di erogare contributi annui, per gli oneri di gestione, a sostegno dell'attività sportiva giovanile, a società sportive dilettantistiche, affidatarie della gestione di impianti sportivi di proprietà comunale, ai sensi dell'articolo 90, comma 25, della legge 27.12.2002, n. 289, a seguito di stipula di convenzione che garantisce l'utilizzo della struttura in funzione delle esigenze della collettività locale, per tutta la durata della convenzione stessa, precisando che l'attività svolta ha come destinataria immediata la collettività locale e non l'Amministrazione.
...
La richiesta di parere investe la corretta interpretazione dell'articolo 4, comma 6, del decreto legge 06.07.2012, n. 95, convertito dalla legge 07.08.2012, n. 135, e alla stessa deve intendersi limitato.
L'art. 4, comma 6, del DL 95/2012 prevede che: "… Gli enti di diritto privato …, che forniscono servizi a favore dell'amministrazione stessa, anche a titolo gratuito, non possono ricevere contributi a carico delle finanze pubbliche”, escludendo tuttavia dal divieto, tra le altre, “… le associazioni sportive dilettantistiche di cui all'articolo 90 della legge 27.12.2002, n. 289".
L’art. 90, comma 25, d.l. 95/2012, prevede che “nei casi in cui l'ente pubblico territoriale non intenda gestire direttamente gli impianti sportivi, la gestione è affidata in via preferenziale a società e associazioni sportive dilettantistiche, enti di promozione sportiva, discipline sportive associate e Federazioni sportive nazionali, sulla base di convenzioni che ne stabiliscono i criteri d'uso e previa determinazione di criteri generali e obiettivi per l'individuazione dei soggetti affidatari. Le regioni disciplinano, con propria legge, le modalità di affidamento.”
La Regione Marche ha peraltro disciplinato la materia con L.R. 5/2012, regolamentando negli artt. 18 e ss. le modalità di affidamento.
La Sezione regionale di controllo per la Lombardia con parere n. 89/2013/PAR in merito all'interpretazione della norma oggetto di interpretazione ha osservato che “
il predetto divieto di erogazione di contributi ricomprende l'attività prestata dai soggetti di diritto privato menzionati dalla norma in favore dell'Amministrazione Pubblica quale beneficiaria diretta; risulta, invece, esclusa dal divieto di legge l'attività svolta in favore dei cittadini, id est della "comunità amministrata", seppur quale esercizio -mediato- di finalità istituzionali dell'ente locale e dunque nell'interesse di quest'ultimo".
Questa Sezione ritiene di condividere l’orientamento della Sezione Lombardia non sussistendo valide ragioni, del resto non evidenziate neanche dallo stesse Ente, per discostarsene.
Dal tenore letterale non si rinvengono quindi, in astratto, preclusioni della disposizione in esame all’erogazione di contributi pubblici; ciò non esclude, evidentemente, la necessità del rispetto di ulteriori vincoli derivanti dalla Legislazione vigente, anche regionale, e dei regolamenti comunali.
A titolo meramente esemplificativo, con riferimento all’art. 6, comma 9, del decreto legge n. 78/2010 ed al relativo divieto di spese di sponsorizzazione la Corte dei Conti, Sez. reg. controllo, Lombardia, con
parere 10.01.2011 n. 6, ha statuito che “La disposizione citata utilizza il termine “sponsorizzazioni” in senso atecnico, risultando chiaro dal contesto normativo che è vietata qualsiasi forma di contribuzione intesa a valorizzare il nome o caratteristica del comune ovvero eventi di interesse per la collettività locale. Non rientra invece nella nozione di “sponsorizzazione” la spesa sostenuta dall’ente al fine di erogare o ampliare un servizio pubblico, costituendo in tal caso il contributo erogato a terzi una modalità di svolgimento del servizio. Nelle determinazioni che in tal caso gli enti dovranno assumere deve risultare nell’impianto motivazionale il fine pubblico perseguito e la rispondenza delle modalità in concreto adottate al raggiungimento della finalità sociale (cfr. in ogni caso parere 23.12.2010 n. 1075)”.
Sulla stessa linea interpretativa si pone Corte dei Conti sez. reg. controllo, Puglia, deliberazione n. 163/2010, la quale ha affermato che: “
Ad essere vietati sarebbero in generale gli accordi di patrocinio comportanti spese; ciò che la norma tende ad evitare sarebbe dunque proprio la concessione del patrocinio -che preveda oneri, da parte delle amministrazioni pubbliche- ad iniziative organizzate da soggetti terzi, ad esempio la sponsorizzazione di una squadra di calcio; resterebbero invece consentite, salvi naturalmente ulteriori specifici divieti di legge, le iniziative organizzate dalle amministrazioni pubbliche, sia in via diretta, sia indirettamente, purché per il tramite di soggetti istituzionalmente preposti allo svolgimento di attività di valorizzazione del territorio”.
Pertanto,
qualora sussistano specifiche caratteristiche, la concessione di un contributo elargito ad una associazione sportiva potrebbe rientrare nel concetto di sponsorizzazione.
E’ opportuno anche tener conto che la giurisprudenza contabile ha talora ritenuto sussistente un danno erariale laddove il bene sia concesso a condizioni economiche non adeguatamente remunerative
(tra le altre, cfr. Sez. giur. Toscana, 96/2014) (Corte dei Conti, Sez. controllo Marche, parere 04.12.2014 n. 133).

INCARICHI PROFESSIONALI: Incarichi esterni - Regolamento interno ente locale - Incarichi meramente occasionali - Deroga all'evidenza pubblica - Inammissibilità - Non conformità all'art. 7 tupi - Ragioni.
La disposizione regolamentare prevede che «Sono escluse dalle procedure comparative e dagli obblighi di pubblicità le sole prestazioni meramente occasionali che si esauriscono in una prestazione episodica, non riconducibile a fasi di piani o programmi del committente e che si svolge in maniera del tutto autonoma, anche rientranti nelle fattispecie indicate al comma 6 dell'art. 53 del D.Lgs. 165 del 2001».
La previsione non è conforme a legge.

In merito, peraltro, si osserva che
l’occasionalità è una caratteristica strutturale di tutti i provvedimenti di incarico esterno, venuta meno la quale, in ragione del carattere stabile del bisogno amministrativo che si intende soddisfare, l’ente sarebbe tenuto a farvi fronte con un impiego stabile ovvero ad esternalizzare in appalto
.
Per tale ragione
non pare corretta l’astratta distinzione tra occasionalità e “mera” occasionalità, in quanto non fornisce alcun criterio discriminativo implicito o altrimenti ricavabile dalla ratio sottesa all’art. 7 TUPI; piuttosto essa appare prefigurare una clausola per deroghe de facto alla regola della procedura comparativa, simile a quella della soglia minima per valore, pacificamente ritenuta illegittima da questa Corte.
Infatti, come nei casi delle soglie di valore di irrilevanza ai fini della procedura comparativa, non si può che ribadire che
gli enti sono tenuti alla stretta osservanza del principio dell’evidenza pubblica nell’assegnazione degli incarichi. In altre parole, la normativa primaria di cui all’art. 7, comma 6-bis, del D.lgs. n. 165/2001 non consente alcuna deroga alle procedure comparative, se non con successiva norma di pari rango, allo stato attuale non esistente.
I soggetti pubblici destinatari della norma possono, secondo i loro ordinamenti, semplicemente adattare e indicare le modalità di selezione e pubblicità delle procedure, non disciplinarne gli stessi presupposti.
La doverosa osservanza della norma primaria non consente, quindi, alcuna deroga da parte degli ordinamenti delle singole amministrazioni tenute all’osservanza della disciplina dell’art. 7 TUPI. Diversamente opinando, invero, si consentirebbe agli enti pubblici in questione di stabilire “ad libitum”, attraverso i propri statuti e regolamenti, categorie che, per quantità o qualità dell’incarico, sono sottratte alle procedure concorsuali, così svuotando di contenuto, tra l’altro, la stessa norma sul controllo (perché inibita a controllare la spesa pubblica ogni qualvolta vengano poste eccezioni alle procedure secondo parametri di merito non sottoposti a controllo e variabili da ente a ente).
Ne conseguirebbe, quindi, che il controllo della Corte sulla materia sarebbe limitato principalmente al corretto rispetto della soglia prevista dalla normativa statutaria e regolamentare, con aperta violazione dei principi di imparzialità garantiti costituzionalmente.
---------------
La giurisprudenza della Corte ha da tempo individuato i seguenti principi:

1)
la disciplina dettata dall’art. 3, commi da 54 a 57, della Legge n. 244/2007 stabilisce l’obbligo di normazione regolamentare di limiti, criteri e modalità di affidamento degli incarichi di collaborazione, studio e ricerca, nonché di consulenza, a soggetti estranei all’amministrazione. La competenza ad adottare i regolamenti degli uffici e dei servizi appartiene alla Giunta, nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal Consiglio (art. 48, terzo comma, e art. 42, secondo comma, lett. a), del TUEL);
2)
l’art. 46 del D.L. n. 112/2008, convertito nella Legge n. 133/2008, ha unificato gli incarichi di collaborazione ad alto contenuto professionale e gli incarichi di studio e consulenza, riconducendoli all’interno della tipologia generale di collaborazione autonoma, tutti caratterizzati dal grado di specifica professionalità richiesta. Questi presupposti li distinguono dalle collaborazioni “comuni”, il cui uso è vietato per lo svolgimento delle funzioni ordinarie dell’ente;
3)
quanto alla locuzione “particolare e comprovata specializzazione universitaria”, è stato chiarito che con essa si intende il possesso di conoscenze specialistiche equiparabile a quello che si otterrebbe con un percorso formativo di tipo universitario, basato su conoscenze specifiche inerenti al tipo di attività professionale oggetto dell’incarico. La specializzazione richiesta, per essere “comprovata”, deve essere oggetto di accertamento in concreto condotto sull’esame di documentati curriculari. Il mero possesso formale di titoli non sempre è sufficiente a comprovare l’acquisizione delle richieste capacità professionali;
4)
il nuovo testo dell’art. 7 del D.lgs. n. 165/2001 (TUPI) richiede, come presupposti di legittimità, tutti i requisiti già ritenuti dalla giurisprudenza contabile necessari per il ricorso ad incarichi di collaborazione o di studio. In particolare, quello della corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento all’amministrazione conferente comporta che si possa ricorrere a contratti di collaborazione solo con riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla legge, oltre che previste dal programma approvato dal Consiglio ai sensi dell’art. 42 TUEL;
5)
il comma 3 dell’art. 46 del D.L. n. 112/2008 ha eliminato l’obbligo di individuare nel regolamento il livello massimo di spesa sostenibile, prevedendo invece la fissazione del limite massimo annuale nel bilancio preventivo. È pertanto necessario accertare, in sede di conferimento, l’esistenza di un apposito stanziamento di spesa ed il rispetto del suo limite;
6)
quanto all’oggetto delle collaborazioni autonome, si richiamano le considerazioni contenute nel punto 6 della deliberazione SRC Lombardia n. 37/2008 del 04.03.2008, sull’inapplicabilità della disciplina a materia già autonomamente regolamentata e sulla distinzione tra incarico professionale ed appalto di servizi;
7)
il conferimento dell’incarico deve essere preceduto da procedure selettive di natura concorsuale, adeguatamente pubblicizzate. In proposito si è posto il problema del se, ed in quali limiti, sia consentito l’affidamento diretto dell’incarico. In taluni casi, le amministrazioni fanno riferimento ai limiti previsti nel Codice dei contratti pubblici, D.lgs. n. 163/2006. Tuttavia, la materia è estranea a quella degli appalti di lavori, di beni o servizi e, pertanto, non può farsi ricorso a detti criteri.
Deve invece affermarsi che il ricorso a procedure concorsuali deve essere generalizzato e che può prescindersi solo in circostanze del tutto particolari, come per esempio procedura concorsuale andata deserta, unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo, assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale;

8)
l’atto di incarico deve contenere tutti gli elementi costitutivi ed identificativi previsti per i contratti della Pubblica Amministrazione, in particolare: oggetto della prestazione, durata, modalità di determinazione del corrispettivo, termini di pagamento, verifiche del raggiungimento del risultato (indispensabile in ipotesi di proroga o rinnovo);
9)
in ogni caso, tutti i presupposti che legittimano il ricorso alla collaborazione debbono trovare adeguata motivazione nelle delibere o determinazioni di incarico;
10)
nel regolamento deve essere espressamente precisato che le società partecipate debbono osservare i principi e gli obblighi fissati in materia per gli enti cui appartengono, nonché i criteri per il controllo dell’ente locale sulla relativa osservanza.

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In data 22.09.2014, con nota prot. C.C. n. 4565, il Comune di Caserta (CE) ha trasmesso alla Sezione Regionale di controllo per la Campania la delibera di Giunta Comunale n. 144 del 21.03.2008, avente ad oggetto l’approvazione del nuovo regolamento per il conferimento di incarichi “Regolamento sull'Ordinamento degli Uffici e Servizi del Comune di Caserta”, approvato con deliberazione di G.C. n. 560 del 19.07.02000 e s.m.i.
Sulla base dei criteri enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte in merito all’interpretazione dell’art. 7 del D.lgs. n. 165/2001 (Testo unico del pubblico impiego, da ora innanzi TUPI) e delle altre norme e principi in materia, il Magistrato istruttore ha deferito la questione all’esame collegiale della Sezione.
...
   1. La legge finanziaria per il 2008 (L. 24.12.2007, n. 244), nel dettare le regole alle quali gli enti locali debbono conformarsi per il conferimento di incarichi di collaborazione, di studio e di ricerca, nonché di consulenza, a soggetti estranei all’amministrazione, ha previsto la necessaria emanazione, da parte di ciascun ente locale, di norme regolamentari, da trasmettere alla competente Sezione regionale della Corte dei conti entro trenta giorni dall’adozione (obbligo esteso all’ipotesi di modifiche future ai testi già approvati).
La Corte dei conti (cfr. SRC Lombardia, deliberazioni nn. 28 e 29/2008/PAR, 37/2008/REG e 224/2008) ha da tempo elaborato i criteri interpretativi della normativa al fine di stabilire, nell’esame dei regolamenti pervenuti, parametri di verifica uniformi, nonché l’alveo giuridico in cui si sostanzia la funzione di controllo.
Il comma 57 dell’art. 3 della legge n. 244/2007 obbliga gli enti a trasmettere alla Corte dei conti le disposizioni regolamentari inerenti agli incarichi di collaborazione esterna, a qualunque titolo affidati. In base al dato testuale, l’efficacia delle disposizioni regolamentari non è subordinata al loro esame da parte della Corte, che non è chiamata ad effettuare un controllo preventivo di legittimità ma, nella logica di sistema, la trasmissione è da ritenere finalizzata all’esercizio delle competenze tipiche della magistratura contabile.
  
1.1. Al riguardo, necessario punto di partenza è la considerazione che le Sezioni regionali della Corte dei conti possono svolgere, tra gli altri, vari controlli di natura “collaborativa” nell'ambito dei quali il Legislatore, come ha riconosciuto dalla la Corte costituzionale, è libero di assegnare qualsiasi competenza, purché vi sia un fondamento costituzionale rinvenibile, in base ad una lettura adeguatrice rispetto al nuovo assetto della Repubblica, nelle norme originariamente dettate per lo Stato, quali gli artt. 100, 81, 97, primo comma, e 28 della Costituzione (cfr. sentenza Corte cost. n. 179/2007).
Tali controlli “collaborativi” possono avere una struttura aperta quanto ad oggetto e parametro di valutazione (controlli eventuali ai sensi dell’art. 3 della L. n. 20/1994, oggetto di specifica programmazione, caratterizzati per l’allargamento del parametro a regole di buona prassi, dall’esito meramente conformativo, nel senso dell’autocorrezione dell’Amministrazione) ovvero possono avere carattere “dicotomico” (Corte costituzionale n. 40/2014) in cui la Magistratura di controllo è chiamata a valutare e decidere secondo lo schema tipico e naturale della funzione magistratuale, ovvero secondo lo schema di conformità/non conformità ad un parametro normativo, sia esso afferente un’attività o un atto.
In assenza di specifiche conseguenze di legge, relativamente alle irregolarità normative rilevate, resta fermo il dovere di riesame delle criticità evidenziate dalla Corte dei Conti da parte dell’Amministrazione al fine del ripristino della regolarità amministrativa e contabile, come esplicitamente affermato dalla Corte Costituzionale (sent. n. 198/2012), con l’obbligo di porre in essere, in ossequio a costante approdo della giurisprudenza, un procedimento di secondo grado per rimuovere le ridette irregolarità (si ricade nella casistica di “autotutela doverosa” che, come noto, comprende «l'ipotesi di illegittimità dell'atto dichiarata da sentenza passata in giudicato del giudice ordinario, e quella di illegittimità dell'atto dichiarata da un'autorità di controllo priva del potere di annullamento. È, peraltro, pacifico in giurisprudenza che per gli atti che esplicano effetti giuridici ripetuti nel tempo il principio di legalità impone all'Amministrazione il loro adeguamento in ogni momento al quadro normativo di riferimento. In tali ipotesi l'interesse pubblico all'esercizio dell'autotutela è "in re ipsa" e si identifica nella cessazione di ulteriori effetti "contra legem" cfr. Consiglio di Stato VI, sentenza 17.01.2008, n. 106» TAR Campania, Napoli, Sez. IV, sentenza 03.04.2012, n. 1527).
In alcuni di questi controlli, in presenza di presupposti specifici (di norma determinate tipologie di “gravi irregolarità”), il Legislatore ha previsto conseguenze specifiche ed il superamento dell’effetto meramente conformativo nel senso della necessità dell’autotutela vincolata, prevedendo un effetto “interdittivo”, rimesso ad un’ulteriore attività di accertamento della Magistratura di controllo; effetto interdittivo, peraltro, operante sul piano meramente finanziario e non su quello della capacità dell’ente (autodichia e capacità negoziale). È questo il caso della fattispecie dell’art. 148-bis TUEL, comma 3, in ipotesi di mancanza o inidoneità delle misure di autocorrezione adottate da un ente a valle di una pronuncia specifica della Corte.
  
1.1.1. In questo quadro, l’obbligo di trasmissione alla Corte dei conti di atti e documenti, da parte degli enti locali, non può essere fine a sé stesso, ma deve essere finalizzato allo svolgimento delle specifiche funzioni, come già messo in luce dalla Sezione (cfr. SRC Campania n. 221/2014/VSG e n. 21/2014/REG).
La trasmissione dei regolamenti deve quindi ritenersi strumentale al più generale potere di controllo di cui l’art. 1, commi da 166 a 172, della Legge n. 266 del 2005 e all’art. 148-bis TUEL, introdotto dall’art. 3, comma 1, lettera e), del D.L. n. 174/2012. Tali previsioni hanno istituito ulteriori tipologie di controllo, estese alla generalità degli enti locali e degli enti del Servizio sanitario nazionale, ascrivibili a controlli di natura preventiva finalizzati ad evitare danni irreparabili all’equilibrio di bilancio.
Tali controlli si collocano, pertanto, su un piano nettamente distinto rispetto al controllo sulla gestione amministrativa di natura collaborativa in senso lato; la Corte costituzionale, infatti, «Nel pronunciarsi sulla conformità a Costituzione delle norme che disciplinano tale tipologia di controllo, in relazione agli enti locali e agli enti del Servizio sanitario nazionale (art. 1, commi da 166 a 172, della legge n. 266 del 2005), […] ha altresì affermato che esso “è ascrivibile alla categoria del sindacato di legalità e di regolarità, di tipo complementare al controllo sulla gestione amministrativa” (sentenza n. 179 del 2007)» (sentenze n. 60 del 2013). Tali controlli, come si anticipava, sono caratterizzati da un esito di tipo “dicotomico” o binario di conformità al parametro normativo.
Detto in altri termini, il Legislatore, accanto al controllo generale di cui all’art. 1, commi da 166 a 172, della legge n. 266 del 2005 e 148-bis TUEL, ha previsto forme di controllo specifico, riguardanti determinate tipologie di spese; ha così istituito il controllo sui regolamenti in questione e, similmente, sugli incarichi oltre una determinata soglia di importo (cfr. infra), come, più di recente, sulle spese di rappresentanza (art. 16, comma 26, del D.L. n. 138/2011, conv. nella Legge n. 148/2011).
Di conseguenza, anche il controllo sui regolamenti deve essere svolto secondo schema “binario” di conformità (C. cost., sent. n. 40/2014), dovendosi assumere a parametro delle disposizioni regolamentari lo statuto dell’ente, i limiti normativi di settore (in particolare l’art. 7 del d.lgs n. 165/2001 e l’art. 110 TUEL) oltre ad ogni altra disposizione legislativa che contenga indicazioni, anche di natura finanziaria, riferite a questa materia.
  
1.2. Fissati i parametri di raffronto, occorre verificare quali siano gli effetti del controllo.
Al riguardo va ricordato che la Corte costituzionale, ricostruendo il quadro complessivo dell’attività di controllo della Corte dei conti nei confronti degli enti locali, ha ritenuto ascrivibile al riesame di legalità e regolarità (alla stessa maniera delle verifiche previste dall’art. 1 comma 166 e seguenti della legge n. 166/2005) anche il controllo ex art. 3, comma 57, della legge n. 244/2007, che ha la caratteristica, in una prospettiva non più statica (come era il tradizionale controllo di legalità), ma dinamica, di finalizzare il confronto tra fattispecie e parametro normativo all’adozione di misure correttive.
Tanto premesso, sotto il profilo sostanziale,
la giurisprudenza della Corte ha da tempo individuato i seguenti principi:
1)
la disciplina dettata dall’art. 3, commi da 54 a 57, della Legge n. 244/2007 stabilisce l’obbligo di normazione regolamentare di limiti, criteri e modalità di affidamento degli incarichi di collaborazione, studio e ricerca, nonché di consulenza, a soggetti estranei all’amministrazione. La competenza ad adottare i regolamenti degli uffici e dei servizi appartiene alla Giunta, nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal Consiglio (art. 48, terzo comma, e art. 42, secondo comma, lett. a), del TUEL);
2)
l’art. 46 del D.L. n. 112/2008, convertito nella Legge n. 133/2008, ha unificato gli incarichi di collaborazione ad alto contenuto professionale e gli incarichi di studio e consulenza, riconducendoli all’interno della tipologia generale di collaborazione autonoma, tutti caratterizzati dal grado di specifica professionalità richiesta. Questi presupposti li distinguono dalle collaborazioni “comuni”, il cui uso è vietato per lo svolgimento delle funzioni ordinarie dell’ente;
3)
quanto alla locuzione “particolare e comprovata specializzazione universitaria”, è stato chiarito che con essa si intende il possesso di conoscenze specialistiche equiparabile a quello che si otterrebbe con un percorso formativo di tipo universitario, basato su conoscenze specifiche inerenti al tipo di attività professionale oggetto dell’incarico. La specializzazione richiesta, per essere “comprovata”, deve essere oggetto di accertamento in concreto condotto sull’esame di documentati curriculari. Il mero possesso formale di titoli non sempre è sufficiente a comprovare l’acquisizione delle richieste capacità professionali;
4)
il nuovo testo dell’art. 7 del D.lgs. n. 165/2001 (TUPI) richiede, come presupposti di legittimità, tutti i requisiti già ritenuti dalla giurisprudenza contabile necessari per il ricorso ad incarichi di collaborazione o di studio. In particolare, quello della corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento all’amministrazione conferente comporta che si possa ricorrere a contratti di collaborazione solo con riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla legge, oltre che previste dal programma approvato dal Consiglio ai sensi dell’art. 42 TUEL;
5)
il comma 3 dell’art. 46 del D.L. n. 112/2008 ha eliminato l’obbligo di individuare nel regolamento il livello massimo di spesa sostenibile, prevedendo invece la fissazione del limite massimo annuale nel bilancio preventivo. È pertanto necessario accertare, in sede di conferimento, l’esistenza di un apposito stanziamento di spesa ed il rispetto del suo limite;
6)
quanto all’oggetto delle collaborazioni autonome, si richiamano le considerazioni contenute nel punto 6 della deliberazione SRC Lombardia n. 37/2008 del 04.03.2008, sull’inapplicabilità della disciplina a materia già autonomamente regolamentata e sulla distinzione tra incarico professionale ed appalto di servizi;
7)
il conferimento dell’incarico deve essere preceduto da procedure selettive di natura concorsuale, adeguatamente pubblicizzate. In proposito si è posto il problema del se, ed in quali limiti, sia consentito l’affidamento diretto dell’incarico. In taluni casi, le amministrazioni fanno riferimento ai limiti previsti nel Codice dei contratti pubblici, D.lgs. n. 163/2006. Tuttavia, la materia è estranea a quella degli appalti di lavori, di beni o servizi e, pertanto, non può farsi ricorso a detti criteri.
Deve invece affermarsi che il ricorso a procedure concorsuali deve essere generalizzato e che può prescindersi solo in circostanze del tutto particolari, come per esempio procedura concorsuale andata deserta, unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo, assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale;

8)
l’atto di incarico deve contenere tutti gli elementi costitutivi ed identificativi previsti per i contratti della Pubblica Amministrazione, in particolare: oggetto della prestazione, durata, modalità di determinazione del corrispettivo, termini di pagamento, verifiche del raggiungimento del risultato (indispensabile in ipotesi di proroga o rinnovo);
9)
in ogni caso, tutti i presupposti che legittimano il ricorso alla collaborazione debbono trovare adeguata motivazione nelle delibere o determinazioni di incarico;
10)
nel regolamento deve essere espressamente precisato che le società partecipate debbono osservare i principi e gli obblighi fissati in materia per gli enti cui appartengono, nonché i criteri per il controllo dell’ente locale sulla relativa osservanza (art. 18 del D.L. 112/2008, SRC Lombardia, n. 350/2011/PAR).
  
1.3. Infine si rammentano i seguenti obblighi di legge.
  
1.3.1. L’art. 15 del d.lgs. n. 33 del 14.03.2013, rafforzando un obbligo già a suo tempo disposto dall’art. 3, comma 54 della Legge 24.12.2007, n. 244 (finanziaria per il 2008) impone alle amministrazioni (anche gli enti locali) che si avvalgono di collaboratori esterni o che affidano incarichi di consulenza di pubblicare: a) gli estremi dell'atto di conferimento dell'incarico; b) il curriculum vitae; c) i dati relativi allo svolgimento di incarichi o di attività professionali; d) i compensi, comunque denominati, relativi al rapporto di consulenza o di collaborazione, con l’indicazione dei soggetti percettori, della ragione dell’incarico e dell’ammontare erogato.
Tale obbligo di pubblicità, è assolto arricchendo i contenuti necessari dei siti web istituzionali indicati dall’articolo 54 del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale), mediante l’inserimento dei richiamati dati nella home page dei siti istituzionali degli enti, all’interno dell’apposita sezione denominata “amministrazione trasparente (cfr. art. 9 del medesimo d.lgs. n. 33/2013).
La medesima disposizione, ai commi 2 e 3, conferma e rinsalda anche le conseguenze e le sanzioni previste dal richiamato art. 3 della finanziaria 2008 per l’ipotesi di mancata pubblicazione dei dati relativi all’affidamento a titolo oneroso dei prefati incarichi a soggetti esterni alla pubblica amministrazione.
In particolare, si prevedono, accanto al vincolo sull’efficacia dei relativi atti di affidamento, le conseguenti responsabilità disciplinari ed erariali in capo ai dirigenti che danno corso al pagamento dei relativi compensi: “
la pubblicazione degli estremi degli atti di conferimento di incarichi […] di collaborazione o di consulenza a soggetti esterni a qualsiasi titolo per i quali è previsto un compenso, completi di indicazione dei soggetti percettori, della ragione dell'incarico e dell'ammontare erogato, nonché la comunicazione alla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della funzione pubblica dei relativi dati ai sensi dell'articolo 53, comma 14, secondo periodo, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 e successive modificazioni, sono condizioni per l'acquisizione dell'efficacia dell'atto e per la liquidazione dei relativi compensi. Le amministrazioni pubblicano e mantengono aggiornati sui rispettivi siti istituzionali gli elenchi dei propri consulenti indicando l'oggetto, la durata e il compenso dell'incarico. […]” (comma 2) ”In caso di omessa pubblicazione di quanto previsto al comma 2, il pagamento del corrispettivo determina la responsabilità del dirigente che l'ha disposto, accertata all'esito del procedimento disciplinare, e comporta il pagamento di una sanzione pari alla somma corrisposta, fatto salvo il risarcimento del danno del destinatario ove ricorrano le condizioni di cui all'articolo 30 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104.”
  
1.3.2. Altrettanto importante è l’obbligo di sottoporre le ipotesi di incarico al parere preventivo dei Revisori. Tale obbligo è stato previsto dall’art. 1, comma 42, Legge n. 311 del 30.12.2004 (finanziaria per il 2005).
In proposito, a fronte di pronunciamenti inizialmente orientati nel senso dell’intervenuta abrogazione della disposizione (cfr. ad esempio, la delibera n. 4/2006/AUT della Sezione delle Autonomie, di approvazione delle Linee guida per l’attuazione dell’art. 1, comma 173 della Legge n. 266 del 2005)
la successiva giurisprudenza costante delle Sezioni regionali di controllo di questa Corte si sono pronunciate per la permanenza in vigore dell’art. 1, comma 42, della Legge n. 311/2004 (cfr. SRC Lombardia, deliberazioni nn. 213/2010; 506/2010; cfr. anche SRC Piemonte 69/2011).
  
1.3.3. Infine, si rammenta l’obbligo di invio alla Corte dei conti degli gli incarichi di importo superiore a € 5.000,00: l’art. 1, comma 173, della Legge 23.12.2005, n. 266, infatti, ha previsto che gli atti di spesa relativi ai precedenti commi 9, 10, 56 e 57 di importo superiore a € 5.000,00 devono essere trasmessi alla competente sezione della Corte dei conti per l’esercizio del controllo successivo sulla gestione, di tipo “dicotomico”, di cui alla L. 266/2005.
Questa Corte ha già affermato che “
l’accertamento dell’illegittimità per il mancato rispetto di una o più dei requisiti di Legge (talora verificabile nei limiti di sindacabilità di scelte discrezionali) comporta, da un lato, l’obbligo di rimuovere, ove possibile, l’atto con un provvedimento di secondo grado e, dall’altro, la responsabilità del soggetto che lo ha posto in essere” (SRC Lombardia, n. 244/2008).
Anche in questo caso, come si è già sottolineato, il Legislatore accanto al controllo generale di cui all’art. 1, commi da 166 a 172, della legge n. 266 del 2005 e 148-bis TUEL ha previsto forme di controllo specifico, riguardante determinate tipologie di spese.
  
2. Nel caso specifico, in merito al Regolamento del Comune di Caserta, si osserva quanto segue, con riguardo alla previsione di cui al 6§2. Tale disposizione regolamentare prevede che «Sono escluse dalle procedure comparative e dagli obblighi di pubblicità le sole prestazioni meramente occasionali che si esauriscono in una prestazione episodica, non riconducibile a fasi di piani o programmi del committente e che si svolge in maniera del tutto autonoma, anche rientranti nelle fattispecie indicate al comma 6 dell'art. 53 del D.Lgs. 165 del 2001».
La previsione non è conforme a legge.

Sul punto, il Collegio non ignora che, in effetti, la previsione è conforme al contenuto della Circolare n. 2/2008 della Presidenza del Consiglio.
In merito, peraltro, si osserva che
l’occasionalità è una caratteristica strutturale di tutti i provvedimenti di incarico esterno, venuta meno la quale, in ragione del carattere stabile del bisogno amministrativo che si intende soddisfare, l’ente sarebbe tenuto a farvi fronte con un impiego stabile ovvero ad esternalizzare in appalto (cfr. supra, a proposito della ratio dell’art. 7 TUPI e la sua connessione con l’art. 36 dello stesso Testo unico).
Per tale ragione
non pare corretta l’astratta distinzione tra occasionalità e mera” occasionalità, in quanto non fornisce alcun criterio discriminativo implicito o altrimenti ricavabile dalla ratio sottesa all’art. 7 TUPI; piuttosto essa appare prefigurare una clausola per deroghe de facto alla regola della procedura comparativa, simile a quella della soglia minima per valore, pacificamente ritenuta illegittima da questa Corte (cfr. ex plurimis, Sez. centr. contr. leg. n. 12/2011).
Infatti, come nei casi delle soglie di valore di irrilevanza ai fini della procedura comparativa, non si può che ribadire che
gli enti sono tenuti alla stretta osservanza del principio dell’evidenza pubblica nell’assegnazione degli incarichi. In altre parole, la normativa primaria di cui all’art. 7, comma 6-bis, del D.lgs. n. 165/2001 non consente alcuna deroga alle procedure comparative, se non con successiva norma di pari rango, allo stato attuale non esistente.
Pertanto, la conformità della norma regolamentare alla Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 2/2008 non esime la disposizione da censure, sia per la natura dell’atto giuridico in questione, che non è una fonte del diritto, sia per l’indiscussa giurisprudenza contabile, la quale ha mostrato ripetutamente il proprio orientamento restrittivo verso eccezioni “interpretative” alla regola dell’evidenza pubblica.
In definitiva, atteso che la richiamata norma è espressione dei principi costituzionali di buon andamento e di imparzialità delle amministrazioni pubbliche –attraverso, appunto, la previsione di procedura concorsuale per l’affidamento di tali incarichi– se ne deve dedurre che
i soggetti pubblici destinatari della norma possono, secondo i loro ordinamenti, semplicemente adattare e indicare le modalità di selezione e pubblicità delle procedure, non disciplinarne gli stessi presupposti.
La doverosa osservanza della norma primaria non consente, quindi, alcuna deroga da parte degli ordinamenti delle singole amministrazioni tenute all’osservanza della disciplina dell’art. 7 TUPI. Diversamente opinando, invero, si consentirebbe agli enti pubblici in questione di stabilire “ad libitum”, attraverso i propri statuti e regolamenti, categorie che, per quantità o qualità dell’incarico, sono sottratte alle procedure concorsuali, così svuotando di contenuto, tra l’altro, la stessa norma sul controllo (perché inibita a controllare la spesa pubblica ogni qualvolta vengano poste eccezioni alle procedure secondo parametri di merito non sottoposti a controllo e variabili da ente a ente).
Ne conseguirebbe, quindi, che il controllo della Corte sulla materia sarebbe limitato principalmente al corretto rispetto della soglia prevista dalla normativa statutaria e regolamentare, con aperta violazione dei principi di imparzialità garantiti costituzionalmente
(Corte dei Conti, Sez. controllo Campania, parere 14.11.2014 n. 235).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSe una dipendente del Comune, titolare di posizione organizzativa, è stata nominata dall'assemblea dei soci di una società totalmente partecipata da enti locali quale membro del Consiglio di Amministrazione ed i relativi compensi vengono liquidati dalla società direttamente al Comune, alla luce del principio di onnicomprensività della retribuzione, con riferimento all'indennità di posizione organizzativa prevista dal CCNL del comparto Regioni-Autonomie locali, nessun compenso aggiuntivo può essere riconosciuto alla dipendente.
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La norma prevede la possibilità di riassegnare le somme pervenute all'amministrazione al Fondo per il finanziamento del trattamento economico accessorio.
Tuttavia, in base alle disposizioni dell'art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, convertito con legge n. 122/2010, e successive modifiche e integrazioni, il predetto fondo per il periodo 2011-2014, non può superare il corrispondente importo dell'anno 2010 ed è, comunque, automaticamente ridotto in misura proporzionale alle cessazioni del personale in servizio.
Conseguentemente, non v'è possibilità di incrementare il fondo per il finanziamento del trattamento economico accessorio, che andrebbe a vantaggio dei dipendenti non incaricati di posizioni organizzativa, in misura pari alla somma percepita dal comune a titolo di compenso per la partecipazione, alle riunioni del CdA di società partecipata, di una propria dipendente.

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Il Sindaco del comune di Cermenate, con nota ricevuta in data 03.10.2014, ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto i compensi assembleari attribuiti per la partecipazione di dipendenti pubblici ai consigli di amministrazione.
Premette che l'art. 16 del d.l. n. 90/2014, convertito con modificazioni nella legge n. 114/2014, nel sostituire l’art. 4, comma 4, del d.l. n. 95/2012, convertito con legge n. 135/2012, ha previsto che "i consigli di amministrazione delle società controllate direttamente o indirettamente dalle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, che abbiano conseguito nell'anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di amministrazioni pubbliche superiore al 90 per cento dell'intero fatturato devono essere composti da non più di tre membri, ferme restando le disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi di cui al decreto legislativo 08.04.2013, n. 39. A decorrere dal 01.01.2015, il costo annuale sostenuto per i compensi degli amministratori di tali società, ivi compresa la remunerazione di quelli investiti di particolari cariche, non può superare l’80 per cento del costo complessivamente sostenuto nell'anno 2013. In virtù del principio di onnicomprensività della retribuzione, qualora siano nominati dipendenti dell'amministrazione titolare della partecipazione, o della società controllante in caso di partecipazione indiretta o del titolare di poteri di indirizzo e di vigilanza, fatto salvo il diritto alla copertura assicurativa e al rimborso delle spese documentate, nel rispetto del limite di spesa di cui al precedente periodo, essi hanno l'obbligo di riversare i relativi compensi all'amministrazione o alla società di appartenenza e, ove riassegnabili, in base alle vigenti disposizioni, al fondo per il finanziamento del trattamento economico accessorio".
Tali disposizioni si applicano anche ai consigli di amministrazione delle altre società a totale partecipazione pubblica, diretta o indiretta.
Una dipendente del Comune, titolare di posizione organizzativa, è stata nominata dall'assemblea dei soci di una società totalmente partecipata da enti locali quale membro del Consiglio di Amministrazione ed i relativi compensi vengono liquidati dalla società direttamente al Comune. Alla luce del principio di onnicomprensività della retribuzione, con riferimento all'indennità di posizione organizzativa prevista dal CCNL del comparto Regioni-Autonomie locali, nessun compenso aggiuntivo, ritiene l‘istante, può essere riconosciuto alla dipendente.
La norma sopra richiamata prevede la possibilità di riassegnare le somme pervenute all'amministrazione al Fondo per il finanziamento del trattamento economico accessorio.
Tuttavia, in base alle disposizioni dell'art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, convertito con legge n. 122/2010, e successive modifiche e integrazioni, il predetto fondo per il periodo 2011-2014, non può superare il corrispondente importo dell'anno 2010 ed è, comunque, automaticamente ridotto in misura proporzionale alle cessazioni del personale in servizio.
Alla luce di tali premesse, il sindaco chiede un parere circa la possibilità di incrementare il fondo per il finanziamento del trattamento economico accessorio, che andrebbe a vantaggio dei dipendenti non incaricati di posizioni organizzativa, in misura pari alla somma percepita dal comune a titolo di compenso per la partecipazione, alle riunioni del CdA di società partecipata, di una propria dipendente.
Ritiene, infatti, l’istante che tali risorse non vadano considerate ai fini del limite stabilito dal citato art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, in quanto provenienti da soggetti estranei all'amministrazione comunale, come già avviene, ad esempio, per i fondi (e conseguenti compensi) erogati dall'ISTAT per il censimento generale della popolazione, le quote per il c.d. incentivo alla progettazione ex art. 93, commi 7-bis e seguenti, del d.lgs. n. 163/2006 (cfr. artt. 13 e 13-bis d.l. n. 90/2014, convertito con legge n. 114/2014) ed i compensi professionali erogabili agli avvocati interni a seguito di sentenze favorevoli all'amministrazione.
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L’art. 16 del d.l. n. 90/2014, convertito con legge n. 114/2014 (Nomina dei dipendenti nelle società partecipate), nel sostituire il comma 4 dell'articolo 4 del d.l. n. 95/2012, convertito con legge n. 135/2012, ha previsto quanto segue: “Fatta salva la facoltà di nomina di un amministratore unico, i consigli di amministrazione delle società controllate direttamente o indirettamente dalle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, che abbiano conseguito nell'anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di amministrazioni pubbliche superiore al 90 per cento dell'intero fatturato devono essere composti da non più di tre membri, ferme restando le disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi di cui al decreto legislativo 08.04.2013, n. 39. A decorrere dal 01.01.2015, il costo annuale sostenuto per i compensi degli amministratori di tali società, ivi compresa la remunerazione di quelli investiti di particolari cariche, non può superare l'80 per cento del costo complessivamente sostenuto nell'anno 2013. In virtù del principio di onnicomprensività della retribuzione, qualora siano nominati dipendenti dell'amministrazione titolare della partecipazione, o della società controllante in caso di partecipazione indiretta o del titolare di poteri di indirizzo e di vigilanza, fatto salvo il diritto alla copertura assicurativa e al rimborso delle spese documentate, nel rispetto del limite di spesa di cui al precedente periodo, essi hanno l'obbligo di riversare i relativi compensi all'amministrazione o alla società di appartenenza e, ove riassegnabili, in base alle vigenti disposizioni, al fondo per il finanziamento del trattamento economico accessorio”.
Allo stesso modo il comma 5 del predetto d.l. n. 95/2012 è stato sostituito, sempre dall’art. 16 del citato d.l. n. 90/2014, nei seguenti termini: “Fermo restando quanto diversamente previsto da specifiche disposizioni di legge e fatta salva la facoltà di nomina di un amministratore unico, i consigli di amministrazione delle altre società a totale partecipazione pubblica, diretta o indiretta, devono essere composti da tre o da cinque membri, tenendo conto della rilevanza e della complessità delle attività svolte. A tali società si applica quanto previsto dal secondo e dal terzo periodo del comma 4”.
Infine, sempre l’art. 16 in discorso precisa, quale regola di diritto intertemporale, che “fatto salvo quanto previsto in materia di limite ai compensi, le disposizioni del comma 1 si applicano a decorrere dal primo rinnovo dei consigli di amministrazione successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto”.
La disciplina dei compensi percepiti dai dipendenti di enti locali nominati nei consigli d’amministrazione delle società in mano pubblica è stata già oggetto di attenzione da parte della Sezione in più occasioni. In particolare, nella deliberazione n. 96/2013/PAR, emessa in riscontro a specifico quesito proposto in ordine all’interpretazione del previgente testo dell’art. 4, commi 4 e 5, del d.l. n. 95/2012, convertito con legge n. 135/2012, si è esaminato il dubbio interpretativo proposto nel presente parere.
Come evidenziato nell’indicata deliberazione le ipotesi contemplate dalla normativa sono due (i compensi erogati ai dipendenti nominati nei consigli di amministrazione delle società controllate, direttamente o indirettamente, da pubbliche amministrazioni, che abbiano conseguito nell'anno 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di amministrazioni pubbliche superiore al 90 per cento dell'intero fatturato; i compensi erogati ai dipendenti nominati nei consigli di amministrazione delle altre società a totale partecipazione pubblica diretta o indiretta), assoggettate, tuttavia, in punto di destinazione e distribuzione dei compensi, alla medesima disciplina.
Detti emolumenti, infatti, nel caso in cui nell’organo di amministrazione della società partecipata sia nominato un dipendente dell’ente locale socio non possono essere erogati direttamente al funzionario o dirigente che espleta l’incarico, ma devono essere versati alla pubblica amministrazione designante, per poi confluire, ove riassegnabili in base alle vigenti disposizioni, al fondo per il finanziamento del trattamento economico accessorio.
Va precisato che, rispetto alla previgente disciplina, che imponeva la nomina un predeterminato numero di dipendenti dell’ente locale nei consigli d’amministrazione delle società partecipate sopra indicate, l’art. 16 del d.l. n. 90/2014 ha reso facoltativa tale presenza (“qualora siano nominati dipendenti dell'amministrazione titolare della partecipazione”). Sotto tale profilo, si ricorda come la predetta disposizione di coordinamento di finanza pubblica si limiti a disciplinare le modalità di composizione dei consigli d’amministrazione di società partecipate da enti pubblici, nonché la quantificazione (cui pone un tetto) e destinazione (cui impone l’obbligo di riversamento in caso di nomina di dipendenti pubblici) dei compensi eventualmente attribuiti.
Non impatta, invece, su altri aspetti della disciplina legislativa in materia di pubblico impiego, per esempio in punto di esigibilità della prestazione eventualmente richiesta dall’amministrazione al proprio dipendente (che troverà soluzione applicativa negli artt. 2, 52 e 53 del d.lgs. n. 165/2001) o di concreta possibilità di confluenza dei compensi versati nelle casse dell’amministrazione ai fondi per la contrattazione integrativa (rimessa all’analisi dei pertinenti contratti collettivi nazionali di comparto, come già evidenziato nel parere della Sezione n. 96/2013).
Venendo nello specifico al dubbio posto dal comune istante, appare opportuno richiamare il testo dell’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, introdotto dalla legge di conversione n. 122/2010, che, dopo le modifiche apportate dall’art. 1, comma 456, della legge n. 147/2013, così recita: “
A decorrere dal 01.01.2011 e sino al 31.12.2014 l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo dell’anno 2010 ed è, comunque, automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio. A decorrere dal 01.01.2015, le risorse destinate annualmente al trattamento economico accessorio sono decurtate di un importo pari alle riduzioni operate per effetto del precedente periodo”.
Le Sezioni Riunite della Corte dei conti, in sede nomofilattica, si sono espresse sulla latitudine operativa della disposizione (SSRR, QM 51/CONTR/11, 04.10.2011). Dal predetto pronunciamento
si evince come le risorse da assoggettare a contenimento siano, in primo luogo, quelle che confluiscono, in virtù dei vari contratti collettivi nazionali di comparto, nel fondo destinato alla contrattazione decentrata.
La Sezione Lombardia aveva già rilevato, nell’uniformarsi al ridetto pronunciamento delle Sezioni Riunite in sede di controllo (in aderenza alla funzione di orientamento generale attribuita dalla legge, cfr. art. 17, comma 31, d.l. n. 78/2009, convertito con legge n. 102/2009), come, in base al predetto orientamento emergesse una nozione di “trattamento accessorio” che lasciava aperte alcune problematiche applicative (cfr. deliberazione n. 59/2012/PAR), per esempio in tema di risorse per il lavoro straordinario (ritenute dalla Sezione ugualmente soggette a limitazione, cfr. deliberazioni n. 423/2012/PAR e n. 49/2013/PAR).
Nello stesso tempo, la scrivente Sezione regionale ha sempre ribadito, sulla scorta di quanto statuito dalle Sezioni Riunite nella citata deliberazione n. 51/CONTR/2011, del quadro normativo di riferimento e della sua ratio, che
l’art. 9, comma 2-bis, in esame, è disposizione che, in via di principio, non ammette deroghe o esclusioni, in quanto la regola generale, voluta dal legislatore, è di porre un limite alla crescita del trattamento accessorio spettante ai dipendenti degli enti pubblici.
Di recente la Sezione delle Autonomie, con la deliberazione n. 26/2014/QMIG, ha aggiunto un importante tassello all’interpretazione del disposto normativo, precisando, in ordine a quanto statuito in precedenza nella deliberazione delle Sezioni Riunite n. 51/2011/QM,
come la disciplina dell’art. 9, comma 2-bis, si applichi sia alle risorse del bilancio imputate al fondo per la contrattazione integrativa (come previsto e disciplinato dal CCNL), quanto alle risorse direttamente stanziate nel bilancio dell’ente destinate al trattamento accessorio del personale (nello specifico, a copertura degli oneri relativi all’indennità di posizione organizzativa nei Comuni privi di personale dirigenziale).
La disposizione di cui all’art. 9, comma 2-bis, è inserita, infatti, in un complesso di norme volte a perseguire analoghi obiettivi di riduzione della spesa di personale, la cui funzione pratica, con riferimento alle componenti del trattamento accessorio, si traduce in un rafforzamento del limite posto alla loro crescita complessiva a garanzia del contenimento della dinamica retributiva del personale. Tale norma è da considerare, conclude la Sezione delle Autonomie (come già avevano fatto le Sezioni Riunite), di stretta interpretazione e non consente limitazioni del suo nucleo precettivo.
Le uniche eccezioni che le Sezioni Riunite nella deliberazione n. 51/CONTR/2011 (opinione confermata nella recente pronuncia della Sezione delle Autonomie n. 26/2014/QMIG) hanno ritenuto non comprese nell’ambito applicativo dell’art. 9, comma 2-bis, sono quelle destinate a remunerare prestazioni professionali tipiche di dipendenti individuati o individuabili, che, in alternativa, dovrebbero essere acquisite attraverso il ricorso all’esterno, con possibili costi aggiuntivi per il bilancio dei singoli enti (caratteristica riconosciuta per le risorse finalizzate a incentivare le prestazioni poste in essere per la progettazione di opere pubbliche e per quelle tese a remunerare le prestazioni professionali dell’avvocatura interna).
Anche nella deliberazione n. 96/20132/PAR era stato evidenziato come l’eventuale integrazione del fondo per la contrattazione integrativa, già previsto dalla formulazione previgente dell’art. 4, commi 4 e 5, del d.l. n. 95/2012, convertito con legge n. 135/2012, doveva comunque osservare, in concreto, i limiti previsti dalla legge per l’invarianza del trattamento economico individuale (fisso ed accessorio), nonché i tetti posti ai fondi per la contrattazione integrativa (cfr. art. 9, commi 1 e 2-bis, del d.l. n. 78/2010, convertito con legge n. 122/2010).
La Sezione, anche alla luce di quanto recentemente affermato dalla Sezione delle Autonomie nella deliberazione n. 26/2014/QMIG, ritiene di confermare il predetto orientamento, in ragione dell’esposta ampia latitudine applicativa del precetto posto dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010.
Non sembra ricorrere nello specifico, inoltre, il presupposto, valorizzato dal comune istante, dell’integrazione delle risorse del fondo a mezzo di finanziamenti finalizzati provenienti da soggetti terzi (che, per inciso, nella parallela materia dei tetti posti all’ammontare complessivo della spesa di personale sono stati limitati solo a quelli provenienti dall’Unione europea o da privati, cfr. Sezione delle Autonomie, deliberazione n. 21/2014/QMIG).
Si tratterebbe, infatti, di risorse che l’ente locale incassa da una società partecipata, che consegue parte preponderante, se non totalitaria, del proprio fatturato da commesse direttamente affidate dallo stesso ente pubblico socio (e/o dagli enti soci) o da servizi erogati alla cittadinanza in virtù di un provvedimento di concessione direttamente attribuito dall’ente socio (e/o dagli enti soci) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 25.11.2014 n. 325).

APPALTISussiste la disapplicazione dell’obbligo di richiedere i diritti di segreteria, ai sensi dell’art. 40 della legge 08.06.1962, n. 604, nell’ipotesi di stipula di contratti stipulati a seguito del ricorso a gare telematiche di acquisto.
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Il sindaco del comune di Travedona Monate (VA) ha formulato alla Sezione una richiesta di parere in materia di diritti di segreteria e strumenti informatici di acquisto (art. 13 d.l. 52 del 06.07.2012, convertito dalla legge 94 del 06.07.2012) del seguente tenore: ”Qualora si debba procedere alla sottoscrizione con atto pubblico amministrativo per l'affidamento di un servizio o di un lavoro, la cui gara è stata espletata attraverso la piattaforma elettronica Sintel e quindi mediante strumenti informatici di acquisto, sono dovuti, da parte della Ditta aggiudicatrice i diritti di segreteria? Il mancato introito in percentuale dei diritti di segreteria comporta un danno erariale per il comune?”.
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L’applicazione della disciplina in tema di utilizzo degli strumenti informatici e telematici per l’acquisito di beni e servizi da parte delle pubbliche amministrazioni locali, appare scevra di dubbio interpretativi. La norma disciplina esattamente il caso prospettato dall’amministrazione interpellante. La normativa in tema di revisione della spesa è inderogabile e cogente per gli enti destinatari, trattandosi di espressa applicazione del principio di coordinamento della finanza pubblica locale.
Le disposizioni introdotte con il D.L. 07.05.2012, n. 52 (c.d. primo decreto in tema di revisione della spesa) hanno semplificato il ricorso agli strumenti telematici per l’acquisto di beni o servizi da parte delle amministrazioni locali. A seguito dell’obbligo di utilizzo delle gare gestite con strumenti informatici (ad es. Sistema Sintel predisposto da ARCA in Lombardia; Me.Pa.).
L’art. 13 del citato primo decreto “spending review” ha testualmente previsto la disapplicazione dell’obbligo di richiedere i diritti di segreteria, ai sensi dell’art. 40 della legge 08.06.1962 n. 604, nell’ipotesi di stipula di contratti stipulati a seguito del ricorso a gare telematiche di acquisto (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 13.11.2014 n. 301).

INCARICHI PROFESSIONALII presupposti di legittimità per il ricorso ad incarichi di collaborazione sono specificamente enucleati dall’art. 7 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165 (norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).
I citati presupposti costituiscono la codificazione di quanto ampiamente affermato dalla giurisprudenza contabile in ordine al conferimento di atti riferiti all’estesa tipologia di spese soggette a controllo da parte della Sezione (le consulenze, gli studi, le ricerche, le spese per relazioni, rappresentanza, mostre, convegni, pubblicità).
In particolare,
la disciplina vigente prevede che:
a)
l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell'amministrazione conferente; è stato in proposito chiarito che: “il requisito della corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento all’amministrazione conferente è determinato dal poter ricorrere a contratti di collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla legge";
b)
l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno.
Al proposito va rammentato che, in base ai principi generali di organizzazione amministrativa,
gli enti pubblici devono di norma svolgere i compiti istituzionali avvalendosi di proprio personale. Tale regola trae il suo fondamento dal principio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione e il conferimento degli incarichi di consulenza a professionisti esterni alla P.A. si pone come eccezione in presenza di speciali e peculiari condizioni. D’altro canto il legislatore ha ormai da ben oltre un decennio previsto in linea generale l’eccezionalità del ricorso a collaborazioni esterne condizionandolo all’assenza di personale idoneo (art. 7, co. 6, d.lgs. n. 165/2001), ribadendo più volte tale regola e la necessità di fornire adeguata motivazione in caso di ricorso all’esterno dell’amministrazione;
c)
la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata e deve soddisfare esigenze straordinarie ed eccezionali; non è ammesso il rinnovo; l'eventuale proroga dell'incarico originario è consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di affidamento dell'incarico;
d)
devono essere preventivamente determinati durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione;
e)
deve sussistere il requisito della “comprovata specializzazione anche universitaria”: le amministrazioni, per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, possono conferire incarichi individuali (con contratti di lavoro autonomo professionale, occasionale o di collaborazione coordinata e continuativa) a esperti muniti di tale requisito.
Si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione universitaria in caso di stipulazione di contratti di collaborazione di natura occasionale o coordinata e continuativa per attività che debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che operino nel campo dell'arte, dello spettacolo, dei mestieri artigianali o dell’attività informatica nonché a supporto dell’attività didattica e di ricerca, per i servizi di orientamento, compreso il collocamento, e di certificazione dei contratti di lavoro di cui al decreto legislativo 10.09.2003, n. 276, purché senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ferma restando la necessità di accertare la maturata esperienza nel settore.

Va inoltre aggiunto, sotto un profilo generale, che
in caso di conferimento di un incarico di studio o di consulenza occorre altresì osservare i limiti di spesa introdotti dall’art. 6, co. 7, d.l. 78/2010 convertito con legge. n. 122/2010 e s.m.i..

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L’Azienda Sanitaria Locale TO 2 (in seguito l’Azienda Sanitaria), con nota pervenuta in data 11.02.2014 prot. n. 2131, ha trasmesso a questa Sezione Regionale di Controllo, ai sensi dell’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266, una serie di deliberazioni del Direttore Generale ed in particolare la deliberazione n. 41 del 24.01.2014 (munita dei pareri favorevoli del direttore sanitario e del direttore amministrativo), avente ad oggetto l’affidamento di un incarico di assistenza legale “a seguito di richiesta di pagamento sanzioni amministrative per prescrizioni in materia di sicurezza e salute sul lavoro” a favore dell’….(omissis)… per un spesa di € 5.000,00 oltre oneri accessori.
Per inciso va sottolineato che nell’ambito della predetta trasmissione veniva altresì inoltrata la deliberazione n. 38 del 24.01.2014 avente ad oggetto la liquidazione di spese legali a favore di un proprio dipendente quale rimborso delle spese sostenute nell’ambito di un processo penale all’esito di un giudizio definito positivamente per il medesimo, ai sensi dell’art. 25 del CCNL del 1998-2001 del relativo comparto, provvedimento in relazione al quale alcun rilievo è stato mosso ma che –in questa sede- assume un rilevanza indiretta in relazione ad un profilo inerente alla concreta attiva posta in essere dalla P.A. a seguito dell’atto oggetto di controllo.
Dall’esame della deliberazione n. 41/2014, come rilevato con la prima nota istruttoria, si è evinto che non risultava: la previa procedura comparativa per la scelta dell’incaricato, la previa ricognizione dell’assenza di strutture organizzative o professionalità interne all’ente in grado di svolgere l’incarico, né l’avvenuta pubblicazione sul sito web dell’incarico.
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I. L’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266, ha previsto che gli atti di spesa relativi ai precedenti commi 9, 10, 56 e 57 di importo superiore a 5.000 euro devono essere trasmessi alla competente sezione della Corte dei conti per l'esercizio del controllo successivo sulla gestione. La finalità di tale previsione normativa è riconducibile all’accertamento, di tipo collaborativo, da parte della Corte, dell’idoneità dell’attività amministrativa posta in essere dagli enti controllati a raggiungere determinati risultati, attraverso una verifica della sua efficacia, efficienza ed economicità, che non può comunque prescindere da un riscontro della conformità della stessa a norme giuridiche.
La giurisprudenza contabile ha già affermato che ”l’accertamento dell’illegittimità per il mancato rispetto di uno o più dei requisiti di legge (talora verificabile nei limiti di sindacabilità di scelte discrezionali) comporta da un lato l’obbligo di rimuovere, ove possibile, l’atto con un provvedimento di secondo grado e dall’altro la responsabilità del soggetto che lo ha posto in essere” (Sez. reg. contr. Lombardia, n. 244/2008).
Preliminarmente alla verifica di conformità alla legge dell’incarico conferito dalla Azienda sanitaria occorre rammentare che
i presupposti di legittimità per il ricorso ad incarichi di collaborazione sono specificamente enucleati dall’art. 7 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165 (norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche). I citati presupposti costituiscono la codificazione di quanto ampiamente affermato dalla giurisprudenza contabile in ordine al conferimento di atti riferiti all’estesa tipologia di spese soggette a controllo da parte della Sezione (le consulenze, gli studi, le ricerche, le spese per relazioni, rappresentanza, mostre, convegni, pubblicità), in tal senso, si può richiamare il recente parere 25.10.2013 n. 362 di questa Sezione).
In particolare,
la disciplina vigente prevede che:
a)
l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell'amministrazione conferente; è stato in proposito chiarito che: “il requisito della corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento all’amministrazione conferente è determinato dal poter ricorrere a contratti di collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla legge (Sez. contr. Reg. Lombardia,
parere 11.02.2009 n. 37, nonché Sez. Reg. Lombardia, n. 244/2008);
b)
l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno.
Al proposito va rammentato che, in base ai principi generali di organizzazione amministrativa,
gli enti pubblici devono di norma svolgere i compiti istituzionali avvalendosi di proprio personale. Tale regola trae il suo fondamento dal principio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione e il conferimento degli incarichi di consulenza a professionisti esterni alla P.A. si pone come eccezione in presenza di speciali e peculiari condizioni. D’altro canto il legislatore ha ormai da ben oltre un decennio previsto in linea generale l’eccezionalità del ricorso a collaborazioni esterne condizionandolo all’assenza di personale idoneo (art. 7, co. 6, d.lgs. n. 165/2001), ribadendo più volte tale regola e la necessità di fornire adeguata motivazione in caso di ricorso all’esterno dell’amministrazione;
c)
la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata e deve soddisfare esigenze straordinarie ed eccezionali; non è ammesso il rinnovo; l'eventuale proroga dell'incarico originario è consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di affidamento dell'incarico;
d)
devono essere preventivamente determinati durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione;
e)
deve sussistere il requisito della “comprovata specializzazione anche universitaria”: le amministrazioni, per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, possono conferire incarichi individuali (con contratti di lavoro autonomo professionale, occasionale o di collaborazione coordinata e continuativa) a esperti muniti di tale requisito.
Si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione universitaria in caso di stipulazione di contratti di collaborazione di natura occasionale o coordinata e continuativa per attività che debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che operino nel campo dell'arte, dello spettacolo, dei mestieri artigianali o dell’attività informatica nonché a supporto dell’attività didattica e di ricerca, per i servizi di orientamento, compreso il collocamento, e di certificazione dei contratti di lavoro di cui al decreto legislativo 10.09.2003, n. 276, purché senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ferma restando la necessità di accertare la maturata esperienza nel settore.

Va inoltre aggiunto, sotto un profilo generale, che
in caso di conferimento di un incarico di studio o di consulenza occorre altresì osservare i limiti di spesa introdotti dall’art. 6, co. 7, d.l. 78/2010 convertito con legge. n. 122/2010 e s.m.i. (salve particolari ipotesi.; es. la copertura della spesa mediante finanziamenti aggiuntivi e specifici trasferiti da altri soggetti pubblici o privati, cfr. sez. contr. Piemonte parere 25.10.2013 n. 362).
  
II. Esaurita questa breve ricognizione dei presupposti di legittimità per il conferimento dell’incarico occorre evidenziare che all’esito dei chiarimenti forniti dalla Azienda Sanitaria a mezzo delle varie risposte e dei documenti inviati nel corso dell’espletata istruttoria, mentre per gli aspetti inerenti alla pubblicazione sul sito web dell’ente risultano essere state fornite indicazioni adeguate e sufficienti, non può dirsi ugualmente in ordine alla procedura utilizzata per il conferimento dell’incarico. Va inoltre evidenziato che problematiche risultano residuare quanto alla previa ricognizione dell’assenza di strutture e professionalità interne all’ente in grado di far fronte all’incarico e ad ulteriori aspetti concernenti l’affidamento dell’incarico in questione e la vicenda sottostante.
Preliminarmente occorre puntualizzare la natura dell’incarico conferito all’…(omissis)... nell’ambito del controllo successivo esercitato da questa sezione. Va infatti evidenziato che la deliberazione n. 41/2014, oggetto del presente procedimento di controllo, trasmessa quale incarico di assistenza legale come risultante dal tenore letterale dell’oggetto e della stessa parte dispositiva, è stata dunque rappresentata quale atto di conferimento di un incarico esterno in ambito stragiudiziale. Tuttavia all’esito dell’articolata attività istruttoria la natura dello stesso incarico si è rivelata invero parzialmente differente e la sottostante realtà si e dimostrata ben diversa e molto più articolata di quanto ufficialmente e sinteticamente riportato nel provvedimento assunto dal Direttore Generale.
Invero l’analisi dei documenti e delle risposte istruttorie ha consentito di accertare che per effetto della deliberazione 41/2014 l’A.S.L. TO 2 ha incaricato …(omissis)… di effettuare le opportune valutazioni e le eventuali modifiche alle procedure afferenti la sicurezza sui luoghi di lavoro dell’azienda sanitaria, consegnando allo stesso la relativa documentazione (nota di risposta pervenuta il 20.06.2014 prot. n. 6766), con riesame dell’organizzazione delle deleghe (nota pervenuta il 26.02.2014, prot. n. 2615). Inoltre al legale è stato conferito altresì un incarico in ambito giudiziale, ma contrariamente a quanto dichiarato in sede di risposta istruttoria, l’Azienda non ha incaricato l’…(omissis)… di proporre un ricorso avverso le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate.
Invero quanto all’avvenuta proposizione di un ricorso in via giurisdizionale amministrativa in nome e per conto dell’ASL TO 2 non vi è alcuna documentazione. Di contro, dalla lettura degli atti è emerso che l’…(omissis)… è stato incaricato della difesa personale del Direttore Generale nell’ambito del procedimento penale R.G.N.R. 1838/14, tanto che lo stesso legale in data 20.03.2014 ha presentato una memoria difensiva ex art. 367 c.p.p. all’autorità inquirente. Dall’esame complessivo degli atti emerge dunque che in realtà non sia stato presentato alcun ricorso in nome e per conto dell’Azienda sanitaria avverso sanzioni amministrative. In realtà nel caso di specie trattandosi di sanzioni per violazione delle norme sulla sicurezza sui luoghi di lavoro, viene in rilievo la disciplina di cui al d.lgs. n. 81/2008, segnatamente gli artt. 29, 64 e 65 del citato d.lgs., la cui violazione dà luogo (ex art. 301) all’applicazione delle disposizioni in materia di prescrizione ed estinzione del reato di cui agli articoli 20, e seguenti, del decreto legislativo 19.12.1994, n. 758.
Conseguentemente nella suddetta vicenda risultano essere state riscontrate violazioni alla disciplina sulla sicurezza sui luoghi di lavoro, che hanno dato luogo all’avvio di un procedimento penale ovviamente nei confronti di una persona fisica, come del resto esplicitato nelle avvertenze e prescrizioni (punti 6-7-8-9-) al verbale di ispezione e prescrizioni V45/13 dello Spresal dell’ASL TO4.
In conseguenza di ciò
è quindi emerso che con il provvedimento de quo all’…(omissis)… è stato conferito un incarico composito in parte di natura stragiudiziale correlato all’analisi ed alla revisione delle procedure afferenti la sicurezza sui luoghi di lavoro dell’azienda ed in parte di natura giudiziale, peraltro non già per la rappresentanza e tutela dell’Azienda Sanitaria, ma bensì per la difesa di una persona fisica nell’ambito del procedimento scaturito dall’ispezione (sfociata nel verbale V45/13) degli ufficiali di polizia giudiziaria dello Spresal dell’ASL TO4.
Chiarita la natura del tutto peculiare dell’incarico in questione occorre analizzare gli elementi problematici afferenti al controllo sulla gestione del provvedimento conferito con la deliberazione n. 41/2014.
  
II.1. In primo luogo va evidenziato il fatto che l’incarico in questione (in parte come detto di natura stragiudiziale) è stato conferito in assenza di una previa procedura comparativa.
In proposito si osserva che
l’obbligo di seguire procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione è puntualmente declinato nel comma 6-bis del richiamato art. 7 D.Lgs. n. 165/2001. Tale obbligo è considerato dalla giurisprudenza amministrativa un adempimento essenziale per la legittima attribuzione di incarichi di collaborazione; in proposito è stato affermato che “il conferimento di incarichi di collaborazione esterna da parte delle P.A. deve avvenire previo esperimento di procedure para-selettive e non già in base alla sola valutazione di idoneità del prescelto (TAR Puglia n. 494 del 19.02.2007).
Tale obbligo deve ritenersi generalizzato, in ossequio ai principi generali di trasparenza, pubblicità e massima partecipazione: la giurisprudenza amministrativa ha poi ricordato che “
l'affidamento di incarichi di consulenza e/o di collaborazione da conferire a soggetti esterni alla Pubblica amministrazione non può prescindere dal preventivo svolgimento di una selezione comparativa adeguatamente pubblicizzata” (Cons. St., 28.05.2010, n. 3405) ed ancora: “qualsivoglia pubblica amministrazione può legittimamente conferire ad un professionista esterno un incarico di collaborazione, di consulenza, di studio, di ricerca o quant’altro, mediante qualunque tipologia di lavoro autonomo, continuativo o anche occasionale, solo a seguito dell’espletamento di una procedura comparativa previamente disciplinata ed adottata e adeguatamente pubblicizzata, derivandone in caso di omissione l’illegittimità dell’affidamento della prestazione del servizio” (TAR Piemonte, 29.09.2008 n. 2106; cfr. Corte Conti sez. reg. contr. Lombardia,
parere 11.02.2009 n. 37; parere 27.11.2012 n. 509 che ribadiscono i principi in questione).
Anche a livello centrale la magistratura contabile ha avuto modo di statuire che: “
il comma 6-bis dell’art. 7 del d.lgs. n. 165/2001, prevedendo l’obbligo per le amministrazioni di disciplinare e rendere pubbliche le procedure comparative per il conferimento di incarichi di collaborazione, ha in concreto posto la necessità dell’espletamento della procedura concorsuale, nella considerazione che un simile modus operandi, implicando il rispetto di precisi adempimenti procedurali e moduli operativi, concorra a rendere l’operato dell’Amministrazione conforme ai parametri di efficienza, efficacia, economicità e trasparenza, costituzionalmente tutelati ex art. 97” (Corte Conti, sez. centrale controllo prev. legittimità Stato, 02.10.2012, n. 23; analogamente la stessa sezione delibera 26.10.2011, n. 21).
Pertanto,
il ricorso a procedure comparative adeguatamente pubblicizzate può essere derogato con affidamento diretto nei limitati casi individuati dalla giurisprudenza:
a) procedura comparativa andata deserta;
b) unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo;
c) assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale, ricordando che la “particolare urgenza” deve essere “connessa alla realizzazione dell’attività discendente dall’incarico
(ex plurimis, parere 14.03.2012 n. 67 Sez. Contr. Lombardia).
In conseguenza di quanto detto dunque, come ripetutamente chiarito dalla giurisprudenza contabile,
non può ritenersi legittima la previsione di affidamenti di incarichi senza procedura comparativa al di sotto di una soglia individuata in valore monetario (o di un numero massimo di ore della prestazione richiesta al collaboratore), poiché “la materia è del tutto estranea a quella degli appalti di lavori, di beni o servizi, pertanto non può farsi ricorso neppure per analogia a detti criteri”, in particolare agli affidamenti in economia (Corte Conti, Sez. contr. Reg. Lombardia,
parere 11.02.2009 n. 37; Sez. contr. Prov. Trento, n. 2/2010 e n. 8/2010; cfr le recenti Sez. contr. reg. Piemonte parere 25.10.2013 n. 362; parere 19.12.2013 n. 421).). 
In proposito va rilevato il fatto che in passato questa Sezione (parere 20.12.2012 n. 5) ha già avuto modo di affermare, esaminando un regolamento comunale che prevedeva l’osservanza di una procedura comparativa, resa pubblica con pubblicazione all’albo pretorio, solo per incarichi di importo superiore ad € 5.000,00, che
una siffatta disciplina “non risulta conforme a quanto prevede l’art. 7, comma 6-bis, del D.lgs. n. 165/2001, come introdotto dall’art 32 D.L. 223/2006 e relativa legge di conversione, a mente del quale “Le amministrazioni pubbliche disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione”, senza lasciare spazio all’introduzione di soglie di valore al di sotto delle quali le procedure comparative non sono necessarie o non sono rese pubbliche.”
La sezione piemontese puntualizzava altresì “
Va aggiunto che si è posto il problema del se e in quali limiti sia consentito l’affidamento diretto dell’incarico senza ricorrere a procedure concorsuali, in taluni casi facendo riferimento ai limiti previsti nel codice degli appalti pubblici. La materia, peraltro, è del tutto estranea a quella degli appalti di lavori, di beni o servizi, cui, quindi, non può farsi ricorso neppure per analogia. Va quindi ribadito che il ricorso a procedure concorsuali deve essere generalizzato, salve circostanze del tutto particolari ed eccezionali (quali, ad es., la procedura concorsuale andata deserta, l’unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo, l’assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale, ecc.) (cfr. Sez. Lombardia Del. n. 379 del 26.06.2009)” (cfr. di recente sez. controllo Piemonte, parere 11.04.2014 n. 11).
Ancora va evidenziato che nella fattispecie l’azienda ha riferito di aver formato un elenco di avvocati nell’ambito del quale ha ritenuto di nominare per l’incarico in questione l’…(omissis)… senza alcuna procedura comparativa (nota pervenuta il 26.02.2014 prot. n. 2615). Tuttavia, anche a seguito di puntuale richiesta di chiarimento, l’ASL ha escluso l’esistenza di un testo regolamentare disciplinante i criteri e le modalità di scelta del collaboratore nell’ambito dell’elenco di avvocati, ribadendo sostanzialmente la fiduciarietà quale fondamentale criterio di selezione (cfr. nota pervenuta il 20.06.2014, prot. n. 6766).
Dunque alla luce di quanto detto
è evidente che l’ente riservandosi di scegliere di volta in volta i soggetti esterni da incaricare sulla base di un criterio di tipo fiduciario agisce in contrasto con il dettato legislativo.
Ne consegue dunque che nel caso di specie la procedura seguita dall’Amministrazione provinciale non risulta conforme alla disciplina legislativa ed in particolare alla previsione circa la necessità di una procedura comparativa adeguatamente pubblicizzata.
  
II.2. In secondo luogo l’amministrazione nel caso di specie laddove ha conferito all’…(omissis)… altresì un incarico di consulenza e supporto stragiudiziale in ordine alle valutazioni ai fini delle “eventuali modifiche da apportare alla procedura” circa la sicurezza sui luoghi di lavoro (cfr. nota pervenuta il 20.6.2014 prot n. 6766), avendo “anche chiesto di riesaminare l’organizzazione sulle deleghe per la sicurezza sui luoghi di lavoro” cfr. nota pervenuta il 26.02.2014 prot. n. 2615), non ha chiarito adeguatamente se prima di procedere all’avvio dell’iter procedimentale per l’affidamento dell’incarico abbia effettuato una puntuale ricognizione circa l’assenza di strutture organizzative o professionalità interne all’ente in grado di far fronte all’esigenza sottesa all’incarico in questione, dando ovviamente conto delle eventuali modalità di espletamento di tale adempimento. In secondo luogo neppure all’esito dell’istruttoria sono chiaramente emerse le ragioni per le quali sia stata necessitata la scelta di rivolgersi all’esterno della struttura amministrativa, posto che ovviamente per tale profilo l’assenza di un’avvocatura interna all’ente è del tutto inconferente.
D’altro canto nella nota di risposta pervenuta il 26.02.2014, prot n. 2615, è stato di contro affermato che “all’interno dell’azienda è presente una struttura organizzativa che si occupa di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro, svolge la propria attività in modo congruo e soddisfacente”.
Conseguentemente sotto tale profilo le dichiarazioni rese nella citata risposta dal Direttore Generale e dal Dirigente Responsabile appaiono in realtà comprovare il fatto che nel caso di specie sia stato fatto ricorso all’esterno della struttura per far fronte ad un’esigenza che, al contrario di quanto asserito, avrebbe potuto essere fronteggiata con le risorse interne.
Tale circostanza si riverbera indubbiamente sulla legittimità della deliberazione di conferimento dell’incarico a favore dell’…(omissis)…, non constando affatto un presupposto essenziale affinché l’Amministrazione potesse rivolgersi all’esterno della propria struttura. Del resto
che l’assenza di strutture organizzative o professionalità interne all'ente in grado di assicurare l’esigenza dell’ente sia requisito essenziale pena l’illegittimità dell’incarico e causa di danno erariale è pacifico, tanto che anche il legislatore ha anche avuto modo di cristallizzare la suddetta regola a livello generale ponendo tale elemento quale primo presupposto e incipit della previsione normativa (cfr. art. 6, co. 1, d.lgs. n. 165/2001). Alla luce delle argomentazioni sopra esposte in ordine all’attribuzione dell’incarico in ambito stragiudiziale si impone la trasmissione della presente delibera alla Procura regionale per il Piemonte per quanto di propria competenza.
  
III. Dall’analisi della vicenda oggetto di controllo va altresì rilevato il fatto che nella fattispecie l’Azienda ha conferito ad un legale l’incarico di difesa personale del Direttore Generale nell’ambito di un procedimento penale in palese violazione dei principi di trasparenza, pubblicità, nonché dell’elementare principio di corrispondenza delle condotte a quanto formalmente ed ufficialmente contenuto negli atti amministrativi autorizzativi.
Dall’istruttoria è inoltre emerso il pagamento da parte dell’ASL di una sanzione pecuniaria irrogata al Direttore Generale. Ciò comporta la trasmissione della presente al rappresentante del Pubblico ministero presso questa Corte, al responsabile per la prevenzione della corruzione, nominato ai sensi della l. n. 190/2012, nonché all’Assessore alla Sanità della Regione Piemonte.
In conclusione alle rilevate irregolarità/illegittimità dell’attribuzione della collaborazione consegue l’obbligo della Azienda Sanitaria di conformare la propria azione amministrativa in materia di affidamento di incarichi alla legge e di dare tempestivo riscontro alla Sezione delle iniziative assunte
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 13.11.2014 n. 242).

INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGOPa, sì al patrocinio dei legali in pensione. Corte conti Puglia. Vietati solo i pareri.
Le pubbliche amministrazioni possono attribuire, a titolo gratuito con rimborso spese e al massimo per un anno (non rinnovabile), incarichi professionali di rappresentanza e patrocinio giudiziale anche ad avvocati in pensione ex dipendenti poiché non rientrano tra quelli di studio e consulenza vietati dalla normativa per il taglio della spesa e la riforma della Pa.
Lo ha stabilito la Corte dei conti nel parere 06.11.2014 n. 193 della Sezione regionale di controllo per la Puglia su una richiesta interpretativa presentata dal presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola.
I giudici hanno chiarito uno dei limiti applicativi del divieto di conferire incarichi a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza posto in capo a tutte le amministrazioni dello Stato dalla cosiddetta spending review bis (articolo 5, comma 9, Dl 95/2012, convertito in legge 135/2012) e modifiche estensive della riforma della Pa (articolo 6, Dl 90/2014, convertito in legge 114/2014).
In particolare, ha spiegato il collegio, mentre nella versione previgente, il divieto riguardava gli ex dipendenti «che nell’ultimo anno avessero svolto funzioni e attività corrispondenti a quelli oggetto dell’incarico da conferire, a seguito della modifica introdotta con Dl 90/2014, il divieto è stato esteso a tutti i soggetti “già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza”», interessando cioè «non solo gli ex dipendenti dell’ente, ma tutti i lavoratori (dipendenti, lavoratori autonomi) privati o pubblici (quindi, a prescindere dalla natura dell’ex datore di lavoro) in quiescenza» e qualunque incarico di studio e consulenza poiché «sul piano oggettivo non più necessario che l’oggetto del conferimento consista in attività o mansioni già svolte in precedenza».
La Sezione ha ritenuto che «in difetto di previsione contraria sul piano normativo, gli incarichi professionali di rappresentanza e patrocinio giudiziale rimangono estranei alla nozione di incarichi di studio e consulenza» definita negli ultimi anni da pronunce della stessa Corte dei conti (deliberazione n. 6/2005, n. 6/2008, n. 131/2014). In base a quest’ultime sono incarichi di consulenza «quelli volti ad acquisire da un soggetto esperto un giudizio su una determinata questione», quelli di studio invece sono «volti a ricercare soluzioni su questioni inerenti all’attività di competenza dell’amministrazione conferente, i cui risultati verranno trasfusi in una relazione scritta finale». Nella nozione di consulenza non rientra l’attività di rappresentanza processuale e di difesa in giudizio, ma l’incarico al legale se prevede la resa di un mero parere.
Il divieto, che vale anche per funzioni dirigenziali, direttive o cariche in organi di governo delle Pa e degli enti e società controllati (escluse le giunte degli enti territoriali e gli organi elettivi degli enti pubblici associativi), vale per tutti gli incarichi conferiti anche dagli organi costituzionali dal 25.06.2014, data dell’entrata in vigore della Riforma della Pa
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.12.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSono sottratti gli incarichi dirigenziali con contratto a tempo determinato, conferibili dagli enti locali ex art. 110, comma 1, del TUEL, ai vincoli assunzionali previsti dall’articolo 9, comma 28, del d.l. 78/2010” mentre dette assunzioni sono comunque soggette "ai seguenti vincoli di spesa: rispetto del patto di stabilità (se tenuto); riduzione o contenimento della spesa del personale; contenimento nella percentuale normativamente prevista del rapporto tra spesa del personale e spesa corrente”.
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Con istanza n. 14311 del 02.07.2014, trasmessa dal Presidente del Consiglio delle Autonomie Locali della Liguria con nota n. 66 del 09.07.2014 ed assunta al protocollo della Segreteria della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Liguria l’11.07.2014 con il n. 0002461 –11.07.2014 – SC _ LIG - T85 – A, il Sindaco del Comune di Varazze chiede di sapere se la spesa sostenuta a seguito di stipula di un contratto ex art. 110, comma 1, del d.lgs. 267/2000 debba rientrare nel limite del 60% delle cessazioni dell'anno precedente (limite previsto per le assunzioni: a tempo indeterminato), nonché nel limite delle assunzioni a tempo determinato (50% della spesa sostenuta nel 2009), anche alla luce delle modifiche introdotte dall'art. 11 del D.L. 90/2014.
Il Comune chiede infine se sia ipotizzabile stipulare il contratto medesimo con orario di lavoro part-time, considerata l'esclusività del rapporto di lavoro dirigenziale con l'ente stesso.
...
Il quesito formulato dal comune di Varazze ha già trovato soluzione nella delibera n. 12/2012 con cui la Sezione delle Autonomie della Corte dei Conti si è espressa circa i limiti cui devono sottostare le assunzioni di cui all’art. 110, comma 1, del d.lgs, n. 267/2000.
E’ pur vero che la Sezione si è espressa sul testo dell’art. 110, comma 1, vigente prima della modifica intervenuta ad opera della legge n. 114/2014 che all’art. 11, comma 1, ha sostituito il comma 1 in esame.
La norma nel testo precedente stabiliva che “Lo statuto può prevedere che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato di diritto pubblico o, eccezionalmente e con deliberazione motivata, di diritto privato, fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire”.
Il comma 6-quater dell’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001 (come riscritto dall’art. 4-ter, comma 13, del d.l. 02.03.2012 n. 16 convertito in legge 26.04.2012 n. 44) individuava poi il numero complessivo degli incarichi conferibili da parte degli enti locali ai sensi dell'articolo 110, comma 1 (con soglie variabili, a seconda delle dimensioni di ciascun Ente, dal 10% al 20%).
La nuova formulazione dell’art. 110, comma 1, ha da una parte eliminato il riferimento alla natura di diritto pubblico dei contratti stipulati e dall’altra ha individuato nuovi limiti numerici alla conferibilità di detti incarichi da parte degli enti locali.
Pertanto,
ai fini della normativa sul contenimento della spesa del personale, non vi sono variazioni sostanziali, motivo per cui si possono tuttora ritenere valide le conclusioni cui è pervenuta la Sezione delle Autonome nella delibera citata (cui si rinvia per la lettura integrale del testo).
In tale delibera
la Sezione ha affermato il carattere di specialità della norme in esame: “il conferimento degli incarichi dirigenziali con contratto a tempo determinato ex art. 110, comma 1, del TUEL, è norma assunzionale speciale e parzialmente derogatoria rispetto al regime vigente. Da ciò consegue che gli incarichi conferibili con contratto a tempo determinato in applicazione delle percentuali individuate dal … comma 6-quater dell’art. 19 del D.Lgs. 165/2001 riguardano solo ed esclusivamente le funzioni dirigenziali e che a detti incarichi non si applica la disciplina assunzionale vincolistica prevista dall’art. 9, comma 28, del DL 78/2010”.
Ed ancora “dette speciali disposizioni assunzionali sottraggono gli incarichi dirigenziali con contratto a tempo determinato, conferibili dagli enti locali ex art. 110, comma 1 del TUEL, ai vincoli assunzionali previsti dall’art. 9, comma 28, del DL 78/2010”.

La Sezione delle Autonomie infatti ha precisato come, per evitare irragionevoli e irrealistiche riduzioni di spesa del personale, le limitazioni previste dalle due disposizioni non siano cumulabili ma attendano ad esigenze diverse essendo stato creato un regime specifico e differenziato. Infatti, se il legislatore avesse ritenuto applicabile agli incarichi dirigenziali il limite del 50% della spesa sostenuta nell’anno 2009 (art. 928 d.l. n. 78/2010) non avrebbe delineato un ulteriore limite essendo già sufficientemente stringente quello esistente. Inoltre il legislatore, se avesse voluto veramente cumulare i limiti, avrebbe potuto utilizzare una clausola di salvaguardia della disposizione già vigente. La ratio della distinzione, secondo il Supremo organo nomofilattico, risiede nella necessità di non sguarnire eccessivamente i ruoli dirigenziali,
Pertanto
è pienamente condivisibile l’orientamento assunto dalla Sezione delle Autonomie (già confermato da questa Sezione di controllo con delibera n. 23/2014), per cui “dette speciali disposizioni assunzionali sottraggono gli incarichi dirigenziali con contratto a tempo determinato, conferibili dagli enti locali ex art. 110, comma 1, del TUEL, ai vincoli assunzionali previsti dall’articolo 9, comma 28, del d.l. 78/2010” mentre dette assunzioni sono comunque soggette "ai seguenti vincoli di spesa: rispetto del patto di stabilità (se tenuto); riduzione o contenimento della spesa del personale; contenimento nella percentuale normativamente prevista del rapporto tra spesa del personale e spesa corrente (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 06.10.2014 n. 53).

PUBBLICO IMPIEGOCagiona danno erariale il dirigente che assegna a dipendente le mansioni superiori non in via provvisoria ma oltre i limiti temporali ammessi di legge.
La violazione del termine di affidamento di mansioni superiori integra una violazione dell’espresso dettato dell’art. 52 del D.lgs. n. 165/2000, vigente all’epoca dei fatti, e la conseguente illiceità degli stessi. Tale elemento inficia le condotte sia del dirigente che ha conferito gli incarichi, sia di quello che ha acquisito le competenze del primo ed il potere di provvedere in merito agli incarichi stessi durante il corso della loro durata.
Nel meccanismo di legge, l’attribuzione di superiori mansioni dirigenziali è provvedimento temporaneo proprio perché è preordinato esclusivamente a consentire la copertura di carenze di organico durante il periodo strettamente necessario (valutato ex lege in sei mesi-un anno) per indire ed espletare le ordinarie procedure per la loro copertura.
Tale temporaneità, pertanto, deve essere necessariamente ed in concreto assicurata onde evitare il consolidamento di posizioni che contrastano, prima ancora che con le specifiche norme di legge sull’attribuzione degli incarichi citate dalla Procura, con le ordinarie e generali regole sull’organizzazione amministrativa, delle quali la regola dell’assunzione per specifici profili professionali tramite concorsi costituisce una regola generale, a garanzia della quale il divieto di attribuzione stabile a mansioni superiori (già espresso nell’art. 56 del D.lgs. n. 29/1993 e poi confluito nell’attuale art. 52 del D.lgs. n. 165/2001) è posto.
Di tale garanzia è fatto carico ai soggetti che, per le loro competenze, sono in grado di incidere sull’esistenza e sulla protrazione degli incarichi in questione, i quali devono porre in essere le condizioni affinché gli incarichi conferiti rimangano entro i limiti di legge.

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Osserva preliminarmente il Collegio che la situazione illecita che la Procura contesta ai convenuti, con attribuzione di responsabilità di pari rilevanza sia sotto il profilo causale che dell’elemento soggettivo, è che le rispettive condotte (commissiva per la Campaner, omissiva per il Gozzi) abbiano determinato una situazione di fatto tale da integrare il diritto dei dipendenti incaricati di mansioni dirigenziali a percepire somme a fronte di incarichi conferiti oltre i termini di legge.
La tesi è fondata a fronte del chiaro disposto di legge, se solo si osserva che gli incarichi in questione sono perdurati ben oltre il termine di 12 mesi citato sopra, senza che né nel primo semestre, né durante l’ulteriore periodo di proroga semestrale, sussistesse la condizione, che la legge prevede come necessaria per la stessa possibilità di prorogare legittimamente gli incarichi (altrimenti semestrali) della indizione delle procedure concorsuali per il reclutamento del personale carente in organico.
La violazione del termine di affidamento di mansioni superiori integra una violazione dell’espresso dettato dell’art. 52 del D.lgs. n. 165/2000, vigente all’epoca dei fatti, e la conseguente illiceità degli stessi. Tale elemento, come si vedrà subito appresso, inficia le condotte sia del dirigente che ha conferito gli incarichi, sia di quello che ha acquisito le competenze del primo ed il potere di provvedere in merito agli incarichi stessi durante il corso della loro durata.
3.1
Nel meccanismo di legge, l’attribuzione di superiori mansioni dirigenziali è provvedimento temporaneo proprio perché è preordinato esclusivamente a consentire la copertura di carenze di organico durante il periodo strettamente necessario (valutato ex lege in sei mesi-un anno) per indire ed espletare le ordinarie procedure per la loro copertura.
Tale temporaneità, pertanto, deve essere necessariamente ed in concreto assicurata onde evitare il consolidamento di posizioni che contrastano, prima ancora che con le specifiche norme di legge sull’attribuzione degli incarichi citate dalla Procura, con le ordinarie e generali regole sull’organizzazione amministrativa, delle quali la regola dell’assunzione per specifici profili professionali tramite concorsi costituisce una regola generale, a garanzia della quale il divieto di attribuzione stabile a mansioni superiori (già espresso nell’art. 56 del D.lgs. n. 29/1993 e poi confluito nell’attuale art. 52 del D.lgs. n. 165/2001) è posto.
Di tale garanzia è fatto carico ai soggetti che, per le loro competenze, sono in grado di incidere sull’esistenza e sulla protrazione degli incarichi in questione, i quali devono porre in essere le condizioni affinché gli incarichi conferiti rimangano entro i limiti di legge.
Cosa diversa, infatti, è che il fatto che tale elemento è richiesto dalla legge, rispetto al fatto che un termine temporale sia espressamente stabilito, in concreto, nei singoli atti di conferimento. La previsione di legge (il citato art. 52 del D.lgs. n. 165/2001) non incide sull’effettiva esistenza ed efficacia degli incarichi che perdurino anche oltre il termine massimo ivi previsto, ma unicamente sulla loro illegittimità (ed illiceità) concretando la previsione, leggibile “al contrario” dalla disposizione stessa, che una proroga disposta o consentita in assenza di tale condizione –l’indizione di procedure per la copertura dei posti vacanti in organico- è illegittima.
Al contrario, una previsione della durata massima degli incarichi, che sia contenuta nella stessa determinazione di conferimento, incide direttamente sull’esistenza degli incarichi stessi, determinandone la caducazione al termine del periodo di durata previsto. Solo una tale previsione, pertanto, è in grado di evitare il risultato, contrario alla lettera ed allo spirito della legge, che dipendenti dell’amministrazione siano adibiti a superiori mansioni per un periodo superiore ai sei mesi in assenza dell’indizione di ordinarie procedure per la copertura delle carenze di organico che, asseritamente, gli incarichi sono tesi a coprire e che, per legge, solo a fronte di tale temporanea necessità trovano giustificazione.
E’ evidente che una tale garanzia non è stata assicurata dalla conferente gli incarichi, Dott.ssa Campaner, la quale, non avendo apposto alcun termine massimo di durata agli incarichi da lei conferiti nelle determinazioni in questione, ha fatto sì che questi continuassero a rimanere efficaci anche oltre il termine di legge, determinando così non solo la protrazione dei loro effetti ben oltre le necessità alle quali la legge li condiziona, ma anche una situazione di fatto stabile, per rimuovere la quale diventava necessaria l’adozione di un’ulteriore determinazione (di restituzione degli incaricati alle pregresse mansioni). Tale mancata previsione, in altri termini, se pure si accetti che essa non costituisca un’illegittimità formale della determina di conferimento degli incarichi, integra pur sempre un’illiceità sostanziale dei conferimenti, che per tale mancata previsione sono diventati stabili e destinati a permanere oltre il semestre in assenza di espressa revoca.
Sul punto la norma è chiara, come è chiara la sua funzione di “norma di chiusura“ del sistema, e di garanzia di regole primarie e imperative che disciplinano l’accesso dei dipendenti pubblici alle pubbliche funzioni, e sussiste giurisprudenza unanime e costante nel tempo in merito ai limiti di legittimità per il conferimento di incarichi di mansioni superiori; la violazione, pertanto, è imputabile a colpa grave della Dr.ssa Campaner, la quale, sia per il bagaglio di esperienze professionali che per il ruolo rivestito, doveva necessariamente esserne a conoscenza.
Considerando poi le circostanze, e cioè sia il fatto che non si trattava propriamente di incarichi adottati a copertura di posti vacanti in organico, bensì di assegnazioni ad uffici dirigenziali che essa stessa ha individuato risistemando la propria direzione a seguito del trasferimento del coordinatore Dr. Patamia e creando sei uffici dotati di autonomia dirigenziale prima inesistenti, ed il fatto che ella sarebbe cessata dalle funzioni presso quella Direzione solo poco più di un mese dopo, e pertanto sapeva che avrebbe dovuto lasciare la situazione come ella la stava determinando, la mancata previsione di un termine finale alla durata degli incarichi rappresentava un elemento che, in quella situazione specifica, era in grado di determinare una esposizione grave al rischio di consolidamento di posizioni illecite, come in concreto è poi avvenuto.
3.2 Nell’ambito delle competenze e delle funzioni del Dirigente succeduto alla Campaner, Dr. Gozzi, rientrava di certo quella di compiere un’autonoma valutazione delle condizioni di fatto sussistenti al momento della presa in carico dell’ufficio e successivamente, per tutto il tempo in cui gli incarichi hanno avuto espletamento, senza che possa avere rilievo scusante che tali condizioni fossero state valutate come idonei presupposti per il conferimento degli incarichi da parte del precedente Direttore, e, asseritamente, del D.G. dell’Istituto.
L’espressa previsione di legge sulla necessaria temporaneità degli incarichi costituisce, infatti, una valutazione del legislatore dell’utilità degli incarichi medesimi, la quale, pertanto, condiziona necessariamente la durata degli incarichi e comportava l’obbligo di riportali entro i termini di legge, qualora non ne fossero sussistite o ne fossero venute a mancare le condizioni legittimanti, anche a fronte di quanto deciso o consentito dai conferenti gli incarichi.
Un tale obbligo il Gozzi non ha adempiuto, lasciando perdurare la situazione di fatto, con l’esito giudiziale che qui si contesta, nonostante egli sia succeduto alla conferente gli incarichi neanche due mesi dopo le relative delibere, fatto questo che gli avrebbe dato il tempo di operare in qualunque altra direzione, prima che verso la revoca degli incarichi, a tutela di quegli stessi interessi organizzativi che la sua difesa richiama, sollecitando le decisioni di competenza di altri uffici, o ponendo al D.G. la problematica della risoluzione del conflitto tra quelle e l’esigenza imprescindibile del rispetto della normativa sulla durata dei conferimenti di mansioni superiori.
La delicata questione delle esigenze organizzative come risolte dalle decisioni della Campaner non poteva prevalere sic et simpliciter sul disposto della norma imperativa, e, se il dirigente non avesse voluto risolverla alla scadenza del periodo di legge con la revoca degli incarichi, egli avrebbe dovuto quantomeno porla per tempo, rappresentando l’opposta esigenza del rispetto della legge, poiché non si era in presenza di una singola attribuzione di funzioni dirigenziali ma del permanere dell’organizzazione di una intera struttura (come detto, sei uffici dirigenziali creati dalla Campaner, che ha suddiviso l’Area Sviluppo e Manutenzione Applicativi della D.C.S.I. in uffici dirigenziali dotati di autonomia organizzativa) in una perdurante condizione di illegittimità. L’omissione di qualunque attività in merito, come sottolinea la Procura, costituisce effettivamente un profilo di colpa grave, essendo non solo contraria al chiaro ed inderogabile disposto della norma, ma anche non giustificabilealla luce dei fatti.
3.3 La circostanza che sulle determinazioni di incarico sia stata apposta da parte del D.G Dr. Simi la sigla AS, o le parole OK e CONCORDO, non costituisce una esimente, né per la conferente gli incarichi, né per il suo successore, in quanto entrambi erano i soggetti direttamente ed unicamente investiti delle funzioni e competenze in merito all’attribuzione degli incarichi di reggenza ed alla relativa gestione, avendo detti provvedimenti diretta efficacia solo per effetto della firma del dirigente Generale della D.C.S.I. all’interno della quale essi sono stati disposti.
La firma del D.G. dell’INPDAP, semmai, era richiesta per l’attribuzione di incarichi dirigenziali di direzione delle Direzioni Centrali dell’Istituto (come infatti è stato per il trasferimento dell’Ing. Patamia, responsabile dell’altra Area in cui era suddivisa la D.C.S.I., in occasione del quale la relativa determinazione, n. 57 del 30.05.2000, è stata firmata dal D.G. Simi), in base all’art. 7 del D.P.R. n. 368 del 24.09.1997, norma del Regolamento sull’organizzazione ed il funzionamento dell’INPDAP che prevede le attribuzioni del Direttore Generale.
Le stesse considerazioni valgono anche ad escludere la responsabilità del Dr. Simi, contestata dall’accusa solo con riferimento al preteso ruolo che di fatto egli avrebbe assunto con l’apposizione delle suddette parole sulle determinazioni, e che, per quanto detto, non assume invece alcuna portata causale sulla fattispecie che si era così venuta a creare. Il Dr. Simi deve pertanto essere assolto da ogni addebito.
4. Quanto all’affermazione che gli incarichi non avrebbero dato legittimamente titolo alla liquidazione di compensi, non avendo di fatto avuto a contenuto l’espletamento di funzioni dirigenziali, essa nel presente giudizio appare priva di alcuna prova, oltre che di alcun rilievo giuridico, poiché ai fini della maturazione dei relativi compensi il giudice del lavoro (oltre che a valutare l’esistenza di prove testimoniali in tal senso, con valutazione confermata in appello) ha tenuto a riferimento, con criterio che il Collegio perfettamente condivide, il contenuto delle determinazioni di incarico e delle mansioni con esse conferite; questo giudice concorda sia con tale criterio, sia con le relative conclusioni, atteso che nella determinazione di conferimento (n. 69/2000) gli incarichi sono conferiti “a fronte di carenza di figure di livello dirigenziale” e tendono pertanto a garantire l’espletamento di funzioni inerenti tale profilo professionale, ed atteso il contenuto dell’ordine di servizio n. 12 del 06.06.2000, con la quale la stessa Campaner individua le mansioni e le funzioni degli uffici dirigenziali in questione.
5.I convenuti oppongono, infine, che le somme liquidate ai dipendenti in questione non costituiscono il corrispettivo per le superiori mansioni dirigenziali, domanda che il giudice del lavoro ha respinto, ma la liquidazione di un’indennità prevista espressamente dalla contrattazione collettiva per il personale direttivo al quale siano conferite mansioni dirigenziali, per cui in realtà non vi sarebbe alcun danno illecito.
Si fa riferimento alla previsione dei contratti integrativi applicabili all’Istituto che prevede la liquidazione al personale direttivo,di cui all’art. 15, comma 1, della legge n. 88/1989, di una indennità di reggenza per il periodo nel quale esso abbia espletato mansioni proprie di un ufficio dirigenziale; ed in effetti, il giudice del lavoro ha respinto la domanda alla liquidazione di altre voci retributive proprie della dirigenza per l’esistenza di una specifica disposizione, seppure contrattuale, applicabile alla fascia dei funzionari direttivi, che retribuisce tali funzioni per il periodo in cui sono svolte.
Rileva sul punto il Collegio che la circostanza che tale emolumento sia previsto contrattualmente, fatto questo che ha costituito titolo per il diritto dei dipendenti alla liquidazione delle somme in questione, non comporta necessariamente che sempre ed in ogni caso la sua corresponsione sia lecita, nel senso che essa non costituisca un danno erariale, come infatti accade nelle ipotesi in cui l’incarico sia stato conferito o sia proseguito in violazione dei termini di legge.
Espressamente, del resto, dispone il quinto comma dell’art. 52 citato, che sancisce la nullità dell’assegnazione a mansioni superiori oltre il termine di legge e la responsabilità del dirigente che ha disposto l'assegnazione, che risponde personalmente “per il maggior onere conseguente, se ha agito con dolo o colpa grave”, disposizioni che sono destinate ad espletare i loro effetti nell’ambito dei rapporti tra il soggetto che ha conferito gli incarichi e l’amministrazione di appartenenza, senza incidere sui diritti retributivi del lavoratore, disciplinati dalla medesima disposizione con la previsione che “al lavoratore è corrisposta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore”.
Il fatto che il giudice del lavoro abbia accolto solo parzialmente la domanda dei lavoratori incaricati, accertando il loro diritto all’indennità per funzioni dirigenziali e non all’intera differenza con la retribuzione dei dirigenti, non incide sul titolo illecito di tali differenze retributive ma solo sulla quantificazione del danno, limitandolo a quanto liquidato in applicazione della predetta disposizione.
Nella presente fattispecie, la remunerazione delle funzioni dirigenziali affidate ai dipendenti in questione può dirsi lecita solo con riferimento al primo semestre di durata dell’incarico, in presenza degli altri presupposti ai quali la legge condiziona la possibilità di conferimento di mansioni superiori (presupposti che qui non sono stati posti in questione), ma non per il semestre successivo, non essendosi verificata la condizione dell’indizione delle procedure per la copertura dei posti in organico, e per il periodo ancora successivo, sino alla restituzione dei dipendenti alle proprie funzioni.
Per tali successivi periodi, pertanto, la corresponsione di tale emolumento costituisce un danno erariale, non corrispondendo ad una situazione che l’ordinamento qualifica come legittima.
Né da tale danno può ritenersi detraibile un utile in dipendenza delle prestazioni di attività lavorativa effettuate dai dipendenti incaricati delle funzioni dirigenziali.
Come detto, e come afferma l’unanime giurisprudenza di questa Corte, la valutazione dell’utilità dell’attribuzione di mansioni superiori è frutto di una previsione legislativa, la quale richiede determinati requisiti per l’attribuzione di tutti gli specifici profili professionali nell’ambito della pubblica amministrazione, ma ancor più per le funzioni dirigenziali (requisiti che sono determinati dalle leggi in vigore al momento dei fatti), delimita all’interno degli stretti ambiti sopra descritti l’attribuzione temporanea di mansioni dirigenziali ai soggetti che non ne sono in possesso, e nega rilevanza alle assegnazioni di mansioni superiori disposte oltre i casi previsti dalle citate disposizioni, al punto da sancirne la nullità.
Tale valutazione non può essere pretermessa o sostituita dalla valutazione che ne faccia l’amministrazione, e, in conseguenza, non può ritenersi sussistente e valutabile alcun “utile”, né in dipendenza diretta della prestazione contra legem, né sotto il profilo prospettato dalla difesa, e cioè per il fatto che le funzioni dirigenziali espletate dagli incaricati, pur oltre i limiti di legge, sono state retribuite in misura minore di quelle che avrebbero dovuto essere espletate da dirigenti titolari, poiché solo a questi ultimi la legge riserva il diritto alla corrispondente retribuzione (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio, sentenza 10.09.2014 n. 665).

PUBBLICO IMPIEGO: Sul risarcimento del danno erariale per aver falsificato le timbrature e, soprattutto, sul risarcimento (più cospicuo) del conseguente e correlato danno all'immagine dell'ente di appartenenza.
Ciò premesso, passando ad esaminare il merito di tale pretesa, si osserva che nel vigente ordinamento il “danno all’immagine” ed “al prestigio” della Pubblica Amministrazione –riconducibile alla categoria del danno “non patrimoniale”, ex art. 2059 cod. civ.- consiste nella diminuita reputazione dell’ente presso i consociati, o presso una certa platea di consociati, conseguente alla lesione di diritti fondamentali della persona, riconosciuti e garantiti dalla Costituzione all’art. 2 e all’art. 97 per la “Pubblica Amministrazione” nel suo complesso (Corte conti, Sez. III, n. 335 del 2009; Cass. sentenze nn. 8827, 8828 del 2003, n. 12929 del 2007, n. 26972 del 2008).
La giurisprudenza della Corte di cassazione, a conclusione di un complesso percorso interpretativo, ha superato la concezione che individuava tale danno nella lesione dell’immagine in sé (danno evento), pervenendo ad una configurazione dello stesso come conseguenza della predetta lesione, rappresentata dalla diminuita considerazione che l’ente ha presso i consociati (danno conseguenza).
Tale danno, secondo quanto affermato nella sopra citata sentenza della Corte di cassazione n. 12929 del 2007, risulta risarcibile “indipendentemente dal fatto che l’incidenza negativa sull’agire delle persone fisiche che rappresentano gli organi dell’ente abbia determinato un danno in senso economico, cioè un danno patrimoniale”; ed infatti, l’agire dell’ente con la consapevolezza di dover superare la negatività connessa alla lesione dell’immagine non potrà non risentirne in termini di efficacia, “onde -a prescindere da eventuali riflessi economici- tale conseguenza integra di per sé un danno non patrimoniale” .
Alla luce dei principi affermati dalle Sezioni di appello della Corte dei conti (ex plurimis, Sez. III, n. 143/2009; Sez. II n. 106/2008) e del surriferito più recente orientamento della Corte di cassazione (successivo a SS.RR. n. 10/QM/2003), le Sezioni Riunite di questa Corte hanno rivisitato tale figura di danno erariale, precisando che <<il danno all’immagine della Pubblica amministrazione …….. coincide non già con il fatto lesivo (in ipotesi di condotta di corruzione), ma con la lesione (perdita di prestigio), che costituisce una “conseguenza” (art. 1223 c.c.) del fatto lesivo>> (Corte conti, SS.RR. sent n. 1/2011/QM; cfr., Sezione Prima sent. n. 316 del 2011).
In proposito osserva, tuttavia, la Sezione che, indipendentemente dalla configurazione del danno all’immagine -come danno-evento o come danno-conseguenza– attenendo tale pregiudizio ad un bene immateriale, la prova è, in ogni caso, eminentemente presuntiva, potendo costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice (Cass. sent. n. 26972 del 2008), mentre la sua quantificazione va disposta in considerazione della concreta dimensione della lesione stessa, da valutare in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., non essendo possibile l’esatta determinazione dell’ammontare di un danno di tale natura (Corte conti, Sez. III, sent. n. 143/2009, cit.; Cfr. Sez. Liguria, sent. n. 184 del 2012).
Tanto rappresentato, nel caso di specie, non può dubitarsi che i ripetuti allontanamenti dal servizio del dott. L. per motivi generalmente futili (recarsi a giocare una partita di pallone) abbiano arrecato un gravissimo pregiudizio all’immagine della ASL, ingenerando presso l’opinione pubblica un notevole discredito nei riguardi dell’assistenza sanitaria fornita dalla stessa.
Passando alla quantificazione di detto danno, la Sezione ritiene di dovervi procedere in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., tenendo conto dei criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte dei conti, e, in special modo, dalle Sezioni Riunite nella sentenza n. 10/QM/2003.
In particolare, nella specie vengono in considerazione:
- la rilevanza del servizio prestato e la posizione rivestita dall’interessato nell’ambito dell’Azienda sanitaria (medico titolare di una funzione sanitaria di altissimo rilievo sociale esercitata con un ruolo apicale);
- la reiterazione di comportamenti socialmente riprovevoli e penalmente rilevanti posti in essere essenzialmente per motivi futili;
- la diffusività della notitia criminis a livello locale, regionale e nazionale, i fatti essendo stati riportati, come documentato dall’accusa, con ampio risalto e a più riprese sia dalla stampa (“Il Secolo XIX”, “La Repubblica-Il Lavoro”, “Il Corriere Mercantile”), sia dall’informazione televisiva (come riportato dalla Gazzetta del Lunedì del 04/02/2013, il caso è stato trattato in termini fortemente polemici nella trasmissione televisiva domenicale l’Arena su Rai 1, nel corso della quale sono state mosse forti critiche nei confronti dell’Azienda sanitaria e della sua dirigenza).
Tanto considerato, il collegio giudica congrua la determinazione fatta dalla Procura in euro 20,000,00 (ventimila/00) del danno inferto all’immagine dell’Ente
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Liguria, sentenza 05.06.2014 n. 72).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il responsabile dell'UTC non può rimettere unilateralmente il proprio incarico di P.O. nelle mani del Sindaco (... per incompatibilità tra le parti). Semmai, il Sindaco può procedere, in presenza delle condizioni previste dall’ordinamento, alla revoca dell’affidamento della P.O. con motivazione idonea e rigorosa (ad esempio in caso di valutazione negativa circa il raggiungimento degli obiettivi gestionali programmati o di determinati livelli di prestazione).
D'altro canto, le funzioni di responsabile dell'Ufficio tecnico non presuppongono un vigoroso vincolo fiduciario, trattandosi di compiti prettamente tecnici, sicché il loro esercizio ben possono continuare anche dopo il cambiamento della compagine politica dell'ente. Di norma, per il conferimento dell'incarico di Responsabile si procede con il provvedimento motivato del Sindaco, tenendo conto dell'”effettiva attitudine e capacità professionale” e, cioè, di requisiti squisitamente tecnici.
Ed il Sindaco, comunque, di fronte alle "dimissioni" da P.O. del responsabile dell'UTC non può assumere una persona esterna all'ente (... che gli fa comodo) ex art. 110 d.lgs. 267/2000 per ricoprire l'incarico di responsabile dell'UTC. E se lo fa (ugualmente) cagiona un danno erariale e paga di tasca propria.
La Procura regionale addebita ai convenuti le somme corrisposte dall’amministrazione comunale di Rapino all'arch. M.S., assunto con contratto di diritto privato a tempo determinato, poi rinnovato nel tempo, per le funzioni di “Responsabile dell'Ufficio tecnico” dell’ente, in precedenza svolte dal Geom. G.M..
Si premette che il Comune di Rapino, avendo popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, ai sensi dell'art. 109 del T.U.E.L., d.lgs. n. 267 del 2000, non annovera posizione dirigenziale per l’esercizio delle citate funzioni; con provvedimento del sindaco in data 30.12.1997, prot. n. 3723, successivamente reiterato in data 11.03.1999 e 31.12.1999, fino al decreto sindacale n. 2 in data 26.02.2009, il posto di Responsabile dell’ufficio tecnico era stato conferito con apposito incarico al dipendente M., con il riconoscimento in suo favore della retribuzione di posizione.
In data 01.10.2009, il citato funzionario comunicava formalmente al sindaco, sig. R.C., di “rimettere il mandato di Responsabile dell'Ufficio Tecnico onde permettere la nuova gestione dell'Ufficio” con effetti immediati.
A seguito di ciò, con atto della Giunta comunale n. 73, in pari data, veniva deliberato (con voti favorevoli del Sindaco C.R., del Vicesindaco O.A., e dell'assessore M.R., successivamente deceduta) l’affidamento della relativa funzione a soggetto esterno all’apparato comunale, ai sensi e per gli effetti dell'art. 110 del T.U.E.L. e dell'art. 54 del Regolamento di organizzazione degli Uffici e dei Servizi.
Con successivo decreto sindacale n. 7 del 03.10.2009 l’incarico veniva conferito all'Architetto M.S., dal giorno stesso e fino al 31.12.2009, per un compenso annuo di euro 20.000,00 oltre Inarcassa e I.V.A..
A supporto della scelta il provvedimento dava atto che il professionista, provvisto di laurea in architettura era in possesso dell'adeguata professionalità, avendo progettato e diretto lavori pubblici di elevata complessità anche nel territorio del Comune di Rapino, oltre ad aver ricoperto la carica di Vice Sindaco dal 1999 al 2004.
Con successivo decreto n. 21 del 31.12.2009 il Sindaco C., richiamata la menzionata delibera di G.C. n. 73/2009, conferiva nuovamente l'incarico all'Arch. S., con le stesse mansioni di Responsabile dell'Ufficio tecnico comunale e con il medesimo compenso, dall'01.01.2010 e fino al 30.06.2010.
Seguivano analoghi decreti sindacali di rinnovo dell'incarico, n. 4 del 30.06.2010, n. 5 del 31.12.2010.
La successiva delibera di Giunta comunale n. 51 del 2011, votata da tutti i convenuti, disponeva ulteriore affidamento in favore del professionista, cui seguivano i decreti sindacali n. 4 del 30.06.2011 e n. 3 del 30.06.2012 con relativa stipula di contratti di diritto privato, tutti con previsione del medesimo compenso già assentito in precedenza.
Infine, con delibera n. 45 del 2012, cui partecipavano tutti i convenuti, la Giunta attribuiva un terzo incarico al S., con le medesime modalità, confermato con successivo decreto sindacale n. 12 del 2012.
In sintesi il rapporto con il professionista, che avrebbe dovuto essere temporaneo, ebbe una durata di oltre tre anni.
Tanto premesso, la giurisprudenza ha enunciato i principi sulla cui base è consentito l’affidamento di incarichi a personale estraneo all’apparato tecno-burocratico (ex multis: Sezione Abruzzo n. 260/2010, Sezione Terza di appello n. 66/2012, Sezione controllo Lombardia delibera n. 1060/2010).
Il vigente ordinamento non annovera un generale divieto per la pubblica amministrazione di ricorrere a collaborazioni esterne o a contratti di durata o, ancora, a consulenze per far fronte ad esigenze particolari; peraltro l’utilizzo di dette risorse “….non può concretizzarsi se non nel rispetto di determinate condizioni e limiti previsti espressamente dal legislatore e, specificatamente, dall’art. 7 del Decreto legislativo 03.02.1993 n. 29 (“6. Ove non siano disponibili figure professionali equivalenti, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali ad esperti di provata competenza, determinando preventivamente durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione”), dall’art. 110 del TUEL (“1. Lo statuto può prevedere che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato di diritto pubblico o, eccezionalmente e con deliberazione motivata, di diritto privato, fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire.
2. Il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, negli enti in cui è prevista la dirigenza, stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, contratti a tempo determinato per i dirigenti e le alte specializzazioni, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire….Per obiettivi determinati e con convenzioni a termine, il regolamento può prevedere collaborazioni esterne ad alto contenuto di professionalità”) e dall’art. 7 del Decreto legislativo 30/03/2001 n. 165 (“6. Per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali ad esperti di provata competenza, determinando preventivamente durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione”).
I limiti contenuti nelle disposizioni sopra indicate trovano la propria ratio nella necessità di evitare il conferimento generalizzato di consulenze esterne, l'assunzione di personale in assenza di condizioni legittimanti, l’aggravio di costi inutili ed eccessivi per i pubblici bilanci e la violazione di norme cogenti le quali richiedono, per l'accesso alla pubblica amministrazione, una selezione di più candidati preceduta da adeguata pubblicità del bando e svolgimento di una procedura concorsuale. La giurisprudenza ha, inoltre, da tempo, affermato il principio secondo cui ogni ente pubblico deve provvedere ai propri compiti con la propria organizzazione e il proprio personale e la possibilità di far ricorso a personale esterno può essere ammessa soltanto nei limiti e alle condizioni in cui la legge lo preveda o anche quando sia impossibile provvedere altrimenti ad esigenze eccezionali e impreviste, di natura transitoria
” (Sezione Terza d’appello n. 66/2012 cit.).
Orbene, osserva il Collegio che il M. ebbe a “rimettere l'incarico” con la lettera del 01.10.2009 nelle mani del Sindaco C., manifestazione di volontà che nel vigente assetto ordinamentale non assume alcun valore legale, posto che le funzioni di Responsabile dell'Ufficio tecnico erano state motivatamente conferite nell’ambito della cura del pubblico interesse di cui il Comune è portatore, con apposita deliberazione e successivi decreti sindacali.
L’ordinamento, nel consentire ai Comuni privi di personale con qualifica dirigenziale la facoltà di attribuire le relative funzioni ai responsabili degli uffici o dei servizi, ha inteso agevolare i comuni di minori dimensioni demografiche e, quindi, dotati di minori risorse finanziarie evitando loro di sobbarcarsi gli oneri di spesa concernenti l'assunzione di personale di qualifica dirigenziale.
Si tratta di provvedimenti adottati in un perimetro normativo nitidamente indirizzato a rendere funzionale l’organizzazione degli enti pubblici, nella specie dei comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti.
Nel delineato contesto, quindi, il dipendente non avrebbe potuto abdicare con atto unilaterale alle funzioni di Responsabile dell'Ufficio tecnico delle quali era già investito, venendo in rilievo compiti relativi all'organizzazione degli Uffici e dei Servizi dell'ente, in osservanza dell'art. 109 del T.U.E.L.
In estrema sintesi il M. non avrebbe potuto rifiutare di svolgere l’incarico di Responsabile dell'Ufficio tecnico, venendo ad emersione non un diritto disponibile, quanto, invece, un munus soggetto ad investitura da parte del sindaco ai sensi dell'art. 50, comma 10, del T.U.E.L., come tale irrinunciabile.
Di conseguenza anche il sindaco non avrebbe potuto prendere atto delle “dimissioni” dall’incarico, ma soltanto provvedere, in presenza delle condizioni previste dall’ordinamento, alla revoca dell’affidamento con motivazione idonea e rigorosa (ad esempio in caso di valutazione negativa circa il raggiungimento degli obiettivi gestionali programmati o di determinati livelli di prestazione).
D'altro canto, le funzioni di responsabile dell'Ufficio tecnico non presuppongono un vigoroso vincolo fiduciario, trattandosi di compiti prettamente tecnici, sicché il loro esercizio avrebbero potuto continuare anche dopo il cambiamento della compagine politica dell'ente. Al riguardo, l'art. 19 del Regolamento di Organizzazione comunale, approvato con delibera di Giunta n. 7 del 27.02.1999 e successive modifiche e integrazioni, per il conferimento dell'incarico di Responsabile prescrive l’adozione di un provvedimento motivato del Sindaco, tenendo conto dell'”effettiva attitudine e capacità professionale” e, cioè, di requisiti squisitamente tecnici.
Il successivo articolo 21 prevede la proroga di diritto, all'atto della naturale scadenza, fino a quando non intervenga la nuova nomina, e contempla i seguenti casi di revoca:
a) inosservanza grave delle direttive del Sindaco;
b) inosservanza grave delle direttive dell'assessore di riferimento;
c)inosservanza grave delle direttive e delle disposizioni del Segretario comunale o del direttore generale;
d) mancato raggiungimento degli obiettivi assegnati nel piano delle risorse, al termine di ciascun anno finanziario;
e) responsabilità grave o reiterata;
f) altri casi disciplinati dal contratto collettivo di lavoro.
Si tratta, come accennato, di un sistema che rispecchia pienamente l’organizzazione degli uffici e servizi degli enti pubblici e che, nell’ambito della tutela del pubblico interesse di cui ogni ente è responsabile, non prevede iniziative del dipendente cui supinamente debba aderire l’organo competente.
Sotto altro ma connesso profilo, si deve osservare che al M., in relazione alla posizione organizzativa ricoperta, era stata riconosciuta la retribuzione di posizione.
Detta componente retributiva riflette “il livello di responsabilità attribuito con l’incarico di funzione”, come statuito dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (Cass. 10.05.2007, n. 11084, 10.05.2013, n. 10559), e, quindi, rappresenta il collegamento al livello di responsabilità.
Viene, conseguentemente, ad emersione una situazione in cui assume centralità la tutela dell’interesse al buon funzionamento dell’amministrazione e non certo le scelte del dipendente interessato. Alla stregua delle considerazioni che precedono la delibera di Giunta municipale n. 73 del 01.10.2009, assunta nello stesso giorno della comunicazione del M. si presentava illegittima, come tutte le delibere e i decreti successivi, da un lato perché faceva discendere dalle “dimissioni” (rectius: volontà di non proseguire nell’esercizio di una funzione) la vacanza della posizione organizzativa di responsabile dell'Ufficio tecnico, non trattandosi di un “mandato” elettivo (come risulta dall'incipit della proposta di deliberazione); dall'altro perché faceva conseguire dalla supposta “vacanza” la necessità di “attivare altri tipi di rapporti contrattuali previsti dalla legge n. 267 del 2000”.
Infatti, anche ammessa e non concessa l'impossibilità per il Comune di continuare ad avvalersi dell'operato del M., prima di stipulare un contratto di cui all'art. 110 del T.U.E.L. sarebbe stato doveroso, per la Giunta, individuare altre possibili soluzioni, quali ad esempio la nomina del Segretario comunale per il compimento di alcuni atti come previsto all'art. 18, penultimo comma, del Regolamento di Organizzazione.
Nessuna rilevanza assume, per quanto sopra detto, la volontarietà o meno delle “dimissioni” del M., oggetto –ad altri fini- del giudizio davanti al Giudice del Lavoro, né la sua richiesta di mobilità. Nel descritto e caratterizzato contesto l’affermazione contenuta a pagina 3 della sentenza in data 21.10.2012 pronunciata dal Giudice, secondo cui il dipendente “aveva la piena disponibilità dei diritti nascenti dal conferimento della posizione organizzativa”, non è condivisa dal Collegio, stante il chiaro tenore letterale dell'art. 109 del T.U.E.L., e delle previsioni contenute nel C.C.N.L. per il personale non dirigente –richiamato e riportato nella stessa decisione– ove è stabilito che gli incarichi per le posizioni organizzative devono essere conferiti da parte degli enti locali con atto scritto e motivato e possono essere revocati con le stesse modalità, previo contraddittorio con il dipendente nel caso di una valutazione non positiva del suo operato (art. 9).
Si tratta, quindi di disciplina che esclude qualsiasi atto unilaterale di “dimissioni” dall'incarico del dipendente, fatta salva, ovviamente, la possibilità di abbandonare l'impiego, circostanza non ricorrente nella specie; il M., infatti, ha continuato ad operare come dipendente del Comune di Rapino.
Il comportamento degli odierni convenuti, poi, è ancora più grave ove si consideri che il M., a distanza di pochi mesi, ha attivato il tentativo obbligatorio di conciliazione lamentando l'illegittimità della sostituzione e affermando, a ragione, l'irrilevanza della propria manifestazione di volontà essendo, l'incarico, ricompreso nelle funzioni del dipendente.
La Giunta e soprattutto il Sindaco C. avrebbero dovuto tener conto di tale volontà e reintegrarlo nell'incarico, anziché continuare a rinnovare l'oneroso contratto con l'arch. S..
Se fossero state sussistenti altre ragioni, quali la asserita incompatibilità del dipendente, esse avrebbero dovuto essere esplicitate in un atto di revoca del Sindaco che aveva, a suo tempo, provveduto alla nomina del M.; atto di ritiro che non è mai stato adottato, mentre la sanzione disciplinare del dipendente è intervenuta soltanto nel 2011.
Insomma, la vicenda, come osservato dall’attore nella sua requisitoria, sembra trovare la sua genesi in contrasti maturati tra opposte fazioni politiche (il M., in precedenza, era stato Sindaco di Rapino) che, peraltro, hanno cagionato un rilevante danno all'amministrazione comunale con l'assunzione non necessaria e immotivata, perdurante nel tempo, di un professionista esterno per svolgere compiti che avrebbero potuto essere adempiuti da un soggetto che da più di un decennio li aveva portati a termine, con il mero esborso dell'indennità di posizione anziché di euro 20.000,00 annuali oltre accessori, come quantificato dal Segretario comunale nella nota in data 27.03.2013.
A questo riguardo si sottolinea che nessun valore riveste la sentenza del G.U.P. presso il Tribunale di Chieti n. 269/2013 in data 16.12.2013 di non luogo a procedere nei confronti del C., dell'O. e del S. per il reato di abuso di ufficio.
Infatti, la decisione, resa ai sensi dell'art. 423 c.p.p., è inidonea al passaggio in giudicato, potendo essere revocata ex art. 434 c.p.p.; del resto ai fini della consumazione del reato contestato, la legge penale prescrive la sussistenza del dolo specifico della finalità di arrecare un vantaggio patrimoniale (nella specie al S.), elemento non necessario per la configurabilità della responsabilità amministrativo-contabile.
Ai fini del presente giudizio, poi, l’affermazione del Giudice penale secondo cui l'operato dei convenuti è stato legittimo “a fronte di una manifesta volontà di non proseguire nella funzione prima ricoperta”, appare del tutto trascurabile posto che, come si è detto, l’espressione di detta determinazione –immediatamente mutata– era assolutamente irrilevante andando ad incidere su atti di nomina e di conferimento di funzione ( nella specie di Responsabile dell'Ufficio tecnico), non solo disciplinati dalla legge e dal regolamento comunale, ma anche di esclusiva spettanza del Sindaco e della Giunta municipale e, pertanto, al di fuori del perimetro dei diritti disponibili del dipendente.
Né, peraltro, possono valere a legittimare l'operato dei convenuti prassi contra legem, invalse prima dell'insediamento della nuova Giunta ed attribuite all'ex sindaco M.G. e ad altri soggetti, come l'assunzione al di fuori dell'organico di personale per attendere a specifiche mansioni proprie dell'ente territoriale.
L’introduzione nel thema decidendi della controversia della circostanza, peraltro priva di supporto probatorio, dell’altrui illecito comportamento, non rende conforme all’ordinamento l’omologo atteggiamento censurato dalla Procura regionale e non può, quindi, configurare, come sembrano sostenere le difese dei convenuti, una esimente della ascritta responsabilità.
Infatti le rispettive condotte illecite e dannose non si elidono tra loro, ma si sommano provocando un più consistente depauperamento dell'ente.
Del resto se prima della vicenda in rassegna, gli amministratori dell’ente avessero consumato illeciti erariali, gli odierni convenuti non avrebbero dovuto persistere nella medesima illecita attività, ma denunciarla alla Procura regionale presso questa Sezione giurisdizionale.
Così delineata e qualificata la condotta dei convenuti, va da sé che dalla delibera n. 73/2009 e dai successivi decreti sindacali di conferma del contratto (non ha rilevanza se rinnovato o prorogato) senza soluzione di continuità e dalle successive delibere di Giunta del 2011 e del 2012 e relativi decreti, per il periodo dal 03.10.2009 al 30.06.2013, è scaturito un pregiudizio erariale consistente nel pagamento al S. di tutti gli emolumenti dovuti come da prospetto, non contestato, contenuto nell'atto di citazione alle pagine 7 ed 8 per un importo totale di euro 68.800,00 per retribuzioni oltre ad euro 19.466,68 per incentivi di progettazione per un totale di euro 88.266,68.
Nella quantificazione del danno non incidono, attenuandone la misura per i vantaggi conseguiti dalla collettività amministrata, le somme che il Comune avrebbe dovuto corrispondere al geom. M. a titolo di retribuzione di posizione se il medesimo avesse continuato ad esercitare la funzione di Responsabile dell’ufficio tecnico del comune.
La giurisprudenza della Corte dei conti, infatti, ha statuito, in situazioni analoghe, che non è applicabile il disposto dell'art. 1, comma 1-ter della legge n. 20 del 1994 posto che “ai fini della valutazione dei vantaggi di cui alla citata norma, è comunque necessario che gli stessi risultino debitamente comprovati non potendo essere meramente ricollegati alla prestazione resa dal consulente o dall’incaricato esterno” (Sezione Terza di appello n. 66 del 2012 riferita all'impugnazione della sentenza di questa Sezione n. 260 del 2010)
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Abruzzo, sentenza 17.04.2014 n. 36).

PATRIMONIO: Il vantaggio indiretto per il Comune esclude il danno erariale.
Non determina alcun danno erariale il dirigente comunale che concede un immobile del Comune in uso gratuito a un'associazione privata se da ciò deriva un corrispettivo indiretto all'ente come lo svolgimento di servizi e attività di utilità pubblica, nonché obblighi di gestione e di manutenzione dell'immobile in capo all'associazione stessa.
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Il danno azionato in giudizio deriverebbe, secondo la prospettazione di parte attrice, dalla concessione a titolo gratuito di un immobile del patrimonio del Comune di Cagliari a una associazione privata.
In proposito, occorre preliminarmente osservare che
la normativa in materia di concessione di beni pubblici prevede espressamente l'affidamento in concessione, anche gratuita, o in locazione a canone ridotto di beni immobili demaniali e patrimoniali, destinati ad uso diverso da quello abitativo. In questi termini, dispone il D.P.R. 13.09.2005, n. 296 (che ha abrogato la legge n. 390 del 1986 e successive modifiche), agli artt. 9, 10 e 11, con riguardo a particolari categorie di immobili (tra cui quelli d’interesse culturale) ed a specifiche tipologie di soggetti (organizzazioni non lucrative di utilità sociale, associazioni di promozione sociale) … per finalità di interesse pubblico connesse all'effettiva rilevanza degli scopi sociali perseguiti in funzione e nel rispetto delle esigenze primarie della collettività e in ragione dei principi fondamentali costituzionalmente garantiti, a fronte dell'assunzione dei relativi oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria.
Con riguardo al patrimonio indisponibile degli Enti locali, specifiche disposizioni stabiliscono:
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la concessione in uso di beni immobili per il perseguimento di “scopi sociali” che in concreto possono comportare la fissazione di canoni inferiori a quelli di mercato (art. 32, comma 8, della legge n. 724 del 1994);
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la previsione di canoni meramente ricognitori (art. 3, comma 66, della legge n. 549 del 1995) nella concessione di aree e di impianti sportivi in favore delle associazioni o società sportive dilettantistiche e senza scopo di lucro o agli enti di promozione sportiva;
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la concessione in comodato ad associazioni di promozione sociale e ad organizzazioni di volontariato, per lo svolgimento delle loro attività istituzionali (art. 32, comma 1, della legge n. 383 del 2000).
Alla stregua della disciplina di cui sopra va esaminata la concessione del bene del patrimonio comunale denominato Chiesetta Aragonese, il cui rilievo storico culturale non appare, all’evidenza, suscettibile di un uso per scopi commerciali o comunque economicamente lucrativi estranei a finalità pubbliche nelle quali, viceversa, come previsto dall’art. 2 della concessione, trova giustificazione prevalente l’affidamento in uso.
Risulta dagli atti di causa e, in particolare, dalla determinazione n. 9718, del 22.09.2010, che, stante la necessità di provvedere a un servizio di gestione del bene per garantirne la fruibilità e l’accesso al pubblico ed evitare atti vandalici e il nuovo degrado del sito, è stato richiesto, con nota del 27.07.2010, alle associazioni interessate di presentare un progetto di gestione e utilizzo della Chiesetta Aragonese.
Entro i termini stabiliti nella nota di cui sopra, hanno partecipato alla selezione l’Associazione ISARDI e l’Associazione CUM - Centro Universitario Musicale: al progetto presentato dalla prima Associazione è stato attribuito il punteggio di 8/10 e quello presentato dalla seconda è stato valutato con il punteggio di 7/10 (doc. 83 e 84 allegati alla citazione). Si legge nella parte motiva della determinazione che il progetto dell’Associazione ISARDI è stato ritenuto meglio rispondente alle esigenze dell’Amministrazione … in quanto prevede numerose attività, non incentrate su un unico argomento, ma diversificate e spazianti in più discipline, che, pur rispettando il valore storico culturale del sito, rendono lo stesso maggiormente fruibile da una molteplicità di cittadini.
Nella convenzione stipulata con l’Associazione e approvata con il provvedimento in esame –il quale prevede espressamente che la concessione del sito non comporta oneri di alcun genere per l’Amministrazione Comunale– viene stabilito che il concessionario è obbligato:
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a garantire l’apertura al pubblico dell’edificio della Chiesa Aragonese nei giorni e per le ore previsti dal calendario concordato con il Servizio Cultura del Comune, nonché in occasione di manifestazioni culturali, e a presentare trimestralmente allo stesso Servizio una dettagliata relazione sull’attività svolta e sul numero dei visitatori (art. 2);
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a gestire gli impianti a servizio dei locali concessi, assicurando la piena efficienza e funzionalità degli impianti stessi e assumendo a proprio carico la relativa responsabilità sia nei confronti del Comune che dei terzi (art. 5, c. 1);
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a farsi carico di tutte le spese occorrenti al funzionamento della struttura: fornitura dell’energia elettrica, riscaldamento, acqua potabile, pulizia, rimozione dell’immondizia, e ogni altra spesa necessaria all’esercizio stesso e, infine, a dotarsi di arredi e attrezzature consone al sito e previa approvazione del Servizio (art. 5, c. 2 e 3).
In convenzione
si prevede, infine, l’utilizzazione dell’immobile, oltre che per le finalità culturali di cui all’art. 2, anche per le finalità istituzionali dell’Associazione e per la realizzazione del programma di attività culturali e didattiche presentato ai fini della concessione (art. 3): attività queste di interesse dell’ente locale e svolte o da svolgersi senza oneri a carico del Comune.
Nel periodo di circa un anno di vigenza della concessione, l’Associazione interessata ha sostanzialmente assolto agli obblighi dedotti in convenzione. In ogni caso, nessuno specifico addebito è stato mosso al riguardo da parte attrice, fatta eccezione per le spese relative alla fornitura di energia elettrica sostenute dal Comune nel periodo, a causa della mancata voltura dell’utenza: spese che, peraltro, non sono state quantificate né hanno formato oggetto della pretesa risarcitoria.
Il concreto soddisfacimento delle finalità della concessione si evince proprio dalla determinazione n. 10218, in data 12.10.2011, di revoca della convenzione, nelle cui premesse si da atto che con nota del 23.09.2011 era stato contestato all’associazione il mancato rispetto delle prescrizioni di cui agli artt. 2 e 3 della convenzione citata e, in particolare, la mancata apertura della chiesa per diversi giorni nella settimana dal 12 al 17.07.2011 e nei giorni 6 e 07.09.2011, senza previa tempestiva comunicazione al pubblico e al Servizio del Comune concedente, e la mancata presentazione della relazione trimestrale.
In disparte la considerazione che tali osservazioni sono state formulate nell’imminenza del provvedimento di revoca della concessione e, probabilmente proprio in funzione della determinazione stessa, mentre in precedenza non risulta che sia stato formulato alcun rilievo circa la regolarità e la correntezza del servizio, vi è da dire che la mancata apertura al pubblico del monumento per soli otto giorni nell’arco di un anno, non appare sicuro indice di ulteriori gravi inadempienze dell’Associazione nell’esecuzione del rapporto concessorio.
Oltretutto, per quanto riguarda la gestione dell’immobile, dalla relazione, in data 04.04.2012, redatta dal funzionario tecnico incaricato dal Comune di verificare lo stato d’uso e manutenzione del sito, emerge che, a parte la presenza di macchie di umidità e di distacchi di tinteggiatura all'interno della struttura e la rottura del vetro della finestra del box esterno all’edificio (già esistente), non sono stati rilevati danni dovuti all'uso rispetto alla situazione del sito constatata all’atto della consegna dell’01/10/2010.
Per quanto riguarda il danno erariale, che la Procura attrice ha quantificato in € 13.041,60, pari alla somma dovuta al Comune nel periodo intercorrente dal 24.09.2010 al 24.04.2012, sulla base della stima peritale redatta dal tecnico del competente Servizio dell’Ente, la difesa ne ha eccepito l’infondatezza, contestando l’asserita gratuità della concessione d’uso del bene comunale perché l’obbligo di pagare un canone era sostituito dall’onere a carico del concessionario di effettuare molteplici prestazioni a favore dell’amministrazione comunale, gran parte delle quali erano estranee alle spese gestionali ordinarie e ai compiti di ordinaria manutenzione, rappresentando attività che, altrimenti, avrebbero dovuto essere svolte dal Comune, con accollo dei relativi costi.
In ogni caso, ha dedotto la sua non attualità, in quanto il Comune potrebbe ancora pretendere dall’associazione il pagamento del proprio credito, non essendo ancora intervenuto il termine prescrizionale dei cinque anni. Tale ultima argomentazione non è conferente, ove appena si consideri che, essendo stata espressamente prevista dal provvedimento di approvazione della convenzione la gratuità dell’assegnazione, nessun credito può vantare il Comune nei confronti dell’associazione.
E’ viceversa coerente con la realtà, risultante dagli atti di causa, l’assunto della sostanziale onerosità della concessione.
Si è detto in precedenza che,
in ragione delle sue peculiarità storiche e culturali, il monumento denominato Chiesetta Aragonese non è affatto assimilabile ad immobile suscettibile di redditività e/o da destinare a scopi economicamente lucrativi, rilevando piuttosto finalità di fruizione pubblica. E’, dunque, fuor di dubbio che con la sua concessione d’uso il Comune ha conseguito (o si è ripromesso di conseguire per la durata della concessione) un risparmio in termini di spese di gestione, di custodia e di manutenzione del sito, specie con riguardo alle spese del personale necessario per il compimento di tali attività, raggiungendo nello stesso tempo lo scopo di consentire la visita del monumento e di impedire atti vandalici e un nuovo degrado del sito (considerata anche la sua recente ristrutturazione).
La forma concessoria adottata si è rivelata funzionale a garantire la cura del bene, a consentirne la fruizione pubblica e a realizzare iniziative culturali e sociali, senza alcun onere per le finanze dell’Ente.
Si può, pertanto, fondatamente ritenere che la concessione di cui si tratta, ancorché conferita a titolo formalmente gratuito, non sia stata priva di congruo corrispettivo per la parte pubblica, in quanto sono stati espressamente previsti a carico del concessionario servizi e attività di utilità pubblica, e obblighi di gestione e di manutenzione ordinaria e straordinaria dell’immobile sicuramente comportanti oneri quantificabili anche monetariamente.
Sotto questo profilo,
nell’affidamento della gestione della Chiesetta Aragonese all’Associazione culturale ISARDI non è ravvisabile alcun danno patrimoniale per l’amministrazione comunale, atteso che, come si è detto più volte, l’amministrazione comunale, da un lato, ha potuto soddisfare l’interesse alla fruizione pubblica del sito e, dall’altro, ha conseguito l’altrettanto rilevante obiettivo della gestione, della vigilanza e della tutela del monumento, delle strutture annesse e dell'area verde circostante, senza onere alcuno a carico del bilancio del Comune.
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, si deve, pertanto, pronunciare il proscioglimento del convenuto dalla domanda attrice
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Sardegna, sentenza 16.09.2013 n. 234).

NEWS

EDILIZIA PRIVATA: Automatizzazione al catasto. Variazioni con registrazione immediata negli archivi. Circolare dell'Agenzia delle entrate sulle funzionalità del nuovo software Pregeo.
Procedimento di registrazione delle variazioni in catasto terreni senza alcun intervento manuale, ma totalmente automatizzato.

L'Agenzia delle entrate -direzione centrale catasto e cartografia- ha presentato le funzionalità del nuovo software (Pregeo 10.6) con la circolare 29.12.2014 n. 30/E, che si affianca alla procedura di approvazione automatica degli atti di aggiornamento del catasto terreni, con contestuale aggiornamento della mappa e dell'archivio censuario.
La precedente versione del software (10.5.0) si basava sull'uso delle cosiddette «tipologie codificate» che permettevano la predisposizione degli atti di aggiornamento, solo nella metà dei casi, mentre la nuova versione permette di registrare le variazioni al catasto terreni (CT) in maniera totalmente automatica, evitando interventi manuali e partendo dalla proposta del professionista tecnico, dall'estratto di mappa e dal modello per il trattamento dei dati censuari.
La nuova versione, da utilizzare per gli atti a far data dal prossimo 02/01/2015, prevede l'esecuzione di tutti i controlli, di natura formale e sostanziale, implementati e consolidati, rispetto alla versione precedente, con l'immediata registrazione degli esiti negli archivi catastali, con la conseguenza che il nuovo programma, garantisce un più elevato grado di automatizzazione, semplificazione e trasparenza.
I professionisti tecnici, attualmente, devono presentare gli atti di aggiornamento del catasto terreni, riferibili al frazionamento, ai tipi di mappali per i nuovi fabbricati e quant'altro, utilizzando un software che permette di inviare le domande direttamente dallo studio, evitando lo spostamento fisico dello stesso presso gli uffici periferici; detta situazione è possibile, però, per un numero ridotto di variazioni.
La versione in commento, invece, riconosce le variazioni proposte e procede, in via del tutto automatica, alla registrazione della generalità delle variazioni, garantendo la completa trattazione delle dette variazioni catastali riferibili ai terreni, con la contestuale registrazione (e, di conseguenza, con contestuale aggiornamento) degli esiti negli archivi catastali.
Per alcuni particolari atti di aggiornamento, la procedura non risulta in grado di discriminare automaticamente i dati da riportare nel modello, con la conseguenza che, una volta che il modello risulta generato ma non coerente con la variazione richiesta, il professionista potrà comunque eseguire le necessarie correzioni, attenendosi a quanto indicato in altro documento di prassi (circ. 3/T/2009).
Infine, l'Agenzia evidenzia che il modello destinato al trattamento dei dati censuari, generato in automatico dal software evoluto, resta una mera utility a disposizione del professionista e che la responsabilità, sulla corretta compilazione del modello, resta sempre in capo al redattore stesso (articolo ItaliaOggi del 30.12.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Ok al Mud del 2015, presentazione al 30 aprile.
Approvato il modello unico di dichiarazione ambientale (Mud) per l'anno 2015. Vi provvede il dpcm 17.12.2014 (in Gazzetta Ufficiale n. 299 del 27.12.2014, supplemento ordinario n. 97).
Il nuovo modello è stato adottato per consentire di acquisire i dati relativi ai rifiuti di tutte le categorie di operatori (Raee, rifiuti di imballaggi, accumulatori, rottami metallici, rottami di vetro e di rame ecc.), in attuazione anche della più recente normativa europea.
Il modello, che va a sostituire quello approvato con il dm 12.12.2013, dovrà essere utilizzato per le dichiarazioni da presentare, entro il 30.04.2015, con riferimento all'anno 2014 e sino alla piena entrata in operatività del Sistri, che, secondo quanto stabilito dal dm 20.03.2013, è scattata con un calendario diversificato per tipologia di soggetti: dal 01.10.2013 per i soli gestori, intermediari e commercianti di rifiuti speciali pericolosi e per i nuovi produttori di rifiuti pericolosi e dal 03.03.2014 per i produttori iniziali di rifiuti pericolosi e per i comuni e le imprese di trasporto di rifiuti urbani nella regione Campania.
Il modello Mud va presentato presso la camera di commercio competente per territorio, in cui ha sede l'unità locale, cui si riferisce la dichiarazione. Il nuovo modello Unico di dichiarazione ambientale è diviso in sei comunicazioni: rifiuti, veicoli fuori uso, imballaggi, rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, rifiuti urbani e assimilati e produttori di apparecchiature elettriche ed elettroniche.
I soggetti che svolgono attività di solo trasporto e gli intermediari senza detenzione devono invece presentare il Mud alla camera di commercio della provincia nel cui territorio vi è la sede legale dell'impresa cui la dichiarazione si riferisce. Deve essere presentato un Mud per ogni unità locale che sia obbligata dalla normativa vigente (articolo ItaliaOggi del 30.12.2014).

ENTI LOCALI - TRIBUTI: Lo scuolabus non è un autobus E la pubblicità è vietata. Il ministro dei trasporti: per farla serve una legge.
Non è possibile tappezzare gli scuolabus con pubblicità di terzi a titolo oneroso perché il servizio di trasporto degli alunni non ricade tra quelli ammessi nella deroga di legge per taxi, noleggio con conducente, autobus e tram.
Il comune dovrà quindi attrezzarsi diversamente per recuperare preziose risorse da dedicare al trasporto degli alunni.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere n. 4760/2014.
Un comune ha richiesto chiarimenti al dipartimento per i trasporti terrestri sull'opportunità di collocare impianti pubblicitari sugli scuolabus. A parere dell'organo tecnico centrale questa pratica che potrebbe consentire ai comuni di recuperare qualche risorsa di vitale importanza per le economie scolastiche non è ancora ammessa dalla legge. Ovvero completamente affrancata dai laccioli della burocrazia.
Il codice stradale infatti ammette la possibilità di effettuare pubblicità sui veicoli a titolo oneroso solo in pochi casi. Tra questi ricadono i mezzi adibiti al trasporto pubblico di linea di persone come autobus, tram e metropolitane. Oppure taxi e veicoli a noleggio con conducente disciplinati alla legge n. 21/1992. Ma non è certo il caso degli scuolabus di proprietà comunale che effettuano un trasporto di alunni in conto proprio.
Questa attività a parere dell'estensore non risulta assimilabile ad alcuna delle categorie esentate dal generico divieto di effettuazione di pubblicità onerosa per conto terzi sui mezzi di trasporto. Anche se lo spirito della legge in fondo potrebbe comunque essere rispettato, il ministero non se la sente di forzare il rigido dettato normativo ammettendo la possibilità di allestire impianti pubblicitari a pagamento sugli scuolabus comunali.
Resta anche vero che la creatività degli amministratori locali spesso oltrepassa di gran lunga il dettato normativo. Dall'altra parte però il ministero guidato da Maurizio Lupi non ha un interesse diretto e la sensibilità necessaria per ammettere di allargare le maglie della legge con un parere. Senza una modifica normativa, conclude la nota, sugli scuolabus non si possono vendere spazi pubblicitari mentre sui tram, sui veicoli ncc, sugli autobus e sui taxi si. E pure sui veicoli delle onlus (articolo ItaliaOggi del 30.12.2014).

EDILIZIA PRIVATACatasto terreni più semplice. Dal 2 gennaio diventa obbligatoria la versione evoluta di Pregeo. I chiarimenti delle Entrate. La circolare che illustra le caratteristiche della nuova procedura di aggiornamento.
Nuove procedure per il Catasto. Dal 2 gennaio diventa infatti obbligatoria la procedura Pregeo 10 versione 10.6.0. I chiarimenti sulla procedura sono stati forniti ieri dall’agenzia delle Entrate con la circolare 29.12.2014 n. 30/E.
Pregeo è la procedura informatica che l’agenzia delle Entrate mette a disposizione dei professionisti per predisporre gli atti di aggiornamento geometrico del Catasto terreni, con la finalità di aggiornare la mappa catastale in occasione delle nuove costruzioni ovvero per il frazionamento di particelle di terreni, in vista di una vendita parziale.
La release attualmente in uso della procedura Pregeo 10 (Versione 10.5.1), rilasciata già da circa quattro anni, ha costituito una svolta storica, un vero cambio di filosofia in tema di approvazione degli atti di aggiornamento cartografico. La novità ha riguardato l’approvazione in automatico dei documenti di aggiornamento, senza intervento manuale dell’operatore, e, tutto ciò, in una delle operazioni tecniche più complesse dell’attività catastale. Tuttavia la casistica dei tipi di aggiornamento, molto articolata, nella prima fase di automazione del processo ha consentito l’approvazione in forma completamente automatica solo per il 50% dei casi.
Per incrementare ulteriormente la quota percentuale di atti trattabili in automatico è stato cambiato l’approccio del procedimento di classificazione dei tipi. La nuova tassonomia degli atti viene generata sulla base dell’enucleazione delle operazioni catastali effettuate dall’atto di aggiornamento dall’insieme delle possibili operazioni definite a priori:
- demolizione di un fabbricato annesso a una particella o di porzione di fabbricato;
- demolizione totale di un fabbricato;
- ampliamento di un fabbricato esistente;
- inserimento di un nuovo fabbricato;
- frazionamento di particelle;
- fusione di particelle o di derivate di particelle;
- aggiornamento di linee varie, simboli o testi;
- aggiornamento relativo a subalterni di fabbricati rurali.
In particolare, la nuova procedura enuclea le operazioni catastali contenute implicitamente in un atto di aggiornamento sulla base del confronto di tipo geometrico tra la “proposta di aggiornamento cartografico”, che il professionista produce durante la predisposizione dell’atto e l’estratto di mappa. Contestualmente la procedura esplica tutti i controlli che competono alla tipologia determinata. Resta semplificata anche l’attività del professionista cui è demandato esclusivamente il compito di selezionare una “macro categoria”, preventivamente alla disposizione dell’atto, secondo uno schema ad albero, controllato dalla procedura che è Ordinaria, Semplificata o Speciale.
La nuova procedura nasce a coronamento di una sperimentazione condotta in collaborazione con categorie professionali e agenzia delle Entrate che ha coinvolto per i primi sei mesi del 2014, cinque uffici provinciali–territorio. La nuova procedura comprende tutti i controlli, formali e sostanziali, già implementati nella vecchia procedura e ormai funzionanti con un elevato grado di efficienza, oltre a nuovi controlli e funzionalità aggiunte.
A partire dal 01.07.2014, la sperimentazione è stata estesa su tutto il territorio nazionale e, quindi, è già stato possibile presentare, facoltativamente, gli atti di aggiornamento redatti con la nuova versione di Pregeo. Il nuovo sistema di aggiornamento diventerà obbligatorio dal 02.01.2015
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.12.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIARestyling completo per il «Mud» 2015. Ambiente. Rinnovato il modello di dichiarazione.
Anche il 2015 avrà un Mud (Modello unico di dichiarazione ambientale) tutto nuovo. Risiede nel Dpcm 17.12.2014 («Gazzetta Ufficiale» 299 del 27 dicembre) e sostituisce integralmente il Dpcm 12.12.2013. Pertanto, per le dichiarazioni effettuate entro il 30.04.2015 (e comunque «sino alla piena entrata in operatività del Sistri») alle competenti Cciaa, per i rifiuti prodotti e gestiti nel 2014 e le apparecchiature elettriche ed elettroniche (Aee) immesse sul mercato, le imprese useranno questo nuovo modello. Dal 19.01.2015 sarà online la nuova versione del registro nazionale dei produttori di Aee.
Le novità
Il nuovo Mud presenta le seguenti principali novità: i cantieri temporanei o mobili (anche di bonifica) possono utilizzare il modulo RE per i rifiuti prodotti fuori dell’unità locale; gli imballaggi possono essere indicati non solo con il codice 15 ma anche il 20. In tal modo il Mud è stato costretto a prendere atto di un errore grave ma molto diffuso nelle autorizzazioni. Inoltre, vanno dichiarate solo le operazioni di recupero e di smaltimento diverse da R13 (messa in riserva) e D15 (deposito preliminare), successive a esse, poiché la loro indicazione duplicava le quantità dichiarate. Le giacenze presenti nelle operazioni R13 e D15 vanno divise, a beneficio dei bilanci di massa.
In attesa del Sistri
Il Mud resta un punto fermo nella tracciabilità dei rifiuti nonostante il clamore suscitato dal Sistri che aveva creato non poca confusione anche sulle sanzioni relative al Mud, poi chiarita dal Dl 101/2013. L’articolo 11 di questo decreto legge ha modificato l’ambito di applicazione del Sistri e previsto nuovi termini per l’adesione dei nuovi obbligati. Quindi, fino alla piena operatività del Sistri, il Mud dovrà essere presentato sia dai soggetti non obbligati ad aderire al Sistri sia da quelli obbligati (si veda la circolare del ministero dell’Ambiente 1/2013 sul Sistri).
L’invio del Modello
Anche quest’anno il Mud è articolato in sei comunicazioni: rifiuti; veicoli fuori uso; imballaggi (sezione Consorzi e sezione Gestori rifiuti di imballaggio); rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee); rifiuti urbani, assimilati e raccolti in convenzione; produttori di apparecchiature elettriche ed elettroniche (Aee).
Destinataria del Mud è la Cciaa della provincia ove ha sede l’unità locale cui è riferita la dichiarazione (chi effettua solo trasporto e gli intermediari senza detenzione lo presentano alla Cciaa della provincia in cui l’impresa ha la sede legale). Va presentato un Mud per ogni unità locale.
L’invio è esclusivamente telematico a eccezione della scheda semplificata che può essere utilizzata da soggetti che, nell’unità locale cui è riferita la dichiarazione, producono fino a sette tipologie di rifiuti e, per ogni rifiuto, usano non più di tre trasportatori e tre destinatari. In questo caso è possibile scegliere fra trasmissione telematica e cartacea (raccomandata senza ricevuta di ritorno). Le dichiarazioni telematiche sono soggette al pagamento di un diritto di segreteria pari a 10 euro per ogni unità locale dichiarante (15 euro per le dichiarazioni su carta). Per la comunicazione Aee non sono previsti diritti di segreteria.
Per la trasmissione telematica i dichiaranti devono possedere un dispositivo contenente un certificato di firma digitale (Smart Card o Carta nazionale dei Servizi o Business Key). Se, nel 2014, non sono state effettuate attività per le quali è prevista la comunicazione, non occorre presentare un Mud in bianco
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.12.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIAGestione rifiuti, regole chiare. Sanzioni solo per le attività oggetto di irregolarità. In una circolare del Comitato nazionale dell'Albo le indicazioni sulla nuova disciplina.
Piena valenza del provvedimento di sospensione condizionale della condanna penale per l'iscrizione all'Albo, validità temporale dell'autocertificazione per l'utilizzo immediato di nuovi veicoli e sua esclusione per variazioni dei rifiuti trasportati, limitazione delle sanzioni alle sole attività oggetto di irregolarità.

Con la prima circolare sul dm MinAmbiente 120/2014 il Comitato nazionale dell'Albo gestori ambientali fornisce le indicazioni sulla nuova disciplina che dallo scorso 07.09.2014 interessa sia le imprese di raccolta, trasporto, intermediazione e commercio di rifiuti che quelle di bonifica dei siti inquinati.
Requisiti per l'iscrizione. La circolare 15.12.2014 n. 1140 chiarisce innanzitutto la valenza delle nuove disposizioni di favore recate dall'articolo 10 del nuovo dm 120/2014 per l'iscrizione all'Albo da parte dei suddetti soggetti che hanno riportato condanne penali.
In particolare, il Comitato nazionale precisa come in presenza di condanna ostativa all'iscrizione, ma munita del beneficio della sospensione condizionale della pena ex articolo 166 del codice penale, la sezione dell'Albo debba procedere all'iscrizione anche, dunque, se ancora non è intervenuta l'estinzione del reato ai sensi del successivo articolo 167 per il mancato decorso dei necessari termini (previsto dal precedente articolo 163).
Tra le altre e nuove ipotesi di favore, si ricorda che il dm 120/2014 ammette l'iscrizione all'Albo anche nei casi in cui siano decorsi almeno dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna così come esclude tra le cause di cancellazione l'intervenuta soggezione a stato di liquidazione o di procedura concorsuale d'insolvenza (rilevanti solo ai fini di prima iscrizione dell'impresa).
Variazioni. Il Comitato nazionale chiarisce i termini dell'operatività delle variazioni relative a parco mezzi e sede legale comunicate all'Albo. In relazione ai veicoli preposti al trasporto rifiuti, l'articolo 18 del dm 120/2014 sancisce infatti che l'immediato utilizzo di nuovi mezzi sia possibile previa comunicazione all'Albo a mezzo di dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà ex dpr 445/2000 redatta secondo il modello adottato dal Comitato nazionale (con delibera 03.09.2014 n. 5).
Tale dichiarazione, ricorda però la circolare: è valida (ai sensi della citata delibera) per un periodo massimo di 60 giorni dalla data della sua presentazione; è utilizzabile solo per modifiche della dotazione dei veicoli e non per le variazioni relative ai codici «Eer» (ossia dei codici previsti dall'«Elenco europeo rifiuti», allegati alla parte IV del dlgs 152/2006 e meglio noti come codici «Cer»); non è suscettibile di proroga e la sua scadenza senza l'intervenuta delibera di variazione della competente sezione locale (che pur deve pronunciarsi sul caso con urgenza e precedenza) comporta la cancellazione del veicolo dall'Albo (dunque, con l'impossibilità di poterlo legittimamente utilizzare per il trasporto dei rifiuti).
In relazione, invece, alla variazione per trasferimento della sede legale dell'azienda chiarisce il Comitato nazionale come sia sufficiente la comunicazione tramite «Pec» (ossia via posta elettronica certificata) alla sezione regionale del Registro delle imprese del territorio di destinazione.
La validità di tale dichiarazione anche ai fini della variazione dell'iscrizione all'Albo gestori ambientali è evidentemente fondata sul comma 3 del citato articolo 18 del dm 120/2014, ove si stabilisce come «le variazioni effettuate al registro delle imprese (_) relative alle variazioni della ragione sociale, della sede legale, degli organi sociali, delle trasformazioni societarie e delle cancellazioni si intendono effettuate anche alla sezione regionale competente e sono trasmesse d'ufficio per via telematica dal registro delle imprese (_) alla sezione regionale stessa che provvede entro 30 giorni a recepire le modifiche dandone comunicazione alle imprese o agli enti interessati».
Provvedimenti disciplinari. La circolare 1140/2014 precisa come il mancato pagamento del diritto annuo d'iscrizione nei termini previsti (ossia, entro il 30 aprile di ogni anno) comporti, ai sensi del combinato disposto degli articoli 20 e 24 del dm 120/2014, in primis la sospensione dall'Albo (dunque, con la conseguente impossibilità di effettuare legittimamente le relative attività di gestione rifiuti) ed eventualmente, laddove permanga per oltre 12 mesi dall'adozione di tale prima sanzione, la cancellazione dallo stesso.
Al riguardo l'Albo sottolinea come il computo del suddetto termine (di 12 mesi) vada applicato anche ai provvedimenti di sospensione intervenuti prima dell'entrata in vigore del nuovo dm 120/2014 (dunque, ante 07.09.2014).
Le sanzioni, precisa però il Comitato nazionale, devono essere irrogate esclusivamente per le attività svolte nell'ambito della categoria d'iscrizione in relazione alla quale si riscontrano irregolarità, per cui (si ritiene ad avviso dello scrivente) i relativi provvedimenti inibitori (di sospensione o cancellazione) non potranno riguardare le eventuali categorie d'iscrizione in relazione alle quali nessuna contestazione è opponibile. Ricordiamo infatti che ai sensi del citato articolo 24, il diritto annuale è declinato sulle diverse categorie di attività previste dal dm 120/2014.
La nuova disciplina Albo gestori ambientali. Come anticipato in apertura, dal 07.09.2014 le nuove regole sull'Albo sono quelle sancite dal dm MinAmbiente 03.06.2014, n. 120, adottato in attuazione del dlgs 152/2006 (cosiddetto «Codice ambientale») e pubblicato sulla G.U. 23.08.2014 n. 195, regolamento che da tale data sostituisce l'omonima disciplina recata dal dm 28.04.1998 n. 406.
Al centro delle novità vi sono la telematizzazione delle procedure burocratiche, l'obbligo di verifica permanente delle capacità tecniche dei «responsabili tecnici» della corretta gestione dei rifiuti, l'upgrade del novero dei soggetti obbligati all'iscrizione, con l'aggiunta di tre nuove categorie: «3-bis» (distributori, installatori di apparecchiature elettriche ed elettroniche, trasportatori dei relativi rifiuti ex dm 65/2010); «6» (trasporto transfrontaliero di rifiuti); «7» (operatori logistici del trasporto intermodale rifiuti).
E in tema di categorie d'iscrizione si ricorda come con parere 954/2014 l'Agenzia delle entrate abbia proprio negli scorsi giorni precisato che la tassa governativa ex dpr 641/1972 è dovuta per ogni singola attività di gestione rifiuti autorizzata dall'Albo gestori ambientali (si veda ItaliaOggi Sette del 15/12/2014).
A dare attuazione alle nuove regole del Dm 120/2014 hanno invece fino a oggi provveduto già ben otto delibere del Comitato nazionale (si veda la tabella riportata in questa stessa pagina, e a mente dello stesso decreto ministeriale, per quanto da essere non previsto, continueranno comunque a valere, fino all'adozione delle ulteriori disposizioni di dettaglio, le compatibili e omonime norme adottate in base alla pregressa disciplina (ossia, sotto il citato dm 406/1998) (articolo ItaliaOggi Sette del 29.12.2014).

CONDOMINIOTelecamere, obiettivo sicurezza. Sì alla videosorveglianza nei limiti dettati dalla privacy. Sul tema è intervenuta di recente anche la Corte di giustizia Ue (causa C-212/13).
Telecamere consentite in condominio ma soltanto allo scopo di tutelare la sicurezza delle persone e dei beni, con ridotto ambito visivo e con il rispetto degli adempimenti preliminari indicati dall'Autorità garante.

Una delle novità più innovative contenute nella legge di riforma del condominio n. 220 del 2012 è stata quella che ha legittimato l'installazione di impianti di videosorveglianza sulle parti comuni e che ha specificato il procedimento necessario per adottare tale soluzione. Infatti in precedenza la videosorveglianza in ambito condominiale non aveva una normativa specifica di riferimento e aveva addirittura condotto alcuni giudici a negare la possibilità delle videoriprese.
Tale lacuna normativa era stata segnalata dall'Autorità garante della privacy, che aveva in più occasioni evidenziato al governo e al parlamento l'assenza di una puntuale disciplina capace di risolvere alcuni problemi applicativi evidenziati nell'esperienza degli ultimi anni. Non era risultato chiaro infatti se, pur applicando i principi generali, l'installazione di sistemi di videosorveglianza potesse essere decisa dai soli condomini o se fosse necessario coinvolgere anche i conduttori del caseggiato. In ogni caso il problema centrale era sempre stato quello dell'individuazione del numero di voti necessario per la relativa delibera assembleare, non essendo chiaro se per l'installazione di detto impianto occorresse l'unanimità o fosse sufficiente una determinata maggioranza.
Secondo una decisione di un giudice di merito l'assemblea di condominio non avrebbe nemmeno potuto validamente deliberare in materia, in quanto lo scopo della tutela dell'incolumità delle persone e dei beni di proprietà dei condomini non sarebbe rientrato tra le attribuzioni dell'organo assembleare. Un'altra decisione di merito aveva poi sottolineato che il singolo condomino, in mancanza di una normativa ad hoc, non avrebbe avuto alcun potere di installare, per sua sola decisione, delle telecamere idonee a riprendere spazi comuni o addirittura spazi esclusivi di proprietà di altri condomini.
Come detto la legge n. 220/2012 ha infine risolto ogni dubbio sulla possibilità di effettuare riprese video nelle parti comuni del condominio e ha confermato come le deliberazioni concernenti l'installazione di impianti volti a consentire la videosorveglianza possano essere approvate dall'assemblea con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio (art. 1136, comma 2, c.c.). L'assemblea quindi può certamente deliberare di introdurre nuovi impianti volti a garantire i beni (comuni e individuali) ma anche l'incolumità degli stessi condomini o loro familiari.
Nel votare la delibera in questione l'assemblea deve comunque operare per il solo raggiungimento delle finalità di tutela delle persone e dei beni comuni e non avere di mira altri obiettivi che, viceversa, renderebbero il trattamento dei dati intrinsecamente illegittimo (si pensi, ad esempio, alla concorrente normativa sui c.d. atti emulativi, ovvero su quelle attività poste in essere all'unico o prevalente scopo di arrecare fastidio a terzi). In casi del genere, come anche nel caso in cui l'assemblea decidesse di non porre in essere gli adempimenti previsti dalla legge e dei quali si dirà a breve, la delibera favorevole all'installazione dell'impianto, anche se approvata con la maggioranza di legge, potrebbe risultare invalida.
Infatti l'amministratore di condominio, munito della predetta deliberazione assembleare, è tenuto ad adottare tutte le cautele previste dal provvedimento generale dell'Autorità garante per la protezione dei dati personali in materia di videosorveglianza dell'8 aprile 2010 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 99 del 22 aprile 2010). In particolare quest'ultimo è tenuto ad affiggere un cartello informativo in un luogo visibile e aperto al pubblico (si tratta di un facsimile che rappresenta il disegno di una telecamera e che contiene un'informativa semplificata e che si può scaricare dal sito internet della medesima Authority, all'indirizzo www.garanteprivacy.it).
Detto avviso deve comunque essere integrato con almeno un'altra informativa maggiormente circostanziata che informi gli interessati circa le finalità delle riprese e l'eventuale conservazione delle immagini, da collocarsi sempre in un luogo di pubblico accesso, ad esempio all'ingresso della portineria.
Nel caso in cui si decida di conservare le immagini riprese dal sistema di videosorveglianza (scelta che richiede l'implementazione di un'organizzazione specifica da parte dell'amministratore) occorre poi stabilire i tempi minimi di conservazione delle immagini (consentita, in ogni caso, per un massimo di 24 ore) e individuare il personale abilitato a visionare le stesse con atto di nomina di responsabile e incaricato del trattamento. In questo caso occorre inoltre anche chiedere all'Autorità garante la verifica preliminare dell'impianto qualora si ricada in uno dei casi particolari previsti dal predetto provvedimento generale.
L'inosservanza degli adempimenti in questione, oltre all'eventuale invalidità della delibera assembleare, può quindi condurre a responsabilità amministrative e perfino penali in capo all'amministratore condominiale (dettagliatamente previste dal dlgs 196/2003 per l'illegittimo trattamento dei dati personali), oltre che esporre i condomini a richieste di risarcimento da parte di eventuali soggetti danneggiati.
Fermo quanto sopra, una volta ottenuta una valida deliberazione assembleare che autorizzi l'installazione dell'impianto, va da sé che per la rilevazione delle immagini non sia più necessario richiedere e ottenere il previo consenso dei condomini dissenzienti, degli inquilini e degli altri soggetti terzi frequentatori dell'edificio condominiale, perché le riprese in questione avranno come obiettivo la tutela della sicurezza delle persone e dei beni comuni, cioè di interessi che la legge, con l'utilizzo delle precauzioni di cui sopra, considera prevalenti rispetto al diritto alla riservatezza dei soggetti eventualmente ripresi.
I singoli condomini possono poi liberamente installare delle telecamere a uso privato nell'ambito della proprietà esclusiva e delle relative pertinenze ma, in questo caso, il raggio visuale dell'impianto deve essere limitato al perimetro delle stesse. In caso contrario, come recentemente ribadito dalla Corte di giustizia europea con la sentenza dello scorso 11.12.2014 resa nella causa C-212/13, il titolare del trattamento è tenuto a rispettare i medesimi adempimenti di cui sopra (con particolare riferimento all'informativa).
La sentenza in questione ha infatti indirettamente confermato quanto già previsto dal citato provvedimento generale dell'Autorità garante del 2010, chiarendo ulteriormente che le videoriprese del proprietario di casa possono considerarsi di utilizzo esclusivamente personale (e dunque esenti dagli obblighi di legge) soltanto ove l'angolo visuale delle riprese sia limitato agli spazi di pertinenza esclusiva (classico l'esempio dell'area antistante l'ingresso dell'appartamento o del box), con esclusione delle parti comuni (cortili, pianerottoli, scale ecc.) e/o di proprietà esclusiva di altri condomini (articolo ItaliaOggi Sette del 29.12.2014).

ENTI LOCALI - VARICENTO «MEMO» NELL’AGENDA 2015. Capitolo per capitolo le scadenze, i rincari e le opportunità più rilevanti per cittadini, imprese e Pa.
Mentre le famiglie si preparano a salutare la fine del 2014 augurandosi dodici mesi migliori, il governo -come peraltro avviene ogni anno- si è impegnato nel gran rush finale per portare a compimento la manovra finanziaria e i provvedimenti collegati al Jobs act, con una serie di misure che coinvolgono tutti, dai privati alle imprese, dai liberi professionisti al settore pubblico. Ma le norme fissate dalla legge di Stabilità e dai decreti approvati la scorsa settimana non rappresentano che una parte delle tante novità e scadenze che andranno ad affollare l’agenda 2015 degli italiani e che derivano da altre fonti normative.
Il Sole 24 Ore -nel tradizionale lavoro di fine anno- ne ha selezionati cento, suddividendoli in una ventina di capitoli, dall’agricoltura ai trasporti: un nucleo di base che è senz’altro destinato ad arricchirsi nel corso dei prossimi mesi. Cento “memo” che comprendono rincari, modifiche, agevolazioni, proroghe, conferme o cambi di rotta che è bene memorizzare per non farsi cogliere impreparati ed essere pronti a sfruttare le eventuali opportunità.
Sul fronte dei rincari, per esempio, mentre si può tirare un sospiro di sollievo sulla Tasi e sull’Imu, è giusto ricordare che c’è in vista un aumento delle tariffe idriche; che le multe per le contravvenzioni stradali cresceranno a partire proprio dal giorno di Capodanno; che sale al 20% la tassazione sui rendimenti dei fondi complementari e che cambiano le condizioni applicate ai minimi per le partite Iva aperte dal 1° gennaio in poi. Sul fronte previdenziale, stop fino al 2017 alle penalità per chi sceglie la pensione anticipata prima dei 62 anni, ma aumento dei contributi per agricoltori, commercianti e autonomi.
Quanto al lavoro, in arrivo il riordino degli ammortizzatori sociali, gli sgravi sulle assunzioni e un sistema di tutele crescenti per i nuovi ingressi, mentre restano ancora bloccati i rinnovi contrattuali nel pubblico impiego. Quanto all’accredito del Tfr in busta paga sarà bene riflettere prima di richiederlo, visto che è soggetto a tassazione ordinaria.
Tra le misure positive la proroga a tutto il 2015 dello sconto fiscale per le ristrutturazioni edilizie e per il miglioramento dell’efficienza energetica così come per l’acquisto di mobili ed elettrodomestici, la stabilizzazione del bonus Irpef di 80 euro, l’arrivo del bonus bebè e l’Iva agevolata al 4% sugli e-book.
Ma dietro l’angolo non ci sono solo novità di tipo economico: per esempio, chi sta per concludere le scuole superiori deve sapere che la prossima estate cambierà l’esame di maturità e chi si appresta ad acquistare un’auto che da settembre entrano in vigore gli standard Euro 6 per le nuove immatricolazioni
 (articolo Il Sole 24 Ore del 29.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAPer i lavori l’obiettivo è la trasparenza online. Sul sito del Comune modelli e piani urbanistici. Procedimento amministrativo. Le informazioni reperibili per avviare gli interventi.
Tutti on-line e a portata di mano i documenti per edilizia e urbanistica. È questa la conseguenza sul settore degli obblighi di trasparenza imposti alle amministrazioni pubbliche dal decreto legislativo 33/2013. Per effetto di questa normativa legata all’anticorruzione, infatti, cittadini e imprese ora devono trovare sui siti degli enti locali sia il corredo di modelli e formulari necessari per i lavori sugli immobili, sia tutte le cartografie e i piani urbanistici del proprio Comune.
La trasparenza e la semplificazione risultano sempre più legati all’uso dell’informatica e della telematica, che sono progressivamente divenuti il principale mezzo di facilitazione degli adempimenti burocratici per cittadini, professionisti ed imprese.
La trasparenza costituisce oggi anche un fondamentale strumento di contrasto dei fenomeni corruttivi e di maladministration.
A questo scopo, sulla base di quanto previsto dalla legge anticorruzione (la n. 190/2012), è stato emanato il Dlgs 33/2013, il cosiddetto “Codice della trasparenza”, che ha disciplinato in modo organico gli svariati obblighi d’inserimento in una apposita sezione dei propri siti internet istituzionali denominata “Amministrazione Trasparente”. Questa, a sua volta, si articola in sotto-sezioni, ognuna caratterizzata da specifici contenuti, ove andranno inseriti i documenti, le informazioni e i dati previsti dai vari articoli del decreto n.33/2013.
I documenti vanno pubblicati per cinque anni, in formato di tipo aperto -cioè in un formato che non richiede all'utente l’utilizzo di un software a pagamento- e riutilizzabile, tale quindi da consentire un successivo uso dei dati anche a fini diversi da quello per cui sono stati inseriti. Ciò in attuazione di quanto previsto dalla direttiva 2003/98/Ce (cosiddetta direttiva Psi - Public sector information), da noi recepita con il Dlgs 36/2006.
I modelli per l’edilizia
In particolare, l’articolo 35 stabilisce che ogni Pa debba pubblicare in una apposita sotto-sezione tutti i dati relativi ai procedimenti di propria competenza, inclusi anche i modelli relativi all’attività edilizia (permesso di costruire, Scia, Comunicazione inizio lavori e denuncia di inizio attività).
Per ogni tipo di procedimento devono essere pubblicate, tra l’altro: una breve descrizione, con indicazione di tutti i riferimenti normativi utili e il termine di conclusione; l’unità organizzativa responsabile dell’istruttoria, il nome dei responsabili del procedimento e del provvedimento, nonché quello del soggetto a cui è attribuito, in caso di inerzia, il potere sostitutivo, i relativi recapiti telefonici e casella di posta elettronica istituzionale; l’indicazione dei procedimenti che possono concludersi con un silenzio assenso e quelli per i quali il provvedimento può essere sostituito da una dichiarazione dell’interessato, come nel caso della Scia o della Dia.
Nella stessa sotto-sezione gli interessati dovranno trovare anche: l’elenco degli atti e documenti da allegare all’istanza, gli eventuali costi e la modulistica necessaria, compresi i fac-simile per le autocertificazioni; gli uffici ai quali rivolgersi per informazioni, i relativi indirizzi, orari, modalità di accesso e recapiti telefonici, nonché le caselle di posta elettronica istituzionale alle quali presentare le istanze ed il link di accesso al servizio on-line, ove sia già disponibile in rete, o i tempi previsti per la sua attivazione.
I piani urbanistici
L’articolo 39 individua i contenuti della sotto-sezione riguardante le attività di pianificazione e governo del territorio, nella quale le Pa devono pubblicare i relativi atti, tra cui i piani territoriali, i piani di coordinamento, i piani paesistici, gli strumenti urbanistici generali e di attuazione, nonché le loro varianti.
Per ciascuno di tali atti andranno anche pubblicati gli schemi di provvedimento prima che siano portati all’approvazione; le delibere di adozione o approvazione; i relativi allegati tecnici.
La norma stabilisce che la pubblicazione è comunque condizione per l’acquisizione dell’efficacia degli atti, ferme restando le discipline di dettaglio previste dalla vigente legislazione statale e regionale. Al riguardo l’Anac (l’Autorità anticorruzione) ha chiarito che l’obbligo di pubblicazione riguarda anche gli strumenti di governo del territorio approvati prima dell’entrata in vigore del decreto, tenuto conto della durata pluriennale di tali atti e del loro impatto sulla collettività.
Ulteriore obbligo di pubblicazione nella medesima sotto-sezione, da aggiornarsi in maniera continuativa, è poi quello riguardante la documentazione relativa a ciascun procedimento di presentazione e approvazione delle proposte di trasformazione urbanistica di iniziativa privata o pubblica in variante allo strumento urbanistico generale, comunque denominato, nonché delle proposte di trasformazione urbanistica d’iniziativa privata o pubblica in attuazione dello strumento urbanistico generale vigente, che comportino premialità edificatorie a fronte dell’impegno dei privati alla realizzazione di opere di urbanizzazione extra oneri o della cessione di aree o volumetrie per finalità di pubblico interesse
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.12.2014).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIAccesso civico per difendersi dal black out. Gli strumenti. In caso di mancata pubblicazione.
Il Codice della trasparenza (Dlgs 33/2013), nel riorganizzare una serie di norme preesistenti, non si è limitato a sancire il diritto dei cittadini alla conoscenza di documenti, informazioni e dati oggetto di pubblicazione obbligatoria da parte delle Pa, ma ha anche introdotto vari strumenti volti a garantire l’effettività di questo diritto, primo fra tutti l’obbligo di indicare, con riferimento ai singoli procedimenti, quali siano gli strumenti di tutela, amministrativa e giurisdizionale, riconosciuti dalla legge in favore dell’interessato ed in che modo attivarli. Questo sia nel corso del procedimento, sia nei confronti del provvedimento finale, sia nei casi di adozione del provvedimento oltre il termine predeterminato per la sua conclusione (articolo 35, comma 1, lettera e).
Sono state anche previste varie forme di responsabilità, disciplinari, dirigenziali e contabili, in capo ai dirigenti e dipendenti preposti ai vari procedimenti, nonché sanzioni amministrative e pecuniarie nei confronti dei soggetti individuati da ciascuna Pa come responsabili degli obblighi di pubblicazione. Tutte queste garanzie sono ovviamente valide anche per la trasparenza in materia di edilizia e urbanistica (si veda l’altro articolo in pagina) e dunque rendono più efficace l’obbligo di pubblicare on-line i modelli per gli interventi edilizi o le cartografie legate agli strumenti urbanistici.
Ma lo strumento più innovativo è però costituito dall’accesso civico, che serve a garantire l’effettività del diritto del cittadino alla trasparenza,
Il nuovo istituto si differenzia dal diritto di accesso disciplinato dalla legge 241/1990, che riguarda i singoli procedimenti e coinvolge i soli soggetti interessati al relativo iter.
L’accesso civico, ai sensi dell’articolo 5 del Codice, costituisce invece un rimedio ed è volto a contrastare l’omissione da parte della Pa di dati, informazioni e documenti che la legge impone di rendere accessibili. Il diritto dei cittadini a conoscerli viene garantito consentendo a tutti di richiedere all’amministrazione di pubblicare gli elementi non presenti o incompleti nelle varie articolazioni della sezione Amministrazione trasparente del sito istituzionale.
La richiesta di accesso civico non è sottoposta a limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente, non deve essere motivata, è gratuita e si presenta al responsabile della trasparenza della Pa obbligata alla pubblicazione dei dati, che entro trenta giorni procederà alla pubblicazione nel sito del documento e lo trasmetterà al richiedente. In alternativa gli comunicherà l’avvenuta pubblicazione, indicando il collegamento ipertestuale a quanto richiesto.
Nei casi di ritardo o mancata risposta il richiedente può ricorrere o al titolare del potere sostitutivo, oppure direttamente alla magistratura amministrativa, competente in via esclusiva a conoscere delle questioni in materia di accesso e violazione degli obblighi di trasparenza, stando in giudizio personalmente e senza necessità di farsi assistere da un difensore. Il giudice procederà con rito camerale, ordinando alla Pa, se del caso, di pubblicare la documentazione richiesta; e ciò anche nel caso in cui gli atti siano stati formati in epoca anteriore alla data di entrata in vigore del Dlgs n. 33/2013, come chiarito dal Tar Campania-Napoli nella sentenza del 05.11.2014 n. 5671
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.12.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOContratti decentrati più «liberi». Saltano i tetti del 2010 e l’obbligo di riduzione dei fondi per le cessazioni. Personale. Sbloccati gli effetti economici delle vecchie progressioni, ma la base di calcolo consolida i risparmi.
A partire dal fondo per la contrattazione decentrata del 2015 non si applicano più né il tetto del 2010 né il vincolo della riduzione in misura proporzionale alla diminuzione del personale in servizio. Nel contempo i fondi dovranno consolidare le decurtazioni operate nel quadriennio 2011/2014 sulla base delle previsioni del Dl 78/2010, articolo 9, comma 2-bis. Ed ancora, nella determinazione del trattamento economico accessorio del personale, dei dirigenti e dei responsabili non si applica il tetto di quanto percepito nel 2010.
Nonostante la mancata approvazione del nuovo tentativo di “sanatoria” dei vecchi decentrati, che non è stato accolto nel testo finale della legge di stabilità, le novità sono molte e le amministrazioni possono dare corso rapidamente all’approvazione dei fondi, anche senza attendere il varo del bilancio preventivo, e di conseguenza potranno stipulare già nei primi mesi il contratto collettivo decentrato integrativo.
Sono queste le principali indicazioni che si possono trarre in materia di contrattazione decentrata dopo la legge di stabilità del 2015. Indicazioni che arrivano soprattutto dalle norme che non ci sono ,cioè dai mancati interventi di proroga di disposizioni che quindi tramontano il prossimo 31 dicembre.
Si può affermare quindi che, fermo restando il prolungamento anche per il prossimo anno del blocco della contrattazione nazionale per i miglioramenti economici (prolungamento del blocco cui si accompagna l’allungamento al 2018 dell’erogazione dell’indennità di vacanza contrattuale nella misura in godimento dal 2010), la norma offre una possibilità di parziale attenuazione dei suoi effetti negativi sul trattamento accessorio dei dipendenti pubblici.
Infatti vengono meno sia il tetto al trattamento economico individuale, sia l’obbligo di restare nel tetto del fondo 2010, sia il vincolo alla riduzione dello stesso in misura proporzionale alla diminuzione del personale in servizio, sia il blocco degli effetti economici delle progressioni disposte nel periodo 2011/2014. Di conseguenza, saltano il divieto di aumentare la indennità di posizione in assenza della attribuzione di nuovi compiti, il tetto massimo della spesa 2010 per le indennità dei responsabili di posizione organizzativa negli enti senza dirigenti (tetto dettato in via interpretativa dal recente parere della sezione autonomie della Corte dei Conti n. 26/2014) e la impossibilità di aumentare il fondo utilizzando gli strumenti previsti dai contratto nazionale (quali l’inclusione della Ria e degli assegni ad personam dei cessati, gli aumenti ex articolo 15, commi 2 e 5, del contratto nazionale del 01.04.1999 e gli incrementi connessi a specifiche disposizioni di legge incentivanti il salario accessorio dei dipendenti).
legislatore si è comunque cautelato in termini di finanza pubblica consolidando in modo permanente i risparmi conseguiti nel quadriennio 2011/2014: la base su cui calcolare il fondo del 2015 è quella del 2014, quindi con tutte le decurtazioni operate in applicazione del Dl 78/2010. Le conseguenze di questa scelta sono due: in primo luogo il fondo del 2014, al pari di quelli del 1999 e del 2004, diventa la base di calcolo per quelli degli anni successivi, e la costituzione del fondo 2015 è enormemente facilitata. Basta infatti prendere come base le risorse decentrate del 2014 di parte stabile. Nel contempo le amministrazioni hanno la possibilità, usando correttamente gli istituti contrattuali, di aumentare tale importo.
Sicuramente su queste scelte pesano i nodi irrisolti, anche dopo la sanatoria della contrattazione decentrata contenuta nel Dl 16/2014, sia per le modalità di costituzione del fondo e del connesso recupero delle somme illegittimamente inserite, sia per l’erogazione in modo illegittimo di compensi, con i dubbi sulla necessità di dover operare dei recuperi negli enti che non hanno rispettato tutti i parametri di virtuosità previsti dal legislatore nella gestione del personale.
In ogni caso non vi sono più alibi per contrattazioni decentrate tardive, che sono il più delle volte mere prese d’atto delle scelte di ripartizione del fondo e depotenziano la possibilità di usare i contratti locali come strumento di miglioramento della organizzazione e della gestione delle risorse umane
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri, tutto rinviato a fine 2015. Sospesi i nuovi adempimenti e le relative sanzioni. CONSIGLIO DEI MINISTRI/ Il dl Milleproroghe concede altri due mesi ai Tar distaccati.
Arriva la proroga per il Sistri. Slitta, infatti, al 31.12.2015 il termine entro il quale le aziende che si occupano di trasporto e smaltimento di rifiuti pericolosi, dovranno lasciare il vecchio sistema di gestione. I soggetti interessati, quindi, avranno altri 12 mesi di tempo per abbandonare il vecchio sistema di tenuta dei registri di carico e scarico, l'aggiornamento del catasto rifiuti e le modalità di movimentazione tradizionali. A restare in vigore solo le sanzioni relative al vecchio sistema di tracciabilità mentre arriva la moratoria per la mancata attuazione delle nuove regole.

Questa una delle disposizioni contenute nel dl Milleproroghe approvato nel corso del consiglio dei ministri che si è svolto mercoledì 24 dicembre. Boccata d'ossigeno per gli addetti ai lavori. Con qualche giorno di ritardo rispetto al previsto, nei giorni scorsi è arrivata la proroga per l'applicazione del Sistri.
In origine, infatti, lo slittamento dei termini al 31.12.2015 doveva trovare spazio nella legge di stabilità. Ipotesi, poi, naufragata a causa dei passaggi del ddl tra Camera e Senato. Obiettivo della proroga, quello di «consentire la tenuta in modalità elettronica dei registri di carico e scarico e dei formulari di accompagnamento dei rifiuti trasportati nonché l'applicazione delle altre semplificazioni».
A trovare spazio all'interno del Milleproroghe anche norme relative al comparto della giustizia amministrativa. Slitta, infatti, dal luglio a settembre 2015 la soppressione delle sezioni staccate dei Tar con sedi in comuni che non sono sedi di corte d'appello. Slitta, di conseguenza dal 31 marzo al 30.06.2015 il dovere da parte del Ministero della giustizia di stabilire le modalità per il trasferimento del contenzioso pendente presso le sezioni che saranno soppresse.
A seguire a ruota, inoltre, anche lo slittamento dal primo luglio al primo settembre 2015 dell'obbligo di deposito dei ricorsi presso la sede centrale del Tar. Sempre sul fronte processuale è stabilito lo slittamento dal primo gennaio al 1° luglio prossimo dell'obbligo di firma digitale di tutti gli atti e i provvedimenti del giudice amministrativo (articolo ItaliaOggi del 27.12.2014).

TRIBUTI: Imu agricola nel congelatore. Zone montane, assoluta incertezza dei criteri applicativi. Il Tar del Lazio ha stabilito la sospensione delle nuove regole fino al 21 gennaio.
Per l'Imu agricola, l'unica certezza è il caos. A rendere ancora più nebuloso il quadro è intervenuto, due giorni prima di Natale, il decreto del presidente del Tar Lazio, che ha congelato il dm del 28 novembre scorso con il quale è stato ridefinito il perimetro dell'esenzione in favore dei terreni collocati in comuni montani e parzialmente montani.

I giudici amministrativi hanno accolto in via preliminare il ricorso presentato da Anci Umbria come capofila di una serie di Anci regionali (Abruzzo, Liguria, Veneto), sospendendo l'efficacia del provvedimento fino al 21.01.2015 (data in cui è stata fissata l'udienza di merito).
A quel punto mancheranno poche ore alla scadenza per il pagamento, fissata al 26 gennaio dal dl 185/2014 (destinato a confluire nella legge di stabilità in corso di pubblicazione).
Pur trattandosi di una decisione interlocutoria, le motivazioni sembrano già ipotecare il verdetto finale: il Tar, infatti, ha stigmatizzato la «assoluta incertezza dei criteri applicativi, con particolare riguardo a quello dell'altitudine». Ricordiamo, infatti, che il confine fra chi deve pagare e chi no è fissato esclusivamente in base a tale parametro, per di più misurato considerando solo il centro e non la conformazione generale del territorio. L'esenzione piena rimane solo nei municipi collocati a oltre 600 metri sul livello del mare, mentre fra 281 e 600 metri sarà limitata ai terreni posseduti da coltivatori diretti o imprenditori agricoli professionali. Fino a 280 metri, invece, tutti dovrebbero presentarsi alla cassa versando l'intera imposta dovuta per l'anno in corso. Il che porta a risultati paradossali, come annota il Tar, ben potendo essere assoggettato a imposizione un terreno posto a più di 600 metri in agro di comune posto notevolmente al di sotto di tale altezza.
Che succederà ora? Secondo l'Anci Umbria, «le conseguenze della decisione sono che in questo momento il governo deve reintegrare il fondo di solidarietà comunale, tagliato per 350 milioni di euro e, soprattutto, che i contribuenti non sono tenuti al momento al pagamento».
I due aspetti sono strettamente collegati: se l'Imu non verrà pagata, i comuni si troveranno a bilancio un credito (al momento accertato «convenzionalmente») del tutto inesigibile. Il problema è che l'Esecutivo finora non è stato in grado di individuare le coperture finanziarie per tappare questo buco.
Senza soldi, l'unica soluzione pare essere un ulteriore rinvio del termine per il versamento, in modo da guadagnare il tempo necessario a ridefinire i parametri del tributo in modo più sensato. Qualche ragionamento in questo senso è già stato fatto in sede tecnica, ad esempio ipotizzando di prendere in considerazione un'altitudine media. Ma ciò avrebbe ridotto le stime di incasso (peraltro ampiamente contestate dai comuni) al di sotto dei 300 milioni.
Sull'ulteriore slittamento della scadenza, pesano, però, i rilievi della Ragioneria generale dello Stato, secondo cui tale opzione avrebbe un impatto negativo sui saldi di finanza pubblica dovuti al fatto che l'Ue non permette (se non per brevi periodi) di accertare entrate future.
Peraltro, le nuove regole contabili (che diventeranno obbligatorie per tutti gli enti dal 1° gennaio) consentono di imputare ad un esercizio le entrate tributarie riscosse nell'anno successivo, purché entro il termine per l'approvazione del rendiconto. Se tale regola venisse applicata al caso concreto, il rinvio potrebbe essere almeno fino al 30 aprile (articolo ItaliaOggi del 27.12.2014).

ENTI LOCALI - VARI: Multe più care da Capodanno. Codice stradale, automatismi biennali.
Con il brindisi di Capodanno arriverà l'aumento automatico biennale degli importi delle multe stradali più basso mai registrato dall'entrata in vigore del nuovo codice, inferiore all'1%. Per la regola degli arrotondamenti resteranno quindi invariate la maggior parte delle sanzioni più diffuse come il divieto di sosta e il mancato pagamento del ticket. Aumenterà invece di qualche euro la sanzione prevista per chi circola senza revisione o senza viva voce con il telefonino.

Lo prevede l'automatismo biennale del codice stradale. Ai sensi dell'art. 195 del codice, infatti, la misura delle multe stradali è aggiornata ogni due anni in misura della variazione dell'indice dei prezzi al consumo verificato dall'Istat. Prendendo come riferimento tale indice il ministero fissa i nuovi limiti delle sanzioni amministrative pecuniarie che si applicano dal 1° gennaio dell'anno successivo. Sulla base del dato pubblicato dall'Istat il 13 dicembre scorso quindi dal 01.01.2015 scatterà un aumento dello 0,8% degli importi.
Questo incremento risulta essere il più basso in assoluto degli ultimi 20 anni. Con il decreto di prossima emanazione nel calcolo dei nuovi importi si applicherà la consueta regola dell'arrotondamento all'unità di euro per eccesso se la frazione decimale sarà pari o superiore a 50 centesimi di euro oppure per difetto se inferiore. Per esemplificare come cambieranno gli importi rispetto ad alcune infrazioni stradali, con il nuovo anno la sanzione per il divieto di sosta ordinario resterà stabile a 41 euro. Quelle per l'eccesso di velocità aumenteranno di pochi euro. La più moderata di 41 euro non subirà variazioni mentre quella prevista per chi viola oltre 10 km/h ma non oltre 40 km/h il limite salirà da 168 a 169 euro.
La sanzione per chi non usa le cinture di sicurezza salirà di un euro, mentre quella prevista per chi guida usando il telefonino senza auricolare o senza viva voce aumenterà da 160 a 161 euro. Un leggero ritocco in aumento anche per chi sarà sorpreso a circolare senza revisione regolare. Dagli attuali 168 a 169 euro. Per chi verrà invece sorpreso senza copertura assicurativa la multa aumenterà da 841 a 848 euro (articolo ItaliaOggi del 27.12.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province, «precari» prorogati Slittano gli aumenti dei manager Pa. Milleproroghe. Nel pacchetto soppressione dei Tar, Metro C di Roma e passante di Torino.
Proroga di un anno dei contratti per i lavoratori precari delle Province. Assunzioni da turn over nella Pa per tutto il 2015. Slittamento alla fine del prossimo anno degli aumenti dei compensi di una fetta dei manager statali: componenti di Cda, organi di indirizzo, direzione e controllo e organi collegiali degli enti pubblici.
Sono queste le misure principali del capitolo pubblico impiego del decreto “milleproroghe” varato la vigilia di Natale dal Governo nella «versione più light della storia», come ha tenuto a sottolineare il premier Matteo Renzi.
Gli slittamenti dei termini sarebbero una ventina. Il testo sarebbe ancora oggetto di alcune limature. Confermata (come anticipato dal Sole 24 Ore il 23 e il 24 dicembre) la proroga di un anno della privatizzazione della Croce rossa italiana, il posticipo al 01.01.2016 della nuova remunerazione delle farmacie. Analoga proroga per le sanzioni legate al Sistri (sistema di tracciabilità dei rifiuti).
Ad essere interessato dal mini-milleproroghe sono anche un pacchetto di infrastrutture dello “Sblocca Italia” e alcune misure sui trasporti: si va dalla settima proroga fino a fine 2015 in materia di servizi pubblici non di linea al completamento della copertura del passante ferroviario di Torino, all’asse autostradale Trieste-Venezia fino alla tratta della Metro C di Roma Colosseo-Piazza Venezia. Tutti interventi, questi ultimi, per i quali lo slittamento di vecchi di termini è di un anno (fine 2015 anziché 2014).
Tornando al capito pubblico impiego, l’inserimento in corsa della proroga dei contratti dei precari delle Province è una delle conseguenze della partita che si sta giocando tra Governo e sindacati sugli esuberi da ricollocare per effetto dell’attuazione della riforma Delrio. «Nessuno perde il posto e si danno migliori servizi», ha affermato il ministro Marianna Madia con un tweet annunciando mercoledì scorso il varo della misura. C’è poi il prolungamento a tutto il 2015 del termine del turn over per assumere a tempo indeterminato a compensazione delle uscite avvenute nel 2013.
È prevista una norma ad hoc per il ministero dei Beni culturali con la possibilità di attingere (fino al 2016), ai fini delle assunzioni, dalle graduatorie degli idonei a concorso. Il Dl fissa lo slittamento dal 1° luglio al 01.09.2015 del termine per la soppressione delle sezioni distaccate dei Tar con sedi nei comuni senza Corte d’appello e dal 1° gennaio al 01.07.2015 della scadenza relativa all’avvio del processo amministrativo digitale.
Sul versante dell’istruzione è tra l’altro previsto la possibilità per il ministero di erogare agli enti locali fondi per l’edilizia scolastica anche nel corso del 2015. E le università potranno chiamare come professore associato chi ha superato l’abilitazione. Novità anche sul terreno “emergenze” con il ricorso a misure integrative del Fondo delle emergenze nazionali e la proroga fino a febbraio dei bandi di gara e l’affidamento dei lavori contro il rischio geologico.
Tra gli altri interventi, le proroghe degli standard Dvd-T2 nei sintonizzatori digitali per la tv e il divieto di acquisizione da parte di chi controlla una o più reti tv di partecipazioni in imprese editrici di giornali. Il decreto interessa anche i poteri sostitutivi in materia di approvazione del bilancio di previsione degli enti locali e l’approvazione del bilancio 2014 delle Province, l’operazione strade sicure e l’adeguamento antincendi degli alberghi.
Infine le proroghe riguardanti i finanziamenti erogati dalla Banca d’Italia e garantiti mediante cessione o pegno di credito e la deroga ai requisiti di opponibilità della garanzia nei confronti del debitore e dei terzi e la determinazione dei criteri generali cui devono conformarsi gli organismi di investimento collettivo del risparmio italiani
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.12.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Per il Sistri sanzioni a partenza differita. Ambiente. Prime indiscrezioni sulle disposizioni del Milleproroghe.
Arriva sul filo di lana, grazie al Dl Milleproroghe il sospirato slittamento al 31.12.2015 della moratoria delle sanzioni relative all’operatività del Sistri. Invece, anche se il testo del Dl non è ancora pubblicato in Gazzetta ufficiale, sembra certo che le sanzioni relative alla mancata iscrizione e all’omesso pagamento del contributo annuale si applicheranno a decorrere dal 01.02.2015.
Si può quindi parlare di una doppia partenza delle sanzioni: quelle all’articolo 260-bis, commi da 3 a 9 e all’articolo 260-ter del Codice ambientale si applicheranno a decorrere dal 01.01.2016; invece le sanzioni previste dai commi 1 (per l’omessa iscrizione «nei termini previsti») e 2 (pagamento del contributo «nei termini previsti») si applicheranno dal 01.02.2015.
Sotto il profilo operativo, fino alla fine del 2015 continueranno ad applicarsi le regole e le sanzioni relative al registro di carico e scarico e al formulario come previste dal Dlgs 152/2006 nella versione vigente prima della riforma del Dlgs 205/2010. Accanto a tali scritture le imprese obbligate al Sistri dovranno operare anche mediante tale sistema. La platea dei produttori è stata rimodulata dal Dm 24.04.2014 nei seguenti termini:
- enti e imprese produttori iniziali di rifiuti pericolosi da attività agricole e agroindustriali, di pesca professionale e di acquacoltura, con più di 10 dipendenti, che non conferiscano i rifiuti a circuiti organizzati di raccolta;
- enti e imprese, con più di 10 dipendenti, produttori iniziali di rifiuti pericolosi da attività di demolizione e costruzione, da lavorazioni industriali, lavorazioni artigianali, attività commerciali, attività di servizio e attività sanitarie;
- enti ed imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi e che svolgono attività di stoccaggio (deposito preliminare D15 e messa in riserva R13).
In ordine a tali tradizionali scritture ambientali, il Dl Milleproroghe afferma che la proroga fino alla fine del 2015 viene concessa «al fine di consentire la tenuta in modalità elettronica dei registri di carico e scarico e dei formulari di accompagnamento dei rifiuti trasportati nonché l’applicazione delle altre semplificazioni e le opportune modifiche normative».
Fermo restando che è riconosciuta la necessità di modifiche normative (non potrebbe essere diversamente), non appare ragionevole ipotizzare che questa previsione, stante il tenore letterale, possa obbligare alla tenuta di registri e formulari solo in modalità elettronica. Sembra solo incentivare la tenuta delle scritture informatiche per “familiarizzare” con Sistri.
In ogni caso di tale previsione non si avvertiva la necessità. Soprattutto nessuno sentiva la mancanza della diversificazione della partenza sanzionatoria che, sin da ora, procurerà più di un dissapore applicativo sul territorio
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.12.2014).

ENTI LOCALIComuni, patto leggero con i servizi. Per gli enti locali capofila di convenzioni misure in bilico.
Patto di stabilità più leggero ai comuni che gestiscono funzioni e servizi in forma associata come capofila di convenzioni. A prometterlo, la legge di Stabilità 2015 appena licenziata dal parlamento. Promessa che, però, difficilmente sarà mantenuta.

La questione è sul tappeto da tempo: i comuni capofila sostengono spese anche per gli altri municipi convenzionati, con conseguente appesantimento dei propri obiettivi di patto. Questi ultimi, come noto, sono calcolati partendo dalla media degli impegni di spesa corrente registrati in un triennio che dal prossimo anno sarà il 2010-2012 (nel 2014, invece, si è considerato il 2009-2011).
Ai fini del calcolo, si assume quale base la spesa lorda registrata a consuntivo, senza alcuna esclusione, neppure per le spese sostenute dal capofila per conto degli altri enti locali. Per ovviare, la stabilità 2015 prevede che, con decreto del Mef (da adottare previa intesa in sede di conferenza stato-città e autonomie locali e su proposta dell'Anci e dell'Upi), possano essere rimodulati i target di patto per tenere conto, fra l'altro, «dei maggiori oneri connessi all'esercizio della funzione di ente capofila» (oltre che di una serie di altri fattori, ossia le maggiori funzioni assegnate alle città metropolitane, gli interventi di messa in sicurezza degli edifici scolastici e del territorio e la presenza di sentenze passate in giudicato a seguito di procedure di esproprio o di contenziosi connessi a cedimenti strutturali).
Il punto è che la rimodulazione deve essere definita a invarianza dell'obiettivo di comparto. Il che significa che ogni sconto riconosciuto ai capofila dovrà essere compensato da un simmetrico peggioramento del target degli altri enti. E qui casca l'asino: è praticamente impossibile, in così poco tempo, raccogliere dati aggiornati sulle migliaia di convenzioni in essere. È assai probabile, quindi, che il tutto si risolva in un nulla di fatto. Del resto, in materia c'è un precedente poco confortante. Un meccanismo analogo, infatti, è già previsto dall'art. 31, comma 6-bis, della legge 183/2011 (introdotto dalla Stabilità 2014): esso dispone la riduzione degli obiettivi dei comuni capofila e il corrispondente aumento di quelli degli altri comuni associati.
Anche in questo caso è il Mef a dover effettuare le variazioni, sulla base dei dati forniti dagli stessi comuni per il tramite dell'Anci. Ebbene, lo scorso anno tale disciplina è rimasta lettera morta, in quanto è mancato un presupposto essenziale, ossia l'assenso da parte dei comuni non capofila al peggioramento del proprio obiettivo. Del resto, per questi ultimi, il target già include la propria quota di spesa, che essi devono impegnare per erogare i rimborsi al capofila. Ecco perché nessun sindaco ha sottoscritto l'accordo, la cui necessità viene ora esplicitamente confermata dalla Stabilità 2015.
Non è pensabile, quindi, che si riesca ad attuare in via unilaterale (e nel giro di poco più di un mese) quello che lo scorso anno non si è risusciti a fare mediante una procedura concertata sul territorio. Se non si troverà una quadra entro il 31 gennaio, gli obiettivi resteranno invariati, con buona pace per i capofila. Il problema è grave, anche perché la convenzione è una delle modalità attraverso cui i comuni con meno di 5.000 abitanti (3.000 se montani) dovranno obbligatoriamente gestire entro il prossimo 31 dicembre tutte le proprie funzioni fondamentali.
Ciò rischia di penalizzare gli enti che, per adempiere a un obbligo di legge, decideranno di utilizzare il più agile strumento convenzionale rispetto a quello (più strutturato ma più complesso da avviare) dell'unione (articolo ItaliaOggi del 24.12.2014).

APPALTI: P.a., split payment da gennaio. Forniture con versamento Iva a carico del destinatario. FISCO/ Marcia indietro in caso di mancata autorizzazione da parte dell'Europa.
Dal 1° gennaio, forniture alla pubblica amministrazione con versamento dell'Iva a carico del destinatario. Il meccanismo dello «split payment» sarà infatti subito operativo, senza che si debba attendere la necessaria autorizzazione dell'Ue a derogare alle regole della direttiva Iva. Se poi la deroga non dovesse essere autorizzata, si tornerà indietro.

Questo per effetto delle ultime modifiche al testo della legge di stabilità 2015, nel testo finale scaturito dal maxiemendamento governativo approvato la settimana scorsa dal senato e oggi al via libera definitivo dalla camera.
Il nuovo metodo di pagamento dell'Iva. La legge introduce nella normativa dell'Iva, contenuta nel dpr n. 633/72, l'articolo 17-ter, il quale dispone che per le cessioni di beni e per le prestazioni di servizi effettuate nei confronti dello stato e dei suoi organi, anche dotati di personalità giuridica, degli enti pubblici territoriali e dei loro consorzi, delle camere di commercio, degli istituti universitari, delle aziende sanitarie locali, degli enti ospedalieri, degli enti pubblici di ricovero e cura aventi prevalente carattere scientifico, degli enti pubblici di assistenza e beneficenza e di quelli di previdenza, per i quali i suddetti cessionari o committenti non sono debitori d'imposta ai sensi delle disposizioni in materia di Iva, l'imposta è in ogni caso versata dagli stessi cessionari/committenti, secondo modalità e termini da fissare con decreto del ministro dell'economia. Queste disposizioni non si applicano alle prestazioni professionali, o più esattamente ai «compensi per prestazioni di servizi assoggettati a ritenute alla fonte a titolo di imposta sul reddito». In pratica, quando l'ente pubblico riceve la fattura, effettuerà due distinti pagamenti:
- uno al fornitore, per l'importo imponibile (e le altre eventuali somme dovute a titolo diverso dall'Iva);
- l'altro all'erario, per l'importo dell'Iva.
Il fornitore, da parte sua, continuerà comunque a indicare normalmente nella fattura l'aliquota e l'ammontare dell'Iva dovuta sull'operazione, ma specificherà che il relativo pagamento dovrà essere effettuato all'erario direttamente dal cessionario/committente; per esempio, potrà riportare nella fattura l'indicazione «l'Iva esposta in questa fattura deve essere versata all'erario dal destinatario ai sensi dell'art. 17-ter, dpr n. 633/1972».
La decorrenza. Secondo il disegno di legge originario, l'efficacia delle nuove disposizioni era subordinata al rilascio, da parte del Consiglio, della necessaria autorizzazione di deroga ai sensi dell'art. 395 della direttiva Iva. Sennonché, probabilmente per un problema di tempi causato dall'esigenza di attivare, nell'eventualità di un rifiuto dell'autorizzazione, la clausola di salvaguardia delle entrate (aumento delle accise sui carburanti) entro il 30.06.2015, il governo ha deciso di giocare d'anticipo, prevedendo che, nelle more del rilascio della misura di deroga da parte del Consiglio, le disposizioni trovano comunque applicazione per le operazioni per le quali l'Iva è esigibile a partire dal 01.01.2015.
Va da sé che qualora l'Ue dovesse rifiutare di autorizzare questo inedito meccanismo speciale di riscossione dell'Iva, oggetto di studio da parte della Commissione europea, si dovrebbe tornare indietro, con tutte le connesse problematiche. Adesso, per tutti gli operatori (imprese, consulenti, software house), si apre una corsa contro il tempo, essendo necessario apportare i dovuti adattamenti alle procedure di fatturazione e contabilità in modo da applicare le nuove regole fra dieci giorni.
Il ministero dell'economia, da parte sua, dovrà stabilire le modalità di versamento, probabilmente una versione speciale del modello F24 enti pubblici, e i relativi termini. In proposito, la legge prevede che, in caso di omissione o ritardato versamento, i cessionari o committenti saranno soggetti alle sanzioni dell'art. 13 del dlgs n. 471/1997; le somme dovute saranno riscosse dall'agenzia delle entrate mediante l'atto di recupero di cui all'art. 1, comma 421, legge n. 311/2004.
Fuori dallo «split payment» le operazioni soggette a inversione contabile. Le disposizioni dell'art. 17-ter non si applicheranno alle operazioni per le quali l'ente cessionario/committente è debitore dell'Iva ai sensi della normativa sull'imposta, ossia in tutti i casi in cui (i) l'ente acquista il bene o il servizio in qualità di soggetto passivo e (ii) l'operazione è sottoposta al particolare regime dell'inversione contabile (es. subappalti, acquisti intracomunitari ecc.): in tali casi, dunque, l'ente continuerà ad assolvere l'imposta mediante l'integrazione e registrazione in contabilità della fattura del fornitore (articolo ItaliaOggi del 23.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Un pasticcio sulla mobilità dei dipendenti provinciali.
La mobilità dei dipendenti provinciali non deve essere limitata dai vincoli al turnover di regioni ed enti locali.

Il disegno di legge di stabilità, nel definire, in contraddizione con la legge Delrio, le modalità per il trasferimento dei circa 20 mila dipendenti provinciali in esubero, incappa in un errore tecnico: quello, cioè, di far rientrare assunzioni per mobilità entro i vincoli di spesa che sono riservati, invece, esclusivamente alle assunzioni ex novo.
Il disegno di legge mischia la condizione dei vincitori dei concorsi, con quella dei dipendenti provinciali. Nessun dubbio c'è che i vincitori dei concorsi possano essere assunti esclusivamente entro la soglia del turnover, fissata, dopo l'entrata in vigore del dl 90/2014, nel 60% del costo delle cessazioni dell'anno precedente. Si tratta, infatti, dell'immissione di nuovi lavoratori nel comparto pubblico, che crea una spesa a sua volta nuova, che si intende contenere secondo, appunto, le restrizioni al turnover.
Tuttavia, il disegno di legge induce regioni ed enti locali ad assumere in mobilità, cioè per trasferimento, i 20 mila dipendenti provinciali (dopo aver immesso in ruolo i vincitori dei concorsi), assoggettando anche le assunzioni per mobilità ai limiti di spesa per turnover.
Come detto, si tratta di un errore tecnico, che invece di creare «tutele» per i dipendenti provinciali, paradossalmente le elimina o riduce di gran lunga.
La mobilità non crea un nuovo e maggiore costo per il comparto del pubblico impiego, in quanto sposta semplicemente una spesa, prima in capo alle province, verso un altro ente, regione o comune.
La Corte dei conti, Sezioni Riunite, col parere 59/2010, basato sul parere 4/2010 della Funzione pubblica ha fondato un pacifico indirizzo interpretativo secondo il quale, ferma la vigenza dell'articolo 1, comma 47, della legge 311/2004, «poiché l'ente che riceve personale in esito alle procedure di mobilità non imputa tali nuovi ingressi alla quota di assunzioni normativamente prevista, per un ovvio principio di parallelismo e al fine di evitare a livello complessivo una crescita dei dipendenti superiore ai limiti di legge, l'ente che cede non può considerare la cessazione per mobilità come equiparata a quelle fisiologicamente derivanti da collocamenti a riposo».
Da 4 anni, dunque, nell'ordinamento si stabilisce che le assunzioni per mobilità non «consumano» la quota disponibile per il «turnover», cioè per le assunzioni dall'esterno. Infatti, le Sezioni Riunite nel parere citato chiariscono che solo una volta «espletate le procedure di mobilità l'ente ricevente resta, infatti, libero di effettuare un numero di assunzioni compatibile con il regime vincolistico e con le vacanze residue di organico».
Pertanto, regioni ed enti locali possono effettuare tutte le assunzioni per mobilità che ritengono, senza sottostare al tetto del turnover.
È evidente, allora, che il Governo ha inserito il vincolo del turnover, contraddicendo totalmente ad una normativa e ad interpretazioni consolidate, per la semplice ragione che la legge di Stabilità vìola le previsioni della legge Delrio, la quale prevedeva che i trasferimenti del personale provinciale addetto alle funzioni «non fondamentali» fossero finanziati dalle province stesse. Il «taglio» di 3 miliardi inferto, a regime, alle province, impedisce loro di trasferire a regioni e comuni il finanziamento del costo dei 20 mila dipendenti provinciali (circa 820 milioni). Dunque, il Governo, violando disposizioni normative e interpretazioni della Corte dei conti, prevede che le regioni ed i comuni finanzino la mobilità con risorse «proprie», reperite dal turnover, anche se la mobilità col turnover non ha assolutamente nessuna correlazione.
Un pasticcio ulteriore creato dalla legge di stabilità, che rende la posizione dei 20 mila dipendenti provinciali molto più a rischio di quanto dicano i tranquillizzanti comunicati del governo, che in realtà omettono le conseguenze reali discendenti dalla legge (articolo ItaliaOggi del 23.12.2014).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI - VARILegge di stabilità 2015: tutte le novità (articolo ItaliaOggi del 23.12.2014).
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Compensazione crediti p.a. e cartelle - Anche nel 2015 sarà possibile per le imprese e i professionisti compensare i crediti commerciali vantati verso la p.a. con le somme iscritte a ruolo
Stop aumento Tasi - Anche per il 2015 vengono rese applicabili da parte dei comuni le stesse aliquote Tasi vigenti per il 2014
Ritenuta ristrutturazioni - Dal 01.01.2015 salirà dal 4% all’8% l'aliquota della ritenuta che banche e Poste devono operare sui bonifici “parlanti” disposti dai contribuenti per beneficiare delle detrazioni per ristrutturazioni e riqualificazione energetica
Buoni pasto - Dal 01.07.2015 la quota dei buoni pasto non sottoposta a tassazione sale dagli attuali 5,29 euro a 7 euro al giorno. I ticket dovranno essere predisposti in formato elettronico
Split payment - Partirà dal 01.01.2015 lo split payment: per le operazioni effettuate nei confronti di enti pubblici, al fornitore sarà erogato il solo importo del corrispettivo, al netto dell’Iva indicata in fattura (che sarà acquisita direttamente dall’erario)
Riscossione enti locali - Prorogato al 30.06.2015 il termine entro cui la società Equitalia potrà continuare a riscuotere le entrate dei comuni
Lotta evasione comuni - Per il triennio 2015-2017, la quota riconosciuta ai comuni per la compartecipazione all'azione di contrasto all'evasione fiscale sarà pari al 55% delle maggiori somme riscosse
5 per mille - Stabilizzata dal 2015 della disciplina del 5 per mille Irpef, con le attuali modalità di funzionamento e tetto massimo fissato a 500 milioni di euro annui
Riduzione partecipate - Regioni, comuni, università e autorità portuali dovranno predisporre entro tre mesi un piano di razionalizzazione delle società partecipate che gestiscono servizi pubblici locali. L’obiettivo primario è eliminare le micro-aziende e i “doppioni”. Il piano dovrà essere posto in essere entro la fine del 2015
Personale province - In arrivo la mobilità per il 50% del personale delle province e per il 30% di quello delle città metropolitane. Entro il 01.04.2015 ciascun ente potrà deliberare una riduzione superiore (e predisporre le liste del personale da mantenere). Gli esuberi saranno riassorbiti gradualmente presso altri enti territoriali. Partirà dal 2017 «il collocamento in disponibilità», di durata biennale, con riduzione dello stipendio del 20%. Eventuali cessazioni del rapporto di lavoro saranno avviate a partire dal 2019, previa concertazione con i sindacati
Bonus fiscali per la casa - Prorogate a tutto il 2015 le detrazioni per gli interventi di ristrutturazione edilizia e di riqualificazione energetica, mantenendo le attuali misure (rispettivamente 50% e 65%). Confermato anche il bonus mobili
Auto inquinanti - Dal 01.01.2019 su tutto il territorio nazionale sarà vietata la circolazione di veicoli a motore di categoria “euro 0”

AMBIENTE-ECOLOGIA - PUBBLICO IMPIEGOPa, nuove assunzioni da turnover. Nel milleproroghe anche l’allungamento dello stop agli aumenti dei manager.
Assunzioni da turn over nella Pa fino a fine 2015. Quattro mesi in più per la chiamata degli associati «abilitati» nelle università e due per la sopravvivenza delle sezioni distaccate dei Tar. Proroga di un anno per l’applicazione delle sanzioni legate al Sistri e per la rideterminazione verso l’alto dei compensi ai manager Pa.

Sono alcuni degli slittamenti contenuti nel tradizionale decreto milleproroghe di fine anno (o proroga-termini per usare la nuova denominazione) che era dato in agenda per il?Consiglio dei ministri di lunedì prossimo. E che, salvo sorprese dell’ultim’ora, dovrebbe arrivare sul tavolo di Palazzo Chigi già domani, insieme ai due decreti attuativi sul Jobs act, al Dl Ilva e al Dlgs sull’abuso del diritto.
La bozza di provvedimento messa a punto fino a ieri si apriva con un cospicuo capitolo dedicato al pubblico impiego. Le assunzioni a tempo indeterminato da turn over ammesse dal decreto Madia e collegate alle cessazioni avvenute nel 2013 verrebbero ammesse anche per tutto il 2015 anziché esaurirsi nel 2014. Con una norma ad hoc per il ministero dei Beni culturali che avrebbe tempo fino a fine 2016 per attingere, sempre ai fini assunzionali, dalle graduatorie degli idonei da concorso.
Sempre a proposito di decreto Madia va segnalata la proroga dal 1° luglio al 01.09.2015 per la soppressione delle sezioni staccate dei Tar con sede in comuni che non sono sedi di corte d’appello (eccetto Bolzano) e dal 1° gennaio al 01.07.2015 dell’avvio del processo amministrativo digitale.
Novità all’orizzonte anche per il tetto ai manager. La rideterminazione (in aumento) dei compensi ai componenti degli organi di indirizzo, direzione e controllo, consigli di amministrazione e organi collegiali nelle pubbliche amministrazioni slitta da fine 2014 a fine 2015. Fino ad allora varrà il “congelamento” a indennità e gettoni previsto dal Dl 78 del 2010. E la stessa dead line verrebbe fissata per applicare anche a Sogei, Gse e Consip la stretta su personale e consulenze valida per la Pa. Consip che avrà anche l’anno prossimo i finanziamenti per le attività collegate al programma per la razionalizzazione degli acquisti.
Le stesse pubbliche amministrazioni vedranno poi allungarsi di un anno il blocco dell’adeguamento automatico dei canoni di locazione passiva per gli immobili condotti dalle amministrazioni pubbliche. Dagli anni «2012, 2013 e 2014» si dovrebbe passare infatti a «2012, 2013, 2014 e 2015».
Altrettanto nutrito è il pacchetto di disposizioni dedicati alle infrastrutture e ai trasporti. Si va dalla settima proroga fino a fine in materia di servizi pubblici non di linea alla cantierabilità entro fine 2015 (anziché 2014) di una serie di opere pubbliche. Tra cui il completamento della copertura del Passante ferroviario di Torino, l’Asse autostradale Trieste-Venezia, la tratta Colosseo-Piazza Venezia della Metro C di Roma.
Passando alle imprese va segnalato lo spostamento al 31.12.2015 di uno dei termini del sistema di tracciabilità dei rifiuti. In particolare di quello previsto per «consentire la tenuta in modalità elettronica dei registri di carico e scarico e dei formulari di accompagnamento dei rifiuti trasportati nonché l’applicazione delle altre semplificazioni e le opportune modifiche normative».
Ampio si annuncia pure il capitolo istruzione. Con due misure su tutte: la chance per gli atenei di assumere fino al 31.10.2015 (e non più il 30 giugno) gli associati che hanno superato l’abilitazione nazionale prevista dalla riforma Gelmini; la possibilità per il ministero dell’Istruzione di erogare agli enti locali i fondi per l’edilizia scolastica anche lungo l’arco del 2015. laddove il termine originariamente previsto era quello del 31.12.2014.
Una doppia proroga dovrebbe infine interessare anche le emergenze. Da un lato, verrebbe spostata al 28.02.2015 la scadenza bandi di gara e per l’affidamento dei lavori relativi a interventi contro il dissesto idrogeologico; dall’altro, resterebbe in carica per tutto il 2015 il commissario delegato per gli interventi di ripristino dai danni provocati in Sardegna dall’alluvione del novembre 2013
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.12.2014).

EDILIZIA PRIVATACatasto online, costi ridotti. Banche dati fiscali. Per le convenzioni.
Consultare il catasto online costerà un po’ di meno.
Con il provvedimento 17.12.2014 n. 160950 di prot. del direttore dell’Agenzia delle Entrate sono stati variati gli importi dei rimborsi delle convenzioni d’accesso alle banche dati ipotecaria e catastale. In sostanza sono stati eliminati i rimborsi da versare per le spese amministrative (erano 200 euro una tantum) per la stipula delle convenzioni e ridotti a 15 euro quelli annuali (erano 30 euro) previsti per ogni password resa disponibile all’utente per la consultazione. Resta invariata la consultazione diretta e gratuita (senza convenzione) per il solo classamento (la categoria catastale) e la rendita, purché si disponga degli estremi di identificazione catastale.
Gli obiettivi della rimodulazione degli importi, spiegano le Entrate, sono quelli di favorire l’accesso online ai servizi ipotecari e catastali da parte di pubbliche amministrazioni, imprese, professionisti e cittadini.
Una facilitazione particolarmente gradita: il servizio di consultazione personale online consente in fatti alle sole persone fisiche registrate a Entratel-Fisconline l’accesso alla banca dati catastale e ipotecaria, a titolo gratuito e in esenzione da tributi, relativamente agli immobili di cui il soggetto richiedente risulti titolare, anche per quota, del diritto di proprietà o di altri diritti reali di godimento. La ricerca viene eseguita a livello nazionale con esclusione delle province autonome di Trento e Bolzano (e, per le ricerche ipotecarie, anche delle province di Trieste e Gorizia e delle altre zone nelle quali vige il sistema del libro fondiario).
Con la ricerca si possono ottenere: visura per immobile attuale e storica, visura della mappa per la particella terreni selezionata, visura planimetrica, ispezione ipotecaria per l’unità immobiliare selezionata e per soggetto . Il risultato della ricerca è l’elenco delle formalità (trascrizioni, iscrizioni ed annotamenti) nel quale il soggetto compare a favore o contro relativamente all’immobile selezionato; da questo elenco è possibile consultare le singole note
 (articolo Il Sole 24 Ore del 23.12.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIAAlbero di Natale con il bollino. D'obbligo controllo e tracciamento per i commercianti. In vigore dal 25.12.2014 il dlgs 178/2014 contro il disboscamento illegale.
A contribuire alla lotta contro il disboscamento illegale sarà l'albero di Natale. Scatta, infatti, proprio il 25.12.2014 l'operatività della nuova disciplina prevista dal dlgs 30.10.2014, n. 178 per il contrasto a importazione e commercializzazione di legno in violazione delle norme applicabili nel paese d'origine.
Le nuove prescrizioni. Il dlgs 178/2014 (pubblicato sulla G.U. del 10.12.2014 n. 286) rende operative sul piano interno le norme del regolamento (Ce) n. 2173/2005 sul sistema di licenze «Flegt» per le importazioni di legname e del (connesso) regolamento (Ue) n. 995/2010 (cd. «Timber Regulation») sul commercio interno all'Ue di legno e prodotti da esso derivati, affiancandovi (anche) un greve regime sanzionatorio.
Quella che ne deriva è una disciplina ibrida, risultante dal combinato disposto delle norme comunitarie citate (alle quali il dlgs 178/2014 espressamente si richiama) e dalle regole (e sanzioni) nazionali aggiunte dallo stesso decreto legislativo. Pilastri dell'architettura così costruita sono: divieto d'importazione nell'Ue di legno proveniente da paesi cd. «Vpa» (ossia aderenti al «Voluntary partnership agreements» ex regolamento Ce del 2005) privo di licenza «Flegt» (acronimo di «Forest law enforcement, governance and trade»); obbligo per i soggetti interessati di iscrizione in un apposito e istituendo «Registro nazionale degli operatori»; divieto di commercializzare sul territorio legno (sia grezzo che tagliato) e prodotti da esso derivanti (imballaggi inclusi) considerati di provenienza illegale; obbligo di adozione della «diligente verifica» di provenienza lecita dei beni (cd. «due diligence»); obbligo di tracciare e documentare lo spostamento dei beni lungo l'intera catena di approvvigionamento.
L'operatività delle norme. In base al tenore del nuovo dlgs 178/2014 scatteranno dal 25.12.2014 i divieti di importazione e commercializzazione «illegale», così come gli obblighi di «due diligence», tracciamento e documentazione degli spostamenti del legname (direttamente previsti dalle norme Ue), mentre bisognerà attendere il decreto ministeriale sul funzionamento del citato «Registro degli operatori» (previsto entro il febbraio 2015) per l'opponibilità del relativo obbligo di iscrizione ai soggetti interessati.
I soggetti interessati. Il divieto generale d'importazione di legno illegale è rivolto a tutti i soggetti potenzialmente interessati dall'attività, mentre destinatari delle altre specifiche prescrizioni sono (a vario titolo) due ben definite categorie di soggetti: gli «operatori», ossia coloro che immettono per la prima volta legno e prodotti derivati nel mercato Ue (come proprietari boschivi, importatori, imprese che utilizzano tali beni); i «commercianti», ossia le persone che acquistano e rivendono beni già in circolazione nel mercato interno (tra cui le imprese di lavorazione e trasformazione).
Divieto importazione legno senza licenza «Flegt». Preventivamente o contestualmente alla presentazione della «dichiarazione di dogana» sarà obbligatorio mettere a disposizione delle autorità nazionali la citata licenza «Flegt» relativa al carico di legname (ai fini del controllo e dell'immissione in libera pratica nell'Unione europea), insieme al pagamento di un contributo (a copertura degli oneri finanziari della p.a. e la cui entità sarà stabilita con un altro dm entro lo stesso febbraio 2015, per poi essere aggiornata ogni due anni).
Iscrizione in «Registro operatori». L'obbligo di iscrizione, destinato esclusivamente ai soggetti che introducono per la prima volta legno e prodotti derivati nel mercato Ue, dovrà essere assolto aderendo al citato e istituendo registro curato dal ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, unitamente al pagamento di un corrispettivo.
Divieto di commercio legno illegale. La prescrizione di derivazione comunitaria, rivolta ai «commercianti» come più sopra definiti, riguarda sia il legno che i prodotti derivati ottenuti in violazione della legislazione del paese di produzione (condotta che individua la cd. «provenienza illegale» dei beni).
Obbligo di «due diligence». Direttamente definito dal regolamento 995/2010/Ue (e dall'omonimo provvedimento attuativo 607/2012/Ue) il sistema di «diligente verifica» della provenienza lecita del legno impone agli «operatori» tre fondamentali obblighi: acquisizione delle informazione sulle fonti di approvvigionamento (paese di origine, dati dei fornitori, esistenza di concessioni di taglio); adozione di un sistema interno di valutazione dei rischi di illegalità dell'approvvigionamento; attuazione di un piano di attenuazione dei rischi eventualmente rilevati (tra cui la richiesta d'informazioni aggiuntive sui fornitori).
Obbligo tracciamento del legno. Ex regolamento 995/2010/Ue sia gli «operatori» che i «commercianti» dovranno garantire e documentare, tramite la tenuta (e conservazione per almeno cinque anni) dei «registri» previsti dalle citate norme Ue, il tracciamento di tutti i passaggi subiti dal legno lungo la catena di approvvigionamento (dunque, dal fornitore al successivo destinatario).
Le sanzioni. A far scattare l'effettiva efficacia delle prescrizioni comunitarie (così come a garantire l'osservanza di quelle nazionali) è l'articolato sistema sanzionatorio previsto dal nuovo dlgs 178/2014, sistema che punisce con l'arresto fino a un anno, e la confisca obbligatoria del corpo del reato, la violazione dei divieti di importazione e commercializzazione, con sanzioni amministrative fino a 1 milione di euro (senza ammissione a pagamento in misura ridotta) l'inosservanza degli obblighi «due diligence».
I controlli. È il ministero delle politiche agricole l'autorità nazionale competente a coordinare le attività di controllo sulla filiera, soggetto che in sinergia con l'Agenzia delle dogane e del Corpo forestale dello stato garantirà sia l'osservanza delle nuove norme che (per quanto di competenza) l'irrogazione delle relative sanzioni (articolo ItaliaOggi Sette del 22.12.2014).

APPALTIResponsabilità solidale e appalti.
La scomparsa del regime di responsabilità tributaria negli appalti non mette al riparo il committente da conseguenze fiscali.

La responsabilità solidale negli appalti esce di scena ma non completamente. Il decreto sulle semplificazioni fiscali (Dlgs 175/2014) entrato in vigore il 13 dicembre, ha di fatto eliminato il regime di responsabilità tributaria, tuttavia, non si può affermare che il committente sia immune da qualsiasi conseguenza di natura fiscale.
Da un lato, l’articolo 28, comma 1, del Dlgs 175/2014 ha disposto l'abrogazione del sistema di verifica previgente, disciplinato dall’articolo 35, commi da 28 a 28-ter, del Dl 223/2006. Dall’altro, il comma 2 dello stesso articolo, intervenendo sull’articolo 29 della legge Biagi (che regola la solidarietà retributiva e contributiva), dispone alcuni oneri per il committente, se quest’ultimo è chiamato a rispondere dei debiti dell’appaltatore.
La novità positiva è che committenti e appaltatori non dovranno più preoccuparsi di richiedere le previste certificazioni di regolarità dei versamenti delle ritenute, evitando così di bloccare i pagamenti alle imprese in attesa di ricevere l’attestazione prevista dalla norma (sino al 12 dicembre scorso).
Il vincolo di solidarietà fiscale che legava i soggetti della filiera prevedeva pesanti oneri di verifica che gli stessi dovevano effettuare per evitare di incappare nel coinvolgimento solidale, in caso di inadempienza dei soggetti a monte della catena dell’appalto.
Queste disposizioni erano entrate in vigore con il Dl 83/2012, nel perimetro di attività rilevanti ai fini Iva, prevedendo un diverso grado di responsabilità e di rischio economico rispettivamente per committente e appaltatore nei confronti del subappaltatore.
Nel vecchio quadro, l’appaltatore si trovava nella posizione di coobbligato in solido con il subappaltatore -che è il debitore principale- per le ritenute sui redditi da lavoro dipendente dovute da quest’ultimo (in materia di Iva la responsabilità era stata cancellata dal Dl 69/2013), in relazione alle prestazioni effettuate nell’ambito del rapporto di subappalto e nel limite dell’ammontare del corrispettivo dovuto, che non poteva quindi eccedere l’importo che l’appaltatore deve corrispondere al subappaltatore.
Il committente, pur non essendo chiamato a rispondere per il debito erariale, doveva versare il corrispettivo all’appaltatore solo dopo aver verificato che gli adempimenti degli obblighi tributari già scaduti, relativi al versamento delle ritenute fiscali sui redditi da lavoro dipendente a carico dall’intera filiera dell’appalto, fossero stati eseguiti correttamente. Viceversa, in caso di mancato controllo, rischiava una sanzione amministrativa da 5mila a 200mila euro, se i versamenti fiscali in questione fossero risultati irregolari.
Per entrambi i profili, il coinvolgimento era escluso se l’appaltatore-committente acquisiva un’autocertificazione resa in base al Dpr 445/2000 o un’asseverazione rilasciata dai professionisti abilitati o dai Caf imprese, che attestasse la regolarità dei versamenti.
Nonostante l’eliminazione di questi obblighi, la nuova formulazione dell’articolo 29 del Dlgs 276/2003 prevede però che il committente, chiamato in solido, se ha eseguito il pagamento delle retribuzioni, sia comunque tenuto ad assolvere tutti gli adempimenti previsti per i sostituti d’imposta, in base al Dpr 600/1973, quindi, tra l’altro:
- effettuare le ritenute sulle somme versate ai lavoratori interessati e riversarle all’erario;
- rilasciare il Cud e compilare il modello 770.
Peraltro, con non poche difficoltà poiché si tratta di dati di cui lo stesso non è normalmente a conoscenza.
La disposizione si riferisce alle ipotesi in cui il meccanismo della preventiva escussione si sia rivelato infruttuoso: si ricorda, infatti, che il debitore solidale (committente imprenditore o datore di lavoro), chiamato a rispondere in sede giudiziale del pagamento unitamente all’appaltatore e agli eventuali subappaltatori, può proporre un’eccezione con la quale chiede che sia preventivamente escusso il patrimonio di questi ultimi (fatta salva la possibilità di richiedere la restituzione di quanto pagato attraverso l’azione di regresso).
Anche con l’intervento del decreto sulle semplificazioni fiscali, la materia deve ancora trovare un assetto organico poiché sulla solidarietà contributiva non esiste un sistema di verifica che consenta di mettere al riparo il committente dal coinvolgimento solidale, sebbene lo stesso non abbia commesso illeciti.
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Oltre il fisco. Oneri invariati. Rimane il vincolo sui contributi e le retribuzioni.
L’intervento del decreto sulle semplificazioni fiscali (Dlgs 175/2014) cambia il quadro della responsabilità solidale negli appalti per quanto riguarda i profili fiscali ma non tocca i riflessi in materia lavoristica, così come resta in capo al committente il vincolo solidaristico come sostituto d’imposta in caso emergano situazioni di «lavoro nero» nella filiera dell’appalto. L’onere resta, in particolare, per gli obblighi previdenziali e assicurativi dei lavoratori e per le loro retribuzioni (articolo 29, comma 2, Dlgs 276/2003).
Nei rapporti di appalto e subappalto, è ancora in vigore, quindi, la solidarietà retributiva e contributiva tra committente, appaltatore e subappaltatori.
Quando scatta la solidarietà
Ma quando scatta la tutela solidaristica? Dopo le modifiche avvenute con il Dl 5/2012, l’intervento più recente sul campo è stato quello della legge 92/2012, che ha modificato l’articolo 29 della legge Biagi: nel dettaglio, il committente imprenditore, nei limiti dei due anni dalla cessazione del contratto di appalto, è obbligato in solido con l’appaltatore e gli eventuali subappaltatori, in relazione ai trattamenti retributivi –comprese le quote del Tfr– ai contributi previdenziali e ai premi assicurativi dovuti in relazione per il periodo di esecuzione del contratto; sono, invece, escluse dall’obbligazione le sanzioni civili, che gravano solo sul responsabile dell’inadempimento.
In caso di inadempienza dell’appaltatore/subappaltatore, dunque, la norma chiama in causa il committente-appaltatore.
Per cercare di evitare il coinvolgimento nel regime della solidarietà, è opportuno che, nell’ambito del contratto di appalto, siano previste una serie di verifiche sulla regolarità dell’appaltatore/subappaltatore. È necessario, quindi, richiedere il Durc, copia delle comunicazioni obbligatorie di instaurazione dei rapporti di lavoro (in modo da escludere la presenza sull’appalto di lavoratori in nero), copia in visione del Libro unico del lavoro, e così via.
Oltre a questi passaggi, è fondamentale anche individuare limiti di genuinità dell’appalto e realizzare gli affidamenti con le metodologie corrette, proprio perché il reticolo di responsabilità tra le parti del contratto si presenta molto complesso.
Se, infatti, il processo di esternalizzazione non dovesse essere stato costituito in maniera genuina, scattano le sanzioni previste in caso di appalto illecito: si realizza così una somministrazione di manodopera irregolare o fraudolenta e la costituzione, in capo all’utilizzatore, del rapporto di lavoro dei lavoratori impiegati nell’appalto/subappalto.
L’appalto genuino
L’appalto si differenzia dalla somministrazione di lavoro per specifici requisiti: deve sussistere una concreta entità imprenditoriale -con conseguente rischio economico in capo all’appaltatore- anche per l’esercizio del potere direttivo e organizzativo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto. Inoltre, l’appaltatore deve essere dotato di un ampio margine di autonomia rispetto al committente, nel senso che la gestione materiale dei fattori produttivi deve sottrarsi all’ingerenza di quest’ultimo
 (articolo Il Sole 24 Ore del 22.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing, irrilevante il numero di dipendenti.
Non conta la quantità degli addetti in azienda, ma la qualità delle condotte persecutorie poste in essere dai vertici societari ai fini della rilevanza penale del mobbing. E ciò anche se la vittima è un lavoratore che ha un'anzianità di servizio non trascurabile e pare avere sopportato a lungo le vessazioni dei capi: anche in un'impresa che non è una bottega artigiana ma vanta ben venticinque dipendenti, infatti, si può ben configurare il reato ex articolo 572 c.p. a carico dei vertici societari per la mortificazione e l'isolamento del singolo lavoratore; conta infatti la sussistenza in azienda di un rapporto «para-familiare», sul vecchio modello artigiano-apprendista, che ad esempio può ben configurarsi quando c'è un «padre-padrone» che gestisce i rapporti in modo del tutto autoritario nell'ambito di un rigido schema relazione «supremazia-subalternità».

È quanto emerge dalla sentenza 22.12.2014 n. 53416 della VI Sez. penale della Corte di Cassazione.
Motivazione viziata. Accolto il ricorso del procuratore generale presso la Corte d'appello contro l'assoluzione pronunciata dal giudice di secondo grado in favore del presidente e dell'amministratore delegato della società riformando la decisione del Tribunale.
Risulta sempre necessaria da parte del giudice un'indagine da parte del giudice sulle effettive dinamiche delle relazioni fra il titolare e dipendenti, anche se nelle imprese più grandi i rapporti fra dirigenti e sottoposti tendono a essere più superficiali e spersonalizzati (articolo ItaliaOggi del 30.12.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: V'è l’esplicita previsione normativa dell’obbligo di prestare idonee garanzie finanziarie da parte di chi gestisce rifiuti e da parte di chi effettua bonifiche (cfr. rispettivamente gli artt. 208, comma 11, lett. g), e 242, comma 7, del Dlgs. 03.04.2006, n. 152), da considerarsi espressione della necessità di garantire la corretta esecuzione ed il completamento degli interventi che, se non portati correttamente a termine, comportano l’impiego e l’esborso di ingenti risorse pubbliche.
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Deve ritenersi che non sia precluso all’Amministrazione di imporre una garanzia anche per la fattispecie diversa ma analoga dell’ordine di rimozione dei rifiuti illecitamente abbandonati, atteso che, come è stato già affermato da questa stessa Sezione in altra occasione “è vero che le norme del D.Lgs. 152/2006 non prevedono espressamente la possibilità per l’amministrazione di ordinare al presunto debitore il rilascio di una fideiussione a garanzia dei danni o delle opere da eseguire in sostituzione del responsabile di violazioni di norme ambientali.
Tuttavia nulla vieta che l’amministrazione possa intimare, pur senza disporre di un effettivo potere coercitivo, il deposito, in via cautelare, di garanzie su somme che la stessa amministrazione ritiene di ascrivere al danno ambientale ovvero di dover essa stessa impiegare nell’esercizio del potere sanzionatorio o surrogatorio per gli interventi che la legge le impone di eseguire in danno del responsabile (nello specifico a seguito della violazione dell’art. 192 del D.Lgs. 152/2006).
Ciò, beninteso, a condizione che il provvedimento cui inerisce la richiesta di garanzie fideiussorie preveda di porre a carico (o ponga a carico) del soggetto onerato la realizzazione di interventi previsti dalla legge a titolo di sanzione per la violazione delle norme ambientali e in particolare quando è previsto il potere di esecuzione in danno del responsabile, e sussista un ragionevole rapporto tra l’importo che l’amministrazione richiede e che è garantito dalla fideiussione e quello stimato dall’amministrazione come costo delle stesse operazioni o ovvero come misura del danno ambientale”.

... per l'annullamento dell’ordinanza sindacale di avvio a recupero e allo smaltimento e al ripristino dei luoghi n. 1393 del 05.06.2007;
...
Con il terzo motivo la parte ricorrente lamenta l’illegittimità della previsione di una fideiussione a garanzia della corretta esecuzione dei lavori di rimozione e rirpistino.
In merito all’infondatezza della censura in linea generale va rilevato che vi è l’esplicita previsione normativa dell’obbligo di prestare idonee garanzie finanziarie da parte di chi gestisce rifiuti e da parte di chi effettua bonifiche (cfr. rispettivamente gli artt. 208, comma 11, lett. g), e 242, comma 7, del Dlgs. 03.04.2006, n. 152), da considerarsi espressione della necessità di garantire la corretta esecuzione ed il completamento degli interventi che, se non portati correttamente a termine, comportano l’impiego e l’esborso di ingenti risorse pubbliche.
Pertanto deve ritenersi che non sia precluso all’Amministrazione di imporre una garanzia anche per la fattispecie diversa ma analoga dell’ordine di rimozione dei rifiuti illecitamente abbandonati, atteso che, come è stato già affermato da questa stessa Sezione in altra occasione (cfr. Tar Veneto, Sez. III, 04.12.2009, n. 3460) “è vero che le norme del D.Lgs. 152/2006 non prevedono espressamente la possibilità per l’amministrazione di ordinare al presunto debitore il rilascio di una fideiussione a garanzia dei danni o delle opere da eseguire in sostituzione del responsabile di violazioni di norme ambientali.
Tuttavia nulla vieta che l’amministrazione possa intimare, pur senza disporre di un effettivo potere coercitivo, il deposito, in via cautelare, di garanzie su somme che la stessa amministrazione ritiene di ascrivere al danno ambientale ovvero di dover essa stessa impiegare nell’esercizio del potere sanzionatorio o surrogatorio per gli interventi che la legge le impone di eseguire in danno del responsabile (nello specifico a seguito della violazione dell’art. 192 del D.Lgs. 152/2006).
Ciò, beninteso, a condizione che il provvedimento cui inerisce la richiesta di garanzie fideiussorie preveda di porre a carico (o ponga a carico) del soggetto onerato la realizzazione di interventi previsti dalla legge a titolo di sanzione per la violazione delle norme ambientali e in particolare quando è previsto il potere di esecuzione in danno del responsabile, e sussista un ragionevole rapporto tra l’importo che l’amministrazione richiede e che è garantito dalla fideiussione e quello stimato dall’amministrazione come costo delle stesse operazioni o ovvero come misura del danno ambientale
”.
Anche la censura di cui al terzo motivo deve pertanto essere respinta (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 22.12.2014 n. 1560 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza rispetto all'interpretazione dell'art. 10 L. n. 10/1977, ora art. 19 D.P.R. 380/2001, relativamente all'esonero dal contributo, è stata sempre restrittiva, ritenendo che la norma esoneri dalla corresponsione del contributo solo i fabbricati strettamente complementari ed asserviti alle esigenze proprie di un impianto industriale e non già quegli edifici che non sono di per sé destinati alla produzione di beni industriali ovvero opere edilizie comunque suscettibili di essere utilizzate al servizio di qualsiasi attività economica.
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Con riferimento più specifico a fattispecie analoghe a quella qui in esame, la giurisprudenza ha peraltro chiarito che: “Si configura l'ipotesi di mutamento di destinazione d'uso urbanisticamente rilevante, come tale soggetto al preventivo rilascio del titolo concessorio, ogni volta che, variando il soggetto che utilizza l'immobile e conseguentemente l'attività che in esso viene svolta, quest'ultima comporti un maggiore carico urbanistico derivante dal passaggio ad una diversa categoria funzionale” (nella fattispecie è stato ritenuto urbanisticamente rilevante l'utilizzo di un capannone industriale come magazzino per gestione di prodotti finiti, essendo quest'ultima un'attività da considerare non come produttiva ma di intermediazione commerciale e come tale legata quindi al ciclo della commercializzazione).

Il ricorso deve essere ritenuto infondato nella parte in cui si contesta la debenza delle somme richieste dal Comune in ragione del cambio di destinazione d’uso del fabbricato già costruito, dovendosi ritenere che l’amministrazione abbia qui operato una corretta e vincolata applicazione del disposto dell’art. 19 del D.P.R. 380/2001 e della Convenzione per l’attuazione del Piano per gli insediamenti produttivi, stipulata tra il Comune di Vescovana e la CO.SE.CON. il 16.11.2004.
Ed infatti il permesso di costruire del 01.01.2005 è stato rilasciato alla Prologis, dante causa delle odierne ricorrenti, sul presupposto della destinazione industriale del realizzando edificio “destinato a deposito di merci e materiali vari”; tant’è che tale rilascio è stato subordinato dall’amministrazione al pagamento della sola “quota del contributo per oneri di urbanizzazione relativa all’incidenza per opere necessarie al trattamento dei rifiuti solidi, liquidi e gassosi”.
Ciò in virtù dell’esonero dal pagamento del contributo per costo di costruzione previsto dall’art. 19, comma 1, D.P.R. 380/2001 a beneficio delle costruzioni destinate alle attività industriali, ed in conformità alla Convenzione del 16.11.2004, che aveva posto a carico della società lottizzante (CO.SE.CON.) il soddisfacimento degli oneri di urbanizzazione per gli interventi aventi destinazione industriale.
Appare altresì evidente che nel momento in cui, in conseguenza del mutamento della proprietà, l’attività di immagazzinaggio di merci svolta nel capannone in questione non è più legata ad una attività industriale, produttiva di beni, bensì ad una attività esclusivamente commerciale come quella indiscutibilmente svolta da D.M.O., allora si viene a configurare un mutamento di destinazione d’uso del fabbricato in questione rilevante a fini urbanistici.
Ed infatti, l’attività di commercio al minuto e all’ingrosso (di prodotti per la casa, profumi, bigiotteria, cartoleria, vestiario etc...) svolta da D.M.O. si estende e comprende anche la fase di deposito di tali prodotti all’interno del magazzino in questione, il quale costituisce una componente dell’organizzazione dell’impresa commerciale esercitata da D.M.O..
La giurisprudenza, peraltro, rispetto all'interpretazione dell'art. 10 L. n. 10/1977, ora art. 19 D.P.R. 380/2001, relativamente all'esonero dal contributo, è stata sempre restrittiva, ritenendo che la norma esoneri dalla corresponsione del contributo solo i fabbricati strettamente complementari ed asserviti alle esigenze proprie di un impianto industriale e non già quegli edifici che non sono di per sé destinati alla produzione di beni industriali ovvero opere edilizie comunque suscettibili di essere utilizzate al servizio di qualsiasi attività economica (Consiglio Stato, Sez. V, 21.10.1998, n. 1512; cfr. TAR Lombardia Milano, Sez. II, 11.02.2002, n. 495).
Con riferimento più specifico a fattispecie analoghe a quella qui in esame, la giurisprudenza ha peraltro chiarito che: “Si configura l'ipotesi di mutamento di destinazione d'uso urbanisticamente rilevante, come tale soggetto al preventivo rilascio del titolo concessorio, ogni volta che, variando il soggetto che utilizza l'immobile e conseguentemente l'attività che in esso viene svolta, quest'ultima comporti un maggiore carico urbanistico derivante dal passaggio ad una diversa categoria funzionale” (nella fattispecie è stato ritenuto urbanisticamente rilevante l'utilizzo di un capannone industriale come magazzino per gestione di prodotti finiti, essendo quest'ultima un'attività da considerare non come produttiva ma di intermediazione commerciale e come tale legata quindi al ciclo della commercializzazione) cfr. C.d.S. sez. V 27.12.2011 n. 6411.
Non si può dubitare, dunque, della rilevanza sotto il profilo del carico urbanistico del mutamento di destinazione d'uso da industriale a commerciale.
Sulla base di tali presupposti, il Comune non poteva che operare una vincolata applicazione dell’art. 19, comma 3, del D.P.R. 380/2001, a tenore del quale, qualora la destinazione d’uso delle opere per le quali si è goduto del pagamento di una minore contribuzione in relazione all’uso industriale-artigianale venga comunque modificata, con o senza attività edilizia, nel decennio successivo alla ultimazione dei lavori, il titolare sarà tenuto al pagamento del contributo di costruzione nella misura massima corrispondente alla nuova destinazione impressa, con riferimento temporale al momento dell’intervenuta variazione.
E, d’altra parte, nel medesimo senso è da leggersi il punto “J” delle premesse della Convenzione di attuazione del piano per gli insediamenti produttivi, secondo cui: “con la cessione del Comune di Vescovana delle aree a standards primari e secondari, l’esecuzione delle relative opere ed attrezzature e con le modalità previste dalla Convenzione stipulata in data odierna, si adempie al soddisfacimento degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria per gli interventi aventi destinazione industriale. Per quanto concerne le destinazioni d’uso commerciali e direzionali, la differenza dell’onerosità delle opere di urbanizzazione secondarie, a conguaglio, verrà versata dagli assegnatari al Comune al momento del rilascio del permesso a costruire. Il contributo per il costo di costruzione, se e dove previsto, e la quota relativa all’asporto rifiuti e l’impatto ambientale, sarà versata dai soggetti attuatari degli interventi edilizi al Comune al momento del rilascio dei permessi a costruire”.
Pertanto, anche sulla base degli accordi convenzionali il passaggio delle costruzioni industriali ad una destinazione commerciale avrebbe comportato il pagamento del conguaglio per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione.
Pertanto, il primo motivo di ricorso deve essere ritenuto infondato (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 18.12.2014 n. 1537 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Si ricorda, conformemente all’orientamento costantemente seguito sul punto, che, quale principio di carattere generale, l'annullamento giurisdizionale del permesso di costruire provoca la qualificazione di abusività delle opere edilizie realizzate in base ad esso, per cui il Comune, stante l'efficacia conformativa della sentenza del giudice amministrativo, oltre che costitutiva e ripristinatoria, è obbligato a dare esecuzione al giudicato adottando i provvedimenti consequenziali.
Tali provvedimenti non devono, peraltro, avere ad oggetto necessariamente la demolizione delle opere realizzate, prescrivendo l'art. 38 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, in caso di annullamento del permesso di costruire, una nuova valutazione da parte del dirigente del competente ufficio comunale riguardo la possibilità di restituzione in pristino; qualora la demolizione non risulti possibile, il Comune dovrà irrogare una sanzione pecuniaria, nei termini fissati dallo stesso art. 38.
L'effetto conformativo, che discende dal decisum di annullamento, quindi, non comporta affatto per il Comune l'obbligo sempre e comunque di disporre la demolizione di quanto realizzato sulla base del titolo annullato, ma è circoscritto al divieto, in caso di adozione di un nuovo titolo edilizio, di riprodurre i medesimi vizi (formali o sostanziali che siano) che detto titolo avevano connotato: tanto evincendosi proprio dall'art. 38 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, che disciplina proprio la sorte delle opere realizzate sulla base di un permesso di costruire poi annullato.
Seguendo una lettura non restrittiva della disposizione in esame, è stato osservato che in sede amministrativa, la scelta comunale di dare applicazione all'art. 38, con esclusione della sanzione demolitoria, laddove adeguatamente motivata ed accompagnata dall'adeguamento ai vizi ed alle indicazioni contenute nell'annullamento, appare quella maggiormente rispettosa di tutti gli interessi coinvolti nella singola controversia ed anche del principio di proporzionalità dell'azione amministrativa, di diretta derivazione dal diritto dell'Unione Europea, principio che impone all'Amministrazione il perseguimento del pubblico interesse col minor sacrificio possibile dell'interesse privato.
Anche in sede di esame dottrinale dell'art. 38 è stato evidenziato come la norma abbia introdotto, per i casi di annullamento del titolo edilizio, una disciplina sanzionatoria complessivamente più mite rispetto a quella prevista per le ipotesi di opere realizzate in assenza, in totale difformità o con variazioni essenziali rispetto al titolo originario (cfr. ad es. art. 31 DPR 380 cit.), per le quali è prevista la sola sanzione della demolizione, potendosi applicare eccezionalmente la sanzione pecuniaria, in luogo di quella demolitoria, per i soli interventi in difformità parziale -ma non totale- rispetto al permesso di costruire (cfr. art. 34). La peculiarità dell'art. 38 è giustificata essenzialmente dalla necessità di tutela dell'affidamento del soggetto che ha edificato in conformità ad un titolo rivelatosi poi illegittimo.
Se è pur vero che, atteso l'evidente interesse pubblico alla rimozione delle opere abusive, la demolizione può apparire, anche in caso di annullamento giurisdizionale di un titolo edilizio per vizi sostanziali, quale conseguenza per così dire ordinaria, tuttavia lo stesso art. 38 ammette che, con motivata relazione, alla restituzione in pristino si sostituisca la sanzione pecuniaria.
E’ vero, peraltro, che tale sostituzione presuppone, sempre secondo la norma citata, che la demolizione non sia possibile. La corretta interpretazione di tale nozione di "impossibilità" ha dato luogo a dibattiti in giurisprudenza e dottrina; in proposito, appare ragionevole l'opzione ermeneutica a mente della quale l'individuazione dei casi di impossibilità non può arrestarsi alla mera impossibilità (o grave difficoltà) tecnica, potendo anche trovare considerazione ragioni di equità o al limite di opportunità.
Al riguardo, si è così ritenuto che, nel caso di opere realizzate sulla base di titolo annullato, la loro demolizione debba essere considerata quale extrema ratio, privilegiando, ogni volta che ciò sia possibile, la riedizione del permesso di costruire emendato dai vizi riscontrati (cfr. ad es. CdS 1535/2010).
In definitiva, è quindi possibile concludere nel senso che l'art. 38 rappresenta "speciale norma di favore" che differenzia sensibilmente la posizione di colui che abbia realizzato l'opera abusiva sulla base di titolo annullato rispetto a coloro che hanno realizzato opere parimenti abusive senza alcun titolo, tutelando l'affidamento del privato che ha avviato i lavori in base a titolo ottenuto.
Ne consegue che -secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale da cui il Collegio non ha motivo di discostarsi- laddove sia sopravvenuto l’annullamento giurisdizionale del titolo abilitativo, l'Amministrazione non può dirsi vincolata ad adottare misure ripristinatorie, dovendo anzi la scelta -tipicamente discrezionale quale essa sia, nel senso della riedizione o della demolizione- essere adeguatamente motivata.

Con il ricorso in oggetto e per i motivi in esso dedotti, così come riassunti in fatto, gli odierni istanti hanno chiesto l’annullamento del provvedimento con il quale il Comune di Malcesine ha disposto l’irrogazione della sanzione pecuniaria, in alternativa all’ordine di demolizione, ai sensi dell’art. 38 del D.P.R. 380/2001, relativamente ad una serie di interventi di ampliamento eseguiti sull’immobile identificato nell’Hotel Venezia, di proprietà Mazzoldi, ampliamenti realizzati in forza di un permesso di costruire successivamente annullato in sede giurisdizionale.
Le censure dedotte da parte ricorrente a sostegno della richiesta di annullamento si concentrano sull’insussistenza delle ragioni poste a fondamento dell’applicazione della sanzione pecuniaria, non essendo stato valutato correttamente lo stato di fatto e con esso la possibilità di dare luogo alla demolizione delle parti eseguite in forza del titolo edilizio giudicato illegittimo.
Esaminate le doglianze dedotte e le controdeduzioni delle difese resistenti, ritiene il Collego che il ricorso non sia meritevole di accoglimento.
Va preliminarmente dato atto, attesa la documentazione depositata in giudizio dal controinteressato, che, per quanto riguarda specificatamente gli interventi di ampliamento della facciata dell’edificio prospiciente il lago di Garda, detti ampliamenti sono stati eliminati, essendo stato riportato lo stato di fatto così come si presentava all’epoca antecedente l’intervento.
Per quanto riguarda, invece, le valutazioni che hanno determinato l’amministrazione ad accogliere, per la restante parte dell’ampliamento realizzato, la richiesta di applicazione dell’art. 38 presentata dal controinteressato, si ricorda, conformemente all’orientamento costantemente seguito sul punto (Consiglio di Stato Sez. VI, sent. n. 3571 del 13.06.2011), che, quale principio di carattere generale, l'annullamento giurisdizionale del permesso di costruire provoca la qualificazione di abusività delle opere edilizie realizzate in base ad esso, per cui il Comune, stante l'efficacia conformativa della sentenza del giudice amministrativo, oltre che costitutiva e ripristinatoria, è obbligato a dare esecuzione al giudicato adottando i provvedimenti consequenziali.
Tali provvedimenti non devono, peraltro, avere ad oggetto necessariamente la demolizione delle opere realizzate, prescrivendo l'art. 38 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, in caso di annullamento del permesso di costruire, una nuova valutazione da parte del dirigente del competente ufficio comunale riguardo la possibilità di restituzione in pristino; qualora la demolizione non risulti possibile, il Comune dovrà irrogare una sanzione pecuniaria, nei termini fissati dallo stesso art. 38.
L'effetto conformativo, che discende dal decisum di annullamento, quindi, non comporta affatto per il Comune l'obbligo sempre e comunque di disporre la demolizione di quanto realizzato sulla base del titolo annullato, ma è circoscritto al divieto, in caso di adozione di un nuovo titolo edilizio, di riprodurre i medesimi vizi (formali o sostanziali che siano) che detto titolo avevano connotato: tanto evincendosi proprio dall'art. 38 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, che disciplina proprio la sorte delle opere realizzate sulla base di un permesso di costruire poi annullato (cfr. ad es. Consiglio di Stato n. 4923/2012).
Seguendo una lettura non restrittiva della disposizione in esame, è stato osservato che in sede amministrativa, la scelta comunale di dare applicazione all'art. 38, con esclusione della sanzione demolitoria, laddove adeguatamente motivata ed accompagnata dall'adeguamento ai vizi ed alle indicazioni contenute nell'annullamento, appare quella maggiormente rispettosa di tutti gli interessi coinvolti nella singola controversia ed anche del principio di proporzionalità dell'azione amministrativa, di diretta derivazione dal diritto dell'Unione Europea, principio che impone all'Amministrazione il perseguimento del pubblico interesse col minor sacrificio possibile dell'interesse privato (cfr. in materia, in linea generale Consiglio di Stato, sez. V n. 4733/2012 ed in materia di edilizia Tar Lombardia n. 2944/2012).
Anche in sede di esame dottrinale dell'art. 38 è stato evidenziato come la norma abbia introdotto, per i casi di annullamento del titolo edilizio, una disciplina sanzionatoria complessivamente più mite rispetto a quella prevista per le ipotesi di opere realizzate in assenza, in totale difformità o con variazioni essenziali rispetto al titolo originario (cfr. ad es. art. 31 DPR 380 cit.), per le quali è prevista la sola sanzione della demolizione, potendosi applicare eccezionalmente la sanzione pecuniaria, in luogo di quella demolitoria, per i soli interventi in difformità parziale -ma non totale- rispetto al permesso di costruire (cfr. art. 34). La peculiarità dell'art. 38 è giustificata essenzialmente dalla necessità di tutela dell'affidamento del soggetto che ha edificato in conformità ad un titolo rivelatosi poi illegittimo.
Se è pur vero che, atteso l'evidente interesse pubblico alla rimozione delle opere abusive, la demolizione può apparire, anche in caso di annullamento giurisdizionale di un titolo edilizio per vizi sostanziali, quale conseguenza per così dire ordinaria, tuttavia lo stesso art. 38 ammette che, con motivata relazione, alla restituzione in pristino si sostituisca la sanzione pecuniaria.
E’ vero, peraltro, che tale sostituzione presuppone, sempre secondo la norma citata, che la demolizione non sia possibile. La corretta interpretazione di tale nozione di "impossibilità" ha dato luogo a dibattiti in giurisprudenza e dottrina; in proposito, appare ragionevole l'opzione ermeneutica a mente della quale l'individuazione dei casi di impossibilità non può arrestarsi alla mera impossibilità (o grave difficoltà) tecnica, potendo anche trovare considerazione ragioni di equità o al limite di opportunità.
Al riguardo, si è così ritenuto che, nel caso di opere realizzate sulla base di titolo annullato, la loro demolizione debba essere considerata quale extrema ratio, privilegiando, ogni volta che ciò sia possibile, la riedizione del permesso di costruire emendato dai vizi riscontrati (cfr. ad es. CdS 1535/2010).
In definitiva, è quindi possibile concludere nel senso che l'art. 38 rappresenta "speciale norma di favore" che differenzia sensibilmente la posizione di colui che abbia realizzato l'opera abusiva sulla base di titolo annullato rispetto a coloro che hanno realizzato opere parimenti abusive senza alcun titolo (TAR Puglia, Bari, sez. II, 27.02.2003, n. 873; Consiglio di Stato, sez. IV, 14.12.2002, n. 7001, TAR Campania Napoli sez II 14.02.2011 n. 932), tutelando l'affidamento del privato che ha avviato i lavori in base a titolo ottenuto.
Ne consegue che -secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale da cui il Collegio non ha motivo di discostarsi- laddove sia sopravvenuto l’annullamento giurisdizionale del titolo abilitativo, l'Amministrazione non può dirsi vincolata ad adottare misure ripristinatorie, dovendo anzi la scelta -tipicamente discrezionale quale essa sia, nel senso della riedizione o della demolizione- essere adeguatamente motivata (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 18.12.2014 n. 1533 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ad oggi ed al fine di applicare la deroga di cui all’art. 14 sopra citato, è necessario non tanto avere a riferimento la qualità pubblica o privata dei soggetti esecutori, quanto l’esistenza di un nesso tra la destinazione dell’edificio ed un interesse tipico e apprezzabile perseguito dall’Amministrazione.
Si è affermato, infatti, che l'art. 14, primo comma, del D.p.r. n. 380 del 2001 stabilisce che i permessi di costruire in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici generali possono essere rilasciati, fra l'altro, per la realizzazione di impianti di interesse pubblico e, ciò, con la conseguenza che “anche impianti ed edifici privati possono costituire oggetto di permesso di costruire in deroga”.
Si è sostenuto, inoltre, che “gli immobili di interesse pubblico possono anche essere di proprietà privata, purché la loro destinazione assolva finalità di interesse pubblico. Il permesso di costruire in deroga di cui all'art. 14 del d.p.r. n. 380/2001 non è un atto dovuto a fronte della realizzazione di opere di interesse pubblico, ma costituisce un provvedimento discrezionale, emanato all'esito di una comparazione dell'interesse alla realizzazione (o al mantenimento dell'opera) con ulteriori interessi, come quelli urbanistici, edilizi, paesistici e ambientali”.
Si è così affermata una nozione di interesse pubblico che prescinde dalla natura pubblica o privata del bene per avere a riferimento l’esistenza di una “fruibilità collettiva”, ritenuta meritevole di tutela che, a sua volta, può risultare compatibile anche con una destinazione commerciale degli edifici.

Sul punto è dirimente constatare come, ad oggi ed al fine di applicare la deroga di cui all’art. 14 sopra citato, è necessario non tanto avere a riferimento la qualità pubblica o privata dei soggetti esecutori, quanto l’esistenza di un nesso tra la destinazione dell’edificio ed un interesse tipico e apprezzabile perseguito dall’Amministrazione.
Si è affermato, infatti (TAR Lombardia Milano Sez. II, 07.02.2014, n. 417), che l'art. 14, primo comma, del D.p.r. n. 380 del 2001 stabilisce che i permessi di costruire in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici generali possono essere rilasciati, fra l'altro, per la realizzazione di impianti di interesse pubblico e, ciò, con la conseguenza che “anche impianti ed edifici privati possono costituire oggetto di permesso di costruire in deroga”.
Si è sostenuto, inoltre (TAR Calabria Catanzaro Sez. II, 11-03-2011, n. 375), che “gli immobili di interesse pubblico possono anche essere di proprietà privata, purché la loro destinazione assolva finalità di interesse pubblico. Il permesso di costruire in deroga di cui all'art. 14 del d.p.r. n. 380/2001 non è un atto dovuto a fronte della realizzazione di opere di interesse pubblico, ma costituisce un provvedimento discrezionale, emanato all'esito di una comparazione dell'interesse alla realizzazione (o al mantenimento dell'opera) con ulteriori interessi, come quelli urbanistici, edilizi, paesistici e ambientali”.
Si è così affermata una nozione di interesse pubblico che prescinde dalla natura pubblica o privata del bene per avere a riferimento l’esistenza di una “fruibilità collettiva”, ritenuta meritevole di tutela che, a sua volta, può risultare compatibile anche con una destinazione commerciale degli edifici (Consiglio di Stato dell’11.01.2006 n. 46)
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 18.12.2014 n. 1532 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per un recente orientamento giurisprudenziale, gli interventi di restauro e risanamento hanno una finalità di conservazione e di valorizzazione dell'organismo edilizio, attraverso la sostituzione anche di elementi costitutivi di quest'ultimo, che tuttavia non può estendersi sino alla realizzazione di superfici e volumetrie.
Si è, altresì, sostenuto che dall’'art. 3 del D.Lgs. n. 380/2001 emerge che il restauro “è teso alla conservazione (e non alla trasformazione) dell'edificio con conseguente mantenimento dei preesistenti elementi tipologici, formali e strutturali e, quindi, della "identità fisica" dello stesso, e che sono, essenzialmente, riconducibili a siffatta figura i lavori di mero ripristino o rinnovo degli elementi costitutivi del fabbricato consentendosi la realizzazione di impianti connessi alle esigenze d'uso e quindi alla "funzionalità" dell'immobile ed all'eliminazione, per la medesima ragione di funzionalità degli elementi che si prefigurano come estranei all'unità immobiliare”.

Non solo risulta accertato che l’immobile era stato oggetto di una ristrutturazione che ne aveva modificato gli aspetti sostanziali, per altro con l’utilizzo di cemento armato diretto a rinforzare gli elementi strutturali dell’edificio, ma va rilevato come l’intervento ora contestato possa comunque essere ricondotto alla nozione di restauro che, in quanto tale, è oggi connotata da caratteristiche parzialmente differenti rispetto al passato, circostanza quest’ultima che fa ritenere insussistente la presunta violazione dell’art. 29 del D.Lgs. 42/2004.
Per un recente orientamento giurisprudenziale (per tutti si veda Consiglio di Stato Sez. V, 29.10.2014, n. 5337) gli interventi di restauro e risanamento hanno una finalità di conservazione e di valorizzazione dell'organismo edilizio, attraverso la sostituzione anche di elementi costitutivi di quest'ultimo, che tuttavia non può estendersi sino alla realizzazione di superfici e volumetrie (Conferma della sentenza del Tar Campania-Salerno, sez. II, n. 1594/2002).
Si è, altresì, sostenuto (TAR Campania Salerno Sez. II, 20.10.2011, n. 1694) che dall’'art. 3 del D.Lgs. n. 380/2001 emerge che il restauro “è teso alla conservazione (e non alla trasformazione) dell'edificio con conseguente mantenimento dei preesistenti elementi tipologici, formali e strutturali e, quindi, della "identità fisica" dello stesso, e che sono, essenzialmente, riconducibili a siffatta figura i lavori di mero ripristino o rinnovo degli elementi costitutivi del fabbricato consentendosi la realizzazione di impianti connessi alle esigenze d'uso e quindi alla "funzionalità" dell'immobile ed all'eliminazione, per la medesima ragione di funzionalità degli elementi che si prefigurano come estranei all'unità immobiliare
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 18.12.2014 n. 1532 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di opere in violazione di norme recepite dagli strumenti urbanistici locali, diverse da quelle in materia di distanze, non comportano immediato e contestuale danno per i vicini, il cui diritto al risarcimento presuppone l’accertamento di un nesso tra la violazione contestata e l’effettivo pregiudizio subito.
La prova di tale pregiudizio deve essere fornita dagli interessati in modo preciso, con riferimento alla sussistenza del danno ed all’entità dello stesso.
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Il condominio che abbia acquistato in proprietà esclusiva lo spazio destinato al parcheggio di un autoveicolo, ancorché sito nel locale adibito ad autorimessa comune del condominio, ha facoltà a norma dell’art. 841 cod. civ. di recintarlo anche con la struttura di un cosiddetto box, sempre che non gliene facciano divieto l’atto di acquisto o il regolamento condominiale avente efficacia contrattuale e non derivi un danno alle parti comuni dell’edificio ovvero una limitazione al godimento delle parti comuni dell’autorimessa.

   2 – Le doglianze di cui sopra, non hanno pregio.
Non è ravvisarle alcuna delle violazioni di legge eccepite, mentre le altre doglianze in buona sostanza afferiscono a pretesi vizi di motivazione della sentenza (vecchio testo dell’art. 360 n. 5), la cui denuncia ormai non è più consentita a mente dall’art. 54 del d.l. 22.06.2012, n. 83, convenuto in legge 07.08.2012, n. 134, pubblicato sulla G.U. dell’11.8.2012, in vigore dal 12.8.2012 (applicabile nella fattispecie in esame ex art. 54, comma 3 D.L. n. 83 cit.).
Invero in linea di principio, dev’essere condivisa la pronuncia adottate dal tribunale nel punto in cui ha ritenuta legittima la tramezzatura del posto auto nell’autorimessa comune che è stato così trasformato in box, avendo la corte fatto utile riferimento alla facoltà concessa al proprietario, a norma dell’art. 841 c.c. di recintare (chiudere) il proprio fondo “in qualunque tempo”.
Questa S.C. ha invero precisato che: “Il condominio che abbia acquistato in proprietà esclusiva lo spazio destinato al parcheggio di un autoveicolo, ancorché sito nel locale adibito ad autorimessa comune del condominio, ha facoltà a norma dell’art. 841 cod. civ. di recintarlo anche con la struttura di un cosiddetto box, sempre che non gliene facciano divieto l’atto di acquisto o il regolamento condominiale avente efficacia contrattuale e non derivi un danno alle parti comuni dell’edificio ovvero una limitazione al godimento delle parti comuni dell’autorimessa” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5933 del 25/05/1991).
La corte d’appello ha escluso che nella fattispecie vi fossero i suddetti elementi ostativi, esaminando nel dettaglio le varie problematiche che al riguardo erano state sollevate in riferimento ad all’inglobamento di alcune “cose” di proprietà del condominio (chiusino d’ispezione della rete fognante, 2 saracinesche dell’acqua potabile e tubature passanti; un interruttore temporizzato e un punto luce del garage). Al riguardo la soluzione proposta dal giudice distrettuale potrebbe ritenersi adeguata e giuridicamente corretta (“… il diritto degli appellanti di recingere il fondo ex art. 948, 1122 c.c. sia da contemperare con il concorrente diritto di servitù degli altri condomini ed il concreto esercizio della stessa ai fini della manutenzione degli impianti”), né è stata oggetto di una specifica contestazione in riferimento al principio di diritto richiamato nella sentenza.
La Corte ha inoltre adeguatamente valutato la questione della non applicabilità del regolamento condominiale, con riferimento all’epoca di entrata in vigore. Le censure mosse in proposito, non possono più trovare ingresso perché non è più censurabile la motivazione della sentenza.
   3 – Invero si è prima fatto cenno che, a mente dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., come novellato dall’art. 54 del d.l. 22.06.2012, n. 83, convertito in legge 07.08.2012, n. 134, deve ormai escludersi la sindacabilità in sede di legittimità della correttezza logica della motivazione, di idoneità probatoria di una determinata risultanza processuale, non avendo più autonoma rilevanza il vizio di contraddittorietà o insufficienza della motivazione (Cass. Ordinanza n. 16300 del 16/07/2014).
Le S.U. al riguardo hanno precisato che: “La riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c….. deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionaie che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione" (Cass. S. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).
Le S.U. hanno ulteriormente precisato in merito, che “L’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22.06.2012, n. 83, conv. in legge 07.08.2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciarle per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, c.p.c. il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie
" (Cass. S.U. Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).
Nella fattispecie non ricorre l’ipotesi di cui all’art. 395 n. 5 c.p.c. (nuovo testo): il ricorrente non ha indicato il fatto storico il cui esame sarebbe stato omesso dalla Corte territoriale. In conclusione il ricorso principale dev’essere disatteso.
B) RICORSO INCIDENTALE.
C.B. e Cr.Fi. con l’unico motivo, denunciano A) la violazione e falsa applicazione dell’art. 1122 c.c. in relazione al D.M. 16.02.1982 ed al D.M. 01.02.1986, che si denunziano parimenti violati e falsamente applicati, in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c..
B) Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti; conseguente vizio della motivazione, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c..
Le doglianze si riferiscono al punto della decisione che ha ritenuto illegittimo ai sensi dell’art. 1122 c.c. il varco creato nel muro per eccedere al locale di proprietà esclusiva dei ricorrenti incidentali.
Invece secondo costoro tale varco deve ritenersi legittimo in quanto lo stesso mette in comunicazione il box con un vano non condominiale, (la cantina) non di proprietà del condomino, ma degli stessi ricorrenti, per cui non può derivare alcun pregiudizio alle parti comuni dell’edificio.
Insomma “il varco (per vero aperto non direttamente tra box e cantina, ma tra ripostiglio e cantina), presidiato da porta con congegno di auto chiusura, doveva essere ritenuto legittimo perché conforme ai decreti ministeriali e doveva, comunque, affermarsi, dalla Corte romana, a pena di violazione delle norme denunziate violate, il diritto degli allora appellanti di mantenerlo negli accorgimenti stabiliti dal DM 01.02.1986″. In realtà la destinazione del locale collegato (cantina) consentiva collegamento dei locali suddetta secondo la normativa (DM 01.02.1986 e DM 16.02.1982).
La doglianza appare fondata nei limiti che si preciserà.
Invero la corte ha ritenuto il varco illegittimo ex art. 1122 c.c. facendo esclusivo riferimento al D.M. 01.02.1986 con le cui disposizioni sarebbe in contrasto. “Emerge infatti (si legge a pag. 8 della sentenza) dalla risposta della società PIM alla richiesta dell’amministratore del condominio circa la legittimità della trasformazione del posto auto in box, che il locale derivato da tale trasformazione, ai sensi del D.M. 01/02/1986 è legittimo ove non vi sia collegamento diretto con altro locale dell’edificio, situazione che invece nella specie era stata realizzata”.
Osserva in proposito il Collegio che la non rispondenza dell’immobile alla normativa di cui al DM D.M. 01/0219/86 può avere rilievo solo sotto il profilo di legittimità amministrativa, ma non significa anche che senz’altro rechi danno alle parti comuni dell’edificio ai sensi dell’art. 1122 c.c.. È quest’ultimo un profilo che dovrà essere oggetto di ulteriore indagini da parte del giudice di rinvio.
Si veda al riguardo la giurisprudenza di questa Corte, sia pure con riferimento ad una diversa fattispecie: “La realizzazione di opere in violazione di norme recepite dagli strumenti urbanistici locali, diverse da quelle in materia di distanze, non comportano immediato e contestuale danno per i vicini, il cui diritto al risarcimento presuppone l’accertamento di un nesso tra la violazione contestata e l’effettivo pregiudizio subito. La prova di tale pregiudizio deve essere fornita dagli interessati in modo preciso, con riferimento alla sussistenza del danno ed all’entità dello stesso" (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 24387 del 01/12/2010).
Soltanto sotto questo specifico profilo, dunque, il ricorso incidentale va accolto; in sede di rinvio si dovrà stabilire se sussistono o meno ulteriori elementi per ritenere l’opera in contrasto o meno con il disposto di cui all’art. 1122 c.c.. (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 16.12.2014 n. 26426 -
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VARI: Il notaio incaricato di redigere l’atto pubblico di trasferimento immobiliare, il quale abbia compitato la dichiarazione a fini INVIM, sottoscritta dal venditore, riportando quanto da questi dichiarato rispetto ai valori finali e iniziali, e abbia provveduto alla relativa registrazione senza avvertire la parte delle conseguenze derivanti da dichiarazioni non veritiere, almeno quando è ragionevolmente probabile che quelle fornite dalla parte non lo siano, pone in essere un comportamento non conforme alla diligenza qualificata richiesta dalla particolare qualificazione tecnico/giuridica della prestazione professionale –oggetto dell’incarico conferito dal cliente e quindi ricompresa nel rapporto di prestazione di opera professionale (artt. 1176, 2230 e segg. cod. civ.) e nel contempo intrecciata alle peculiari funzioni notarili pubblicistiche– atteso che tra i mezzi e i comportamenti rientranti nella prestazione professionale cui il notaio si è obbligato vi è quello di fornire consulenza tecnica alla parte, finalizzata non solo al raggiungimento dello scopo privatistico e pubblicistico tipico al quale Tatto rogando è preordinato, ma anche a conseguire gli effetti vantaggiosi eventualmente previsti dalla normativa fiscale e a rispettare gli obblighi imposti da tale normativa; con la conseguenza di rispondere dei danni originati da tale comportamento anche nella sola ipotesi di colpa lieve.
4.2.5. Va esaminato un ulteriore profilo che emerge, seppure in modo confuso, dalla sentenza impugnata, laddove la stessa sembra voler alludere ad una diversa responsabilità del notaio a seconda della parte che ha conferito l’incarico, sino ad arrivare ad ipotizzare un diverso atteggiarsi dell’obbligo professionale se il notaio incaricato sia stato designato dalla controparte (cfr. sintesi della sentenza nel p.1).
La giurisprudenza della Corte, infatti, ha chiarito che, ai fini della individuazione della responsabilità professionale del notaio nella stipulazione dell’atto pubblico di vendita, sempre che dal comportamento del professionista siano derivati danni, non ha alcun rilievo che l’incarico di redigere l’atto pubblico sia stato conferito, e remunerato, da una delle parti, sussistendo la responsabilità professionale nei confronti di tutte le parti dell’atto rogato sulla base dell’art. 1411 cod. civ. per quella parte che non lo ha conferito (Cass. n. 14865 del 2013).
4.2.6. In conclusione, può enunciarsi il seguente principio di diritto: “Il notaio incaricato di redigere l’atto pubblico di trasferimento immobiliare, il quale abbia compitato la dichiarazione a fini INVIM, sottoscritta dal venditore, riportando quanto da questi dichiarato rispetto ai valori finali e iniziali, e abbia provveduto alla relativa registrazione senza avvertire la parte delle conseguenze derivanti da dichiarazioni non veritiere, almeno quando è ragionevolmente probabile che quelle fornite dalla parte non lo siano, pone in essere un comportamento non conforme alla diligenza qualificata richiesta dalla particolare qualificazione tecnico/giuridica della prestazione professionale –oggetto dell’incarico conferito dal cliente e quindi ricompresa nel rapporto di prestazione di opera professionale (artt. 1176, 2230 e segg. cod. civ.) e nel contempo intrecciata alle peculiari funzioni notarili pubblicistiche– atteso che tra i mezzi e i comportamenti rientranti nella prestazione professionale cui il notaio si è obbligato vi è quello di fornire consulenza tecnica alla parte, finalizzata non solo al raggiungimento dello scopo privatistico e pubblicistico tipico al quale Tatto rogando è preordinato, ma anche a conseguire gli effetti vantaggiosi eventualmente previsti dalla normativa fiscale e a rispettare gli obblighi imposti da tale normativa; con la conseguenza di rispondere dei danni originati da tale comportamento anche nella sola ipotesi di colpa lieve” (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.12.2014 n. 26369 -
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PUBBLICO IMPIEGOIl conferimento di tali posizioni organizzative al personale non dirigente delle pubbliche amministrazioni inquadrato nelle aree esula dall’ambito degli atti amministrativi autoritativi (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 2) e si iscrive nella categoria degli atti negoziali, adottati con la capacità e i poteri del datore di lavoro (D.Lgs. citato art. 5, comma 2; art. 63, commi 1 e 4), in particolare configurandosi l’attività della Amministrazione –nell’applicazione della disposizione contrattuale– non come esercizio di un potere di organizzazione, ma come adempimento di un obbligo di ricognizione e di individuazione degli aventi diritto.
Siffatta qualificazione comporta che le relative controversie siano devolute alla giurisdizione ordinaria.
Invero, “Detti atti rientrano nel novero degli atti di micro-organizzazione, costituenti esplicazione della capacità e dei poteri del privato datore di lavoro, giusta l’art. 5, comma 2, del D.Lgs. 20.03.2011, n. 165, sottratti per definizione alla cognizione del giudice amministrativo, in quanto inerenti a posizioni di diritto soggettivo”
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... per l'annullamento della determinazione del Sindaco del Comune di Fiscaglia n. 1 del 03.07.2014 per la parte che attiene alla nomina della ricorrente nella posizione organizzativa del Servizio Personale, connessa alla sua rimozione dal Servizio Ragioneria del medesimo Comune ed allo speculare spostamento del contro interessato dal Servizio Personale al Servizio Ragioneria.
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Secondo giurisprudenza consolidata il conferimento di tali posizioni organizzative al personale non dirigente delle pubbliche amministrazioni inquadrato nelle aree esula dall’ambito degli atti amministrativi autoritativi (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 2) e si iscrive nella categoria degli atti negoziali, adottati con la capacità e i poteri del datore di lavoro (D.Lgs. citato art. 5, comma 2; art. 63, commi 1 e 4), in particolare configurandosi l’attività della Amministrazione –nell’applicazione della disposizione contrattuale– non come esercizio di un potere di organizzazione, ma come adempimento di un obbligo di ricognizione e di individuazione degli aventi diritto.
Siffatta qualificazione comporta che le relative controversie siano devolute alla giurisdizione ordinaria.
Detti atti rientrano nel novero degli atti di micro-organizzazione, costituenti esplicazione della capacità e dei poteri del privato datore di lavoro, giusta l’art. 5, comma 2, del D.Lgs. 20.03.2011, n. 165, sottratti per definizione alla cognizione del giudice amministrativo, in quanto inerenti a posizioni di diritto soggettivo (Cons. Stato, Sez. V, 15.02.2010, n. 815)” (cfr. TAR Liguria, Genova, Sez. II, 10.11.2010 n. 10259; in termini, TAR Campania, Napoli, 07.10.2010, n. 17996; TAR Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 28.02.2013, n. 214 e Cass. 8836/2010).
Pertanto il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione, salvi gli effetti della “traslatio judicii” in caso di riproposizione al giudice ordinario nei sensi e nei termini di cui all’art. 11 del C.p.a. (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 16.12.2014 n. 1238 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI: Quanto alla natura ingiuriosa della parola “scemo”, le frasi volgari e offensive sono idonee a integrare gli estremi del reato (di oltraggio) anche se siano divenute di uso corrente in particolari ambienti perché l’abitudine al linguaggio volgare e genericamente offensivo proprio di determinati ceti sociali non toglie alle dette frasi la loro obiettiva capacità di ledere il prestigio del pubblico ufficiale, con danno della pubblica amministrazione da esso rappresentata.
1. Il ricorso é infondato; per quanto riguarda la prima censura, è sufficiente precisare che la valutazione frazionata dell’attendibilità del teste persona offesa è stata giustificata con il fatto che sull’ingiuria –intesa come dato di fatto oggettivo– vi è stata l’ammissione dell’imputato, mentre per quanto riguarda le minacce non vi è stato alcun riscontro.
2. Quanto alla concessione della scriminante della provocazione, non può certo ritenersi tale il mancato raggiungimento di un accordo transattivo, di cui peraltro non si dice nemmeno a chi dei due contendenti sia addebitabile e per quale motivo (rendendo, pertanto, sul punto il ricorso aspecifico).
3. Infine, quanto alla natura ingiuriosa della parola “scemo”, occorre ricordare che Le frasi volgari e offensive sono idonee a integrare gli estremi del reato (di oltraggio) anche se siano divenute di uso corrente in particolari ambienti perché l’abitudine al linguaggio volgare e genericamente offensivo proprio di determinati ceti sociali non toglie alle dette frasi la loro obiettiva capacità di ledere il prestigio del pubblico ufficiale, con danno della pubblica amministrazione da esso rappresentata (nella fattispecie era stata ritenuta oltraggiosa la frase “vieni qui scemo, cretino”; cfr. Sez. 6, n. 6431 del 25/02/1989, CATALDI, Rv. 181175) (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 15.12.2014 n. 52082 -
link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittima un'ordinanza di demolizione dato il contenuto indeterminato della stessa. Risulta infatti impossibile ricostruire se i manufatti in questione rientrino appunto in quelli che si possono realizzare liberamente o costituiscano invece abuso sanzionabile.
... per l’annullamento, previa sospensione, dell’ordinanza 20.11.2013 n. 176 e prot. n. 178937, notificata il 26.11.2013, con la quale il Responsabile dell’area tecnica del Comune di Iseo ingiunge alla ditta Campeggio ... S.n.c. quale proprietaria dell’area di demolire opere abusive realizzate sull’area del Campeggio stesso sita alla locale via Cave 14, distinta al catasto comunale al foglio 3, mappali 1 e 18;
...
- che con l’ordinanza meglio descritta in epigrafe (doc. 2 ricorrente, copia di essa) si ordina la demolizione di una serie di manufatti ritenuti abusivi realizzati all’interno del campeggio gestito dalla parte ricorrente;
- che i manufatti in questione potrebbero in astratto rientrare nel concetto di “manufatti leggeri…installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno di strutture ricettive all'aperto, in conformità alla normativa regionale di settore, per la sosta ed il soggiorno di turisti” che rientrano nell’attività edilizia libera secondo l’art. 3, comma 1, punto e.5, del T.U. 06.06.2001 n. 380, come modificato dall’art. 41, comma 4, del d.l. 21.06.2013 n. 69, convertito, con modificazioni, dalla l. 09.08.2013 n. 98 e, successivamente, dall'art. 10-ter, comma 1, del d.l. 28.03.2014, n. 47, convertito, con modificazioni, dalla l. 23.05.2014 n. 80;
- che peraltro ciò non si può affermare, né escludere, senza una esatta disamina del concreto assetto dei manufatti contestati, che va ricostruito attraverso una corretta e completa istruttoria;
- che viceversa il provvedimento impugnato descrive i manufatti contestati in termini generici, dato che parla di “realizzazione sulle piazzole di preingressi consistenti in costruzioni in legno o in lamiera coibentata (circa 60) e n. 8 tende alloggio posizionate su basamento a terra o pedana rialzata … collocazione sulle predette piazzole di strutture di materiale ferroso infisse al terreno funzionali alla copertura delle roulotte e preingressi e pavimentazione esterna in lastre di pietra o altro materiale non filtrante…… collocazione di roulotte sulle piazzole, in parte prive di targa di immatricolazione, di sistemi idonei a garantirne la mobilità e la circolazione in sicurezza su strada, non diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee…” (doc. 2 ricorrente, cit.);
- che in tali termini risulta fondato e assorbente il primo motivo di ricorso, incentrato sul contenuto indeterminato dell’ordinanza in parola. Risulta infatti impossibile ricostruire se i manufatti in questione rientrino appunto in quelli che si possono realizzare liberamente o costituiscano invece abuso sanzionabile;
- che quindi il ricorso è fondato e va accolto, con l’annullamento dell’ordinanza impugnata (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 13.12.2014 n. 1383 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire - Impianto di radiotelecomunicazioni su lastrico solare condominiale.
E' illegittimo il diniego dell'istanza di sanatoria presentata per aver costruito un traliccio per l'installazione di antenne di radiotelecomunicazioni sul lastrico solare condominiale laddove la giurisprudenza ha chiarito che:
- il traliccio per l'installazione di antenne di radiotelecomunicazioni è stato costruito su un lastrico solare di proprietà comune a tutti i condomini delle diverse unità immobiliari che costituiscono l'edificio: il lastrico solare, ai sensi dell'art. 1117 del codice civile, è parte comune dell'edificio se dal titolo di proprietà non risulta il contrario. Per la realizzazione dell'intervento oggetto della presente istanza, pertanto, è richiesto il consenso esplicito di lutti i proprietari che, a tutt'oggi, non risulta essere stato rilasciato;
- ai sensi dell’art. 1102 c.c. “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto…”: non vi è prova che l’impianto per cui è causa pregiudichi l’uso e il godimento del lastrico solare da parte degli altri condomini o impedisca loro di installare antenne o impianti simili.

... per l'annullamento del "provvedimento di diniego dell'istanza di rilascio del titolo abilitativo in sanatoria" n 1445//RIPCOND2003 a firma del dirigente del Settore Urbanistica e Assetto del Territorio Ufficio Condono Edilizio, del 05.06.2008, notificato il 27.06.2008, con il quale è stata respinta l'istanza di rilascio del titolo abilitativo in sanatoria relativa al "traliccio per l'installazione di antenne di radiotelecomunicazioni" ubicato in Brindisi alla Viale Duca degli Abruzzi n. 26, nonché di ogni altro atto presupposto, connesso e/o conseguente a detto provvedimento.
...
Nel merito il ricorso è fondato nei termini e per le ragioni di seguito indicate.
Il titolo in sanatoria richiesto dalla società ricorrente non è stato negato dal Comune per ragioni pubblicistiche (es. assenza dei presupposti, insanabile contrasto delle violazioni poste in essere con la disciplina urbanistica e/o ambientale), ma per ragioni squisitamente privatistiche.
Il provvedimento impugnato è, infatti, così motivato “Il traliccio per l'installazione di antenne di radiotelecomunicazioni è stato costruito su un lastrico solare di proprietà comune a tutti i condomini delle diverse unità immobiliari che costituiscono l'edificio: il lastrico solare, ai sensi dell'art. 1117 del codice civile, è parte comune dell'edificio se dal titolo di proprietà non risulta il contrario. Per la realizzazione dell'intervento oggetto della presente istanza, pertanto, è richiesto il consenso esplicito di lutti i proprietari che, a tutt'oggi, non risulta essere stato rilasciato".
La trascritta motivazione appare al Collegio inidonea a sorreggere l’impugnato provvedimento di diniego considerato che, benché l’impianto in questione sia ormai installato da quasi un trentennio, non risultano agli atti denunce, esposti o lamentele presentate dai condomini. La S.C. ha chiarito che “Né l'assemblea dei condomini né il regolamento da questa approvato possono vietare l'installazione di singole antenne ricetrasmittenti, in quanto in tale modo non vengono disciplinate le modalità di uso della cosa comune, ma viene ad essere menomato il diritto di ciascun condomino all'uso del tetto di copertura, incidendo sul diritto di proprietà comune dello stesso” (Cassazione Civile, Il Sezione, 05.06.1998, n. 5517).
Ai sensi dell’art. 1102 c.c. “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto…”: non vi è prova che l’impianto per cui è causa pregiudichi l’uso e il godimento del lastrico solare da parte degli altri condomini o impedisca loro di installare antenne o impianti simili (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 10.12.2014 n. 3050 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: E' legittima l'esclusione dalla gara d'appalto laddove l’esclusione stessa non è dipesa dal fatto che il reato di cui al decreto penale in questione sia stato ritenuto dall’Amministrazione “grave” ed “incidente sulla moralità professionale” ai sensi del comma 1 dell’art. 38 del D.Lgs. n. 163/2006, ma in quanto il legale rappresentante della ditta consorziata ha omesso di dichiarare l’esistenza della suddetta condanna, in violazione del comma 2 dell’art. 38 del codice dei contratti.
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E' noto il principio in forza del quale spetta alla Stazione appaltante valutare il precedente penale dichiarato e congruamente motivare in ordine ai requisiti della incidenza sulla moralità professionale e della gravità del reato stesso, ma certo tale valutazione di rilevanza/irrilevanza del precedente –sia in termini di incidenza sulla moralità professionale che di gravità- non può essere compiuta dal concorrente, che non può operare alcun filtro in sede di dichiarazioni rilasciate ex art. 38 D.Lgs. n. 163/2006, con la conseguenza che è onere di questi dichiarare tutti i precedenti penali ex art. 38, la cui valutazione, nei termini sopra riferiti, è riservata in via esclusiva alla stazione appaltante.
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A prescindere dalla espressa previsione della lex specialis di gara, giova ricordare come sia stato di recente rilevato che “anche in assenza di un'espressa comminatoria nella lex specialis, stante la eterointegrazione con la norma di legge, l'inosservanza dell'obbligo di rendere al momento della presentazione della domanda di partecipazione le dovute dichiarazioni previste dall'art. 38 del D.lgs. n. 163 del 2006 comporta l'esclusione del concorrente, senza che sia consentito alla stazione appaltante disporne la regolarizzazione o l'integrazione, non trattandosi di irregolarità, vizio o dimenticanza di carattere puramente formale".

La tesi della ricorrente non è condivisibile.
Invero, il provvedimento di esclusione impugnato risulta essere fondato sulla circostanza che il Presidente del C.d.A. della ditta ... srl, consorziata della ricorrente, ha omesso di dichiarare “la sussistenza di una condanna in violazione delle disposizioni dell’art. 38 del D.Lgs. 163/2006”. Pertanto, l’esclusione non è dipesa dal fatto che il reato di cui al decreto penale in questione sia stato ritenuto dall’Amministrazione “grave” ed “incidente sulla moralità professionale” ai sensi del comma 1 dell’art. 38 del D.Lgs. n. 163/2006, ma in quanto il legale rappresentante della ditta consorziata ha omesso di dichiarare l’esistenza della suddetta condanna, in violazione del comma 2 dell’art. 38 del codice dei contratti.
Non pare fuori luogo ricordare che il citato comma 2 dell’art. 38 dispone che “Il candidato o il concorrente attesta il possesso dei requisiti mediante dichiarazione sostitutiva in conformità alle previsioni del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445, in cui indica tutte le condanne penali riportate, ivi comprese quelle per le quali abbia beneficiato della non menzione. Ai fini del comma 1, lettera c), il concorrente non è tenuto ad indicare nella dichiarazione le condanne per reati depenalizzati ovvero dichiarati estinti dopo la condanna stessa, né le condanne revocate, né quelle per le quali è intervenuta la riabilitazione”; a tale proposito è stato autorevolmente rilevato che trattasi di “dichiarazione/prescrizione essenziale che prescinde dalla stazione appaltante perché attiene ai principi di lealtà e affidabilità contrattuale e professionale che presiedono agli appalti e ai rapporti con la stazione stessa, né si rilevano validi motivi per non effettuare tale dichiarazione, posto che spetta comunque all'Amministrazione la valutazione circa la gravità o meno del reato”, e ancora che “Le procedure concorsuali, infatti, perseguono il rispetto rigoroso delle regole poste ad assicurare l'imparzialità e la parità di trattamento in tutte le loro fasi, per cui spetta al concorrente il dovere della diligenza nella osservanza delle disposizioni di legge e concorsuali proprio ai fini della tutela dell'interesse al concorso” (Consiglio di Stato, sez. III, 24.06.2014, n. 3198).
D’altra parte, è noto il principio in forza del quale spetta alla Stazione appaltante valutare il precedente penale dichiarato e congruamente motivare in ordine ai requisiti della incidenza sulla moralità professionale e della gravità del reato stesso, ma certo tale valutazione di rilevanza/irrilevanza del precedente –sia in termini di incidenza sulla moralità professionale che di gravità- non può essere compiuta dal concorrente, che non può operare alcun filtro in sede di dichiarazioni rilasciate ex art. 38 D.Lgs. n. 163/2006, con la conseguenza che è onere di questi dichiarare tutti i precedenti penali ex art. 38, la cui valutazione, nei termini sopra riferiti, è riservata in via esclusiva alla stazione appaltante (Consiglio di Stato, sez. V, 05.09.2014, n. 4528; id., sez. III, n. 3198/2014 cit.; id., sez. IV, 25.03.2014, n. 1456; id., sez. V, 27.01.2014, n. 400; id., sez. V, 06.03.2013, n. 1378).
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In ogni caso ed a prescindere dalla espressa previsione della lex specialis di gara, giova ricordare come sia stato di recente rilevato che “anche in assenza di un'espressa comminatoria nella lex specialis, stante la eterointegrazione con la norma di legge, l'inosservanza dell'obbligo di rendere al momento della presentazione della domanda di partecipazione le dovute dichiarazioni previste dall'art. 38 del D.lgs. n. 163 del 2006 comporta l'esclusione del concorrente, senza che sia consentito alla stazione appaltante disporne la regolarizzazione o l'integrazione, non trattandosi di irregolarità, vizio o dimenticanza di carattere puramente formale" (Cons. St., sez. III, 02.07.2013, n. 3550; 14.12.2011, n. 6569) (Consiglio di Stato, sez. V, 05.09.2014, n. 4528, cit.).
Nemmeno è possibile ritenere che le previsioni del disciplinare e del modulo predisposto dalla Stazione appaltante fossero irragionevoli, attesa la conformità delle suddette previsioni al disposto di cui all’art. 38, comma 2, del D.Lgs. n. 163/2006
(TAR Veneto, Sez. I, sentenza 12.12.2014 n. 1524 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul cambio di destinazione d’uso senza opere da residenza a uffici.
(a) il caso in esame è regolato dal principio di liberalizzazione delle destinazioni d’uso stabilito dagli art. 51 e 52 della LR 12/2005. In mancanza di espressi divieti contenuti nello strumento urbanistico, il passaggio a un diverso tipo di utilizzazione deve ritenersi sempre ammissibile;
(b) questo non significa però che sia anche a costo zero. In realtà, la liberalizzazione delle destinazioni d’uso non assicura da sola la gratuità del passaggio da una destinazione all’altra. Per ottenere questo risultato sono necessarie tre condizioni:
   (1) il cambio deve essere effettivamente senza opere;
   (2) la nuova destinazione d’uso non deve alterare il fabbisogno di aree a standard;
   (3) il cambio deve distanziarsi temporalmente dai lavori che comportano il versamento del contributo di costruzione (nuova edificazione, ristrutturazione);
(c) nello specifico, la prima condizione (assenza di opere) non è posta in dubbio. Se il Comune avesse accertato nuove opere avrebbe potuto richiamare l’art. 44, comma 12, della LR 12/2005, che impone il conguaglio rispetto alla nuova destinazione d’uso, limitatamente alla parte di edificio interessata dai lavori;
(d) per quanto riguarda la seconda condizione (invarianza del fabbisogno di aree a standard), il provvedimento impugnato afferma che il cambio di destinazione d’uso comporterebbe un maggiore carico urbanistico. Questa formula si può interpretare nel senso che la presenza di uffici in luogo della precedente abitazione renderebbe necessario acquisire nuove aree a standard o inserire nuovi servizi di interesse pubblico in quelle esistenti. Si tratta però di un’affermazione imprecisa e generica;
(e) l’imprecisione consiste nel mettere in relazione il fabbisogno di standard urbanistici e gli oneri di urbanizzazione, che sono e devono invece rimanere concetti separati, trattandosi di costi che hanno titoli diversi e si sommano tra loro. Non è possibile chiedere il pagamento degli oneri di urbanizzazione affermando (o sottintendendo) che sono dovuti per adeguare gli standard urbanistici;
(f) la genericità dell’affermazione del Comune emerge dal fatto che i maggiori standard ipotizzati non sono descritti in dettaglio. Il provvedimento impugnato sembra ritenere ovvio che in un passaggio come quello in esame la nuova destinazione d’uso richieda maggiori aree a standard.
Un simile onere economico non può tuttavia essere imposto sulla base di semplici presunzioni. L’art. 51, comma 2, della LR 12/2005 affida al PGT il compito di individuare in quali casi i cambi destinazione d'uso, se attuati con opere edilizie, comportino una variazione del fabbisogno di aree a standard.
Per i cambi senza opere il successivo comma 3 precisa che l’adeguamento delle aree a standard è necessario esclusivamente quando la nuova destinazione d’uso preveda l’insediamento di esercizi commerciali non costituenti esercizi di vicinato. Anche volendo lasciare aperta la possibilità che, per particolari esigenze pubbliche, l’adeguamento sia necessario in ulteriori casi, si tratterebbe comunque di fattispecie da disciplinare puntualmente all’interno del PGT;
(g) per quanto riguarda infine la terza condizione (adeguato intervallo temporale), l’art. 52, comma 3, della LR 12/2005 fissa in dieci anni dall’ultimazione dei lavori il periodo entro il quale l’amministrazione può chiedere l’integrazione del contributo di costruzione con riferimento alla nuova destinazione d’uso. Nel caso in esame tale termine è ampiamente scaduto;
(h) si osserva in proposito che l’integrazione del contributo di costruzione è un diritto potestativo pubblico che attiene al rapporto intercorrente tra l’amministrazione e il proprietario dell’edificio. Tale rapporto è soggetto a riequilibrio qualora l’edificio, entro dieci anni dalla fine dei lavori (costruzione o ristrutturazione), acquisti stabilmente una destinazione d’uso che, se introdotta fin dall’inizio, avrebbe incrementato il costo del titolo edilizio.
L’adeguamento funziona peraltro in una sola direzione, perché se poi si ritorna a una destinazione meno onerosa l’art. 52, comma 3, della LR 12/2005 non contempla alcun obbligo di rimborso. Oltre i dieci anni dalla fine dei lavori il proprietario può invece effettuare il cambio senza subire conseguenze economiche. La norma tende infatti a disincentivare i comportamenti opportunistici, che non si possono più presumere dopo un così lungo intervallo temporale.

... per l'annullamento del provvedimento del dirigente della Divisione Gestione del Territorio prot. n. U0012300-Pg del 09.02.2007, con il quale è stato determinato il contributo per oneri di urbanizzazione primaria e secondaria in relazione al cambio di destinazione d’uso da residenza a uffici in un edificio di via S. Francesco d’Assisi;
...
1. La ricorrente L.C.M. è comproprietaria nel Comune di Bergamo di una unità immobiliare di 207,31 mq collocata al terzo piano di un edificio (mappale n. 2732) situato in via S. Francesco d’Assisi.
2. In data 08.02.2007 la ricorrente ha comunicato al Comune il cambio di destinazione d’uso senza opere da residenza a uffici. Non è contestato che la prima destinazione sussistesse fin dal momento della realizzazione dell’edificio, che è risalente nel tempo (almeno cento anni, secondo la ricorrente).
3. Il dirigente della Divisione Gestione del Territorio con provvedimento del 09.02.2007 ha stabilito che, trattandosi di una variazione comportante un maggiore carico urbanistico, doveva essere versato il contributo di costruzione, e precisamente gli oneri di urbanizzazione primaria (€ 6.614,42) e quelli di urbanizzazione secondaria (€ 3.301,19). Gli importi corrispondono alla differenza tra gli oneri della nuova destinazione d’uso e quelli della destinazione originaria.
4. Contro il suddetto provvedimento la ricorrente ha presentato impugnazione con atto notificato il 14.04.2007 e depositato il 20.04.2007.
Le censure possono essere sintetizzate e ordinate come segue:
(i) violazione dell’art. 52, comma 3, della LR 11.03.2005 n. 12, che prevede il versamento del contributo di costruzione corrispondente alla nuova destinazione d’uso solo per le variazioni effettuate entro i dieci anni successivi all'ultimazione dei lavori;
(ii) manifesta irragionevolezza, in quanto il cambio di destinazione d’uso senza opere, da un lato, non altera il fabbisogno di aree a standard, e dall’altro, essendo subordinato a semplice comunicazione preventiva, non è collegato a un titolo edilizio che imponga il versamento del contributo di costruzione. Oltre all’annullamento del provvedimento impugnato è stato chiesto il risarcimento del danno.
5. Il Comune si è costituito in giudizio chiedendo la reiezione del ricorso, ed evidenziando che la ricorrente non ha mai versato l’importo richiesto.
6. Con memoria depositata il 26.09.2014 la ricorrente ha rinunciato alla domanda risarcitoria, confermando la mancata riscossione coattiva dell’importo richiesto.
7. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni:
(a) il caso in esame è regolato dal principio di liberalizzazione delle destinazioni d’uso stabilito dagli art. 51 e 52 della LR 12/2005. In mancanza di espressi divieti contenuti nello strumento urbanistico, il passaggio a un diverso tipo di utilizzazione deve ritenersi sempre ammissibile;
(b) questo non significa però che sia anche a costo zero. In realtà, la liberalizzazione delle destinazioni d’uso non assicura da sola la gratuità del passaggio da una destinazione all’altra. Per ottenere questo risultato sono necessarie tre condizioni:
   (1) il cambio deve essere effettivamente senza opere;
   (2) la nuova destinazione d’uso non deve alterare il fabbisogno di aree a standard;
   (3) il cambio deve distanziarsi temporalmente dai lavori che comportano il versamento del contributo di costruzione (nuova edificazione, ristrutturazione);
(c) nello specifico, la prima condizione (assenza di opere) non è posta in dubbio. Se il Comune avesse accertato nuove opere avrebbe potuto richiamare l’art. 44, comma 12, della LR 12/2005, che impone il conguaglio rispetto alla nuova destinazione d’uso, limitatamente alla parte di edificio interessata dai lavori;
(d) per quanto riguarda la seconda condizione (invarianza del fabbisogno di aree a standard), il provvedimento impugnato afferma che il cambio di destinazione d’uso comporterebbe un maggiore carico urbanistico. Questa formula si può interpretare nel senso che la presenza di uffici in luogo della precedente abitazione renderebbe necessario acquisire nuove aree a standard o inserire nuovi servizi di interesse pubblico in quelle esistenti. Si tratta però di un’affermazione imprecisa e generica;
(e) l’imprecisione consiste nel mettere in relazione il fabbisogno di standard urbanistici e gli oneri di urbanizzazione, che sono e devono invece rimanere concetti separati, trattandosi di costi che hanno titoli diversi e si sommano tra loro. Non è possibile chiedere il pagamento degli oneri di urbanizzazione affermando (o sottintendendo) che sono dovuti per adeguare gli standard urbanistici;
(f) la genericità dell’affermazione del Comune emerge dal fatto che i maggiori standard ipotizzati non sono descritti in dettaglio. Il provvedimento impugnato sembra ritenere ovvio che in un passaggio come quello in esame la nuova destinazione d’uso richieda maggiori aree a standard.
Un simile onere economico non può tuttavia essere imposto sulla base di semplici presunzioni. L’art. 51, comma 2, della LR 12/2005 affida al PGT il compito di individuare in quali casi i cambi destinazione d'uso, se attuati con opere edilizie, comportino una variazione del fabbisogno di aree a standard.
Per i cambi senza opere il successivo comma 3 precisa che l’adeguamento delle aree a standard è necessario esclusivamente quando la nuova destinazione d’uso preveda l’insediamento di esercizi commerciali non costituenti esercizi di vicinato. Anche volendo lasciare aperta la possibilità che, per particolari esigenze pubbliche, l’adeguamento sia necessario in ulteriori casi, si tratterebbe comunque di fattispecie da disciplinare puntualmente all’interno del PGT;
(g) per quanto riguarda infine la terza condizione (adeguato intervallo temporale), l’art. 52, comma 3, della LR 12/2005 fissa in dieci anni dall’ultimazione dei lavori il periodo entro il quale l’amministrazione può chiedere l’integrazione del contributo di costruzione con riferimento alla nuova destinazione d’uso. Nel caso in esame tale termine è ampiamente scaduto;
(h) si osserva in proposito che l’integrazione del contributo di costruzione è un diritto potestativo pubblico che attiene al rapporto intercorrente tra l’amministrazione e il proprietario dell’edificio. Tale rapporto è soggetto a riequilibrio qualora l’edificio, entro dieci anni dalla fine dei lavori (costruzione o ristrutturazione), acquisti stabilmente una destinazione d’uso che, se introdotta fin dall’inizio, avrebbe incrementato il costo del titolo edilizio.
L’adeguamento funziona peraltro in una sola direzione, perché se poi si ritorna a una destinazione meno onerosa l’art. 52, comma 3, della LR 12/2005 non contempla alcun obbligo di rimborso. Oltre i dieci anni dalla fine dei lavori il proprietario può invece effettuare il cambio senza subire conseguenze economiche. La norma tende infatti a disincentivare i comportamenti opportunistici, che non si possono più presumere dopo un così lungo intervallo temporale.
8. Il ricorso deve quindi essere accolto, con il conseguente annullamento del provvedimento impugnato. Occorre poi prendere atto della rinuncia alla domanda risarcitoria (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 10.12.2014 n. 1358 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: 1. Escussione. Cauzione provvisoria. Imprese non aggiudicatarie. Carenza requisiti generali dichiarati. Clausola contenuta nel bando. Legittimità. Art. 48, comma 1, D.Lgs. 163/2006. Funzione della cauzione. Natura giuridica della cauzione.
1.1. È legittima la clausola, contenuta in atti di indizione di procedure di affidamento di appalti pubblici, che preveda l’escussione della cauzione provvisoria anche nei confronti di imprese non risultate aggiudicatarie, ma solo concorrenti, in caso di riscontrata assenza del possesso dei requisiti di carattere generale di cui all’art. 38 del codice dei contratti pubblici.
1.2. La legittimità degli atti di indizione di procedure di affidamento di appalti pubblici, che contengano clausole recanti la comminatoria di escussione della cauzione provvisoria anche nei confronti di imprese non aggiudicatarie, per le quali sia stata accertata la carenza del possesso di requisiti di carattere generale si ricava dal dato normativo.
Infatti, l’art. 48, co. 1, secondo periodo, del D.Lgs. n. 163/2006 prevede che, qualora l’impresa concorrente in sede di controllo a campione, non confermi le dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell’offerta, le stazioni appaltanti procedono all’esclusione del concorrente dalla gara, all’escussione della relativa cauzione provvisoria e alla segnalazione del fatto all’Autorità.
L’escussione della cauzione, dunque, non presuppone in via esclusiva il fatto dell’aggiudicatario, ma trova spazio applicativo anche quando per il concorrente, pur se non aggiudicatario, risulti non corrispondente al vero quanto dichiarato in occasione della rappresentazione di requisiti generali ovvero speciali.
1.3. La legittimità delle clausole del bando recanti la comminatoria di escussione della cauzione provvisoria nei confronti di imprese non aggiudicatarie, per le quali sia stata accertata la carenza del possesso di requisiti di carattere generale si ricava altresì dalla funzione della cauzione provvisoria e dalla previsione del suo incameramento, nonché dalla natura giuridica della cauzione provvisoria.
1.4. La cauzione provvisoria costituisce parte integrante dell'offerta e non mero elemento di corredo della stessa. Essa ha la finalità di responsabilizzare i partecipanti in ordine alle dichiarazioni rese, di garantire la serietà e l’affidabilità dell’offerta, nonché di escludere da subito i soggetti privi delle richieste qualità volute dal bando. La presenza di dichiarazioni non corrispondenti al vero, infatti, altera di per sé la gara quantomeno per un aggravio di lavoro della stazione appaltante, chiamata a vagliare anche concorrenti inidonei o offerte prive di tutte le qualità promesse.
1.5. L’escussione della cauzione provvisoria costituisce la conseguenza della violazione dell’obbligo di diligenza gravante sull’offerente, tenuto conto che gli operatori economici, con la domanda di partecipazione, sottoscrivono e si impegnano ad osservare le regole della relativa procedura delle quali hanno piena contezza. Essa corrisponde a una misura autonoma ed ulteriore rispetto alla esclusione dalla gara ed alla segnalazione all’Autorità di vigilanza e dà luogo, mediante l’anticipata liquidazione dei danni subiti dall’amministrazione, a un distinto rapporto giuridico fra quest’ultima e l’imprenditore (tanto che si ammette l’impugnabilità della sola escussione se ritenuta realmente ed esclusivamente lesiva dell’interesse dell’impresa).
1.6. La cauzione provvisoria deve essere ricondotta all’istituto della caparra confirmatoria (art. 1385 c.c.) avente la funzione di dimostrare la serietà dell’intento di stipulare il contratto sin dal momento delle trattative o del perfezionamento dello stesso, sia perché è finalizzata a confermare la serietà di un impegno da assumere in futuro, sia perché tale qualificazione risulta la più coerente con l’esigenza, rilevante contabilmente, di non vulnerare l’amministrazione costringendola a pretendere il maggior danno.
1.7. In sostanza, la cauzione provvisoria rappresenta una misura di indole patrimoniale, priva di carattere sanzionatorio amministrativo nel senso proprio, che costituisce l’automatica conseguenza della violazione di regole e doveri contrattuali espressamente accettati. Alla cauzione provvisoria non sono applicabili i principi di legalità e di tassatività, i quali operano con esclusivo riferimento alle sanzioni in senso proprio e non anche con riferimento a misure di indole patrimoniale liberamente contenute negli atti di indizione, accettate dai concorrenti, non irragionevoli né illogiche, rispondenti all’autonomia patrimoniale delle parti, non contrarie a norme imperative e anzi agganciate alla ratio rinvenibile nelle disposizioni del codice
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it -
Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 10.12.2014 n. 34 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Gli atti che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio deve compiere senza ritardo non sono quelli genericamente correlati a ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica o di ordine pubblico o di igiene e sanità, ma solo quegli atti che, per dette ragioni, devono essere “immediatamente” posti in essere.
L’art. 328 co. 1 c.p. non punisce la generica negligenza del pubblico ufficiale, ma il “rifiuto consapevole” di specifici atti o interventi amministrativi da adottarsi senza ritardo per la tutela di beni e interessi pubblici connessi alle peculiari funzioni degli agenti.
Con la conseguenza che il “rifiuto” può emergere, oltre che da una esplicita richiesta, anche da una evidente sopravvenienza di situazioni che richiedano oggettivamente un intervento, sicché –di fronte ad una “urgenza sostanziale” indotta da dati oggettivi portati a conoscenza del pubblico ufficiale– la “inerzia omissiva” dello stesso assume “intrinseca valenza di rifiuto” idonea ad integrare il reato.

   1. Tutti e due i ricorsi meritano accoglimento per la palese fondatezza dei motivi di censura segnatamente in punto di dolo del contestato reato di omissione di atti di ufficio ex art. 328 co. 1 c.p., motivi cui non può far velo l’intervenuta prescrizione del reato.
   2. Per vero la ricostruzione della stessa materialità della contestata fattispecie di cui all’art. 328, co. 1, c.p. operata dai giudici di merito appare carente per come ritenuta manifestata dai contegni omissivi, che dopo la riforma della norma incriminatrice (legge n. 86/1990) debbono assumere la connotazione del “rifiuto” del compimento di un atto urgente (da compiersi, come recita la norma, “senza ritardo”), riferiti –nelle loro rispettive e diverse posizioni funzionali– al sindaco S. e al dirigente P..
Se la nozione di “rifiuto indebito” di un determinato atto pubblico si sostanzia nella espressione di volontà del pubblico ufficiale agente di non compiere l’atto senza che tale determinazione sia sorretta da un giustificato motivo, sì che il rifiuto presuppone in linea di principio una specifica richiesta (di fonte pubblica o privata) di quel particolare atto, deve riconoscersi che il percorso decisorio delle due conformi sentenze di merito sembra confinare nell’ombra l’analisi della efficienza causale dei supposti rifiuti del sindaco e del dirigente comunale rispetto alla soluzione urgente del problema del percolato della discarica (omissis).
Le sentenze di primo e di secondo grado danno giustamente rilievo al tempo decorso dall’emergere della contingente urgenza del problema del percolato (gennaio 2005), quale prova o traccia della componente costitutiva della fattispecie rappresentata dal ritardo, ma lasciano in secondo piano la disamina alternativa degli interventi comunque attuati, nelle rispettive qualità, dal sindaco e dal dirigente comunale.
Al riguardo ben poco è dato arguire dalla sentenza impugnata sul valore riconoscibile, quanto allo S., alla delibera comunque adottata dalla Giunta comunale l’08.11.205 per la bonifica e messa in sicurezza dell’intera discarica dismessa di (omissis) e, quanto al P., alla sua decisione (divenuto in concreto e in fatto il responsabile o referente amministrativo della questione percolato, ad onta della latitudine del suo formale profilo professionale) di far rivedere prima dell’estate 2005 l’originario progetto di intervento del prof. M., dando specifico incarico all’ing. R. (con gli esiti ricordati nella narrativa in fatto).
   3. Vero è che, come anche affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, le sollecitazioni o richieste di intervento, che costituiscono –come detto– presupposto della condotta di rifiuto contemplata dall’art. 328, co. 1, c.p., possono concretizzarsi nella stessa immanente “urgenza” di intervento sottesa alla situazione di pericolo (nel caso di specie per l’igiene e la sanità pubblici) di cui si impone la rimozione per mezzo di uno specifico atto o intervento pubblico (cfr.: Sez. 6, n. 35526 del 06.07.2011, Romano, Rv. 250876; Sez. 6, n. 19759 del 05.04.2013, De Rosa, Rv. 255167).
Ciò non esclude, tuttavia, che la indicata nozione stessa di rifiuto penalmente rilevante ben possa essere elisa o contraddetta, allorché l’atto di ufficio o di servizio, pur diverso da quello preteso o di per sé imposto dalla situazione di pericolo (per le espresse ragioni contemplate dall’art. 328, co. 1, c.p.), produca utili effetti pratici ai fini della rimozione del pericolo e, quindi, della tutela del pubblico interesse sotteso alla ipotizzabile situazione di pericolo. Effetti equiparabili a quelli derivanti dall’atto oggetto delle richieste o sollecitazioni giunte al pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio.
Di tal che in un simile caso, pur tenendo ferma la storicità del rifiuto di un determinato atto, il contegno alternativo (commissivo) tenuto dall’agente rende il suo contegno omissivo (rifiuto) privo del necessario connotato di ingiustizia che solo può farlo qualificare come “indebito” per gli effetti di cui all’art. 328, co. 1, c.p., impregiudicati gli eventuali connessi profili (e i relativi limiti del sindacato giurisdizionale) di discrezionalità tecnica e amministrativa propri della peculiarità dell’atto che si assume “dovuto”.
   4. Ad ogni buon conto, pur volendosi dare per dimostrata la realizzazione nei comportamenti dello S. e del P. delle condotte tipiche del rifiuto di un atto del loro ufficio, non può non constatarsi come –a tacer d’altro– gravemente deficitaria e senz’altro contraddittoria si mostri l’analisi dell’elemento soggettivo del reato ascritto ai due ricorrenti. Analisi davvero sommaria e in buon a sostanza soltanto assertiva, che finisce per avvalorare il paradosso enunciato nel ricorso P., secondo cui i giudici di appello hanno finito per ritenere il dolo del reato integrato da una sorta di sua impropria immanenza nella stessa e sola condotta tipica (dolus in re ipsa), astenendosi dal verificare (come sollecitavano gli appelli di ambedue gli imputati) se ed in quale misura i rifiuti di propri atti o interventi attribuiti allo S. e al P. possano configurarsi come indebiti (ex multis: Sez. 4, n. 19358 del 06.03.2007, Masotti, Rv. 236609; Sez. 6, n. 42589 del 26.02.2009, Rv. 245000).
La verità è che i giudici di appello incorrono nel medesimo errore prospettico alimentato dalla sentenza di primo grado.
Nella decisione del Tribunale di Reggio Calabria si puntualizza (pag. 26) che gli atti che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio deve compiere senza ritardo non sono quelli genericamente correlati a ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica o di ordine pubblico o di igiene e sanità, ma solo quegli atti che, per dette ragioni, devono essere “immediatamente” posti in essere.
L’art. 328 co. 1 c.p., si aggiunge, non punisce la generica negligenza del pubblico ufficiale, ma il “rifiuto consapevole” di specifici atti o interventi amministrativi da adottarsi senza ritardo per la tutela di beni e interessi pubblici connessi alle peculiari funzioni degli agenti. Con la conseguenza che il “rifiuto” può emergere, oltre che da una esplicita richiesta, anche da una evidente sopravvenienza di situazioni che richiedano oggettivamente un intervento, sicché –di fronte ad una “urgenza sostanziale” indotta da dati oggettivi portati a conoscenza del pubblico ufficiale– la “inerzia omissiva” dello stesso assume “intrinseca valenza di rifiuto” idonea ad integrare il reato.
Tali enunciati criteri sono corretti e conformi alla consolidata giurisprudenza di legittimità sul tema. Congruamente i giudici di primo grado li hanno applicati per motivare ex adverso (cioè per difetto di prova della sussistenza degli indici di riconoscimento del “rifiuto”) l’assoluzione dei due odierni ricorrenti dai profili di accusa (capi A e C della rubrica) riguardanti la bonifica e messa in sicurezza della dismessa discarica di (omissis) nella sua globalità.
Illogicamente, però, tali pertinenti canoni valutativi non sono stati osservati per giudicare il contegno degli imputati collegabile alla soluzione del contingente problema del percolato prodotto dalla discarica, nella cui disamina si attribuisce un peso determinante o –meglio– esclusivo, a sostegno della colpevolezza dei prevenuti, al solo fattore del tempo trascorso dalla conoscenza del problema del percolato fino alla adozione delle misure risolutive dello specifico problema, tralasciando di soffermarsi sugli interventi intermedi (o, se si preferisce, interlocutori e di acquisizioni di dati di conoscenza tecnica) pure oggettivamente attuati dai due imputati.
Con il che l’analisi del dolo del contestato reato, cioè della deliberata volontarietà degli ipotizzati rifiuti di atti urgenti, si traduce in una fallace e irrazionale valorizzazione di una mera e teorica negligenza; vale a dire di profili eventuali di colpa estranei alla nozione di dolo definita dagli artt. 42 e 43, co. 1, c.p. in punto di previsione e volontarietà dei prefigurati rifiuti, per quanto di rispettiva pertinenza funzionale, di atti urgenti dello S. e del P..
   5. La discrasia o l’errore prospettico, mutuati per intero dalla impugnata sentenza di appello sul presupposto della totale condivisibilità della indagine ricostruttiva dei fatti sviluppata dalla sentenza di primo grado, sembra trovare –per altro– a sua volta una causa prossima nella pregiudiziale scissione (come già precisato), non del tutto logica, delle problematiche del risanamento o bonifica globali della discarica dismessa e della rimozione del percolato. Ciò sebbene, come ripetutamente si sottolinea nel ricorso del P. , si trattasse di due aspetti dello stesso unico problema della messa in sicurezza dell’intera discarica non più utilizzabile e non apparisse revocabile in dubbio fino a sfiorare l’ovvietà che, come debbono riconoscere gli stessi giudici di appello, il problema contingente e pur grave del percolato avrebbe potuto trovare reale e definitiva soluzione soltanto rimuovendo la causa della sua formazione, cioè operando la generale bonifica della discarica e della massa di rifiuti da cui era stata saturata.
   6. Alcune semplici osservazioni, desumibili dalla sentenza di appello, confermano la lacunosità del vaglio dell’elemento soggettivo del reato compiuto sia per la posizione dello S. che per quella del P.; lacunosità non altrimenti colmabile (vuoi per la completezza delle fonti di conoscenza acquisite nel corso dell’istruttoria dibattimentale di primo grado; vuoi per la sopravvenuta prescrizione del reato).
Ciò senza sottacere che impropriamente la sentenza di appello “recupera”, a sostegno della confermata responsabilità dei due imputati, elementi pregressi e antecedenti alla data di commissione del reato ascritto ai due ricorrenti (fissata dalla stessa sentenza alla data del 20.1.2005), rievocando ad esempio la nota indirizzata dal custode della discarica G. al sindaco S. il 07.10.2004, vale a dire elementi integranti le altre due imputazioni ascritte ai prevenuti (capi A e C) e ormai “coperti” dal loro definitivo proscioglimento in primo grado.
Appare fuori luogo, innanzitutto, supporre la natura volontaria della presunta inerzia del sindaco S., nonostante la delibera dallo stesso fatto adottare dalla Giunta comunale il 18.11.2005 per la bonifica della discarica, in definitiva attribuendo allo stesso sindaco una sorta di inerzia di secondo grado o derivata dalla presunta inerzia riferibile al dirigente preposto al settore (P.), non fornendosi spiegazioni sulle ragioni per cui non sarebbe “sostenibile” che con l’indicata delibera di Giunta il sindaco potesse intendere di aver affrontato e risolto la questione del percolato.
Al sindaco si imputa altresì di non avere adottato una ordinanza contingibile e urgente senza chiarire l’effettiva sussistenza dei presupposti normativi per un intervento di tal tipo. Parimenti si stigmatizza l’inerzia del P., censurandosene il giudizio sulla ritenuta opportunità di provvedere ad una soluzione radicale dei problemi ambientali posti dalla discarica quale unico mezzo per eliminare anche il correlativo problema del percolato.
Giudizio di opportunità ricadente in tutta evidenza nell’area della discrezionalità funzionale dell’amministrazione dell’ente pubblico, sorretta nel caso di specie da ampia motivazione. Motivazione che ben può anche ritenersi erronea, ma che per certo non può dare corpo al dolo del reato di cui all’art. 328, co. 1, c.p., in guisa da far qualificare come indebito il supposto “rifiuto”, se tale lo si voglia definire, di provvedere sul problema del percolato indipendentemente dall’intervento radicale sull’intera discarica.
Ribadito che la natura indebita del rifiuto costituisce un elemento strutturale della fattispecie criminosa ex art. 328, co. 1, c.p., diviene in tal modo, in secondo luogo e con specifico riguardo alla posizione del P., un fuor d’opera l’argomento rimarcato dalla sentenza di appello, per cui (riconosciuta la logicità della esigenza di bonificare la discarica per eliminare la causa del percolato, destinato altrimenti a riprodursi in breve tempo dopo parcellari interventi di momentanea rimozione) la soluzione prefigurata dall’ing. R., la cui rinnovata verifica sullo stato della discarica e degli utili interventi da pianificare si deve proprio all’iniziativa del non inerte dirigente P., avrebbe condotto ad eliminare o evitare futuri fenomeni di sversamento del percolato (dalle vasche di contenimento della discarica), ma non anche ad eliminare il percolato già formatosi dopo la dismissione della discarica. Argomento che in definitiva, oltre che intrinsecamente irrazionale, prova troppo, perché dimostra come l’iniziale “rifiuto” del P. di attuare un intervento limitato all’eliminazione del solo percolato già esistente non fosse sorretto da un atteggiamento volitivo qualificato dalla volontà di agire contra legem.
Né la supposta illegittimità del preteso rifiuto può essere desunta a posteriori, alla luce di un improprio dolo susseguente (quasi che il P. abbia voluto il fatto tipico del pregresso rifiuto soltanto dopo averlo realizzato, benché non lo volesse contestualmente alla sua espressione), penalmente irrilevante e in ogni caso non riferibile al reato di cui all’art. 328, co. 1, c.p., in ragione dall’avvenuto affidamento (novembre 2006) da parte dello stesso P. dell’incarico di smaltire il solo percolato già esistente.
È superfluo aggiungere che la norma incriminatrice non sanziona penalmente la generica inerzia o la scarsa sensibilità istituzionale del pubblico ufficiale, ma un rifiuto consapevole di atti da adottarsi senza ritardo per la tutela di beni o interessi pubblici. Con la conseguenza che l’elemento soggettivo del reato di rifiuto di un atto di ufficio urgente deve sussistere al momento della condotta tipica, cioè al momento in cui si manifesta il contegno omissivo (dolo c.d. concomitante), perché per la configurabilità del reato è necessario che il pubblico ufficiale agente abbia consapevolezza del suo contegno omissivo, dovendo rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento contra ius. Con l’effetto che tale requisito di illiceità speciale circoscrive la rilevanza penale della condotta omissiva alle sole forme di diniego di adempimento che non rinvengano alcuna logica giustificazione in base alle norme disciplinanti il correlativo dovere di azione (cfr. ex plurimis: Sez. 6, n. 10390 del 24.01.2008, Magaldi, Rv. 238927; Sez. 6, n. 8996 del 11.02.2010, Notarpietro, Rv. 246410).
Traendo le conclusioni della precedente disamina, la palese insussistenza nei comportamenti dei due ricorrenti del dolo del reato loro ascritto impone una decisione di legittimità liberatoria e l’annullamento senza rinvio della impugnata sentenza di appello con la formula del fatto non costituente reato.  (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 09.12.2014 n. 51149 -
link a http://renatodisa.com).

APPALTI: Lo svolgimento in seduta riservata delle operazioni di gara sia per le aste elettroniche che per le procedure telematiche è infatti giustificato dalla particolarità della procedure, che consente una piena tracciabilità delle operazioni, nonché dalla natura essenzialmente quantitativa e vincolata dei criteri di valutazione, dovendo la Commissione valutare se le caratteristiche tecniche delle offerte siano coerenti con le previsioni di gara e poi attribuire il punteggio previsto, e dalla segretezza dell’identità dei candidati fino all’ultima offerta.
Dette modalità sono idonee a soddisfare l’interesse pubblico alla trasparenza ed imparzialità che devono caratterizzare le procedure di gara pubbliche, nel rispetto dei principi di tutela della par condicio che sono tesi a tutelare i principi di pubblicità e trasparenza che governano la disciplina comunitaria e nazionale in materia di appalti pubblici di cui alla sentenza dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio 31.07.2012, n. 31.
Del resto, secondo condivisibile giurisprudenza, le modalità di svolgimento dell'asta elettronica potrebbe presentare rischi di alterazione del confronto concorrenziale, qualora gli offerenti potessero comunicare tra loro nel corso della speciale procedura; conseguentemente, qualora non fosse assicurata una adeguata riservatezza, sussisterebbe la possibilità di accordi non consentiti, sicché la circostanza che la prima valutazione completa delle offerte pervenute abbia luogo in seduta riservata, consente di introdurre dei momenti di segretezza, ulteriori rispetto a quelli riguardanti altre procedure, nelle quali le offerte sono immodificabili a seguito dell’apertura delle buste contenenti la documentazione amministrativa e l’offerta tecnica.

11.- L’appello è infondato.
12.- Con il primo motivo di gravame è stato dedotto che il TAR ha ritenuto che la riservatezza delle sedute sia un principio desumibile dall’art. 85, comma 7, del d.lgs. n. 163 del 2006 e che sia applicabile a tutte le procedure elettronico–telematiche, con inapplicabilità del principio di pubblicità delle sedute perché la particolare procedura rende tracciabile e stabile la documentazione di gara.
Ma la procedura di cui trattasi sarebbe stata una procedura negoziata che prevedeva il solo invio della documentazione in formato elettronico e non una vera e propria procedura elettronico telematica; unico elemento elettronico sarebbe stata la fase di presentazione delle offerte ex artt. 74 e 77 del d.lgs. n. 163 del 2006, mentre la procedura negoziata si sarebbe svolta con le stesse modalità delle altre procedura negoziate, con un unico rilancio.
La tesi che la sola tracciabilità della documentazione offerta mediante invio in formato elettronico potesse soddisfare i principi di pubblicità e trasparenza di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 163 del 2006 sarebbe smentita dai principi affermati con la sentenza della Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 31 del 2012, secondo cui il principio di pubblicità non è confinato alla mera garanzia della tracciabilità delle offerte, e, in quanto corollario del principio generale di trasparenza, ad esso dovrebbe essere assicurata la massima latitudine (in conformità ai principi di cui alla direttiva 2004/18/CE, all’art. 3). Da ciò deriverebbe che le deroghe a tale principio dovrebbero essere espressamente previste.
Nel caso di procedura prevista con sedute tutte riservate non vi potrebbe neppure essere certezza, per ipotesi, che la Commissione abbia proceduto ad esaminare prima le offerte tecniche e poi quelle economiche o che non abbia stilato la graduatoria delle offerte tecniche dopo l’apertura delle offerte economiche.
Peraltro nel caso di specie in seduta riservata sarebbe stata proposta una interpretazione dei criteri di valutazione tecnica tale da aver inciso sull’attribuzione dei punteggi.
Posto che l’art. 85, comma 7, del d.lgs. n. 163 del 2006 è applicabile alle sole aste elettroniche [e le ragioni della deroga al principio di pubblicità risiederebbero nel particolare iter procedurale che le caratterizza, perché nella seconda fase dell’asta (relativa al miglioramento delle offerte) è assicurata la massima trasparenza, essendo garantita, tramite il dispositivo elettronico, la possibilità di conoscere la propria posizione in graduatoria per poter migliorare l’offerta] la procedura de qua non potrebbe essere considerata una vera a propria asta elettronica, dal momento che non soddisferebbe alcuno dei parametri previsti da detto art. 85 del d.lgs. n. 163 del 2006 (valutazione delle offerte automatica mediante un mezzo elettronico, invito simultaneo per via elettronica a presentare nuovi prezzi o nuovi valori con indicazione di ora, data e tempo d’asta); essa sarebbe solo una procedura negoziata con invio delle offerte in formato elettronico.
Ciò posto sarebbe ininfluente la circostanza che la lettera di invito aveva previsto che l’apertura delle offerte dovesse avvenire in forma privata, in quanto la relativa disposizione (peraltro impugnata) non poteva giustificare l’operato della Commissione, che avrebbe dovuto ad essa derogare per rimediare ad una previsione contraria alla legge. Peraltro essa disposizione si riferirebbe alla sola apertura delle offerte e non alle ulteriori fasi di lettura dei punteggi tecnici, economici e di aggiudicazione provvisoria, che, in assenza di indicazioni della lex specialis, avrebbero dovuto invece essere svolte in seduta pubblica.
12.1.- Va osservato in proposito che il TAR ha sostenuto che la lettera di invito alla gara di cui trattasi faceva riferimento a buste chiuse elettroniche e che comunque essa si è svolta, sulla base del regolamento interno della Hera s.p.a., in forma telematico elettronica, con applicabilità del principio di cui all’art. 85, comma 7, del d.lgs. n. 163 del 2006, per il quale, nelle aste di tipo elettronico, sono ammesse in seduta riservata, oltre alla fase di apertura delle buste, anche le successive operazioni.
Ritiene il Collegio che le sopra riportate censure formulate dalla appellante società a dette tesi, nel principale e sostanziale assunto che quella di specie non sarebbe stata una vera e propria procedura elettronico telematica ma una procedura negoziata che prevedeva il solo invio della documentazione in formato elettronico, siano incondivisibili.
Invero il bando di gara, a pagina 8 [avviso di gara, punto IV.2.2)], qualifica espressamente la procedura come un’asta elettronica, prevista dall’art. 3, n. 15, del d.lgs. n. 163 del 2006 e riguardo alla quale l’art. 85, comma 3, dello stesso d.lgs. stabilisce quando può essere utilizzata.
Al riguardo l’appello, dopo aver indicato in epigrafe tra gli atti impugnati il bando “nella parte in cui viene indicato il ricorso all’asta elettronica”, ha affermato che esso non conteneva alcun riferimento alle norme e alla procedura dell’asta elettronica e non prevedeva alcun sistema di attribuzione automatica del punteggio tecnico ed economico, sicché la procedura sarebbe stata qualificabile come negoziata, caratterizzata dal solo invio della documentazione in formato elettronico.
Tali tesi non sono condivisibili innanzi tutto perché, una volta qualificata la procedura de qua come un’asta elettronica, non era necessaria alcuna indicazione espressa delle norme che la prevedono e comunque perché quello di specie è consistito proprio in un procedimento basato su un dispositivo elettronico di presentazione di nuovi prezzi, dopo una prima valutazione completa delle offerte, classificate mediante un trattamento automatico (come previsto da detto art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006, per le aste elettroniche), con formazione di una graduatoria prima dell’ultimo rilancio, che ha comportato una automatica definizione della graduatoria.
Era quindi applicabile alla procedura di cui trattasi il comma 7 di detto articolo 85, che prevede che “Prima di procedere all'asta elettronica, le stazioni appaltanti effettuano, in seduta riservata, una prima valutazione completa delle offerte pervenute con le modalità stabilite nel bando di gara e in conformità al criterio di aggiudicazione prescelto e alla relativa ponderazione”.
Peraltro detto art. 85, al comma 13, stabilisce che per l'acquisto di beni e servizi, alle condizioni di cui al comma 3, le stazioni appaltanti possono stabilire di ricorrere a procedure di gara interamente gestite con sistemi telematici, disciplinate con il regolamento nel rispetto delle disposizioni di cui al presente codice.
In base a tali disposizioni per le procedure telematiche valgono le stesse norme previste per le aste elettroniche ed è quindi ad esse applicabile anche detto comma 7 del più volte citato art. 85 (in base al quale le stazioni appaltanti effettuano la prima valutazione delle offerte pervenute in forma riservata). L’art. 295 del d.P.R. n. 207 del 2010 stabilisce infatti che “Le stazioni appaltanti possono stabilire che l'aggiudicazione di una procedura interamente gestita con sistemi telematici avvenga con la presentazione di un'unica offerta ovvero attraverso un'asta elettronica alle condizioni e secondo le modalità di cui all'articolo 85 del codice”, confermando che detta norma, e quindi anche il suo comma 7, è applicabile alle procedure telematiche.
Quindi la procedura di cui trattasi è stata legittimamente svolta in forma riservata, quand’anche venisse qualificata come telematica.
Lo svolgimento in seduta riservata delle operazioni di gara sia per le aste elettroniche che per le procedure telematiche è infatti giustificato dalla particolarità della procedure, che consente una piena tracciabilità delle operazioni, nonché dalla natura essenzialmente quantitativa e vincolata dei criteri di valutazione, dovendo la Commissione valutare se le caratteristiche tecniche delle offerte siano coerenti con le previsioni di gara e poi attribuire il punteggio previsto, e dalla segretezza dell’identità dei candidati fino all’ultima offerta.
Dette modalità sono idonee a soddisfare l’interesse pubblico alla trasparenza ed imparzialità che devono caratterizzare le procedure di gara pubbliche (Consiglio di Stato, sez. V, 29.10.2014, n. 5377), nel rispetto dei principi di tutela della par condicio che sono tesi a tutelare i principi di pubblicità e trasparenza che governano la disciplina comunitaria e nazionale in materia di appalti pubblici di cui alla sentenza dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio 31.07.2012, n. 31.
Del resto, secondo condivisibile giurisprudenza (TAR Lazio, Roma, sez. I, 14.02.2014, n. 1835), le modalità di svolgimento dell'asta elettronica potrebbe presentare rischi di alterazione del confronto concorrenziale, qualora gli offerenti potessero comunicare tra loro nel corso della speciale procedura; conseguentemente, qualora non fosse assicurata una adeguata riservatezza, sussisterebbe la possibilità di accordi non consentiti, sicché la circostanza che la prima valutazione completa delle offerte pervenute abbia luogo in seduta riservata, consente di introdurre dei momenti di segretezza, ulteriori rispetto a quelli riguardanti altre procedure, nelle quali le offerte sono immodificabili a seguito dell’apertura delle buste contenenti la documentazione amministrativa e l’offerta tecnica (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.12.2014 n. 6018 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Secondo un principio generale assolutamente pacifico invalso sia presso la giurisprudenza del g.o. che del g.a. anche quando la P.A. agisce "iure privatorum", è richiesta, ai sensi degli artt. 16 e 17 del r.d. 18.11.1923, n. 2440, come per ogni altro contratto stipulato dalla P.A., la forma scritta "ad substantiam", che è strumento di garanzia del regolare svolgimento dell'attività amministrativa nell'interesse del cittadino e della collettività, costituendo remora ad arbitrii e agevolando l'espletamento della funzione di controllo, e quindi espressione dei principi d'imparzialità e buon andamento della P.A. ex art. 97 Cost..
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Per giurisprudenza altrettanto consolidata da cui il Collegio non ha ragione per discostarsi, in tema di espropriazione per pubblica utilità, il negozio di cessione volontaria posto in essere da un'amministrazione pubblica si deve ritenere soggetto all'osservanza di tutti gli adempimenti richiesti dall'evidenza pubblica per le p.a., primo fra tutti il requisito della forma scritta a pena di nullità, che può ritenersi osservato solo in presenza di un documento che contenga in modo diretto la volontà negoziale, essendo stato redatto al fine specifico di manifestare la stessa, e dal quale si deve, pertanto, poter desumere la concreta instaurazione del rapporto con le indispensabili determinazioni in ordine alle prestazioni da svolgersi da ciascuna delle parti.
Ne consegue che, nel vigore del t.u. approvato con il r.d. n. 383 del 1934 (n.d. ma anche in vigore del t.u. espropriazioni) ad integrare la stipulazione del suddetto negozio non può bastare l'accettazione di una proposta di vendita o di acquisto del bene fatta dall'uno o dall'altro contraente, essendo indispensabile la presenza di un documento scritto stipulato, con il procedimento e le formalità previste dagli art. 87 ss. e 251 ss. del citato testo unico, dal rappresentante legale dell'amministrazione e dall'espropriato, e contenente l'enunciazione degli elementi essenziali del contratto stesso, nonché l'accordo su di essi dei contraenti.
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Ne discende l’assoluta inidoneità, in seno al procedimento espropriativo, della mera accettazione della proposta di cessione volontaria (con accettazione della relativa indennità) fatta dal proprietario espropriando, trattandosi di deliberazioni di valenza meramente interna rispetto al non concluso procedimento di trasferimento in via bonaria della proprietà.

5.1. Deve anzitutto condividersi l’assunto della difesa della ricorrente in merito alla carenza in capo al Comune di Terni del titolo di proprietà alla data (17.11.2006) di perfezionamento della convenzione inerente la cessione in diritto di superficie delle aree comprese nel piano PEEP.
Infatti non può ritenersi acquisita la proprietà per effetto delle deliberazioni G.C. nn. 121 del 16.03.2006 e 366 del 29.06.2006 con le quali l’Amministrazione ha soltanto manifestato la volontà di addivenirne all’acquisto mediante cessione bonaria stante la disponibilità in tal senso manifestata dai proprietari espropriandi, rinviando al Dirigente dell’Ufficio Contratti la predisposizione dell’atto di acquisizione e di apposita convenzione.
5.2. Secondo un principio generale assolutamente pacifico invalso sia presso la giurisprudenza del g.o. che del g.a. anche quando la P.A. agisce "iure privatorum", è richiesta, ai sensi degli artt. 16 e 17 del r.d. 18.11.1923, n. 2440, come per ogni altro contratto stipulato dalla P.A., la forma scritta "ad substantiam", che è strumento di garanzia del regolare svolgimento dell'attività amministrativa nell'interesse del cittadino e della collettività, costituendo remora ad arbitrii e agevolando l'espletamento della funzione di controllo, e quindi espressione dei principi d'imparzialità e buon andamento della P.A. ex art. 97 Cost. (ex multis Cassazione civ. sez. II, 23.04.2014, n. 9219; id. sez. VI 21.08.2014, n. 18107; id. sez. I, 04.06.2014 n. 12536; id. sez. I, 20.03.2014, n. 6555; TAR Lombardia Milano sez. III, 05.05.2014, n. 1152; Consiglio di Stato sez. V, 15.12.2005, n. 7147; id. sez. V, 24.09.2003, n. 5444)
5.3. Per giurisprudenza altrettanto consolidata da cui il Collegio non ha ragione per discostarsi, in tema di espropriazione per pubblica utilità, il negozio di cessione volontaria posto in essere da un'amministrazione pubblica si deve ritenere soggetto all'osservanza di tutti gli adempimenti richiesti dall'evidenza pubblica per le p.a., primo fra tutti il requisito della forma scritta a pena di nullità, che può ritenersi osservato solo in presenza di un documento che contenga in modo diretto la volontà negoziale, essendo stato redatto al fine specifico di manifestare la stessa, e dal quale si deve, pertanto, poter desumere la concreta instaurazione del rapporto con le indispensabili determinazioni in ordine alle prestazioni da svolgersi da ciascuna delle parti.
Ne consegue che, nel vigore del t.u. approvato con il r.d. n. 383 del 1934 (n.d. ma anche in vigore del t.u. espropriazioni) ad integrare la stipulazione del suddetto negozio non può bastare l'accettazione di una proposta di vendita o di acquisto del bene fatta dall'uno o dall'altro contraente, essendo indispensabile la presenza di un documento scritto stipulato, con il procedimento e le formalità previste dagli art. 87 ss. e 251 ss. del citato testo unico, dal rappresentante legale dell'amministrazione e dall'espropriato, e contenente l'enunciazione degli elementi essenziali del contratto stesso, nonché l'accordo su di essi dei contraenti (così Cassazione civ. sez. I, 27.04.2011 n. 9390; id. 29.07.2009 n. 17686; 20.09.2001, n.11864; TAR Sicilia-Catania sez. III, 14.04.2010, n. 1043).
5.4. Ne discende l’assoluta inidoneità, in seno al procedimento espropriativo, della mera accettazione della proposta di cessione volontaria (con accettazione della relativa indennità) fatta dal proprietario espropriando, trattandosi di deliberazioni di valenza meramente interna rispetto al non concluso procedimento di trasferimento in via bonaria della proprietà.
5.5. Sul punto del tutto errata poi è la pretesa della difesa comunale di ritener concluso il contratto di cessione volontaria per effetto dell’invocata applicazione dell’art. 17 del R.D. 2440/1923 nella parte in cui consente, per i contratti a trattativa privata, la stipulazione “per mezzo di corrispondenza, secondo l'uso del commercio, quando sono conclusi con ditte commerciali”.
Trattasi all’evidenza di forma di conclusione del contratto semplificata, del tutto derogatoria e valevole per i soli contratti con ditte commerciali ovvero per i contratti conclusi in regime di economia (Cassazione civ. sez. I, 07.12.2004, n. 22973; id. sez. I, 29.07.2009 n. 17686) -giusto lo stesso richiamo operato dall’art. 334 comma 2, del d.P.R. 05.10.2010 n. 207 in tema di cottimo fiduciario- e non estensibile ai contratti, quale la cessione volontaria disciplinata dall’art. 45. del t.u. espropriazioni, aventi effetto reale traslativo della proprietà di beni immobili, in alternativa al decreto di esproprio, per i quali è ineludibile, come detto, la redazione per iscritto in un unico atto contenente la sottoscrizione del privato e del rappresentante dell’ente pubblico legittimato ad esprimerne all’esterno la volontà (Cassazione civ. sez. I, 29.07.2009 n. 17686).
5.6. Deve dunque affermarsi la sussistenza della responsabilità precontrattuale del Comune resistente, dal momento che quest’ultimo ha violato il canone generale di correttezza e buona fede nelle trattative contrattuali, in particolare astendendosi dall’informare la ricorrente -come suo pacifico obbligo ex artt. 1337-38 c.c.- in merito alla carenza di idoneo titolo di proprietà a salvaguardia dell’altrui interesse negoziale, circostanza che ben avrebbe potuto essere valutata dalla ricorrente al fine del non perfezionamento del contratto di cessione del diritto di superficie (TAR Umbria, sentenza 05.12.2014 n. 605 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nella materia della responsabilità precontrattuale il pregiudizio risarcibile è circoscritto nei limiti dello stretto interesse negativo (contrapposto all'interesse all'adempimento), rappresentato sia dalle spese inutilmente sopportate nel corso delle trattative in vista della conclusione del contratto sia dalla perdita di ulteriori occasioni per la stipulazione con altri di un contratto altrettanto o maggiormente vantaggioso; consegue che la disposizione di cui all'art. 1337 c.c. non può essere invocata per il risarcimento dei danni che si sarebbero evitati e dei vantaggi che si sarebbero conseguiti con la stipulazione ed esecuzione del contratto.
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Quanto al danno non patrimoniale -che la ricorrente quantifica in 500.000,00 euro- anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come nel caso di specie di lesione del diritto alla reputazione professionale dell’impresa ricorrente, esso non è in re ipsa, ma costituisce un danno conseguenza, che deve essere allegato e provato da chi ne domandi il risarcimento.
Per la quantificazione del danno all'immagine di una persona giuridica, se è vero che si può ricorrere anche a criteri equitativi, comunque non ci si può sottrarre al principio dell'onere della prova a carico di parte attrice, anche mediante presunzioni, dovendosi ritenersi che, al riguardo, un elemento essenziale sia il cd. clamor fori, cioè la diffusione della notizia nei mass-media, e comunque la più o meno grande risonanza dell'evento, che genera nei consociati.

6. Tanto premesso in ordine all’illiceità del comportamento serbato dall’Amministrazione, deve evidenziarsi l’inammissibilità o comunque l’infondatezza della domanda risarcitoria in quanto parte ricorrente chiede, anzitutto, il risarcimento di danni patrimoniali tutti ascrivibili all’”interesse contrattuale positivo” ovvero all’utilità che la ricorrente avrebbe conseguito con la stipulazione ed esecuzione del contratto.
Nella fattispecie, infatti, tutti i danni patrimoniali di cui si chiede ristoro attengono al c.d. interesse contrattuale positivo (condizioni maggiormente onerose per accedere al mutuo per la realizzazione degli interventi, il grave ritardo nell’avanzamento dei lavori, il mancato introito degli acconti dovuti dai promissari acquirenti degli immobili, l’impossibilità di stipulare nuovi contratti per il periodo dal 01.04.2008 al 11.12.2008 con soggetti interessati all’acquisto degli immobili in costruzione) ovvero pregiudizi non risarcibili mediante l’azione esercitata innanzi al Tribunale civile di cui il presente giudizio costituisce prosecuzione.
Per giurisprudenza pacifica da cui il Collegio non ha ragione per discostarsi, nella materia della responsabilità precontrattuale il pregiudizio risarcibile è circoscritto nei limiti dello stretto interesse negativo (contrapposto all'interesse all'adempimento), rappresentato sia dalle spese inutilmente sopportate nel corso delle trattative in vista della conclusione del contratto sia dalla perdita di ulteriori occasioni per la stipulazione con altri di un contratto altrettanto o maggiormente vantaggioso; consegue che la disposizione di cui all'art. 1337 c.c. non può essere invocata per il risarcimento dei danni che si sarebbero evitati e dei vantaggi che si sarebbero conseguiti con la stipulazione ed esecuzione del contratto (ex multis Cassazione civ. sez. III, 14.02.2000, n. 1632; Consiglio di Stato sez. VI, 01.02.2013, n. 633).
6.1. Ne consegue l’inammissibilità o comunque l’infondatezza della domanda di condanna al risarcimento di tutti i danni patrimoniali allegati, non avendo chiesto la società ricorrente il ristoro dell’interesse negativo.
6.2. Quanto al danno non patrimoniale -che la ricorrente quantifica in 500.000,00 euro- anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come nel caso di specie di lesione del diritto alla reputazione professionale dell’impresa ricorrente, esso non è in re ipsa, ma costituisce un danno conseguenza, che deve essere allegato e provato da chi ne domandi il risarcimento (ex multis Cassazione civile sez. VI, 24.09.2013, n. 21865; id. sez. III, 30.09.2014, n. 20558).
Per la quantificazione del danno all'immagine di una persona giuridica, se è vero che si può ricorrere anche a criteri equitativi, comunque non ci si può sottrarre al principio dell'onere della prova a carico di parte attrice, anche mediante presunzioni, dovendosi ritenersi che, al riguardo, un elemento essenziale sia il cd. clamor fori, cioè la diffusione della notizia nei mass-media, e comunque la più o meno grande risonanza dell'evento, che genera nei consociati (TAR Sicilia-Catania sez. IV, 26.09.2013, n. 2274; TAR Lazio-Roma sez. II, 07.01.2013, n. 67) (TAR Umbria, sentenza 05.12.2014 n. 605 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ad eccezione dei soli interventi di semplice manutenzione ordinaria, qualsiasi intervento edilizio in zona sismica, comportante o meno l’esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato, deve essere:
(a) previamente denunciato al competente ufficio al fine di consentire i preventivi controlli,
(b) necessita del rilascio del preventivo titolo abilitativo,
(c) il progetto deve essere redatto da un professionista abilitato ed allegato alla denuncia di esecuzione dei lavori,
(d) questi ultimi devono essere parimenti diretti da un professionista.

   1. Il ricorso è fondato nei limiti e sulla base delle considerazioni che seguono.
   2. Quanto al primo motivo, occorre premettere che l’articolo 93 T.U.E. prescrive, tra l’altro, che nelle zone sismiche, di cui all’articolo 83 T.U.E., chiunque intenda procedere a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni è tenuto a darne preavviso scritto allo sportello unico, che provvede a trasmettere al competente ufficio tecnico della regione copia della domanda e del progetto che ad esso deve essere allegato.
L’articolo 94 T.U.E. prescrive poi che nelle località sismiche non si possono iniziare lavori senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione.
L’inosservanza delle predette disposizioni è sanzionata dall’articolo 95 T.U.E. e costituisce l’addebito ascritto dell’imputata ai capi b) e c) della rubrica con l’unica sottolineatura che competerà al giudice del rinvio accertare se vi sia sovrapposizione tra l’addebito di cui al capo b) e quello di cui al capo d) per essere stata elevata o meno la contestazione dell’omesso preavviso dei lavori allo sportello unico.
   2.1. Il preavviso allo sportello unico (cui va depositato il progetto) adempie, infatti, ad una funzione informativa, in relazione all’attività da intraprendere, in modo da assicurare la vigilanza sulle costruzioni in zone sismiche e garantire la cooperazione fra le amministrazioni coinvolte nel procedimento e gli interessati.
La giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di precisare che, nelle zone sismiche, l’obbligo di informativa e di produzione degli atti progettuali non è limitato in relazione alle dimensioni e alle caratteristiche dell’opera, ma riguarda tutte le opere indicate dalla disposizione normativa, nessuna esclusa e dunque anche le opere c.d. “minori”, perché diversamente verrebbe frustrato il fine di rendere possibile il controllo preventivo e documentale dell’attività edilizia nelle zone sismiche (Sez. 3, n. 8140 del 06/07/1992, Di Scala, Rv. 191390).
Sul punto, è stato anche affermato che le prescrizioni per le costruzioni in zona sismica si applicano a qualsiasi manufatto indipendentemente dai materiali impiegati e dalle relative strutture in quanto nelle zone dichiarate sismiche ricorre l’esigenza di maggiore rigore e proprio l’eventuale impiego di materiali strutturali meno solidi rende ancor più necessari i controlli e le cautele prescritte (Sez. 3, n. 38142 del 26/09/2001, Tucci R., Rv. 220269) sicché’ ricorre il reato antisismico nel caso di opere realizzate nelle zone sismiche senza adempimento dell’obbligo di denuncia e di presentazione dei progetti allo sportello unico (articolo 94 T.U.E.) e senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione (articolo 94 T.U.E.), a nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle relative strutture (Sez. 3, n. 30224 del 21/06/2011, Floridia, Rv. 251284).
   2.2. Siccome gli obblighi previsti dagli articoli 93 e 94 T.U.E. sono finalizzati a consentire il controllo preventivo della pubblica amministrazione, non rileva, ai fini della sussistenza del reato, l’effettiva pericolosita’ o meno della costruzione realizzata, in violazione degli adempimenti e in assenza delle prescritte autorizzazioni, perché le contravvenzioni previste dalla normativa antisismica, rientrando nel novero dei reati di pericolo presunto, puniscono inosservanze formali, con la conseguenza che neppure la verifica postuma dell’assenza del pericolo ed il rilascio del provvedimento abilitativo incidono sulla illiceità della condotta, in quanto gli illeciti sussistono in relazione al momento di inizio dell’attività (Sez. 3, n. 5738 del 13/05/1997, Petroni, Rv. 208299).
Va ricordato che la normativa antisismica è ispirata a preservare la pubblica incolumità in zone particolarmente soggette al verificarsi di movimenti tellurici, prescrivendo, da un lato, necessari obblighi burocratici e particolari prescrizioni tecniche costruttive e costituendo, dall’altro, un’anticipazione della tutela dell’interesse cui appresta protezione (pubblica incolumità).
Ne consegue che, in materia urbanistica ed edilizia, le disposizioni legislative regionali, espressione del potere concorrente con quello dello Stato in materia, devono non solo rispettare i principi fondamentali stabiliti in materia edilizia-urbanistica dalla legislazione statale, ma devono anche essere interpretate in modo da non collidere con i medesimi (Sez. 3, n. 28560 del 26/03/2014, Alonzo, Rv. 259938).
   2.3. La sentenza impugnata, come fondatamente lamenta il ricorrente, non si è uniformata ai richiamati principi di diritto e neppure ha spiegato se il deliberato della Giunta regionale delle Marche (n. 836 del 25.05.2009) –che sembrerebbe, contrariamente ai principi fissati dalla legislazione statale e contenuti nel testo unico dell’edilizia, distinguere gli interventi non sulla base della natura dell’intervento stesso (costruzioni, riparazioni, sopraelevazioni ex articolo 93 T.U.E.) ma solo sulla base delle caratteristiche costruttive– rispetti i principi fondamentali stabiliti in materia edilizio–urbanistica dalla legislazione statale ovvero se collida con essi, come in sostanza ritenuto dal ricorrente, posto che, in ogni caso, l’intervento si è risolto nella realizzazione di una “costruzione”, dovendosi anche ricordare che la disciplina edilizia antisismica e delle costruzioni, attenendo tali materie alla sicurezza statica degli edifici, rientra come tale nella competenza esclusiva dello Stato ex articolo 117, comma secondo, Cost. (Sez. 3, n. 16182 del 28/02/2013, Crisafulli ed altro, Rv. 255254).
   3. Quanto al secondo motivo, è sufficiente osservare che le costruzioni nelle zone sismiche sono disciplinate dal capo 4 del T.U.E. e, per quanto qui interessa, le disposizioni, ai fini dell’osservanza delle prescrizioni contenute in detto capo, non distinguono tra opere in conglomerato cementizio armato o non armato o a struttura metallica, richiedendo l’adempimento delle prescrizioni prescritte dalla legge e ciò indipendentemente dal materiale utilizzato per la realizzazione dell’opera perché, come e’ stato in precedenza precisato, è richiesto un maggiore rigore nel controllo delle costruzioni realizzate nelle zone esposte al rischio sismico.
L’articolo 93 T.U.E. stabilisce, al comma 2, che (quanto alle costruzioni, riparazioni, sopraelevazioni nelle zone sismiche) va allegato, alla comunicazione allo sportello unico, il progetto debitamente firmato da un professionista (ingegnere, architetto, geometra, perito edile) iscritto all’albo mentre l’articolo 94, comma 4, T.U.E. dispone che i lavori devono essere diretti da uno dei professionisti sopra indicati.
Ne deriva che, ad eccezione dei soli interventi di semplice manutenzione ordinaria, qualsiasi intervento edilizio in zona sismica, comportante o meno l’esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato, deve essere: (a) previamente denunciato al competente ufficio al fine di consentire i preventivi controlli, (b) necessita del rilascio del preventivo titolo abilitativo, (c) il progetto deve essere redatto da un professionista abilitato ed allegato alla denuncia di esecuzione dei lavori, (d) questi ultimi devono essere parimenti diretti da un professionista abilitato conseguendone, in difetto, la violazione del Decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, articolo 95, (Sez. 3, n. 34604 del 17/06/2010, Todaro, Rv. 248330) e ciascuna violazione, risolvendosi nell’inosservanza di specifiche prescrizioni, costituisce un titolo autonomo di reato.
Anche se errata la qualificazione giuridica data ai fatti contestati ai capi d) ed e) della rubrica (ai quali fatti non si applicano le norme contenute nel capo 2 del T.U.E. bensì quelle di cui al capo IV, ricadendo la costruzione del muro in zona sismica), è, per il resto, fondata la doglianza sollevata dal ricorrente circa l’inidoneo affidamento che il giudice ha fatto sul contenuto della deposizione del testimone per inferire che, essendo le opere di conglomerato cementizio sprovviste di armatura, l’imputata fosse esonerata dagli obblighi indicati nei capi d) ed e) della rubrica.
Al tribunale competeva dunque di qualificare correttamente in iure i fatti e non di decretarne l’insussistenza (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.12.2014 n. 50624 -
link a http://renatodisa.com).

PUBBLICO IMPIEGO: 1. Concorsi pubblici. Principio dell’anonimato. Segno di riconoscimento. Idoneità. Intenzionalità.
1.1. La regola dell'anonimato nelle prove scritte per i pubblici concorsi, posta a garanzia del principio di imparzialità dell'azione amministrativa, deve dirsi violata soltanto allorquando ricorrano due concorrenti elementi ovvero l'idoneità del segno di riconoscimento e il suo utilizzo intenzionale.
Quanto alla prima delle due condizioni (l'idoneità del segno di riconoscimento), ciò che rileva non è tanto l'identificabilità dell'autore dell'elaborato attraverso un segno a lui personalmente riferibile, quanto piuttosto l'astratta idoneità del segno a fungere da elemento di identificazione, e ciò ricorre quando la particolarità riscontrata assuma un carattere “oggettivamente e incontestabilmente anomalo” rispetto alle ordinarie modalità di estrinsecazione del pensiero e di elaborazione dello stesso in forma scritta, in tal caso a nulla rilevando che in concreto la Commissione o singoli componenti di essa siano stati o meno in condizione di riconoscere effettivamente l'autore dell'elaborato.
Quanto alla seconda delle due condizioni, invece, è da escludere un automatismo tra astratta possibilità di riconoscimento e violazione della regola dell'anonimato, dovendo emergere elementi atti a provare in modo inequivoco l'intenzionalità del concorrente di rendere riconoscibile il proprio elaborato.
1.2. In un concorso caratterizzato dalla partecipazione di pochissimi concorrenti, la valutazione del c.d. segno di riconoscimento deve effettuarsi con maggior rigore.
1.3. Lo sbarramento di un foglio così come del resto il richiamo per la prosecuzione della lettura dell'elaborato alla c.d. bella copia alla minuta, non risulta di per sé anomalo ovvero idoneo a rappresentare la volontà del candidato di rendersi riconoscibile dalla Commissione. Trattasi invero di segni non di rado apposti dai candidati in sede di stesura degli elaborati, finalizzati alla speditezza e alla precisione delle operazioni di correzione, senza alcun carattere di anomalia rispetto alle ordinarie modalità di estrinsecazione del pensiero e di elaborazione dello stesso in forma scritta.
1.4. L’aver il candidato comunicato pubblicamente e ad alta voce l’apposizione della barratura di un foglio è comportamento incompatibile con l’intenzione di rendere riconoscibile il proprio elaborato, la quale presuppone al contrario un comportamento percepibile solo dai componenti della Commissione e non dagli altri candidati.

Il ricorso è fondato e va accolto.
Secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, la regola dell'anonimato nelle prove scritte per i pubblici concorsi, posta a garanzia del principio di imparzialità dell'azione amministrativa, deve dirsi violata soltanto allorquando ricorrano due concorrenti elementi ovvero l'idoneità del segno di riconoscimento e il suo utilizzo intenzionale (ex multis TAR Lazio-Roma sez. III, 07.05.2014, n. 4733; Consiglio di Stato sez. V, 17.01.2014, n. 202)
Quanto alla prima delle due condizioni (l'idoneità del segno di riconoscimento), ciò che rileva non è tanto l'identificabilità dell'autore dell'elaborato attraverso un segno a lui personalmente riferibile, quanto piuttosto l'astratta idoneità del segno a fungere da elemento di identificazione, e ciò ricorre quando la particolarità riscontrata assuma un carattere “oggettivamente e incontestabilmente anomalo” rispetto alle ordinarie modalità di estrinsecazione del pensiero e di elaborazione dello stesso in forma scritta, in tal caso a nulla rilevando che in concreto la Commissione o singoli componenti di essa siano stati o meno in condizione di riconoscere effettivamente l'autore dell'elaborato (TAR Lazio Roma sez. III, 07.05.2014, n. 4733; Consiglio di Stato sez. V, 17.01.2014, n. 202; id. sez. V, 11.01.2013, n. 102; TAR Campania-Salerno 26.03.2012, n.568).
Quanto alla seconda delle due condizioni, invece, è da escludere un automatismo tra astratta possibilità di riconoscimento e violazione della regola dell'anonimato, dovendo emergere elementi atti a provare in modo inequivoco l'intenzionalità del concorrente di rendere riconoscibile il proprio elaborato (TAR Lazio Roma sez. III, 07.05.2014, n. 4733; TAR Umbria 29.01.2014, n. 75; Consiglio di Stato sez. V, 01.04.2011, n. 2025).
Muovendo dalle suesposte considerazioni, da cui il Collegio non ha ragioni per discostarsi, è da escludersi nel caso di specie la violazione del principio di anonimato.
Anzitutto, lo sbarramento di un foglio così come del resto il richiamo per la prosecuzione della lettura dell'elaborato alla c.d. bella copia alla minuta, non risulta di per sé anomalo ovvero idoneo a rappresentare la volontà del candidato di rendersi riconoscibile dalla Commissione.
Trattasi invero di segni non di rado apposti dai candidati in sede di stesura degli elaborati, finalizzati alla speditezza e alla precisione delle operazioni di correzione, senza alcun carattere di anomalia rispetto alle ordinarie modalità di estrinsecazione del pensiero e di elaborazione dello stesso in forma scritta.
Quanto poi all’elemento dell’intenzionalità, osserva il Collegio come l’aver il candidato comunicato pubblicamente e ad alta voce l’apposizione della barratura di un foglio è comportamento incompatibile con la suddetta intenzionalità, la quale presuppone al contrario un comportamento percepibile solo dai componenti della Commissione e non dagli altri candidati. Non può pertanto desumersi da tale circostanza alcuna intenzionalità di rendere riconoscibile il proprio elaborato.
Se è vero che in un concorso quale quello in esame caratterizzato dalla partecipazione di pochissimi concorrenti (tre) la valutazione del c.d. segno di riconoscimento deve effettuarsi con maggior rigore (TAR Sardegna sez. II, 13.02.2013, n.127) non emergono elementi atti a provare in modo inequivoco l’intenzionalità del concorrente di rendere riconoscibile il proprio elaborato.
Tali dichiarazioni pubbliche avrebbero invece dovuto sollecitare l’intervento (di cui non vi è traccia nei verbali impugnati) della Commissione al fine di prevenire eventuali possibili segni di riconoscimento, a tutela dell’imparzialità, della par condicio e del favor partecipationis si da meritare adesione sul punto anche le ulteriori doglianze avverso l’operato della Commissione poiché dalla normativa in materia di concorsi pubblici (vedi in particolare l’art. 6 del D.P.R. 03.05.1957 n. 686) il divieto di comunicazione concerne unicamente le comunicazioni tra i candidati, ma non già dei candidati con la Commissione, a cui è di norma sempre possibile rivolgersi per chiarimenti.
Ne consegue l’illegittimità dell’operato della Commissione, con conseguente obbligo per la medesima di procedere alla correzione della prova scritta del ricorrente nonché di esprimere il giudizio comparativo finale a doverosa conclusione del concorso avviato, pur con salvezza delle ulteriori determinazioni da parte dell’Amministrazione, nel rispetto dei criteri di cui in motivazione (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Umbria, sentenza 03.12.2014 n. 585 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Deve essere considerata illegittima la condanna alla demolizione del manufatto, nel caso in cui siano state abbattute mura perimetrali in contrasto con il permesso a effettuare semplici lavori di ristrutturazione.
E’, viceversa, fondato il quinto motivo di doglianza.
Osserva, infatti, la Corte che il Tribunale di Genova, come già dianzi accennato, ha riqualificato il fatto attribuito alla (OMISSIS), derubricandolo da violazione del Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 44, lettera b), a violazione della lettera a) della medesima norma di legge, essendo stata in tal senso qualificata la condotta relativa all’abbattimento di un muro perimetrale del quale era stata autorizzata la mera manutenzione.
Sulla base di tale rilievo deve osservarsi che il Decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, articolo 31, il quale prevede la ingiunzione alla demolizione delle opere abusive, riguarda gli “interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazione essenziali”; interventi questi puniti, in sede penale, ai sensi del medesimo Decreto Legislativo n. 380 del 2001, articolo 44, comma 1, lettera b) ovvero lettera c).
E’, pertanto, evidente che il citato Decreto Legislativo n. 380, articolo 31, comma 9, nell’imporre al giudice l’obbligo di ordinare, con la sentenza di condanna, la demolizione delle opere di cui al presente articolo si riferisce esclusivamente al tipo di abusi edilizi previsti dall’intitolazione dell’articolo medesimo, meglio descritti nel comma 1, con riferimento all’ipotesi della totale difformità dal permesso di costruire (interventi “che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche e di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l’esecuzione di voltimi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza o autonomamente utilizzabile”).
Non rientrano, pertanto, nella previsione normativa dell’articolo 31, gli abusi minori, puniti ai sensi del Decreto Legislativo n. 380 del 2001, articolo 44, lettera a). Per tali violazioni le sanzioni amministrative costituite dal ripristino dello stato dei luoghi o dalla irrogazione di una sanzione pecuniaria sostitutiva, ai sensi del predetto Decreto Legislativo n. 380, articolo 34, restano di esclusiva competenza della pubblica amministrazione, mentre l’autorità giudiziaria può solo irrogare la pena dell’ammenda comminata dalla norma avente carattere penale (nel medesimo senso: Corte di cassazione, Sezione 3 penale, 14.11.2011, n. 41423) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.12.2014 n. 49991 -
link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: La circostanza che il vincolo (nella specie: istituzione di un Parco) sia sopravvenuto rispetto all'edificazione (abusiva) non può condurre a considerare del tutto inesistente un vincolo di inedificabilità totale, ricadendo nella previsione di carattere generale contenuta nel primo comma dell'art. 32 della legge n. 47/1985, secondo cui il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso, parere che va acquisito a prescindere dal requisito della anteriorità dell'opera rispetto al vincolo.
In attuazione del principio tempus regit actum, invero, l'obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo. E appare altresì evidente che tale valutazione corrisponde alla esigenza di vagliare l'attuale compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente.

Non sussiste ragione per discostarsi dal consimile precedente della Sezione, intervenuto nei confronti dello stesso Ente Parco del Cilento nello stesso territorio di Castellabate (Cons. Stato, VI, 17.01.2014, n. 231) o di altri ancora seppure di altra Sezione (Cons. Stato, IV, 19.03.2014, n. 1338).
Con l’indicata decisione, questa Sezione ha infatti –richiamando il precedente di cui a Cons. Stato, Ad. plen., 22.07.1999, n. 20 sul vincolo sopravvenuto all'edificazione- affermato che “la circostanza che il vincolo (nella specie: istituzione di un Parco) sia sopravvenuto rispetto all'edificazione non può condurre a considerare del tutto inesistente un vincolo di inedificabilità totale, ricadendo nella previsione di carattere generale contenuta nel primo comma dell'art. 32 della legge n. 47/1985, secondo cui il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso, parere che va acquisito a prescindere dal requisito della anteriorità dell'opera rispetto al vincolo. In attuazione del principio tempus regit actum, invero, l'obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo. E appare altresì evidente che tale valutazione corrisponde alla esigenza di vagliare l'attuale compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente”.
Nella fattispecie, in coerenza con detta giurisprudenza, posta la pacifica sopravvenienza all’abuso dell’istituzione dell’Ente Parco del Cilento e del Vallo di Diano, nonché l’assenza di valutazione concreta e attuale della compatibilità dell’intervento abusivo, che non è riducibile al mero richiamo dei contenuti astratti discendenti dal vincolo, la sentenza impugnata appare corretta e, conseguentemente, le censure dedotte devono essere rigettate perché infondate (
Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 01.12.2014 n. 5927 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Titolato ad ottenere il permesso di costruire non è solo il proprietario del bene, ma anche il titolare di diritti reali o personali che abbia, per effetto di questi, la facoltà di eseguire i lavori (con particolare riguardo all’idoneità della servitù di passaggio a legittimare il titolare a richiedere la concessione edilizia cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16/03/2012 n. 1513 e 08/06/2011 n. 3508).
Nel caso di specie, la servitù di passaggio a favore del fondo di pertinenza delle parti ricorrenti, abilita queste ultime ad ottenere il permesso di costruire, in coerenza col contenuto del diritto, limitatamente ai lavori concernenti la strada, ma non con riguardo a quelli inerenti la posa in opera della condotta idrica, ancorché da realizzare sullo stesso tracciato stradale oggetto della servitù di passaggio.

Dispone l’art. 11, comma 1, del D.P.R. 06/06/2001 n. 380: “Il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”.
In base a tale norma la giurisprudenza ha ritenuto che titolato ad ottenere il permesso di costruire sia non solo il proprietario del bene, ma anche il titolare di diritti reali o personali che abbia, per effetto di questi, la facoltà di eseguire i lavori (cfr., fra le tante, Cons. Stato, Sez. V, 02/02/2012 n. 568 e 28/05/2001 n. 2881; TAR Campania–Salerno, Sez. II, 08/07/2013 n. 1500; con particolare riguardo all’idoneità della servitù di passaggio a legittimare il titolare a richiedere la concessione edilizia cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16/03/2012 n. 1513 e 08/06/2011 n. 3508).
Nel caso di specie, la servitù di passaggio a favore del fondo di pertinenza delle parti ricorrenti, abilitava queste ultime ad ottenere il permesso di costruire, in coerenza col contenuto del diritto, limitatamente ai lavori concernenti la strada, ma non con riguardo a quelli inerenti la posa in opera della condotta idrica, ancorché da realizzare sullo stesso tracciato stradale oggetto della servitù di passaggio.
Infatti, relativamente a tale ultimo intervento (per il quale sarebbe occorsa una servitù di acquedotto) le parti istanti erano prive di qualunque titolo che le abilitasse a conseguire il permesso di costruire.
Conseguentemente l’avversato provvedimento di autotutela risulta illegittimo nella parte in cui travolge, quanto al mappale 197, l’intera concessione edilizia, anziché limitarsi ad annullarla con riguardo ai soli lavori di posa della tubazione
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 27.11.2014 n. 1026 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Dispone l’art. 21–nonies, comma 1, della L. 07/08/1990 n. 241: “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge …”.
Dalla trascritta norma si ricava che il legittimo esercizio del potere di autotutela è, tra l’altro, subordinato ad una congrua motivazione dell’interesse pubblico e ad una ponderazione comparativa di questo, con il contrario interesse del destinatario dell'atto.
Vero è che un orientamento giurisprudenziale, seguito anche da questa Sezione, afferma che l'annullamento d'ufficio di una concessione edilizia (ora permesso di costruire) non necessiti di un'espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse al ritiro, configurandosi questo nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica.
Tuttavia, deve ritenersi che il principio di diritto espresso nel menzionato orientamento, riguardi le ipotesi in cui il titolo edilizio emesso, contrasti con la normativa urbanistica sotto il profilo oggettivo, nel senso che consenta la realizzazione di un intervento, da questa, invece, vietato.
Viceversa, quando, come nella fattispecie, non è in contestazione la realizzabilità dell’opera in sé, ma la legittimazione di colui che ha richiesto il titolo abilitativo ad ottenerlo, l’interesse pubblico all’esercizio del potere di autotutela, assume una consistenza meno pregnante, per cui va espressamente valutato e comparativamente ponderato con l’interesse del privato destinatario dell’atto al suo mantenimento in vita.

Col secondo motivo le parti ricorrenti deducono l’illegittimità del disposto annullamento parziale in conseguenza dell’omessa motivazione in ordine all’interesse pubblico al ritiro e alla sua prevalenza su quello privato al mantenimento dell’atto.
La censura e fondata.
Dispone l’art. 21–nonies, comma 1, della L. 07/08/1990 n. 241: “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge …”.
Dalla trascritta norma si ricava che il legittimo esercizio del potere di autotutela è, tra l’altro, subordinato ad una congrua motivazione dell’interesse pubblico e ad una ponderazione comparativa di questo, con il contrario interesse del destinatario dell'atto (cfr., da ultimo, proprio in materia di annullamento della concessione edilizia, Cons. Stato, Sez. IV, 14/05/2014 n. 2468).
Vero è che un orientamento giurisprudenziale, seguito anche da questa Sezione, afferma che l'annullamento d'ufficio di una concessione edilizia (ora permesso di costruire) non necessiti di un'espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse al ritiro, configurandosi questo nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica (da ultimo, TAR Sardegna, Sez. II, 16/10/2013 n. 651; Cons. Stato, Sez. IV, 30/07/2012 n. 4300 e Sez. V, 03/06/2013 n. 3037).
Tuttavia, deve ritenersi che il principio di diritto espresso nel menzionato orientamento, riguardi le ipotesi in cui il titolo edilizio emesso, contrasti con la normativa urbanistica sotto il profilo oggettivo, nel senso che consenta la realizzazione di un intervento, da questa, invece, vietato.
Viceversa, quando, come nella fattispecie, non è in contestazione la realizzabilità dell’opera in sé, ma la legittimazione di colui che ha richiesto il titolo abilitativo ad ottenerlo, l’interesse pubblico all’esercizio del potere di autotutela, assume una consistenza meno pregnante, per cui va espressamente valutato e comparativamente ponderato con l’interesse del privato destinatario dell’atto al suo mantenimento in vita.
Poiché nel caso che occupa tale valutazione comparativa è del tutto mancata, l’atto di ritiro risulta inficiato dal vizio dedotto con la censura in esame.
Peraltro, giova rilevare che la suddetta motivazione era, nella specie, tanto più necessaria, poiché, quando la concessione edilizia è stata rimossa, i lavori con la stessa autorizzati erano già stati ultimati
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 27.11.2014 n. 1026 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ricade nel reato di corruzione propria non solo l’accordo illecito che prevede lo scambio tra il denaro o altra utilità e un determinato o ben determinabile atto contrario ai doveri di ufficio, ma anche l’accordo avente per oggetto una pluralità di atti, non preventivamente fissati, ma pur sempre “determinabili per genus mediante il riferimento alla sfera di competenza o all’ambito di intervento del pubblico ufficiale” o –più schiettamente e senza perifrasi– i pagamenti eseguiti “in ragione delle funzioni esercitate dal pubblico ufficiale, per retribuirne i favori”, così da ricomprendervi l’ipotesi del c.d. asservimento della funzione pubblica agli interessi privati.
Le conclusioni cui è pervenuto il Tribunale sono soltanto in parte corrette.
L’interpretazione giurisprudenziale dell’articolo 319 c.p., cui si è attenuto il giudice del riesame e che questo collegio condivide e ribadisce, è costante e consolidata nel tempo, a partire dalle prime decisioni risalenti agli anni Novanta (Sez. 6, 17.02.1996, Cariboni, rv 204440; idem, 05.03.1996, Magnano, rv 205076; idem, 05.02.1998, Lombardi, rv 210381; idem, 13.08.1996, Pacifico, rv 206122; idem, 25.3.1999, Di Pinto, rv 213884) fino alle più recenti (Sez. F., 25.08.2009 n. 34834, Ferro, rv 245182; Sez. 6, 16.05.2012 n. 30058, Di Giorgio, rv 253216). Attraverso un’interpretazione estensiva della relazione tra promessa-dazione e atto di ufficio, si è affermato che ricade nel reato di corruzione propria non solo l’accordo illecito che prevede lo scambio tra il denaro o altra utilità e un determinato o ben determinabile atto contrario ai doveri di ufficio, ma anche l’accordo avente per oggetto una pluralità di atti, non preventivamente fissati, ma pur sempre “determinabili per genus mediante il riferimento alla sfera di competenza o all’ambito di intervento del pubblico ufficiale” o –più schiettamente e senza perifrasi– i pagamenti eseguiti “in ragione delle funzioni esercitate dal pubblico ufficiale, per retribuirne i favori”, così da ricomprendervi l’ipotesi del c.d. asservimento della funzione pubblica agli interessi privati.
Valutando poi gli effetti dell’entrata in vigore della legge n. 190/2012, questa Corte ha affermato che “il nuovo testo dell’articolo 318 c.p., non ha proceduto ad alcuna abolitio criminis, neanche parziale, delle condotte previste dalla precedente formulazione e ha, invece, determinato un’estensione dell’area di punibilità, configurando una fattispecie di onnicomprensiva monetizzazione del munus pubblico, sganciata da una logica di formale sinallagma e idonea a superare i limiti applicativi che il vecchio testo, pur nel contesto di un’interpretazione ragionevolmente estensiva, presentava in relazione alle situazioni di incerta individuazione di un qualche concreto comportamento pubblico oggetto di mercimonio” (Sez. 6, 11.01.2013 n. 19189, Abbruzzese, rv 255073).
In effetti la riscrittura dell’articolo 318 cod. pen. ha portato nell’assetto del delitto di corruzione un’importante novità: il baricentro del reato non è più l’atto di ufficio da compiere o già compiuto, ma l’esercizio della funzione pubblica. Dalla rubrica nonché dal testo dell’articolo 318, è scomparso ogni riferimento all’atto dell’ufficio e alla sua retribuzione e, a seguire, ogni connotazione circa la conformità o meno dell’atto ai doveri d’ufficio e, ancora, alla relazione temporale tra l’atto e l’indebito pagamento. Ciò significa che è stata abbandonata la tradizionale concezione che ravvisava la corruzione nella compravendita dell’atto che il pubblico ufficiale ha compiuto o deve compiere, per abbracciare un nuovo criterio di punibilità ancorato al mero esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, a prescindere dal fatto che tale esercizio assuma carattere legittimo o illegittimo e, quindi, senza che sia necessario accertare l’esistenza di un nesso tra la dazione indebita e uno specifico atto dell’ufficio.
La riforma ha inteso adeguare il nostro ordinamento penale ai superiori livelli di tutela raggiunti da altri ordinamenti Europei (in particolare, quello tedesco) e al contempo colmare lo iato tra diritto positivo e diritto vivente formatosi per l’interpretazione estensiva data dalla giurisprudenza di legittimità al concetto di atto di ufficio, dilatato fino al punto di ritenere sufficiente, per la sua determinabilità, il solo riferimento alla sfera di competenza o alle funzioni del pubblico ufficiale che riceve il denaro.
Il comando contenuto nella nuova fattispecie è estremamente chiaro: il pubblico funzionario in ragione della funzione pubblica esercitata non deve ricevere denaro o altre utilità e, specularmente, il privato non deve corrisponderglieli. Tali divieti, secondo la logica del pericolo presunto, mirano a prevenire la compravendita degli atti d’ufficio e fungono da garanzia del corretto funzionamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione.
Il nuovo reato di cui all’articolo 318 c.p., in forza della novità del riferimento all’esercizio della funzione, ha esteso l’area di punibilità dall’originaria ipotesi della retribuzione del pubblico ufficiale per il compimento di un atto conforme ai doveri d’ufficio a tutte le forme di mercimonio delle funzioni o dei poteri del pubblico ufficiale, salva l’ipotesi in cui sia accertato un nesso di strumentante tra dazione o promessa e il compimento di un determinato o ben determinabile atto contrario ai doveri d’ufficio, ipotesi, quest’ultima, espressamente contemplata dall’articolo 319 c.p., modificato dalla novella soltanto nella parte attinente alla misura della pena.
Ne deriva che i fenomeni di corruzione sistemica conosciuti dall’esperienza giudiziaria come “messa a libro paga del pubblico funzionario” o “asservimento della funzione pubblica agli interessi privati” o “messa a disposizione del proprio ufficio”, tutti caratterizzati da un accordo corruttivo che impegna permanentemente il pubblico ufficiale a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, finora sussunti –alla stregua del consolidato orientamento giurisprudenziale sopra richiamato– nella fattispecie prevista dall’articolo 319 c.p., devono ora, dopo l’entrata in vigore della Legge n. 190 del 2012, essere ricondotti nella previsione del novellato articolo 318 c.p., sempre che i pagamenti intervenuti non siano ricollegabili al compimento di uno o più atti contrari ai doveri d’ufficio.
In altre parole, considerato che la nuova figura di reato prevista dall’articolo 318, e quella di cui all’articolo 319 c.p., sono caratterizzate l’una dall’assenza l’altra dalla presenza di un atto contrario ai doveri di ufficio, volendo individuare quale sia la norma penale applicabile, occorrerà previamente accertare se l’asservimento della funzione sia rimasto tale o sia sfociato nel compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio.
Nella prima ipotesi il fatto sarà sussunto nella nuova fattispecie di reato descritta dall’articolo 318 c.p., che, elevando a fatto tipico uno dei tanti fenomeni di corruzione propria prima compresi nell’articolo 319 c.p., ha assunto –rispetto ai fatti commessi ante riforma– il ruolo di norma speciale destinata a succedere nel tempo a quella generale, perché la pena comminata dall’articolo 318, è, nel minimo edittale (un anno di reclusione, anziché due), più favorevole al reo.
Nell’ipotesi, invece, che l’asservimento della funzione abbia prodotto il compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio, il fatto resterà sotto il regime dell’articolo 319 c.p., e sarà punito, ove commesso prima dell’entrata in vigore della novella, con la pena –più lieve– prevista ante riforma, in ossequio alla regola dell’articolo 2 c.p., comma 4.
Questa soluzione è stata criticata, rilevando che, in tal modo, verrebbe irragionevolmente punito con pena meno grave il pubblico ufficiale che vende l’intera funzione rispetto a colui che vende soltanto un singolo atto (Cass., Sez. 6, 15.10.2013 n. 9883, Terenghi, rv 258521). L’argomentazione però non è condivisibile, perché non rispecchia la realtà normativa come sopra ricostruita. Invero l’articolo 318 cod. pen., in quanto punisce genericamente la vendita della funzione, si atteggia come reato di pericolo, mentre l’articolo 319 c.p., perseguendo la compravendita di uno specifico atto d’ufficio, è reato di danno. Nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà e imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell’altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando quindi una pena più severa.
Per completezza va detto che, nel nuovo regime, il rapporto tra articolo 318 c.p., e articolo 319 c.p., da alternativo che era (cioè fondato sulla distinzione tra atto conforme o atto contrario ai doveri d’ufficio), e’ ora divenuto da norma generale a norma speciale. Si tratta di specialità unilaterale per specificazione, perché, mentre l’articolo 318 c.p., prevede e punisce la generica condotta di vendita della pubblica funzione, l’articolo 319 c.p., enuclea un preciso atto, contrario ai doveri di ufficio, oggetto di illecito mercimonio.
Va precisato, infine, che la nuova figura di reato prevista dall’articolo 318 c.p., può atteggiarsi, sotto il profilo della consumazione, come reato eventualmente permanente. Invero, se a realizzare la fattispecie penale e’ sufficiente l’azione istantanea dell’accettazione della promessa del denaro (o di altra utilità) o della sua ricezione, nell’ipotesi che le dazioni indebite siano plurime, trovando esse ragione giustificativa nel fattore unificante dell’esercizio della funzione pubblica, non si realizzeranno tanti reati quante sono le dazioni, ma un unico reato la cui consumazione comincia con la prima dazione e si protrae nel tempo fino all’ultima (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 26.11.2014 n. 49226 -
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SICUREZZA LAVORO: Il contratto di appalto non solleva da precise dirette responsabilità il committente allorché lo stesso assuma una partecipazione attiva nella conduzione e realizzazione dell’opera, in quanto, in tal caso, rimane destinatario degli obblighi assunti dall’appaltatore, compreso quello di controllare direttamente le condizioni di sicurezza del cantiere.
Nonostante l’apprezzabile sforzo dimostrativo anche il secondo motivo non può trovare accoglimento.
In sede di legittimità si è reiteratamente precisato, giudicando della responsabilità dei garanti in relazione ad infortuni sul lavoro, quali siano le condizioni ricorrendo le quali il committente resta esonerato dalla penale responsabilità.
Non potendo esigersi da questi un controllo pressante, continuo e capillare sull’organizzazione e sull’andamento dei lavori ceduti in appalto, ai fini della configurazione della responsabilità del committente occorre verificare in concreto quale sia stata l’incidenza della sua condotta nell’eziologia dell’evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l’esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell’appaltatore o del prestatore d’opera, alla sua ingerenza nell’esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d’opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pencolo.
Di conseguenza, il contratto di appalto non solleva da precise e dirette responsabilità il committente allorché lo stesso assuma una partecipazione attiva nella conduzione e realizzazione dell’opera, in quanto, in tal caso, rimane destinatario degli obblighi assunti dall’appaltatore, compreso quello di controllare direttamente le condizioni di sicurezza del cantiere (cfr., fra le tante, Cass. Sez. 4, n. 3563 del 18/01/2012, Sez. 4, n. 14407 del 07/12/2011, dep. 2012; Sez. 4, n. 1479 del 13/11/2009, dep. 2010).
Nel caso di specie, il (OMISSIS), così assumendo ruolo di garanzia in favore dei terzi, si era obbligato personalmente con il comune di Catania al rispetto scrupoloso delle cautele prevenzionali del caso e in special modo ad apporre la completa segnaletica di pericolo prevista. Inoltre, le opere non erano di esclusiva competenza della (OMISSIS), stante che la committente si era riservata di fornire la conduttura, e l’opera di saldatura dei relativi tranci, di pari passo con l’andamento dello scavo, sorgendo, così, all’evidenza una esigenza di coordinamento, vigilanza e verifica certamente esuberante rispetto ai poteri del nudo committente.
Da questa speciale ingerenza, giustificata dalla parzialità dell’appalto e dagli obblighi assunti nei confronti del comune di Catania, deriva la sussistenza del ruolo di garanzia nei confronti degli utenti della strada in capo all’imputato, ovviamente, nell’eventuale concorso di responsabilità altrui.
Questo nucleo motivazionale essenziale risulta essere stato colto dalla Corte territoriale, dovendosi considerare erroneo, ma ininfluente, il riferimento alla condotta di mera verifica circa l’andamento dei lavori e la nomina del direttore dei lavori, compatibili, invece, con i diritti del committente derivanti dal contratto d’appalto (Corte di Cassazione, sez. IV penale, sentenza 19.11.2014 n. 47751 -
link a http://renatodisa.com).

CONDOMINIOSì alla nuova entrata fai-da-te. Legittima l'apertura di varchi nell'androne condominiale. La Cassazione: niente autorizzazione assembleare ma va garantito l'uso del bene comune.
I condomini possono aprire dei varchi nei muri comuni per rendere più facile l'accesso ai locali di proprietà esclusiva a condizione che ciò non comporti una limitazione alla pari facoltà di utilizzo del bene comune riconosciuta agli altri comproprietari e che non sia messa a rischio la stabilità, la sicurezza e il decoro architettonico dell'edificio.
In casi del genere al condomino non necessita alcuna autorizzazione assembleare ma ove, viceversa, l'assemblea abbia vietato l'intervento, lo stesso è tenuto a impugnarla nell'ordinario termine di decadenza per ottenerne l'annullamento.

Questo quanto chiarito dalla Corte di Cassazione con la recente sentenza 14.11.2014 n. 24295.
Nel caso in questione una condòmina proprietaria di due locali adiacenti, siti al piano terra e con ingresso unico dall'androne di uno dei due fabbricati dei quali si componeva lo stabile condominiale era stata proprio costretta a impugnare la delibera con cui l'assemblea si era opposta all'apertura di un nuovo ingresso nell'androne del secondo edificio.
Scopo della condòmina era ovviamente quello di garantire un accesso autonomo anche al secondo dei locali di proprietà esclusiva in modo da dividerlo dal primo e meglio valorizzarlo. Sia in primo che in secondo grado era stata accolta la domanda di annullamento della delibera impugnata, poiché i giudici avevano evidenziato come l'assemblea condominiale nel caso di specie non avesse avuto alcun valido motivo per vietare alla condòmina di fare un uso più intenso del muro comune. Di qui il ricorso in Cassazione proposto dal condominio avverso la sentenza di appello.
Anche la Corte di cassazione, però, ha dato ragione alla comproprietaria, condannando il condominio alle spese del giudizio di legittimità. I supremi giudici, infatti, dopo aver richiamato il noto principio di cui all'art. 1102 c.c. relativo all'utilizzo dei beni comuni, hanno ritenuto infondata anche l'ulteriore eccezione proposta dal condominio e relativa al rischio che praticando tale apertura si costituisse in capo a soggetti estranei alla compagine condominiale una servitù di passaggio su beni condominiali.
Infatti, come evidenziato dalla Suprema corte, il limite all'apertura di varchi nei muri comuni motivato dal rischio di costituzione di servitù di passaggio è invocabile soltanto nel caso in cui l'intervento edilizio comporti un collegamento diretto tra distinti immobili di proprietà del medesimo privato ma facenti parte di diversi compendi immobiliari (si pensi a locali che, seppure adiacenti, facciano parte di stabili condominiali differenti).
Al contrario, come rilevato dai giudici di legittimità, nel caso di specie la condòmina si era limitata a chiedere l'apertura di un nuovo ingresso per il proprio immobile sito interamente nel medesimo condominio e al solo scopo di realizzare un utilizzo più intenso dell'androne comune, senza quindi escludere gli altri comproprietari dall'uso del bene in questione.
E ciò, come anticipato, del tutto in linea con il consolidato orientamento della Suprema corte secondo il quale, in tema di comunione e condominio, ciascun comproprietario ha diritto di trarre dal bene comune una utilità maggiore e più intensa di quella che ne viene tratta dagli altri comproprietari purché non venga alterata la destinazione del bene o compromesso il diritto al pari uso da parte di quest'ultimi. In particolare, hanno precisato i giudici, per stabilire se l'uso più intenso da parte del singolo sia da ritenere consentito ai sensi dell'art. 1102 c.c. non deve aversi riguardo all'uso concreto del bene operato dagli altri condomini in un determinato momento, ma a quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno.
L'uso deve ritenersi in ogni caso consentito se l'utilità aggiuntiva tratta dal singolo comproprietario non sia diversa da quella derivante dalla destinazione originaria del bene e sempre che esso non dia luogo a servitù a carico del medesimo bene comune.
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Senza consenso altrui il muro è modificabile per utilità aggiuntive.
Ciascun condomino, senza bisogno del consenso degli altri partecipanti, può apportare al muro comune quelle modifiche che consentano di trarre dal bene un'utilità aggiuntiva rispetto a quella ricavata agli altri. Costituisce, quindi, utilizzazione lecita della cosa comune ogni intervento sul muro perimetrale o delle scale, come l'apertura di una finestra o di una porta, l'ingrandimento o lo spostamento di vedute preesistenti, la trasformazione di finestre in balconi ecc..
E ancora è consentito abbattere una porzione (limitata) di muro condominiale per sostituirlo con porte scorrevoli o ricostruirlo in modo diverso, purché continui a svolgere la sua funzione. Tuttavia la Cassazione ha ritenuto legittima anche l'apertura di due porte su muri comuni per mettere in comunicazione l'unità immobiliare in proprietà esclusiva di un condomino con il garage comune: tali opere, infatti, rientrano pur sempre nell'ambito del concetto di uso (più intenso) del bene comune.
Naturalmente le aperture possono essere anche con affaccio sul cortile comune o sul cavedio (cortile interno), la cui essenziale finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti giustifica la volontà di ciascun condomino di godere a pieno di tali benefici. È importante però che le modifiche siano compatibili con la ragionevole previsione dell'utilizzazione che in concreto faranno gli altri condomini della stessa parte condominiale.
Si deve poi considerare che l'apertura di varchi nel muro perimetrale da parte di un condomino è legittima purché non influisca sulla statica del fabbricato condominiale compromettendone la stabilità o pregiudicandone la sicurezza e, soprattutto, non comprometta il decoro architettonico dell'edificio. Se questi limiti vengono rispettati, le opere in questione non sono vietate, perché non modificano la destinazione delle parti comuni. È chiaro però che, in relazione alle aperture praticate, il condomino interessato dovrà comunque accollarsi le maggiori spese di manutenzione e/o di gestione del muro comune causate dalla propria iniziativa (tinteggiature, ristrutturazioni ecc.).
- Aperture nei muri comuni: il ruolo dell'assemblea. L'assemblea non potrebbe vietare indiscriminatamente di aprire varchi sul muro comune in quanto una tale facoltà deve essere riconosciuta a ciascun proprietario, salvi soltanto i limiti sopra detti, cioè sempreché non si creino pregiudizi alla possibilità degli altri condomini di godere del bene comune. Tuttavia, per evitare contestazioni o azioni giudiziarie da parti degli altri partecipanti al condominio, il singolo dovrebbe chiedere l'autorizzazione dell'assemblea che, se concessa, costituirebbe il riconoscimento della legittimità dell'uso più intenso dei muri comuni.
Naturalmente se è richiesta l'apertura di una porta di accesso all'appartamento sul pianerottolo condominiale, qualora il caseggiato sia composto da due scale, sarà sufficiente che il consenso venga prestato dai soli appartenenti alla scala interessata. È possibile però che il condomino veda respinta la richiesta di praticare le nuove aperture per problemi alla riservatezza e al rispetto delle distanze: in tal caso al condomino non rimane che impugnare la decisione assembleare.
Il giudice poi deciderà nel rispetto del principio di solidarietà che è alla base dei rapporti condominiali, richiedendo un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i condomini. In ogni caso è inutile pretendere di fare aperture nei muri comuni ove l'assemblea, con la maggioranza prevista per le innovazioni, abbia imposto a tutti i condomini un divieto generalizzato di poter aprire nuovi accessi sul muro comune. Tale decisione, infatti, è assolutamente legittima, vietandosi soltanto un uso specifico del bene comune.
- Aperture e limitazioni nel regolamento di condominio. È pienamente legittimo che norme di un regolamento di condominio, aventi natura contrattuale (in quanto predisposte dall'unico originario proprietario dell'edificio e accettate con i singoli atti di acquisto dai condomini ovvero adottate in sede assembleare con il consenso unanime di tutti i condomini), possano prevedere limiti ai diritti dei condomini sulle parti comuni.
Ne discende che legittimamente dette norme contrattuali possono arrivare a imporre ai singoli condomini il divieto di modificare le parti comuni e l'aspetto generale dell'edificio esistente al momento della sua costruzione: in tal caso non è possibile aprire varchi neppure se a maggioranza l'assemblea autorizzi l'intervento (serve l'unanimità, cioè il consenso di tutti i condomini, nessuno escluso).
- Le aperture illecite. Merita di essere ricordato infine che le aperture praticate dal condomino nel muro comune per mettere in collegamento locali di sua proprietà posti nell'edificio condominiale con altro immobile estraneo al condominio costituiscono certamente un uso indebito della cosa comune, alterando la destinazione del muro e incidendo sulla sua funzione di recinzione, potendo inoltre dar luogo a una servitù di passaggio a carico della proprietà condominiale.
Alla luce di tali principi si deve affermare che l'apertura praticata dal singolo condomino nel muro perimetrale dell'edificio condominiale, in corrispondenza del proprio box, per dare accesso a un'area di proprietà esclusiva, pertinenziale, comunque, ad altro condominio, non può farsi rientrare nel cosiddetto uso legittimo della cosa comune. Del resto bisogna considerare anche il rischio concreto che tale apertura venga utilizzata da soggetti estranei al condominio, compresi eventuali malintenzionati (articolo ItaliaOggi Sette del 22.12.2014).

PUBBLICO IMPIEGOL’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha enunciato il principio secondo il quale l’utilizzazione della graduatoria dei canditati utilmente collocati in graduatoria è da preferire rispetto all’indizione di un nuovo concorso, salvo che ricorrano particolari ragioni che rendano opportuno il ricorso a questa seconda forma di reclutamento del personale, (ragioni) che debbono essere esplicitate dall’Amministrazione con congrua motivazione.
Pur ripudiando l’orientamento giurisprudenziale precedentemente dominante, che riconosceva all’Amministrazione ampia discrezionalità nella decisione di indire un nuovo concorso senza necessità di particolare motivazione, (orientamento fondato) sul presupposto che la nomina degli idonei nei posti vacanti fosse una facoltà e non un obbligo, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha tuttavia ribadito l’impossibilità di configurare un diritto soggettivo pieno alla assunzione degli idonei mediante scorrimento della graduatoria, che sorgerebbe per il solo fatto della vacanza e disponibilità dei posti in organico.
Dopo aver evidenziato che la più recente disciplina del pubblico impiego configura lo scorrimento delle graduatorie concorsuali valide ed efficaci come la regola generale per la copertura dei posti vacanti nella dotazione organica e ne rafforza il ruolo di modalità ordinaria di provvista del personale, in relazione alla finalità primaria di ridurre i costi gravanti sulle amministrazioni per la gestione delle procedure selettive, e che, conseguentemente, la decisione della Amministrazione di indire un nuovo concorso richiede una apposita e approfondita motivazione che dia conto del sacrificio imposto ai concorrenti idonei e della sussistenza di preminenti esigenze di interesse pubblico, l’Adunanza plenaria fa rilevare, infatti, che tale regola generale non è assoluta ed incondizionata, atteso che in alcuni casi la determinazione di procedere al reclutamento del personale mediante nuove procedure concorsuali risulta pienamente giustificabile, con conseguente attenuazione dell’obbligo di motivazione (concorsi previsti con cadenza periodica da speciali disposizioni; stabilizzazione del personale precario; modifica sostanziale della disciplina applicabile alla procedura concorsuale, rispetto a quella riferita alla graduatoria ancora efficace, con particolare riferimento al contenuto delle prove d’esame ed ai requisiti di partecipazione; etc.).

Nel merito, la questione dedotta in giudizio attiene al rapporto tra lo scorrimento di una graduatoria concorsuale ancora valida ed efficace e l’indizione di una procedura di mobilità per la copertura di un posto vacante in organico.
Occorre premettere che l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 14/2011, ha enunciato il principio secondo il quale l’utilizzazione della graduatoria dei canditati utilmente collocati in graduatoria è da preferire rispetto all’indizione di un nuovo concorso, salvo che ricorrano particolari ragioni che rendano opportuno il ricorso a questa seconda forma di reclutamento del personale, (ragioni) che debbono essere esplicitate dall’Amministrazione con congrua motivazione.
Pur ripudiando l’orientamento giurisprudenziale precedentemente dominante, che riconosceva all’Amministrazione ampia discrezionalità nella decisione di indire un nuovo concorso senza necessità di particolare motivazione, (orientamento fondato) sul presupposto che la nomina degli idonei nei posti vacanti fosse una facoltà e non un obbligo (ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. IV, 16.06.2011 n. 3660; Consiglio di Stato, sez. IV, 03.12.2010 n. 8519; Consiglio di Stato, sez. IV, 27.07.2010 n. 4910; Consiglio di Stato, sez. V, 19.11.2009 n. 8369; Consiglio di Stato, sez. V, 19.11.2009 n. 7243), l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha tuttavia ribadito l’impossibilità di configurare un diritto soggettivo pieno alla assunzione degli idonei mediante scorrimento della graduatoria, che sorgerebbe per il solo fatto della vacanza e disponibilità dei posti in organico (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 28.07.2011 n. 14).
Dopo aver evidenziato che la più recente disciplina del pubblico impiego configura lo scorrimento delle graduatorie concorsuali valide ed efficaci come la regola generale per la copertura dei posti vacanti nella dotazione organica e ne rafforza il ruolo di modalità ordinaria di provvista del personale, in relazione alla finalità primaria di ridurre i costi gravanti sulle amministrazioni per la gestione delle procedure selettive, e che, conseguentemente, la decisione della Amministrazione di indire un nuovo concorso richiede una apposita e approfondita motivazione che dia conto del sacrificio imposto ai concorrenti idonei e della sussistenza di preminenti esigenze di interesse pubblico, l’Adunanza plenaria fa rilevare, infatti, che tale regola generale non è assoluta ed incondizionata, atteso che in alcuni casi la determinazione di procedere al reclutamento del personale mediante nuove procedure concorsuali risulta pienamente giustificabile, con conseguente attenuazione dell’obbligo di motivazione (concorsi previsti con cadenza periodica da speciali disposizioni; stabilizzazione del personale precario; modifica sostanziale della disciplina applicabile alla procedura concorsuale, rispetto a quella riferita alla graduatoria ancora efficace, con particolare riferimento al contenuto delle prove d’esame ed ai requisiti di partecipazione; etc.) (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 12.11.2014 n. 5814 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi. Ingiunzione a demolire. Inottemperanza. Acquisizione area di sedime. Competenza. Spetta a responsabile di settore dell'AC. Conservazione dell'opera abusiva. Valutazione del Consiglio Comunale. È soltanto eventuale.
1. In materia edilizia e di repressione degli abusi, ogni provvedimento, ivi compreso quello di acquisizione dell'area di sedime ex art. 31 d.P.R. n. 380/2001, spetta al responsabile del settore comunale a cui sono affidati i relativi compiti.
2. L'acquisizione dell'area di sedime incisa da manufatto abusivo ex art. 31 d.P.R. n. 380/2001 non deve essere preceduta dalla valutazione del Consiglio comunale sulla possibilità di utilizzare l’opera per scopi di pubblica utilità, atteso il carattere dovuto dell’atto (conseguente all’inottemperanza all’ordine di demolizione), preordinato alla rimozione dell’opera e che solo in via eventuale e successiva può formare oggetto di determinazione dell’organo consiliare, che ne disponga la conservazione per l’esistenza di prevalenti interessi pubblici.

Infondata è la censura secondo cui è stata acquisita un’area maggiore di quella su cui insiste l’abuso.
L’art. 31, terzo comma, del D.P.R. n. 380/2001 stabilisce che: <<L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita>>.
Nella specie, considerato che il container e il campo di calcetto abusivo hanno una superficie complessiva di mq. 872, è legittima l’acquisizione dell’area della particella 1048 di mq. 1.083 (questa di proprietà esclusiva della ricorrente, come da sua esplicita ammissione: cfr. la relazione di perizia stragiudiziale depositata).
Quanto all’esproprio dell’ANAS, la circostanza che gli abusi ricadano sulla particella 1047 di proprietà demaniale (cfr. ancora la relazione di perizia stragiudiziale depositata dalla ricorrente) non esclude la necessità di acquisire, in danno dell’autore dell’abuso, i beni realizzati senza titolo e che gli appartengono, in quanto distinti dal suolo espropriato su cui insistono.
Ciò al fine della loro demolizione, non spontaneamente eseguita (salva la possibilità di conservazione e di utilizzo per scopi di pubblica utilità), considerato anche che l’espropriazione del suolo non può comportare l’effetto di riversare sull’espropriante la responsabilità per l’attività edilizia abusiva.
Quanto al profilo di incompetenza dedotto con l’ultimo motivo, la giurisprudenza amministrativa è pacifica nel ritenere che ogni provvedimento in materia edilizia e di repressione degli abusi spetta al responsabile del settore comunale a cui sono affidati i relativi compiti (cfr., per tutte, la sentenza della Sez. IV di questo Tribunale del 22.01.2014 n. 417 e Cons. Stato – Sez. IV, 27.10.2011 n. 5758).
Né può sostenersi che l’acquisizione debba essere preceduta dalla valutazione del Consiglio comunale sulla possibilità di utilizzare l’opera per scopi di pubblica utilità, atteso il carattere dovuto dell’atto (conseguente all’inottemperanza all’ordine di demolizione), preordinato alla rimozione dell’opera e che solo in via eventuale e successiva può formare oggetto di determinazione dell’organo consiliare, che ne disponga la conservazione per l’esistenza di prevalenti interessi pubblici (cfr. l’art. 31, quinto comma, D.P.R. n. 380/2001: <<L'opera acquisita è demolita con ordinanza del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale a spese dei responsabili dell'abuso, salvo che con deliberazione consiliare non si dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali>>) (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 10.11.2014 n. 5783 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: 1. Gare pubbliche. Appalti di servizi. Requisiti speciali di partecipazione. Dimostrazione di aver svolto servizi analoghi. Nozione.
1.1. Nelle gare pubbliche per l'affidamento di appalti di servizi, ove la lex specialis di gara richieda ai concorrenti la dimostrazione di aver svolto nel triennio precedente alla pubblicazione del bando servizi analoghi a quelli oggetto dell'appalto, non si intende far riferimento a “servizi identici”: la ratio di tale interpretazione risiede nella tendenziale ottica di apertura al mercato che deve soprintendere ad ogni procedura ad evidenza pubblica.
1.2. L’esclusione dalla valutazione, come servizio non analogo a quello oggetto della gara di appalto, di un servizio che nondimeno con quello presenti alcuni aspetti in comune deve fondarsi su di una motivazione logica, puntuale e ragionale, coerentemente del resto alla finalità che giustifica la richiesta ai concorrenti di una gara di appalto di documentare il pregresso svolgimento di servizi non identici, ma solo analoghi a quelli oggetto dell’appalto, finalità rintracciabile nell’acquisizione da parte dell’amministrazione appaltante dell’adeguata conoscenza della precedente attività svolta dai concorrenti e nella conseguente possibilità di apprezzare, in concreto, la loro specifica attitudine alla effettiva, puntuale e compiuta realizzazione delle prestazioni oggetto della gara, costituendo le precedenti esperienze significativi elementi sintomatici in tal senso.
1.3. Nelle gare pubbliche, per “servizi analoghi” vanno intesi quelli attinenti allo stesso settore dell’appalto da aggiudicare, ma concernenti, in riferimento allo specifico oggetto della procedura, tipologie diverse ed eterogenee.

2. (segue): dimostrazione del possesso di requisito speciale (aver svolto servizi analoghi). Schede contabili. Sufficienza.
2.1. L’art. 42, comma 3-bis, e l'art. 48 del d.lgs 12.04.2006 n. 163 consentono agli operatori economici, in un’ottica di semplificazione e speditezza dell’azione amministrativa, di fornire alla stazione appaltante la scheda contabile, quale idonea dichiarazione finalizzata alla prova dei requisiti inerenti allo svolgimento dei servizi oggetto dell’appalto. In ogni caso, qualora l’ente aggiudicatore dovesse ritenerlo opportuno o necessario ai fini della definizione della gara, può chiedere un’integrazione della documentazione contabile fornita.
2.2. Non va escluso dalla gara pubblica di appalto di servizi, l'operatore economico che, al fine di dimostrare il possesso di requisiti speciali di partecipazione, abbia fornito, dapprima, una scheda contabile e, in sede di verifica ex art. 48 d.lgs. 12.04.2006 n. 163, l’elenco delle fatture emesse in occasione dell’esecuzione dei servizi analoghi a quelli oggetto dell’appalto.

3. Offerte anomale. Valutazione della Stazione Appaltante. Discrezionalità. Sindacato giurisdizionale. Limiti.
3.1. Nella materia della impugnazione delle determinazioni amministrative in materia di valutazione delle giustificazioni in ordine alla anomalia dell’offerta, il giudice amministrativo incontra limiti assai severi. Il sindacato sulla discrezionalità tecnica, tipico della valutazione dell’anomalia dell’offerta, non può sfociare nella sostituzione dell’opinione del giudice a quella espressa dall’organo dell’Amministrazione, a meno che non venga considerata errata sul piano della tecnica seguita, essendo compito del giudice verificare se il potere amministrativo si sia esercitato con utilizzo delle regole conforme a criteri di logicità, congruità e ragionevolezza.
3.2. Non va esclusa dalla gara di appalto di servizi, l'impresa che, in sede di verifica dell'anomalia dell'offerta, abbia fornito uno schema dettagliato dei tempi e dei costi del servizio offerto, nonché del numero specifico di ore necessarie a svolgerlo.

Il motivo non è fondato.
Al riguardo risulta opportuno richiamare quanto correttamente è stato affermato dal giudice di primo grado. Per quanto concerne il primo profilo di doglianza sollevato, infatti, la stazione appaltante, nel richiamare i “servizi analoghi” all’art. 9, lett. g), del disciplinare di gara, non ha voluto far riferimento a “servizi identici”: la ratio di tale interpretazione risiede nella tendenziale ottica di apertura al mercato che deve soprintendere ad ogni procedura ad evidenza pubblica.
La giurisprudenza d’altronde risulta costantemente orientata nel senso di considerare che “l’esclusione dalla valutazione, come servizio non analogo a quello oggetto della gara di appalto, di un servizio che nondimeno con quello presenti alcuni aspetti in comune [...] deve fondarsi su di una motivazione logica, puntuale e ragionale, coerentemente del resto alla finalità che giustifica la richiesta ai concorrenti di una gara di appalto di documentare il pregresso svolgimento di servizi non identici, ma solo analoghi a quelli oggetto dell’appalto, finalità rintracciabile nell’acquisizione da parte dell’amministrazione appaltante dell’adeguata conoscenza della precedente attività svolta dai concorrenti e nella conseguente possibilità di apprezzare, in concreto, la loro specifica attitudine alla effettiva, puntuale e compiuta realizzazione delle prestazioni oggetto della gara, costituendo le precedenti esperienze significativi elementi sintomatici in tal senso” (Cons. Stato, sez. V, 08.04.2014 n. 1668; id., sez. III, 25.06.2013, n. 3437).
Pertanto, risulta corretto affermare che per “servizi analoghi” vadano intesi quelli attinenti allo stesso settore dell’appalto da aggiudicare, ma concernenti, in riferimento allo specifico oggetto della procedura, tipologie diverse ed eterogenee.
Quanto al secondo profilo di censura, va innanzitutto richiamato l’art. 42, co. 3-bis, del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, secondo cui “le stazioni appaltanti provvedono a inserire nella Banca dati nazionale dei contratti pubblici di cui all’art. 6-bis del presente Codice [...] la certificazione attestante le prestazioni di cui al comma 1, lettera a), del presente articolo”. In secondo luogo, ai sensi dell’art. 48 del Codice dei Contratti, in sede di verifica dell’anomalia dell’offerta, la stazione appaltante può ottenere la prova documentale dei requisiti dichiarati.
Le richiamate disposizioni consentono agli operatori economici, in un’ottica di semplificazione e speditezza dell’azione amministrativa, di fornire alla stazione appaltante la scheda contabile, quale idonea dichiarazione finalizzata alla prova dei requisiti inerenti allo svolgimento dei servizi oggetto dell’appalto. In ogni caso, qualora l’ente aggiudicatore dovesse ritenerlo opportuno o necessario ai fini della definizione della gara, può chiedere un’integrazione della documentazione contabile fornita.
Nel caso di specie, pertanto, deve affermarsi la piena regolarità e legittimità dell’operato di Ecologia Italiana s.r.l. la quale, al fine di dimostrare il possesso dei requisiti sanciti nell’art. 9, lett. g), del disciplinare di gara, ha fornito, dapprima, una scheda contabile e, in sede di verifica ex art. 48 d.lgs. 12.04.2006 n. 163, l’elenco delle fatture emesse in occasione dell’esecuzione dei servizi analoghi a quelli oggetto dell’appalto.
2. Parte appellante censura la decisione del TAR per la Campania anche in merito alle statuizioni relative agli atti del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta dell’aggiudicataria: in effetti, la Guido Tortora s.r.l. afferma che la verifica dell’offerta avrebbe dovuto condurre all’esclusione della Ecologia Italiana s.r.l., in virtù di tre considerazioni: in primo luogo, il bando di gara prevedeva, a pena di esclusione, l’applicazione del CCNL dell’area nettezza urbana e non quello dell’area tessile, di gran lunga più favorevole rispetto al primo; in secondo luogo, la controinteressata avrebbe fornito un calcolo del costo medio orario del lavoro non comprensiva di alcuni oneri contributivi e retributivi; in terzo luogo, il costo orario fornito in sede di giustificazione dalla Ecologia Italiana s.r.l., sarebbe rapportato ad un tempo di impiego del personale inferiore rispetto a quello previsto nell’offerta tecnica.
Il motivo non è fondato.
Viene in rilievo, al riguardo, la disposizione contenuta nell’art. 9, lett. i), del disciplinare di gara secondo cui il concorrente “dichiara di aver formulato l’offerta tenendo conto degli obblighi derivanti dall’applicazione del CCNL di categoria e di impegnarsi al rispetto del medesimo per tutta la durata contrattuale”.
Tale disposizione, come sostenuto dal TAR Campania, non dev’essere interpretata nel senso di subordinare la partecipazione alla gara, all’applicazione del CCNL del settore nettezza urbana. Il richiamo al CCNL “di categoria”, infatti, può essere relazionato all’inquadramento dei lavoratori all’interno dell’organico aziendale.
A ben vedere, questo tipo di interpretazione è coerente e si pone in sintonia con le osservazioni effettuate in relazione ai “servizi analoghi”: in effetti, la ratio sottesa alle esaminate disposizioni del disciplinare di gara è la stessa ed è individuabile nel favor partecipationis. Se, da un lato, si ammette la possibilità di partecipazione alla procedura, di imprese che svolgono servizi attinenti allo smaltimento di rifiuti genericamente inteso, risulterà senz’altro probabile che alla medesima procedura prendano parte imprese che, a seconda del proprio specifico oggetto sociale, applicano ai propri lavoratori CCNL di categorie differenti. Diversamente ragionando, invece, ad una procedura concernente lo smaltimento di rifiuti derivanti da raccolta differenziata, potrebbero partecipare solamente imprese che abbiano già svolto questa specifica attività e che, pertanto, applichino il solo CCNL del settore nettezza urbana: ciò determinerebbe essenzialmente una violazione dei principi cardine, nazionali ed europei, che regolano l’intera materia delle procedure ad evidenza pubblica.
In relazione agli altri profili di doglianza, giova premettere che “nella materia della impugnazione delle determinazioni amministrative in materia di valutazione delle giustificazioni in ordine alla anomalia dell’offerta, il giudice amministrativo incontra limiti assai severi che la giurisprudenza non cessa di applicare. Tra le tante pronunce di orientamento coincidente, si ricorda l’affermazione per cui il sindacato sulla discrezionalità tecnica, tipico della valutazione dell’anomalia dell’offerta, non può sfociare nella sostituzione dell’opinione del giudice a quella espressa dall’organo dell’Amministrazione, a meno che non venga considerata errata sul piano della tecnica seguita, essendo compito del giudice verificare se il potere amministrativo si sia esercitato con utilizzo delle regole conforme a criteri di logicità, congruità e ragionevolezza” (Cons. St., sez. VI, 04.06.2004 n. 3500; id. sez. V, 21.09.2005, n. 4947).
Ciò posto, va evidenziato come la Ecologia Italiana s.r.l., in sede di chiarimenti, ha fornito, come già rilevato in primo grado, uno schema dettagliato dei tempi e dei costi del servizio offerto, nonché del numero specifico di ore necessarie a svolgerlo. In generale, può affermarsi che tali giustificazioni appaiono senz’altro conformi ai richiamati principi di ragionevolezza, logicità e congruità.
In effetti, i calcoli forniti dalla controinteressata hanno permesso all’amministrazione aggiudicatrice di quantificare in modo attendibile il valore per minuto dell’appalto da eseguire: il valore finale di 124.800 è la risultante di una media di lavoro di otto ore giornaliere, per cinque giorni settimanali, per cinquantadue settimane.
Tale parametro va considerato in relazione al suo precipuo fine di quantificare il costo del lavoro rispetto alle singole operazioni richieste: per tale motivo il mancato computo delle ore lavorative del sabato non può incidere sulla ragionevolezza del parametro sopra esposto.
All’interno del calcolo del valore considerato, non vengono computate ferie, assenze per malattie, festività e tredicesima mensilità, in quanto, come giustamente affermato dal giudice di prime cure, “il prospetto dei dipendenti allegato ai verbali di gare prevede un generico costo annuo, comprensivo anche di voci di costo ulteriori rispetto al trattamento di base” (pag. 8 sentenza appellata).
In definitiva, non può essere condiviso l’assunto di parte appellante circa la conformità, alle prescrizioni del bando di gara, dell’offerta della Ecologia Italiana s.r.l., che ha analiticamente e ragionevolmente giustificato la propria offerta in sede di verifica ex art. 48 d.lgs. 12.04.2006 n. 163 (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.11.2014 n. 5530 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Fonti legislative. Declaratoria di incostituzionalità. Effetti sugli atti amministrativi privati del fondamento normativo. Nullità. Non sussiste. Annullabilità in sede giurisdizionale o in via di autotutela.
Nel caso in cui un atto amministrativo sia stato emanato sulla base di una legge o atto avente forza di legge poi dichiarato incostituzionale, il venir meno del presupposto normativo di un atto per sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità non ne comporta la caducazione "ipso iure", essendo necessaria la sua rimozione con un provvedimento giurisdizionale o in via di autotutela qualora esso sia divenuto inoppugnabile.
Dell’applicabilità del predetto principio giurisprudenziale potrebbe dubitarsi ove l'atto adottato dalla p.a. avesse un contenuto normativo, dettando una disciplina generale ed astratta riferita ad una serie di situazioni future astrattamente ripetibili per un indeterminato numero di volte (una volta venuto meno il presupposto legislativo dell'atto regolamentare dovrebbe negarsi che esso possa dispiegare la propria efficacia normativa anche per il futuro, determinando un permanente contrasto fra la norma secondaria e la legge o per di più con la Costituzione).

2. Quanto al primo motivo di censura, ivi si sostiene che la delibera di Consiglio Comunale n. 10 del 12.06.2007 ad oggetto “Approvazione progetto definitivo relativo ai lavori di realizzazione Variante SS 266" sarebbe radicalmente nulla in quanto approvata ai sensi dell’art. 98 d.l.vo n. 163/2006 posto che detta norma “fondante” in ultimo citata era stata dichiarata incostituzionale (Corte Cost. sent. n. 401 del 19-23.11.2007).
2.1. In contrario senso, osserva il Collegio che è ben vero che il fondamento normativo della detta delibera si rinviene nella suindicata norma dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Consulta: sennonché, avveduta giurisprudenza – che il Collegio condivide e fa propria – correttamente ritiene che il venir meno del presupposto normativo di un atto per sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità non ne comporta la caducazione "ipso iure", essendo necessaria la sua rimozione con un provvedimento giurisdizionale o in via di autotutela qualora esso sia divenuto inoppugnabile (Consiglio Stato sez. IV, 22.03.2001 n. 1695; TAR Lombardia Milano Sez. I, Sent., 26.04.2013, n. 1097).
Dell’applicabilità del predetto principio giurisprudenziale potrebbe dubitarsi ove l'atto adottato dalla p.a. avesse un contenuto normativo, dettando una disciplina generale ed astratta riferita ad una serie di situazioni future astrattamente ripetibili per un indeterminato numero di volte (una volta venuto meno il presupposto legislativo dell'atto regolamentare dovrebbe negarsi che che esso possa dispiegare la propria efficacia normativa anche per il futuro, determinando un permanente contrasto fra la norma secondaria e la legge o per di più con la Costituzione).
La delibera, quindi, non è affatto nulla: era contestabile, ma la possibilità di tale contestazione risente delle disposizioni processuali in materia di tempestiva –o meno- proposizione del ricorso, il che postula la compiuta disamina delle ulteriori censure mentre il primo motivo dell’appello, per quanto sinora rappresentato, deve essere senz’altro disatteso (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.11.2014 n. 5526 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: 1. Principio del "tempus regit actum". Legittimità degli atti amministrativi. Disciplina del procedimento amministrativo. Fase procedimentale. Jus superveniens.
1.1. Costituisce principio generale costantemente predicato dalla pacifica giurisprudenza amministrativa quello per cui “la legittimità di un provvedimento amministrativo si deve accertare con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio del "tempus regit actum", con conseguente irrilevanza di provvedimenti successivi che non possono in alcun caso legittimare ex post precedenti atti amministrativi”.
La giurisprudenza civile di legittimità, a propria volta, ritiene il detto canone valutativo principio di imprescindibile applicazione.
1.2. L'applicabilità delle norme nell'ambito del procedimento amministrativo è regolata dal principio "tempus regit actum", con la conseguenza che ogni atto o fase del procedimento trova disciplina nelle disposizioni di legge o di regolamento vigenti alla data in cui ha luogo ciascuna sequenza procedimentale.
1.3. Lo "jus superveniens" è pienamente operativo con riguardo a procedimenti suddivisi in varie fasi coordinate, salvo che incida su situazioni giuridiche già consolidate.
Va premesso che costituisce principio generale costantemente predicato dalla pacifica giurisprudenza amministrativa quello per cui “la legittimità di un provvedimento amministrativo si deve accertare con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio del "tempus regit actum", con conseguente irrilevanza di provvedimenti successivi che non possono in alcun caso legittimare ex post precedenti atti amministrativi” (Cons. Stato Sez. IV, 21.08.2012, n. 4583).
La giurisprudenza civile di legittimità, a propria volta, ritiene il detto canone valutativo principio di imprescindibile applicazione (ex multis: Cass. civ. Sez. VI, 22-02-2012, n. 2672).
Lo stesso principio (con qualche temperamento) si applica al fluire procedimentale laddove medio tempore muti il quadro normativo che governa il procedimento.
Anche l'applicabilità delle norme nell'ambito del procedimento amministrativo è regolata dal principio "tempus regit actum" con la conseguenza che ogni atto o fase del procedimento trova disciplina nelle disposizioni di legge o di regolamento vigenti alla data in cui ha luogo ciascuna sequenza procedimentale. (TAR Calabria, Catanzaro sezione I, 01.10.2007, n. 1420). Quel TAR osserva pure, del tutto condivisibilmente che "lo "jus superveniens" è pertanto pienamente operativo con riguardo a procedimenti suddivisi in varie fasi coordinate, ..., salvo che incida su situazioni giuridiche già consolidate." (TAR Lazio Roma Sez. III-bis, Sent., 13.09.2012, n. 7732).
Ne discende la assoluta irrilevanza nella vicenda processuale per cui è causa delle sopravvenute modifiche normative che hanno interessato il d.Lgs. n. 163/2006 in quanto successive alla emanazione del bando e dell’adozione della statuizione espulsiva (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.11.2014 n. 5524 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Appalti. Requisiti di partecipazione. Moralità professionale. Obbligo dichiarativo delle condanne riportate.
Nelle gare d'appalto le valutazioni in ordine alla gravità delle eventuali condanne riportate dai concorrenti e la loro incidenza sulla moralità professionale spettano esclusivamente alla amministrazione appaltante e non già ai concorrenti, i quali sono pertanto tenuti ad indicare tutte le condanne riportate, non potendo essi operare alcun "filtro" in sede di domanda/dichiarazione di partecipazione alla gara, ciò implicando un giudizio inevitabilmente soggettivo inconciliabile con la finalità della norma di cui all'art. 38, punto 1, lett. 1), d.Lgs. 12.04.2006, n. 163.

2. Ciò premesso ritiene il Collegio che la disamina dell’incartamento processuale induce a ritenere che la condotta tenuta da parte appellante fu gravemente decettiva se non anche fraudolenta, e che nessuna delle critiche appellatorie sia condivisibile.
2.1. Il bando di gara obbligava l’offerente (id est: i soggetti della compagine tenuti all’obbligo ex art. 38 del TU contratti pubblici) a dichiarare tutte le condanne subìte.
Ciò mercé una autodichiarazione.
Tale obbligo declaratorio omnicomprensivo, era perfettamente in linea con l’orientamento della giurisprudenza a più riprese affermato ancora di recente, secondo il quale (Cons. Stato Sez. IV, 25.03.2014, n. 1456, Cons. Stato Sez. IV, 22.03.2012, n. 1646) nelle gare d'appalto le valutazioni in ordine alla gravità delle eventuali condanne riportate dai concorrenti e la loro incidenza sulla moralità professionale spettano esclusivamente alla amministrazione appaltante e non già ai concorrenti, i quali sono pertanto tenuti ad indicare tutte le condanne riportate, non potendo essi operare alcun "filtro" in sede di domanda/dichiarazione di partecipazione alla gara, ciò implicando un giudizio inevitabilmente soggettivo inconciliabile con la finalità della norma di cui all'art. 38, punto 1, lett. 1), d.Lgs. 12.04.2006, n. 163 (d.lgs. n. 163/2006 - Codice degli appalti).
2.2. A fronte della chiarissima specificazione contenuta nel bando, e comunque dell’orientamento conforme della giurisprudenza di cui s’è detto, non v’era dubbio che l’appellante fosse tenuto a dichiarare tutte le condanne riportate.
2.3. Callidamente, l’appellante ha aggirato tale obbligo: ha evitato di rendere la detta autodichiarazione; ha prodotto un certificato del casellario rilasciato su richiesta del privato che non riportava una delle condanne subite, apparentemente utilizzandolo quale “equipollente della richiesta autodichiarazione”.
Che si sia trattato di una condotta tesa ad eludere l’obbligo di legge e del bando, e che la buona fede sia del tutto esclusa, è dimostrato pienamente dal fatto che:
a) la condanna non menzionata nel certificato prodotto era stata resa ex art. 444 cpp. e, quindi, su richiesta dell’appellante medesimo e/o con il suo consenso;
b) egli quindi ne conosceva benissimo l’esistenza (qualche dubbio, invece, forse, si sarebbe potuto avere nell’ipotesi di decreto penale di condanna non tempestivamente opposto);
c) a tutto concedere, ammesso che l’intendimento originario non fosse fraudolento ed egli volesse soltanto surrogare con la detta produzione la richiesta autodichiarazione, l’appellante al momento della produzione del certificato ben conosceva che lo stesso mancava di completezza rispetto alla prescrizione della lex specialis ed avrebbe dovuto integrarla (condotta che si è ben guardato dal compiere).
In altre parole: quantomeno al momento in cui –richiesto ed ottenuto il certificato che aveva intenzione di produrre in luogo di ottemperare puramente e semplicemente alla prescrizione del bando- venne in possesso del certificato predetto, l’appellante ben sapeva che esso non recava menzione di una condanna riportata.
E ben sapeva quindi che, producendo il detto certificato incompleto, violava (non più soltanto formalmente ma anche nella sostanza) una esplicita prescrizione del bando, tanto da impegnarsi in una più complessa ed “onerosa” condotta (quella di richiedere un certificato alla competente amministrazione) piuttosto che rendere una semplice autodichiarazione, come previsto dal bando.
Pare al Collegio evidente che la detta condotta fosse preordinata ad eludere l’obbligo predetto, e volesse giovarsi della incompletezza del certificato prodotto, non rischiando però, al contempo, di incorrere nel reato di false dichiarazioni: alla stregua di tale volutamente articolata ed elusiva condotta, collidente frontalmente con la prescrizione della lex specialis, sono recessive tutte le considerazioni in punto di omessa gravità della condanna, della circostanza che la condanna non dichiarata era identica o simile ad altra nota alla stazione appaltante e non ritenuta ostativa, etc.
In disparte, infatti, che è ben diversa, anche sotto il profilo soggettivo e della complessiva affidabilità,la posizione di chi abbia riportato una sola condanna rispetto a quella di chi ne abbia riportato più d’una (circostanza, questa, dimostrativa di una serialità di condotte illecite) appare infatti del tutto assorbente, sotto il profilo valutativo la strumentale violazione del bando e la palese finalizzazione della stessa ad eludere la prescrizione di legge: ciò per tacere della inconferenza di tutte le considerazioni in punto di non “volontarietà” della condotta.
Lo si ripete: ammessa (e non concessa) una supposta buona fede iniziale (che si nega, comunque, atteso che non si vede perché, se non al fine di evitare di incorrere nel reato di false dichiarazioni impunemente omettendo di dichiarare la seconda condanna l’appellante si fosse premurato di richiedere un certificato, pur potendosi limitare a rendere l’autodichiarazione), al momento della produzione del certificato l’appellante ben sapeva che esso rappresentava una condizione (una sola condanna subita) non vera: la non veridicità intenzionale emerge in modo manifesto, e bene ha fatto la stazione appaltante ad adottare la statuizione espulsiva (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.11.2014 n. 5524 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Cauzione provvisoria. Finalità. Esclusione di concorrente per difetto dei requisiti generali di ammissione. Incameramento. Legittimità.
1. L’art. 75, comma 6, cod. contratti prevede la possibilità per la stazione appaltante di incamerare la cauzione provvisoria in tutte le ipotesi di mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell’affidatario e la sua natura è di tipo sanzionatorio.
Sebbene, in origine, nelle procedure ad evidenza pubblica per la scelta del contraente la cauzione avesse avuto la funzione di garantire l’Amministrazione per il caso in cui l’affidatario non si presentasse poi a stipulare il relativo contratto (cfr. art. 332 legge n. 2248/ 1865, allegato F; gli artt. 2 e 4 DPR n. 1063 del 1962; art. 30 legge 109 del 1994), nel vigore del codice dei contratti, la cauzione è stata considerata come condizione volta a garantire l’affidabilità dell’offerta (non solo in vista dell’aggiudicazione) nonché la serietà e la correttezza del procedimento di gara.
2. L’incameramento della cauzione provvisoria va configurato come misura sanzionatoria costituente conseguenza automatica del provvedimento di esclusione. Nell’ipotesi di mancata sottoscrizione del contratto “per fatto dell’affidatario” deve farsi rientrare non solo il rifiuto di stipulare, ma anche il rilevato difetto dei requisiti generali previsti dall’art. 38 codice contratti.
3. Va incamerata la cauzione laddove un concorrente risulti privo del requisito di ordine generale relativo alla regolarità della posizione tributaria, a nulla rilevando che la lex specialis della gara avesse limitato a due sole diverse ipotesi la possibilità di irrogazione della sanzione de qua, la norma di cui all’art. 75, comma 6°, codice contratti ha infatti un chiara valenza eterointegrativa, dal contenuto coercitivo e immediatamente applicabile, che va ad integrare in maniera automatica la disciplina di gara, attese appunto la ratio sottesa alla cauzione (garanzia della gara) e la natura giuridica riconducibile all’incameramento della stessa (sanzione automatica del provvedimento di esclusione) in relazione alla intervenuta, accertata ipotesi di difetto di requisiti generali di ammissione alla gara.

L’art. 75, comma VI, del dlgs n. 163/2006 prevede la possibilità per la stazione appaltante di incamerare la cauzione provvisoria in tutte le ipotesi di mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell’affidatario e la sua natura è di tipo sanzionatorio.
Nelle procedure ad evidenza pubblica per la scelta del contraente la cauzione ha avuto, in base all’allora vigente normativa, la funzione di garantire l’Amministrazione per il caso in cui l’affidatario non si presentasse poi a stipulare il relativo contratto (vedi art. 332 legge n. 2248/1865, allegato F; gli artt. 2 e 4 DPR n. 1063 del 1962; art. 30 legge 109 del 1994 (legge Merloni) .
Recentemente però, sia in tempi antecedenti l’entrata in vigore del Codice dei Contratti sia in ispecie in vigenza del dlgs n. 163/2006, la cauzione è stata considerata come condizione volta a garantire l’affidabilità dell’offerta (non solo in vista dell’aggiudicazione) nonché la serietà e la correttezza del procedimento di gara (Cons. Stato Sez. V 15/11/2001 n. 5843; idem 28/06/2004; Adunanza Plenaria n. 8/2005).
Conseguentemente l’incameramento della cauzione provvisoria è stato configurato come misura sanzionatoria costituente conseguenza automatica del provvedimento di esclusione (Cons. Stato Sez. V 10/09/2012 n. 4778); ed inoltre, circostanza decisamente rilevante, in sede di attività esegetica riguardante la interpretazione del citato art. 75, comma VI, dlgs n. 163/2006 è stato affermato il principio per cui nell’ipotesi di mancata sottoscrizione del contratto “per fatto dell’affidatario” deve farsi rientrare non solo il rifiuto di stipulare, ma anche il rilevato difetto dei requisiti generali previsti dall’art. 38 del suindicato dlgs n. 163/2006, tra cui quello (interessante la Società appellata ) relativo alla regolarità della posizione tributaria, come fondatamente contestato dalla stazione appaltante e correttamente rilevato dal TAR (cfr. Cons. Stato Ad. Pl. 04/05/2012 n. 8; Cons. Stato Sez. V 17/01/2014 n. 169; questa Sezione 24/03/2014 n. 1389).
Alla luce della regula iuris venutasi a formare, non appare condivisibile invocare da parte del primo giudice, quale ragione di esclusione di applicazione dell’incameramento, la normativa specifica prevista dalla lex specialis della gara de qua che limitava a due sole diverse ipotesi la possibilità di irrogazione della sanzione in questione
Invero, la norma di cui all’art. 75, comma VI, del dlgs ha un chiara valenza eterointegrativa, dal contenuto coercitivo e immediatamente applicabile, che va appunto ad integrare in maniera automatica la disciplina di gara, attese appunto la ratio sottesa alla cauzione (garanzia della gara) e la natura giuridica riconducibile all’incameramento della stessa (sanzione automatica del provvedimento di esclusione) in relazione alla intervenuta, accertata ipotesi di difetto di requisiti generali di ammissione alla gara.
Né appare condivisibile l’argomentazione svolta dalla parte resistente in ordine al ritenuto illegittimo incameramento della cauzione con riferimento a tutti i lotti di cui constava la gara, laddove ai fini all’esame non è possibile procedere (come erroneamente ha inteso far valere la difesa di Eurosoggiorni srl) ad un frazionamento della procedura selettiva.
Invero, alla luce di quanto sin qui illustrato non rileva che Eurosoggiorni si sia aggiudicato il solo lotto 7, poiché, come già detto, la cauzione provvisoria attiene all’ammissione alla gara, dovendo accompagnare l’offerta che si presenta, quale condizione di affidabilità della stessa e a tutela della procedura selettiva, e se così è appare evidente che la sanzione non può non riguardare la cauzione prestata per la gara intesa nella sua interezza e quindi in relazione anche a tutti i lotti della procedura selettiva rispetto ai quali va verificato il possesso dei requisiti generali (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato., Sez. IV, sentenza 11.11.2014 n. 5516 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ricorso giurisdizionale. Sospensione feriale dei termini. Domanda cautelare. Formulazione successivamente a tale periodo. Ricevibilità.
La deroga alla sospensione del decorso dei termini processuali relativi alle giurisdizioni ordinarie ed a quelle amministrative dal 1° agosto al 15 settembre, ai sensi della Legge 7.10.1969 n. 742, prevista per la fase cautelare del giudizio opera esclusivamente nel senso di consentire anche in periodo feriale la trattazione della domanda cautelare nel rispetto dei termini ordinari all'uopo previsti, mentre non produce alcun effetto con riguardo ai termini di notifica e deposito del ricorso introduttivo e ad ogni altro successivo termine processuale finalizzato alla trattazione del gravame nel merito.
Invero, tale deroga è volta soltanto a dare all'interessato la facoltà di proporre l'impugnativa immediatamente, anche durante il periodo feriale, se ritenga urgente l'esame cautelare, ovvero successivamente alla scadenza di tale periodo, ferma comunque la possibilità di formulare la domanda cautelare.

Va rigettata l’eccezione di irricevibilità del presente ricorso, notificato il data 12.10.2013 avverso l’epigrafato provvedimento di aggiudicazione, pubblicato in data 28.08.2013, poiché la deroga alla sospensione del decorso dei termini processuali relativi alle giurisdizioni ordinarie ed a quelle amministrative dal 1° agosto al 15 settembre, ai sensi della Legge 7.10.1969 n. 742, prevista per la fase cautelare del giudizio opera esclusivamente nel senso di consentire anche in periodo feriale la trattazione della domanda cautelare nel rispetto dei termini ordinari all'uopo previsti, mentre non produce alcun effetto con riguardo ai termini di notifica e deposito del ricorso introduttivo e ad ogni altro successivo termine processuale finalizzato alla trattazione del gravame nel merito.
Invero, tale deroga è volta soltanto a dare all'interessato la facoltà di proporre l'impugnativa immediatamente, anche durante il periodo feriale, se ritenga urgente l'esame cautelare, ovvero successivamente alla scadenza di tale periodo, ferma comunque la possibilità di formulare la domanda cautelare (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 11.11.2014 n. 1849 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: 1. Gare pubbliche. Valutazione di anomalia delle offerte. Istituzione di commissione tecnica. Competenza. Non appartiene in via esclusiva al RUP.
Ai sensi dell’art. 88, comma 1-bis, codice contratti, la stazione appaltante, ove lo ritenga opportuno, può istituire una commissione al fine di valutare la congruità delle offerte, l’inciso “stazione appaltante” va inteso nel senso che non sussiste in capo al RUP, pur normalmente di ausilio alla commissione tecnica incaricata di valutare la congruità dell'offerta, alcuna competenza specifica a procedere alla nomina di una commissione tecnica, potendovi provvedere altro funzionario competente, idoneo a rappresentare la stazione appaltante.
2. Offerte anomale. Valutazione. È riservata alla stazione appaltante. Sindacato in sede giurisdizionale. Limiti.
Nelle gare d’appalto, in sede di verifica dell’anomalia dell’offerta, il giudizio della stazione appaltante costituisce esplicazione paradigmatica di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di illogicità manifesta o di erroneità fattuale.
3. (segue): giudizi di verifica di congruità delle offerte. Natura globale e sintetica. Necessità.
Nelle procedure di evidenza pubblica, il giudizio di verifica della congruità di un’offerta anomala ha natura globale e sintetica sulla serietà dell’offerta nel suo insieme, con conseguente irrilevanza di singole voci di scostamento.
4. (segue): tabelle ministeriali sul costo del lavoro. Mancato rispetto. Non costituisce circostanza decisiva.
4.1. Il giudizio di anomalia non può essere desunto automaticamente dal mancato rispetto delle tabelle ministeriali, richiamate dall'art. 87, comma 2, lett. g), del codice dei contratti pubblici, poiché i costi medi del lavoro, indicati nelle tabelle predisposte dal Ministero del Lavoro, in base ai valori previsti dalla contrattazione collettiva, non costituiscono parametri inderogabili ma costituiscono indici del giudizio di adeguatezza dell'offerta, fermo restando il rispetto del trattamento salariale minimo, che resta inderogabile.
4.2. L'eventuale scostamento dai minimi tabellari non costituisce, di per sé, presupposto per l'automatica esclusione dell'offerta, ma implica che le giustificazioni presentate dal concorrente assumano rilievo quali indici del giudizio di congruità dell'offerta in sede di valutazione dell'anomalia della medesima, fermo restando che un maggiore scostamento costituisce indice di maggiore anomalia dell’offerta.
4.3. Possono essere considerate anormalmente basse le offerte che si discostino in modo evidente dai costi medi del lavoro indicati nelle tabelle predisposte dal Ministero del Lavoro, ma va esclusa l'anomalia ove sia dimostrato che il concorrente (nella specie, società cooperativa), benefici di agevolazioni previdenziali e fiscali.

2. Con il primo mezzo, la ricorrente deduce che la Commissione Tecnica non sarebbe stata nominata non dal R.U.P. ma, con Determinazione n. 7 del 29.07.2013, dal -OMISSIS-, che avrebbe altresì rivestito la funzione di Presidente della Commissione di gara. Inoltre, dopo il deposito del parere da parte della Commissione Tecnica, non avrebbe provveduto la Commissione di gara ad esprimere la valutazione definitiva sulla congruità delle giustificazione della offerta della controinteressata “Adiss Multiservice sca”, ma il -OMISSIS-, con la Determinazione n. 112 del 09.08.2013.
L’art. 11, comma 5, del D.Lgs. n. 163/2006, prevede che la stazione appaltante, “previa verifica dell’aggiudicazione provvisoria, ai sensi dell’art. 12, comma 1, provvede all’aggiudicazione definitiva”.
Invero, il -OMISSIS-, quale organo competente ad adottare l’aggiudicazione definitiva ed a provvedere al controllo della regolarità degli atti di gara, può procedere alla nomina di una commissione tecnica, ai fini della valutazione della congruità dell’offerta della prima classificata.
Conseguentemente, non può ritenersi che la legge abbia posto un obbligo di rivalutazione e di riesame, in capo alla Commissione di Gara, a seguito di un’attività di verifica con esito positivo, anche al fine di evitare un aggravio procedimentale.
2. Con il secondo mezzo, la ricorrente società deduce che, nella specie, in violazione dell'art. 88, comma I-bis, del D.L.vo 163/2006, alla istituzione ed alla nomina della Commissione Tecnica avrebbe provveduto, con l’impugnata Determinazione n. 7/20013, -OMISSIS-, che però, nel contempo, avrebbe anche ricoperto le funzioni di Presidente della Commissione di Gara, con conseguente incompatibilità.
L’art. 84, 3° comma, del D.Lgs. 12/04/2006, n. 163 prevede che, di norma, che un -OMISSIS- della stazione appaltante possa essere anche nominato Presidente di una Commissione di Gara.
L’art. 88, comma 1-bis, del D.Lgs. 12/04/2006, n. 163 stabilisce: “La stazione appaltante, ove lo ritenga opportuno, può istituire una commissione secondo i criteri stabiliti dal regolamento per esaminare le giustificazioni prodotte; ove non le ritenga sufficienti ad escludere l'incongruita' dell'offerta, richiede per iscritto all'offerente le precisazioni ritenute pertinenti”.
L’inciso “stazione appaltante” va inteso nel senso che non sussiste in capo al RUP, pur normalmente di ausilio alla commissione tecnica incaricata di valutare la congruità dell'offerta, alcuna competenza specifica a procedere alla nomina di una commissione tecnica, potendovi provvedere altro funzionario competente, idoneo a rappresentare la stazione appaltante.
Invero, non è revocabile in dubbio che, nel novero delle competenze assommabili in capo al -OMISSIS-, possano essere ricomprese tutte le funzioni amministrative direttamente riferibili alla direzione di gara ed alla verifica tecnica del suo corretto svolgimento (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. V, 18.09.2003 n. 5322; 14.02.2003 n. 805).
Pertanto, la censura non merita adesione.
3. Con il terzo mezzo, la ricorrente deduce che l’Amministrazione avrebbe erroneamente ritenuto congrua l’offerta della ditta aggiudicataria, con particolare riferimento alle valutazioni concernenti il costo del lavoro.
Va premesso che, nelle gare d’appalto, in sede di verifica dell’anomalia dell’offerta, il giudizio della stazione appaltante costituisce esplicazione paradigmatica di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di illogicità manifesta o di erroneità fattuale (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. VI, 07.09.2012 n. 4744; TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, 05.04.2012 n. 348).
Nelle procedure di evidenza pubblica, il giudizio di verifica della congruità di un’offerta anomala ha natura globale e sintetica sulla serietà dell’offerta nel suo insieme, con conseguente irrilevanza di singole voci di scostamento (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. IV, 23.07.2012 n. 4206; Cons. Stato, Sez VI, 07.09.2012 n. 4744; Cons. Stato, Sez. III, 13.09.2012 n. 4877).
A tale stregua, il giudizio di anomalia non può essere desunto automaticamente dal mancato rispetto delle tabelle ministeriali, richiamate dall'art. 87, comma 2, lett. g), del codice dei contratti pubblici, poiché i costi medi del lavoro, indicati nelle tabelle predisposte dal Ministero del Lavoro, in base ai valori previsti dalla contrattazione collettiva, non costituiscono parametri inderogabili ma costituiscono indici del giudizio di adeguatezza dell'offerta, fermo restando il rispetto del trattamento salariale minimo, che resta inderogabile.
Sotto questo profilo, pertanto, l'eventuale scostamento dai minimi tabellari non costituisce, di per sé, presupposto per l'automatica esclusione dell'offerta, ma implica che le giustificazioni presentate dal concorrente assumano rilievo quali indici del giudizio di congruità dell'offerta in sede di valutazione dell'anomalia della medesima, fermo restando che un maggiore scostamento costituisce indice di maggiore anomalia dell’offerta (ex plurimis: Cons. Stato: Sez. IV, 23.07.2012, n. 4206; Sez. V, 27.05.2014 n. 2752; Sez. III, 26.01.2012 n. 343).
In tale ottica, possono essere considerate anormalmente basse le offerte che si discostino in modo evidente dai costi medi del lavoro indicati nelle tabelle predisposte dal Ministero del Lavoro, ma, nella specie, le giustificazioni rese dalla controinteressata, con gli allegati del 26.03.2013, le integrazioni e chiarimenti forniti alle giustificazioni del 03.05.2013 ed le precisazioni rese nel contraddittorio del 21.05.2013 non evidenziano profili di macroscopica illogicità, tenendo conto che i costi applicati dalla Adiss saranno: categoria D1 € 15,90; categoria D3 € 17,94, categoria D2 € 18,45, categoria E € 20,30), tenuto altresì conto delle agevolazioni previdenziali e fiscali di cui usufruiscono le cooperative.
Inoltre, la controinteressata “Adiss Multiservice sca” evidenzia che la "paga base", presentata nella sua offerta economica, è la paga contrattuale stabilita dal CCNL di settore, per cui non vi sono, nella specie, violazioni dei minimi tabellari (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 11.11.2014 n. 1849 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: 1. Ordinanza di rimozione di rifiuti. Violazione divieto di deposito o abbandono rifiuti nocivi commessa dal locatario. Art. 192, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006. Responsabilità solidale del proprietario del sito. Imputabilità soggettiva.
1.1. Ai sensi dell’art. 192, comma 3, del D.Lgs. n. 152/2006, è tenuto a procedere alla rimozione dei rifiuti -in solido con l’autore della violazione- il proprietario dell’area al quale la violazione del divieto di deposito o abbandono di rifiuti sia imputabile a titolo di dolo o colpa.
E anche la giurisprudenza ha affermato la necessità di un ruolo in termini quanto meno di “colpa” del proprietario non autore o coautore dell’accumulo/abbandono dei rifiuti.
1.2. La mera “titolarità giuridica” del bene è elemento insufficiente per compiere un’imputazione di responsabilità, in modo automatico per (il solo) status. L’obbligo di rimozione deve invece trovare fondamento in “elementi ulteriori caratterizzanti la condotta del proprietario”; solo in tal caso il proprietario del sito diventa imputabile, unitamente a colui che ha posto in essere la condotta illecita.
1.3. Nel caso in cui la violazione del divieto di deposito/abbandono di rifiuti sia perpetrata dall’impresa affittuaria di un’area, il proprietario che eserciti poteri di accesso all’area medesima in forza di peculiari disposizioni contrattuali che prevedono l’utilizzazione del sito anche da parte della proprietà, è nelle condizioni di poter conoscere ed apprezzare la natura e la tipologia dei materiali accumulati, nonché i rischi per l’ambiente derivanti dall’attività svolta dall’affittuaria.
La “frequentazione” del sito determina quindi una consapevolezza dello stato dei luoghi che si traduce nell’insorgenza di responsabilità a titolo di “colpa” in capo al proprietario del sito, che dunque risponderà in concorso con l’autore materiale dell’illecito.
1.4. Il proprietario di un'area interessata dalla presenza di rifiuti, acquisita consapevolezza del fatto, deve attivarsi immediatamente per la loro rimozione anche agendo in giudizio nei confronti del locatario. Sul proprietario grava dunque un “onere di controllo” sull’attività svolta dall’affittuario.

L’ordinanza sindacale impugnata è stata assunta ai sensi dell’art. 192, comma 3, del D.Lgs. 152/2006, ed è finalizzata alla “RIMOZIONE” dell’accumulo di materiali e rifiuti tossici nel terreno.
I materiali si riferiscono all’attività svolta nell’ambito dell’ impianto di produzione di conglomerati bituminosi gestito dalla ditta Sarcobit. Nel 2009 la Sarcobit ha poi affittato il ramo d’azienda alla CAIS srl e tale contratto è stato confermato dal Fallimento Sarcobit.
L’attività Sarcobit-Cais si svolge su terreno concesso in affitto (dal 1979) dall’odierno ricorrente Ruggiu.
L’ordinanza impugnata ha per oggetto l’organizzazione del trasporto in discarica di materiali già accumulati in loco e derivanti dall’attività svolta da Sarcobit-Cais.
In particolare ciò lo si ricava dalle premesse della precedente ordinanza 1/2013, ove si rammenta che il Nucleo Operativo ecologico dei Carabinieri aveva verificato (il 17.01.2013) che la bonifica da sversamento sul suolo di olio combustibile (verificatosi nel luglio 2012) era stata solo parzialmente eseguita con l’asportazione del primo strato di asfalto, con insaccamento del materiale all’interno di 13 big bags, che si trovano però ancora “stoccati” in una porzione di area limitrofa a quella oggetto dell’intervento e mai concretamente avviati allo smaltimento. La ditta esterna incaricata (SEN AMBIENTE) si era limitata alla bonifica del terreno (nel luglio 2012) con l’insaccamento dei rifiuti, lasciati abbandonati nell’area, senza procedere al conseguente doveroso smaltimento.
L’oggetto delle attività da compiere sono state sufficientemente indicate nell’ordinanza, nei 3 punti indicati a pag. 3 del provvedimento:
- avvio allo smaltimento rifiuti a seguito della bonifica dell’area interessata allo sversamento di olio combustibile (13 big bags stoccati);
- bonifica della vasca di contenimento e delle porzioni di terreno limitrofe al muretto di contenimento;
- ripristino dei luoghi con rimozione dei due cumuli di circa 4.000 mc. di rifiuti costituiti da miscele bituminose.
Il contenuto del provvedimento era dunque specifico e determinato, in termini di <rimozione dei materiali inquinanti presenti sull’area>.
Trattandosi di ordinanza emanata in applicazione dell’art. 192, comma 3, del D.Lgs. 152/2006 saranno esaminati i primi 6 vizi, sviluppati in relazione a questo presupposto normativo (“RIMOZIONE RIFIUTI”), non essendo stata imposta dal Sindaco una attività di “bonifica”, ma di mero ripristino dello stato dei luoghi, con rimozione del materiale inquinante accumulato sull’area.
1 e 2) Il ricorrente sostiene di essere proprietario “estraneo e incolpevole” in riferimento alle attività svolte dalla Sarcobit-Cais.
La norma e la giurisprudenza elaborata in materia implica la necessaria “imputabilità soggettiva” della condotta del proprietario dell’area, affermando la necessità di un ruolo in termini quanto meno di “colpa” del proprietario non autore o coautore dell’accumulo/abbandono dei rifiuti.
Si richiama sul punto la giurisprudenza, anche di questo Tar:
- Tar Sardegna, I, 05.06.2012 n. 560 e le pronunzie ivi citate del Consiglio di Stato Sez. V n. 1384 04.03.2011; Sez. II n. 2518 14.07.2010; V sez. n. 1612 del 19.03.2009; TAR Lazio Sez. II-ter n. 2388 del 18.03.2011; Tar Emilia Romagna, Parma, n. 281 dell’08.06.2010; TAR Lazio Sez. II 3582 del 10.05.2005;
- Dunque “In base all'art. 192 del D.Lgs. n. 152/2006, in caso di abbandono e deposito di rifiuti, si deve affermare l'obbligo del recupero smaltimento e ripristino dello stato dei luoghi all'autore dell'abuso, in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento dell'area ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o di colpa”. (C.S. Sez. V n. 4073 del 25.06.2010; Sez. V, n. 807 del 04.03.2008) .
- “L'art. 14 del D.Lvo. 05/02/1997, n. 22 oggi sostituito dall'art. 192, co. 3, del D.Lvo. 03/04/2006, n. 152 ("Norme in materia ambientale") prevede la <corresponsabilità solidale del proprietario> o del titolare di diritti personali o reali di godimento sull'area ove sono stati abusivamente abbandonati o depositati rifiuti, con il conseguente suo obbligo di provvedere allo smaltimento ed al ripristino, ma solo in quanto la violazione sia imputabile anche a quei soggetti a titolo di <dolo o colpa>” (C.S. sez. IV n. 84 del 13.01.2010, che ha riformato TAR Campania, Napoli, sez. I, n. 1291/2002).
La mera “titolarità giuridica” del bene è dunque elemento insufficiente per compiere un’imputazione di responsabilità, in modo automatico per (il solo) status. L’obbligo di rimozione deve trovare fondamento in “elementi ulteriori caratterizzanti la condotta del proprietario”. Solo in tal caso diventa anch’esso imputabile, unitamente a colui che ha posto in essere la condotta illecita.
Nel caso in esame il proprietario dell’area era nelle condizioni di poter conoscere ed apprezzare la natura e la tipologia dei materiali accumulati, nonché i rischi per l’ambiente derivanti dall’attività svolta dall’affittuaria Sarcobit.
Ciò in considerazione della sua presenza sui luoghi derivata dall’esercizio delle attività ivi esercitate (deposito materiale, fornitura materiali alla Sarcobit).
La “frequentazione” del sito (stante il contenuto del contratto di affitto), per gli accumuli/depositi e per le forniture di inerti determina una consapevolezza dello stato dei luoghi che si traduce nell’insorgenza di responsabilità a titolo di “colpa” in capo al proprietario-fornitore-utilizzatore in proprio del sito.
Ne consegue la possibilità di individuare anche il proprietario come destinatario dell’ordine di rimozione dei materiali bituminosi lavorati dalla società Sarcobit-Cais.
Il ricorrente aveva, infatti, estesi poteri di accesso ai luoghi e poteva inoltre verificare le modalità di esercizio delle attività svolte dalla Sarcobit-Cais.
L’essere “fornitore” in esclusiva di materiale (come risulta dal contratto d’affitto) sebbene non implicasse una collaborazione nell’attività, che rimane propria della sola società esercente l’impianto, pur tuttavia consentiva la piena conoscenza dello stato dei luoghi e dell’avvenuto stoccaggio dei materiali inquinanti.
Si è dunque concretizzata una corresponsabilità in ordine alla permanenza dei rifiuti in loco, con tollerata conoscenza, da parte della proprietà, dell’illecito accumulo dei residui inquinati da rimuovere.
La Cassazione, sez. III civile, del 22.03.2011 n. 6525 ha affermato che “Il proprietario di un'area interessata dalla presenza di rifiuti, acquisita consapevolezza del fatto, deve attivarsi immediatamente per la loro rimozione anche agendo in giudizio nei confronti del locatario. Viceversa, l'accordo stipulato con il locatario per eliminare i rifiuti entro un certo termine, anche se breve, fa sorgere in capo al proprietario una corresponsabilità insieme all'autore materiale dell'illecito ai sensi dell'art. 14 d.lgs. n. 22 del 1997”.
In capo al proprietario dell’area sussisteva dunque la conoscenza dello stato di fatto, avendo egli pieno accesso al sito, in forza di peculiari disposizioni contrattuali che lo legavano con Sarcobit e che prevedevano l’utilizzazione delle aree anche da parte della proprietà.
Sulla base di tali elementi il Collegio ritiene che sussistevano i presupposti per l’individuazione della responsabilità in “concorso” del proprietario nel deposito e accumulo dei rifiuti nocivi, compiuto dalle ditte produttrici.
Sul proprietario gravava un “onere di controllo” sull’attività svolta dalla società Sarcobit-Cais , rivelatasi illecita sotto l’aspetto ambientale.
In sostanza, a giudizio del Collegio è rinvenibile, nel caso in esame, una “corresponsabilità solidale” a carico del proprietario, a titolo di <colpa>, per l’inerzia nella rimozione dei rifiuti.
Nell’esame della condotta non è sufficiente la mera diffida, del gennaio 2010, inviata dal proprietario al fallimento Sarcobit, per l’esecuzione delle operazioni di bonifica del sito (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 11.11.2014 n. 928 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: 1. Domanda di accesso agli atti. Requisiti. Determinatezza. Specificità. Motivazione.
1.1. La domanda di accesso deve avere un oggetto determinato o quanto meno determinabile, e non può essere generica; in particolare, essa deve riferirsi a specifici documenti e non può pertanto comportare la necessità di un’attività di elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario della richiesta.
1.2. L'istanza di accesso deve essere finalizzata alla tutela di uno specifico interesse giuridico di cui il richiedente è portatore. Essa, dunque, non può essere uno strumento di controllo generalizzato dell’operato della pubblica amministrazione ovvero del gestore di pubblico servizio nei cui confronti l’accesso viene esercitato; né può essere un mezzo per compiere una indagine o un controllo ispettivo, cui sono ordinariamente preposti organi pubblici, perché in tal caso nella domanda di accesso è assente un diretto collegamento con specifiche situazioni giuridicamente rilevanti.
1.3. Chiunque inoltri una richiesta di accesso è tenuto ad indicare la propria posizione legittimante al fine della tutela di situazioni giuridicamente rilevanti e deve, altresì, fornire la motivazione della richiesta stessa.

2. Diritto di accesso. Presupposti. Titolarità. Interesse giuridicamente rilevante. Tutela. Rapporto di strumentalità tra l’interesse e la documentazione richiesta.
2.1. Il diritto di accesso non si configura mai come un’azione popolare (fatta eccezione per il peculiare settore dell’accesso ambientale), ma postula sempre un accertamento concreto dell’esistenza di un interesse differenziato della parte che richiede i documenti.
2.2. Anche se il diritto di accesso è volto ad assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa e a favorirne lo svolgimento imparziale (come recita l'art. 22, l. n. 241/1990), rimane fermo che l'accesso è consentito soltanto a coloro ai quali gli atti stessi, direttamente o indirettamente si rivolgono, e che se ne possano eventualmente avvalere per la tutela di una posizione soggettiva; la quale, anche se non deve assumere necessariamente la consistenza del diritto soggettivo o dell'interesse legittimo, deve essere però giuridicamente tutelata non potendo identificarsi con il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell' attività amministrativa.
2.3. Ai fini della sussistenza del presupposto legittimante per l'esercizio del diritto di accesso deve esistere un interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l'accesso, che il medesimo soggetto intende perseguire e tutelare nelle sedi opportune, ed un rapporto di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l'ostensione.
Tale nesso di strumentalità deve, peraltro, essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell'interesse giuridicamente rilevante, e non strum
ento di prova diretta della lesione di tale interesse.

4.- Gioverà ricordare che la giurisprudenza amministrativa, in materia di accesso agli atti, risulta consolidata sulle seguenti posizioni, sinteticamente rassegnate da Cons. St. n. 555 del 2006, che in questa sede si richiamano, quale riferimento utile per delimitare le coordinate della materia in esame:
- la domanda di accesso deve avere un oggetto determinato o quanto meno determinabile, e non può essere generica;
- la domanda di accesso deve riferirsi a specifici documenti e non può pertanto comportare la necessità di un’attività di elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario della richiesta (C. Stato, sez. VI, 20.05.2004, n. 3271; C. Stato, sez. VI, 10.04.2003, n. 1925; C. Stato, sez. V, 01.06.1998, n. 718);
- la domanda di accesso deve essere finalizzata alla tutela di uno specifico interesse giuridico di cui il richiedente è portatore (C. Stato, sez. VI, 30.09.1998, n. 1346);
- la domanda di accesso non può essere uno strumento di controllo generalizzato dell’operato della pubblica amministrazione ovvero del gestore di pubblico servizio nei cui confronti l’accesso viene esercitato (C. Stato, sez. IV, 29.04.2002, n. 2283; C. Stato, sez. VI, 17.03.2000, n. 1414);
- la domanda di accesso non può essere un mezzo per compiere una indagine o un controllo ispettivo, cui sono ordinariamente preposti organi pubblici, perché in tal caso nella domanda di accesso è assente un diretto collegamento con specifiche situazioni giuridicamente rilevanti (C. Stato, sez. IV, 29.04.2002, n. 2283; Tar Lazio, sez. II, 22.07.1998, n. 1201);
- il diritto di accesso non si configura mai come un’azione popolare (fatta eccezione per il peculiare settore dell’accesso ambientale), ma postula sempre un accertamento concreto dell’esistenza di un interesse differenziato della parte che richiede i documenti.
In particolare, l’interesse alla conoscenza non può essere negato a priori, ma va provato, di volta in volta, considerando accuratamente tutti i concreti profili della richiesta di accesso.
Pertanto, anche se il diritto di accesso è volto ad assicurare la trasparenza dell'attività amministrativa e a favorirne lo svolgimento imparziale (come recita l'art. 22, l. n. 241/1990), rimane fermo che l'accesso è consentito soltanto a coloro ai quali gli atti stessi, direttamente o indirettamente si rivolgono, e che se ne possano eventualmente avvalere per la tutela di una posizione soggettiva; la quale, anche se non deve assumere necessariamente la consistenza del diritto soggettivo o dell'interesse legittimo, deve essere però giuridicamente tutelata non potendo identificarsi con il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell' attività amministrativa.
4.a.- Ad ulteriore integrazione di quanto sopra, va precisato che la giurisprudenza ha esplorato con attenzione il versante dello specifico interesse giuridico di cui il richiedente è portatore (C. Stato, sez. VI, 30-09-1998, n. 1346), soffermandosi, in particolare, sulla necessaria correlazione tra l’interesse all’accesso e gli atti alla cui ostensione è finalizzata.
4.a.1.- Quanto allo specifico interesse, si richiama ex multis Cons. St. n. 5873 del 2004 che di seguito si riporta, in quanto condiviso: “Orbene, per avere un interesse qualificato ed una legittimazione ad accedere alla documentazione amministrativa è necessario trovarsi in una posizione differenziata ed avere una titolarità di posizione giuridicamente rilevante, che significa non titolarità di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo (ossia posizioni giuridiche soggettive piene e fondate) ma di una posizione giuridica soggettiva allo stato anche meramente potenziale. Tale limite… è dato dalla necessità di evitare che l'accesso si trasformi in azione popolare, poichè il diritto di accesso ai documenti della Pubblica amministrazione non può essere trasformato in uno strumento di “ispezione popolare”, “esplorativo” e “di vigilanza” utilizzabile al solo scopo di sottoporre a verifica generalizzata l'operato dell'Amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 22/10/2002, n. 5818). Alla luce di tali premesse, deve concludersi nel senso che ai fini della sussistenza del presupposto legittimante per l'esercizio del diritto di accesso deve esistere un interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l'accesso, che il medesimo soggetto intende perseguire e tutelare nelle sedi opportune, ed un rapporto di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l'ostensione. Tale nesso di strumentalità deve, peraltro, essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell'interesse giuridicamente rilevante, e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 22/10/2002, n. 5814)”.
4.a.2.- Quanto alla necessaria correlazione tra l’interesse all’accesso e gli atti alla cui ostensione è finalizzata, si richiama, in particolare, Tar Lazio, Roma, n. 594 del 2008 che di seguito si riporta in quanto condiviso: “Dunque, anche nell'attuale disciplina legislativa e regolamentare in materia di accesso alla documentazione amministrativa (cfr., nuova formulazione dell'art. 22 citato e conseguente regolamento approvato con d.P.R. 12.04.2006 n. 184) conserva piena applicazione l'assunto per cui, se è vero che l'accertamento dell'interesse all'accesso alla documentazione amministrativa va effettuato con riferimento alle finalità che il richiedente dichiara di perseguire e che non devono essere svolti al riguardo apprezzamenti circa la fondatezza o l'ammissibilità della domanda o della censura che sia stata proposta, nondimeno deve sempre sussistere un nesso logico-funzionale tra il fine dichiarato dal ricorrente medesimo e la documentazione da lui richiesta, con la conseguenza che il titolare del preteso diritto di accesso deve esporre non soltanto le ragioni per cui intende accedere alla documentazione anzidetta ma comprovare -ove necessario, anche giudizialmente- la coerenza di tali ragioni con gli scopi alla cui realizzazione il diritto di accesso è preordinato (cfr., TAR Veneto Venezia, sez. I, 16.10.2006, n. 3444).
In termini generali, può, pertanto, affermarsi che chiunque inoltri una richiesta di accesso è tenuto ad indicare la propria posizione legittimante al fine della tutela di situazioni giuridicamente rilevanti e deve, altresì, fornire la motivazione della richiesta stessa (cfr., TAR Lazio, Roma, 18.05.1995, n. 866; TAR Puglia, Bari, 02.11.1995, n. 1066; TAR Lazio, Roma, 26.04.2000, n. 3418; TAR Puglia, Bari, III, 07.05.2007, n. 1263; TAR Lazio, Roma, III, 15.01.2007, n. 197; TAR Veneto, Venezia, I, 16.10.2006, n. 3444).
Al riguardo, l’orientamento giurisprudenziale è consolidato nel ritenere che l'esercizio di accesso agli atti della P.A., ai sensi dell'art. 22 l. n. 241 del 1990, non è finalizzato alla verifica dell'efficienza dell'amministrazione stessa ed è, pertanto, inammissibile il relativo ricorso ove non si dimostri il diretto collegamento con specifiche situazioni giuridicamente rilevanti del soggetto ricorrente.
In definitiva, l'accesso agli atti amministrativi è consentito soltanto a coloro che vi abbiano interesse, potendosene eventualmente avvalere per la tutela di una posizione soggettiva giuridicamente rilevante, non identificabile con il generico interesse di ogni cittadino al buon andamento dell'attività amministrativa.
” (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 10.11.2014 n. 1871 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Abusi edilizi. Ingiunzione a demolire. Inottemperanza. Attività conseguente. È doverosa. Omissione. Ricorso avverso il silenzio da parte di proprietario di fondo confinante con quello inciso da abusi. Legittimazione. Sussiste.
1.1. Ove l'A.C. abbia adottato ingiunzione a demolire opere abusive, omettendo però di assumere atti e provvedimenti sanzionatori contemplati dall’art. 31, commi 3, 4, 5 e 6 del D.P.R. n. 380/2001, procedendo altresì ad acquisire al patrimonio comunale i manufatti abusivi e l’area di sedime, il proprietario di un'area o di un fabbricato, sulla cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi da parte dell'organo preposto, è titolare di un interesse legittimo all'esercizio di detti poteri e può pretendere, se non vengono adottate le misure richieste, un provvedimento che ne spieghi le ragioni.
1.2. Successivamente all'emanazione dell'ingiunzione a demolire ex art. 31 d.P.R. n. 380/2001, sussiste in capo all'A.C. l'obbligo di adottate i provvedimenti e le attività sanzionatorie di cui all’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001, una volta decorsi i 90 giorni accordati per la spontanea rimozione delle opere contestate come abusivamente realizzate con l’ordinanza a demolire.
1.3. Nell’attuale democrazia amministrativa fondata sulla piena interlocuzione dialettica fra Potere pubblico e cittadini, a fronte della richiesta del privato (legittimante qualificato) volta ad ottenere un comportamento materiale da parte della amministrazione, quale quello di eseguire concretamente un ordine demolitorio relativamente ad opere la cui abusività è stata in precedenza acclarata, la silente inerzia serbata dall'amministrazione è certamente da qualificarsi illegittima.

2. (segue): domanda di sanatoria. Presentazione. Obbligo di interlocuzione a carico della PA nei confronti del proprietario del fondo confinante con quello inciso da abusi. Sussiste.
Laddove risulti che, successivamente alla notifica dell'ingiunzione a demolire, il proprietario del bene abusivo abbia presentato domanda di accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001, l'A.C. avrebbe dovuto notiziare il privato, che aveva ritualmente sollecitato l'esercizio dei poteri di polizia edilizia, dell'avvenuta presentazione della domanda di sanatoria e, quindi, la medesima A.C., una volta scaduto il termine per pronunciarsi sulla stessa in modo espresso ovvero per il maturarsi del silenzio diniego, avrebbe dovuto dare corso agli adempimenti di competenza.
La presentazione della domanda di sanatoria non elide l’obbligo della amministrazione di interloquire fattivamente con gli interessati in ordine agli sviluppi di quella pratica amministrativa.

7.1. L’eccezione è infondata e da disattendere poiché il Collegio, sul punto, ritiene di dover aderire all’orientamento giurisprudenziale secondo cui “il proprietario di un'area o di un fabbricato, sulla cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi da parte dell'organo preposto, è titolare di un interesse legittimo all'esercizio di detti poteri e può pretendere, se non vengono adottate le misure richieste, un provvedimento che ne spieghi le ragioni” (cfr. Cons. St., IV, 02.02.2011 n. 744).
8. Deve essere anche disattesa l’istanza di sospensione del presente giudizio in attesa della definizione di quello recante il numero R.G. 850/2014, richiesta dal controinteressato ai sensi dell’art. 295 c.p.c. in quanto non sussiste alcun nesso di pregiudizialità necessaria tra i predetti processi. Infatti, il presente giudizio verte sulla legittimità del silenzio serbato dalla P.A. sull’istanza-diffida presentata dai ricorrenti ed è indipendente rispetto al giudizio avente ad oggetto la legittimità dell’ordinanza di demolizione emessa nei confronti del controinteressato.
9. Nel merito il ricorso è fondato e meritevole di accoglimento.
9.1. Con la nota prot. n. 7884 del 26.03.2014 i ricorrenti hanno diffidato il Comune resistente ad adottate i provvedimenti e le attività sanzionatorie di cui all’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 nei confronti di Enrico Pia, essendo decorsi i 90 giorni accordati per la spontanea rimozione delle opere contestate come abusivamente realizzate con l’ordinanza n. 473 del 14.11.2013.
9.2. A fronte della predetta nota è rilevabile un'inerzia imputabile all'amministrazione comunale dato che, come documentato in atti, la stessa avrebbe dovuto adottare gli atti consequenziali alla ordinanza di demolizione volti alla eliminazione degli abusi edilizi.
Non vi è dubbio che –nell’attuale democrazia amministrativa fondata sulla piena interlocuzione dialettica fra Potere pubblico e cittadini– a fronte della richiesta del privato (legittimante qualificato) volta ad ottenere un comportamento materiale da parte della amministrazione, quale quello di eseguire concretamente un ordine demolitorio relativamente ad opere la cui abusività è stata in precedenza acclarata, la silente inerzia serbata dall'amministrazione è certamente da qualificarsi illegittima (cfr. Tar Campania, Napoli, VIII, 06.08.2013, n. 4099).
9.3. Né il Collegio ritiene di poter accedere alla tesi del Comune secondo la quale non sarebbe configurabile alcun inerzia e alcun inadempimento della P.A. per il fatto che il controinteressato ha presentato in data 25.02.2014 con nota prot. 5303 istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 e che alla data della diffida dei ricorrenti (26.03.2014) non era ancora decorso il termine di 60 giorni per pronunciarsi sulla stessa.
Premesso che l'obbligo di provvedere in maniera espressa consiste nel compimento degli adempimenti di cui all'art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001 conseguenti all'emanazione dell'ingiunzione di demolizione e diretti alla conclusione del procedimento repressivo dell'abusivismo edilizio, il Collegio rileva che l’amministrazione avrebbe dovuto comunque notiziare i ricorrenti della presentazione della rammentata domanda di sanatoria e, quindi, una volta scaduto il termine per pronunciarsi sulla stessa in modo espresso ovvero per il maturarsi del silenzio diniego, avrebbe dovuto dare corso agli adempimenti di competenza.
9.4. Il Collegio rileva, infine, che l’accertamento dell’inottemperanza all’ordinanza di demolizione, intervenuto il 22.03.2014, non è atto idoneo alla soddisfazione degli interesse dei ricorrenti in quanto si tratta per pacifica giurisprudenza di atto di natura endoprocedimentale che non esprime la volontà della P.A. e che non conclude, pertanto, il procedimento sanzionatorio.
9.5. Con riguardo, infine, alla fondatezza della pretesa dei ricorrenti volta a portare ad esecuzione l'ingiunzione di demolizione n. 473/2013 il Collegio ritiene di non potersi pronunciare sulla stessa in considerazione anche della presentata domanda di accertamento di conformità che tuttavia, giova ribadirlo, è del tutto indipendente dalla valutazione del silenzio in quanto non elide l’obbligo della amministrazione di interloquire fattivamente con gli attuali ricorrenti in ordine agli sviluppi di quella pratica amministrativa.
10. Per tali considerazioni il ricorso è meritevole di accoglimento con conseguente declaratoria dell'obbligo del Comune di Vico Equense a provvedere in modo espresso e motivato nel termine di giorni 30 dalla notificazione o comunicazione della presente sentenza (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 07.11.2014 n. 5755 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Opere pubbliche. Progetto definitivo. Approvazione. Dichiarazione di pubblica utilità implicita. Progetto esecutivo. Approvazione. Lesività ex se dell'espropriando. Non sussiste.
Laddove la dichiarazione di pubblica utilità sia implicita nell'approvazione del progetto definitivo, ai sensi dell'art. 12 del d.P.R. 08.06.2001, n. 327 (T.U. Espropriazione per p.u.), il successivo livello di progettazione esecutiva costituisce una fase accessoria e irrilevante ai fini della lesività per l'espropriando, che ha già subito il vincolo espropriativo e nei cui confronti il decreto di esproprio già può essere emesso sulla base del solo progetto definitivo.
Non può predicarsi, nelle anzi dette ipotesi, un onere di impugnativa anche del progetto esecutivo a pena di improcedibilità dell'impugnazione già proposta dell'atto comportante la dichiarazione di pubblica utilità.

Deve in proposito evidenziarsi che ai sensi dell’art. 19, comma 2, del d.P.R. 327/2001 “L’approvazione del progetto preliminare o definitivo da parte del consiglio comunale costituisce adozione della variante allo strumento urbanistico” e che ai sensi dell’art. 12, comma 3, L.R. 3/2005 non é necessaria l’approvazione regionale per le varianti urbanistiche derivanti dalla approvazione di progetti di opere pubbliche, di guisa che la delibera da parte del consiglio comunale rende la variante immediatamente definitiva.
Neppure parte appellante contesta la circostanza che la delibera di C.C. n. 62/2010 ha prodotto da quel momento una variante allo strumento urbanistico generale vigente ed ha contestualmente comportato l’imposizione del vincolo preordinato all’esproprio. Proprio ai sensi della disposizione richiamata da parte appellante il decreto di esproprio è legittimo laddove in un atto di natura ed efficacia equivalente, e sul bene da espropriare sia stato apposto il vincolo preordinato all'esproprio e purché vi sia stata la dichiarazione di pubblica utilità.
La giurisprudenza, in proposito (sebbene ad altri fini) ha avuto cura di precisare che (Cons. Stato Sez. IV, 10.02.2014, n. 613) “laddove la dichiarazione di pubblica utilità sia implicita nell'approvazione del progetto definitivo, ai sensi dell'art. 12 del d.P.R. 08.06.2001, n. 327 (T.U. Espropriazione per p.u.), il successivo livello di progettazione esecutiva costituisce una fase accessoria e irrilevante ai fini della lesività per l'espropriando, che ha già subito il vincolo espropriativo e nei cui confronti il decreto di esproprio già può essere emesso sulla base del solo progetto definitivo. Non può predicarsi, nelle anzi dette ipotesi, un onere di impugnativa anche del progetto esecutivo a pena di improcedibilità dell'impugnazione già proposta dell'atto comportante la dichiarazione di pubblica utilità”.
L’art. 9 del TU Espropriazione, a propria volta, prevede che “1. Un bene è sottoposto al vincolo preordinato all'esproprio quando diventa efficace l'atto di approvazione del piano urbanistico generale, ovvero una sua variante, che prevede la realizzazione di un opera pubblica o di pubblica utilità.
2. Il vincolo preordinato all'esproprio ha la durata di cinque anni. Entro tale termine, può essere emanato il provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera.
3. Se non è tempestivamente dichiarata la pubblica utilità dell'opera, il vincolo preordinato all'esproprio decade e trova applicazione la disciplina dettata dall'articolo 9 del testo unico in materia edilizia approvato con decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380.
4. Il vincolo preordinato all'esproprio, dopo la sua decadenza, può essere motivatamente reiterato, con la rinnovazione dei procedimenti previsti nel comma 1 e tenendo conto delle esigenze di soddisfacimento degli standard
.“.
Da tale composito quadro normativo discende, ad avviso del Collegio, che non può certo tacciarsi di illegittimità il decreto di esproprio conforme alla variante regolarmente approvata (sul punto, premesso che l’odierna parte appellante non ha formulato alcuna censura nel presente grado di giudizio, la su richiamata sentenza della Sesta Sezione del Consiglio di Stato, n. 893/2013 è categorica, ed ancor di più lo era stata la sentenza di primo grado del Tar n. 00463/2012) ma, semmai, si potrebbe porre, come lucidamente colto in quel giudizio innanzi alla Sesta Sezione, uno speculare ed inverso problema di legittimità del P.U.G., ove la vigente variante non fosse stata recepita dal Piano Urbanistico Generale.
La detta questione, tuttavia, non soltanto è totalmente estranea all’odierno giudizio ma, in ogni caso, non potrebbe comportare conseguenze tali da invalidare il contestato decreto di esproprio, del tutto coerente con la prescrizione di cui alla variante generale e con il vincolo di pubblica utilità apposto (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.11.2014 n. 5496 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: 1. Lottizzazione. Convenzioni edilizie. Inadempimento di obblighi convenzionali. Finalità di pubblico interesse. Giurisdizione del G.A. Sussiste.
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.1. Le convezioni o gli atti d’obbligo stipulati fra Comune e privati destinatari di concessioni edilizie non hanno specifica autonomia come fonte negoziale di regolamento dei contrapposti interessi, con la conseguenza che le controversie ad esse relative, rientrando nel campo urbanistico, sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo di cui all’art. 16 della legge n. 10/1977.
1.2. Le controversie riguardanti gli adempimenti degli obblighi derivanti da convenzioni edilizie connesse a lottizzazioni appartengono alla giurisdizione amministrativa in base all’art. 11 della legge n. 241/1990.
1.3. Qualora si discuta in ordine a inadempimenti di obblighi convenzionali di natura edilizio- urbanistica assunti in esecuzione di obblighi che per legge hanno finalità di pubblico interesse, è indubbio che dette convenzioni si inseriscano in un modulo procedimentale di diritto pubblico, tale per cui le controversie che intervengono in subiecta materia appartengono necessariamente alla giurisdizione amministrativa.

Avuto riguardo all’oggetto del presente contenzioso, l’eccezione di difetto di giurisdizione si rivela palesemente fallace.
Volendo prendere le mosse proprio dalla “valenza privatistica” della convenzione di lottizzazione come sostenuta dalla parte appellante, è il caso di far rilevare che la Corte Suprema di Cassazione, in sede di regolamento di giurisdizione, ha avuto modo di precisare che “le convezioni o gli atti d’obbligo stipulati fra il Comune e i privati destinatari di concessioni edilizie non hanno specifica autonomia come fonte negoziale di regolamento dei contrapposti interessi, con la conseguenza che le controversie ad esse relative rientrando nel campo urbanistico sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo di cui all’art. 16 della legge n. 10/1977" (Cass. SS.UU. Civili 20/04/2007 n. 9360).
E’ sempre la stessa Cassazione a Sezioni Unite a ritenere che “in punto di giurisdizione, le controversie riguardanti gli adempimenti degli obblighi derivanti da convenzioni edilizie connesse a lottizzazioni appartengono alla giurisdizione amministrativa in base all’art. 11 della legge n. 241/1990" (Cass. Sezioni Unite Civili 15/12/2000 n. 1262).
Avuto riguardo poi all’aspetto più specificatamente pubblicistico, tenuto conto che nel caso che occupa si controverte in sostanza di inadempimenti di obblighi convenzionali di natura edilizio- urbanistica assunti in esecuzione di obblighi che per legge hanno finalità di pubblico interesse, è indubbio che le dette convenzioni si inseriscono in un modulo procedimentale di diritto pubblico, per cui le controversie che intervengono in subiecta materia appartengono necessariamente alla giurisdizione amministrativa (Cons. Stato Sez. IV 22/01/2010 n. 214; Cons. Stato Sez. V 05/04/2011 n. 5711) (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.11.2014 n. 5487 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: 1. Actio ad exhibendum. Presupposti. Interesse. Autonomia del diritto all'accesso rispetto all'impugnazione dell'atto lesivo. Diritto all'ostensione di atti inoppugnabili. Sussiste.
1.1. L'interesse alla cosiddetta “actio ad exhibendum” costituisce una nozione diversa e più ampia rispetto all'interesse all'impugnativa e non presuppone necessariamente una posizione soggettiva, qualificabile in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo, per cui la legittimazione all'accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti del procedimento oggetto dell'accesso abbiano spiegato, o siano idonei a spiegare, effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica.
1.2. L'autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto e separato rispetto alla situazione legittimante all'impugnativa dell'atto, comporta che esso debba essere consentito anche in presenza di una situazione divenuta inoppugnabile.
1.3. Il rimedio speciale previsto a tutela del diritto di accesso deve essere accordato anche se l'interessato non può più agire in sede giurisdizionale, per cui il giudice, chiamato a decidere su tale domanda, deve verificare solo i presupposti legittimanti la richiesta di accesso e non anche la possibilità di utilizzare gli atti richiesti in un giudizio

2. (segue): accesso c.d. defensionale. Bilanciamento tra diritto di difesa e privacy. Deroga al regime di tutela dei dati personali. Contemperamento in sede di giudizio. Specialità e preminenza delle norme che regolano il processo. Sussiste.
2.1. In tema di bilanciamento tra diritto di accesso e tutela della privacy, l'accesso cosiddetto “defensionale”, propedeutico alla miglior tutela delle proprie ragioni in un eventuale giudizio, già pendente o da introdurre, ovvero nell'ambito di un procedimento amministrativo, riceve protezione preminente dall'ordinamento, atteso che, ai sensi dell'art. 24, ultimo comma, della legge n. 241 del 1990, esso prevale, in linea di principio, su eventuali interessi contrapposti e, in particolare, sull'interesse alla riservatezza dei terzi, ivi comprese le antagoniste ragioni di riservatezza o di segretezza tecnica o commerciale, sempre che non trasmodi fino ad incidere negativamente sui dati personali sensibili od ultrasensibili di soggetti terzi.
2.2. In tema di bilanciamento tra diritto di accesso e tutela della privacy, la disciplina generale in tema di trattamento dei dati personali subisce deroghe ed eccezioni quando si tratta di far valere in giudizio il diritto di difesa, le cui modalità di attuazione risultano disciplinate dal codice di rito.
2.3. In tema di bilanciamento tra diritto di accesso e tutela della privacy, in sede di giudizio devono trovare composizione le diverse esigenze (di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo), ove non coincidenti, con la conseguenza che, alle disposizioni che regolano il processo, deve essere attribuita natura speciale rispetto a quelle contenute nel codice della privacy e nei confronti di esse.

La tutela del diritto di accesso, prevista dagli art. 22 e segg. della legge 07.08.1990 n. 241, come modificata con legge 11.02.2005 n. 15 nonché con legge 18.06.2009 n. 69, è preordinata al perseguimento di rilevanti finalità di pubblico interesse, intese a favorire la partecipazione e ad assicurare l'imparzialità e la trasparenza dell'attività amministrativa, in attuazione dei principi di democrazia partecipativa, di pubblicità e trasparenza dell'azione amministrativa, riconducibili all'art. 97 Cost., e, a livello comunitario, si inserisce nel più generale diritto all'informazione dei cittadini, rispetto all'organizzazione e alla attività soggettivamente amministrativa, quale strumento di prevenzione e contrasto sociale ad abusi ed illegalità della P.A. (conf: Cons. St., Ad. Plen., 18.04.2006 n. 6).
L'art. 22, comma 1, lett. b), della legge n. 241 del 1990 definisce gli interessati come: "tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso".
Il successivo art. 24, comma 3°, della suddetta legge n. 241 del 1990 dispone: "non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni".
Invero, l'accesso è consentito soltanto ai soggetti cui gli atti, direttamente o indirettamente, si riferiscono, i quali se ne possano, eventualmente, avvalere per la tutela di una posizione soggettiva, che, pur non dovendo assumere necessariamente la consistenza di diritto soggettivo o di interesse legittimo, deve essere, comunque, giuridicamente tutelata, senza che possa trasmodare nel generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell'attività amministrativa.
In tale ottica,
è stato precisato che la domanda di accesso:
a)
deve avere un oggetto determinato o, quanto meno, determinabile, e non può essere generica;
b)
deve riferirsi a specifici documenti, senza che possa implicare alcuna attività di elaborazione di dati (ex plurimis Cons. Stato: Sez. VI, 20.05.2004, n. 3271; Sez. IV, 09.08.2005, n. 4216, Sez. VI, 10.04.2003, n. 1925);
c)
deve essere finalizzata alla tutela di uno specifico interesse, di cui il richiedente deve essere portatore;
d)
non può essere uno strumento di controllo generalizzato dell'operato della P.A. (ex plurimis: Cons. Stato: Sez. VI, 12.01.2011 n. 116; Sez. IV n. 2283/2002; Sez. VI, n. 1414/2000, TAR Campania-Salerno, Sez. II, 02.02.2011 n. 187);
e)
non può assumere il carattere di una indagine o di un controllo ispettivo, cui sono ordinariamente preposti organi pubblici (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. IV, 29.04.2002, n. 2283; TAR Lazio-Roma, Sez. II, 22.07.1998, n. 1201).
L'interesse alla cosiddetta “actio ad exhibendum” costituisce, dunque, una nozione diversa e più ampia rispetto all'interesse all'impugnativa e non presuppone necessariamente una posizione soggettiva, qualificabile in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo, per cui la legittimazione all'accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti del procedimento oggetto dell'accesso abbiano spiegato, o siano idonei a spiegare, effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica.
L'autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto e separato rispetto alla situazione legittimante all'impugnativa dell'atto, comporta che esso debba essere consentito anche in presenza di una situazione divenuta inoppugnabile (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. VI, 27.10.2006 n. 6440).
Ciò significa che il rimedio speciale previsto a tutela del diritto di accesso deve essere accordato anche se l'interessato non può più agire in sede giurisdizionale, per cui il giudice, chiamato a decidere su tale domanda, deve verificare solo i presupposti legittimanti la richiesta di accesso e non anche la possibilità di utilizzare gli atti richiesti in un giudizio (conf.: Cons. Stato, Sez. VI, 21.05.2009 n. 3147).
L'affermazione del principio di trasparenza comporta una tendenziale riduzione della tutela della altrui riservatezza, salvo che l'accesso non sia correlato a dati sensibili in senso stretto.
Con il D.Lgs. n. 196 del 30.06.2003 (“Codice in materia di protezione dei dati personali”), sono stati introdotti principi in materia di tutela e di riservatezza dei dati, intesi ad affermare che:
a) i “dati personali” sono costituiti da tutte le informazioni relative a persone fisiche o giuridiche, enti e associazioni, che consentano l’identificazione diretta o indiretta di questi stessi soggetti (es.: i dati anagrafici ed economici, le immagini, i suoni e i codici identificativi riconducibili a un individuo);
b) i “dati sensibili” sono costituiti da tutti quei dati idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, fìlosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, politico, filosofico o sindacale, ma anche quei dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale, che possono essere trattati, dai soggetti privati soltanto con il consenso scritto dell’interessato e con la previa autorizzazione del Garante;
c) i “dati giudiziari” sono costituiti da tutti quei dati idonei a rivelare provvedimenti in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative, dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti o la qualità di imputato o di indagato, il cui trattamento è ammesso solo se autorizzato da espressa disposizione di legge o provvedimento del Garante, che ne specifichi le finalità, i tipi di dati e le operazioni autorizzate.
La disciplina normativa, pur contemplando la tutela della riservatezza dei terzi, prevede espressamente che non possono essere sottratti all'accesso i documenti, la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere gli interessi giuridici del richiedente (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. IV, 19.01.2012 n. 231; Cons. Stato, Sez. IV, 12.03.2009 n. 1455).
Invero, l'accesso cosiddetto “defensionale”, propedeutico alla miglior tutela delle proprie ragioni in un eventuale giudizio già pendente o da introdurre, ovvero nell'ambito di un procedimento amministrativo, riceve protezione preminente dall'ordinamento, atteso che, ai sensi dell'art. 24, ultimo comma, della legge n. 241 del 1990, esso prevale, in linea di principio, su eventuali interessi contrapposti e, in particolare, sull'interesse alla riservatezza dei terzi, ivi comprese le antagoniste ragioni di riservatezza o di segretezza tecnica o commerciale, sempre che non trasmodi fino ad incidere negativamente sui dati personali sensibili od ultrasensibili di soggetti terzi (conf.: TAR Lazio Roma, Sez. III, 19.11.2012, n. 9513; Corte Cass.: sent. n. 15327 del 2009; sent. n. 3358 del 2009; n. 12285 del 2008; n. 10690 del 2008 e n. 8239 del 2003).
In sintesi, devesi ritenere che la disciplina generale in tema di trattamento dei dati personali subisca deroghe ed eccezioni quando si tratti di far valere in giudizio il diritto di difesa, le cui modalità di attuazione risultano disciplinate dal codice di rito.
Ciò comporta che, in tale sede, devono trovare composizione le diverse esigenze (di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo), ove non coincidenti, con la conseguenza che, alle disposizioni che regolano il processo, deve essere attribuita natura speciale rispetto a quelle contenute nel codice della privacy e nei confronti di esse (conf.: Cass. Civ. Sez. Un. 08.02.2011 n. 3034) (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 07.11.2014 n. 1756 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Strada privata. Adibizione al pubblico transito. Indici probatori.
1. Va ritenuto attestato l'uso pubblico di strada privata che risulti asfaltata, servita da impianti a rete ed aperta al pubblico transito in base ad atti formali dell'Amministrazione, dotati, fino a querela di falso, di fede privilegiata ex art. 2700 c.c.
2. Al fine di escludere che una strada privata sia adibita a pubblico transito non rileva il fatto che sia senza uscita, atteso che anche un mero cortile, se aperto al pubblico ed al traffico automobilistico indifferenziato dà luogo ad un "uso pubblico" (art. 2 cod. str.) tale da giustificare l'intervento dell'Amministrazione (nella fattispecie risultava che la strada senza uscita fosse stata asfaltata dal Comune; immettesse in un tratto viario che a sua volta incrocia con una "via comunale"; fosse manutenzionata dal Comune e fosse servita di tutti i servizi pubblici necessari per l'abitabilità e/o agibilità degli immobili prospicienti).
3. Laddove risulti che qualsiasi cittadino possa di fatto accedere liberamente alla strada\cortile di proprietà privata, a piedi o con automezzi, e che parimenti possa uscirne per immettersi nella viabilità comunale, ciò è sufficiente per ritenere che il tratto viario de quo abbia in effetti una funzione di libero collegamento dell'area in questione con le pubbliche vie circostanti e sia destinato al transito di un numero indifferenziato di persone uti cives, e non uti singuli.
4. Affinché possa considerarsi esistente una servitù pubblica di passaggio su di una strada realizzata in area privata occorre che essa: a) sia utilizzata da una collettività indeterminata di persone e non soltanto da quei soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato; b) sia concretamente idonea a soddisfare, attraverso il collegamento anche indiretto alla pubblica via, esigenze di interesse generale; c) sia oggetto di interventi di manutenzione da parte della Pubblica amministrazione.
5. L'adibizione ad uso pubblico di una strada (o comunque di un'area) può anche avvenire mediante la c.d. dicatio ad patriam, per effetto del comportamento del proprietario che metta il bene a disposizione dei cittadini, oppure con l'uso del bene da parte della collettività indifferenziata protratto per lungo tempo, di guisa che il bene stesso venga ad assumere caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale.

Dunque, la prova dell'uso pubblico dell'area (che l'AGO ha riconosciuto in effetti essere di proprietà privata, in relazione a talune clausole contrattuali in cui si parla di uno "spazio di isolamento e di accesso" ai realizzati o realizzandi fabbricati), risulta attestata in atti formali dell'Amministrazione, dotati, fino a querela di falso, di fede privilegiata ex art. 2700 c.c.; atti ai quali questo Decidente non può che attenersi, quale che sia stata la valutazione fattane dall'AGO in altre controversie rese inter alios.
Né può rilevare il fatto che la strada di proprietà privata di accesso alla c.da S. Antonio sia senza uscita, atteso che anche un mero cortile (cfr. Tar Sicilia, Palermo, sent. n. 2700 del 12.11.2003), se aperto al pubblico ed al traffico automobilistico indifferenziato dà luogo ad un "uso pubblico" (art. 2 cod. str.) tale da giustificare l'intervento dell'Amministrazione; e nella fattispecie, come già detto, sussiste la prova, ex art. 2700 cod. civ., che detta strada: è stata asfaltata dal Comune; immette in un tratto viario che a sua volta incrocia, dopo qualche decina di metri, una "via comunale"; è manutenzionata dal Comune medesimo ed è servita di tutti i servizi pubblici necessari per l'abitabilità e/o agibilità degli immobili prospicienti. Peraltro la collocazione della numerazione civica, risulta già in una attestazione del Sindaco di Messina datata 19.03.1990 e resa in relazione alla costruzione di un fabbrica da parte di tale Cucinotta Francesco (cfr. all. 6 della produzione del controinteressato cit.); verosimilmente il medesimo ricorrente di cui alla sent. della Corte di Cassaz. n. 7573/2012 cit..
Di rilievo appare, poi, la circostanza che i ricorrenti non deducono, né tanto meno provano, che il libero accesso alla strada/cortile de qua, mediante autovetture, sia in effetti impedito (mediante apposti accorgimenti: quali cancelli, recinzioni, barre di accesso, servizio di guardiania … ecc.); e quindi sia consentito ai soli proprietari degli immobili prospicienti sulla strada stessa.
E' da ritenere, quindi, alla stregua degli atti di causa, che qualsiasi cittadino possa di fatto accedere liberamente alla strada/cortile in argomento, a piedi o con automezzi, e che parimenti possa uscirne per immettersi nella viabilità comunale ("via Comunale" o "via Paolo la Badessa"); in un'area, peraltro, caratterizzata da una forte pendenza, nei pressi del ripido ed ampio torrente S. Filippo. E ciò è sufficiente per ritenere che il tratto viario per cui è causa abbia in effetti una funzione di libero collegamento dell'area in questione con le pubbliche vie circostanti e sia destinato al transito di un numero indifferenziato di persone uti cives, e non uti singuli.
Come da tempo enunciato dalla giurisprudenza amministrativa affinché possa considerarsi esistente una servitù pubblica di passaggio su di una strada realizzata in area privata occorre che essa: a) sia utilizzata da una collettività indeterminata di persone e non soltanto da quei soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato; b) sia concretamente idonea a soddisfare, attraverso il collegamento anche indiretto alla pubblica via, esigenze di interesse generale; c) sia oggetto di interventi di manutenzione da parte della Pubblica amministrazione (cfr. tra le tante Cons. Stato Sez. VI sent. n. 2544 del 10.05.2013 che conferma TAR Toscana, 29.07.2008 n. 1834).
Del resto, è noto che l'adibizione ad uso pubblico di una strada (o comunque di un'area) può anche avvenire mediante la c.d. dicatio ad patriam, per effetto del comportamento del proprietario che metta il bene a disposizione dei cittadini, oppure con l'uso del bene da parte della collettività indifferenziata protratto per lungo tempo, di guisa che il bene stesso venga ad assumere caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale (cfr. Cons. Stato Sez. IV sent. n. 3531 del 15.06.2012, che annulla TAR Lazio, 06.08.2009 n. 7932; Cons. di Stato, Sez. I, parere n. 4361 dell'11.07.2011) (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 06.11.2014 n. 2912 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Acque pubbliche. Provvedimenti amministrativi. Contestazione in sede giurisdizionale. Riparto di giurisdizione tra G.A. e T.S.A.P. Rileva la materia e non la posizione giuridica sostanziale. Rilascio di concessioni demaniali. Contestazioni. Giurisdizione. è devoluta al T.S.A.P.
1. Ai sensi dell’art. 143, lett. a), del R.D. 11.12.1933 n. 1775, il TSAP conosce dei provvedimenti presi dalla P.A. in materia di acque pubbliche; non si tratta di un numero chiuso tipicamente delimitato; in altre parole, qualsiasi provvedimento dell’amministrazione può rientrare in tale “materia”, se in concreto riguardi il relativo ambito. È però da ritenersi che allorquando un provvedimento già in base al suo nomen iuris riguardi le acque pubbliche, vi sia una presunzione logica in favore della giurisdizione speciale.
2. Nell’attuale ordinamento la pluralità di giurisdizioni rappresenta non già una deroga in qualche modo tollerata all’ordinario sistema di garanzie, ma un servizio al cittadino, per trattare in modo più compiuto ed efficace determinate questioni; in una frase, risponde ad esigenze tecniche. Ne segue secondo logica che le relative norme sono speciali, ma non eccezionali: vanno interpretate in modo da applicarle a tutte le fattispecie concrete in cui l’esigenza tecnica sussiste.
3. Se si ragiona di riparto fra il giudice amministrativo ordinario e il TSAP, si dà per scontato che la controversia riguardi interessi legittimi, e quindi provvedimenti; ai fini del riparto della giurisdizione, rileva la materia in cui tali provvedimenti incidono, non già il tipo di situazione giuridica fatta valere.
4. Sussiste la giurisdizione del TSAP nel caso di provvedimenti che regolano il decorso e l’uso delle acque pubbliche sotto l’aspetto sia quantitativo e distributivo che qualitativo, ovvero integrino atti impeditivi o limitativi della realizzazione degli interessi pubblici inerenti il regime delle acque, ovvero provvedimenti a tali interessi strettamente connessi, ovvero ancora provvedimenti che –pur costituendo esercizio di un potere non strettamente attinente alla materia delle acque e inerendo ad interessi più generali e diversi ed eventualmente connessi rispetto agli interessi specifici relativi alla demanialità delle acque o ai rapporti concessori di beni del demanio idrico– riguardino comunque l’utilizzazione di detto demanio, così incidendo in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque.
5. Sono escluse dalla giurisdizione del TSAP le controversie per le quali non si richiedono le competenze giuridiche e tecniche ritenute dal legislatore necessarie con la creazione di un organo a composizione particolare “per la soluzione dei problemi posti dalla gestione delle acque pubbliche. Si tratta precisamente della ratio di miglior servizio al cittadino che si è vista presiedere alla creazione, meglio detto alla conservazione, delle giurisdizioni speciali.
6. Sussiste la giurisdizione del T.S.A.P. laddove venga impugnata in sede giurisdizionale la concessione di occupazione di un’area del demanio lacuale (nella specie una riva del Garda), e quindi un provvedimento specifico relativo a beni del demanio idrico, venendo contestato che la concessione stessa persegua l’interesse pubblico al buon utilizzo del demanio. La controversia è quindi all’evidenza compresa nella materia delle acque pubbliche.

1. Va dichiarato il difetto di giurisdizione in favore del Tribunale superiore delle acque pubbliche – TSAP, nei termini già prospettati d’ufficio dal Collegio alla camera di consiglio del 05.03.2014, discussi specificamente dalla parte ricorrente nella memoria 11.04.2014 e sinteticamente già argomentati nell’ordinanza cautelare della Sezione 16.04.2014 n. 211.
2. Per chiarezza, si premette il dato testuale: ai sensi dell’art. 143, lettera a), del R.D. 11.12.1933 n. 1775, il TSAP conosce dei “ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere e per violazione di legge avverso i provvedimenti presi dall'amministrazione in materia di acque pubbliche”. Si tratta allora, in sintesi estrema, di stabilire se i provvedimenti impugnati nella sede presente rientrino in tale “materia”, tenendo presente due dati ulteriori.
3. Il primo è quello ovvio, che si enuncia anche qui per chiarezza, secondo il quale i provvedimenti in questione non sono un numero chiuso tipicamente delimitato; in altre parole, qualsiasi provvedimento dell’amministrazione può rientrare in tale “materia”, se in concreto riguardi il relativo ambito. E’ però da ritenersi che allorquando un provvedimento già in base al suo nomen iuris riguardi le acque pubbliche, vi sia una presunzione logica in favore della giurisdizione speciale.
4. Non si condivide infatti quanto è implicito nelle difese del ricorrente (v. memoria 11.04.2014 p. 2 quarto rigo dal basso), ovvero che la giurisdizione speciale di cui si ragiona sarebbe eccezionale e quindi, secondo logica, come tale di stretta interpretazione. La giurisprudenza –per tutte C. cost. 12.03.2007 n. 77 e C.d.S. a.p. 30.07.2007 n. 9- è ormai attestata nel ritenere che nell’attuale ordinamento la pluralità di giurisdizioni rappresenta non già una deroga in qualche modo tollerata all’ordinario sistema di garanzie, ma un servizio al cittadino, per trattare in modo più compiuto ed efficace determinate questioni; in una frase, risponde ad esigenze tecniche. Ne segue secondo logica che le relative norme sono speciali, ma non eccezionali: vanno interpretate in modo da applicarle a tutte le fattispecie concrete in cui l’esigenza tecnica sussiste.
5. Il secondo dato è quello, pure ampiamente noto e argomentato nella memoria 11.04.2014, per cui nella sede presente si ragiona della questione preliminare di giurisdizione, ma di una giurisdizione ripartita per materia, non già in ragione del tipo di situazione giuridica fatta valere. Pertanto, non del tutto pertinenti sono i richiami operati (v. memoria 11.04.2014 p. 2) alla nota regola giurisprudenziale per cui la giurisdizione si determina non solo in base al petitum, ma principalmente in base alla causa petendi: se si ragiona, come nella specie, di riparto fra il giudice amministrativo ordinario e il TSAP, si dà già per scontato che la controversia riguardi interessi legittimi, e quindi provvedimenti; si deve invece stabilire, ancora una volta, la materia in cui essi incidono.
6. Ovvio è invece che la questione di giurisdizione rimane distinta e preliminare rispetto al merito: per individuare la giurisdizione stessa, è sufficiente che la controversia, così come prospettata, rientri nella materia in esame, mentre non è necessario l’accertamento della sua effettiva natura.
7. Ciò posto, la giurisprudenza di questo Tribunale, per tutte la già citata sez. II 08.01.2011 n. 18, in armonia con precedenti decisioni, anche del C.d.S., ivi ampiamente citate, ritiene la giurisdizione del TSAP nel caso di provvedimenti che regolano il decorso e l’uso delle acque pubbliche sotto l’aspetto sia quantitativo e distributivo che qualitativo, ovvero integrino “atti impeditivi o limitativi della realizzazione degli interessi pubblici inerenti” il regime delle acque, ovvero provvedimenti “a tali interessi strettamente connessi”, ovvero ancora “provvedimenti che –pur costituendo esercizio di un potere non strettamente attinente alla materia delle acque e inerendo ad interessi più generali e diversi ed eventualmente connessi rispetto agli interessi specifici relativi alla demanialità delle acque o ai rapporti concessori di beni del demanio idrico– riguardino comunque l’utilizzazione di detto demanio, così incidendo in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque”.
8. La difesa del ricorrente ha concentrato la propria attenzione sull’ultimo di questi criteri, sotto il profilo dell’incidenza “diretta ed immediata”, sostenendo in sintesi che essa introdurrebbe un criterio particolarmente restrittivo; si tratta però di tesi non condivisibile, dato che il profilo stesso rappresenta, a ben vedere, una formula di sintesi, per forza di cose semplificatrice. La sentenza 18/2011, anche qui in linea con i precedenti citati, prosegue infatti spiegando che sono escluse dalla giurisdizione del TSAP le controversie per le quali non si richiedono “le competenze giuridiche e tecniche ritenute dal legislatore necessarie” con la creazione di un organo a composizione particolare “per la soluzione dei problemi posti dalla gestione delle acque pubbliche”.
9. Si tratta precisamente della ratio di miglior servizio al cittadino che si è vista presiedere alla creazione, meglio detto alla conservazione, delle giurisdizioni speciali. A riprova, anche in recentissima giurisprudenza del C.d.S., per tutte sez. V 27.05.2014 n. 2742, l’elenco delle controversie demandate alla giurisdizione del TSAP è assai ampio, sì da confermare la natura riassuntiva della “incidenza immediata e diretta” (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 05.11.2014 n. 1160 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Aria. Animali ed esalazioni maleodoranti.
Il reato previsto dall'art. 674 cod. pen. è integrato dalle esalazioni maleodoranti provenienti da stalle, gabbie o promananti da escrementi di animali in numero rilevante o quelle dovute alla presenza di numerosi cani tenuti in condizioni di sporcizia
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.11.2014 n. 45230 - tratto da www.lexambiente.it).

URBANISTICA: Lottizzazione e nullità contratto preliminare di vendita.
La nullità di un contratto preliminare di vendita di un’unità immobiliare per contrasto con la normativa in tema di lottizzazione abusiva, consistente nella modifica della destinazione d'uso di un complesso alberghiero, implica il riscontro dell’esistenza di un’organizzazione imprenditoriale preposta alla gestione dei singoli appartamenti, nonché della parcellizzazione della proprietà in distinti alloggi (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 03.11.2014 n. 23367 - tratto da www.lexambiente.it).

APPALTI: Appalti pubblici. Documentazione comprovante la capacità economico-finanziaria. Estratto conto bancario. Non idoneo. Successiva produzione dell'attestazione dell'istituto di credito. Soccorso istruttorio. Inammissibilità.
In tema di documentazione comprovante la capacità economica-finanziaria dell'impresa che partecipa alla gare, l'attestazione dell’istituto di credito in ordine alla capacità economico-finanziaria del soggetto partecipante, deve considerarsi quale documento completamente nuovo e diverso rispetto al mero estratto di un conto corrente che, sebbene con saldo attivo, non costituisce formale attestazione esplicita e non può essere considerato quindi equivalente ad un complessivo giudizio di affidabilità di pertinenza esclusiva dell’istituto.
Pertanto costituisce integrazione e non regolarizzazione documentale e, in quanto tale, esorbitante dai ristretti limiti consentiti nelle procedure concorsuali, sia dall’art. 46 del D.Lgs. n. 163/2006 che dall’art. 6 della legge n. 241/1990.

- Ritenuto, invero, che debba essere condiviso il primo motivo di gravame, che è fondato ed assorbente, dal momento che, come giustamente dedotto dall’istante, la ditta aggiudicataria è stata ammessa, con inammissibile esercizio da parte della Stazione appaltante del potere di soccorso istruttorio, nonostante non avesse inizialmente prodotto quanto inequivocabilmente richiesto a pena di esclusione dagli artt. 1 e 2 del Disciplinare di gara, ovvero ”almeno una referenza bancaria con la quale un istituto, con cui l’operatore intrattiene rapporti, attesti che lo stesso fa fronte ai propri impegni nei confronti dell’istituto con regolarità e puntualità”;
- Considerato che il menzionato art. 1 precisava che non sarebbero stati ammessi i soggetti che non avessero “adeguatamente e puntualmente” documentato i richiesti requisiti (tra cui quello in questione);
- Considerato che in sede di offerta la controinteressata aveva prodotto, stando alla stessa rappresentazione e precisazione difensiva della P.A., un mero estratto di conto corrente BancoPosta (che non integrava evidentemente la documentazione richiesta a comprova del suddetto requisito di capacità economico-finanziaria) mentre l’attestazione dell’Ufficio Postale di Soriano nel Cimino con cui si attesta “che la suddetta cooperativa fa fronte ai propri impegni nei confronti dell’ufficio stesso con puntualità e regolarità” è stata prodotta, su richiesta di integrazione documentale del Comune intimato, soltanto il 26.07.2014;
- Considerato che il potere di soccorso istruttorio, nelle procedure concorsuali, sia di appalti che di concessioni (valendo per queste ultime, in sede di scelta dei concessionari, ai sensi dell’art. 30 del Codice degli Appalti, almeno l’esigenza di rispetto dei principi di non discriminazione e parità di trattamento), deve essere contenuto in limiti tali da non costituire, come invece è avvenuto nella specie, violazione della par condicio ed elusione di termini perentori consentiti per la produzione della documentazione dimostrativa dei requisiti richiesta con chiarezza ed a pena di esclusione dalla lex specialis della gara;
- Ritenuto, infatti, che nel perimetro del consentito “soccorso istruttorio” rientra la “regolarizzazione documentale”, che si traduce, di regola, nella rettifica di errori materiali e refusi, ma non l’“integrazione documentale”, che si risolve in un effettivo vulnus del principio di parità di trattamento (cfr. CdS, Ad. Pl., n. 9 del 25.02.2014);
- Considerato che nella specie il documento prodotto in via integrativa (attestazione dell’istituto) è completamente nuovo e diverso rispetto a quello (mero estratto di un conto corrente che, sebbene con saldo attivo, non costituiva formale attestazione esplicita e non poteva essere considerato quindi equivalente ad un complessivo giudizio di affidabilità di pertinenza esclusiva dell’istituto) presentato in gara, per cui esso costituisce integrazione e non regolarizzazione documentale, in quanto tale esorbitante dai ristretti limiti consentiti, nelle procedure concorsuali, sia dall’art. 46 del D.Lgs. n. 163/2006 che dall’art. 6 della legge n. 241/1990 (cfr. Ad. Pl. decisione citata);
- Considerato altresì:
   - che la clausola di esclusione corrispondeva ad un’esigenza dimostrativa di fondamentali requisiti di capacità economico finanziaria previsti dallo stesso Codice degli Appalti (v. art. 42) e che nella specie la dimostrazione del requisito, seppure tardiva, comprova che l’aggiudicataria non era oggettivamente impossibilitata a presentare la documentazione prescritta;
   - che la clausola del bando non può essere quindi considerata nulla, ex art. 46, comma 1-bis, del Codice degli Appalti (costituente peraltro norma in se stessa esclusa dal novero delle disposizioni codicistiche richiamate dall’art. 30 del D.Lgs. n. 163/2006 per le concessioni di servizi);
   - che l’avviso della gara di cui trattasi è stato pubblicato il 25.06.2014, per cui nemmeno potrebbe discettarsi sull’ammissibilità nella specie della richiesta di integrazione integrativa documentale, ai sensi dell’art. 39 del DL n. 90/2014 convertito in legge n. 114/2014, dal momento che le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 di tale decreto legge si applicano (v. comma 3 del medesimo art. 39) “alle procedure di affidamento indette successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto” (ovvero alle procedure indette a partire dal 26.06.2014 dato che il DL citato, ai sensi del suo articolo 30, è entrato in vigore il 25.06.2014, giorno successivo a quello, 24.6.2014, di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale) (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 03.11.2014 n. 10998 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Reati paesaggistici ed interventi di minima entità.
Ferma restando la natura del reato di pericolo formale della figura delittuosa prevista dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis, laddove sia stato accertato un intervento edilizio su area paesaggisticamente vincolata, la condotta deve ritenersi sempre punibile tranne che nelle residuali ipotesi di interventi di minima entità, senza che possa assumere rilevanza il concetto di lieve entità come enunciato nella L. n. 35 del 2012, art. 44, attesa la mancanza di specifiche indicazioni illustrative di tale concetto, ancora di là da venire e comunque tale da non escludere l'applicabilità, allo stato attuale, del criterio della minima entità degli interventi così come elaborato pacificamente dalla giurisprudenza (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.10.2014 n. 44928 - tratto da www.lexambiente.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva cartolare-negoziale posta in essere mediante il frazionamento planimetrico del fondo e la conseguente vendita dei lotti.
Ai sensi dell'art. 18 L. 28.02.1985 n. 47, perché possa ritenersi sussistente una lottizzazione abusiva cartolare-negoziale posta in essere mediante il frazionamento planimetrico del fondo e la conseguente vendita dei lotti da essa risultanti non è necessario dimostrare la sussistenza di tutti gli indici rivelatori di cui all'art. 18 cit., ma è sufficiente che lo scopo edificatorio emerga anche da un solo indizio.
Pertanto, in assenza di disposizioni statali o regionali che presumano l’intento illecito di lottizzare dalla vendita di una superficie inferiore al ‘lotto minimo legale’, è sufficiente che l’amministrazione accerti che i lotti frazionati e venduti (per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti), evidenzino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio (cosiddetta lottizzazione cartolare).
Nella fattispecie sussistono i presupposti della lottizzazione cartolare, per la presenza di un frazionamento dei lotti con dimensioni tali che denunciano chiaramente la finalità edificatoria che le parti intendevano raggiungere, poco importando, sotto tale profilo, che solo una recinzione sia stata effettuata sul terreno riferibile agli originari proprietari.
5. L’appello è infondato e va respinto.
5.1. Del tutto doverosamente l’amministrazione ha constatato che si era in presenza di una lottizzazione, disciplinata dall’art. 18 della legge n. 47 del 1985.
Nella specie, vi è stata l’alienazione di piccoli lotti a finalità edificatoria, tramite un frazionamento.
Il contratto notarile di data 04.07.1986 giustifica senz’altro questa qualificazione.
Non rileva in contrario il fatto dedotto nell’atto d’appello, per il quale si dovrebbe attribuire rilievo alla stipula da parte del dante causa di un precedente preliminare di data 12.10.1975, anteriore all’entrata in vigore della legge n. 47 del 1985, del quale la successiva vendita del 04.07.1986 sarebbe un atto ‘esecutivo’.
Infatti, anche a voler ipotizzare che sia stato effettivamente stipulato tale contratto preliminare (non risultandone dagli atti una data certa), ciò che conta, per l’applicabilità dell’art. 18 della legge n. 47 del 1985, è l’avvenuto trasferimento della proprietà, che si realizza (salvi i casi di contratti ad effetti reali differiti, nella specie non posti in essere) con la stipulazione del contratto definitivo, avente effetti traslativi.
5.2. Infondata è anche la tesi secondo la quale la nota inviata all’amministrazione comunale farebbe sorgere in capo a quest’ultimo un onere di riesame.
In linea di principio, infatti, il potere di autotutela è caratterizzata da una discrezionalità in ordine all’an. Da ciò deriva che l’amministrazione non doveva aprire un contraddittorio con i destinatari del provvedimento impugnato.
Peraltro, in relazione all’avvenuta emanazione di atti vincolati (come vanno qualificati quelli emanati a seguito della constatazione di una lottizzazione abusiva), un potere discrezionale di rivalutare le circostanze è ipotizzabile solo ove risultino insussistenti i presupposti posti a base dei medesimi atti, ciò che non è in alcun modo configurabile nel presente giudizio.
5.3. Non è condivisibile, dunque, la tesi dell’appellante secondo la quale non sarebbero rinvenibili gli estremi per affermare la presenza di una lottizzazione cartolare. Ai sensi dell'art. 18 L. 28.02.1985 n. 47, perché possa ritenersi sussistente una lottizzazione abusiva cartolare-negoziale posta in essere mediante il frazionamento planimetrico del fondo e la conseguente vendita dei lotti da essa risultanti non è necessario dimostrare la sussistenza di tutti gli indici rivelatori di cui all'art. 18 cit., ma è sufficiente che lo scopo edificatorio emerga anche da un solo indizio (Cons. St., Sez. IV, 31.03.2009, n. 2004; Id., 11.10.2006, n. 6060).
Pertanto, in assenza di disposizioni statali o regionali che presumano l’intento illecito di lottizzare dalla vendita di una superficie inferiore al ‘lotto minimo legale’, è sufficiente che l’amministrazione accerti che i lotti frazionati e venduti (per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti), evidenzino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio (cosiddetta lottizzazione cartolare) (Cons. St., Sez. IV, 05.08.2003, n. 4465).
Nella fattispecie sussistono i presupposti della lottizzazione cartolare, per la presenza di un frazionamento dei lotti con dimensioni tali che denunciano chiaramente la finalità edificatoria che le parti intendevano raggiungere, poco importando, sotto tale profilo, che solo una recinzione sia stata effettuata sul terreno riferibile agli originari proprietari (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.10.2014 n. 5304 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Condono edilizio - Legittimità diniego condono per incompatibilità ambientale dei manufatti.
Premesso che la zona di che trattasi è sottoposta a vincolo paesaggistico, il Comune nel negare il chiesto condono non si è limitato ad effettuare una mera, apodittica affermazione di incompatibilità sotto il profilo paesaggistico dei manufatti de quibus, potendosi rinvenire nel parere formulato dalla Commissione espressamente recepito dall’Amministrazione comunale ragioni logico- giuridiche che danno sufficiente contezza del disvalore paesaggistico dei manufatti in questione, come tali pienamente giustificative del diniego de quo.
In particolare, sia pure in maniera stringata, l’organo preposto alla valutazione della compatibilità in questione ha posto ben in evidenza come i manufatti per loro natura, consistenza e caratteristiche tipologiche sono tali da arrecare una trasformazione dell’area sotto il profilo paesaggistico-ambientale che viceversa proprio per voluntas del legislatore deve essere preservata da alterazioni di sorta, laddove dette esigenze di tutela ambientale precedono addirittura l’aspetto urbanistico-edilizio.
Col secondo mezzo parte appellante critica le ragioni del diniego opposte dall’amministrazione comunale, basate sulla non compatibilità ambientale dei manufatti, come messa in evidenza dal parere reso dalla Commissione comunale per il paesaggio.
La determinazione assunta sarebbe, ad avviso di parte appellante, errata, carente di motivazione e comunque non sufficiente a sorreggere la determinazione negativamente assunta.
Le doglianze del sig. Ragazzi sono prive di fondamento.
Premesso che la zona di che trattasi è sottoposta a vincolo paesaggistico, il Comune nel negare il chiesto condono non si è limitato ad effettuare una mera, apodittica affermazione di incompatibilità sotto il profilo paesaggistico dei manufatti de quibus, potendosi rinvenire nel parere formulato dalla Commissione espressamente recepito dall’Amministrazione comunale ragioni logico- giuridiche che danno sufficiente contezza del disvalore paesaggistico dei manufatti in questione, come tali pienamente giustificative del diniego de quo.
In particolare, sia pure in maniera stringata, l’organo preposto alla valutazione della compatibilità in questione ha posto ben in evidenza come i manufatti per loro natura, consistenza e caratteristiche tipologiche sono tali da arrecare una trasformazione dell’area sotto il profilo paesaggistico-ambientale che viceversa proprio per voluntas del legislatore deve essere preservata da alterazioni di sorta, laddove dette esigenze di tutela ambientale precedono addirittura l’aspetto urbanistico-edilizio (cfr. Cons. Stato Sez. IV 08/05/2013 n. 2488)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.10.2014 n. 5173 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Classificazione degli interventi edilizi - Le definizioni della legislazione nazionale prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi comunali.
La disposizione dell'ultimo comma dell'art. 3 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 -a tenore del quale "Le definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi"-, deve essere rettamente intesa nel senso che la normativa urbanistica comunale (come ovviamente anche la legislazione regionale) non possa dare agli interventi una classificazione diversa da quella ivi stabilita, né traslare i medesimi dall'una all'altra tipologia, e non anche che, in sede di piani esecutivi, non possa definire le modalità quali-quantitative degli interventi, e quindi anche limitare, ad esempio come nel caso di specie, il numero di piani realizzabili, tanto più quando l'intervento si inserisca in piano inteso al risanamento di un contesto urbano secondo linee filologiche di recupero dei caratteri storico-architettonici, e quindi anche al fine di ripristinare un armonico sviluppo di una schiera edilizia.
E' altresì infondato il terzo motivo di appello, posto che la disposizione dell'ultimo comma dell'art. 3 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 -a tenore del quale "Le definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi"-, deve essere rettamente intesa, come puntualizzato nella sentenza gravata, nel senso che la normativa urbanistica comunale (come ovviamente anche la legislazione regionale) non possa dare agli interventi una classificazione diversa da quella ivi stabilita, né traslare i medesimi dall'una all'altra tipologia, e non anche che, in sede di piani esecutivi, non possa definire le modalità quali-quantitative degli interventi, e quindi anche limitare, ad esempio come nel caso di specie, il numero di piani realizzabili, tanto più quando l'intervento si inserisca in piano inteso al risanamento di un contesto urbano secondo linee filologiche di recupero dei caratteri storico-architettonici, e quindi anche al fine di ripristinare un armonico sviluppo di una schiera edilizia (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.10.2014 n. 5187 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: Pubblicità, tassati i carrelli della spesa.
Va tassata la pubblicità esposta sui carrelli della spesa utilizzati nel supermercato del centro commerciale. Il messaggio pubblicitario, infatti, risulta visibile anche al di fuori dei locali adibiti alla vendita. Pertanto non spetta l’esenzione riservata solo per i prodotti pubblicizzati all’interno dei locali.

Sono queste le conclusioni della sentenza 21.10.2014 n. 5483/64/14 della Ctr Lombardia-Brescia.
Il Comune, tramite il proprio concessionario, notifica ad una Spa svolgente attività di grande distribuzione nei locali di un centro commerciale, un accertamento per la pubblicità presente con un logo sui carrelli della spesa utilizzati dai clienti del centro.
Secondo la contribuente, però, che impugna l?avviso, i carrelli sono una componente accessoria fondamentale per la vendita e una volta riposti negli appositi spazi al termine delle operazioni di scarico della spesa, vengono incastrati l'un l'altro e il messaggio non è più visibile. Secondo l'ente locale l'esenzione è applicabile solo quando la pubblicità è realizzata all'interno dei locali di vendita, oppure se i mezzi pubblicitari sono esposti nelle vetrine e sulle porte d'ingresso dei locali.
La tesi della Spa non è condivisa dalla Ctp, perché «il tragitto del carrello, viene effettuato non già all'interno dei locali ma anche all'esterno di essi, nel parcheggio che, per di più, non è al servizio esclusivo del supermercato ove il prodotto è posto in vendita, ma di un centro commerciale con ipermercato, ove operano numerosi altri negozi, così che il messaggio stesso ha come potenziali destinatari anche consumatori in astratto non intenzionati ad effettuare acquisti presso il supermercato in parola ed assolve alla funzione di far conoscere indiscriminatamente alla massa indeterminata di possibili acquirenti il nome, l?attività e il prodotto dell'azienda». Poi «la concreta collocazione del messaggio sui carrelli, che ne rende possibile la propagazione solo quando tali attrezzi sono utilizzati, non ne annulla per ciò stesso l'efficacia».
Su appello della contribuente la Ctr risponde negativamente. «Il supermercato -si legge nella pronuncia- si trova all'interno di un centro commerciale dotato di trentacinque negozi ed un parcheggio che ospita millecinquecento posti auto. I messaggi pubblicitari sono apposti su carrelli della spesa visibili non solo agli utenti del supermercato bensì anche ai clienti dei diversi negozi del centro. I carrelli transitano anche all'esterno del supermercato e nel parcheggio che non è al servizio esclusivo del supermercato. Risulta evidente la finalità di pubblicità del prodotto, dell'azienda e del luogo di vendita, destinata a consumatori eventualmente non intenzionati ad effettuare acquisti presso il supermercato».
Pertanto il collegio «non ritiene meritevole di accoglimento l'eccezione di non applicabilità delle sanzioni», poiché «non emerge incertezza sull'applicazione della sanzione». Spese compensate, però, per la complessità e novità delle questioni decise
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Rottami metallici.
Alcuni tipi di rottami metallici possono cessare di essere considerati rifiuti, ma non già e non solo in base alla loro natura, alla loro consistenza e ai trattamenti che subiscono sul luogo di produzione (tutti requisiti che comunque devono essere accertati e certificati), ma anche per effetto del rispetto delle specifiche prescrizioni (in materia di formulari, ecc.) e del positivo esito delle procedure preliminari delineate da detta normativa (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.10.2014 n. 43430 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Piano di recupero - Edificazione disomogenea - Necessità di specifico piano di recupero per restituire ordine all’abitato e riorganizzare il disegno urbanistico di completamento della zona.
Per definizione la previsione della necessità di un piano di recupero mira proprio a far sì che tutte le modifiche della zona in questione si ispirino a criteri omogenei e a una ordinata modifica dei luoghi, per migliorare la vivibilità degli abitanti e per evitare che ognuno faccia ciò che voglia, senza attenersi alle regole volte al miglioramento dell’area.
Come ha già rilevato questo Consiglio, l’esistenza di una ‘edificazione disomogenea’ non solo giustifica la previsione urbanistica che subordina la modifica dei luoghi alla emanazione del piano di recupero, ma impone che questo piano vi sia e sia concretamente attuato, per restituire ordine all’abitato e riorganizzare il disegno urbanistico di completamento della zona.
In secondo luogo, questo Consiglio di Stato non può che ribadire quanto già chiarito più volte: è consentito derogare all'obbligo della previa emanazione dello strumento attuativo soltanto nell'ipotesi –per lo più di scuola– in cui per un’area complessivamente edificabile sia satura e si tratti “dell’ultimo lotto” integralmente inserito nel tessuto urbano, vale a dire di un’area di dimensioni limitate e totalmente inserita tra altri edifici.
L'esonero dal piano attuativo o da quello di lottizzazione, previsto dal P.R.G. e dalle relative N.T.A., non può avvenire, pertanto, in un caso come quello di specie, esposto al rischio della compromissione di valori urbanistici e in cui la pianificazione urbanistica può ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto.
Più volte, sin dagli anni Novanta, questo Consiglio ha affermato che –quando uno strumento urbanistico subordina il rilascio di un titolo edilizio alla previa approvazione di uno strumento attuativo– né in sede amministrativa né in sede giurisdizionale possono essere effettuate indagini sulla situazione dei luoghi per verificare se l’area sia urbanizzata.
Una tale regola –già desumibile dalla legge n. 1150 del 1942– è stata espressamente prevista dall’art. 9 del testo unico sull’edilizia.
E’ dunque in palese contrasto con la legge ogni tesi che voglia sottoporre all’esame dell’amministrazione o del giudice amministrativo la verifica della situazione dei luoghi, al fine di escludere la necessità del piano attuativo, previsto dallo strumento urbanistico e che l’art. 9 del testo unico sull’edilizia ha espressamente qualificato come presupposto legale per l’edificazione.
Neppure risulta fondata la tesi dell’appellante, secondo cui rileverebbe nella specie una ‘pressoché completa edificazione della zona’ addirittura incompatibile con un piano attuativo.
In primo luogo, per definizione la previsione della necessità di un piano di recupero mira proprio a far sì che tutte le modifiche della zona in questione si ispirino a criteri omogenei e a una ordinata modifica dei luoghi, per migliorare la vivibilità degli abitanti e per evitare che ognuno faccia ciò che voglia, senza attenersi alle regole volte al miglioramento dell’area.
Come ha già rilevato questo Consiglio, l’esistenza di una ‘edificazione disomogenea’ non solo giustifica la previsione urbanistica che subordina la modifica dei luoghi alla emanazione del piano di recupero, ma impone che questo piano vi sia e sia concretamente attuato, per restituire ordine all’abitato e riorganizzare il disegno urbanistico di completamento della zona (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 27.04.2012, n. 2470).
In secondo luogo, questo Consiglio di Stato non può che ribadire quanto già chiarito più volte: è consentito derogare all'obbligo della previa emanazione dello strumento attuativo soltanto nell'ipotesi –per lo più di scuola– in cui per un’area complessivamente edificabile sia satura e si tratti “dell’ultimo lotto” integralmente inserito nel tessuto urbano, vale a dire di un’area di dimensioni limitate e totalmente inserita tra altri edifici.
L'esonero dal piano attuativo o da quello di lottizzazione, previsto dal P.R.G. e dalle relative N.T.A., non può avvenire, pertanto, in un caso come quello di specie, esposto al rischio della compromissione di valori urbanistici e in cui la pianificazione urbanistica può ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 15.05.2002, n. 2592).
Nella specie, come rilevato, ci si trova in un’area degradata da organizzare urbanisticamente e qualificare ambientalmente e paesisticamente, recuperando le superfici minime previste dal D.M. n. 1144 del 1968, e che va assoggettata ad un piano di recupero, con obbligo di riqualificare l’intera superficie nei termini anzidetti.
In tali aree, infatti, il piano di recupero si pone a presidio dello sviluppo programmato di aree ancora edificabili nell’ambito di zone degradate e non assolve la sola funzione di recupero edilizio di compendi immobiliari fatiscenti.
In altri termini, fino alla approvazione del piano di recupero è radicalmente vietato ogni ulteriore consumo di suolo
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.10.2014 n. 5078 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Vincolo idrogeologico - Salvaguardia dell'habitat nel quale vive l’uomo - Valore primario ed assoluto.
In linea generale la sussistenza di un vincolo idrogeologico ex art. 54, r.d.l. 30.12.1923 n. 3267 è una circostanza preclusiva della realizzazione di ogni attività che pregiudichi la stabilità dei suoli e l'equilibrio idrogeologico della zona vincolata in quanto ha come finalità quella di prevenire smottamenti ed i movimenti franosi dei suoli.
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In linea di principio, come la giurisprudenza ha più volte chiarito, nel sistema di cui all’art, 9 Cost. e della disciplina comunitaria la salvaguardia dell'habitat nel quale l'uomo vive, assurge a valore primario ed assoluto, in quanto attribuisce ad ogni singolo un autentico diritto fondamentale della personalità umana. A tali fini, l'ambiente rileva non solo come paesaggio, ma anche come assetto del territorio, comprensivo di ogni suo profilo, e finanche degli aspetti scientifico-naturalistici (come quelli relativi alla protezione di una particolare flora e fauna), pur non afferenti specificamente ai profili estetici della zona.
In tali ambiti la sussistenza del vincolo idrogeologico ex art. 54, r.d.l. 30.12.1923 n. 3267 è, di norma, circostanza preclusiva della realizzazione di ogni attività che pregiudichi la stabilità dei suoli e l'equilibrio idrogeologico della zona vincolata.
Ha dunque ragione il TAR quando ricorda che la definizione del vincolo di cui al R.D.L. n. 3267/1923 ben giustifica “qualunque misura, restrittiva come impeditiva - risultante dal piano di coltura, che inibisce, da un lato, la lottizzazione a fini fabbricabili e, dall’altro, il mutamento di destinazione, non avrebbe consentito l’adozione di una diversa determinazione”.
Infatti è evidente che la valutazione negativa dell’Amministrazione sull’ulteriore urbanizzazione del sito è sostanzialmente del tutto corretta, in quanto in tal caso è manifesta non la semplice probabilità, ma la certezza di un pregiudizio significativo in quanto costituisce una definitiva compromissione dell'integrità e del mantenimento delle essenze arboree e della fauna presenti nel sito, la cui conservazione sarebbe direttamente e definitivamente nullificata dall’abbattimento degli alberi, dalla realizzazione di manti stradali, palificazioni infrastrutture, ecc..
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L'Amministrazione ha il potere-dovere di valutare all'attualità l'interesse pubblico in una zona soggetta a vincolo idrogeologico ai sensi del r.d.l. 30.12.1923 n. 3267.
In linea generale la sussistenza di un vincolo idrogeologico ex art. 54, r.d.l. 30.12.1923 n. 3267 è una circostanza preclusiva della realizzazione di ogni attività che pregiudichi la stabilità dei suoli e l'equilibrio idrogeologico della zona vincolata in quanto ha come finalità quella di prevenire smottamenti ed i movimenti franosi dei suoli (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V 21/06/2007 n. 3431; Consiglio di Stato Sez. V, 10/09/2009 n. 5424; Consiglio di Stato Sez. VI, del 28.04.1981 n. 174).
Nel caso, il mantenimento dello stato di fatto appare logicamente ancorato all’evidente scopo di combattere fenomeni di erosione dei terreni conseguenti alle denudazioni del litorale da parte dei flutti marini. Nel caso in esame dunque la misura appare logicamente ancorata alle finalità di conservare la staticità dei suoli, la stabilità alla costa e l’habitat ambientale.
Ciò premesso, nel caso, del tutto inconferente, oltre che tardiva, è sia la lamentata insussistenza dei presupposti per l’assoggettamento ai vincoli dato che tale assoggettamento era risultante nel tempo, e sia il nulla–osta ad Italferr per un sottopasso di una struttura ferroviaria già esistente.
In definitiva sul punto (come del resto sarà meglio evidente in seguito), la pretesa realizzazione di fabbricati plurifamiliari, costituendo una definitiva ed incidente antropizzazione su una non trascurabile estensione di territorio, appare un’attività del tutto incompatibile sia con il vincolo boschivo e sia con la tutela della flora e della fauna dell’area.
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In linea di principio, come la giurisprudenza ha più volte chiarito, nel sistema di cui all’art, 9 Cost. e della disciplina comunitaria la salvaguardia dell'habitat nel quale l'uomo vive, assurge a valore primario ed assoluto, in quanto attribuisce ad ogni singolo un autentico diritto fondamentale della personalità umana. A tali fini, l'ambiente rileva non solo come paesaggio, ma anche come assetto del territorio, comprensivo di ogni suo profilo, e finanche degli aspetti scientifico-naturalistici (come quelli relativi alla protezione di una particolare flora e fauna), pur non afferenti specificamente ai profili estetici della zona (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 09/01/2014 n. 36).
In tali ambiti la sussistenza del vincolo idrogeologico ex art. 54, r.d.l. 30.12.1923 n. 3267 è, di norma, circostanza preclusiva della realizzazione di ogni attività che pregiudichi la stabilità dei suoli e l'equilibrio idrogeologico della zona vincolata (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V 21/06/2007 n. 3431).
Ha dunque ragione il TAR quando ricorda che la definizione del vincolo di cui al R.D.L. n. 3267/1923 ben giustifica “qualunque misura, restrittiva come impeditiva - risultante dal piano di coltura, che inibisce, da un lato, la lottizzazione a fini fabbricabili e, dall’altro, il mutamento di destinazione, non avrebbe consentito l’adozione di una diversa determinazione”.
Infatti è evidente che la valutazione negativa dell’Amministrazione sull’ulteriore urbanizzazione del sito è sostanzialmente del tutto corretta, in quanto in tal caso è manifesta non la semplice probabilità, ma la certezza di un pregiudizio significativo (arg. ex Cons. Stato, Sez. IV, 22.07.2005 n. 3917) in quanto costituisce una definitiva compromissione dell'integrità e del mantenimento delle essenze arboree e della fauna presenti nel sito, la cui conservazione sarebbe direttamente e definitivamente nullificata dall’abbattimento degli alberi, dalla realizzazione di manti stradali, palificazioni infrastrutture, ecc..
Nella sostanza delle cose, il provvedimento di diniego di nulla-osta a modificare la destinazione del suolo oggetto di intervento appare dunque legittimamente motivato con riferimento alla valutazione negativa dell’intervento stesso in quanto incidente su valori che avevano giustificato l’inserimento dell’area nell’ambito di un sito SIC ed, in precedenza del vincolo ex R.D. n. 3267.
In tale direzione deve anche escludersi che l’edificazione privata, in una località balneare, possa essere assimilata al perseguimento di finalità pubbliche. Come la Sezione ha avuto già modo di rilevare la creazione di una miriade di seconde case sulle coste finisce comunque per creare dei quartier fantasma che restano praticamente deserti per nove mesi all’anno, ma che comportano comunque oneri che restano comunque a carico della collettività per 12 mesi per illuminazione, pulizia strade, manutenzioni reti idriche, raccolta rifiuti ecc. (cfr. Consiglio Stato, Sez. IV 06/05/2013 n. 2433; Consiglio Stato, Sez. IV 22.01.2013 n. 361).
In molte regioni del Mezzogiorno la totale cementificazione delle coste ha finito di pregiudicare definitivamente gli originari valori ambientali e “di vivibilità” delle località marine (che nell’ultima parte del secolo scorso erano state la ragione stessa del loro successo) ed ha portato all’esponenziale diminuzione di villeggianti estranei all’ambito regionale.
Del tutto ragionevolmente l’Amministrazione ha dunque inteso assicurare il mantenimento di quello che resta del bosco e dell’habitat costiero, rispetto ai quali non pare possa prefigurarsi alcuna efficace misura di mitigazione.
In sostanza, contrariamente a quanto vorrebbe l’appellante, sussistevano puntuali, e prevalenti, ragioni di interesse pubblico che, sul piano logico e funzionale, supportano la legittimità del provvedimento e la ragionevolezza della decisione del TAR impugnata.
L'Amministrazione ha il potere-dovere di valutare all'attualità l'interesse pubblico in una zona soggetta a vincolo idrogeologico ai sensi del r.d.l. 30.12.1923 n. 3267 (cfr. Consiglio di Stato sez. V 10/09/2009 n. 5424), per cui del tutto irrilevante è poi il fatto che il diniego del nulla-osta, concernesse un ulteriore incremento di un complesso edilizio già autorizzato oltre trent'anni prima.
In tale quadro, il mancato rispetto dell'obbligo di preventiva comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza, imposto dall'art. 10-bis, l. 07.08.1990 n. 241, come pure la mancata effettuazione di sopralluoghi, non hanno in concreto inciso sulla validità dell'atto conclusivo del procedimento in quanto non ha determinato un reale deficit istruttorio.
Non vi è poi nessuna prova che la decisione sul progetto de quo ai fini del rilascio del nulla osta, non sia stato preceduto da una corretta istruttoria e da una compiuta valutazione degli interessi naturalistici ai sensi degli artt. 9 Cost..
Infatti, l’esigenza dello status quo che risulta legittimamente ancorata alla prevalenza per l’immodificabilità conseguente ad un vincolo idrogeologico e boschivo ex R.D. n. 3267/1923, ed ai provvedimenti con cui in relazione al persistente pregio ambientalistico dell’area, i terreni sono stati inseriti tra i siti di interesse comunitario ai sensi della Direttiva Habitat
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.10.2014 n. 5045 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Illecito amministrativo e reato.
Deve ritenersi sussistere l'illecito amministrativo ove si verifichi solo il mero superamento dei limiti differenziali; è configurabile l'ipotesi di cui al co. 1 dell'art. 659 c.p. quando il fatto costitutivo dell'illecito sia rappresentato da qualcosa di diverso ed ulteriore rispetto al mero superamento di limiti di rumore; deve poi ritenersi integrata la contravvenzione ex art. 659, co. 2, c.p. qualora la violazione riguardi altre prescrizioni legali o della Autorità, attinenti all'esercizio del mestiere rumoroso, diverse, però, da quelle impositive di limiti di immissione acustica (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.10.2014 n. 42026 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Esercizio di un bar.
L'esercizio di un bar non costituisce un mestiere di per sé rumoroso, sicché i rumori molesti provocati da tale esercizio possono integrare la fattispecie di cui all'art. 659, primo comma, cod. pen. (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.10.2014 n. 41992 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Rifiuti. Dovere di attivazione del sindaco.
La distinzione operata dall'art. 107 del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali fra i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, demandati agli organi di governo, e i compiti di gestione attribuiti ai dirigenti, non esclude, in materia di rifiuti, il dovere di attivazione del sindaco allorché gli siano note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la salute delle persone o l'integrità dell'ambiente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.10.2014 n. 41695 - tratto da www.lexambiente.it).

APPALTI1. Commesse pubbliche. Attività amministrativa illegittima. Risarcimento del danno. Presupposti. Loro ricorrenza. Onere della prova. È a carico della parte danneggiata.
1.1. Per accordare la tutela risarcitoria dei pregiudizi patiti in conseguenza di attività amministrativa illegittima, non è sufficiente la declaratoria dell’illegittimità degli atti adottati dall’amministrazione resistente, occorrendo procedere alla verifica ulteriore della ricorrenza dei presupposti richiesti dall’art. 2043 c.c..
1.2. È a carico di chi lamenti danni conseguenti da attività amministrativa illegittima l'onere di provare ex art. 2697 cod. civ., sotto il profilo oggettivo, il danno ed il nesso causale tra l’illecito e il danno che ne è derivato.

2. (segue): elemento soggettivo della P.A. Verifica della ricorrenza. Non occorre. Responsabilità della P.A. di natura oggettiva. Estensione della regola a tutto il campo degli appalti pubblici. Occorre.
2.1. Nelle controversie risarcitorie afferenti la materia dei pubblici appalti, non occorre procedere alla verifica dell’elemento soggettivo dell’illecito, dal momento che, ai fini della responsabilità della Amministrazione da provvedimento illegittimo, il suo accertamento va ritenuto superfluo sulla scorta della giurisprudenza comunitaria in tema di procedure di appalti pubblici.
2.2. La direttiva del Consiglio 21.12.1989 n. 89/665/Cee, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18.06.1992 n. 92/50/Cee, deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, la quale subordini il diritto a ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’Amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’Amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata.
2.3. La regola comunitaria vigente in materia di risarcimento del danno per illegittimità accertate in materia di appalti pubblici per avere assunto provvedimenti illegittimi lesivi di interessi legittimi configurerebbe una responsabilità non avente natura né contrattuale né extracontrattuale, ma oggettiva, sottratta ad ogni possibile esimente, poiché derivante da principio generale funzionale a garantire la piena ed effettiva tutela degli interessi delle imprese, a protezione della concorrenza, nel settore degli appalti pubblici.
2.4. La regola comunitaria vigente in materia di risarcimento del danno per illegittimità accertate in materia di appalti pubblici non può essere circoscritta ai soli appalti comunitari ma deve estendersi, in quanto principio generale di diritto comunitario in materia dì effettività della tutela, a tutto il campo degli appalti pubblici, nei quali i principi di diritto comunitario hanno diretta rilevanza ed incidenza, non fosse altro che per il richiamo che ad essi viene fatto dal nostro legislatore nel Codice appalti.

3. Affidamento di incarico di direzione lavori per esecuzione di opera pubblica. Revoca. Annullamento in sede giurisdizionale. Risarcimento. Spetta.
Va risarcito il danno patito da raggruppamento temporaneo di professionisti, affidatari, a seguito di espletamento di procedura selettiva pubblica, di incarico di direzione lavori per la costruzione di impianto di depurazione a servizio di centro abitato, laddove, dapprima, l'incarico sia stato svolto soltanto per una minima parte, a causa del contenzioso insorto tra Committenza pubblica e soggetto appaltatore dei medesimi lavori, e, successivamente, la medesima Committenza pubblica, senza nemmeno provvedere alla formale revoca o annullamento del precedente affidamento al raggruppamento di professionisti, abbia attribuito, con atto infine annullato in sede giurisdizionale, la direzione dei lavori a un dipendente comunale, coadiuvato da direttore operativo esterno.
4. (segue): la lesione ingiusta di una situazione soggettiva meritevole di tutela da parte dell'ordinamento.
Nel caso in cui raggruppamento temporaneo di professionisti sia stato ingiustamente privato dell'incarico di direzione di lavori di opera pubblica per atto amministrativo illegittimo, risultano integrati gli estremi della ingiusta lesione (i.e. del danno ex art. 2043 cod. civ.) della situazione soggettiva di interesse tutelata dall’ordinamento facente capo al medesimo raggruppamento (i.e. interesse oppositivo al mantenimento dell’incarico di direzione dei lavori per cui è causa, in forza di una posizione soggettiva di vantaggio in essere, comportante, sul piano economico determinati emolumenti).
5. (segue): nesso causale e quantificazione del danno emergente.
5.1. Quanto alla verifica del nesso causale, la stessa va condotta sulla base di un giudizio prognostico controfattuale, al fine di verificare quale sarebbe stato l’esito del procedimento ove il fatto antigiuridico (nella specie l’illegittima attività amministrativa) non si fosse prodotto e l’amministrazione avesse agito correttamente. Occorre allora stabilire quale sia stata l’efficienza causale del vizio rilevato con sentenza di annullamento rispetto al pregiudizio lamentato dal raggruppamento ricorrente.
5.2. Dal momento che il raggruppamento temporaneo di professionisti lamenta l'ingiusta privazione di incarico di direzione di lavori di opera pubblica per atto amministrativo illegittimo, con cui il medesimo incarico è stato affidato ad altri (dipendente comunale coadiuvato da un direttore tecnico esterno), va considerato, in sede di verifica del nesso causale, se legittimamente l’amministrazione avrebbe potuto, motivando opportunamente ed assicurando le garanzie del contraddittorio, decidere diversamente e non conservare l’affidamento al medesimo raggruppamento temporaneo di professionisti.
5.3. In punto di quantificazione del danno emergente, derivante dall’atto oggetto di annullamento, e cioè l'atto con cui è stato affidato ad altri l'incarico di direzione di lavori già affidato al raggruppamento temporaneo di professionisti, ove non sia possibile dire con certezza quale avrebbe potuto essere la sorte dell’affidamento, per il caso in cui l’Amministrazione avesse correttamente esercitato la sua discrezionalità e deciso di valutare, nell’ambito di un giusto procedimento di autotutela, la posizione del raggruppamento de quo, il risarcimento non può sic et simpliciter essere determinato in relazione alla perdita dei compensi all’epoca stabiliti e che il ridetto raggruppamento temporaneo aveva diritto a conseguire.
5.4. Laddove risulti che la Committenza pubblica avrebbe in effetti potuto legittimamente compiere una diversa valutazione di interessi si configura una situazione di dubbio circa il fatto che il raggruppamento temporaneo di professionisti avrebbe avuto titolo all'esecuzione dell'incarico illegittimamente revocato. Tale insuperabile situazione di dubbio si proietta allora inevitabilmente sul risarcimento ottenibile dal raggruppamento temporaneo, consentendone il ristoro in termini di chance di mantenere il precedente affidamento, in ragione della prospettazione delle due soluzioni alternative, entrambe legittime, che l’amministrazione comunale avrebbe potuto seguire.
5.5. Sotto il profilo quantificatorio del danno ristorabile, che possono essere assunti a parametro i compensi pattuiti per l’incarico di direzione lavori, ma ridotti nella misura che si può equitativamente determinare ex art. 1226 c.c. nel cinquanta per cento della somma che l’impresa avrebbe potuto ottenere ove l’incarico non fosse stato illegittimamente revocato.

6. (segue): rimborso delle spese di gara.
Le spese sostenute dai partecipanti a gare pubbliche costituiscono onere legittimamente imposto per la partecipazione alla gara stessa, che l'operatore economico avrebbe comunque sostenuto, a prescindere dagli esiti della procedura. Ne deriva che esse, in caso di ingiusta lesione conseguente a attività amministrativa illegittima, non risultano riconducibili all'area del danno, in quanto non possono dirsi conseguenza del fatto illegittimo dell'amministrazione.
7. (segue): danno curriculare. Onere della prova. Presunzione. Liquidazione in via equitativa.
7.1. Laddove il soggetto affidatario di incarico di direzione lavori di opera pubblica, illegittimamente revocata per atto amministrativo illegittimo, domandi la liquidazione del cd. danno curriculare, conseguente all’impossibilità di utilizzare le referenze derivanti dall’esecuzione dell’incarico de quo nell’ambito di futuri ed eventuali procedimenti di gara, tale danno può ritenersi in re ipsa.
7.2. In materia di commesse pubbliche, in relazione al danno curricolare, il soggetto danneggiato non può dirsi gravato di un particolare onere probatorio. L'esecuzione di commesse pubbliche, secondo l’id quod plerunque accidit, risulta comunque fonte per l’operatore di un vantaggio economicamente valutabile, perché accresce la sua capacità di competere sul mercato e quindi la chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri incarichi, oltre che la propria immagine e prestigio professionale, al di là dell'incremento degli specifici requisiti di qualificazione e di partecipazione alle singole gare.
7.3. Il c.d. danno curriculare può essere liquidata in sede giurisdizionale, in via forfettaria ed equitativa, tenendo conto della sua importanza.

8. (segue): detrazione del c.d. aliunde perceptum su quanto dovuto a titolo di lucro cessante.
8.1. In tema di risarcimento dei danni patiti da operatori economici in conseguenza di attività amministrativa illegittima in materia di appalti di lavori pubblici, è a carico del soggetto danneggiato, che domandi il ristoro del lucro cessante, la prova di non aver utilizzato in maniera alternativa mezzi e risorse tenuti a disposizione dell’appalto (pena, in mancanza la conseguente decurtazione della liquidazione forfettaria del danno)
8.2. Nel caso di illegittima revoca di incarico di direzione dei lavori per realizzazione opera pubblica, va evidenziato che la direzione dei lavori risulta affidata in via prevalente al lavoro intellettuale dei professionisti incaricati; sicché ben potevano essere realizzate forme flessibili di organizzazione e ripartizione del carico lavorativo, non risultando specifiche incompatibilità ovvero preclusioni allo svolgimento contemporaneo di più incarichi libero-professionali. Dunque, la mancata prova dell’acquisizione di ulteriori opportunità reddituali, non può rappresentare motivo per ridurre oltremodo il quantum debeatur, atteso che gli ulteriori ed eventuali guadagni realizzati ben avrebbero potuto sommarsi a quelli derivanti dall’incarico illegittimamente revocato.

9. (segue): rivalutazione.
Alla complessiva somma dovuta a titolo di risarcimento del danno da illecito aquiliano della P.A., trattandosi di debito di valore, va calcolata la rivalutazione anno per anno secondo gli indici ISTAT con decorrenza dalla data dell’illecito, oltre interessi legali sulla somma annualmente rivalutata secondo il cosiddetto criterio “a scalare” individuato dalla Suprema Corte con la sentenza a Sezioni Unite n. 1712/1995.

1. Il ricorso è fondato, e va accolto nei limiti ed alla stregua delle considerazioni che seguono.
2. Da quanto esposto nella narrativa in fatto risulta acclarata, a seguito della sentenza di questo Tribunale n. 4184/2010, l’illegittimità degli atti che il ricorrente assume come causativi dei danni lamentati.
3. Tuttavia, per accordare la tutela risarcitoria richiesta con il ricorso in esame, occorre procedere alla verifica ulteriore della ricorrenza, nella specie, dei presupposti richiesti dall’art. 2043 c.c., non essendo sufficiente la declaratoria dell’illegittimità degli atti adottati dall’amministrazione resistente (cfr. ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, 15.09.2010, n. 6797). Infatti, occorre siano anche provati, con onere a carico del danneggiato ex art. 2697 cod. civ., sotto il profilo oggettivo, il danno (che parte ricorrente riferisce nell’atto introduttivo del giudizio al mancato utile, alle spese sostenute per la partecipazione e al danno curriculare) ed il nesso causale tra l’illecito e il danno che ne è derivato; mentre trattandosi di controversia afferente la materia dei pubblici appalti, non occorre procedere alla verifica ulteriore dell’elemento soggettivo dell’illecito.
3.1 In relazione a tale ultima questione, la giurisprudenza amministrativa è oramai assestata su una posizione di consolidata condivisione dei principi affermati dalla Corte di Giustizia CE, Sez. III, 30.09.2010, n. 314, che ha ritenuto superfluo in tema di procedure di appalti pubblici l’accertamento dell’elemento soggettivo della colpa, ai fini della responsabilità della Amministrazione da provvedimento illegittimo: “La direttiva del Consiglio 21.12.1989 n. 89/665/Cee, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18.06.1992 n. 92/50/Cee, deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, la quale subordini il diritto a ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’Amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’Amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata”.
In particolare, il Consiglio di Stato, sez. V, con sentenza n. 966 del 18.02.2013 ha precisato che: “la regola comunitaria vigente in materia di risarcimento del danno per illegittimità accertate in materia di appalti pubblici per avere assunto provvedimenti illegittimi lesivi di interessi legittimi configurerebbe una responsabilità non avente natura né contrattuale né extracontrattuale, ma oggettiva, sottratta ad ogni possibile esimente, poiché derivante da principio generale funzionale a garantire la piena ed effettiva tutela degli interessi delle imprese, a protezione della concorrenza, nel settore degli appalti pubblici.
Intesa in questo senso, è dunque evidente che tale regola non può essere circoscritta ai soli appalti comunitari ma deve estendersi, in quanto principio generale di diritto comunitario in materia dì effettività della tutela, a tutto il campo degli appalti pubblici, nei quali i principi di diritto comunitario hanno diretta rilevanza ed incidenza, non fosse altro che per il richiamo che ad essi viene fatto dal nostro legislatore nel Codice appalti (art. 2 d.lgs. 163/2006)
”.
3.2 Passando ad esaminare la fattispecie concreta rappresentata con l’odierno ricorso, va rilevato come nella specie sicuramente risultano integrati gli estremi della ingiusta lesione (i.e. del danno ex art. 2043 cod. civ.) della situazione soggettiva di interesse tutelata dall’ordinamento facente capo al RTP ricorrente (i.e. interesse oppositivo al mantenimento dell’incarico di direzione dei lavori per cui è causa, in forza di una posizione soggettiva di vantaggio in essere, comportante, sul piano economico determinati emolumenti).
3.3 Quanto poi alla verifica del nesso causale, la stessa va condotta sulla base di un giudizio prognostico controfattuale, al fine di verificare quale sarebbe stato l’esito del procedimento ove il fatto antigiuridico (nella specie l’illegittima attività amministrativa) non si fosse prodotto e l’amministrazione avesse agito correttamente. Occorre allora stabilire quale sia stata l’efficienza causale del vizio rilevato con sentenza di annullamento rispetto al pregiudizio lamentato dal raggruppamento ricorrente.
Sul punto occorre preliminarmente precisare che ciò che viene lamentato con l’odierno ricorso è il danno conseguente all’affidamento ad altri (dipendente comunale coadiuvato da un direttore tecnico esterno) dell’incarico di direzione dei lavori, ad essi aggiudicato anni addietro e solo implicitamente oltre che illegittimamente revocato. Tuttavia, come rilevato dalla più volte richiamata sentenza di questo Tribunale, legittimamente l’amministrazione avrebbe potuto, motivando opportunamente ed assicurando le garanzie del contraddittorio, decidere diversamente e non conservare l’affidamento al R.T.P. ricorrente.
4. Ne consegue, in punto di quantificazione del danno emergente, derivante dall’atto oggetto di annullamento e di cui l’istante chiede ora il risarcimento, che esso non può sic et simpliciter essere determinato in relazione alla perdita dei compensi all’epoca stabiliti e che il R.T.P. Contini aveva diritto a conseguire. Infatti, non è possibile dire con certezza quale avrebbe potuto essere la sorte dell’affidamento in questione, ove l’Amministrazione avesse correttamente esercitato la sua discrezionalità e deciso di valutare, nell’ambito di un giusto procedimento di autotutela, la posizione dei ricorrenti.
La circostanza, inoltre, che l’Amministrazione dopo il lungo lasso temporale trascorso si fosse poi risoluta nel senso di non esternare in toto l’incarico di Direzione dei lavori per l’appalto in questione, lascia intravedere una diversa valutazione di interessi che tuttavia illegittimamente non risulta esternata nei provvedimenti adottati e, peraltro, non partecipata con le garanzie procedimentali al R.T.P. ricorrente che godeva di una posizione di affidamento consolidata ed illegittimamente sacrificata.
Tale insuperabile situazione di dubbio si proietta allora inevitabilmente sul risarcimento ottenibile dalla parte ricorrente, consentendone il ristoro in termini di chance di mantenere il precedente affidamento, in ragione della prospettazione delle due soluzioni alternative, entrambe legittime, che l’amministrazione comunale avrebbe potuto seguire.
4.1 Ne consegue, sotto il profilo quantificatorio del danno ristorabile, che possono essere assunti a parametro i compensi pattuiti per l’incarico in questione ma ridotti nella misura che si può equitativamente determinare ex art. 1226 c.c. nel cinquanta per cento della somma che l’impresa avrebbe potuto ottenere ove l’incarico non fosse stato illegittimamente revocato (risultando così pari ad €. 24.358,08, oltre accessori di legge).
4.2 Parte ricorrente chiede altresì procedersi al rimborso delle spese di partecipazione alla gara.
In conformità a consolidata giurisprudenza, il Collegio ritiene che dette spese costituiscano onere legittimamente imposto per la partecipazione alla gara, che la società avrebbe comunque sostenuto, a prescindere dagli esiti della procedura. Ne deriva che esse non risultano riconducibili all'area del danno, in quanto non possono dirsi conseguenza del fatto illegittimo dell'amministrazione (Consiglio di Stato, sez. IV, 12.06.2014, n. 3003).
4.3 Quanto all’ulteriore richiesta di liquidazione del cd. danno curriculare, conseguente all’impossibilità di utilizzare le referenze derivanti dall’esecuzione dell’incarico de quo nell’ambito di futuri ed eventuali procedimenti di gara, va rilevato che è mancata sul punto una prova specifica.
Tuttavia in relazione a tale voce di danno la giurisprudenza ha pure evidenziato che il soggetto economico non può dirsi gravato di un particolare onere probatorio (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 19.11.2012, n. 5846). Secondo condivisi principi giurisprudenziali (ex multis Consiglio di Stato sez. VI 18.03.2011, n. 1681; Tar Bari, sez. I, 14.06.2012, n. 1192) l'esecuzione di commesse pubbliche, secondo l’id quod plerunque accidit, risulta comunque fonte per l’operatore di un vantaggio economicamente valutabile, perché accresce la sua capacità di competere sul mercato e quindi la chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri incarichi, oltre che la propria immagine e prestigio professionale, al di là dell'incremento degli specifici requisiti di qualificazione e di partecipazione alle singole gare (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 11.01.2010, n. 20; sez. VI, 09.06.2008, n. 2751; sez. IV, 06.06.2008, n. 2680). In relazione a tale profilo, pertanto, il Collegio reputa congruo liquidare, in via forfettaria ed equitativa, tenuto conto della circostanza che l’incarico, sia pure in minima percentuale, risulta svolto, oltre che della sua importanza (cfr. su tale ultimo criterio: Consiglio di Stato, Sez. VI, 21.05.2009, n. 3144; TAR Sicilia Catania, Sez. IV, 25.05.2011, n. 1279; TAR Lazio Roma, Sez. III, 02.02.2011, n. 974), una somma pari al 3% sulla somma di €. 24.358,08, di cui al precedente punto 4.1.
4.4 Infine, nulla va detratto a titolo di aliunde perceptum su quanto dovuto a titolo di lucro cessante. Diversamente da quanto accade per l’esecuzione di appalti di lavori pubblici, ove la giurisprudenza richiede la prova a carico dell’impresa di non aver utilizzato in maniera alternativa mezzi e risorse tenuti a disposizione dell’appalto (pena, in mancanza la conseguente decurtazione della liquidazione forfettaria del danno), nel caso di illegittima revoca dell’incarico di direzione dei lavori, occorre muovere da altre considerazioni.
Va infatti evidenziato che la direzione dei lavori risulta affidata in via prevalente al lavoro intellettuale dei professionisti incaricati, che, oltretutto, per quanto concerne il caso di specie, erano riuniti in raggruppamento; sicché ben potevano essere realizzate forme flessibili di organizzazione e ripartizione del carico lavorativo, non risultando specifiche incompatibilità ovvero preclusioni allo svolgimento contemporaneo di più incarichi libero-professionali. Dunque, la mancata prova dell’acquisizione di ulteriori opportunità reddituali, non può rappresentare motivo per ridurre oltremodo il quantum debeatur, atteso che gli ulteriori ed eventuali guadagni realizzati ben avrebbero potuto sommarsi a quelli derivanti dall’incarico illegittimamente revocato.
5. Va infine precisato che sulla complessiva somma dovuta a titolo di risarcimento del danno da illecito aquiliano della P.A., trattandosi di debito di valore, va calcolata la rivalutazione anno per anno secondo gli indici ISTAT con decorrenza dalla data dell’illecito (i.e. momento dell’adozione della determina n. 552 dell’08.06.2007), oltre interessi legali sulla somma annualmente rivalutata secondo il cosiddetto criterio “a scalare” individuato dalla Suprema Corte con la sentenza a Sezioni Unite n. 1712/1995 (cfr. Tar Bari, sez. I, 18.04.2012, n. 741)
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 07.10.2014 n. 1162 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE1. Appalti di forniture. Riunione temporanea d’impresa. Avvalimento. Ammissibilità.
1.1. Negli appalti di forniture, in accordo con le previsioni normative del d.lgs. n. 163/2006, sono legittimate a partecipare alla gara e a presentare offerte imprese riunite o raggruppande che documentino il possesso dei requisiti di capacità economico/finanziaria e di capacità tecnico/organizzativa, e ciò anche attraverso avvalimento di imprese ausiliarie.
1.2. In materia di appalti di forniture, la legittima combinazione della riunione temporanea d'imprese e dell'avvalimento non può revocarsi in dubbio, e anzi, nella prospettiva dell'allargamento della partecipazione alle gare, assume rilievo come meccanismo pro concorrenziale (quanto alla pacifica ammissibilità dell'avvalimento da parte di imprese raggruppande anche di una pluralità d'imprese ausiliarie vedi Cons. Stato, Sez. V, 08.02.2011, n. 857; quanto all'ampiezza dei requisiti che l'impresa ausiliaria può mettere a disposizione dell'impresa ausiliata, che possono anche riguardare il capitale sociale minimo, vedi Cons. Stato, Sez. IV, 17.10.2012, n. 5340 ).

2. Certificazione di qualità. Avvalimento. È consentito.
2.1. In caso di avvalimento, l'impresa ausiliata può senz'altro utilizzare tutti i requisiti afferenti alla capacità economica e tecnica dell'impresa ausiliaria, non esclusa la certificazione di qualità. Ciò in quanto, nelle gare pubbliche, la certificazione di qualità, essendo connotata dal precipuo fine di valorizzare gli elementi di eccellenza dell'organizzazione complessiva, è da considerarsi anch'essa requisito di idoneità tecnico organizzativa dell'impresa, da inserirsi tra gli elementi idonei a dimostrarne la capacità tecnico-professionale assicurando che l'impresa, cui sarà affidato il servizio o la fornitura, sarà in grado di effettuare la prestazione nel rispetto di un livello minimo di qualità accertato da un organismo a ciò predisposto".
2.2. L’avvalimento della certificazione di qualità –rinvenibile anche nell'art. 50 del d.lgs. n. 163/2006, che ammette l'avvalimento nel caso di sistemi di attestazione e sistemi di qualificazione- deve essere effettivo, e non fittizio poiché non potrebbe ammettersi che sia "prestata" la sola certificazione di qualità.

3. Dichiarazioni sulla c.d. moralità professionale. Componenti Consiglio di Amministrazione. Acquisizione ex officio di dichiarazioni di tutti i componenti. Legittimità.
Quando non sia revocabile in dubbio l'effettività dei poteri rappresentativi del soggetto che rende la dichiarazione sui requisiti morali ex art. 38 d.lgs. n. 163/2006, e la completezza e ritualità della dichiarazione, e quando altresì la stazione appaltante abbia, nel corretto e legittimo esercizio dei poteri ex art. 46 d.lgs. n. 163/2006, ritenuto di acquisire, ad abundantiam, la documentazione relativa anche agli altri componenti del consiglio di amministrazione della società, non può sostenersi la sussistenza di cause di esclusione dalla gara.

In altri termini, in funzione delle chiare previsioni normative del d.lgs. n. 163/2006 e del bando di gara (cfr. par. III.2.1. in cui è espressamente menzionata la "Possibilità di avvalersi di quanto previsto dall'art. 49 D.Lgs, 163/2006 e s.m.i. con la condizione che l'avvalimento avvenga solo tra imprese operanti in ambito UE o in ragione di accordi internazionali"), non può revocarsi in dubbio che fossero legittimate a partecipare alla gara e a presentare offerte imprese riunite o raggruppande che documentassero il possesso dei requisiti di capacità economico/finanziaria (invero qui non in discussione) e di capacità tecnico/organizzativa, e ciò anche attraverso avvalimento di imprese ausiliarie.
Sotto quest'ultimo aspetto, è appena il caso di rammentare che l'art. 49, comma 1, del d.lgs. n. 163/2006 dispone testualmente che (corsivi dell'estensore): "Il concorrente, singolo o consorziato o raggruppato ai sensi dell'articolo 34, in relazione ad una specifica gara di lavori, servizi, forniture può soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico, organizzativo, ovvero di attestazione della certificazione SOA avvalendosi dei requisiti di un altro soggetto o dell'attestazione SOA di altro soggetto".
La legittima combinazione della riunione temporanea d'imprese e dell'avvalimento non può dunque revocarsi in dubbio, e anzi, nella prospettiva dell'allargamento della partecipazione alle gare, assume rilievo come meccanismo pro concorrenziale (quanto alla pacifica ammissibilità dell'avvalimento da parte di imprese raggruppande anche di una pluralità d'imprese ausiliarie vedi Cons. Stato, Sez. V, 08.02.2011, n. 857; quanto all'ampiezza dei requisiti che l'impresa ausiliaria può mettere a disposizione dell'impresa ausiliata, che possono anche riguardare il capitale sociale minimo, vedi Cons. Stato, Sez. IV, 17.10.2012, n. 5340).
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Non ha poi pregio giuridico la censura concernente la carenza della certificazione specifica di qualità in capo a El Corte Ingles S.A.
In caso di avvalimento, infatti, l'impresa ausiliata può senz'altro utilizzare tutti i requisiti afferenti alla capacità economica e tecnica dell'impresa ausiliaria, non esclusa la certificazione di qualità.
In tal senso è stato chiarito che "nelle gare pubbliche la certificazione di qualità, essendo connotata dal precipuo fine di valorizzare gli elementi di eccellenza dell'organizzazione complessiva, è da considerarsi anch'essa requisito di idoneità tecnico organizzativa dell'impresa, da inserirsi tra gli elementi idonei a dimostrarne la capacità tecnico-professionale assicurando che l'impresa, cui sarà affidato il servizio o la fornitura, sarà in grado di effettuare la prestazione nel rispetto di un livello minimo di qualità accertato da un organismo a ciò predisposto" (così Cons. Stato, Sez. V, 20.12.2013, n. 6125, vedi anche Sez. V, 06.03.2013, n. 1368).
L'unico limite è costituito dalla condizione che l'avvalimento sia effettivo, e non fittizio -ciò che non è revocato in dubbio dall'appellante- poiché, come pure osservato, non potrebbe ammettersi che sia "prestata" la sola certificazione di qualità (Cons. Stato, Sez. III, 18.04.2011, n. 2343).
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Non hanno maggior pregio i rilievi svolti avverso la reiezione del terzo motivo di ricorso, posto che la dichiarazione ex art. 38 del d.lgs. n. 163/2006 è stata ritualmente resa sia dal Presidente del Consiglio di Amministrazione de El Corte Ingles S.A. Isidoro Alvarez Alvarez, che dal procuratore Victor Manuel Linero Saro, ossia dai due soggetti che avevano sottoscritto la domanda di partecipazione, e che al primo, secondo la certificazione del registro madrileno delle imprese in atti, è attribuito in modo specifico il potere di "stipulare quanti documenti pubblici o privati fossero necessari", come evidenziato dall'Avvocatura generale dello Stato.
In altri termini, quando non sia revocabile in dubbio l'effettività dei poteri rappresentativi del soggetto che rende la dichiarazione sui requisiti morali, e la completezza e ritualità della dichiarazione, e quando altresì l'amministrazione abbia, nel corretto e legittimo esercizio dei poteri ex art. 46 d.lgs. n. 163/2006, ritenuto di acquisire, ad abundantiam, la documentazione relativa anche agli altri componenti del consiglio di amministrazione della società, non può sostenersi la sussistenza di cause di esclusione dalla gara, essendo del pari esatto il rilievo del giudice amministrativo capitolino in ordine alla mancata deduzione di specifiche censure in relazione all'esercizio dei suddetti poteri da parte dell'amministrazione
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 03.10.2014 n. 4958 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Pollina.
Le materie fecali (tra cui rientra la pollina) sono escluse dalla disciplina dei rifiuti di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006 a condizione che provengano da attività agricola e che siano effettivamente riutilizzate nella stessa attività (nel caso di specie, la pollina proveniva da attività agricola ed era effettivamente riutilizzata nella medesima attività.
Secondo la Corte il fatto rientra nella nuova previsione del comma 2 dell'art. 29-quattuordecies, d.lgs. n. 152/2006, con conseguente intervenuta depenalizzazione)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.10.2014 n. 40532 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Discarica non autorizzata e responsabilità del proprietario del terreno.
Il proprietario di un terreno non risponde dei reati di realizzazione e gestione di discarica non autorizzata, anche in caso di mancata attivazione per la rimozione dei rifiuti, a condizione che non compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti, atteso che tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.10.2014 n. 40528 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione dopo «decreto del fare».
L'art. 30 del d.l. 21.06.2013, n. 69 (c.d. "decreto del fare"), convertito con legge 09.08.2013, n. 98 ha mantenuto fermo il principio che costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati al permesso di costruire gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportino un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, un aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti e delle superfici ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino un mutamento della destinazione d'uso ed ha consentito, ricomprendendoli nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia soggetti perciò a Scia, sia le opere consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria (non più anche con la stessa sagoma) del manufatto preesistente e sia gli interventi di ristrutturazione volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione ma non ha sottratto, in tale caso, al regime del permesso di costruire le opere delle quali non sia possibile accertare la preesistente consistenza, fermo restando che se l'intervento è eseguito in zona vincolata deve, in ogni caso, essere anche rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente tanto per gli interventi di demolizione e ricostruzione quanto per quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.09.2014 n. 40342 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Indice di rilevazione della potenziale idoneità lesiva di una fonte sonora.
Significativo indice di rilevazione della potenziale idoneità lesiva di una fonte sonora è dato dalla incidenza del fenomeno in rapporto alla media sensibilità del gruppo sociale in cui esso si verifica, mentre sono irrilevanti e di per sé insufficienti le lamentele di una o più singole persone (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.09.2014 n. 40329 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cambio di destinazione d'uso senza realizzazione di opere.
La ragione per la quale il cambio di destinazione d'uso senza realizzazione di opere non costituisce un'attività del tutto priva di vincoli risiede nel fatto che ne risulterebbero altrimenti vulnerate le regole generali finalizzate ad assicurare il corretto e ordinato assetto del territorio, con conseguente concreto inevitabile pericolo di compromissione degli equilibri prefigurati della strumentazione urbanistica, potendo risultare pregiudicato anche l'interesse patrimoniale dell'ente, perché gli interessati sarebbero altrimenti indotti a chiedere il rilascio dei titoli edilizi contro il pagamento di un minore contributo per il basso carico urbanistico, per poi mutare liberamente e gratuitamente la destinazione originaria senza corrispondere i maggiori oneri che derivano dal maggiore carico urbanistico (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.09.2014 n. 39897 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Abbruciamento in terra di scarti vegetali.
L'articolo 14, comma 8, lettera b), d.l. 24 giugno 2014 n. 91 ha inserito nell'articolo 256-bis del Codice dell'ambiente il comma 6-bis.
La suddetta norma, dovendosi interpretare nel suo complesso, senza isolare artificialmente il primo periodo dai seguenti, alla luce degli ordinari canoni ermeneutici, non depenalizza tout court l'abbruciamento in terra di scarti vegetali come rifiuti, bensì prevede ("...è consentita la combustione ecc.") un margine di irrilevanza della condotta ai fini del reato di cui all'articolo 256 specificamente determinato a livello quantitativo e temporale, anche a mezzo dell'individuazione amministrativa di parte di tali modalità scriminanti mediante appunto una ordinanza sindacale ad hoc, e fatto salvo il limite imposto dalle regioni per tutelare dal rischio degli incendi boschiv
i (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.09.2014 n. 39203 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Luogo di produzione rilevante ai fini della nozione di deposito temporaneo.
In tema di gestione illecita dei rifiuti, il luogo di produzione rilevante ai fini della nozione di deposito temporaneo non è solo quello in cui i rifiuti sono prodotti ma anche quello che si trova nella disponibilità dell'impresa produttrice e nel quale gli stessi sono depositati, purché funzionalmente collegato al luogo di produzione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.09.2014 n. 38676 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Definizione di volume edilizio.
Il presupposto per l'esistenza di un volume è costituito dalla costruzione di almeno un piano di base coperto e due superfici verticali contigue, così da ottenere una superficie chiusa su un minimo di tre lati.
Per esaminare la questione, occorre chiarire cosa si intende per “volume” in edilizia. Ebbene, come precisato a più riprese dalla Giurisprudenza, il presupposto per l'esistenza di un volume è costituito dalla costruzione di -almeno- un piano di base coperto e due superfici verticali contigue, così da ottenere una superficie chiusa su un minimo di tre lati (TAR Campania, Napoli, questa sezione, n. 3543/2011 e n. 3959/2014; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, n. 971/2014; TAR Campania Napoli, IV, 24.05.2010, n. 8342; TAR Piemonte, n. 2824 del 12.07.2005; TAR Liguria, I, 12.12.1989, n. 943; TAR Sicilia Catania, 30.09.1994, n. 2171).
Il cordolo e la balaustra, quindi, non costituiscono “volume” per la mancanza del piano base di copertura e, come tali, non rientrano nel divieto di cui alle menzionate norma dell’art. 24 delle N.T.A. del P.R.G. e dell’art. 13 delle N.T.A. del P.T.P.. Evidentemente, trattandosi, di qualificazione giuridica di stretta competenza del giudice, non può assumere, in senso contrario, alcun rilievo quanto asseritamente affermato in senso contrario dal CTU nominato dal giudice civile (v. memoria di parte ricorrente, dep. il 12.06.2014).
Del resto, in più occasioni, si è anche affermato che rendere praticabile il lastrico solare mediante apposizione di scala di accesso e di ringhiere non costituisce “nuova costruzione” né aumento di volumetria (v. Consiglio di Stato, sez. V 02/07/2010 n. 4234; TAR Salerno–Campania - sez. I 24/07/2013 n. 1680; TAR Genova, sez. I 11/07/2011 n. 1088)
(massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 23.09.2014 n. 4999 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di "pertinenza urbanistica" è meno ampia di quella definita dall'art. 817 c.c. e dunque non può consentire la realizzazione di opere di grande consistenza soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato principale.
Infatti, il carattere pertinenziale in senso urbanistico va riconosciuto alle opere che, per loro natura, risultino funzionalmente ed esclusivamente inserite al servizio di un manufatto principale, siano prive di autonomo valore di mercato e non valutabili in termini di cubatura (o comunque dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da non poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal manufatto cui accedono.
In tal senso, si è chiarito, con condivisibile orientamento, che persino gli interventi consistenti nella installazione di tettoie o di altre strutture analoghe che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime della concessione edilizia (oggi permesso di costruire) soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono; tali strutture non possono viceversa ritenersi installabili senza permesso di costruire allorquando le loro dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite.

Quanto alla qualificazione del manufatto come mera “pertinenza”, l’argomento non ha pregio in quanto, come si è affermato in molteplici occasioni (v., tra le altre, la Sentenza di questa sezione n. 5519/2013), la nozione di "pertinenza urbanistica" è meno ampia di quella definita dall'art. 817 c.c. e dunque non può consentire la realizzazione di opere di grande consistenza soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato principale.
Infatti, il carattere pertinenziale in senso urbanistico va riconosciuto alle opere che, per loro natura, risultino funzionalmente ed esclusivamente inserite al servizio di un manufatto principale, siano prive di autonomo valore di mercato e non valutabili in termini di cubatura (o comunque dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da non poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal manufatto cui accedono (Consiglio Stato, sez. IV, 17.05.2010, n. 3127).
In tal senso, si è chiarito, con condivisibile orientamento, che persino gli interventi consistenti nella installazione di tettoie o di altre strutture analoghe che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime della concessione edilizia (oggi permesso di costruire) soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendono evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono; tali strutture non possono viceversa ritenersi installabili senza permesso di costruire allorquando le loro dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite.
Ebbene, nel caso di specie, il manufatto (torrino) comporta, come si è detto, un aumento di volumetria non irrilevante anche in rapporto alla modifica della sagoma e del prospetto dell’edificio, tale da non poter essere ritenuto ‘assorbito’ nel manufatto principale in senso urbanistico (TAR Campania Napoli, sez. II, 29.01.2009, n. 492; TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999; v. pure il precedente di questa Sezione, Sent. n. 16446/2010)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 23.09.2014 n. 4999 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Deposito temporaneo e nozione di luogo di produzione.
A norma dell'art. 183, comma 1, lett. aa), d.lgs. 152/2006, il deposito temporaneo può essere effettuato solo nel luogo di produzione del rifiuto, dovendosi per tale intendere, nella sua accezione più lata, quello che si trova nella disponibilità dell'impresa produttrice e nel quale gli stessi sono depositati, purché funzionalmente collegato al luogo di produzione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.09.2014 n. 37843 - tratto da e link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Trasformazione con opere di sottotetto in residenza abitabile.
La trasformazione, con opere, del sottotetto in residenza abitabile, comporta certamente la modifica delle relative superfici che si trasformano da superfici non residenziali in superfici residenziali, qualificando così il regime edilizio della relativa modifica di destinazione d'uso come ristrutturazione edilizia soggetta a permesso di costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. b), d.P.R. 380/2001 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.09.2014 n. 37841 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni ambientali. Vincoli di inedificabilità assoluta o relativa.
Ai fini della configurabilità del reato paesaggistico non rileva la distinzione tra zone soggette a vincolo di inedificabilità assoluta o relativa, atteso che l'art. 181 d.lgs. 42/2004 sanziona i comportamenti su beni individuati dallo stesso decreto, ovvero sia i beni tutelati per legge ex art. 142, sia i beni soggetti a tutela in ragione del loro notevole interesse pubblico ex art. 136 (Corte di Cassazione, Sez.III penale, sentenza 04.09.2014  n. 36853 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Intervento edilizio abusivo e buona fede.
Nell'ipotesi di esecuzione di un intervento edilizio in assenza di permesso di costruire non ricorrono gli estremi della buona fede con efficacia esimente ex art. 5 c.p., nell’interpretazione datane dalla Corte cast. con la sentenza n. 364/1988, allorquando l’imputato abbia male interpretato una pur chiara disposizione di legge e non si sia premurato di consultare il competente ufficio per conoscere quali adempimenti egli avrebbe dovuto compiere, erroneamente fermandosi il convincimento soggettivo, sulla base di un provvedimento della pubblica amministrazione riguardante opera edilizia diversa da quella abusivamente realizzata, che non fosse necessario alcun titolo abilitativo per la realizzazione di quest’ultima (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.09.2014 n. 36852 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Modifica della destinazione d'uso originaria.
L'esecuzione di opere interne che trasformino l'originaria destinazione di un locale (nella specie un locale cantina destinato a mini-appartamento) integra la fattispecie penale laddove priva di permesso per costruire.
Solo laddove la modificazione della destinazione d'uso non sia costituita da opere (anche interne) può ritenersi sufficiente la semplice D.I.A. (oggi S.C.I.A.)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.09.2014 n. 36730 - tratto da e link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Interventi di consolidamento e continuità tra vecchia e nuova costruzione.
La normativa sul condono postula la permanenza dell'immobile da regolarizzare e non ammette, in pendenza del procedimento, la demolizione e l'impiego di materiali di costruzione diversi da quelli originari: la diversità del materiale costruttivo impiegato comporta la qualificazione dell'intervento come sostituzione edilizia, mancando la continuità tra vecchia e nuova costruzione, che caratterizza gli interventi di consolidamento, e la attuale riconoscibilità del manufatto originario oggetto dell'istanza di condono.
Va al riguardo richiamato il principio per il quale l’istanza di condono va esaminata, qualora alla data di emanazione del provvedimento esista ancora l’immobile che ne è risultato oggetto.
Se invece l’immobile abusivo non è meramente integrato, ma è sostituito da un altro edificio, l’istanza di condono già proposta va dichiarata improcedibile per inesistenza dell’oggetto e l’Amministrazione deve emanare il provvedimento di demolizione del nuovo immobile, costruito abusivamente in luogo di quello già realizzato sine titulo.
La circostanza che la costruzione avesse subito una trasformazione sostanziale (ammessa anche dal TAR che ha fatto riferimento all’accertata non identità della consistenza dei materiali con i quali erano stati realizzati i manufatti oggetto delle due domande di concessione edilizia in sanatoria), comporta dunque la conseguenza che il manufatto oggetto della domanda di concessione del 1987 era stato demolito e ricostruito con materiali diversi, costituendo così un manufatto nuovo rispetto al precedente.
Pertanto legittimamente il Comune di Quattro Castella, nell’esaminare domanda di condono presentata dalla signora T. nell’anno 1987, aveva dichiarato l’improcedibilità della stessa perché relativa alla costruzione ormai demolita, anche se ricostruita in un secondo tempo con materiali diversi, non esistendo ormai più la precedente opera edilizia, a prescindere dalla coincidenza o meno sotto il profilo planimetrico, nonché strutturale, con la costruzione per la quale era stato chiesto il condono.
Invero, in pendenza di procedimento di condono di un manufatto, gli unici interventi edilizi consentiti su di esso sono quelli diretti a garantirne l'integrità e la conservazione; tali interventi, quindi, di regola non possono spingersi sino alla demolizione e ricostruzione (né totale né parziale), salvo che essi risultino in qualche modo indispensabili (previa, in tal caso, necessaria preventiva interlocuzione con l'Amministrazione al fine di consentire a quest'ultima di stabilire quali siano i caratteri e le esatte dimensioni del manufatto abusivo per verificarne la condonabilità ed accertare che la successiva ricostruzione sia effettivamente fedele al manufatto abusivo preesistente).
La normativa sul condono postula la permanenza dell'immobile da regolarizzare e non ammette, in pendenza del procedimento, la demolizione e l'impiego di materiali di costruzione diversi da quelli originari: la diversità del materiale costruttivo impiegato comporta la qualificazione dell'intervento come sostituzione edilizia, mancando la continuità tra vecchia e nuova costruzione, che caratterizza gli interventi di consolidamento, e la attuale riconoscibilità del manufatto originario oggetto dell'istanza di condono (Cass. pen., sez. III, 15.07.2005, n. 26162).
E’ quindi legittima l’archiviazione della domanda di condono relativa ad un primo fabbricato quando sia effettivamente venuta meno l’opera per cui si riferiva la richiesta (Consiglio di Stato, sez. IV, 24.12.2008, n. 6550), soprattutto se la ricostruzione sia successiva alla data di sbarramento fissata all'01.10.1983 dalla l. n. 47 del 1985 (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.08.2014 n. 4386 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARIAutovelox solo con molti sinistri. Una sentenza del Consiglio di stato.
Autovelox sì, ma soltanto sulle strade nelle quali ci sono molti sinistri. Almeno per quanto riguarda i tratti extraurbani, dove è il prefetto a dover indicare se si deve procedere al rilevamento elettronico della velocità. È così che se l'ufficio territoriale del Governo rileva che nella zona «incriminata» non sussiste un alto «tasso di incidentalità», il Tar non può accogliere il ricorso del Comune, che ha paura di non poter far cassa con le multe.
E ciò sul mero rilievo che nel tratto di competenza dell'ente locale le piazzole sono strette e non consentono di fermarsi ai veicoli più lunghi.

È quanto emerge dalla
sentenza 26.08.2014 n. 4321, pubblicata dalla III Sez. del Consiglio di stato.
Il primo verdetto è rovesciato perché il Tar ha invaso il campo del prefetto e dell'Anas con le valutazioni sull'impossibilità di arrestare la marcia dei veicoli nel tratto di competenza del Comune. Aveva ragione il prefetto che ha applicato il criterio primario per il posizionamento dei velox, verificando se in zona davvero serve o meno un forte deterrente per far correre di meno gli automobilisti (articolo ItaliaOggi Sette del 29.12.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Certificato di agibilità e titolo edilizio: non v’è identità di disciplina.
Come ribadito da recentissima giurisprudenza non v’è necessaria identità di “disciplina” tra titolo abilitativo edilizio e certificato di agibilità: i detti diversi provvedimenti qui rilevanti, sono collegati a presupposti diversi e danno vita a conseguenze disciplinari non sovrapponibili.
Infatti, il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l’immobile al quale si riferisce è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti (come espressamente recita l’art. 24 del Testo unico dell’edilizia), mentre il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche è oggetto della specifica funzione del titolo edilizio.
Il che comporta che i diversi piani ben possano convivere sia nella forma fisiologica della conformità dell’edificio ad entrambe le tipologie normative, sia in quella patologica di una loro divergenza, infatti, si è affermata l’illegittimità del diniego della agibilità motivato unicamente con la difformità dell’immobile dal progetto approvato, oppure, in senso opposto, l’irrilevanza del rilascio del certificato di agibilità come fatto ostativo al potere del sindaco di reprimere abusi edilizi, o alla revoca di un eventuale precedente ordine di demolizione delle opere.

Quanto alla questione della licenza di agibilità, ritiene il Collegio di dovere articolare alcune brevi considerazioni in parte complementari ed in parte sovrapponibili a quelle appena rese.
Parte appellante si richiama alla ben nota giurisprudenza secondo la quale in base all'art. 25, comma quarto, del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (T.U. Edilizia), il mancato rilascio del certificato di agibilità entro il termine di sessanta giorni decorrente dal momento di ricezione della relativa istanza da parte del comune, determina la formazione del silenzio assenso (ex aliis TAR Lombardia Milano Sez. II, 30.08.2013, n. 2089) e richiama una pronuncia regiudicata proprio in relazione allo specifico immobile per cui è causa.
Osserva in proposito il Collegio che è ben vero che sulla detta questione si è pronunciato in passato il Tar con la sentenza 4838/2012 resa su ricorso della ditta Sepa (promittente venditrice dell’immobile per cui è causa).
Ed è altresì ben corretta l’affermazione secondo cui, posto che detta decisione sebbene non pronunciata anche nei confronti dell’odierna parte appellata era a quest’ultima ben nota essa avrebbe potuto eventualmente impugnarla, anche ex art. 404 cpc e 108-109 cpa.
Sennonché, la semplice lettura della pronuncia regiudicata in esame rende agevole comprendere che la stessa è stata resa con riguardo ad una ben definita e specifica questione (questo l’oggetto della controversia, siccome specificato dallo stesso Tar nella decisione richiamata: “vista la data di deposito dell’istanza -04.08.2011-, il silenzio-assenso su di essa sarebbe maturato allo spirare del sessantesimo giorno da tale data, ovvero il 04.10.2011; la richiesta di integrazione non sarebbe stata idonea ad interrompere il decorso di tale termine, essendo stata predisposta -e notificata all’interessata- dopo il quindicesimo giorno dall’istanza.”).
Come è noto, secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza (ex aliis Cons. Giust. Amm. Sic., 29.02.2012, n. 225) “nel processo amministrativo, il giudicato può formarsi solo in relazione a capi di sentenza che si pronunciano sui motivi, e non può formarsi, invece, laddove i motivi di ricorso non vengano esaminati perché assorbiti.”
A fortiori non può considerarsi formato il giudicato su motivi neppure mai prospettati.
Tanto vale a privare di condivisibilità la tesi dell’appellante amministrazione, secondo cui il silenzio assenso si sarebbe formato giusta la richiamata decisione del Tar e, soprattutto, sarebbe un silenzio-assenso sull’agibilità “a tutto tondo” inattaccabile, e che non potrebbe risentire di successive manifestazioni di autotutela in quanto precipitato vincolato del giudicato formatosi (che è in sostanza, quanto invece paventa parte appellata).
Ciò implica peraltro la condivisibilità, di converso, della tesi dell’appellata, secondo cui laddove, in ipotesi, venissero riscontrate le difformità del titolo abilitativo da essa paventate (nel duplice senso della inidoneità di quest’ultimo alla esecuzione delle opere, ovvero dell’avvenuta esecuzione di opere difformi dalla Dia) tale accertamento renderebbe doveroso l’esercizio dell’autotutela anche sul silenzio-assenso formatosi sul certificato di agibilità: effetto questo, non certo precluso dal giudicato formatosi che, si ripete, attiene ad una limitata fattispecie procedimentale.
Per altro verso, come ribadito da recentissima giurisprudenza (Cons. Stato Sez. IV n. 1220/2014) non v’è necessaria identità di “disciplina” tra titolo abilitativo edilizio e certificato di agibilità: i detti diversi provvedimenti qui rilevanti, sono collegati a presupposti diversi e danno vita a conseguenze disciplinari non sovrapponibili. Infatti, il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l’immobile al quale si riferisce è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti (come espressamente recita l’art. 24 del Testo unico dell’edilizia), mentre il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche è oggetto della specifica funzione del titolo edilizio.
Il che comporta che i diversi piani ben possano convivere sia nella forma fisiologica della conformità dell’edificio ad entrambe le tipologie normative, sia in quella patologica di una loro divergenza (si ricordano episodi giurisprudenziali in cui si è affermata l’illegittimità del diniego della agibilità motivato unicamente con la difformità dell’immobile dal progetto approvato –Consiglio di Stato, sez. V, 06.07.1979 n. 479– oppure, in senso opposto, l’irrilevanza del rilascio del certificato di agibilità come fatto ostativo al potere del sindaco di reprimere abusi edilizi – id., 03.02.1992 n. 87– o alla revoca di un eventuale precedente ordine di demolizione delle opere –id., 15 aprile 1977 n. 335) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.08.2014 n. 4309 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Illegittimità della concessione edilizia per mancanza numero minimo di parcheggi.
La riscontrata carenza dei posti auto previsti dalle disposizioni in materia osta alla realizzazione delle cubature assentite, con conseguente illegittimità della concessione edilizia e dei volumi con essa autorizzati.
È pertanto evidente, che non era ammissibile compensare, con la parziale eccedenza delle dimensioni dello spazio a disposizione, l'insufficiente numero di posti macchina graficamente individuati nel progetto oggetto di concessione edilizia, stante la sua vincolatività e dovendo le aree destinate a parcheggio essere comunque previamente individuate in sede di rilascio del titolo edilizio; ciò in quanto la loro individuazione era obbligatoriamente prevista per legge e sussiste la essenziale regola urbanistica che lo spazio riservato a parcheggio va individuato già nel titolo edilizio per evitare alternative incerte e soluzioni pratiche volte a alterare aree immodificabilmente destinate a tale utilizzazione.
Lo standard richiesto dalla normativa di settore esige infatti non solo il rispetto del numero minimo dei parcheggi, ma anche, e al contempo, la duratura conformità della superficie di ciascuno di essi alle dimensioni minime stabilite singolarmente e non complessivamente.

Osserva in proposito il Collegio che in primo grado, a seguito della disposta C.T.U., è stato accertato che, in riferimento alla volumetria di progetto, dovevano essere previsti almeno 21 posti auto e che essi erano di fatto di numero inferiore, anche se sussisteva una recuperabilità altrove, stante la disponibilità di altri spazi utilizzabili e la possibilità di una variante al progetto originario.
Sulla base di tali risultanze, il TAR ha ritenuto che l’acclarata insufficienza degli spazi riservati a parcheggio, comprovata dalla stessa richiesta di variante presentata in data 20.11.2002 dalla ditta controinteressata per la realizzazione di una nuova disposizione delle aree destinate a parcheggio ed a spazi di manovra, avesse carattere assorbente ai fini dell’accoglimento del gravame nei limiti degli interessi dei ricorrenti.
Ciò evidentemente in applicazione del principio per il quale la riscontrata carenza dei posti auto previsti dalle disposizioni in materia osta alla realizzazione delle cubature assentite, con conseguente illegittimità della concessione edilizia e dei volumi con essa autorizzati (Consiglio di Stato, sez. IV, 28.05.2013, n. 2916).
Tanto premesso deve ritenersi che i punti centrali della controversia siano costituiti in primo luogo dalla sussistenza o meno del carattere tassativo e vincolante, ovvero meramente indicativo e non vincolante, della rappresentazione grafica dei posti macchina nei parcheggi riportata nell’elaborato grafico del progetto nell’ipotesi in cui sussista la disponibilità residua e sufficiente di altre aree libere nel lotto di pertinenza; in secondo luogo dalla rilevanza della circostanza dedotta dal Comune appellante che l’assetto definitivo delle aree destinate a parcheggio, che per legge ogni alloggio deve avere a disposizione, doveva obbedire necessariamente a norme imperative, che il costruttore non avrebbe potuto disattendere nell’effettuare la vendita degli alloggi, pena la nullità degli atti.
Va rilevato in proposito che, secondo l’art. 22, comma 1, lettera d), della l. n. 241/1990, si intende per "documento amministrativo", ogni rappresentazione grafica del contenuto di atti detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale.
Quindi anche la parte grafica di un progetto ne costituisce parte integrante, rappresentando essa un modo, per sé valido ed efficace, per la valenza espressiva che ne è propria, per fissare le intenzioni dei presentatori circa l’utilizzo degli spazi a disposizione.
Anche in campo civilistico viene ritenuto che le piante planimetriche allegate ai contratti aventi ad oggetto immobili fanno parte integrante della dichiarazione di volontà, quando ad esse i contraenti si siano riferiti nel descrivere il bene, e costituiscono mezzo fondamentale per l'interpretazione del negozio (Cassazione civile, sez. II, 03.03.2014, n. 4934).
Poiché il titolo edilizio scaturisce dalla compresenza tanto della descrizione letterale dell'opera, contenuta nel testo della concessione, quanto della sua rappresentazione grafica, ricavabile dalle tavole progettuali, solo ed esclusivamente in caso di discordanza tra quanto descritto nella relazione tecnica allegata alla domanda di concessione edilizia e quanto rappresentato graficamente nella tavola progettuale, occorre dare prevalenza alla prima, in quanto la valenza del dato letterale, ove il medesimo sia formulato in modo chiaro, prevale su quella del segno grafico, in analogia a quanto statuito dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sez. IV, 22.03.2012, n. 1644) in tema di discordanza tra parte normativa e parte grafica dei piani urbanistici.
In conclusione la parte grafica di un progetto costituisce parte integrante del complesso dei segni grafici rappresentativi della volontà manifestata dalla parte che presenta lo stesso all’Amministrazione per la sua approvazione ed è trasfusa nel documento redatto dal tecnico competente.
L’art. 49 delle N.T.A. al P.R.G. all’epoca vigente nella zona di interesse prescriveva, al IV comma, che gli spazi per parcheggi includevano gli spazi per la sosta dei veicoli (minimo mt. 2,50 x 5,50 ciascuno) e quelli necessari alla manovra per l’accesso e la distribuzione dei veicoli.
E stato già accennato che è stato definitivamente acclarato con la C.T.U. disposta in primo grado, e la circostanza non è oggetto nemmeno di specifiche contestazioni delle parti che, in riferimento alla volumetria di progetto, la superficie destinata a parcheggio dovesse prevedere almeno 21 posti auto e che essi fossero di fatto di numero inferiore, anche se sussisteva una recuperabilità altrove, stante la disponibilità di altri spazi utilizzabili e la possibilità di una variante al progetto originario.
È pertanto evidente, per le considerazioni in precedenza espresse, che non era ammissibile compensare, con la parziale eccedenza delle dimensioni dello spazio a disposizione, l'insufficiente numero di posti macchina graficamente individuati nel progetto oggetto di concessione edilizia, stante la sua vincolatività e dovendo le aree destinate a parcheggio essere comunque previamente individuate in sede di rilascio del titolo edilizio; ciò in quanto la loro individuazione era obbligatoriamente prevista per legge e sussiste la essenziale regola urbanistica che lo spazio riservato a parcheggio va individuato già nel titolo edilizio per evitare alternative incerte e soluzioni pratiche volte a alterare aree immodificabilmente destinate a tale utilizzazione (Consiglio di Stato, sez. VI, 12.04.2013, n. 1995).
Lo standard richiesto dalla normativa di settore esige infatti non solo il rispetto del numero minimo dei parcheggi, ma anche, e al contempo, la duratura conformità della superficie di ciascuno di essi alle dimensioni minime stabilite singolarmente e non complessivamente.
Ciò vale ad escludere, ai fini del presente giudizio, qualsiasi rilevanza attribuibile ad una supposta "adeguatezza" di fatto, diversa dallo standard imposto, dei posti macchina in esame, come pure alla circostanza, dedotta dal Comune appellante, che l’assetto definitivo dei parcheggi doveva obbedire necessariamente a norme imperative che il costruttore non avrebbe potuto disattendere nell’effettuare la vendita degli alloggi, pena la nullità degli atti, atteso che concretamente, nella rappresentazione grafica allegata all’approvato progetto essi figuravano in numero insufficiente e ciò viziava la rilasciata concessione edilizia.
Tanto comporta l’inconferenza del principio giurisprudenziale richiamato nell’atto d’appello per il quale gli spazi per parcheggi hanno natura pertinenziale indifferentemente dalla loro localizzazione nell’ambito del lotto, atteso che comunque tale localizzazione deve precedere la concessione del titolo edilizio (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.08.2014 n. 4215 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Combustione illecita.
A seguito dell'introduzione del delitto di cui all'art. 256-bis, comma 2, d.lgs. 152/2006, la combustione non autorizzata, quale modalità di smaltimento dei rifiuti dolosamente perseguita all'esito dell'attività di raccolta, trasporto e spedizione, qualifica le corrispondenti condotte previste dagli artt. 256 e 259, d.lgs. 152/2006, facendole assurgere a fattispecie autonoma di reato, ancorché a tali fasi di gestione del rifiuto, prodromiche alla combustione, non segua la combustione stessa.
Il residuo illecito amministrativo di cui all'art. 256-bis, comma 6, d.lgs. 152/2006, ha invece ad oggetto i rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali di cui all'art. 184, lett. e), non dunque la paglia, gli sfalci, le potature e il materiale agricolo o forestale non pericoloso di cui all'art. 185, comma 1, lett. f).
La condotta, però, deve avere ad oggetto rifiuti vegetali abbandonati o depositati in modo incontrollato (tale il senso del richiamo al comma 1°), non anche raccolti e trasportati dallo stesso autore della combustione, poiché, in tal caso, la condotta ricadrebbe nella previsione di cui al comma 2° dello stesso art. 256-bis, d.lgs. cit.; ne consegue che la condotta di autosmaltimento mediante combustione illecita di rifiuti continua ad avere penale rilevanza
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.08.2014 n. 34098 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abuso edilizio: l'ordinanza di demolizione colpisce anche gli eredi.
L'ordinanza di demolizione deve essere diretta a colpire il responsabile dell’abuso, ritenendo quest’ultimo non soltanto chi abbia commissionato e realizzato l’opera abusiva, ma anche chi abbia la effettiva disponibilità dell’immobile abusivo.
Con la sentenza 23.07.2014 n. 1995 la Sez. II del TAR Sicilia–Palermo conferma il pacifico orientamento giurisprudenziale in tema di demolizioni di opere abusive. In particolare, l’abusività, totale o parziale, di un fabbricato costituisce una caratteristica che pertiene all’immobile e che lo connota negativamente a prescindere dalla posizione psicologica del proprietario. In buona sostanza, i giudici affermano –come si legge nella sentenza in commento- che chi acquista un immobile abusivo lo acquista nella obiettiva situazione di precarietà in cui si trova e con i connessi oneri, come quello della demolizione e/ della riduzione in pristino stato, dai quali è gravato a causa ed in ragione del suo stato. Ciò esclude qualsiasi rilevanza ad eventuali posizioni di buona fede che possano caratterizzare alcuni soggetti.
Nel caso di specie, la polizia municipale del comune interessato aveva redatto verbale da cui si ricavava la realizzazione dell’opera abusiva ivi descritta. Conseguentemente, il Comune emetteva ingiunzione di demolizione a carico della proprietaria dell’immobile. Successivamente al decesso di quest’ultima, il Comune emetteva analoga ordinanza di demolizione ai 5 eredi divenuti proprietari dell’immobile abusivo. Dopo aver accertato la non esecuzione dell’ordinanza di demolizione, il Comune disponeva l’acquisizione gratuita dell’opera abusiva al patrimonio comunale.
Da qui il ricorso da parte degli eredi che, tuttavia, viene ritenuto infondato dal TAR Sicilia–Palermo. Infatti, come già visto, il giudice amministrativo ribadisce che in materia di abusi edilizi, destinatario dell’ordine di demolizione è quel soggetto che abbia la disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente realizzata e che la figura del responsabile dell’abuso non si identifica solo in colui che ha materialmente seguito l’opera ritenuta abusiva, ma si riferisce necessariamente anche a colui che di quell’opera ha la materiale disponibilità e pertanto, quale detentore, è in grado di provvedere alla demolizione restaurando così l’ordine violato.
Chiarito ciò, il TAR Sicilia–Palermo richiama la giurisprudenza che afferma che il proprietario di un bene abusivo può “evitare” che l’ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio comunale abbia effetto nei suoi confronti solamente dimostrando in sede procedimentale di non avere avuto (o di aver perduto) la concreta disponibilità dell’immobile; e di essere stato, pertanto, impossibilitato ad eseguire l’ingiunzione di demolizione. Ciò che nel caso concreto non si è realizzato in quanto i ricorrenti non hanno eseguito l’ordinanza di demolizione che pur avevano legittimamente ricevuto sull’immobile abusivo di cui avevano la piena disponibilità.
Pertanto, secondo i giudici siciliani, poiché l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale costituisce un atto sanzionatorio dovuto da adottare a carico dei soggetti che pur avendo la proprietà e la disponibilità del bene abusivo non abbiano ottemperato all’ingiunzione di demolizione che lo concerne, il provvedimento impugnato necessariamente resiste sotto ogni profilo alle doglianze prospettate dai ricorrenti stessi. Da qui la reiezione del ricorso e la condanna per i ricorrenti al pagamento delle spese processuali in favore del Comune resistente.
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Edilizia, abuso, demolizione, proprietario, eredi, disponibilità materiale.
Il proprietario di un bene abusivo può “evitare” che l’ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio comunale abbia effetto nei suoi confronti (rectius: lo colpisca, determinando l’ablazione, a suo danno, del diritto di proprietà) solamente dimostrando in sede procedimentale di non avere avuto (o di aver perduto) la concreta disponibilità dell’immobile e di essere stato, pertanto, impossibilitato ad eseguire l’ingiunzione di demolizione.
Allo stesso modo, chi acquista un immobile abusivo lo acquista nella obiettiva situazione di precarietà in cui si trova e con i connessi oneri (ad esempio: demolizione e/o riduzione in pristino stato) dai quali è (o può essere) gravato a cagione ed in ragione del suo stato (di bene costruito illecitamente); è esclusa, pertanto, qualsiasi rilevanza, ai fini di evitare la demolizione o la rimessa in pristino stato (e/o di ottenere il condono o la sanatoria) di eventuali posizioni di buona fede (id est: di ignoranza in ordine alla sussistenza dell’abuso). (1)

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(*) Riferimenti normativi: art. 31, d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
(1) Cfr. TAR Campania-Napoli, sez. VIII, sentenza 01.10.2012, n. 4005
(link a www.altalex.com).

APPALTI: La configurabilità del reato di cui all’art. 353 c.p. va esclusa ogni qualvolta l’individuazione del contraente non avvenga all’esito di una gara (anche informale ed atipica), bensì mediante l’esercizio di attività negoziale posta in essere dalla pubblica amministrazione secondo le norme del diritto privato.
La possibilità di turbare la gara, dunque, esiste solo laddove c’è la possibilità di influenzare negativamente il regolare funzionamento di questo meccanismo; se esso manca, non essendovi una gara, dovrà necessariamente escludersi una sua turbativa.

  
14. Nel merito, i ricorsi proposti dagli imputati sono fondati e vanno pertanto accolti per le ragioni di seguito indicate.
   14.1. Per quel che attiene alle doglianze difensive a vario titolo mosse con riguardo alla individuazione come “gara” della procedura ad evidenza pubblica che ha costituito l’oggetto dei temi d’accusa delineati nell’ambito del procedimento de quo, occorre anzitutto richiamare, alla stregua di una pacifica linea interpretativa tracciata da questa Suprema Corte, l’insegnamento giurisprudenziale secondo cui il reato di turbata libertà degli incanti non è configurabile nell’ipotesi di contratti conclusi dalla pubblica amministrazione a mezzo di trattativa privata che sia svincolata da ogni schema concorsuale, a meno che la trattativa privata, al di là del “nomen juris”, si svolga a mezzo di una gara, sia pure informale (Sez. 6^, n. 12238 del 30/09/1998, dep. 23/11/1998, Rv. 213033).
Siffatta evenienza, si è affermato in questa Sede, non integra un’applicazione analogica della fattispecie criminosa di cui all’art. 353 c.p. –vietata in materia penale– in quanto non ne allarga l’ambito di applicazione, bensì concreta una interpretazione estensiva, sulla base dell'”eadem ratio” che la sorregge e che è unica, volta com’è a garantire il regolare svolgimento sia dei pubblici incanti e delle licitazioni private, sia delle gare informali o di consultazione, le quali finiscono con il realizzare, sostanzialmente, delle licitazioni private. In difetto, però, di una reale e libera competizione tra più concorrenti non può parlarsi di gara, come nel caso in cui singoli potenziali contraenti, individualmente interpellati, presentino ciascuno le proprie offerte e l’amministrazione resti libera di scegliere il proprio contraente secondo criteri di convenienza e di opportunità propri della contrattazione tra privati (Sez. 6^, n. 12238 del 30/09/1998, dep. 23/11/1998, cit.).
Dalla fattispecie incriminatrice delineata dall’art. 353 c.p. sono pertanto escluse tutte quelle ipotesi in cui non si svolge una gara in pubblici incanti o in licitazione privata, ma all’aggiudicazione dell’appalto o della fornitura a cui si addivenga mediante trattativa privata, proprio in quanto manca, propriamente, una gara. Poiché questa significa competizione, deve invece ritenersi la sussistenza della gara anche in quelle procedure amministrative cosiddette “informali” o di “consultazione” nelle quali la pubblica amministrazione fa dipendere l’aggiudicazione di opere, forniture o servizi dall’esito dei contatti avuti con persone fisiche o rappresentanti di quelle giuridiche le quali, consapevoli delle offerte di terzi, propongono le proprie condizioni quale contropartita di ciò che serve alla pubblica amministrazione. In tal caso non vi è trattativa privata, perché la consapevolezza, per l’offerente, di non essere il solo, innesca quella contesa che è essenziale in ogni gara (Sez. 6^, n. 4741 del 31/10/1995, dep. 10/05/1996, Rv. 204646).
Siffatto orientamento è stato, in seguito, più volte ripreso e confermato da questa Suprema Corte in relazione a varie fattispecie concrete (Sez. 6^, n. 44829 del 22/09/2004, dep. 18/11/2004, Rv. 230522; Sez. 6^, n. 13124 del 28/01/2008, dep. 27/03/2008, Rv. 239314; Sez. 6^, n. 29581 del 24/05/2011, dep. 22/07/2011, Rv. 250732), ritenendo la configurabilità del reato in ogni situazione nella quale la P.A. proceda all’individuazione del contraente mediante una gara, quale che sia il “nomen iuris” conferito alla procedura, ed anche in assenza di formalità.
Entro tale prospettiva, dunque, le locuzioni “gara nei pubblici incanti” o “licitazione privata” non hanno, propriamente, un significato normativo mutuato dalle procedure per l’aggiudicazione degli appalti per pubbliche forniture e con l’osservanza dei termini e delle disposizioni legislative sulla contabilità di Stato, ma vanno riferite ad ogni procedura di gara, anche informale ed atipica, mediante la quale la singola pubblica amministrazione decida di individuare il contraente e concludere un contratto, assicurando una libera competizione tra più concorrenti (Sez. 6^, n. 13124 del 28/01/2008, dep. 27/03/2008, cit.).
Il presupposto dell’interpretazione estensiva dell’art. 353 c.p., tuttavia, deve ricercarsi nella presenza di “qualificanti forme procedimentali”, nel senso che, in loro difetto, nonostante l’interpello di più soggetti, non è prestabilito alcun meccanismo selettivo delle offerte e non viene in rilievo alcuna forma di competizione e di concorrenza tra gli offerenti, si rimane al di fuori dello schema concettuale della “gara” e si è in presenza di una semplice comparazione di offerte, che la P.A. è libera di valutare come meglio crede, sia pure attraverso un contestuale esame delle stesse.
La possibilità di turbare la gara, dunque, esiste solo laddove c’è la possibilità di influenzare negativamente il regolare funzionamento di questo meccanismo; se esso manca, non essendovi una gara, dovrà necessariamente escludersi una sua turbativa (Sez. 6^, n. 12238 del 30/09/1998, dep. 23/11/1998, cit.)
(Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 21.07.2014 n. 32237 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: Titolo abilitativo necessario per il mutamento di destinazione d'uso.
Il mutamento di destinazione d'uso è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché però intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica; mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.07.2014 n. 31465 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Valutazione unitaria delle opere.
Gli interventi edilizi abusivi vanno valutati nel loro complesso, non potendosi, in base al concetto unitario di costruzione, considerare separatamente i singoli componenti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.07.2014 n. 30931 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti. Abbandono e momento consumativo del reato.
Non vi è dubbio che ogni qualvolta l'attività di abbandono ovvero di deposito incontrollato di rifiuti sia prodromica ad una successiva fase di smaltimento ovvero di recupero del rifiuto stesso, caratterizzandosi, pertanto, essa come una forma, per quanto elementare, di gestione del rifiuto (della quale attività potrebbe dirsi che essa costituisce il "grado zero"), la relativa illiceità penale permea di sé l'intera condotta (quindi sia la fase prodromica che quella successiva) integrando, pertanto, una fattispecie penale di durata, la cui permanenza cessa soltanto con il compimento delle fasi ulteriori rispetto a quella di rilascio; tutto ciò con le derivanti conseguenza anche a livello di decorrenza del termine prescrizionale.
Laddove, invece siffatta attività non costituisca l'antecedente di una successiva fase volta al compimento di ulteriori operazioni aventi ad oggetto, appunto lo smaltimento od il recupero del rifiuto, ma racchiuda in se l'intero disvalore penale della condotta, non vi è ragione di ritenere che essa sia idonea ad integrare un reato permanente; ciò in quanto, essendosi il reato pienamente perfezionato ed esaurito in tutta le sue componenti oggettive e soggettive, risulterebbe del tutto irragionevole non considerarne oramai cristallizzati i profili dinamici fin dal momento del rilascio del rifiuto, nessuna ulteriore attività residuando alla descritta condotta di abbandono
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.07.2014 n. 30910  tratto da www.lexambiente.it).

INCARICHI PROFESSIONALIAvvocato responsabile se non informa sui rischi. Obbligatorio spiegare ai clienti gli effetti della strategia difensiva.
Serve un mandato consapevole della complessità della causa.
È responsabile verso il proprio cliente l’avvocato che non lo informa dei rischi di un cambio di strategia difensiva che comporta la sconfitta in giudizio.

Lo ha stabilito il TRIBUNALE di Verona, Sez. III civile, sentenza 04.07.2014, chiarendo che il legale è tenuto a dimostrare di aver comunicato al proprio assistito tutti gli elementi necessari a una valutazione completa. Nel caso specifico, il cambio di domanda aveva comportato il rigetto dell’istanza da parte del giudice.
Un avvocato, nello svolgimento dell’incarico ricevuto dal cliente, deve rispondere sia per la qualità tecnica della prestazione erogata, sia per le scelte processuali e strategiche che ha ritenuto opportuno adottare.
Oltre a ciò, il professionista ha, verso il proprio assistito, anche l’obbligo di spiegare le ragioni delle proprie scelte e delle domande avanzate in giudizio, avendo cura che il proprio cliente le abbia ben comprese e ne conosca gli effetti sul piano delle possibili decisioni che il giudice adotterà.
Questi principi sono stati ribaditi dal tribunale di Verona che, con una recente sentenza, ha accolto il ricorso presentato da due clienti contro l’avvocato che li aveva assistiti in precedenza, lamentando i suoi errori professionali per l’errata conduzione della difesa in giudizio.
La vicenda
Gli attori hanno conferito mandato a un avvocato per recuperare i canoni di occupazione per l’utilizzo illegittimo di un loro terreno da parte di un’impresa di telefonia la quale aveva installato, senza autorizzazione, una antenna per telecomunicazioni. Nel corso del giudizio, però, gli attori hanno revocato il mandato all’originario difensore e lo hanno conferito a un nuovo avvocato. Quest’ultimo, per propria scelta difensiva, ha modificato la domanda originaria in un’azione che puntava a ottenere il passaggio di proprietà del terreno alla società telefonica, in forza di un contratto preliminare di acquisto non onorato.
Ma il tribunale ha ritenuto la domanda come modificata “in corso d’opera” del tutto nuova e quindi inammissibile, condannando gli attori al pagamento delle spese processuali della società convenuta.
I proprietari del terreno hanno quindi fatto causa al secondo avvocato per ottenere il risarcimento del danno per inadempimento del contratto di prestazione d’opera intellettuale.
La valutazione
Il tribunale di Verona è stato chiamato a valutare la condotta professionale del legale sotto l’aspetto sia della qualità dell’assistenza fornita, sia per quanto riguarda la compiuta informativa ai clienti, i quali lamentavano di non essere stati aggiornati del cambio di strategia difensiva e del mutamento della domanda in giudizio. I giudici hanno esaminato distintamente i due profili:
- sotto il primo aspetto, il tribunale valuta errata in diritto la scelta di cambiare i termini della domanda perché tale opzione è concessa nel processo solo per modificare e precisare meglio il contenuto di quanto già esposto nell’atto di citazione e non, come nel caso esaminato, per esercitare di fatto un diritto del tutto diverso;
- sotto il secondo aspetto, l’avvocato difensore è soprattutto responsabile verso il proprio assistito, quando, prescindendo dalla correttezza delle scelte processuali, omette di spiegare al cliente le possibili conseguenze delle stesse, avendo il tribunale accertato che «il convenuto è risultato anche reiteratamente inadempiente all’obbligo contrattuale di informare i propri assistiti del significato e delle conseguenze delle scelte compiute».
Rileva il giudice che «sul punto è opportuno chiarire che l’esigenza dell’attività informativa del professionista nella fase pre-contrattuale è funzionale a conseguire un consenso informato da parte del cliente e trova il suo fondamento nei principi che prevedono tra gli obblighi informativi che il professionista forense deve osservare, prima del formale conferimento dell’incarico, anche quello di comunicare al cliente il grado di complessità dell’incarico e di fornirgli tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili da quel momento fino a quello dell’esaurimento della propria attività».
È dunque compito dell’avvocato dimostrare di avere adempiuto all’onere di informativa (né, come nel caso esaminato, può essere sufficiente conferire con il cliente utilizzando brocardi latini, non di corrente uso quotidiano) e provare di avere ottenuto dal proprio assistito non un qualunque consenso all’azione, ma un idoneo mandato cosciente e consapevole delle complessità della causa e dei suoi rischi
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.12.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'inerzia di un comune nel reprimere un abuso edilizio a seguito di segnalazione in Procura e conseguente condanna penale del Sindaco.
A seguito di esposto all'Autorità Giudiziaria per presunti abusi edilizi,
è scaturito un procedimento penale che si è concluso in primo grado con la condanna del sindaco (nel doppio ruolo di sindaco e di responsabile del Servizio Urbanistica) a due anni di reclusione per abuso d’ufficio.
In particolare, la sentenza di condanna ha accertato che il sindaco:
   (i) ha rilasciato ai proprietari del residence (per gli abusi riguardanti le autorimesse interrate, le piscine e le difformità rispetto al titolo edilizio) un permesso di costruire in sanatoria che deve essere qualificato come illegittimo, in quanto le opere si collocano nel perimetro del Parco Alto Garda Bresciano e dunque sarebbe stato necessario acquisire prima dei lavori l’autorizzazione paesistica della Comunità Montana;
   (ii) ha omesso di reprimere gli abusi edilizi nonostante le segnalazioni pervenute dai privati e le osservazioni della Regione, assicurando in questo modo un vantaggio ai proprietari del residence e provocando un danno ai fondi limitrofi.
E proprio sull'inerzia del comune nel dover reprimere gli abusi edilizi, circa l
’'autotutela in materia di atti amministrativi risulta che:
- il riesame fa parte del potere di vigilanza sull’attività edilizia, che compete ai responsabili degli uffici tecnici comunali in base all’art. 27, commi 1 e 2, del DPR 06.06.2001 n. 380. Il suddetto potere deve essere esercitato sia nell’ambito delle normali verifiche sulle nuove attività edificatorie sia quando pervenga agli uffici la notizia di abusi o irregolarità. L’esercizio del potere è obbligatorio, essendo preordinato alla tutela di interessi pubblici.
- tra le modalità di esercizio del potere si colloca anche l’autotutela nei confronti dei permessi di costruire o degli altri titoli edilizi, qualora in relazione agli stessi siano stati sollevati dubbi di legittimità da parte di terzi che ritengano di subire un danno a causa dell’attività edificatoria autorizzata.
- non costituisce legittima esimente per il mancato svolgimento della verifica in autotutela la circostanza che i terzi asseritamente danneggiati si siano limitati a presentare denunce o segnalazioni senza impugnare i titoli edilizi davanti al giudice amministrativo. Vige infatti un sistema di doppia tutela per i soggetti che subiscono le conseguenze dell’attività edilizia altrui:
   (a) diretta, se viene promosso un ricorso giurisdizionale per ottenere l’annullamento del titolo edilizio ritenuto illegittimo;
   (b) indiretta, se i terzi preferiscono attivare il potere di autotutela dell’amministrazione, proteggendo i propri diritti nei limiti delle valutazioni sull’interesse pubblico svolte dagli uffici comunali. Le due vie possono essere percorse cumulativamente o alternativamente, senza preclusioni, ferma restando la prevalenza delle statuizioni di annullamento o conformative contenute nell’eventuale sentenza del giudice amministrativo.

Sicché,
dalle motivazioni della sentenza penale sembra emergere il seguente quadro fattuale:
   (a) sul piano formale, le piscine e le autorimesse interrate sono state realizzate senza alcun titolo edilizio, e i balconi sono difformi rispetto al permesso di costruire originario;
   (b) sul piano sostanziale, le piscine costituiscono un manufatto non espressamente contemplato dalle NTA, il che richiede un’attività di interpretazione della disciplina urbanistica, e le autorimesse interrate sporgono dal livello di campagna, con i conseguenti problemi di individuazione della quota originaria rilevante ai fini edilizi;
   (c) sotto il profilo paesistico, manca la preventiva autorizzazione della Comunità Montana.
Il Comune deve quindi avviare un procedimento amministrativo con il seguente contenuto:
   (a) effettuare un’esatta ricognizione delle opere eseguite abusivamente, intendendosi per tali quelle che non erano previste nel permesso di costruire originario, o erano previste con caratteristiche diverse;
   (b) esaminare ciascuna delle opere abusive sotto il profilo urbanistico per stabilire se vi siano i presupposti per l’accertamento di conformità ex art. 36 del DPR 380/2001;
   (c) verificare se effettivamente sia mancata l’autorizzazione paesistica, preventiva o in sanatoria, per le suddette opere;
   (d) esaminare ciascuna delle opere abusive sotto il profilo paesistico per stabilire se vi siano i presupposti per l’accertamento della compatibilità paesistica ex art. 167, comma 4, del Dlgs. 22.01.2004 n. 42;
   (e) coinvolgere in quest’ultimo aspetto la Comunità Montana, competente al rilascio dell’autorizzazione paesistica in sanatoria, e la Soprintendenza, per il parere vincolante ai sensi dell’art. 167, comma 5, del Dlgs. 42/2004;
   (f) pronunciarsi quindi definitivamente sull’intera vicenda con un provvedimento di sanatoria (totale, parziale, o con eventuali prescrizioni) oppure con un ordine di rimessione in pristino (totale o parziale).

... per l'accertamento del silenzio-inadempimento del Comune in relazione agli abusi edilizi indicati dai ricorrenti nella nota del 23.07.2013 e oggetto di un procedimento penale definito in primo grado.
...
1. I ricorrenti H.W. e A.W. sono proprietari di un immobile situato nel Comune di Tremosine e confinante con il residence ..., di proprietà dei controinteressati.
2. Negli anni 2002-2003 il residence (che in precedenza era un albergo in condizioni di degrado) è stato interessato da lavori di demolizione e ricostruzione, con la realizzazione aggiuntiva di autorimesse interrate, balconi e due piscine.
3. Ritenendo non regolari i lavori, i ricorrenti avevano fatto all’epoca una segnalazione all’autorità giudiziaria. Da tale segnalazione (e da analoghe denunce di altri soggetti) è scaturito un procedimento penale che si è concluso in primo grado con la condanna del sindaco (nel doppio ruolo di sindaco e di responsabile del Servizio Urbanistica) a due anni di reclusione per abuso d’ufficio (Trib. Brescia 29.11.2011 n. 3128).
4. In particolare, la predetta sentenza ha accertato che il sindaco:
   (i) ha rilasciato ai proprietari del residence (per gli abusi riguardanti le autorimesse interrate, le piscine e le difformità rispetto al titolo edilizio) un permesso di costruire in sanatoria che deve essere qualificato come illegittimo, in quanto le opere si collocano nel perimetro del Parco Alto Garda Bresciano e dunque sarebbe stato necessario acquisire prima dei lavori l’autorizzazione paesistica della Comunità Montana;
   (ii) ha omesso di reprimere gli abusi edilizi nonostante le segnalazioni pervenute dai privati e le osservazioni della Regione, assicurando in questo modo un vantaggio ai proprietari del residence e provocando un danno ai fondi limitrofi.
5. Con nota del 23.07.2013 i ricorrenti hanno invitato il Comune a conformarsi alla sentenza penale, e a reprimere di conseguenza gli abusi edilizi mediante ordini di demolizione.
6. Gli uffici comunali non hanno però provveduto in questo senso. Nei giorni 12 e 30.08.2013 sono stati invece effettuati dei sopralluoghi presso l’abitazione dei ricorrenti per l’accertamento di eventuali irregolarità edilizie.
7. Contro il silenzio mantenuto dal Comune sulla questione degli abusi presso il residence ... i ricorrenti hanno esercitato l’azione ex art. 117 cpa con atto notificato il 16.01.2014 e depositato il 22.01.2014.
...
9. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni.
Premesse
10. Poiché la sentenza penale è stata impugnata, la responsabilità del sindaco non risulta accertata in via definitiva.
11. La durata dell’appello non può però essere un tempo di inerzia per il Comune, che ha ormai acquisito, sia in conseguenza delle denunce dei privati sia attraverso la sentenza penale di primo grado, elementi sufficienti per avviare il riesame degli abusi edilizi in sede amministrativa.
Sull’autotutela
12. Il riesame fa parte del potere di vigilanza sull’attività edilizia, che compete ai responsabili degli uffici tecnici comunali in base all’art. 27, commi 1 e 2, del DPR 06.06.2001 n. 380. Il suddetto potere deve essere esercitato sia nell’ambito delle normali verifiche sulle nuove attività edificatorie sia quando pervenga agli uffici la notizia di abusi o irregolarità. L’esercizio del potere è obbligatorio, essendo preordinato alla tutela di interessi pubblici.
13. Tra le modalità di esercizio del potere si colloca anche l’autotutela nei confronti dei permessi di costruire o degli altri titoli edilizi, qualora in relazione agli stessi siano stati sollevati dubbi di legittimità da parte di terzi che ritengano di subire un danno a causa dell’attività edificatoria autorizzata.
14. Non costituisce legittima esimente per il mancato svolgimento della verifica in autotutela la circostanza che i terzi asseritamente danneggiati si siano limitati a presentare denunce o segnalazioni senza impugnare i titoli edilizi davanti al giudice amministrativo. Vige infatti un sistema di doppia tutela per i soggetti che subiscono le conseguenze dell’attività edilizia altrui:
   (a) diretta, se viene promosso un ricorso giurisdizionale per ottenere l’annullamento del titolo edilizio ritenuto illegittimo;
   (b) indiretta, se i terzi preferiscono attivare il potere di autotutela dell’amministrazione, proteggendo i propri diritti nei limiti delle valutazioni sull’interesse pubblico svolte dagli uffici comunali. Le due vie possono essere percorse cumulativamente o alternativamente, senza preclusioni, ferma restando la prevalenza delle statuizioni di annullamento o conformative contenute nell’eventuale sentenza del giudice amministrativo.
Sui rapporti con il giudizio penale
15. La pendenza dell’appello davanti al giudice penale non attenua l’obbligo di procedere al riesame della situazione degli abusi in sede amministrativa. In effetti, il riesame può prescindere dall’accertamento della responsabilità penale del sindaco. Se questa fosse provata anche nei successivi gradi di giudizio vi sarebbe un profilo di sviamento dell’azione amministrativa che costituirebbe un vizio autonomo del permesso di costruire in sanatoria.
Questo vizio, di carattere soggettivo, si aggiungerebbe a quelli già sottolineati nella sentenza penale di primo grado, i quali hanno invece un rilievo amministrativo di natura oggettiva (mancanza di autorizzazione paesistica preventiva, difformità urbanistica, difformità dal permesso di costruire originario).
16. È su questi profili oggettivi, del tutto simili a quelli che si presentano nelle ordinarie controversie in materia edilizia e paesistica, che l’amministrazione deve ora concentrare la propria attenzione. Alcuni fatti sono già stati focalizzati nella sentenza penale, e altri potranno essere approfonditi attraverso indagini condotte direttamente dagli uffici comunali.
Sul contenuto della verifica rimessa agli uffici comunali
17. Dalle motivazioni della sentenza penale sembra emergere il seguente quadro fattuale:
   (a) sul piano formale, le piscine e le autorimesse interrate sono state realizzate senza alcun titolo edilizio, e i balconi sono difformi rispetto al permesso di costruire originario;
   (b) sul piano sostanziale, le piscine costituiscono un manufatto non espressamente contemplato dalle NTA, il che richiede un’attività di interpretazione della disciplina urbanistica, e le autorimesse interrate sporgono dal livello di campagna, con i conseguenti problemi di individuazione della quota originaria rilevante ai fini edilizi;
   (c) sotto il profilo paesistico, manca la preventiva autorizzazione della Comunità Montana.
18. Il Comune deve quindi avviare un procedimento amministrativo con il seguente contenuto:
   (a) effettuare un’esatta ricognizione delle opere eseguite abusivamente, intendendosi per tali quelle che non erano previste nel permesso di costruire originario, o erano previste con caratteristiche diverse;
   (b) esaminare ciascuna delle opere abusive sotto il profilo urbanistico per stabilire se vi siano i presupposti per l’accertamento di conformità ex art. 36 del DPR 380/2001;
   (c) verificare se effettivamente sia mancata l’autorizzazione paesistica, preventiva o in sanatoria, per le suddette opere;
   (d) esaminare ciascuna delle opere abusive sotto il profilo paesistico per stabilire se vi siano i presupposti per l’accertamento della compatibilità paesistica ex art. 167, comma 4, del Dlgs. 22.01.2004 n. 42;
   (e) coinvolgere in quest’ultimo aspetto la Comunità Montana, competente al rilascio dell’autorizzazione paesistica in sanatoria, e la Soprintendenza, per il parere vincolante ai sensi dell’art. 167, comma 5, del Dlgs. 42/2004;
   (f) pronunciarsi quindi definitivamente sull’intera vicenda con un provvedimento di sanatoria (totale, parziale, o con eventuali prescrizioni) oppure con un ordine di rimessione in pristino (totale o parziale).
Sui termini della procedura
19. Per l’avvio del procedimento, nel quale devono essere coinvolti anche i ricorrenti, e per lo svolgimento delle attività indicate al punto 18 come (a)-(b)-(c)-(d) viene stabilito il termine di 60 giorni dal deposito della presente sentenza, tenuto conto della complessità degli adempimenti.
Per la successiva fase (e) viene stabilito il termine di 120 giorni, decorrente dalla scadenza del termine precedente, tenuto conto della necessità di coinvolgere altre amministrazioni. Per la fase finale (f) viene stabilito il termine di 30 giorni, decorrente dalla scadenza del termine precedente.
Conclusioni
20. Il ricorso, previo accertamento del carattere illegittimo del silenzio mantenuto dal Comune, deve essere accolto come precisato sopra, con la fissazione di un calendario di adempimenti a carico degli uffici comunali
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 17.06.2014 n. 657 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Jus aedificandi.
L’art. 9 del dpr n. 380/2001, disciplinando l’utilizzo delle aree per le quali non risulta intervenuta l’approvazione di uno strumento attuativo, si limita a trarne una restrizione consequenziale sul tipo di interventi realizzabili in assenza del medesimo, ma non smentisce il principio emergente della non subordinabilità dello “ius aedificandi” a future scelte urbanistiche di dettaglio e completamento pianificatorio.
Questo orientamento resta ancora valido, quale principio generale a tutela dello “ius aedificandi”, ma nella sua effettiva e limitata portata di non consentire che l’assenza dello strumento attuativo possa prolungarsi “sine die”; ma tale portata non può certamente essere estesa sino a configurare un dovere per l’amministrazione, nelle more della pianificazione attuativa, di rilasciare il permesso di costruzione in zone sostanzialmente carenti delle opere in questione.
La giurisprudenza ha da tempo affermato che non è sufficiente un qualunque stadio di urbanizzazione, anche di fatto, per eludere l’obbligo della previa redazione dello strumento attuativo.
Per contro, nella predetta situazione, l’ordinamento (che peraltro offre rimedi sollecitatori delle potestà pianificatorie) pone a carico del soggetto che chiede il permesso l’onere di documentare l’esistenza di sufficienti opere di urbanizzazione primaria e secondaria o, può aggiungersi, di indicare ed accollarsi, ma sempre nelle forme di legge, il compimento di quelle opere risultanti carenti.

L’art. 9 del dpr n. 380/2001, disciplinando l’utilizzo delle aree per le quali non risulta intervenuta l’approvazione di uno strumento attuativo, si limita a trarne una restrizione consequenziale sul tipo di interventi realizzabili in assenza del medesimo, ma non smentisce il principio emergente da Cons. di Stato, a.p., n. 12/1992 della non subordinabilità dello “ius aedificandi” a future scelte urbanistiche di dettaglio e completamento pianificatorio. Questo orientamento resta ancora valido, quale principio generale a tutela dello “ius aedificandi”, ma nella sua effettiva e limitata portata di non consentire che l’assenza dello strumento attuativo possa prolungarsi “sine die”; ma tale portata non può certamente essere estesa sino a configurare un dovere per l’amministrazione, nelle more della pianificazione attuativa, di rilasciare il permesso di costruzione in zone sostanzialmente carenti delle opere in questione.
Del resto, la giurisprudenza ha da tempo affermato che non è sufficiente un qualunque stadio di urbanizzazione, anche di fatto, per eludere l’obbligo della previa redazione dello strumento attuativo. Per contro, nella predetta situazione, l’ordinamento [che peraltro offre rimedi sollecitatori delle potestà pianificatorie (cfr. Cons. St., sez. IV, n. 6625/2008)] pone a carico del soggetto che chiede il permesso l’onere di documentare l’esistenza di sufficienti opere di urbanizzazione primaria e secondaria (v. Cons. di Stato, sez. V, n. 790/2001) o, può aggiungersi, di indicare ed accollarsi, ma sempre nelle forme di legge, il compimento di quelle opere risultanti carenti.
Nella fattispecie, la prima situazione (assenza di opere sufficienti) risulta da una specifica certificazione dell’autorità comunale che attesta di non aver mai provveduto alla realizzazione delle opere in parola. Cionondimeno, lo “ius aedificandi” del proprietario, che pur non ha documentalmente smentito l’insufficienza delle opere, non risulta irrimediabilmente precluso ma solo subordinato, nella possibilità di espansione, alla seconda opzione, che cioè le opere mancanti (o insufficienti) siano realizzate mediante uno strumento consensuale tra parte pubblica e privata (ad es. accordi di pianificazione, piano di iniziativa privata, regolante i rispettivi oneri economici).
Certo è che non è praticabile la terza via, chiesta dai ricorrenti, la quale darebbe luogo ad un permesso di costruzione che rappresenterebbe un uso del territorio inammissibile in quanto avulso da ordinati ed effettivamente attuati parametri di sviluppo urbanistico. Che poi la zona sia stata interessata da un elevato livello di urbanizzazione in punto di fatto, come avvenuto per molte zone del territorio italiano, è situazione del tutto esterna alla legalità urbanistica quanto al presente contenzioso.
Sotto il profilo giuridico, dunque, l’art. 9 del dpr n. 380/2001 non permetteva il rilascio del permesso in questione. Del resto la Sezione, ad estrinsecazione della predetta norma, ha già avuto occasione di affermare (Cons. di Stato, n. 3699/2010), confermando una sentenza del TAR Campania (sezione II, n. 6669/2007):
- "che quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo” sia venuto ad esistenza giuridica (cfr. Cons. St., sez. V, n. 300/1997);
- “che in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l’esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa (cfr. Cons. St., sez. IV, 03.11.2008, n. 5471)”;
- che “la valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione” è rimessa all’esclusivo apprezzamento discrezionale del Comune (cfr. Cons. St., sez. IV, n. 4276/2007) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.06.2014 n. 3119 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Attività di discoteca.
Integra il reato previsto dall'art. 659, comma primo, cod. pen., l'esercizio di una discoteca i cui rumori, in ora notturna, provocano disturbo al riposo delle sole persone abitanti nell'edificio in cui è ubicato il locale, se il fastidio non è limitato agli appartamenti attigui alla sorgente rumorosa, in quanto la propagazione delle emissioni sonore estesa all'intero fabbricato è sintomatica di una diffusa attitudine offensiva e della idoneità a turbare la pubblica quiete (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.06.2014 n. 23529 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Condono edilizio, certificato di abitabilità e salubrità dell’immobile.
Il rilascio del certificato di abitabilità di un fabbricato conseguente al condono edilizio, può legittimamente avvenire in deroga solo a norme regolamentari e non anche quando siano carenti le condizioni di salubrità richieste da fonti normative di livello primario, in quanto la disciplina del condono edilizio, per il suo carattere eccezionale e derogatorio, non è suscettibile di interpretazioni estensive e, soprattutto, tali da incidere sul fondamentale principio della tutela della salute con evidenti riflessi sul piano della legittimità costituzionale.
Permangono, infatti, in capo ai Comuni tutti gli obblighi inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per l’abitabilità degli edifici, con l’unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari.
D’altra parte il certificato di abitabilità non serve ad abilitare l’immobile ad un certo uso piuttosto che ad un altro, giacché dopo il D.P.R. 22.04.1994, n. 425, non è previsto un certificato di abitabilità specializzato, così che l’abitabilità riguarda solo la salubrità dell’immobile, e quindi il solo manufatto edilizio e non l’attività che viene svolta; il rilascio del certificato di abitabilità è pertanto condizionato non solo alla salubrità degli ambienti, ma anche alla conformità edilizia dell’opera, sicché, attesa la presunzione iuris tantum di legittimità degli atti amministrativi, col rilascio del permesso di abitabilità devono intendersi verificate, salvo prova contraria, entrambe le suddette condizioni, senza necessità di produrre ulteriori certificati.

La Sezione non intende discostarsi dal consolidato indirizzo giurisprudenziale (C.d.S., sez. V, 13.04.1999, n. 414; 15.04.2004, n. 2140) a tenore del quale “…il rilascio del certificato di abitabilità di un fabbricato conseguente al condono edilizio (ai sensi dell’art. 35, comma 20, della legge n. 47 del 1985), può legittimamente avvenire in deroga solo a norme regolamentari e non anche quando siano carenti le condizioni di salubrità richieste da fonti normative di livello primario, in quanto la disciplina del condono edilizio, per il suo carattere eccezionale e derogatorio, non è suscettibile di interpretazioni estensive e, soprattutto, tali da incidere sul fondamentale principio della tutela della salute con evidenti riflessi sul piano della legittimità costituzionale”; ciò del resto è stato ritenuto coerente con quanto affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 256 del 1996, ad avviso della quale la deroga introdotta dall’articolo 35 della legge n. 47 del 1985 “…non riguarda i requisiti richiesti da disposizioni legislative e deve, pertanto, escludersi una automaticità assoluta nel rilascio del certificato di abitabilità…a seguito di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune verificare che al momento del rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non solo le disposizioni di cui all’art. 221 T.U. delle leggi sanitarie (rectius, di cui all’art. 4 del D.P.R. 425/1994), ma, altresì quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali relativi e rispettiva normativa tecnica…Permangono, infatti, in capo ai Comuni tutti gli obblighi inerenti alla verifica delle condizioni igienico–sanitarie per l’abitabilità degli edifici, con l’unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari” (C.d.S., sez. V, 15.04.2004, n. 2140).
D’altra parte il certificato di abitabilità non serve ad abilitare l’immobile ad un certo uso piuttosto che ad un altro, giacché dopo il D.P.R. 22.04.1994, n. 425, non è previsto un certificato di abitabilità specializzato, così che l’abitabilità riguarda solo la salubrità dell’immobile (C.G.A., 13.10.1999, n. 469) e quindi il solo manufatto edilizio e non l’attività che viene svolta (C.d.S., sez. V, 03.06.1996, n. 613); il rilascio del certificato di abitabilità è pertanto condizionato non solo alla salubrità degli ambienti, ma anche alla conformità edilizia dell’opera, sicché, attesa la presunzione iuris tantum di legittimità degli atti amministrativi, col rilascio del permesso di abitabilità devono intendersi verificate, salvo prova contraria, entrambe le suddette condizioni, senza necessità di produrre ulteriori certificati (Cass. Civ., sez. II, 12.10.2012, n. 17498).
Ciò precisato, anche l’impugnato diniego di autorizzazione all’agibilità dei locali oggetto del (diniego) di condono edilizio non può essere considerato illegittimo.
Invero non solo l’amministrazione comunale di Livigno aveva correttamente rilevato nella richiesta di rilascio del certificato di agibilità avanzata dalla società interessata la mancata produzione della documentazione a tal fine prescritta dall’art. 4 del D.P.R. n. 425 del 1994, documentazione necessaria anche nel caso di condono edilizio, per quanto presupposto di tale certificato è proprio l’effettivo condono edilizio che nel caso di specie è stato legittimamente negato, potendo rinviarsi sul punto alle considerazioni scolte nel precedente paragrafo VI
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.06.2014 n. 3034 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ stato rilevato che ai fini del condono edilizio la realizzazione dell’opera abusiva, alla data del 31.12.1993, è identificabile se l’immobile è già eseguito, sia pure al rustico in tutte le sue strutture essenziali, fra le quali devono essere comprese le tamponature che sono necessarie per stabilire la relativa volumetria e la sagoma esterna, aggiungendosi che, per quanto riguarda le opere interne o quelle non destinate ad uso non residenziale, la loro ultimazione è da ricollegare al loro completamento funzionale, inteso nel senso della sussistenza delle opere indispensabili a rendere effettivamente possibile l’uso per il quale sono state realizzate (o l’uso diverso da quello a suo tempo assentito o incompatibile con l’originaria destinazione d’uso, nel caso di mutamento di quest’ultimo).
Posto poi che la distinzione tra ultimazione a rustico e completamento funzionale deve essere eseguita in concreto e non in astratto, non essendo sufficiente la qualificazione della parte a determinare oggettivamente il contenuto dei lavori eseguiti, sempre ai fini del condono edilizio, è stato sottolineato che è onere del richiedente il condono edilizio provare che l’opera sia stata completata entro la data utile fissata della legge, non essendo a tal fine sufficiente la sola dichiarazione sostitutiva dell’atto notorio, che deve essere supportata da ulteriori riscontri documentali, eventualmente indiziari, purché altamente probanti (C.d.S., sez. IV, 06.06.2001, n. 3067; così del resto anche sez. V, 14.03.2007, n. 1249, secondo cui la prova del completamento dell’edificio entro la data prevista dalla legge può essere validamente fornita, in alternativa alla dichiarazione sostitutiva dell’atto notorio, attraverso la produzione della documentazione, munita di data certa, delle fatture e delle bolle di accompagnamento dei materiali necessari per la realizzazione dell’opera).

L’articolo 39 della legge 23.12.1994, n. 774, ha stabilito al primo comma, tra l’altro, che “Le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28.02.1985, n. 47 e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dal presente articolo, si applicano alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31.12.1993, e che non abbiano comportato ampliamento del manufatto superiore al 30 per cento della volumetria della costruzione originaria ovvero, indipendentemente dalla volumetria iniziale o assentita, un ampliamento superiore a 750 metri cubi…”, aggiungendo al quarto comma che “La domanda di concessione o di autorizzazione in sanatoria, con la prova del pagamento dell’oblazione, deve essere presentata al comune competente, a pena di decadenza, entro il 31.03.1995…”.
E’ stato rilevato che ai fini del condono edilizio la realizzazione dell’opera abusiva, alla data del 31.12.1993, è identificabile se l’immobile è già eseguito, sia pure al rustico in tutte le sue strutture essenziali, fra le quali devono essere comprese le tamponature che sono necessarie per stabilire la relativa volumetria e la sagoma esterna (C.d.S., sez. V, 18.11.2004, n. 7547), aggiungendosi che, per quanto riguarda le opere interne o quelle non destinate ad uso non residenziale, la loro ultimazione è da ricollegare al loro completamento funzionale, inteso nel senso della sussistenza delle opere indispensabili a rendere effettivamente possibile l’uso per il quale sono state realizzate (o l’uso diverso da quello a suo tempo assentito o incompatibile con l’originaria destinazione d’uso, nel caso di mutamento di quest’ultimo) (C.d.S., sez. IV, 09.02.2012, n. 683; 09.05.2011, n. 2750; sez. V, 21.05.1999, n. 587; 18.11.2004, n. 7547; 23.05.2005, n. 2578; 04.10.2007, n. 5153).
Posto poi che la distinzione tra ultimazione a rustico e completamento funzionale deve essere eseguita in concreto e non in astratto, non essendo sufficiente la qualificazione della parte a determinare oggettivamente il contenuto dei lavori eseguiti (C.d.S., sez. V 18.12.2002, n. 7021), sempre ai fini del condono edilizio, è stato sottolineato che è onere del richiedente il condono edilizio provare che l’opera sia stata completata entro la data utile fissata della legge, non essendo a tal fine sufficiente la sola dichiarazione sostitutiva dell’atto notorio, che deve essere supportata da ulteriori riscontri documentali, eventualmente indiziari, purché altamente probanti (C.d.S., sez. IV, 06.06.2001, n. 3067; così del resto anche sez. V, 14.03.2007, n. 1249, secondo cui la prova del completamento dell’edificio entro la data prevista dalla legge può essere validamente fornita, in alternativa alla dichiarazione sostitutiva dell’atto notorio, attraverso la produzione della documentazione, munita di data certa, delle fatture e delle bolle di accompagnamento dei materiali necessari per la realizzazione dell’opera)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.06.2014 n. 3034 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: A seguito della separazione tra attività di indirizzo politico–amministrativo e attività gestionale, spetta ai dirigenti comunali e, nei comuni privi di personale di tale qualifica, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale, l’adozione degli atti di gestione ovvero di attuazione degli indirizzi politico–amministrativi attribuiti esclusivamente agli organi di governo (sindaco, consiglio comunale e giunta), tra cui a titolo esemplificativo, i provvedimenti in materia urbanistica ed edilizia, assegnazione e revoca dell’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, autorizzazione all’apertura o al mancato mantenimento in esercizio di un passo carrabile, provvedimento di chiusura temporanea di un esercizio commerciale.
Se è vero poi che restano attribuite al sindaco le potestà di gestione connesse alle funzioni di ufficiale di governo, tale speciali potestà danno vita a provvedimenti contingibili ed urgenti connotati dall’eccezionalità e dalla imprevedibilità di fatti che rendono indispensabile prevenire ed eliminare gravi pericoli per l’incolumità dei cittadini e che non possono essere fronteggiati con i normali mezzi apprestati dall’ordinamento.

Deve essere invece respinto l’appello (NRG. 1722/01) proposto avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sez. II, n. 6170 del 31.10.2000, che ha riconosciuto l’illegittimità dell’ordinanza sindacale n. 2212, prot. n. 2448, del 15.02.1999, di sospensione dell’attività di pubblico esercizio di tipo “A”, svolta nei locali in questione, e di chiusura dell’esercizio stesso, in quanto adottata da organo incompetente.
Al riguardo è appena il caso di ricordare che, a seguito della separazione tra attività di indirizzo politico–amministrativo e attività gestionale, spetta ai dirigenti comunali e, nei comuni privi di personale di tale qualifica, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale, l’adozione degli atti di gestione ovvero di attuazione degli indirizzi politico–amministrativi attribuiti esclusivamente agli organi di governo (sindaco, consiglio comunale e giunta), tra cui a titolo esemplificativo, i provvedimenti in materia urbanistica ed edilizia (C.d.S., sez. V, 09.10.2007, n. 5232; 05.10.2005, n. 5312; 04.05.2004, n. 2694), assegnazione e revoca dell’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica (C.d.S., sez. V, 31.01.2007, n. 405; 30.08.2006, n. 5073), autorizzazione all’apertura o al mancato mantenimento in esercizio di un passo carrabile (C.d.S., sez. V, 21.11.2005, n. 6413), provvedimento di chiusura temporanea di un esercizio commerciale (in applicazione degli artt. 14 della legge 30.04.1962, n. 283, e 21, ultimo comma, della legge 24.11.1981, n. 689. C.d.S., sez. V, 14.05.2004, n. 3143).
Se è vero poi che restano attribuite al sindaco le potestà di gestione connesse alle funzioni di ufficiale di governo (C.d.S., sez. V 05.10.2005, n. 5312), tale speciali potestà danno vita a provvedimenti contingibili ed urgenti connotati dall’eccezionalità e dalla imprevedibilità di fatti che rendono indispensabile prevenire ed eliminare gravi pericoli per l’incolumità dei cittadini e che non possono essere fronteggiati con i normali mezzi apprestati dall’ordinamento (C.d.S., sez. V, 10.02.2010, n. 670; 11.12.2007, n. 6366; sez. VI, 13.06.2012, n. 3490).
Nel caso di specie tali peculiari elementi di fatto non sono rinvenibili, non potendo fondarsi il potere del sindaco, quale ufficiale di governo, sulla sola molteplicità degli interessi pubblici tutelati con il provvedimento emanato, così come pretende l’amministrazione appellante
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.06.2014 n. 3034 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: I consiglieri comunali, in quanto tali, non sono legittimati ad agire contro l'amministrazione di appartenenza, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi dello stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive; pertanto, l'impugnativa di singoli consiglieri può ipotizzarsi soltanto allorché vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto all'ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona investita della carica di consigliere.
Più in particolare si è affermato che le violazioni delle regole procedurali che possono far sorgere la legittimazione in capo al singolo consigliere comunale devono attenere ai seguenti profili:
a) erronee modalità di convocazione dell'organo consiliare;
b) violazione dell'ordine del giorno;
c) inosservanza del deposito della documentazione necessaria per poter liberamente e consapevolmente deliberare;
d) più in generale, preclusione in tutto o in parte dell'esercizio delle funzioni relative all'incarico rivestito.

I ricorrenti sono tutti Consiglieri Comunali del Comune di Fino Mornasco che, in tale veste, impugnano un atto dell’organo di cui fanno parte (con il quale, come detto, è stata disposta la modifica ad una convenzione urbanistica in precedenza stipulata con un operatore privato nonché una variante al vigente PGT).
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, i consiglieri comunali, in quanto tali, non sono legittimati ad agire contro l'amministrazione di appartenenza, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi dello stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive; pertanto, l'impugnativa di singoli consiglieri può ipotizzarsi soltanto allorché vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto all'ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona investita della carica di consigliere (cfr. ex multis TAR Puglia Lecce, sez. II, 28.11.2013 n. 2388).
Più in particolare si è affermato che le violazioni delle regole procedurali che possono far sorgere la legittimazione in capo al singolo consigliere comunale devono attenere ai seguenti profili:
a) erronee modalità di convocazione dell'organo consiliare;
b) violazione dell'ordine del giorno;
c) inosservanza del deposito della documentazione necessaria per poter liberamente e consapevolmente deliberare;
d) più in generale, preclusione in tutto o in parte dell'esercizio delle funzioni relative all'incarico rivestito (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 24.03.2011 n. 1771; TAR Lombardia Milano, sez. II, 01.07.2013, n. 1683) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.02.2014 n. 445 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Per pacifico orientamento giurisprudenziale, la mancata indicazione, nell’avviso di avvio del procedimento, del termine entro il quale produrre le memorie di cui all’art. 10 della legge n. 241 del 1990 non inficia il provvedimento finale adottato, in quanto il suindicato articolo non prevede alcun termine.
Con il primo motivo, contenuto nel ricorso introduttivo, le ricorrenti lamentano la mancata indicazione, nell’avviso di avvio del procedimento loro inviato, del termine di deposito delle memorie di cui all’art. 10 della legge n. 241 del 1990. Sostengono che per questa ragione l’Amministrazione avrebbe violato gli artt. 1, 2 e 7, nonché il capo III della suddetta legge, oltre che l’art. 14 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Il motivo è infondato in quanto, per pacifico orientamento giurisprudenziale, la mancata indicazione, nell’avviso di avvio del procedimento, del termine entro il quale produrre le memorie di cui all’art. 10 della legge n. 241 del 1990 non inficia il provvedimento finale adottato, in quanto il suindicato articolo non prevede alcun termine (cfr. TAR Campania Napoli, sez. II, 21.12.2006 n. 8192)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.02.2014 n. 417 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul rilascio di una permesso di costruire in deroga.
L’art. 14, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 impone alle Amministrazioni che intendono instaurare un procedimento volto al rilascio di un permesso di costruire in deroga l’obbligo di comunicare agli eventuali controinteressati l’avvio del procedimento stesso, ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990.
Una volta avvenuta la comunicazione, le parti interessate possono partecipare attivamente, ed hanno diritto, ai sensi dell’art. 10, lett. a), della stessa legge n. 241 del 1990, di prendere visione degli atti prodromici all’emanazione del provvedimento finale.
Il diritto di partecipazione presuppone, peraltro, che gli interessati si facciano parte attiva, richiedendo all’amministrazione il rilascio della documentazione ritenuta di interesse.
In mancanza di esplicite richieste in tal senso non si può rimproverare all’ente di aver impedito la partecipazione procedimentale: l’amministrazione, come visto, assolve ai suoi doveri inviando la comunicazione di avvio del procedimento, mentre non è tenuta, in assenza di specifiche istanze, alla consegna della documentazione procedimentale.
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L’art. 14, primo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che i permessi di costruire in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici generali possono essere rilasciati, fra l’altro, per la realizzazione di impianti di interesse pubblico.
La giurisprudenza ha da tempo chiarito che anche impianti ed edifici privati possono costituire oggetto di permesso di costruire in deroga; e che gli alberghi possono essere annoverati fra i fabbricati che soddisfano esigenze di interesse pubblico per questa ragione assentibili con il titolo in argomento.

L’art. 14, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 impone alle Amministrazioni che intendono instaurare un procedimento volto al rilascio di un permesso di costruire in deroga l’obbligo di comunicare agli eventuali controinteressati l’avvio del procedimento stesso, ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990.
Una volta avvenuta la comunicazione, le parti interessate possono partecipare attivamente, ed hanno diritto, ai sensi dell’art. 10, lett. a), della stessa legge n. 241 del 1990, di prendere visione degli atti prodromici all’emanazione del provvedimento finale.
Il diritto di partecipazione presuppone, peraltro, che gli interessati si facciano parte attiva, richiedendo all’amministrazione il rilascio della documentazione ritenuta di interesse.
In mancanza di esplicite richieste in tal senso non si può rimproverare all’ente di aver impedito la partecipazione procedimentale: l’amministrazione, come visto, assolve ai suoi doveri inviando la comunicazione di avvio del procedimento, mentre non è tenuta, in assenza di specifiche istanze, alla consegna della documentazione procedimentale.
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L’art. 14, primo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che i permessi di costruire in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici generali possono essere rilasciati, fra l’altro, per la realizzazione di impianti di interesse pubblico.
La giurisprudenza ha da tempo chiarito che anche impianti ed edifici privati possono costituire oggetto di permesso di costruire in deroga; e che gli alberghi possono essere annoverati fra i fabbricati che soddisfano esigenze di interesse pubblico per questa ragione assentibili con il titolo in argomento (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 12.12.2005 n. 7031; id., sez V, 29.10.2002 n. 5913).
Il Comune di Lezzeno, invero, nella succitata deliberazione di Consiglio Comunale n. 17 del 2013 ha rilevato il recente incremento dell’afflusso turistico sul proprio territorio; aggiungendo che, per tale ragione, la realizzazione di nuove strutture recettive potrebbe costituire fonte di promozione e di sviluppo economico e sociale con conseguenti ricadute economiche favorevoli per l’intera cittadinanza. Tale realizzazione è stata dunque ritenuta di interesse pubblico.
Nella stessa deliberazione, si è altresì chiarito che la deroga ai limiti di densità ed altezza previsti dal vigente PRG è giustificata dalla necessità di assicurare alla nuova struttura dimensioni minime (perlomeno dieci camere) tali da renderla idonea ad ospitare un numero sufficiente di turisti, onde assicurare un adeguato ritorno economico all’operatore privato.
Il provvedimento rimanda poi ad una relazione del Responsabile di Servizio, il quale ha chiarito che con l’erigenda struttura non viene superato il limite di volumetria assentito con il PII di cui si è in precedenza fatto cenno, riguardante una zona attigua a quella di cui è causa e rimasto, in parte, inattuato (la volumetria ivi prevista non è stata quindi esaurita, e la costruzione oggetto del provvedimento impugnato introduce una volumetria inferiore a quella residua).
Si è chiarito in questo modo che, seppur collocato in area non ricompresa nel precedente atto di pianificazione di dettaglio, la costruzione oggetto del permesso di costruire in deroga introduce un carico urbanistico che può essere tranquillamente tollerato.
Ritiene quindi il Collegio che tutte queste argomentazioni siano idonee a far comprendere il ragionamento sviluppato dall’Amministrazione e che dimostrino come la stessa abbia congruamente assoggettato a comparazione i vari interessi in conflitto prima di assentire l’intervento impugnato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.02.2014 n. 417 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’amministrazione procedente, nei propri provvedimenti, non deve confutare in maniera analitica le argomentazioni dedotte dagli interessati mediante la presentazione di memorie nel corso del procedimento, essendo invece sufficiente una adeguata esternazione motivazionale che renda percepibili le ragioni del mancato adeguamento dell’azione amministrativa alle deduzioni partecipative.
Come osservato dalla giurisprudenza, l’amministrazione procedente, nei propri provvedimenti, non deve confutare in maniera analitica le argomentazioni dedotte dagli interessati mediante la presentazione di memorie nel corso del procedimento, essendo invece sufficiente una adeguata esternazione motivazionale che renda percepibili le ragioni del mancato adeguamento dell’azione amministrativa alle deduzioni partecipative (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 29.05.2012 n. 3210)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.02.2014 n. 417 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di condono edilizio, è legittimo il diniego di un'istanza di sanatoria laddove il parere della commissione identifica nelle caratteristiche dei materiali e nella tipologia costruttiva gli elementi incompatibili con il contesto paesaggistico, dando quindi contezza degli aspetti che interferiscono in senso negativo con le caratteristiche di pregio della zona. Invero, come risulta dalle fotografie prodotte in giudizio, appare evidente l’impatto visivo delle strutture in lamiera e in materiale ondulato, estraneo alle caratteristiche di pregio della zona paesaggisticamente rilevanti.
Né sussiste a carico dell’Ente l’obbligo di indicare, in una logica comparativa degli interessi in gioco, prescrizioni funzionali a rendere l’intervento compatibile con il contesto tutelato, la cui protezione risponde sempre ad un interesse pubblico prevalente su quello privato. Non rileva al riguardo il progetto di ristrutturazione presentato dalla parte interessata, in quanto il medesimo presuppone necessariamente la regolarità urbanistica e la liceità del manufatto oggetto del proposto intervento.
La presenza di altre strutture secondarie in spazi vicini a quello di proprietà del ricorrente non esime quest’ultimo dall’obbligo di attenersi all’osservanza, quanto meno, di normali canoni estetici e di osservare il vincolo paesaggistico; anche se tali canoni siano stati violati in proprietà vicine a quella della parte istante (come sembra suggerire la documentazione fotografica annessa alla perizia tecnica costituente il documento n. 9 depositato in giudizio dall’esponente), non viene meno l’obbligo per il Comune di assumere a parametro di riferimento, nella valutazione di ciascuna opera, il vincolo paesaggistico (e cioè il bene tutelato) e di reprimere tutti gli abusi edilizi contrastanti con il vincolo stesso, cosicché l’eventuale preesistenza di altri manufatti, simili a quelli oggetto dell’impugnato provvedimento, potrebbe dimostrare l’illegittimo rilascio a terzi di titoli edilizi o l’illegittima omissione di provvedimenti repressivi da parte dell’autorità pubblica, ma non può viziare il contestato diniego.

Con la seconda doglianza il ricorrente deduce che il parere richiamato nel contestato diniego non esplicita le ragioni del ravvisato contrasto dell’opera con il vincolo paesaggistico; aggiunge che il Comune avrebbe dovuto comparare l’interesse pubblico con l’interesse privato coinvolto, valutare il progetto di ristrutturazione presentato e considerare l’effettivo stato dei luoghi, costituito da una forte presenza di strutture secondarie.
Il rilievo non può essere accolto.
Il suddetto parere identifica nelle caratteristiche dei materiali e nella tipologia costruttiva gli elementi incompatibili con il contesto paesaggistico, dando quindi contezza degli aspetti che interferiscono in senso negativo con le caratteristiche di pregio della zona. Invero, come risulta dalle fotografie prodotte in giudizio (documenti depositati dal Comune il 06/11/2008), appare evidente l’impatto visivo delle strutture in lamiera e in materiale ondulato, estraneo alle caratteristiche di pregio della zona paesaggisticamente rilevanti (Cons. Stato, V, 16/03/2005, n. 1066; TAR Toscana, III, 29/05/2007, n. 823).
Né sussiste a carico dell’Ente l’obbligo di indicare, in una logica comparativa degli interessi in gioco, prescrizioni funzionali a rendere l’intervento compatibile con il contesto tutelato, la cui protezione risponde sempre ad un interesse pubblico prevalente su quello privato (TAR Campania, Napoli, IV, 13/06/2007, n. 6142). Non rileva al riguardo il progetto di ristrutturazione presentato dalla parte interessata, in quanto il medesimo presuppone necessariamente la regolarità urbanistica e la liceità del manufatto oggetto del proposto intervento.
La presenza di altre strutture secondarie in spazi vicini a quello di proprietà del ricorrente non esime quest’ultimo dall’obbligo di attenersi all’osservanza, quanto meno, di normali canoni estetici e di osservare il vincolo paesaggistico; anche se tali canoni siano stati violati in proprietà vicine a quella della parte istante (come sembra suggerire la documentazione fotografica annessa alla perizia tecnica costituente il documento n. 9 depositato in giudizio dall’esponente), non viene meno l’obbligo per il Comune di assumere a parametro di riferimento, nella valutazione di ciascuna opera, il vincolo paesaggistico (e cioè il bene tutelato) e di reprimere tutti gli abusi edilizi contrastanti con il vincolo stesso, cosicché l’eventuale preesistenza di altri manufatti, simili a quelli oggetto dell’impugnato provvedimento, potrebbe dimostrare l’illegittimo rilascio a terzi di titoli edilizi o l’illegittima omissione di provvedimenti repressivi da parte dell’autorità pubblica, ma non può viziare il contestato diniego (TAR Sicilia, Catania, I, 20/09/2010, n. 3763; TAR Lazio, Roma, II, 07/05/2007, n. 4047; TAR Liguria, I, 08/02/2002, n. 134)
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 04.02.2011 n. 202 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 22.12.2014

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Il mondo è bello perché vario ... o avariato??

     Navigando nel web, da un sito comunale all'altro, si possono leggere ancora oggi atti amministrativi che manco nel Burundi (con tutto il rispetto dei suoi residenti) si sognano di adottare.
     Ma ciò che è grave è il fatto che tali atti non ineriscono fattispecie normative nuove, fresche di Gazzetta Ufficiale, ma affari triti e ritriti laddove si è spesa copiosa giurisprudenza, pareristica che hanno tolto ogni minimo dubbio in ordine alla correlata legittimità -o meno- dell'azione amministrativa.
     Per esempio, quando si bandisce un concorso pubblico per coprire un posto vacante in pianta organica
è ovvio che il bando debba obbligatoriamente essere pubblicato anche in G.U. ...

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Un segretario generale di un comune ha chiesto se il Comune sia tenuto alla pubblicazione del bando sulla G.U..
Si fa riferimento ad una nota con la quale un segretario generale ha chiesto se il comune sia tenuto alla pubblicazione del bando sulla G.U..
Al riguardo, si fa presente che la problematica è stata affrontata dal Consiglio di Stato, sez. V, con sentenza n. 871/2010 che, ha ritenuto che
la mancata pubblicazione, per estratto, del bando di concorso contrasti, insanabilmente, con le disposizioni di cui all’art. 4 del DPR 487/1994, che prescrive la pubblicazione del predetto bando nella Gazzetta Ufficiale ed, in particolare, per gli enti locali, prevede, al comma 1-bis, la possibilità di sostituire la pubblicazione del bando con l’avviso di concorso contenente gli estremi del bando e l’indicazione del termine di scadenza per la presentazione della domanda.
Tale previsione non appare, peraltro, in contrasto con l’art. 35, comma 3, lett. a), del Dlgs 165/2001 che, nell’elencare i principi in materia di procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni, prevede quello della “adeguata pubblicità della selezione”. Infatti, ad avviso del citato Collegio, l’adempimento della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale deve ritenersi sussistente ancorché il Comune abbia previsto nel proprio regolamento forme di pubblicazione ridotta quali quelle all’Albo pretorio e sul sito web dell’Ente.
Tale orientamento è stato da ultimo ribadito dal TAR Emilia-Romagna, sez. I, con sentenza n. 135 del 22.02.2013, secondo cui
la perdurante operatività dell’obbligo di pubblicazione del bando di concorso sulla Gazzetta Ufficiale risulta in linea anche con le previsioni di cui all’art. 32, comma 1, della legge 69/2009, tenuto conto che, seppur detto comma prevede che dal 01.01.2010 gli obblighi di pubblicazione degli atti amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei siti informatici delle amministrazioni pubbliche, il comma 7 dello stesso articolo fa salva la pubblicità nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea e nella Gazzetta della Repubblica Italiana (Ministero dell'Interno, parere 24.04.2013 - link a http://incomune.interno.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: A. Trovato, Enti locali, pubblicità delle procedure concorsuali (Guida al Pubblico Impiego n. 6/2013).

     Per esempio, quando si vuol esautorare il responsabile dell'U.T.C., perché agisce in conformità alla legge e non si mette a mo' di tappetino nei confronti del Sindaco o Assessore che dir si voglia, è ovvio che la P.O. (Posizione Organizzativa) non possa essere ricoperta dal "compiacente" Segretario Comunale ...

COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Svolgimento funzioni responsabile settore (in ente popolazione inferiore 5.000 abitanti) da Segretario comunale - Applicabilità art. 97, D.Lgs. n. 267 del 18.08.2000.
Con una nota, un’Amministrazione, con popolazione inferiore ai 5000 abitanti, ha chiesto di conoscere se sia possibile attribuire la responsabilità dell’Ufficio Tecnico comunale al segretario comunale ai sensi dell’art. 97 del D.Lgs. n. 267/2000.
Al riguardo, si rappresenta che, com’è noto, l’art. 97 del citato D.Lgs. n. 267/2000, nell’andare a definire, al comma 4, i compiti e le funzioni, ha previsto che il segretario comunale eserciti “ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco o dal presidente della provincia…” (lett. d).
Certamente, nell’ambito di questa formula potrebbe rientrare il conferimento delle funzioni di responsabile di un settore dell’amministrazione. Ciò, peraltro, trova conferma nella previsione del contratto collettivo integrativo dei segretari comunali e provinciali sottoscritto il 22.12.2003 che prende in considerazione, autonomamente, l’ipotesi di “affidamento al segretario di attività gestionali”.
Tuttavia, occorre rilevare che l’art. 15 del CCNL del 22.01.2004, ha definitivamente chiarito che
negli enti privi di personale di qualifica dirigenziale, i responsabili delle strutture apicali secondo l’ordinamento organizzativo dell’ente, sono titolari delle posizioni organizzative disciplinate dagli artt. 8 e seguenti del CCNL del 31.03.1999.
Da quanto sopra emerge, quindi, chiaramente che
negli enti privi di personale dirigenziale le relative competenze spettano ai titolari di posizione organizzativa.
Conseguentemente, poiché dalla documentazione allegata al quesito
risulta che presso l’Ente sono presenti due dipendenti di cat. D, con profili di architetto e geometra, attinenti al servizio tecnico, si ritiene che la discrezionalità riconosciuta al sindaco di conferire al segretario la responsabilità dell’area di cui trattasi non possa essere esercitata in violazione del diritto dei predetti dipendenti.
Dalle considerazioni suesposte e tenuto conto del sistema di affidamento delle responsabilità, che ne incentiva la suddivisione tra il personale in servizio, emerge, quindi, chiaramente che
l’ambito della discrezionalità riconosciuta al sindaco dal legislatore con la previsione ex art. 97, può essere legittimamente esercitata solo quale strumento residuale, ovvero utilizzabile esclusivamente da quelle amministrazioni che si trovassero nella difficoltà di reperire le necessarie professionalità all’interno della propria dotazione organica.
Per completezza di informazione, si soggiunge che essendo l’ente in questione di ridotte dimensioni può avvalersi del disposto di cui all’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, come modificato dall’art. 29, comma 4, della legge n. 488/2001 (Ministero dell'Interno, parere 17.12.2008 - link a http://incomune.interno.it).

     Per esempio, quando non si vuole assumere a tempo indeterminato e si vuol coprire l'apicalità dell'U.T.C. (tanto per esemplificare) con personale di ruolo di altro ente locale è ovvio che non si possa incaricare il primo che passa per la strada e con modalità disinvolte che più aggradano le parti ...

PUBBLICO IMPIEGO: Affidamento (per ente popolazione superiore 5.000 abitanti, non dotato personale qualifica dirigenziale) incarico responsabile area tecnica a dipendente altro comune (in assenza convenzione e fuori orario lavoro).
Il Commissario straordinario di un Comune ha formulato un quesito in merito alla possibilità di utilizzare un dipendente di un altro comune per affidargli l’incarico di responsabile dell’area tecnica; ciò per sostituire l’attuale responsabile collocato in aspettativa per un anno. All’uopo è stato rappresentato che trattasi di un comune superiore a 5.000 abitanti, non dotato di personale con qualifica dirigenziale e che a seguito di intese con il Sindaco di quel comune l’autorizzazione sarebbe rilasciata, senza un’apposita convenzione, per 12 ore settimanali da svolgersi al di fuori dell’orario di lavoro.
Al riguardo, si fa, preliminarmente, presente che, come noto,
nei confronti dei dipendenti pubblici vige il principio di unicità del rapporto di lavoro a tempo pieno. Detto principio è affermato dall’art. 53, comma 1, del D.Lgs 165/2001 che fa salve le incompatibilità previste dagli art. 60 e seguenti del DPR 3/1957. Sono incompatibili, pertanto, non solo le attività indicate nel predetto art. 60, ma anche le attività collaterali caratterizzate da elementi qualificanti di natura quantitativa quali la protrazione nel tempo, il grado di complessità, la non episodicità, la stabilità, la ripetitività e la professionalità richiesta per il loro svolgimento.
L’attenuazione di tale principio si rinviene, per il personale degli enti locali, nella normativa contenuta nell’art. 92, comma 1, del Dlgs 267/2000 che espressamente prevede che i dipendenti degli enti locali possono svolgere attività lavorativa a favore di altri enti locali solo se titolari di un rapporto di lavoro a tempo parziale. Tale normativa, che si innesta in quella più generale del part-time regolata dall’art. 1, comma 56, della legge 662/1996, costituisce, pertanto, una deroga al richiamato principio dell’unicità del rapporto di lavoro del pubblico dipendente.
Ulteriore deroga al medesimo principio è quella che il legislatore ha disposto con l’art. 1, comma 557, della legge 311/2004 secondo cui “
i comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, i consorzi tra enti locali gerenti servizi a rilevanza non industriale, le comunità montane e le unioni di comuni possono servirsi dell’attività lavorativa di dipendenti a tempo pieno di altre amministrazioni locali, purché autorizzati dall’amministrazione di provenienza”. Tale nuova fattispecie prevede comunque la necessità di una specifica autorizzazione da parte dell’amministrazione di provenienza. Ciò significa che quest’ultima può accordarla solo per le attività che non arrechino pregiudizio alle proprie attività e che non interferiscano con i relativi compiti istituzionali.
Posto quanto sopra e
tenuto conto che nel caso in esame non risulta possibile applicare la cennata disciplina di cui al predetto comma 557, essendo il comune superiore ai 5.000 abitanti, non resta che fare ricorso alla specifica disciplina contrattuale relativa all’utilizzazione del personale cosiddetto a “scavalco”. Infatti, l’art. 14 del CCNL 22.01.2004, ha espressamente regolamentato tale personale introducendo una normativa uniforme ed innovativa concernente il “personale utilizzato a tempo parziale e servizi in convenzione”.
Invero, ai sensi del primo comma del citato art. 14,
al fine di soddisfare la migliore realizzazione dei servizi istituzionali e di conseguire una economica gestione delle risorse, gli enti locali possono utilizzare con il consenso dei lavoratori interessati, personale assegnato da altri enti cui si applica il medesimo CCNL per periodi determinati e per una parte del tempo di lavoro d’obbligo mediante convenzione e previo assenso dell’ente di appartenenza. In tal caso, per espressa previsione dello stesso comma 1, l’utilizzazione parziale non si configura come rapporto di lavoro a tempo parziale.
Inoltre, secondo quanto disposto dal successivo comma 4, ai lavoratori utilizzati a tempo parziale può essere affidata anche la responsabilità di una posizione organizzativa nell’ente di utilizzazione.
Pertanto,
qualora l’ente voglia utilizzare un dipendente di altro comune e affidargli la responsabilità di un area dovrà procedere esclusivamente secondo quanto espressamente indicato nella richiamata normativa, stipulando, quindi, una convenzione dalla quale risulti tra l’altro il tempo di lavoro in assegnazione, nel rispetto del vincolo dell’orario settimanale d’obbligo, la ripartizione degli oneri finanziari nonché tutti gli altri aspetti utili per regolare il corretto utilizzo del lavoratore medesimo (Ministero dell'Interno, parere 11.12.2007 - link a http://incomune.interno.it).

... senza menzionare, poi, gli incarichi esterni (a personale di ruolo di altri enti pubblici) per svolgere mansioni ordinarie (anziché assumere a tempo indeterminato) ALLA FACCIA DELL'INCOMPATIBILITA' DEL DOPPIO LAVORO col risultato:
1) che costano maggiormente, con minor resa oraria, rispetto ad una assunzione di ruolo;
2) che superano il tetto del compenso lordo annuo pari a € 6.666,00 (netti € 5.000,00);
3) che superano il tetto dei 30 gg. lavorativi l'anno;

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Attività extra lavorativa e lavoro occasionale di tipo accessorio.
L'INPS ha chiarito (cfr. circolare n. 88/2009) che per i dipendenti pubblici è possibile svolgere lavoro occasionale di tipo accessorio, previa acquisizione della prescritta autorizzazione da parte dell'amministrazione di appartenenza, ai sensi dell'art. 53 del d.lgs. 165/2001.
Il Comune chiede di conoscere se sia possibile autorizzare un proprio dipendente a part-time (30 ore settimanali), previa autorizzazione ex art. 53 del d.lgs. 165/2001, a svolgere attività di lavoro occasionale di tipo accessorio, remunerata con i c.d 'voucher', presso altra pubblica amministrazione.
Preliminarmente, in linea generale, si osserva che il lavoro occasionale di tipo accessorio trova compiuta disciplina nell'art. 70 del d.lgs. n. 276/2003, che ha subito rilevanti modifiche nel corso degli anni.
Si sottolinea che, come rilevato dall'INPS
[1], le prestazioni di lavoro occasionale accessorio debbono intendersi quali attività lavorative di natura meramente occasionale e accessoria, non riconducibili a tipologie contrattuali tipiche di lavoro subordinato o di lavoro autonomo.
Pur non rientrando il lavoro accessorio tra le forme lavorative che danno origine a una tipologia di lavoro subordinato, è da notare che l'art. 36, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001, inserisce comunque detta tipologia di prestazioni fra le forme di contratti flessibili di assunzione e di impiego del personale, utilizzabili dalle pubbliche amministrazioni per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali.
Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali
[2] ha sottolineato inoltre come la modifica al testo dell'art. 70 del d.lgs. n. 276/2003, apportata dalla l. n. 92/2012, abbia eliminato quella serie di causali soggettive e oggettive che consentivano in precedenza il ricorso a detto istituto, sostituendolo con una disposizione che prevede essenzialmente limiti di carattere economico.
Allo stato attuale, quindi, per il committente pubblico si prevede la possibilità di ricorrere al lavoro accessorio 'nel rispetto dei vincoli previsti dalla vigente disciplina in materia di contenimento delle spese di personale e, ove previsto, dal patto di stabilità interno'
[3].
Pertanto, è possibile utilizzare il lavoro accessorio in tutti i settori, da parte di qualsiasi committente, con qualsiasi soggetto
[4], nel rispetto di un compenso massimo stabilito in 5.000 euro per anno solare.
Ciò premesso a livello di inquadramento generale, si osserva che l'INPS
[5], in merito alla possibilità, da parte dei dipendenti pubblici, di svolgere lavoro occasionale di tipo accessorio, ha precisato che, per questi, trova applicazione l'art. 53 del d.lgs. 165/2001, in tema di incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi; nello specifico, si è sottolineato che è obbligatoria la richiesta, all'amministrazione di appartenenza, del rilascio di autorizzazione preventiva per lo svolgimento, a favore di soggetti pubblici e privati, di incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e nei doveri d'ufficio, per i quali sia previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso (art. 53, comma 6).
La citata norma esclude dalla richiesta di autorizzazione i dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento, i docenti universitari a tempo definito e le altre categorie di dipendenti pubblici ai quali è consentito, da disposizioni speciali, lo svolgimento di attività libero-professionali.
L'INPS specifica altresì che la richiesta di autorizzazione può essere effettuata, ai sensi del comma 10 del citato articolo 53, da parte dello stesso dipendente o dei soggetti pubblici e privati che intendono avvalersi delle prestazioni del lavoro occasionale. Conseguentemente, l'impiego di dipendenti pubblici, senza la preventiva autorizzazione, comporta -per il dipendente e per l'amministrazione pubblica interessata- le sanzioni previste dai commi 7 e 8 del medesimo articolo 53.
Un'ulteriore precisazione, rilevante al fine che ci occupa, è stata fornita dallo stesso Istituto previdenziale
[6], che ha ritenuto doveroso evidenziare come, in considerazione di finalità antielusive, il ricorso all'istituto del lavoro occasionale non sia compatibile con lo status di lavoratore subordinato (a tempo pieno o parziale), se impiegato presso lo stesso datore di lavoro titolare del contratto di lavoro dipendente.
Pertanto, preclusa la possibilità di utilizzare, con detta formula lavorativa, un proprio lavoratore dipendente, risulta invece ammissibile l'espletamento di detta attività extra lavorativa presso un altro datore di lavoro pubblico, previa autorizzazione preventiva dell'Ente di appartenenza.
Per quanto concerne, da ultimo, l'aspetto relativo alla fiscalità dei 'buoni lavoro', si osserva che l'art. 72, comma 3, del d.lgs. 276/2003 precisa che il compenso relativo ai voucher è esente da qualsiasi imposizione fiscale
[7].
--------------
[1] Cfr. INPS, circolare 03.02.2010 n. 17.
[2] Cfr. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
circolare 18.07.2012 n. 18/2012.
[3] Cfr. art. 70, comma 3, del d.lgs. n. 276/2003.
[4] Cfr. INPS, circolare 29.03.2013 n. 49/2013, punto 2. Tipologie di prestatori e attività, ove si precisa che, a decorrere dal 18.07.2012, data di entrata in vigore della legge n. 92/2012, il lavoro occasionale accessorio può essere svolto da qualsiasi soggetto (disoccupato, inoccupato, lavoratore autonomo o subordinato, full-time o part-time, pensionato, studente, percettore di prestazioni a sostegno del reddito).
[5] Cfr. INPS, circolare 09.07.2009 n. 88/2009.
[6] Cfr. la già citata circolare n. 49/2013, punto 2. Tipologie di prestatori e attività.
[7] Cfr. anche Voucher: il sistema dei buoni lavoro, consultabile in: www.inps.it e Vademecum buoni lavoro per lavoro occasionale accessorio, consultabile in: www.lavoro.gov.it. Per eventuali chiarimenti si suggerisce di contattare direttamente la competente Agenzia delle entrate
(07.10.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

     Ma dove sta scritta la specificazione normativa del doppio paletto di cui ai precedenti punti 2) e 3)?? Presto detto:
- in ordine al 1° vincolo [del compenso lordo annuo pari a € 6.666,00 (netti € 5.000,00)] ciò è chiarito dall'INPS con propria circolare 18.12.2013 n. 176;
- in ordine al 2° vincolo [del tetto dei 30 gg. lavorativi l'anno]
ciò è chiarito dall'art. 61, comma 2, del D.Lgs. 10.09.2003 n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14.02.2003, n. 30) il quale così recita: "2. Dalla disposizione di cui al comma 1 sono escluse le prestazioni occasionali, intendendosi per tali i rapporti di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell'anno solare con lo stesso committente, (omissis)."

QUINDI??

     Quindi, di questi tempi recentissimi laddove il malaffare dilagante ed imperante nella P.A. riempie le prime pagine di televisione, stampa, web e quant'altro, c'è da sperare che i bravi ed onesti dipendenti pubblici (che sono ancora la maggioranza) non abbiano vergogna di esserlo ed abbiano uno scatto di orgoglio e non abbiano paura di "segnalare" all'A.N.AC. (Autorità Nazionale Anticorruzione) ogni fattispecie illegittima, tra l'altro con una semplice e-mail (per informazioni cliccare qui) alla quale sarà garantita la necessaria riservatezza per evitare ritorsioni personali.
22.12.2014 - LA SEGRETERIA PTPL

IN EVIDENZA

INCARICHI PROGETTUALI: Incarichi senza copertura, risponde il sindaco o il dirigente.
Il comune che incarica il professionista per la progettazione di un'opera pubblica ben può subordinare con una clausola ad hoc il pagamento del compenso alla concessione del finanziamento necessario a realizzare l'intervento. Ma servono comunque la delibera autorizzativa e la registrazione dell'impegno di spesa a bilancio, altrimenti il rapporto obbligatorio non è riferibile all'amministrazione ma intercorre invece fra il privato, da una parte, e, dall'altra, l'amministratore locale o il funzionario pubblico che ha autorizzato la fornitura. E ciò anche quando è un altro ente, per esempio la regione, a finanziare interamente l'intervento (vale anche per la Sicilia, nonostante lo statuto speciale, perché si tratta di leggi nazionali).

Lo stabiliscono le Sezz. unite civili della Corte di Cassazione con la sentenza 18.12.2014 n. 26657 che compone un contrasto di giurisprudenza.
Accolto, nella specie, il ricorso dell'ente locale. Vale sempre il principio di contabilità pubblica secondo cui per i comuni vige il divieto di effettuare qualsiasi spesa in assenza di impegno contabile registrato dal ragioniere (o in mancanza dal segretario) sul competente capitolo di bilancio di previsione.
L'incarico di progettare l'opera pubblica affidato al professionista non sfugge alla regola: l'ente locale non può effettuare alcuna spesa se non c'è una delibera ad hoc che l'autorizza e un relativo impegno contabile a bilancio da comunicare ai terzi interessati: diversamente, dunque, rispondono il sindaco o il dirigente che l'hanno consentito. La previsione della clausola di copertura finanziaria nel contratto stipulato con il professionista non può comunque consentire di rinviare il momento in cui il comune deve indicare l'ammontare della spesa e i mezzi per farvi fronte.
Insomma: non si può differire all'arrivo del finanziamento l'osservanza delle modalità procedimentali previste per gli enti locali. Nel caso in cui l'incarico è affidato senza prima mettere nero su bianco l'impegno contabile e attestare l'impegno finanziario ecco che si rompe il nesso di immedesimazione organica con l'amministrazione, la quale non può essere considerata responsabile, diversamente dall'amministratore locale o dal funzionario pubblico. E anche quando la provvista è a carico di un altro ente l'obbligazione di pagamento resta sempre a carico del comune, che è il soggetto finanziato. Resta da capire che cosa accade al professionista.
Quando accetta la clausola che vincola il suo compenso all'ottenimento del finanziamento dell'opera, il progettista non rinuncia certo alle sue spettanze: si configura invece l'inserimento in un contratto d'opera professionale, normalmente oneroso, di una condizione potestativa (
articolo ItaliaOggi del 19.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non è possibile l'estensione del permesso di sanatoria al di fuori dei presupposti della cosiddetta “doppia conformità”, di cui all'art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, con la conseguenza che non può trovare applicazione l'istituto della cosiddetta sanatoria “giurisprudenziale” o “impropria”, poiché il principio di buon andamento, che fa ritenere illogico che si demolisca ciò che, al momento stesso, potrebbe essere autorizzato in base allo strumento vigente, deve recedere di fronte a quello, di pari rango costituzionale, di legalità che vuole che, anche in questa materia, siano osservate le disposizioni del legislatore.
Accanto alla sanatoria legale di cui all’art. 36 del d.P.R. 327/2001, parte della giurisprudenza ha riconosciuto in via puramente pretoria la possibilità di sanatoria anche in presenza della sola conformità urbanistico-edilizia con riferimento alla disciplina vigente al momento della presentazione della domanda di accertamento di conformità, evidenziando l’evidente contrasto con i principi di buon andamento, economicità e ragionevolezza dell’attività amministrativa che si verificherebbe dando ingresso nell’ordinamento alla demolizione di opera solo formalmente abusiva ma sostanzialmente riedificabile nella stessa forma e consistenza dietro presentazione di istanza di rilascio di titolo edilizio ordinario.
La ratio sottesa alla c.d. sanatoria giurisprudenziale, è dunque da individuarsi nell'esigenza di non imporre la demolizione di un'opera abusiva che, in quanto conforme alla disciplina urbanistica in atto, dovrebbe essere successivamente autorizzata su semplice presentazione di istanza di rilascio in tal modo evitando uno spreco di attività inutili, sia per l'Amministrazione, che per il privato autore dell'abuso.
La tesi dell’ammissibilità di una sanatoria edilizia giurisprudenziale era stata sostenuta in passato anche da talune pronunce dell’adito Tribunale oltre che del supremo consesso di Giustizia amministrativa.
Anche l’Adunanza Generale del Consiglio di Stato aveva espresso parere favorevole in ordine all’ammissibilità, entro certi limiti, di tale ulteriore forma di sanatoria, fermo restando la sanzione penale per l’illecito commesso nonché il pagamento di una oblazione maggiore rispetto all’ipotesi di doppia conformità.
Trattasi però di tesi oggi ampiamente minoritaria in giurisprudenza, se non del tutto recessiva.
Infatti, secondo l’orientamento oggi dominante, predicare l'operatività della sanatoria giurisprudenziale, consentendo la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di legalità, rinveniente dagli art. 24, 97, 101 e 113 cost., oltre che dall'art. 1, comma 1, L. n. 241 del 1990 (secondo cui “l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge") sia in quanto svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistica e edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l'ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001) alle sole violazioni di ordine formale.
Inoltre, si finirebbe per premiare gli autori degli abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate e risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell'apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio.
Secondo poi una ulteriore tesi “mediana” -del tutto minoritaria- la pur riconosciuta impossibilità a seguito dell’entrata in vigore del d.P.R. 380/2001, di autorizzazione postuma senza la “doppia conformità” potrebbe “bilanciarsi” in sede sanzionatoria, potendosi in tal segmento procedimentale -del tutto autonomo seppur connesso- valutare l’irrazionalità della demolizione ai fini dell’applicazione di una diversa sanzione.
Osserva il Collegio come, in linea di principio, l’istituto della sanatoria giurisprudenziale possa rispondere effettivamente ad esigenze di buon andamento dell’azione amministrativa, dal momento che sarebbe obiettivamente in contrasto con il principio di ragionevolezza ed economia dei mezzi giuridici oltre che di giustizia sostanziale e di proporzionalità, procedere alla demolizione di manufatto abusivo realizzabile dall’interessato con la stessa forma e consistenza immediatamente dopo, mediante la presentazione di istanza di rilascio di titolo ordinario.
Si tratterebbe, come osservato da parte della dottrina, di una mera causa di legittimazione postuma delle opere, sotto il profilo esclusivamente amministrativo, diversamente dalla sanatoria legale che come è noto ha effetto estintivo (pur se non automatico) dei correlati reati edilizi.
E’ però vero che risulta arduo, anche sul piano sistematico, ammettere un istituto con valenza sanante non previsto dalla legge ed anzi in contrasto con la espressa previsione dell’art. 36 T.U. edilizia, in considerazione della stessa eccezionalità degli strumenti di sanatoria per i quali sembrerebbe incompatibile la stessa predicabilità di forme atipiche, avendo il principio di legalità e tipicità dell’attività autoritativa in questa materia valenza ancor più stringente. Non si tratta, infatti, di autotutela con funzione di conservazione di pregressa attività illegittima, bensì di sanatoria del tutto atipica inerente l’attività illecita dei soggetti privati quale la realizzazione di manufatto privo del necessario titolo abilitativo, non rinvenendosi nell’ordinamento un generale ed indistinto principio di sanabilità dell’attività illecita.
Potrebbe in ipotesi allora porsi d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art 17 della legge regionale umbra e del corrispondente art. 36 t.u. edilizia nella parte in cui limitano o non prevedono con carattere di generalità tale forma di sanatoria “minore” -con la doverosa sottoposizione al pagamento di oblazione in misura maggiore, in ossequio al principio di uguaglianza- poiché parrebbe porsi in contrasto con il principio di ragionevolezza e di uguaglianza (art. 3 Cost.) l’identica sanzionabilità di situazioni obiettivamente diverse, quali la realizzazione di opera tout court abusiva e la realizzazione di opera originariamente abusiva ma poi divenuta conforme ai successivi strumenti urbanistici.
La Corte Costituzionale ha più volte ribadito al riguardo la natura di principio, tra l’altro vincolante per la legislazione regionale, della previsione della “doppia conformità” seppur con precipuo riferimento inizialmente ai soli profili penalistici.
Con tale ultima pronuncia, in riferimento a giudizio di costituzionalità di legge regionale della Toscana, ha affermato che il rigore insito nel principio della “doppia conformità” trova la propria ratio ispiratrice nella “natura preventiva e deterrente” della sanatoria in questione, finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da escludere letture “sostanzialiste” della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi solo al momento della presentazione dell’ istanza per l’accertamento di conformità.

5. Preme evidenziare come con l’atto di motivi aggiunti parte ricorrente non muova censure avverso la sussistenza o meno del negato requisito della “doppia conformità” richiesto dall’art. 17 della L.R. 21/2004, del tutto non contestato, limitandosi ad invocare in buona sostanza l’applicazione dell’istituto della “sanatoria giurisprudenziale”.
5.1. Questione di diritto unica per la decisione della presente controversia consiste pertanto nella ammissibilità o meno, accanto alla sanatoria legale di tipo formale codificata dall’art. 17 della richiamata legge regionale (sostanzialmente ma non completamente ricalcante la disposizione di cui all’art. 36 del vigente testo unico dell’edilizia approvato con d.P.R. 380/2001) del controverso istituto della sanatoria “giurisprudenziale”, ovvero di una forma di sanatoria “minore” valevole ai soli fini amministrativi, da ritenersi -secondo esegesi affatto pacifica- implicita nell’ordinamento in base a diverse ragioni logico sistematiche.
Come noto, sia in base all’art. 17 della L.R. Umbria 21/2004 che all’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 (e ancor prima all’art. 13 L. 47/1985) è possibile ottenere il permesso in sanatoria solamente se l'intervento sine titulo realizzato risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della sua realizzazione, sia della presentazione della domanda.
A dire il vero, il citato art. 17 della legge regionale umbra presenta alcuni significativi profili di deroga rispetto alla fattispecie di cui al testo unico dell’edilizia, dal momento che nell’ultimo periodo del primo comma è consentita la sanatoria anche in caso di sola conformità alla disciplina urbanistica vigente al momento della presentazione della domanda seppur limitatamente ai soli cambi di destinazione d’uso. Il successivo art. 18 poi, sempre in aperta deroga alla normativa statale, seppur in via esclusivamente transitoria (“norme di prima applicazione”) consente la sanatoria anche per le opere conformi solo in via postuma, con la fissazione di un termine (perentorio) per la presentazione delle relative istanze di 120 giorni dall’entrata in vigore della legge 1/2004 (su cui TAR Umbria 14.01.2011, n. 9).
5.2. Accanto alla sanatoria legale di cui all’art. 36 del d.P.R. 327/2001, parte della giurisprudenza ha riconosciuto in via puramente pretoria la possibilità di sanatoria anche in presenza della sola conformità urbanistico-edilizia con riferimento alla disciplina vigente al momento della presentazione della domanda di accertamento di conformità, evidenziando l’evidente contrasto con i principi di buon andamento, economicità e ragionevolezza dell’attività amministrativa che si verificherebbe dando ingresso nell’ordinamento alla demolizione di opera solo formalmente abusiva ma sostanzialmente riedificabile nella stessa forma e consistenza dietro presentazione di istanza di rilascio di titolo edilizio ordinario.
La ratio sottesa alla c.d. sanatoria giurisprudenziale, è dunque da individuarsi nell'esigenza di non imporre la demolizione di un'opera abusiva che, in quanto conforme alla disciplina urbanistica in atto, dovrebbe essere successivamente autorizzata su semplice presentazione di istanza di rilascio in tal modo evitando uno spreco di attività inutili, sia per l'Amministrazione, che per il privato autore dell'abuso (ex multis Consiglio di Stato sez. V, 06.07.2012, n. 3961).
La tesi dell’ammissibilità di una sanatoria edilizia giurisprudenziale era stata sostenuta in passato anche da talune pronunce dell’adito Tribunale (TAR Umbria 14.01.2011, n. 9; vedi ex multis anche TAR Abruzzo-Pescara 30.05.2007, n. 583) oltre che del supremo consesso di Giustizia amministrativa (Consiglio di Stato sez. V, 28.05.2004, n. 3431; id. sez. V, 21.10.2003, n. 6498; id. sez. VI, 07.05.2009 n. 2835).
Anche l’Adunanza Generale del Consiglio di Stato (parere n. 52/2001) aveva espresso parere favorevole in ordine all’ammissibilità, entro certi limiti, di tale ulteriore forma di sanatoria, fermo restando la sanzione penale per l’illecito commesso nonché il pagamento di una oblazione maggiore rispetto all’ipotesi di doppia conformità.
5.3. Trattasi però di tesi oggi ampiamente minoritaria in giurisprudenza, se non del tutto recessiva.
Infatti, secondo l’orientamento oggi dominante, predicare l'operatività della sanatoria giurisprudenziale, consentendo la legittimazione postuma di opere originariamente e sostanzialmente abusive, significa tradire il principio di legalità, rinveniente dagli art. 24, 97, 101 e 113 cost., oltre che dall'art. 1, comma 1, L. n. 241 del 1990 (secondo cui “l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge") sia in quanto svuoterebbe della sua portata precettiva, certa e vincolante la disciplina urbanistica e edilizia vigente al momento della commissione degli illeciti, sia in quanto, estendendosi l'ambito oggettivo di applicazione del permesso di costruire in sanatoria, se ne violerebbe la tipicità provvedimentale, ancorata dalla norma primaria che lo prevede (art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001) alle sole violazioni di ordine formale.
Inoltre, si finirebbe per premiare gli autori degli abusi edilizi sostanziali, a discapito di tutti coloro che abbiano correttamente eseguito attività edificatorie, nel doveroso convincimento di rispettare prescrizioni da altri, invece, impunemente violate e risulterebbe attenuata, se non addirittura neutralizzata, la forza deterrente dell'apparato sanzionatorio posto a presidio della disciplina di governo del territorio (ex multis TAR Campania Napoli sez. VIII, 03.07.2012, n. 3153; TAR Toscana sez. III, 13.05.2011, n. 837; Consiglio di Stato sez. V, 06.07.2012, n. 3961).
5.4. Secondo poi una ulteriore tesi “mediana” -del tutto minoritaria- la pur riconosciuta impossibilità a seguito dell’entrata in vigore del d.P.R. 380/2001, di autorizzazione postuma senza la “doppia conformità” potrebbe “bilanciarsi” in sede sanzionatoria, potendosi in tal segmento procedimentale -del tutto autonomo seppur connesso- valutare l’irrazionalità della demolizione (TAR Piemonte 18.10.2004, n. 2506) ai fini dell’applicazione di una diversa sanzione.
5.5. Osserva il Collegio come, in linea di principio, l’istituto della sanatoria giurisprudenziale possa rispondere effettivamente ad esigenze di buon andamento dell’azione amministrativa, dal momento che sarebbe obiettivamente in contrasto con il principio di ragionevolezza ed economia dei mezzi giuridici oltre che di giustizia sostanziale e di proporzionalità, procedere alla demolizione di manufatto abusivo realizzabile dall’interessato con la stessa forma e consistenza immediatamente dopo, mediante la presentazione di istanza di rilascio di titolo ordinario.
Si tratterebbe, come osservato da parte della dottrina, di una mera causa di legittimazione postuma delle opere, sotto il profilo esclusivamente amministrativo, diversamente dalla sanatoria legale che come è noto ha effetto estintivo (pur se non automatico cfr. Cassazione penale sez. III, 05.07.2010, n. 25387) dei correlati reati edilizi.
E’ però vero che risulta arduo, anche sul piano sistematico, ammettere un istituto con valenza sanante non previsto dalla legge ed anzi in contrasto con la espressa previsione dell’art. 36 T.U. edilizia, in considerazione della stessa eccezionalità degli strumenti di sanatoria (ex multis Consiglio di Stato sez. VI, 13.02.2013, n. 894) per i quali sembrerebbe incompatibile la stessa predicabilità di forme atipiche, avendo il principio di legalità e tipicità dell’attività autoritativa in questa materia valenza ancor più stringente. Non si tratta, infatti, di autotutela con funzione di conservazione di pregressa attività illegittima, bensì di sanatoria del tutto atipica inerente l’attività illecita dei soggetti privati quale la realizzazione di manufatto privo del necessario titolo abilitativo, non rinvenendosi nell’ordinamento un generale ed indistinto principio di sanabilità dell’attività illecita (ex multis TAR Piemonte 18.10.2004, n. 2506).
5.6. Potrebbe in ipotesi allora porsi d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art 17 della legge regionale umbra e del corrispondente art. 36 t.u. edilizia nella parte in cui limitano o non prevedono con carattere di generalità tale forma di sanatoria “minore” -con la doverosa sottoposizione al pagamento di oblazione in misura maggiore, in ossequio al principio di uguaglianza- poiché parrebbe porsi in contrasto con il principio di ragionevolezza e di uguaglianza (art. 3 Cost.) l’identica sanzionabilità di situazioni obiettivamente diverse, quali la realizzazione di opera tout court abusiva e la realizzazione di opera originariamente abusiva ma poi divenuta conforme ai successivi strumenti urbanistici.
La Corte Costituzionale ha più volte ribadito al riguardo la natura di principio, tra l’altro vincolante per la legislazione regionale, della previsione della “doppia conformità” (sent. nn. 31.03.1998 n. 370; 13.05.1993 n. 231; 27.02.2013, n. 101) seppur con precipuo riferimento inizialmente ai soli profili penalistici (sent. 370/1998 e 231/1993).
Con tale ultima pronuncia, in riferimento a giudizio di costituzionalità di legge regionale della Toscana, ha affermato che il rigore insito nel principio della “doppia conformità” trova la propria ratio ispiratrice nella “natura preventiva e deterrente” della sanatoria in questione, finalizzata a frenare l’abusivismo edilizio, in modo da escludere letture “sostanzialiste” della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi solo al momento della presentazione dell’ istanza per l’accertamento di conformità.
La Consulta ha dunque già vagliato anche sotto il profilo amministrativo la costituzionalità della disciplina in questione, nel senso della assoluta inconciliabilità tra l’istituto legale e quello pretorio, ragion per cui ritiene il Collegio di non dover sollevare d’ufficio questione di legittimità costituzionale, da ritenersi manifestamente infondata alla luce delle precisazioni del giudice costituzionale -come peraltro incidentalmente già rilevato (Consiglio di Stato sez. V, 11.06.2013, n.3220)- se non inammissibile.
In disparte per tanto ogni considerazione, sul piano della opportunità, in merito al mancato riconoscimento in via normativa di tale forma di sanatoria, è da escluderne la creazione per via ermeneutica, come vorrebbero i ricorrenti.
5.7. In definitiva, non è possibile l'estensione del permesso di sanatoria al di fuori dei presupposti della cosiddetta “doppia conformità”, di cui all'art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, con la conseguenza che non può trovare applicazione l'istituto della cosiddetta sanatoria “giurisprudenziale” o “impropria”, poiché il principio di buon andamento, che fa ritenere illogico che si demolisca ciò che, al momento stesso, potrebbe essere autorizzato in base allo strumento vigente, deve recedere di fronte a quello, di pari rango costituzionale, di legalità che vuole che, anche in questa materia, siano osservate le disposizioni del legislatore (ancora TAR Puglia Lecce sez. III, 09.12.2010 n. 2816).
5.8. Fermo restando quanto sopra esposto, ritiene invece il Collegio non escludibile a priori, in nome dei richiamati principi di ragionevolezza ed economia dei mezzi giuridici, la possibilità per l’Amministrazione di valutare discrezionalmente, in sede sanzionatoria, la possibilità di applicare misure alternative alla demolizione, ove non sussistano al riguardo ragioni ostative al pubblico interesse da indicare con congrua motivazione (quali la presenza di vincoli ambientali ecc.) analogamente a quanto già previsto in riferimento ad altre ipotesi di violazioni edilizie meramente formali, segnatamente all’art. 38 del T.U. edilizia, seppur norma di “speciale favore” (cfr. TAR Liguria sez. I, 18.02.2014, n. 282) (TAR Umbria, sentenza 03.12.2014 n. 590 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

SICUREZZA LAVORO: Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro. Disponibile il testo coordinato nell'edizione dicembre 2014.
Disponibile on-line il testo coordinato del Decreto Legislativo 09.04.2008 n. 81 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro con tutte le disposizioni integrative e correttive.
Novità in questa versione:
Modificati gli artt. 28, comma 3-bis e 29, comma 3 come previsto dall’art. 13 della Legge 30/10/2014, n. 161, recante “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea - Legge europea 2013-bis”, pubblicata sulla GU n. 261 del 10/11/2014, entrata in vigore il 25/11/2014;
• Sostituito il decreto dirigenziale del 22.01.2014 con il decreto dirigenziale del 29.09.2014 riguardante il nono elenco dei soggetti abilitati per l’effettuazione delle verifiche periodiche di cui all’art. 71, comma 11 (avviso pubblicato nella G.U. n. 230 del 03.10.2014);
• Inserito il Decreto interministeriale 09.09.2014 riguardante i modelli semplificati per la redazione del piano operativo di sicurezza, del piano di sicurezza e di coordinamento e del fascicolo dell'opera nonché del piano di sicurezza sostitutivo. (avviso pubblicato nella G.U. n. 212 del 12.09.2014).
• Inserito il decreto interministeriale 22.07.2014 “Disposizioni che si applicano agli spettacoli musicali, cinematografici e teatrali e alle manifestazioni fieristiche tenendo conto delle particolari esigenze connesse allo svolgimento delle relative attività”;
• Sostituito il decreto dirigenziale del 31.03.2014 con il decreto dirigenziale del 21.07.2014 riguardante il quarto elenco dei soggetti abilitati ad effettuare i lavori sotto tensione in sistemi di II e III categoria;
• Inseriti gli interpelli dal n. 10 al n. 15 del 11/07/2014, dal n. 16 al n. 23 del 06/10/2014 e dal n. 24 al n. 25 del 04/11/2014 (link a www.lavoro.gov.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - VARI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 51 del 19.12.2014, "Istituzione della Leva civica volontaria regionale" (L.R. 16.12.2014 n. 33).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 51 del 19.12.2014, "Regolamento per l’accesso alle aree e ai locali per il gioco d’azzardo lecito, in attuazione dell’art. 4, comma 10, della l.r. 21.10.2013, n. 8" (regolamento regionale 16.12.2014 n. 5).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 15.12.2014 n. 290 "Modifica del saggio di interesse legale" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 11.12.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 15.12.2014, "Approvazione dell’elaborato “Criteri tecnici di dettaglio per la redazione dei piani di assestamento forestale di Regione Lombardia”" (decreto D.S. 01.12.2014 n. 11371).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: P. Mantegazza, Prime osservazioni sulle norme interessanti l’edilizia e l’urbanistica introdotte dal d.l. n. 133/2014 convertito in legge dalla l. n. 164/2014 (dicembre 2014 - tratto da http://camerainsubria.blogspot.it.

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: F. Fraternali, Green Public Procurement (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2014).
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SOMMARIO: Introduzione - 1. Green Public Procurement: sinossi teorica - 1.1 Nozione di Green Public Procurement (GPP) - 1.2 Sinossi delle leggi e delle strategie riguardanti il Green Public Procurement - 1.3 Vantaggi, difficoltà ed obiettivi del Green Public Procurement - 1.4 Corte dei Conti: Premio GPP Consip 2010 - 2. Best Practice: un caso esemplare - 2.1 Interventi di GPP presso gli uffici di Via Baimonti e Caserma Montezemolo - 3. Best Practice: una analisi economica - 3.1 L’impianto fotovoltaico - Conclusioni.

INCARICHI PROFESSIONALI: I. Luce, L’affidamento di incarichi esterni da parte della p.A. - TAR CAMPANIA-SALERNO, SEZ. II, SENTENZA 16.07.2014 N. 1383 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2014).
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SOMMARIO: 1. Premessa - 2. Il fatto - 3. Il quadro normativo - 4. I presupposti - 5. Il procedimento; differenza con l’appalto di servizi.

EDILIZIA PRIVATA: R. Costanzi, Il dialogo partecipativo tra privato e p.A. nella fase di controllo successiva alla presentazione della segnalazione certificata di inizio attività: s.c.i.a. e preavviso di rigetto - TAR LOMBARDIA-MILANO, SEZ. II, SENTENZA 03.04.2014 N. 880 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2014).
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SOMMARIO: 1. La sentenza - 2. La ricostruzione di matrice privatistica dell’istituto e l’orientamento prevalente che nega l’applicabilità dell’art. 10-bis L. 241/1990 alla s.c.i.a. - 3. I dubbi di parte della giurisprudenza (e dottrina) contraria alla tesi prevalente - 4. Osservazioni conclusive.

PUBBLICO IMPIEGO: E. Grippaudo, L’onere della prova nel mobbing - CASSAZIONE CIVILE, SEZ. LAV., SENTENZA 14.05.2014 N. 10424 - L’annullamento in autotutela e la pluralità soggettiva degli organi “mobbizzanti” contribuiscono ad escludere la responsabilità per mobbing della Pubblica Amministrazione (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2014).
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SOMMARIO: 1. La fattispecie decisa con la sentenza 10424/2014 - 2. Storie di cocci che non si riparano - 3. Il mobbing nel diritto vigente - 4. Elementi costitutivi del mobbing - 5. L’azione di risarcimento - 6. Considerazioni conclusive.

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTIDall'Anac un bollino blu sugli appalti. Le p.a. potranno chiedere un visto di conformità preventivo.
Un visto di conformità preventivo sugli appalti. Le stazioni appaltanti potranno chiedere all'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) un controllo sui bandi di gara e sull'esecuzione del contratto di appalto, anche per impedire le infiltrazioni criminali; la cosiddetta «vigilanza preventiva» sarà attivabile per appalti relativi a grandi opere, grandi eventi e calamità naturali.

È quanto prevede l'Anac con il
nuovo regolamento 09.12.2014 in materia di attività di vigilanza e accertamenti ispettivi varato il 15.12.2014 e pubblicato sul proprio sito (www.anticorruzione.it, o www.avcp.it).
Il provvedimento sostituisce il precedente di più di tre anni fa, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 189 del 16.08.2011 e risponde all'esigenza di rendere più penetranti ed incisivi gli interventi dell'Autorità. La più importante novità del provvedimento riguarda l'introduzione della cosiddetta “vigilanza collaborativa”, una forma particolare ed “eccezionale” di verifica di conformità degli atti di gara e dei comportamenti delle stazioni appaltanti rispetto alla normativa vigente.
Questa attività di supervisione e controllo sugli atti di gara e sull'esecuzione dei contratti in precedenza veniva rimessa alla sottoscrizione di appositi accordi fra amministrazione e Autorità. Adesso, con il nuovo regolamento firmato dal presidente Anac Raffaele Cantone, questa attività di controllo preventivo viene espressamente disciplinata con la finalità non soltanto di garantire il corretto svolgimento delle operazioni di gara e dell'esecuzione dell'appalto, ma anche di impedire tentativi di infiltrazione criminale nell'ambito di contratti pubblici particolarmente rilevanti tramite un costante monitoraggio delle attività di rilevanza pubblica.
La vigilanza collaborativa però non potrà essere chiesta in ogni caso: il regolamento stabilisce infatti che possa essere attivata dalle stazioni appaltanti solo al ricorrere di determinati presupposti, sostanzialmente riconducibili alle grandi opere pubbliche, riconosciute come strategiche o previste in occasione di grandi eventi di varia natura, ovvero che si rendano necessarie a seguito di calamità naturali, o ancora ad interventi per i quali sono stati erogati fondi comunitari.
Il regolamento prevede inoltre che le stazioni appaltanti possano chiedere la “vigilanza collaborativa” anche nei casi in cui si attiva il cosiddetto “commissariamento" dell'impresa coinvolta in inchieste giudiziarie (ai sensi del decreto-legge 90/2014), oppure in presenza di rilevate situazioni anomale o sintomatiche di condotte illecite. Per il resto il provvedimento dell'Authority, che entrerà in vigore il giorno successivo a quello della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale ed è composto da 19 articoli, riporta al Consiglio Anac la funzione di coordinamento e di indirizzo puntuale dell'attività di vigilanza, anche sotto il profilo delle priorità da assegnare ai singoli esposti. Le attività di indagine ispettiva e di vigilanza potranno essere svolte sia d'ufficio, sia su istanza motivata di chiunque ne abbia interesse compilando appositi format previsti per i lavori e per le forniture e i servizi.
È prevista anche una disciplina delle modalità di gestione degli esposti anonimi: in via generale verranno archiviati ma, nei casi di denunce riguardanti fatti di particolare gravità, circostanziate e adeguatamente motivate, il dirigente potrà comunque trasmetterlo all'Ufficio ispettivo o all'Ufficio piani di vigilanza e vigilanze speciali per lo svolgimento delle attività di competenza.
Le istruttorie dovranno concludersi entro 180 giorni, con una proroga al massimo di 90 giorni; la gestione dei procedimenti non dovrebbe andare oltre i 9 mesi (in passato si è anche arrivati a 6 anni) (
articolo ItaliaOggi del 17.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Province: l'emendamento aggiuntivo previsto dal Governo alla legge di stabilità 2015 (CGIL-FP di Bergamo, nota 15.12.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: RSU 2015 (C.S.A. di Roma, comunicato 11.12.2014 n. 3).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: SISTRI: entrata in vigore delle sanzioni (ANCE Bergamo, circolare 19.12.2014 n. 235).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: ARPA LOMBARDIA: aggiornamento della circolare sulla gestione dei materiali da scavo e nuovo modello di comunicazione (ANCE Bergamo, circolare 19.12.2014 n. 234).
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La modulistica aggiornata di ARPA LOMBARDIA è scaricabile cliccando qui.

TRIBUTI: Oggetto: No alla TARI per magazzini e aree “collegate” alla produzione di rifiuti speciali - R.M. n. 2/DF (ANCE Bergamo, circolare 19.12.2014 n. 233).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Variazione del tasso di interesse legale: anno 2015 (ANCE Bergamo, circolare 19.12.2014 n. 230).

TRIBUTIOggetto: Tassa sui rifiuti (TARI). Determinazione della superficie tassabile. Quesito (Ministero dell'Economia e delle Finanze, risoluzione 09.12.2014 n. 2/DF).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: GESTIONE DEI MATERIALI DA SCAVO alla luce della L. 09.08.2013 n. 98 di conversione, con modifiche, del D.L. 21.06.2013 n. 69 (cd “Decreto Fare”) - Aggiornamento n. 1/2014 (ARPA Lombardia - 01.12.2014 - link a www2.arpalombardia.it ):
Modulo di conferma completo utilizzo materiali da scavo
Modulo dichiarazione

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: d.P.R. 07.09.2010, n. 160 recante: “Regolamento per la semplificazione ed il riordino della disciplina sullo Sportello unico per le attività produttive” – Problematiche relative alle modalità di aggiornamento del REA (Ministero dello Sviluppo Economico, nota 18.11.2014 n. 204724 di prot.)

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOFacilitate le nuove assunzioni. Si tiene conto delle possibili cessazioni nei 3 anni successivi. CORTE CONTI/ La sezione autonomie fa chiarezza su una norma della riforma Madia.
Per programmare nuove assunzioni, gli enti locali possono tenere conto delle cessazioni prevedibili nell'arco del triennio successivo.

È questo l'importante chiarimento fornito dalla Corte dei conti, sezione autonomie, nella
deliberazione 21.11.2014 n. 27/2014.
La pronuncia fa chiarezza sulla portata dell'art. 3, comma 5, del dl 90/2014, nella parte in cui dispone che «a decorrere dall'anno 2014 è consentito il cumulo delle risorse destinate alle assunzioni per un arco temporale non superiore a tre anni, nel rispetto della programmazione del fabbisogno e di quella finanziaria e contabile». Tale previsione aveva posto più di un dubbio agli operatori.
In particolare, non era chiaro se essa comportasse il superamento dell'orientamento a suo tempo espresso dalle sezioni riunite in sede di controllo con la deliberazione n. 52/2010, che aveva stabilito che potevano essere ricoperte anche in anni successivi a quello immediatamente seguente tutte le cessazioni intervenute dal 2006 in poi rimaste inutilizzate (cosiddetti resti). Secondo la sezione autonomie, invece, il legislatore ha voluto risolvere un problema diverso, pur presente negli enti che debbono ridurre la spesa, affermando la possibilità di tenere conto delle cessazioni future ma già definite (per esempio, i pensionamenti già programmati).
Infatti, il riferimento alla programmazione sembra lasciare intendere che il triennio possa essere quello successivo al 2014, così come la dicitura riferita alle risorse «destinate» alle assunzioni. Da quest'anno, quindi, le nuove assunzioni possono essere programmate destinando alle stesse, oltre alle risorse assunzionali già acquisite, anche quelle che tengano conto delle cessazioni previste nel triennio successivo. Rimane fermo, ovviamente, che per procedere effettivamente all'assunzione la capacità assunzionale si dovrà effettivamente concretizzare attraverso le cessazioni preventivate. Ciò, sottolineano i giudici contabili, risulta funzionale anche perché, di solito, gli enti impiegano un periodo di tempo piuttosto lungo per svolgere un concorso pubblico: questa norma consente, perciò, di rendere la programmazione più coerente anche con i fabbisogni futuri.
Sull'utilizzabilità dei resti, tuttavia, la sezione autonomie opera comunque una stretta, affermando che tale strada risulta ora praticabile solo per gli enti non soggetti al Patto di stabilità interno (come originariamente affermato dalle sezioni riunite), senza più ammetterne l'estensione (consentita da alcune sezione regionali) anche agli enti soggetti. Ciò in quanto gli interventi effettuati dal legislatore (e in particolare quelli volti ad ampliare la percentuale di turnover ammessa) hanno un impatto complessivo e sono indirizzati a disciplinare ex novo la materia delle assunzioni del personale per gli enti sottoposti al Patto, non lasciando spazio per interpretazioni estensive.
Ne deriva, pertanto, che tali enti, laddove abbiano ancora margini assunzionali derivanti da cessazioni avvenute nell'anno 2012 e precedenti, non possono più utilizzarle per effettuare nuove assunzioni (
articolo ItaliaOggi del 12.12.2014).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: L'art. 92 del codice dei contratti pubblici, per l'esplicita formulazione del testo e per la ratio che lo ispira, permette di riconoscere l'incentivo ai dipendenti incaricati dell'attività di progettazione solo ove questa sia finalizzata alla costruzione di un'opera pubblica, la cui realizzazione sia preceduta da una necessaria attività di progettazione e per il cui affidamento si faccia ricorso a procedure di evidenza pubblica. La presenza di tali circostanze è, pertanto, elemento preliminare indispensabile per la legittima attribuzione dell'incentivo.
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Rientra nell’autonomia decisionale dell’ente richiedente identificare le attività di cui alla legge forestale regionale che, attuandosi previa progettazione confluente nella realizzazione di un’opera, e realizzando in concreto le finalità di “presidio e difesa ambientale e di ingegneria naturalistica”, legittimano il riconoscimento dell’incentivo alla progettazione previsto dall’art. 92 del codice dei contratti.
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Con la nota in epigrafe, il Presidente della Provincia di Pistoia ha richiesto, per il tramite del Consiglio delle autonomie locali, il parere di questa Sezione sul punto se gli interventi pubblici forestali di cui all'art. 10 della legge regionale 21.03.2000, n. 39 possano farsi rientrare fra le opere di presidio e difesa ambientale e di ingegneria naturalistica ai sensi dell'art. 3, co. 8, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, e possano quindi dar luogo legittimamente alla corresponsione degli incentivi previsti dal medesimo decreto legislativo al personale dipendente interno incaricato della progettazione di tali lavori.
...
3. – L’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006 (codice dei contratti pubblici) recita: “Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro [...] è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori".
Quanto alla nozione di "opera" o "lavoro", l'art. 3, comma 8, del medesimo d.lgs. precisa che: "I 'lavori' di cui all'Allegato I comprendono le attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione, restauro, manutenzione, di opere. Per 'opera' si intende il risultato di un insieme di lavori, che di per sé esplichi una funzione economica o tecnica. Le opere comprendono sia quelle che sono il risultato di un insieme di lavori edilizi o di genio civile, sia quelle di presidio e difesa ambientale e di ingegneria naturalistica".
L'amministrazione provinciale di Pistoia, ai fini dell'attribuzione dei predetti incentivi al proprio personale, si interroga sulla qualificabilità come opere “di presidio e difesa ambientale e di ingegneria naturalistica" degli interventi pubblici forestali previsti dall'art. 10 della l.r. 21.03.2000, n. 39 (legge forestale della Toscana).
Tale disposizione stabilisce al comma 1 che: "Gli interventi pubblici forestali realizzano opere e servizi volti a tutelare, migliorare e ampliare i boschi della Toscana ed a garantirne la funzione sociale", mentre al successivo comma 2 precisa: "Sono interventi pubblici forestali:
a) i rimboschimenti finalizzati a difendere il suolo, regimare le acque, preservare e migliorare la qualità dell’ambiente e del paesaggio, prevenire o contenere i danni da valanghe e altre calamità, consolidare le dune e le zone litoranee;
b) le sistemazioni idraulico-forestali volte agli stessi fini di cui alla lettera a);
c) le cure colturali ai rimboschimenti di cui alla lettera a) fino alla loro completa affermazione e la manutenzione straordinaria delle sistemazioni di cui alla lettera b) per mantenerne le funzionalità;
d) il miglioramento di boschi degradati e di quelli danneggiati o distrutti dal fuoco o da altre cause avverse;
e) le conversioni e le trasformazioni boschive volte a conferire una maggiore stabilità biologica ed un migliore assetto ambientale e paesaggistico all’area forestale interessata;
f) la creazione ed il miglioramento di boschi periurbani o comunque destinati a fini sociali, culturali e didattici;
g) la cura, la manutenzione e la sorveglianza dei boschi di proprietà della Regione e di altri enti pubblici;
h) la rinaturalizzazione, anche tramite specie forestali autoctone e tecniche d’ingegneria naturalistica di aree degradate, di corsi d’acqua e di rimboschimenti;
i) le opere ed i servizi volti a prevenire e reprimere gli incendi boschivi, a difendere il bosco da attacchi parassitari e da danni di altra origine;
l) l’azione di pronto intervento ed il ripristino nelle zone forestali colpite da calamità naturali o da eventi di eccezionale gravità;
m) la viabilità forestale e le opere costruttive connesse agli interventi di cui alle lettere da a) a l);
n) la produzione di materiale forestale di propagazione (MFP) necessario per gli interventi di cui alle lettere da a) a l) e per la distribuzione gratuita a favore di chi attua volontariamente rimboschimenti, migliorie boschive e sistemazioni idraulico-forestali a fini di difesa e miglioramento ambientale
".
4. - Questa Sezione ha già chiarito in passato (v., fra le altre, parere 30.08.2012 n. 290 e parere 19.03.2013 n. 15, conformi peraltro all’orientamento di altre Sezioni regionali) che
l'art. 92 del codice dei contratti pubblici, per l'esplicita formulazione del testo e per la ratio che lo ispira, permette di riconoscere l'incentivo ai dipendenti incaricati dell'attività di progettazione solo ove questa sia finalizzata alla costruzione di un'opera pubblica, la cui realizzazione sia preceduta da una necessaria attività di progettazione e per il cui affidamento si faccia ricorso a procedure di evidenza pubblica. La presenza di tali circostanze è, pertanto, elemento preliminare indispensabile per la legittima attribuzione dell'incentivo.
Ciò premesso, va esaminata la questione dell’ascrivibilità degli interventi forestali di cui alla legge regionale toscana alle opere di presidio e difesa ambientale e di ingegneria naturalistica menzionate dal codice dei contratti pubblici.
L’esame dei due testi normativi mostra che essi si propongono obiettivi non coincidenti, l'uno (la legge regionale toscana) avendo di mira la tutela ed il miglioramento del patrimonio boschivo, anche tenuto conto della sua funzione sociale (cfr. il già citato 1° comma dell’art. 10), l'altro (il codice dei contratti) comprendendo invece nel proprio oggetto, fra l’altro, le opere destinate alla salvaguardia e messa in sicurezza del territorio.
La diversità di finalità dei due testi normativi non consente una associazione automatica e inequivoca delle voci elencate dalla legge regionale con il concetto di opera pubblica come sopra identificato, ma si ritiene senz’altro possibile un’intersezione tra le due discipline, in riferimento a quegli interventi forestali che presentano caratteristiche di strumentalità rispetto ad obiettivi di difesa del suolo e contrasto al degrado territoriale.
E’ noto infatti che l'azione di messa in sicurezza del territorio può attuarsi anche mediante rinsaldamenti e opere costruttive che prevedono l’impiego di materiale vegetale vivo (da solo o in associazione a materiali inerti), per la sua capacità di contenimento dei fenomeni erosivi e trattenimento del suolo (e in ciò consistono appunto le tecniche di ingegneria naturalistica).
Tanto considerato,
rientra nell’autonomia decisionale dell’ente richiedente identificare le attività di cui alla legge forestale regionale che, attuandosi previa progettazione confluente nella realizzazione di un’opera, e realizzando in concreto le finalità di “presidio e difesa ambientale e di ingegneria naturalistica”, legittimano il riconoscimento dell’incentivo alla progettazione previsto dall’art. 92 del codice dei contratti (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 12.11.2014 n. 239).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: La possibilità di corrispondere l’incentivo è limitata all’area degli appalti pubblici di lavori, e non si estende agli appalti di servizi manutentivi; in ragione della natura eccezionale della deroga, l’incentivo non può riconoscersi per qualunque intervento di manutenzione straordinaria/ordinaria, ma solo per lavori finalizzati alla realizzazione di un’opera pubblica, e sempre che alla base sussista una necessaria attività progettuale (ancorché non condizionata alla presenza di tutte e tre le fasi della progettazione: preliminare, definitiva ed esecutiva); si devono escludere dall’ambito di applicazione dell’incentivo tutti i lavori di manutenzione per il cui affidamento non si proceda mediante svolgimento di una gara (com’è il caso per i lavori di manutenzione eseguiti in economia).
In base a tali orientamenti,
appare evidente che le ipotesi di riconoscibilità dell’incentivo ad attività di manutenzione ordinaria, anche laddove riconosciute astrattamente possibili, presenterebbero in concreto margini molto limitati, spettando comunque all’ente di valutare quale sia la soglia minima di complessità tecnica e progettuale che ne giustifichi la corresponsione.
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In passato la Sezione Toscana ha adottato l’interpretazione più restrittiva, ritenendo che “l’art. 92 presuppone l’attività di progettazione, nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione dell’intera opera pubblica progettata”, e traendone la conclusione che, a priori, i lavori di manutenzione ordinaria non siano da ricomprendere tra le attività retribuibili con l’incentivo in questione.
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Sul punto è ormai intervenuto il d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito dalla l. 11.08.2014, n. 114 che, nell’abrogare il citato art. 92, comma 5, preclude espressamente, per il futuro, la riconoscibilità dell’incentivo all’intero novero di attività qualificabili come manutentive, sia straordinarie che ordinarie, a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività di progettazione.
Tuttavia, poiché la richiamata novella non costituisce interpretazione autentica e non si applica pertanto in via retroattiva, le considerazioni sopra esposte restano valide con riferimento alle attività di manutenzione compiute sotto il vigore della disciplina soppressa, ma non ancora liquidate alla data di entrata in vigore del d.l. 90; per esse l’ente conserva infatti il proprio interesse ad ottenere l’avviso della Corte.
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Il Presidente della Giunta Regionale Toscana ha inoltrato alla Sezione, con nota prot. n. AOOGRT/0075429A.60.20 del 19.03.2014, una richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, co. 8, della l. 05.06.2003, n. 131, avente ad oggetto le condizioni per la riconoscibilità al personale dipendente dalla Regione dell’incentivo alla progettazione previsto dall’art. 92, comma 5, del codice dei contratti, in relazione ai lavori di manutenzione ordinaria.
...
3. Nel merito del quesito, il Presidente della Regione chiede specificamente se gli incentivi predetti possano essere riconosciuti al personale regionale in relazione a “lavori di manutenzione ordinaria, inseriti nella programmazione dei lavori pubblici dell’ente”, per il cui affidamento “sia stata adottata una procedura ad evidenza pubblica” e sia prevista un’attività di progettazione ai sensi dell’art. 93 del codice dei contratti, ovvero dell’art. 105, commi 1 e 2, del DPR 207/2010, o infine dell’art. 249 del medesimo DPR (riguardante, quest’ultimo, i beni del patrimonio culturale).
4. L’ente richiedente è avveduto della complessa questione interpretativa concernente la spettanza dell’incentivo di progettazione, e correttamente richiama le condizioni progressivamente enucleate dalla Corte dei conti in sede consultiva per ritenere applicabile il beneficio anche agli interventi di manutenzione.
Posto che l’incentivo in questione dà luogo ad una ipotesi derogatoria del principio di onnicomprensività e determinazione contrattuale della retribuzione, e non si presta pertanto a interpretazione analogica, le numerose pronunce delle Sezioni regionali di controllo intervenute nella materia (si vedano, fra le altre: Sez. controllo Lombardia, parere 06.03.2013 n. 72 e parere 28.05.2014 n. 188; Sez. controllo Liguria, parere 10.05.2013 n. 24; Sez. controllo Piemonte, parere 28.02.2014 n. 39 e parere 21.05.2014 n. 97; Sez. controllo Toscana, parere 13.11.2012 n. 293 e parere 19.03.2013 n. 15) fanno emergere alcuni orientamenti consolidati:
la possibilità di corrispondere l’incentivo è limitata all’area degli appalti pubblici di lavori, e non si estende agli appalti di servizi manutentivi; in ragione della natura eccezionale della deroga, l’incentivo non può riconoscersi per qualunque intervento di manutenzione straordinaria/ordinaria, ma solo per lavori finalizzati alla realizzazione di un’opera pubblica, e sempre che alla base sussista una necessaria attività progettuale (ancorché non condizionata alla presenza di tutte e tre le fasi della progettazione: preliminare, definitiva ed esecutiva); si devono escludere dall’ambito di applicazione dell’incentivo tutti i lavori di manutenzione per il cui affidamento non si proceda mediante svolgimento di una gara (com’è il caso per i lavori di manutenzione eseguiti in economia).
5. In base a tali orientamenti,
appare evidente che le ipotesi di riconoscibilità dell’incentivo ad attività di manutenzione ordinaria, anche laddove riconosciute astrattamente possibili, presenterebbero in concreto margini molto limitati, spettando comunque all’ente di valutare quale sia la soglia minima di complessità tecnica e progettuale che ne giustifichi la corresponsione (così Sez. controllo Puglia, parere 06.02.2014 n. 33 e parere 28.05.2014 n. 114).
Va peraltro sottolineato che
in passato la Sezione Toscana ha adottato l’interpretazione più restrittiva, ritenendo che “l’art. 92 presuppone l’attività di progettazione, nelle varie fasi, expressis verbis come finalizzata alla costruzione dell’intera opera pubblica progettata”, e traendone la conclusione che, a priori, i lavori di manutenzione ordinaria non siano da ricomprendere tra le attività retribuibili con l’incentivo in questione (Sez. controllo Toscana, parere 19.03.2013 n. 15, alle cui considerazioni si fa qui rinvio; conforme anche Sez. Liguria, parere 10.05.2013 n. 24).
6.
Sul punto è ormai intervenuto il d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito dalla l. 11.08.2014, n. 114 che, nell’abrogare il citato art. 92, comma 5, preclude espressamente, per il futuro, la riconoscibilità dell’incentivo all’intero novero di attività qualificabili come manutentive, sia straordinarie che ordinarie, a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività di progettazione (si veda in proposito l’art. 13-bis, che si riferisce al riparto del neo-istituito fondo per la progettazione e l’innovazione).
Tuttavia, poiché la richiamata novella non costituisce interpretazione autentica e non si applica pertanto in via retroattiva, le considerazioni sopra esposte restano valide con riferimento alle attività di manutenzione compiute sotto il vigore della disciplina soppressa, ma non ancora liquidate alla data di entrata in vigore del d.l. 90; per esse l’ente conserva infatti il proprio interesse ad ottenere l’avviso della Corte (conforme Sez. controllo Liguria, parere 24.10.2014 n. 60) (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 12.11.2014 n. 237).

APPALTI SERVIZILegittimi gli affidamenti diretti agli artisti.
Legittimi gli affidamenti diretti di prestazioni artistiche, sotto la soglia dei 40.000 euro.

La Corte dei conti, sezione regionale di controllo della Liguria col
parere 10.11.2014 n. 64 toglie le castagne dal fuoco per tutti i comuni che da sempre si arrovellano sulle modalità da seguire per assicurarsi le prestazione di artisti di vario genere, da mettere sotto contratto per assicurare la realizzazione delle tante manifestazioni turistiche o di intrattenimento da essi curate.
La sezione Liguria ha risposto al quesito posto dal comune di Loano in merito alla possibilità di affidare direttamente, mediante procedura negoziata senza preventiva pubblicazione di bando, l'attività artistica, nell'ipotesi in cui un comune intenda organizzare un evento con un «determinato artista curato in esclusiva da un'agenzia di spettacoli non iscritta al Mercato elettronico della p.a. (Mepa)».
Il parere della sezione fa un excursus normativo, non pienamente coerente, sulla possibilità che le prestazioni contrattuali dei comuni siano ancora affidabili senza fare ricorso al Mepa, se di valore inferiore alla soglia comunitaria e, ulteriormente, se sotto la soglia dei 40.000 euro che, ai sensi dell'articolo 125 del dlgs 163/2006 consente l'affidamento diretto per cottimo fiduciario. In sostanza, la posizione della sezione Liguria è favorevole. Nello specifico si può osservare che se nel Mepa non sono presenti prestazioni di servizi di una certa categoria, ovviamente il servizio può essere affidato mediante gli ordinari sistemi di gara. Più specificamente, la sezione ritiene comunque possibile affidare direttamente, senza gara, le prestazioni artistiche per due ordini di motivi.
In primo luogo, perché, secondo la Corte dei conti la prestazione artistica non rientra «di per sé nella materia dell'appalto di servizi, costituendo una prestazione di opera professionale disciplinata dall'art. 2229 c.c. Non sussistono pertanto, ab origine, le ragioni per l'applicazione del codice dei contratti pubblici alla fattispecie in esame».
Tale conclusione, tuttavia, appare fuorviante e non corretta. Le prestazioni artistiche, infatti, nel codice dei contratti, sono espressamente considerate come servizi. Lo dispone il punto 26 dell'Allegato IIB «Servizi ricreativi, culturali e sportivi» e il vocabolario comune degli appalti, che contempla una serie molto ampia di «servizi artistici». La sezione Liguria si ostina a ritenere applicabile alla fattispecie degli appalti la particolarità tutta italiana della prestazione d'opera professionale, come fosse cosa diversa dalle prestazioni di servizi, ignorando, come troppi altri giudici, l'articolo 3, comma 19, del dlgs 163/2006, norma di derivazione europea che travolge il diritto commerciale italiano e considera operatore economico anche la persona fisica, purché offra servizi sul mercato.
Infatti, la sezione Liguria, in parziale contraddizione, in secondo luogo non esclude, indirettamente, che la prestazione artistica sia un appalto di servizi. Infatti, il parere afferma: «Quand'anche si dovesse ritenere che la medesima possa rientrare tra gli appalti di servizi, essa deve essere ricompresa nell'ambito di applicazione dell'art. 57, comma 2, dlgs 163/2006 che consente la procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara qualora, per ragioni di natura tecnica o artistica il contratto possa essere affidato unicamente ad un operatore economico determinato».
In effetti, come visto prima, le prestazioni artistiche sono certamente appalti di servizi, sottratti, comunque, alla piena applicazione del dlgs 163/2006, rientrando nell'allegato IIB al Codice. Il che significa che in ogni caso esse possono essere affidate con le procedure semplificate previste dall'articolo 27 del codice.
Tuttavia, la sezione Liguria evidenzia correttamente «l'infungibilità della prestazione artistica», caratteristica tale da renderla inidonea a procedure comparative, siano esse elettroniche o tradizionali. Dunque, anche il confronto semplificato tra 5 offerenti, previsto dall'articolo 27 del codice dei contratti, non sarebbe utile, nel caso di specie, vista l'inconfrontabilità concorrenziale della performance del singolo artista (
articolo ItaliaOggi del 12.12.2014).

ENTI LOCALIManca il decreto. Ancora congelati i proventi da autovelox degli enti.
Comuni e province anche quest'anno dovranno rassegnarsi a congelare i proventi autovelox che per legge devono essere ripartiti a metà tra organo di controllo e proprietario della strada. Mancando ancora il decreto attuativo della legge 120/2010 non si può infatti procedere a contabilizzare le spettanze con il risultato di tenere bloccate nei bilanci preziose risorse tra l'altro vincolate per legge al miglioramento della sicurezza stradale.

È questo il risultato dell'impasse burocratico confermato anche dalla Corte dei Conti dell'Umbria che si è espressa con il
parere 08.08.2014 n. 66.
La legge n. 120 del 29.07.2010 ha proceduto a una importante riscrittura dell'art. 142 del codice della strada in materia di eccesso di velocità e proventi delle multe.
I nuovi commi 12-bis, 12-ter e 12-quater stabiliscono che per tutte le violazioni dei limiti di velocità accertate mediante l'impiego di apparecchi o di sistemi di rilevamento oppure attraverso l'utilizzazione di dispositivi o di mezzi tecnici di controllo a distanza delle violazioni i relativi proventi devono essere ripartiti in misura uguale fra l'ente dal quale dipende l'organo accertatore e l'ente proprietario della strada. Le somme derivanti dall'attribuzione delle quote dei proventi ripartiti dovranno essere destinate alla manutenzione e messa in sicurezza delle infrastrutture stradali e al potenziamento delle attività di controllo e accertamento delle violazioni in materia di circolazione stradale, comprese le spese relative al personale.
Ma queste nuove disposizioni non sono mai diventate operative in quanto non è ancora stato emanato il decreto attuativo che deve fissare le regole per il versamento dei proventi e le modalità di trasmissione della dettagliata relazione che gli enti locali devono trasmettere annualmente al ministero. Nonostante la legge di conversione del dl 16/2012 abbia tentato di porre rimedio all'inerzia della burocrazia resta imprescindibile l'adozione di un provvedimento ad hoc.
Lo confermano espressamente i giudici contabili che hanno fornito chiarimenti al comune di Ferentillo. Dalla ricostruzione del quadro normativo, specifica la deliberazione, ne deriva che le amministrazioni «sono comunque tenute all'applicazione delle disposizioni contemplate dai commi 12-bis, 12-ter e 12-quater dell'art. 142 del codice della strada, con la conseguenza che è per esse obbligatorio provvedere all'accantonamento della quota del 50% dei proventi delle suddette violazioni, da destinare a favore dell'ente proprietario della strada».
Questa interpretazione rigorosa non è condivisa dall'Anci che sembra invece orientata a considerare vincolati solo i proventi futuri e non quelli del 2013-2014. Salvo che il prossimo decreto disponga diversamente (
articolo ItaliaOggi del 19.12.2014).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Buonuscita all'ex sindaco. Una mensilità per ogni anno di mandato. L'indennità integra quella di funzione prevista alla fine dell'incarico.
Qual è il criterio per quantificare l'indennità di fine mandato da corrispondere a un sindaco uscente a seguito dello scioglimento del consiglio comunale? Qual è la modalità di liquidazione dei gettoni di presenza ai consiglieri comunali?

L'art. 82, comma 8, del decreto legislativo n. 267/2000, ha introdotto l'indennità di fine mandato per il sindaco ed il presidente della provincia. Dalla formulazione testuale della disposizione si evince che la stessa costituisce «un'integrazione» dell'indennità di funzione prevista in favore del sindaco alla fine dell'incarico amministrativo. L'istituto ha trovato espressa previsione e regolamentazione nell'art. 10 del decreto ministeriale n. 119/2000, che ne ha stabilito la misura in un'indennità mensile spettante per ogni 12 mesi di mandato, proporzionalmente ridotto per periodi inferiori all'anno; ciò in quanto la misura dell'indennità si correla essenzialmente alla funzione svolta dal percipiente per il periodo di concreto esercizio dei poteri sindacali.
Per quanto attiene alle modalità di calcolo dell'indennità, l'amministrazione dell'interno, con circolare n. 5 del 05.06.2000 e successivamente con circolare n. 4 del 28.06.2006, ha ribadito quanto definito in merito dal Consiglio di stato, all'uopo interpellato, con il parere espresso nell'adunanza della sezione prima del 19 ottobre 2005, con cui viene riconfermato che l'emolumento de quo va commisurato all'indennità effettivamente corrisposta, per ciascun anno di mandato.
Riguardo al secondo punto, in base al testo vigente dell'art. 82, comma 2, del Tuel, i consiglieri comunali hanno diritto a percepire un gettone di presenza per la partecipazione a consigli e commissioni. In nessun caso l'ammontare percepito nell'ambito di un mese da un consigliere può superare l'importo pari a un quarto dell'indennità massima prevista per il rispettivo sindaco in base al decreto di cui al comma 8 del citato art. 82. Il successivo comma 11, inoltre, dispone che la corresponsione dei gettoni di presenza è comunque subordinata alla effettiva partecipazione del consigliere a consigli e commissioni con modalità e termini disciplinati dal regolamento comunale (
articolo ItaliaOggi del 19.12.2014).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Ruolo del presidente.
In cosa si sostanzia il ruolo super partes attribuito al presidente del consiglio comunale?

Nel caso di specie, il presidente del consiglio comunale è anche capogruppo di un gruppo unipersonale ed esercita il diritto di dichiarazione di voto al termine della discussione di ogni argomento all'ordine del giorno, al pari degli altri capigruppo, nonostante una propria pregressa manifestazione di intenti di non avvalersi del ruolo attivo del capogruppo in termini politici.
Le «dichiarazioni di voto», previste dall'abrogata normativa relativa all'ordinamento degli enti locali (art. 302 T.U. n. 148/1915), che consentivano a ciascun consigliere di esercitare il diritto di far constare nel verbale il proprio voto e i motivi del medesimo, anche al fine di separare la propria responsabilità da quella del collegio, sono ora disciplinate dal regolamento.
Nella fattispecie in esame, il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale prevede che prima della chiusura della discussione ciascun capogruppo o suo delegato possa intervenire per le dichiarazioni di voto; inoltre stabilisce che, per la costituzione di un gruppo, è sufficiente anche la partecipazione di un solo consigliere, a condizione che appartenga ad una lista rappresentata in consiglio comunale in seguito alle elezioni.
L'art. 39 del decreto legislativo n. 267/2000, al comma 1, prevedendo la possibilità, anche per i comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, di istituire la figura del presidente del consiglio, dispone che a questi sono attribuiti, tra gli altri, i poteri di convocazione e direzione dei lavori e delle attività del consiglio.
Nulla dispone in ordine ad eventuali affievolimenti dei diritti connessi allo status di consigliere comunale come disciplinati, in particolare, dall'art. 43 dello stesso decreto legislativo n. 267/2000, che, dunque vengono mantenuti anche in capo al consigliere-presidente. La dichiarazione rilasciata dal presidente del consiglio non è, peraltro, vincolante ed è, dunque, inidonea a limitare le prerogative riconosciute ad ogni consigliere comunale (
articolo ItaliaOggi del 19.12.2014).

COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALI: Personale degli enti locali. Incarico di P.O. a organo politico.
L'art. 53, comma 23, della l. 388/2000 consente, negli enti locali con popolazione inferiore a 5.000 abitanti, previa adozione di disposizioni organizzative regolamentari, l'attribuzione della responsabilità degli uffici ai componenti dell'organo esecutivo, anche in presenza di dipendenti ascritti alla categoria D nell'organico dell'amministrazione.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità che un 'consigliere/assessore (esterno)' svolga le funzioni di posizione organizzativa, in presenza di figure professionali, nell'organico dell'Ente, ascritte alla categoria D.
L'art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, come novellato dall'art. 29, comma 4, della l. 448/2001, prevede che gli enti locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
[1], anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni [2], e all'articolo 107 [3] del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio.
Si sottolinea preliminarmente che la disposizione in esame si riferisce all'attribuzione di funzioni gestionali a componenti dell'organo esecutivo delle amministrazioni locali: ne consegue l'inapplicabilità della stessa nei confronti di soggetti che ricoprano esclusivamente la carica di consigliere comunale.
La predetta norma ha espressamente introdotto la possibilità di deroga al generale principio di separazione dei poteri, nei piccoli enti, al fine di favorire anche il contenimento della spesa e consentire comunque soluzioni di ordine pratico ad eventuali problemi organizzativi nelle realtà di modeste dimensioni demografiche.
Si ritiene utile precisare, a tal proposito, che la giurisprudenza amministrativa ha evidenziato come l'art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, ai fini della sua concreta applicazione, richieda che l'attribuzione di responsabilità degli uffici e dei servizi comunali ai componenti degli organi esecutivi, ed il conseguente potere degli stessi di adottare atti di natura tecnica gestionale, debbano essere previsti da specifiche norme regolamentari organizzative
[4]. L'adozione della richiesta norma organizzativa si pone, pertanto, quale condizione necessaria per l'applicazione dell'articolo in esame, con la conseguenza che, in mancanza di detto preliminare adempimento, si renderebbe, di fatto, inapplicabile la norma stessa [5].
E' da notare inoltre che la modifica apportata alla norma in esame dall'art. 29, comma 4, della l. 448/2001, non solo ha esteso tale facoltà anche ai comuni con popolazione fino a cinquemila abitanti
[6] (comma 4, lett. a), ma ha anche abrogato la condizione precedentemente prevista, che imponeva la verifica preliminare dell'assenza non rimediabile, nella struttura comunale, di figure professionali idonee nell'ambito dei dipendenti (comma 4, lett. b).
Pertanto la scelta, da parte del Comune, di avvalersi della potestà derogatoria al principio di separazione dei poteri può avvenire attualmente anche in presenza di dipendenti appartenenti alla categoria D
[7].
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[1] In virtù di tale norma il segretario comunale esercita ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco.
[2] Ora art. 4 del d.lgs. 165/2001.
[3] La norma prevede l'attribuzione ai dirigenti di tutti i compiti non compresi tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo.
[4] Cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, sentenza n. 9545 del 29.07.2008.
[5] Il giudice amministrativo ha individuato proprio nella determinazione di carattere organizzativo la fonte legittimante del potere esercitato (nella fattispecie esaminata) dal Sindaco cui erano state attribuite le funzioni di responsabile del Servizio tecnico (Cfr. TAR Emilia Romagna, sez. staccata di Parma sentenza n. 160 del 2009).
[6] Nella precedente formulazione la norma era riferita esclusivamente ai Comuni con popolazione fino a tremila abitanti.
[7] Cfr. parere del Ministero dell'Interno del 30.09.2003, consultabile in http://incomune.interno.it/pareri
(16.12.2014 - link a www.regione.fvg.it).

APPALTI: Responsabilità negli appalti.
Domanda
È stata soppressa la responsabilità solidale negli appalti per il versamento delle ritenute fiscali dei dipendenti dei subappaltatori?
Risposta
Sì, con alcune precisazioni. L'art. 28 del Decreto legislativo sulle semplificazioni fiscali, emanato dal governo, in via definitiva, il 30.10.2014 e del quale è imminente la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, ha soppresso i commi 28, 28-bis e 28-ter dell'art. 35, dl 223/2006.
Pertanto, la responsabilità solidale fra appaltatore e subappaltatore, e i connessi rischi sanzionatori a carico del committente, è stata finalmente soppressa anche con riferimento alle ritenute sui redditi di lavoro dipendente dovute dal subappaltatore, dopo esserlo stata nel 2013 in relazione all'Iva. Tuttavia, è stato anche introdotto un nuovo presidio contro l'evasione fiscale connessa all'utilizzo di lavoratori «in nero» all'interno dell'art. 29 del dlgs n. 276/2003 (attuativo della c.d. «Legge Biagi» n. 30/2003).
Tale articolo già stabiliva che il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno dei subappaltatori entro due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di Tfr, i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione dell'appalto, escluse le sanzioni civili delle quali risponde solo il responsabile dell'inadempimento, ferma la possibilità di eccepire, nella prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell'appaltatore e degli eventuali subappaltatori, nel qual caso il giudice accerta la responsabilità solidale di tutti gli obbligati, ma l'azione esecutiva può essere intentata nei confronti del committente imprenditore o datore di lavoro solo dopo l'infruttuosa escussione del patrimonio dell'appaltatore e degli eventuali subappaltatori.
In tale contesto, l'articolo 28 del nuovo Decreto Legislativo ha aggiunto nell'art. 29 la previsione ai sensi della quale il committente che abbia eseguito il pagamento é tenuto, ove previsto, ad assolvere gli obblighi del sostituto d'imposta ai sensi del dpr 600/73, compreso il versamento delle ritenute sui redditi di lavoro dipendente, e può esercitare l'azione di regresso nei confronti del coobbligato secondo le regole generali (
articolo ItaliaOggi Sette del 15.12.2014).

APPALTIGli istituti della transazione e dell’accordo bonario nella disciplina dei contratti pubblici (parere 07.10.2014 n. 410698 di prot. - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2014).

LAVORI PUBBLICIPoteri di autotutela della p.A. negli appalti di infrastrutture strategiche (parere 06.10.2014 n. 409286 di prot. - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2014).

NEWS

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Legge di stabilità/ Lavori in casa, i maxi bonus allungano. Anche nel 2015 restano le detrazioni al 50% sulle ristrutturazioni e al 65% per il risparmio energetico.
Via libera alla detrazione Irpef e Ires del 65% anche alle spese sostenute nel 2015 per le schermature solari esterne degli edifici e per gli impianti di climatizzazione invernale con generatori di calore alimentati da biomasse combustibili, come la legna da ardere, il pellets, il cippato, il mais.

Sono le principali novità introdotte al Senato alla legge di stabilità, nella quale è stata prorogata a tutto il 2015 anche la detrazione Irpef ed Ires del 65% sugli interventi antisismici “qualificati” (che quindi non sarà ridotta al 50% per i pagamenti del 2015), sono stati sterilizzati i previsti aumenti dell’aliquota Tasi per il 2015 e sono stati concessi 18 mesi al posto di 6 dalla fine dei lavori per l’utilizzo del bonus abitazioni al 50% sugli acquisti da immobiliari di ristrutturazione.
Rispetto al testo del Governo, poi, sono state confermate le proroghe sino alla fine del 2015 delle detrazioni Irpef del 50% sulle ristrutturazioni edilizie (in precedenza, era previsto che le spese sostenute nel 2015, fossero agevolate al 40 per cento), del 50% sui mobili e sui grandi elettrodomestici (il bonus sarebbe terminato il 31.12.2014) e di quella Irpef e Ires del 65% sui lavori per il risparmio energetico qualificato, ai sensi della Legge 27.12.2006, n. 296 (in precedenza, era previsto che le spese sostenute nel 2015 fossero agevolate al 50 per cento).
Per i lavori verdi sulle parti comuni condominiali, il bonus del 65% è stato prorogato dal 30.06.2015 al 31.12.2015, eliminandolo definitivamente dal 2016. Come per il risparmio energetico qualificato, quindi, non vi sarà più il bonus dal primo gennaio 2016, ma si potranno utilizzare solo i benefici dell’articolo 16-bis, comma 1, lettera h), Tuir, per il risparmio energetico generico.
Dal 01.01.2015, infine, aumenterà dal 10% al 22% l’aliquota Iva per l’acquisto e l’importazione di pellet in legno per combustione. Rimarranno al 10%, invece, la legna da ardere in tondelli, i ceppi, le ramaglie o le fascine e i cascami di legno, compresa la segatura (n. 98, tabella A, Parte III, allegata al Dpr n. 633/1972).
Il maxiemendamento approvato dal Senato venerdì notte prevede che potranno beneficiare della detrazione Irpef e Ires del 65% anche le spese sostenute dal 01.01.2015 al 31.12.2015 per «l’acquisto e la posa in opera delle schermature solari di cui all’allegato M al decreto legislativo 29.12.2006, n. 311», fino «a un valore massimo della detrazione di 60mila euro» (importo massimo della spesa agevolata di 92.307,69 euro). E inoltre, per «l’acquisto e la posa in opera di impianti di climatizzazione invernale con impianti dotati di generatori di calore alimentati da biomasse combustibili» (come la legna da ardere, il pellets, il cippato, il mais), fino «a un valore massimo della detrazione di 30mila euro» (importo massimo della spesa agevolata di 46.153,85 euro).
Queste due nuove agevolazioni funzionano con le stesse regole e procedure previste per il classico bonus del 65%, quindi, con la comunicazione all’Enea entro 90 giorni dalla fine del lavori e col bonifico parlante con la Legge n. 296/2006. Sono agevolati, quindi, le persone fisiche, gli esercenti arti e professioni, gli enti pubblici e privati che non svolgono attività commerciale, le società semplici, le associazioni tra professionisti, i condomini (per gli interventi sulle parti comuni condominiali) e i soggetti che conseguono reddito d’impresa (ditte individuali, familiari e coniugali, società di persone e società di capitali).
Gli interventi devono essere eseguiti su edifici esistenti (cioè, già iscritti in catasto o con richiesta di accatastamento e per i quali sia stata pagata l’Imu) e non su quelli in costruzione. Inoltre, è necessario che negli ambienti oggetto dell’intervento vi sia già un impianto di riscaldamento (che non deve essere obbligatoriamente sostituito).
Per le imprese (dove a differenza dei privati si applica il principio di competenza per individuare il momento in cui l’investimento viene effettuato e non quello di cassa), gli immobili su cui fare gli interventi agevolati al 65% non sono solo i «fabbricati strumentali» utilizzati (anche in locazione) «nell’esercizio della propria attività imprenditoriale» (risoluzioni 15.07.2008, n. 303/E e 01.08.2008, n. 340/E), ma vi rientrano anche i fabbricati locati a terzi, ad esempio, dalle cosiddette «immobiliari di gestione» (Associazione italiana dottori commercialisti n. 184 del 10.07.2012, Commissione tributaria provinciale di Varese 21.06.2013, n. 94, di Lecco 26.03.2013, n. 54, di Como 02.07.2012, n. 109)
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.12.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province, part-time prima del collocamento in disponibilità.
Part-time prima del collocamento in disponibilità.

Questa la carta giocata dal governo nel maxiemendamento alla legge di Stabilità per tentare di disinnescare la bomba degli esuberi provinciali che ieri è deflagrata con l'occupazione di molte sedi istituzionali da parte dei dipendenti. Dalla Sicilia a Firenze passando per le province calabresi (tutte e cinque occupate dai lavoratori in rivolta) la tensione è salita per la prospettiva del collocamento in sovrannumero di 20 mila dipendenti, frutto dell'obbligo per gli enti intermedi di ridurre del 50% gli organici entro la fine del 2016 (30% per le città metropolitane).
I sindacati hanno chiesto al governo «un passo indietro» su un provvedimenti definito «dannoso e insensato». Diversamente, hanno avvertito i segretari generali di Fp Cgil, Cisl Fp e Uil Fpi, Rossana Dettori, Giovanni Faverin e Giovanni Torluccio, «le occupazioni proseguiranno». Dal governo nessun ripensamento, ma la decisione di incontrare i sindacati martedì prossimo. Toccherà al ministro della funzione pubblica Marianna Madia e al ministro per gli affari regionali Maria Carmela Lanzetta spiegare a Cgil, Cisl e Uil che, alla fine, il procedimento di collocamento dei lavoratori provinciali in sovrannumero non comporterà «alcun rischio di perdita del posto di lavoro».
Messa da parte l'idea di ritirare l'emendamento sulle province (un'ipotesi che, assieme a una fantomatica proroga di un anno del procedimento di riordino era circolata nella giornata di giovedì), il jolly giocato dal governo nel maxiemendamento è quello del part-time. Che scatterà per il personale in sovrannumero che al 31.12.2016 non sia stato completamente ricollocato. La misura, introdotta grazie a un subemendamento del sottosegretario agli affari regionali Gianclaudio Bressa, interesserà prioritariamente i dipendenti con qualifica non dirigenziale e maggiore anzianità contributiva. Dovrà essere concertata con i sindacati e concludersi entro 30 giorni dalla relativa comunicazione. Solo in caso di mancato completo assorbimento degli esuberi, scatterà la messa in disponibilità con l'80% dello stipendio.
Due ulteriori novità inserite in extremis nel maximendamento riguardano le province montane e la rinegoziazione dei mutui. Gli enti con territorio interamente montano (e confinanti con paesi esteri) dovranno ridurre gli organici del 30% e non del 50% come previsto per tutte le altre province. Sul fronte dei mutui, si prevede che le province e le città metropolitane possano rinegoziare le rate di ammortamento in scadenza nell'anno 2015 dei prestiti non trasferiti al ministero dell'economia, con conseguente rimodulazione del relativo piano di ammortamento.
Altre novità. Il maxiemendamento estende anche all'Imi della provincia di Bolzano (l'imposta ad hoc creata in Alto Adige in sostituzione dell'Imu) la deducibilità al 20% dal reddito d'impresa e dall'Irap. Sul patto regionale verticale, invece, tutto resta com'è. Il miliardo di euro, riconosciuto ai governatori che cederanno quote di Patto di stabilità agli enti locali, servirà solo ad estinguere i debiti commerciali maturati alla data del 30.06.2014 ma non potrà essere utilizzato per compensare i tagli. Cosa che, obiettivamente, depotenzia l'utilità della misura per le regioni (si veda ItaliaOggi di ieri) (
articolo ItaliaOggi del 20.12.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLo sfoltimento delle partecipate inizia dal 1° gennaio. Sanzioni a carico dei dirigenti delle amministrazioni inadempienti.
Previste sanzioni amministrative pecuniarie a carico di amministratori e dirigenti di enti locali, province, regioni, università, autorità portuali e camere di commercio se entro il 2015 non saranno ridotte le società de esse partecipate; obbligo di avvio dei processi di razionalizzazione a partire dal primo gennaio 2015.

E' quanto prevede il comma 268 dell'articolo 2 del maxi emendamento alla legge di stabilità 2015 predisposto dal Governo che recepisce anche il contenuto di due emendamenti (Lanzillotta, Chiavaroli ) approvati in commissione e relativi all'avvio del processo di razionalizzazione delle società partecipate locali.
In particolare la disciplina sui quali si inseriscono le nuove norme è quella finalizzata ad assicurare il contenimento della spesa, il buon andamento dell'azione amministrativa e la tutela della concorrenza e del mercato attraverso l'avvio, da parte di regioni, province, enti locali, camere di commercio, università, istituti di istruzione universitaria pubblici e autorità portuali -a decorrere dal 01.01.2015- di un processo di razionalizzazione delle società e delle partecipazioni societarie direttamente o indirettamente possedute.
Questo processo dovrà comunque portare alla riduzione delle società o delle partecipazioni societarie entro la fine del 2015 partendo dall'eliminazione (messa in liquidazione o cessione) delle società e delle partecipazioni societarie non indispensabili al perseguimento degli scopi istituzionali degli enti partecipanti. In questo ambito l'emendamento specifica che si dovrà procedere comunque alla “soppressione delle società che alla data del 30.09.2014, risultino composte da soli amministratori o da un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti, ovvero abbiano conseguito nell'esercizio concluso alla data di entrata in vigore della presente legge un fatturato inferiore a 100 mila euro”.
Rimane fermo, così come previsto nel testo iniziale della norma, sia l'obbligo di procedere alla eliminazione (tramite aggregazioni, o fusioni, o internalizzazione di funzioni) delle partecipazioni detenute in società che svolgono attività analoghe o simili, sia l'obiettivo di procedere all'aggregazione di società di servizi pubblici locali di rilevanza economica e al contenimento dei costi di funzionamento, anche mediante riorganizzazione degli organi e riduzione delle remunerazioni. Il secondo emendamento approvato in commissione e recepito nel maxi emendamento introduce invece delle specifiche sanzioni in caso di inadempimento degli obblighi.
In particolare la sanzione che viene prevista potrebbe essere erogata nei confronti dei “dirigenti responsabili dell'ente titolare, direttamente o indirettamente della partecipazione, degli amministratori della società in cui la partecipazione è detenuta e, nel caso di partecipazione indiretta, degli amministratori della società che detiene la partecipazione”. La sanzione amministrativa pecuniaria viene rapportata ad ogni anno in cui si protrae l'inadempimento e commisurata al 20 per cento della retribuzione lorda annua, nel caso dei dirigenti, e all'intero emolumento spettante, nel caso degli amministratori (
articolo ItaliaOggi del 20.12.2014).

EDILIZIA PRIVATAEdilizia con moduli semplificati. Dovranno essere adottati dalle Regioni e dagli enti locali entro il 16 febbraio.
Pubblica amministrazione. Approvati dalla Conferenza unificata gli schemi predisposti dal ministero con costruttori e professionisti.
In arrivo i moduli unici semplificati per Cil e Cila, rispettivamente Comunicazione di inizio lavori e Cil asseverata. Si tratta dei più comuni e frequenti interventi di edilizia libera promossi da cittadini e imprese.
Lo stop alla babele dei moduli comunali è arrivato ieri in conferenza unificata, con l’approvazione di due schemi predisposti dal ministero della Semplificazione al termine di un lavoro di coordinamento con Regioni e Comuni, ma che ha coinvolto anche rappresentanti dei costruttori edili e dei professionisti tecnici.
In base all’accordo sottoscritto ieri, gli schemi vanno adottati «entro sessanta giorni dall’adozione in sede di conferenza unificata», cioè entro il prossimo 16 febbraio. Le Regioni potranno adeguare gli schemi alla legislazione regionale, limitatamente ad alcune parti. Poi toccherà agli enti locali adottare i moduli.
L’obiettivo è semplificare la vita a tutti coloro che devono affrontare lavori edilizi per i quali non è necessario né il permesso di costruire, né serve presentare la Scia (Segnalazione di inizio attività). Le recenti novità introdotte dallo Sblocca Italia hanno notevolmente ampliato il ricorso alla Cila, includendo anche interventi di una certa entità, come frazionamenti e accorpamenti di unità immobiliari.
Serve una Cil (Comunicazione Inizio Lavori) ogni volta che si monta un ponteggio, che si rinnova una pavimentazione esterna oppure quando si montano dei pannelli solari o si installano micro-generatori eolici. Dopo le modifiche al testo unico edilizia apportate dallo Sblocca Italia basta la Cil -in questo caso asseverata dal professionista (Cila)- anche per i frazionamenti e gli accorpamenti di unità immobiliari (senza modifica della volumetria e della destinazione d’uso) e per tutti gli interventi di manutenzione straordinaria che non intervengono sulle parti strutturali degli edifici.
La Cila (Comunicazione Inizio Lavori Asseverata) è necessaria anche per modificare la distribuzione interna degli immobili d’impresa o per i gli interventi con cambio di destinazione d’uso dei locali adibiti ad esercizio d'impresa.
Più precisamente, gli interventi da segnalare al proprio Comune con una Cil sono quelli previsti dall’articolo 6, comma 2 lettere “b” (opere temporanee da rimuovere entro 90 giorni); “c” (pavimentazioni esterne, per esempio di parcheggi); “d” (collettori solari e pannelli fotovoltaici); “e” (aree giochi gratuiti e arredi urbani pertinenziali).
Ancora più estesa la gamma di interventi per i quali si chiede una comunicazione asseverata dal tecnico, indicati all’articolo 6, comma 2, lettere “a” e lettera “e-bis”, norma riscritta in parte dallo Sblocca Italia. In questa lista ci sono tutte le manutenzioni straordinarie che non modificano volumetria e destinazione d’uso, e tutti i frazionamenti e accorpamenti di unità immobiliari senza cambio di destinazione d’uso e volumetria. Cila necessaria anche per realizzare aperture nelle pareti oppure per spostare tramezzi (sempre che non si tocchino le strutture). Infine, la comunicazione asseverata è necessaria per tutte le modifiche interne sui fabbricati ad esercizio d’impresa (sempre che non riguardino le parti strutturali) oppure modificare la destinazione d’uso dei locali adibiti a esercizio d’impresa.
L’approvazione degli schemi unici di Cil e Cila arriva «in anticipo sulla tabella di marcia» fissata dall’agenda per la semplificazione, sottolinea una nota del dicastero guidato da Marianna Madia. Si tratta della seconda tappa dopo l’approvazione (nel giugno scorso) dei moduli unici di Scia e Permesso di costruire, che le Regioni stanno progressivamente adottando (i tecnici della Semplificazione stanno conducendo un monitoraggio per verificare a livello comunale l’adozione di questi schemi).
I moduli si compongono di parti invariabili e parti che invece le Regioni possono modificare o integrare. Nella composizione degli schemi si è però cercato di andare anche oltre, fornendo indicazioni che potessero essere di aiuto al compilatore. «Nel caso degli adempimenti in materia di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro -spiegano i tecnici dell’Unità per la semplificazione della Funzione pubblica- abbiamo voluto fornire le indicazioni utili a chi normalmente non è a conoscenza del dettaglio delle norme tecniche»
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.12.2014).

EDILIZIA PRIVATARistrutturazioni, bonus sui sottotetti.
Gli interventi edilizi per il recupero dei sottotetti che comportino aumento della volumetria possono essere ricompresi nel bonus per le ristrutturazioni edilizie.

Lo afferma la Ctp di Bergamo nella sentenza n. 320/10/14, che accoglie il ricorso proposto da una contribuente contro una cartella di pagamento scaturita da un controllo 36-ter.
L'Agenzia delle entrate aveva recuperato le somme portate in detrazione nella dichiarazione dei redditi, relativamente ad alcune spese sostenute per lavori di ristrutturazione edilizia. Il motivo della ripresa risiedeva nella tipologia dei lavori oggetto della detrazione, consistenti nel recupero di un sottotetto ai fini abitativi, con aumento della volumetria.
In tali casi, la posizione delle Entrate è sintetizzata nella risoluzione 4/E/2011, secondo cui le agevolazioni spettano «solo in caso di fedele ricostruzione, nel rispetto di volumetria e sagoma dell'edificio preesistente», mentre sono da escludersi quando si realizzi un «ampliamento della volumetria». Le medesime conclusioni sono espresse anche nella precedente circolare 121 del 1998. I giudici tributari di Bergamo hanno contraddetto la tesi dell'amministrazione finanziaria e riconosciuto la piena spettanza del bonus fiscale. La decisione è ispirata sia alla legge regionale della Lombardia n. 15/1996 che alla sentenza della Cassazione n. 38088/2009.
Secondo la citata norma regionale, appare chiaro che il recupero dei sottotetti, pur con incremento di volumetria, «non deve essere considerato urbanisticamente un vero e proprio aumento», a patto di mantenere inalterata la superficie; tant'è che per tali lavori non è nemmeno richiesta l'adozione ed approvazione di un piano attuativo. Viepiù che, secondo la richiamata pronuncia della Cassazione (n. 38088/2009), possono essere assunti alla tipologia delle ristrutturazioni edilizie anche quegli «interventi che ammettono integrazioni funzionali e strutturali dell'edificio esistente, pure con incrementi di volume».
Le risoluzioni e circolari dell'amministrazione finanziaria, di contro, non hanno forza di legge, per cui le posizioni in esse contenute non hanno valore vincolante e possono essere disattese dal giudice tributario (
articolo ItaliaOggi del 19.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAEdilizia, un modello in comune. Gli enti useranno uno schema unico per i piccoli interventi. Ok in Unificata alle due nuove comunicazioni di inizio lavori previste dallo Sblocca Italia.
Un modello unico, identico per tutti gli 8.000 comuni italiani, da utilizzare per i piccoli interventi edilizi che non implicano modifiche strutturali degli edifici. Per aprire porte o spostare pareti all'interno dell'appartamento non servirà più alcun tipo di nullaosta ma basterà compilare il modello e farlo asseverare da un tecnico.
E se si tratta di manufatti rimovibili, opere di pavimentazione di spazi esterni, pannelli fotovoltaici, aree ludiche non sarà nemmeno necessario attendere l'ok del professionista. Regioni e comuni avranno 60 giorni di tempo per rendere operative le due nuove comunicazioni di inizio lavori (Cil e Cila) che rispetto ai tradizionali strumenti autorizzatori (Scia, SuperDia e permesso di costruire) consentono di iniziare subito i lavori, semplificando così gli adempimenti per cittadini e imprese.

Il countdown per il recepimento dei modelli da parte degli enti locali è già partito. Ieri, infatti, la Conferenza unificata, in anticipo sulla tabella di marcia, ha approvato i modelli previsti dal decreto Sblocca Italia (dl 133/2014) facendo così partire l'attuazione dell'Agenda per la semplificazione 2015-2017.
La
comunicazione di inizio lavori (Cil) può essere utilizzata per tutti gli interventi previsti dalle lettere b, c, d, e dell'art. 6 comma 2 del Testo unico sull'edilizia (dpr 380/2001). Quindi, in primis, opere dirette a soddisfare esigenze temporanee e a essere immediatamente rimosse al cessare della necessità (o comunque non oltre 90 giorni). Ma anche opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, vasche di raccolta delle acque, pannelli solari, generatori eolici (con altezza complessiva non superiore a 1,5 metri e diametro non superiore a 1 metro) e aree ludiche senza fini di lucro.
La
comunicazione di inizio lavori asseverata (Cila) servirà invece per le ipotesi residuali previste dall'art. 6 comma 2 del dpr 380, ossia per gli interventi di manutenzione straordinaria (compresa l'apertura di porte interne o lo spostamento di pareti a condizione che non riguardino le parti strutturali dell'edificio) e per le modifiche edilizie interne da realizzare nei fabbricati adibiti all'esercizio dell'attività di impresa.
Nel dare l'asseverazione il tecnico abilitato dovrà attestare, sotto la propria responsabilità, che i lavori sono conformi agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi, nonché compatibili alla normativa sismica e a quella sull'efficienza energetica.
Soddisfazione per l'ok dell'Unificata è stata espressa dal ministero della funzione pubblica che ora guarda ai passi successivi previsti dall'Agenda per la semplificazione: adozione del modello per l'autorizzazione unica ambientale, per la SuperDia e le «istruzioni per l'uso» dei moduli in edilizia (
articolo ItaliaOggi del 19.12.2014).

APPALTIAppalti, Cantone rafforza la vigilanza preventiva. Autorità anticorruzione. Nuovo regolamento sulle attività di ispezione - Il presidente: non serve la bacchetta magica, ma piani di lungo periodo.
Si rafforzano i poteri di vigilanza dell'Anticorruzione sugli appalti a rischio infiltrazione, a partire dai grandi eventi, come le Olimpiadi per cui è stata appena ufficializzata la candidatura di Roma per il 2024.
Nel giorno della trasparenza, celebrato insieme al ministro della Giustizia Andrea Orlando, l’Authority guidata da Raffaele Cantone ha diffuso il nuovo regolamento sulle attività di controllo dei contratti pubblici. La novità più rilevante è l'introduzione della cosiddetta «vigilanza collaborativa». Un meccanismo che consentirà alle amministrazioni di richiedere l'impegno dell'Anac per verificare in via preventiva la regolarità degli atti di gara. Lo scopo è aprire una rete di sicurezza prima che scoppino gli scandali e si muova la magistratura, anticipando quelle richieste di intervento che si sono per esempio rese necessarie per salvare il salvabile nei casi dell'Expo e di Mafia Capitale.
Attivando la vigilanza preventiva, gli enti potranno chiedere a Cantone non solo di controllare la regolarità formale delle procedure, ma anche di prevedere «clausole e condizioni idonee a prevenire» infiltrazioni della malavita, oltre ad attività di «monitoraggio dello svolgimento delle gara» e anche «dell'esecuzione dell'appalto». Insomma un'attività anti-corruzione a 360 gradi che però sarà riservata ad eventi eccezionali.
La «vigilanza collaborativa», infatti, può essere richiesta dalle stazioni appaltanti solo al ricorrere di determinati presupposti, riconducibili alle grandi opere strategiche oppure in occasione di grandi eventi sportivi, religiosi o culturali o, infine, per interventi post-calamità. Con lo stesso metodo si potrà chiedere l'aiuto di Cantone anche nei casi in cui il decreto legge 90/2014 (articolo 32, comma 1) ammette l'ipotesi di commissariamento delle imprese «in presenza di situazioni anomale e, comunque, sintomatiche, di condotte illecite o eventi criminali».
Prevenire insomma resta sempre meglio che curare. Cantone lo ha ripetuto anche ieri spiegando che le misure anticorruzione «per essere applicate comportano tempi lunghi» e «chi pensa che ci siano interventi immediati contro la corruzione, non sa che è un sistema incancrenito:? se qualcuno ha la bacchetta magica, si faccia avanti», ma per combattere la corruzione serve una «rivoluzione culturale» e «dobbiamo dare il tempo per vederla attuata».
Sulla candidatura alle Olimpiadi del 2024 Cantone ha detto che si tratta di «una grande occasione» cui non si può «rinunciare per l'alibi della corruzione». E ha ribadito l'invito a rafforzare le misure previste nel pacchetto anticorruzione varato dal governo. Ad esempio introducendo premi per chi collabora. Orlando non ha chiuso la porta. Anzi. «Abbiamo incrementato la pena -ha detto il ministro- cosa che consente di rivedere gli effetti che si producono nei riti alternativi, e abbiamo deciso di intervenire sulle confische», assimilate a quelle applicate alle organizzazioni mafiose.
Il Parlamento «può rafforzare le misure del governo», ma il «deterrente penale» non basta: «Gli antidoti sono prevenzione e trasparenza»
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARIIl notaio deve conoscere anche il fisco. Professionisti. Ruolo di consulenza: contestata la violazione dell’obbligo di diligenza che fa scattare la punibilità anche in caso di colpa lieve.
Il notaio ha anche un ruolo di consulente fiscale.
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 26369/2014 ricorda che la funzione del notaio non si deve limitare a una mera registrazione delle dichiarazione delle parti ma deve comprendere un’attività di consulenza, anche fiscale, nei limiti delle conoscenze che devono far parte del normale bagaglio di un professionista che presta la sua attività principale nel campo della contrattazione immobiliare. In base a questo presupposto la Cassazione sottolinea che può essere contestata la violazione dell’obbligo di diligenza al notaio che non svolge «un’adeguata ricerca legislativa, e una successiva consulenza, al fine di far conseguire alle parti il regime fiscale più favorevole», rispondendo dei danni causati dal suo comportamento anche in caso di colpa lieve.
È quanto accaduto al notaio nel caso esaminato, colpevole di aver presentato, nell’ambito di tre atti di compravendita sottoscritti anche dal legale rappresentante, tre dichiarazioni Invim con valori iniziali e finali uguali, senza tener conto degli incrementi che si erano verificati negli anni.
Il professionista aveva potuto dimostrare di aver chiesto invano al cliente di fare delle verifiche, attraverso il commercialista, sull’esattezza degli importi. Ma aveva comunque registrato l’atto, malgrado le mancate risposte, provocando così un danno al cliente.
La Cassazione, pur precisando che gli obblighi imposti dalla normativa fiscale non consentono generalizzazioni e che il coinvolgimento del notaio va desunto dalla normativa di dettaglio, precisa che esiste un «dovere di consiglio», anche in ambito fiscale, su aspetti della contrattazione immobiliare che una persona senza competenze tecniche non è in grado di percepire.
Gli stessi giudici precisano ricordano che l’orientamento della giurisprudenza è teso ad allargare l’oggetto della prestazione professionale del notaio a cui è richiesta una diligenza sempre maggiore, alla quale corrisponde un allargamento della responsabilità, anche in caso di colpa lieve
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.12.2014).

ENTI LOCALIStato-città. Bilanci comunali al 31 marzo.
La Conferenza Stato-Città ha dato ieri il via libera alla proroga dei termini per la presentazione dei bilanci di previsione per il 2015 dei comuni. La nuova scadenza è fissata al 31.03.2015.

A renderlo noto il rappresentante dell'Anci in Conferenza stato-città, Umberto Di Primio. Una decisione, quella della proroga, come sempre originata dalle continue modifiche normative e per questo accolta senza salti di gioia dai sindaci. «Noi vorremmo rispettare sempre la data del 31 dicembre, ma negli ultimi anni è stato impossibile», ha osservato il sindaco di Chieti. «Con il nuovo sistema di contabilità, poi, potrebbero esserci ulteriori criticità», ha proseguito.
Di Primio ha anche chiesto che la proroga al 26 gennaio del versamento dell'Imu agricola (il dl di proroga n.185/2014 è stato pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale) venga spostata ulteriormente in avanti nel tempo in modo da rivedere nel complesso i criteri di applicazione delle esenzioni (
articolo ItaliaOggi del 17.12.2014).

LAVORI PUBBLICIAppalti, pagamenti bimestrali. Ancora per due anni 10% d'anticipo all'appaltatore. LEGGE DI STABILITÀ/ Si tenta di mettere qualche toppa nel settore delle costruzioni.
Fino a tutto il 2016 l'appaltatore dovrà essere pagato in corso d'opera almeno ogni due mesi; proroga di due anni, fino al 31.12.2016, della norma che obbliga le stazioni appaltanti a concedere all'appaltatore l'anticipazione del dieci per cento del valore del contratto di appalto. Sono queste le proposte contenute in due emendamenti del governo al disegno di legge di stabilità 2015 all'esame del senato e riguardanti due aspetti di particolare rilievo per il settore delle costruzioni, gravemente provato da questi anni di crisi economica.

È con l'emendamento 1.6000 presentato dal governo in Commissione bilancio del senato che si prevede, in via transitoria, fino a tutto il 2016, una espressa deroga alla disciplina vigente in tema di predisposizione degli stati di avanzamento dei lavori (Sal) da parte del direttore dei lavori contenuta nell'articolo 194 del dpr 207/2010 (Regolamento del codice dei contratti pubblici).
La norma regolamentare stabilisce che, quando in relazione alle modalità specificate nel contratto di appalto, si deve effettuare il pagamento di una rata di saldo, il direttore dei lavori provvede alla redazione dello stato di avanzamento lavori (documento che riassume tutte le lavorazioni e somministrazioni eseguite dall'inizio dell'appalto fino a quel momento). Nella norma vigente, quindi, il momento in cui si procede al pagamento delle rate di acconto dipende esclusivamente da quanto stabilito nel contratto.
La proposta del governo, invece, lega direttamente l'obbligo del direttore dei lavori di predisporre il cosiddetto Sal ad una cadenza almeno bimestrale, così da consentire all'impresa di ottenere il pagamento. La finalità è quella di prevenire, da un lato, eccessivi ritardi nella erogazione delle risorse da parte della stazione appaltante in base ai lavori svolti e, all'altro, comportamenti non virtuosi da parte delle imprese che si trovino in situazione di difficoltà di liquidità.
Tutto ciò in deroga, appunto, all'articolo 194 del regolamento e fino al 31.12.2016 ma per i coli contratti che verranno stipulati successivamente all'entrata in vigore della legge di stabilità 2015. Viceversa per i contratti in essere le modalità di redazione dei Sal e il connesso pagamento delle rate di acconto sarà sempre disciplinato da quanto previsto nel contratto, quindi senza obbligo di emissione almeno ogni due mesi.
Un secondo emendamento (1.5000) incide poi sul profilo dell'anticipazione del prezzo, altro profilo di particolare interesse per le imprese di costruzioni, In particolare la disposizione proposta dal governo opera sull'articolo 26-ter del decreto-legge 69/2013, convertito nella legge 98/2013 che ha previsto, in deroga al principio del divieto di anticipazione del prezzo, che per i contratti di appalto relativi a lavori, disciplinati dal codice dei contratti pubblici e affidati a seguito di gare bandite successivamente al 20.08.2013, l'amministrazione sia obbligata a corrispondere all'appaltatore un'anticipazione pari al 10% dell'importo contrattuale e a darne pubblicità negli atti di gara. Tale obbligo era temporalmente limitato alla fine del 2014, ma con l'emendamento del governo viene prorogato di due anni, fino al 31.12.2016.
Rimane, per il resto, confermata l'applicazione delle norme del regolamento del codice dei contratti pubblici che, da un lato, richiedono la costituzione di una apposita garanzia fideiussoria di importo pari all'anticipazione concessa che verrà gradualmente ridotta nel corso dei lavori e, dall'altro, impongono alla stazione appaltante di erogare l'anticipazione entro quindici giorni dalla data di effettivo inizio dei lavori (
articolo ItaliaOggi del 16.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi ai pensionati? Possibili. Sì a docenze, partecipazioni a commissioni e comitati. Ecco come il ministro Madia ha annacquato il divieto imposto dalla legge del suo governo.
È fatto divieto alle amministrazioni pubbliche, ivi compresa quella scolastica, nonché alle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pa, alle autorità indipendenti, inclusa la Consob, di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza o conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni pubbliche e degli enti e società da esse controllate. Incarichi e collaborazioni potranno essere consentiti, esclusivamente a titolo gratuito e per una durata non superiore ad un anno, non prorogabile né rinnovabile, presso ciascuna amministrazione.

È quanto dispone l'art. 5, comma 9, del decreto legge n. 95/2012, dopo le modifiche apportate dal decreto legge n. 90/2014. Così come ricorda la recente
circolare 04.12.2014 n. 6/2014 applicativa del ministro Marianna Madia.
Si tratta, a ben vedere, di una disposizione espressiva di un indirizzo di politica volto ad agevolare il ricambio e il ringiovanimento del personale nelle pubbliche amministrazioni, un obiettivo peraltro espressamente dichiarato dal governo in carica. Fin qui le disposizioni e gli obiettivi apprezzabili e condivisibili.
Ma, come accade di frequente, i decreti o le circolari ministeriali che dovrebbero consentirne una applicazione corretta valida in tutto il territorio nazionale, spesso introducono, ricorrendo all'istituto della interpretazione, aspetti e situazioni non espressamente indicati nella nuova disciplina.
Un esempio in tal senso è proprio la
circolare 04.12.2014 n. 6/2014 del ministro Madia, circolare avente appunto per oggetto «interpretazione e applicazione dell'art. 5, comma 9, del decreto legge n. 95/2012, come modificato dall'art. 6 del decreto legge n. 90/2014». Si tratta di una circolare corposa e di non semplice lettura con la quale il ministro fornisce una lunga serie di chiarimenti sia sulla natura degli incarichi vietati, di quelli consentiti e di quelli gratuiti.
Il primo chiarimento che si legge nella circolare è quello relativo all'efficacia nel tempo dei divieti indicati in premessa, la nuova disciplina si applica agli incarichi conferiti a decorrere dal 25.06.2014 mentre restano validi quelli conferiti fino al 24.06.2014. Si legge inoltre che la nuova disciplina si aggiunge, senza modificarle, alle altre disciplina vigenti che pongono simili divieti (in particolare l'art. 25 della legge 724/1994) e che regolano il conferimento di incarichi, quali quelle in materia di incompatibilità e inconferibilità, di limiti alle spese per consulenze, di limiti retributivi nelle pubbliche amministrazioni, di compensi e rimborsi spese per gli organi collegiali, di gratuità di specifici incarichi e di cumulo tra trattamento economico e pensione.
Si passa poi agli incarichi vietati: dopo aver sottolineato come in fase di applicazione della nuova disciplina deve essere esclusa l'interpretazione estensiva o analogica, il ministro Madia precisa che gli incarichi vietati sono solo quelli espressamente contemplati e cioè: incarichi di studio e di consulenza, incarichi dirigenziali o direttivi, cariche di governo nelle amministrazioni e negli enti e società controllati.
Sono invece sottratti ai divieti tutte le ipotesi di incarico o collaborazione che non rientrino tra quelli espressamente vietati dal citato art. 5, comma 9, del decreto legge 95/2012, come modificato dall'art. 6 del decreto legge 90/2014. Tra le ipotesi che non ricadono nei divieti vengono indicati gli incarichi che non comportino funzioni dirigenziali o direttive e abbiano oggetto diverso da quello di studio o consulenza; gli incarichi professionali quali quelli inerenti ad attività legale o sanitaria non aventi carattere di studio o consulenza. In quanto distinti da quelli di studio e di consulenza sono inoltre conferibili ai soggetti in quiescenza gli incarichi di ricerca, inclusa la responsabilità di un progetto di ricerca.
Anche le docenze rientrano tra gli incarichi non soggetti ai divieti, purché l'impegno didattico sia definito con precisione e il compenso sia commisurato all'attività didattica effettivamente svolta dal singolo destinatario dell'incarico; quelli nelle commissioni di concorso o di gara, così come la partecipazione a organi collegiali consultivi, quali gli organi collegiali delle istituzioni scolastiche. Non è esclusa la partecipazione a commissioni consultive e comitati scientifici o tecnici, ove essa non dia luogo di fatto a incarichi di studio o consulenza o equiparabili a incarichi direttivi o dirigenziali.
E comunque c'è l'eccezione degli incarichi gratuiti.
Il più volte citato art. 5, comma 9, contempla un'eccezione ai divieti che la nuova disciplina impone disponendo che incarichi e collaborazioni vietati possono essere consentiti a titolo gratuito, con rimborso delle spese documentate, per una durata non superiore a un anno, non prorogabile né rinnovabile. La possibilità di attribuire incarichi gratuiti serve, ad avviso del ministro Madia, a consentire alle amministrazioni di avvalersi temporaneamente, senza rinunciare agli obiettivi di ricambio e ringiovanimento ai vertici, di personale in quiescenza –ed in particolare dei propri dipendenti che vi siano stati appena collocati– per assicurare il trasferimento di competenze e delle esperienze e la continuità nella direzione degli uffici.
Da una approfondita lettura della circolare –dato atto del tentativo ministeriale di fornire il maggior numero di indicazioni possibili al fine di consentire una corretta applicazione della nuova disciplina- l'impressione che se ne ricava è che le amministrazioni pubbliche interessate avranno diverse opportunità per non rispettare tutti i divieti inizialmente previsti (
articolo ItaliaOggi del 16.12.2014).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Gli uffici non mettono online i dati su appalti e consulenze. Trasparenza. Molte lacune nell’applicazione del decreto 33 del 2013.
La trasparenza è l’altra faccia della medaglia per combattere il malaffare dentro la pubblica amministrazione: da una parte, le regole per evitare le tangenti; dall’altra, informazioni a portata della collettività, per mettere i cittadini in grado di rendersi conto di come funziona la burocrazia e, dunque, come vengono spesi i soldi.
Il binomio, però, finora ha funzionato poco e male (si veda l’articolo sopra). Anche i criteri per rendere gli uffici pubblici più trasparenti discendono dalla medesima legge (la 190 del 2012), che ha imposto il giro di vite anti-mazzette.
La trasparenza ha poi trovato norme di dettaglio nel decreto legislativo 33 del 2013, che ha imposto a tutte le pubbliche amministrazioni (il ventaglio è stato di recente allargato e perfezionato dalla riforma della Pa, la legge 90/2014) di avere sul proprio sito istituzionale una finestra dedicata alla comunicazione di tutta una serie di informazioni: dai redditi dei politici ai bilanci degli enti, dalle consulenze ai concorsi, dagli appalti alle partecipazioni societarie.
A un anno e mezzo di distanza, quegli obblighi sono stati rispettati solo in parte. Per esempio, i piani triennali per la trasparenza -che fanno il paio con quelli anti-corruzione- in molti uffici ancora latitano. Per rimanere alle amministrazioni centrali: su 13 ministeri monitorati, cinque ancora se ne devono dotare, tra cui quelli dell’Economia e delle Infrastrutture. E ancora: l’Inail lo ha adottato, mentre altrettanto non si può dire dell’Inps. Non va meglio nelle università: su quasi cento atenei, 70 ancora non sanno cosa sia il piano della trasparenza.
Eppure, secondo le intenzioni del Dlgs 33, quel documento, da aggiornare ogni anno e da redigere insieme alle associazioni dei consumatori, dovrebbe fare il punto sulle iniziative prese dalla singola amministrazione per assicurare un adeguato livello di trasparenza, nonché «la legalità e lo sviluppo della cultura dell’integrità».
Le assenze dei piani, però, non sono che una delle defaillance degli obblighi sulla trasparenza. Molte amministrazioni ancora continuano a non pubblicare sui propri siti i dati o, nel migliore dei casi, quando lo fanno spesso la lettura delle informazioni è difficile se non impossibile. Per esempio, perché inseriscono file di difficile gestione da parte del cittadino. Eppure il decreto 33 prevede che i dati siano non solo immessi in rete in un formato aperto, ma soprattutto siano aggiornati, completi e di semplice consultazione.
L’Autorità anti-corruzione lo ha potuto constatare: nel corso di controlli effettuati dall’inizio dell’anno a ottobre ha messo sotto la lente 231 enti rispetto ai quali era arrivata una segnalazione. Ebbene, 163 risultavano inadempienti e gli è stato chiesto di correre ai ripari. Dopodiché sono state effettuate oltre cento ispezioni per verificare se gli enti si fossero adeguati: 60 lo avevano fatto, mentre 48 erano ancora inadempienti (32 in parte e 16 in uno stato di totale inerzia).
Problemi di cui si dovrà tener conto nel caso il Governo possa rimettere mano al decreto 33. La riapertura della delega è, infatti, prevista nel disegno di legge di riforma della pubblica amministrazione, presentato a fine luglio e ora all’esame del Senato. La necessità di riscrivere il decreto è nata proprio dall’esigenza -si legge nella relazione al Ddl- di adattare meglio le regole sulla trasparenza «alle esigenze emerse nel corso della loro applicazione».
Probabilmente sarà anche l’occasione per contemperare meglio trasparenza e privacy: il Garante, infatti, non ha mai fatto mistero che la pubblicazione di alcune informazioni è eccessiva rispetto agli obiettivi perseguiti.
    (articolo Il Sole 24 Ore del 15.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAPermesso convenzionato, corsia veloce per i lavori. Ma il passaggio in consiglio comunale può frenare l’iter. Titoli abilitativi. Dallo Sblocca Italia una chance contro i tempi lunghi dei piani attuativi.
Il permesso di costruire convenzionato entra nel Testo unico dell’edilizia (Dpr 380/2001). La possibilità di stabilire in un contratto tra Comune e operatore le caratteristiche dell’intervento edilizio e, soprattutto, la quantità, la qualità e la gestione delle opere di urbanizzazione collegate alle volumetrie private da edificare o riqualificare erano da tempo patrimonio delle leggi regionali e della prassi amministrativa comunale.
I vantaggi della convenzione
Per questa via è possibile evitare la formazione degli strumenti urbanistici attuativi (piano di lottizzazione, particolareggiato, di recupero e così via), cui è normalmente demandata la pianificazione di dettaglio delle aree sprovviste o non sufficientemente dotate di infrastrutture (strade, reti tecnologiche, parcheggi, scuole, ospedali, servizi in genere, parchi e aree a verde).
I titoli edilizi convenzionati (sì, perché l’esperienza amministrativa conosce anche la Dia convenzionata o corredata da atto unilaterale d’obbligo) si sono sviluppati in particolare rispetto agli interventi edilizi circoscritti a singoli immobili o alla ricucitura di tratti urbani non sufficientemente urbanizzati e hanno manifestato la loro efficacia con riferimento alla procedura, assai semplificata, per il loro rilascio.
Infatti, mentre gli strumenti attuativi sono formati mediante una prima delibera di adozione seguita dalla formale approvazione del piano che controdeduce le osservazioni presentate dopo il periodo di pubblicazione degli atti (procedura che dura diversi mesi ed è soggetta a valutazioni discrezionali a volte assai invasive), il rilascio del permesso di costruire convenzionato è assolutamente più rapido perché durante l’usuale istruttoria del titolo edilizio viene anche formata la convenzione.
In questo modo la parte urbanistica (che si materializza con la sottoscrizione della convenzione) ed edilizia coincidono, mentre secondo la tradizionale procedura dei piani attuativi prima deve essere approvato lo strumento urbanistico di dettaglio, quindi deve essere firmata la convenzione e solo in seguito può essere presentata domanda per il rilascio del permesso di costruire.
Lo Sblocca Italia
Con le modifiche del decreto Sblocca Italia (Dl 133/2014) ora l’articolo 28-bis del Testo unico (Dpr 380/2001) prevede che qualora le esigenze di urbanizzazione possano essere soddisfatte con una modalità semplificata, è possibile il rilascio di un permesso di costruire convenzionato.
La nuova norma procede prevedendo che «la convenzione, approvata con delibera del consiglio comunale, salva diversa previsione regionale, specifica gli obblighi, funzionali al soddisfacimento di un interesse pubblico, che il soggetto attuatore si assume ai fini di poter conseguire il rilascio del titolo edilizio, il quale resta la fonte di regolamento degli interessi».
Sono soggetti alla stipula di convenzione:
- la cessione di aree anche al fine dell'utilizzo di diritti edificatori;
- la realizzazione di opere di urbanizzazione;
- le caratteristiche morfologiche degli interventi;
- gli interventi di edilizia residenziale sociale.
La nuova disposizione conclude precisando che «la convenzione può prevedere modalità di attuazione per stralci funzionali» e specificando che «il termine di validità del permesso di costruire convenzionato può essere modulato in relazione agli stralci funzionali previsti dalla convenzione».
L’ok del consiglio comunale
Come si vede, lo Sblocca Italia non si è limitato a replicare l’esperienza amministrativa delle Regioni, ma ha inserito, in particolare, una previsione che merita di essere richiamata per verificare se potrà di fatto appesantire l’agilità procedurale del titolo convenzionato: si tratta della disposizione per cui la convenzione è approvata con delibera del consiglio comunale, che collide con la prassi amministrativa per cui tutto il percorso del titolo convenzionato non approda in consiglio comunale. Comunque l’articolo 28-bis fa salve le previsioni della legislazione regionale vigente, che come accade ad esempio in Lombardia, può non sancire la competenza consiliare per l’approvazione delle convenzioni da allegare ai titoli edilizi.
In ogni caso, è comunque da ritenere che il consiglio comunale, nel rispetto della disciplina sulle competenze degli organi locali stabilita dal Dlgs 267/2000, possa limitarsi ad approvare una volta per tutte lo schema di convenzione tipo, che sarà poi compito dei funzionari applicare nei diversi casi concreti
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.12.2014).

EDILIZIA PRIVATALa nuova norma sui cambi d’uso non prevale sui Prg. Urbanistica. Definizione nazionale unica.
Il decreto sblocca Italia cerca di unificare la disciplina regionale sul mutamento di destinazione d’uso. L’attenzione del legislatore passa dal titolo necessario per il cambio d’uso alla concreta ammissibilità del passaggio tra le diverse destinazioni funzionali previste dagli strumenti urbanistici comunali.
Mentre l’articolo 10 del Dpr 380/2001 si limita a rimettere alle Regioni il compito di stabilire con legge quali mutamenti -connessi o non connessi a trasformazioni fisiche- dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività, il nuovo articolo 23-ter del Testo unico dell’edilizia (introdotto, appunto dal Dl 133/2014) si concentra sulla stessa definizione del cambio d’uso e sulla sua ammissibilità.
Secondo lo Sblocca Italia costituisce così mutamento rilevante della destinazione d’uso «ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate:
a) residenziale;
a-bis) turistico-ricettiva;
b) produttiva e direzionale;
c) commerciale;
d) rurale
».
Oltre allo sforzo di dare una definizione unica, la nuova disciplina afferma che nelle Regioni che non procedano ad adeguare la propria legislazione ai principi sul cambio d’uso entro il 12.01.2015 il mutamento di destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale diventa sempre consentito.
Sembra una disposizione di rilevante portata pratica, in particolare con riferimento agli immobili a destinazione produttiva e direzionale che potrebbero a breve essere sempre trasformabili in uffici e viceversa. La novità deve però essere drasticamente ridimensionata: la disposizione fa comunque salve le previsioni della disciplina urbanistica ed edilizia locale.
Insomma, i piani regolatori restano padroni assoluti della materia, al punto che essendo sempre loro l’ultima parola sulla possibilità di modificare le destinazioni d’uso del patrimonio edilizio esistente l’efficacia pratica dell’articolo 23-ter si disperde quasi completamente. E infatti: nel caso in cui il cambio d’uso sia già consentito dal Prg comunale la norma dello Sblocca Italia non ha alcuna utilità, mentre se il mutamento funzionale è precluso dallo strumento urbanistico locale lo Sblocca Italia non modifica affatto la situazione anche nel caso in cui la Regione non provveda a recepirne i principi.
L’articolo 23-ter va dunque valutato soprattutto per la definizione che fornisce del cambio d’uso e che varrà nelle Regioni (il Lazio, ad esempio) che non hanno una propria disciplina del cambio d’uso, se non recepiscono i principi dello Sblocca Italia entro il 12 gennaio prossimo.
Sì perché per quelle che si fossero comunque già dotate di una propria normativa in materia (come la Lombardia) parrebbe valere la salvezza disposta dall’articolo 23-ter del Dl 133 per cui: «Resta salva (la) diversa previsione da parte delle leggi regionali»
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGOSalve le collaborazioni ai pensionati. Incarichi. Le conseguenze operative della circolare 6/2014 della Funzione pubblica.
La circolare 04.12.2014 n. 6/2014 della Funzione pubblica sugli incarichi ai pensionati nella Pa recepisce un principio in parte già affermato dalla Corte dei Conti (deliberazione 23/2014/Prev della sezione centrale del controllo sugli atti del Governo) e fa salve le collaborazioni coordinate e continuative nel novero delle attività affidabili a soggetti in quiescenza.
La distinzione tra gli incarichi di collaborazione e quelli su consulenze studi e ricerche è stata affrontata sin dal 2005 e le Sezioni riunite in sede di controllo della Corte dei conti, con delibera n. 6/Contr/05, con un distinguo più volte ripreso dai commentatori: in particolare sono stati utilizzati i parametri previsti dal Dpr 338/1994 per distinguere gli incarichi di studio da quelli di ricerca (nel quale il prodotto consiste in uno scritto con gli esiti della ricerca) e infine dalle consulenze, quali richieste di pareri a esperti.
Le collaborazioni sono invece quei contratti, occasionali o meno, che possono avere anche un contenuto diverso: occorre domandarsi se tutti gli incarichi professionali esterni rientrino in tali ambiti. In realtà, le tre tipologie accennate non sembrano esaurire il novero degli incarichi esterni come già rilevato dalla Corte dei conti della Lombardia, con delibera 111/2011, sulla figura dell'«addetto stampa-portavoce».
Solitamente gli incarichi non inquadrabili tra studi, ricerche o consulenze vengono collocati nell’ambito di una quarta figura, denominata «collaborazioni autonome» per le quali, al netto della rigorosa dimostrazione dei presupposti previsti dall’articolo 7, comma 6, del Dlgs 165/2001, il divieto ai soggetti in quiescenza non pare trovare applicazione.
Sulla questione del contenuto della prestazione, la stessa circolare richiama l’interpretazione restrittiva della Corte dei conti (delibera Sccleg/23/2014/Prev) per la quale «l’articolo 6 del Dl 90/2014 è da intendere nel senso che il divieto di conferire incarichi esterni a soggetti in quiescenza è circoscritto agli incarichi di studio e agli incarichi di consulenza, oltre che agli incarichi dirigenziali». Questo divieto, in quanto norma limitatrice, è da valutare alla stregua del criterio di stretta interpretazione enunciato dall’articolo 14 delle preleggi, che non consente interpretazioni estensive, fondate sull’analogia. Non potendo applicarsi il divieto oltre i casi espressamente indicati nella norma limitatrice, il Collegio ha ritenuto che la fattispecie in esame (lavori di falegnameria) non rientri nel novero di queste ipotesi e ha proceduto alla registrazione del contratto.
Pare a chi scrive che, al di là del caso di specie, ben possano verificarsi casi di prestazioni altamente qualificate e temporanee, il cui contenuto sia di natura diversa dai casi delineati nella recente legislazione (studio, ricerca, consulenza ovvero incarichi dirigenziali e direttivi) e per le quali, quindi, il divieto può intendersi non operante
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.12.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti, una tassa a ogni attività. Non conta che il provvedimento autorizzatorio sia unico. Il parere dell'Agenzia delle entrate sul tributo per l'iscrizione all'Albo gestori ambientali.
Tassa governativa dovuta dalle imprese per ogni singola attività di gestione rifiuti autorizzata dall'Albo gestori ambientali, anche se formalizzata attraverso un unico provvedimento amministrativo o determinata dal passaggio da una classe dimensionale ad altra superiore della medesima categoria d'iscrizione.
È quanto chiarisce l'Agenzia delle entrate con proprio parere 12/2014 n. 954 in relazione all'applicazione del tributo imposto dpr 641/1972.
I chiarimenti delle Entrate. L'Agenzia sottolinea come la tassa sulle concessioni governative prevista dal dpr 641/1972 sia dovuta per i provvedimenti amministrativi che legittimano l'esercizio di attività industriali o commerciali e di professioni, arti e mestieri. Ed è sulla base di tale motivazione che l'Amministrazione ritiene giustificata la sua applicazione a ogni singola attività di raccolta e trasporto rifiuti, bonifica siti contaminati, bonifica di beni contenenti amianto, commercio e intermediazione dei rifiuti senza detenzione per lo svolgimento della quale il soggetto interessato ha effettuato la (necessaria) richiesta di iscrizione all'Albo gestori ambientali.
E la questione è per gli operatori del settore di non poco conto (dal punto di vista economico) se si considera l'articolata declinazione delle attività prevista dalla disciplina dell'Albo in parola (come ridisegnata dal dm Minambiente 03.06.2014, n. 120, in vigore dallo scorso 07.09.2014). In base alla nuova formulazione, infatti, le citate attività di gestione rifiuti sono spalmate in 10 «categorie» d'iscrizione (tra alcune delle quali esistono rapporti di «genere e specie», come più avanti specificato), 8 delle quali sono suddivise in ulteriori (sub) classi in base alle dimensioni dell'impresa svolta (si veda la tabella).
Ed è su tale architettura che incide la parola dell'Agenzia delle entrate, la quale in primo luogo chiarisce come anche quando con un unico provvedimento si autorizza l'esercizio di più attività debba essere corrisposta la tassa con riferimento a ciascuna di esse. Ancora, la tassa sarà dovuta da parte dell'impresa che, già iscritta all'Albo, chieda di essere aggiunta a una nuova categoria di attività oltre quella in cui è presente.
E nell'ambito di una medesima categoria d'iscrizione, precisa l'Agenzia, il tributo sarà altresì dovuto per il passaggio da una classe dimensionale a una superiore. A restare fuori dalla tassazione saranno, secondo la logica sopra citata e come espressamente chiarito nel Parere, solo gli atti di variazione d'iscrizione che non modificano la sfera delle attività autorizzate (come modifiche anagrafiche, inserimento/cancellazione veicoli per trasporto rifiuti, rimodulazione delle fideiussioni prestate).
Il nuovo Albo gestori. Come accennato, dal settembre 2014 la nuova configurazione dell'Albo gestori ambientali è delineata dal dm 120/2014, provvedimento adottato in attuazione dell'articolo 212 del dlgs 152/2006 (cd. «Codice ambientale») e in sostituzione del pregresso dm 406/1998.
Tra le novità di rilievo, oltre a semplificazione delle procedure amministrative (tramite l'informatizzazione delle comunicazioni) e maggior qualificazione delle figure professionali (con la verifica continua delle competenze dei «responsabili tecnici»), punto centrale della riforma è proprio la rivisitazione delle citate «categorie di iscrizione».
A fianco delle tradizionali attività (ora razionalizzate) per l'esercizio delle quali è storicamente necessaria l'adesione all'Albo, con il dm 120/2014 hanno fatto il loro esordio nuove categorie: la «3-bis», cui devono iscriversi distributori, installatori di apparecchiature elettriche ed elettroniche (cd. «Aee»), trasportatori dei relativi rifiuti (cd. «Raee») in nome dei distributori, installatori e centri di assistenza tecnica che gestiscono i tecno-rifiuti ex dm 65/2010 (ossia in base alla disciplina semplificata per il ritiro «one on one» introdotta dal dlgs 151/2005 e confermata dal dlgs 49/2014); la «6», destinata alle imprese che effettuano esclusivamente attività di trasporto transfrontaliero di rifiuti; la «7», riservata agli operatori logistici del trasporto intermodale di rifiuti (ossia ai soggetti presenti presso stazioni ferroviarie, interporti e altri scali merci ai quali sono affidati i residui in attesa della presa in carico da parte dei successivi trasportatori).
Ma tra alcune delle dieci categorie d'iscrizione previste dal nuovo Albo esistono, come accennato, degli specifici rapporti che rilevano dal punto di vista autorizzatorio. In primo luogo, lo ricordiamo, l'articolo 212, comma 7 del dlgs 152/2006 stabilisce a monte come «Gli enti e le imprese iscritte all'Albo per le attività di raccolta e trasporto dei rifiuti pericolosi sono esonerate dall'obbligo di iscrizione per le attività di raccolta e trasporto dei rifiuti non pericolosi a condizione che tale ultima attività non comporti variazione della classe per la quale le imprese sono iscritte».
In secondo luogo, l'articolo 8 del nuovo dm 120/2014 prevede che, nel rispetto delle norme sul trasporto merci, le iscrizioni nelle categorie «4» (raccolta e trasporto di rifiuti speciali non pericolosi) e «5» (analoghe attività per i «pericolosi») consentono (secondo regole applicative stabilite dal Comitato nazionale) l'esercizio delle attività ex categorie «2-bis» (raccolta e trasporto di propri rifiuti da parte di produttori iniziali di non pericolosi o di modeste quantità di pericolosi) e «3-bis» (gestione semplificata dei Raee) se ciò non comporta variazioni di categoria, classe e tipologia di rifiuti per le quali l'impresa è iscritta.
Ancora, lo stesso articolo 8 del dm 120/2014 stabilisce che, nel rispetto delle norme sul trasporto internazionale di merci, le iscrizioni nelle categorie «1» (raccolta e trasporto di rifiuti urbani), «4» e «5» consentono l'esercizio delle attività di cui alla categoria 6 (trasporto transfrontaliero), sempre a parità di categoria, classe e tipologia dei rifiuti.
E proprio sui citati (e automatici, dal punto di vista autorizzatorio) rapporti tra categorie la Nota dell'Agenzia delle entrate non appare sindacare, poiché (dal tenore letterale della stessa) l'interpretazione (estensiva) dei presupposti che fanno scattare la tassazione sembra essere circoscritta ai casi in cui l'iscrizione/autorizzazione avvenga «a seguito di richiesta dell'interessato», e non dunque quando l'esercizio di una (ulteriore) attività sia legittimato da un meccanismo involontario (
articolo ItaliaOggi Sette del 15.12.2014).

ENTI LOCALI - VARIPer le multe conta l'infrazione. No alla decorrenza dal momento dell'accertamento. CODICE DELLA STRADA/ Il ministro Lupi boccia la prassi in uso anche a Milano.
«L'interpretazione estensiva» per cui il termine di decorrenza per la notifica del verbale di accertamento di una multa parte non dal momento dell'infrazione ma dal momento dell'accertamento di un operatore «non può essere considerata legittima e i comuni si devono adeguare.
Come i comuni chiedono il rispetto della legge ai cittadini, noi dobbiamo chiedere ai comuni il rispetto della legge».

Lo ha detto il ministro delle Infrastrutture e trasporti Maurizio Lupi rispondendo ieri a un'
INTERROGAZIONE A RISPOSTA IMMEDIATA IN ASSEMBLEA 10.12.2014 N. 3/01215 a firma Librandi durante il question-time alla Camera.
Lupi si riferisce all'articolo 201 del codice della strada sulla decorrenza termini di notifica del verbale di accertamento. Poi il ministro ha spiegato che le multe «non sono fatte per sanare i bilanci» e che il Viminale, in un parere espresso sul comune di Milano, ha chiarito che «se interverranno fattispecie analoghe si adotteranno circolari esplicative».
L'interrogazione nasce dalla prassi adottata da alcune amministrazioni comunali, tra cui il comune di Milano, di far decorrere il termine di 90 giorni per la contestazione delle violazioni del codice della strada non dalla data di commissione delle stesse bensì da quella in cui gli organi accertatori visionano i fotogrammi fatti dagli apparecchi. In virtù di tale prassi numerose multe sono state recapitate nelle settimane scorse per infrazioni commesse nel territorio del capoluogo lombardo. Ma per Lupi «tale interpretazione estensiva del dies a quo non può essere considerata legittima, e i comuni si devono adattare».
Gli introiti delle multe sono introiti destinati a prevenire e a educare comportamenti sbagliati da parte dei cittadini non a sanare i bilanci, afferma il ministro, ricordando che l'orientamento «è stato espresso in maniera molto chiara anche dal ministro dell'interno alla prefettura di Milano in riscontro a una richiesta di chiarimenti relativa alla legittimità dell'operato del comune di Milano. Lo stesso ministero sottolinea che laddove dovessero pervenire ulteriori segnalazioni di fattispecie analoghe, assumerà le opportune valutazioni in ordine all'eventuale emanazione di una circolare esplicativa finalizzata a favorire l'uniformità del giudizio delle prefettura nell'attività di decisione dei ricorsi presentati dai cittadini».
«Il codice della strada va fatto rispettare, le dichiarazioni del ministro Lupi ci meravigliano», commenta l'assessore alla Sicurezza e coesione sociale e polizia locale di Milano Marco Granelli, «il comune non fa cassa con le multe ma la polizia locale ha il dovere di sanzionare chi non rispetta la legge e mette a repentaglio l'incolumità propria e quella degli altri utenti della strada. Anche così abbiamo dimezzato gli incidenti a Milano. Nessuna interpretazione estensiva dell'articolo 201 del codice della strada bensì un atto di giustizia e legalità: l'accertamento inizia quando l'operatore verifica l'infrazione» (
articolo ItaliaOggi dell'11.12.2014).

APPALTI - ENTI LOCALIDurc per i fondi Ue agli enti pubblici. Adempimenti. L’obbligo per le amministrazioni beneficiarie di finanziamenti subordinati ad attività progettuali.
Il documento unico di regolarità contributiva (Durc) deve essere richiesto anche per le amministrazioni pubbliche, qualora le risorse a esse erogate da altre amministrazioni non configurino semplici trasferimenti, ma finanzino specifiche progettualità.
L’Inps, con il messaggio 09.12.2014 n. 9502 ha evidenziato la particolare regola assumendo a riferimento la nota del ministero del Lavoro del 27 ottobre di quest’anno (protocollo 37/0018031). Il ministero ha risposto a una Regione sulla verifica della regolarità contributiva in relazione all’attribuzione di finanziamenti comunitari alle province per l’attuazione di un masterplan sui servizi per il lavoro.
Il ministero ha precisato che non sussiste necessità di acquisire il Durc nei casi in cui il trasferimento di risorse fra enti pubblici avvenga in base a precise disposizioni normative, a meno che non sia diversamente stabilito dalla stessa norma che ha istituito il beneficio o dal procedimento amministrativo che ne disciplina l’erogazione.
Nella nota viene invece evidenziato come il documento unico di regolarità contributiva debba essere richiesto nei confronti di tutti i beneficiari, anche quando si tratti di soggetti pubblici, nel caso in cui i finanziamenti non possano qualificarsi come semplici trasferimenti di risorse, in quanto subordinati alla presentazione di una specifica progettazione esecutiva o comunque connessi a un’attività progettuale.
L’elemento di discrimine viene pertanto a essere individuato nell’elaborazione specifica prodotta dall’amministrazione pubblica, oggetto di una selezione e, quindi, di un confronto con le proposte di altri soggetti pubblici e privati.
L’interpretazione riferita alla specifica verifica della regolarità contributiva ricalca la posizione più volte espressa dalla giurisprudenza amministrativa in ordine al doppio ruolo che le amministrazioni pubbliche possono avere nella relazione con altre amministrazioni nella resa di servizi.
Come recentemente evidenziato dal Consiglio di Stato, quinta sezione, con la sentenza 5767 del 21.11.2014, le amministrazioni hanno infatti la possibilità di concorrere a procedure selettive, poiché il concetto di operatore economico-prestatore di servizi delineato dall’ordinamento comunitario deve essere interpretato in senso ampio e viene meno solo a fronte di rapporti regolati da specifiche disposizioni (come sancito dall’articolo 19, comma 2, del codice dei contratti).
Nello stesso parere relativo al Durc, il ministero del Lavoro ha anche evidenziato come la disciplina dell’intervento sostitutivo si applichi a prescindere dalla natura giuridica del soggetto inadempiente e, quindi, anche nei confronti dei soggetti pubblici, secondo il procedimento regolato dall’articolo 31, comma 3 della legge 98/2013
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.12.2014).

ENTI LOCALI - VARI: Multe dagli agenti anche se fuori servizio.
Gli appartenenti al corpo della polizia municipale possono accertare infrazioni stradali anche quando sono fuori servizio, a piedi o con un mezzo privato. Purché l'agente anche se in borghese e a bordo di un veicolo stia circolando nel comune di appartenenza.

Lo ha chiarito il TRIBUNALE di Parma con l'inedita sentenza n. 892/2014.
Un automobilista maldestro ha superato in maniera pericolosa una serie di veicoli e un agente di polizia municipale, libero dal servizio, si è annotato targa e ora dell'infrazione e ha successivamente inviato per posta la multa al domicilio del trasgressore.
Contro questa misura punitiva l'interessato ha proposto ricorso con successo al giudice di pace ma il tribunale ha rigettato le censure e confermato la multa accertata dal vigile a bordo di un veicolo che ha rischiato di venire in collisione con il trasgressore. Le funzioni di polizia stradale, specifica la sentenza, sono permanenti.
Come confermato anche dalla legge 65/1986, conclude la sentenza, gli operatori di polizia locale hanno come limite operativo per l'effettuazione dei controlli di polizia stradale solo il territorio del comune o dell'ente da cui dipendono (
articolo ItaliaOggi del 10.12.2014).

GIURISPRUDENZA

CONDOMINIOLa delibera non è regolare se manca la sottoscrizione di presidente e segretario. In assemblea. Problemi di forma e di sostanza.
La delibera assembleare che non reca la sottoscrizione né del segretario né del presidente è da ritenersi nulla perché carente dei requisiti essenziali previsti dalla legge.
Con questo dispositivo, il TRIBUNALE di Benevento (sentenza n. 1595/2014) ha annullato una delibera con la quale erano stati approvati alcuni rendiconti dai cui risultava un credito dell’amministratore che, però, il condominio disconosceva per mancata esibizione dei documenti giustificativi.
L’amministratore si attivava per il recupero del proprio credito; il condominio convenuto eccepiva però la nullità della delibera per la mancata sottoscrizione del verbale da parte del segretario e del presidente nonché l’esistenza di una successiva delibera con la quale i condomini avevano revocato quanto deciso nella precedente.
Il giudice di merito ha stabilito che, pur sussistendo la nullità, se non addirittura l’inesistenza, del primo deliberato, in quanto non sottoscritto né dal presidente né dal segretario, tuttavia a ciò si poteva sopperire con una successiva deliberazione, che però, nella fattispecie, conteneva la volontà dell’assemblea di revocare quanto in precedenza approvato.
Lo stesso giudice, al di là delle diverse questioni analizzate in sentenza, ha voluto annoverare le delibere non sottoscritte dal presidente e dal segretario tra le «delibere prive degli elementi essenziali» che, in base alle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 4806/2005), sono da considerarsi nulle.
Anche la giurisprudenza di legittimità (Cassazione, sentenza 23687/2009), pronunciandosi in merito al valore giuridico delle dichiarazioni contenute nel verbale d’assemblea condominiale, ha fatto rientrare il verbale assembleare, pur privo della sottoscrizione del presidente e del segretario, nell’ambito delle «dichiarazioni di scienza» con efficacia di una confessione stragiudiziale solo nei confronti dei condòmini consenzienti.
Parzialmente diverse le conclusioni cui era giunta molti anni fa la stessa Cassazione nel caso di mancata sottoscrizione del verbale da parte della persona che abbia, in un primo tempo presieduto l’assemblea condominiale e poi, per un qualsiasi evento, si sia allontanata, sicché il verbale sia stato sottoscritto soltanto dal presidente subentrato al primo. In tal caso si concretizza un’irregolarità formale che non determina la nullità della deliberazione, e che pertanto deve essere dedotta nel termine perentorio di cui all’articolo 1137, Codice civile (Cassazione, sentenze 212/1972 e 2812/1973).
A tale conclusione giunge anche il Tribunale di Genova che (sentenza dell’08.02.2012) ha respinto il ricorso di un condòmino sul punto della delibera mancante della firma del presidente ma contenente quella del segretario che ha redatto l’atto. Secondo il giudice, infatti mentre la sottoscrizione del segretario è essenziale, secondo un principio generale valevole per gli organi collegiali di enti pubblici e privati, la sottoscrizione del presidente, poiché non implica l’assunzione della paternità dell’atto, ma attiene al controllo della fedeltà e della completezza della verbalizzazione, non incide sulla esistenza giuridica del verbale
 (articolo Il Sole 24 Ore del 16.12.2014).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza, sul presupposto per cui l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l’ordinanza di demolizione ha carattere ripristinatorio non richiedente l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione, ha chiarito che:
- l’Amministrazione non ha alcun obbligo di compiere accertamenti giuridici circa l’esistenza di particolari rapporti interprivati tra autore dell’abuso e proprietari, ma ha solo l’onere di individuare il proprietario catastale;
- i provvedimenti sanzionatori sono legittimamente adottati nei confronti dei proprietari catastali degli immobili abusivamente realizzati, dovendo del tutto prescindersi sia dalle modalità con cui l'abuso è stato realizzato sia dagli eventuali rapporti intercorrenti tra proprietari e costruttori;
- l’ordine di demolizione di opere abusive è legittimamente notificato al proprietario catastale dell’area il quale, fino a prova contraria, è quanto meno corresponsabile dell’abuso.
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La giurisprudenza dominante, da cui non vi è motivo qui di discostarsi, ha chiarito che “il provvedimento di repressione degli abusi edilizi costituisce un atto dovuto in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, circostanza, questa, che comporta che il provvedimento sanzionatorio non richiede particolare motivazione, essendo sufficiente la rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata, né previa espressa comparazione tra l’interesse pubblico alla rimozione dell’opera, che è in re ipsa, e quello privato alla relativa conservazione, e ciò anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso” non potendo ammettersi “l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare”.

3.2. Quanto alla notificazione del provvedimento impugnato ai proprietari attuali, la giurisprudenza, sul presupposto per cui l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l’ordinanza di demolizione ha carattere ripristinatorio non richiedente l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione, ha chiarito che:
- l’Amministrazione non ha alcun obbligo di compiere accertamenti giuridici circa l’esistenza di particolari rapporti interprivati tra autore dell’abuso e proprietari, ma ha solo l’onere di individuare il proprietario catastale;
- i provvedimenti sanzionatori sono legittimamente adottati nei confronti dei proprietari catastali degli immobili abusivamente realizzati, dovendo del tutto prescindersi sia dalle modalità con cui l'abuso è stato realizzato sia dagli eventuali rapporti intercorrenti tra proprietari e costruttori;
- l’ordine di demolizione di opere abusive è legittimamente notificato al proprietario catastale dell’area il quale, fino a prova contraria, è quanto meno corresponsabile dell’abuso;
” (Cons. Stato, Sez. IV, 23.02.2013, n. 1179, e giurisprudenza ivi citata; cfr. anche Sez. VI, 04.10.2013, n. 4913).
Nella specie i ricorrenti non hanno in ogni caso fornito prova dell’asserita preesistenza della recinzione secondo l’allineamento riscontrato nel provvedimento impugnato; non è infatti sufficiente allo scopo la planimetria allegata all’atto di compravendita del terreno del 19.12.1988 (doc. n. 1 del fascicolo di parte di secondo grado), in quanto riproduttiva della delimitazione dell’area allo stato, da cui non si evince l’allineamento della recinzione quale in seguito riscontrato, nulla altresì risultando al riguardo dal testo di tale atto (doc. n. 2 del fascicolo di parte in primo grado), né vale la planimetria sullo stato dei luoghi anche allegata (doc. n. 2 del fascicolo di secondo grado) poiché in questa, al contrario, lo sconfinamento è raffigurato ma si tratta di documento datato novembre 2013; conseguendo altresì da ciò la mancata prova della responsabilità del contestato abuso in capo al precedente proprietario sig. G., dante causa dei ricorrenti.
Né la costruzione di seminterrati può valere a legittimare abusi sulla strada pubblica sovrastante.
3.3. Riguardo alla specificazione dell’interesse pubblico all’emanazione dei provvedimenti repressivi degli abusi edilizi e all’affidamento eventualmente asserito da parte dei destinatari per il tempo trascorso dall’abuso, la giurisprudenza dominante, da cui non vi è motivo qui di discostarsi, ha chiarito che “il provvedimento di repressione degli abusi edilizi costituisce un atto dovuto in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, circostanza, questa, che comporta che il provvedimento sanzionatorio non richiede particolare motivazione, essendo sufficiente la rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata, né previa espressa comparazione tra l’interesse pubblico alla rimozione dell’opera, che è in re ipsa, e quello privato alla relativa conservazione, e ciò anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso” (Cons. Stato, Sez. VI, 28.01.2013, n. 498) non potendo ammettersi “l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare” (Cons. Stato, sez. VI, 04.03.2013, n. 1268).
Non contrasta con ciò la pronuncia citata dagli appellanti (Cons. Stato, Sez. V, 24.10.2013, n. 5158) poiché relativa ad un caso ivi espressamente indicato come eccezionale, in ragione del lasso di tempo accertato tra la commissione dell’abuso e l’intervento sanzionatorio (circa 50 anni) nonché a fronte di una costruzione munita di un titolo edificatorio, venendo nella specie in questione delle semplici difformità dal medesimo (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.12.2014 n. 6148 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO - VARI: Infortunio in piscina, paga il gestore.
Tribunale di Bari. La responsabilità per l’incidente non può ricadere sull’unico assistente che deve sorvegliare due specchi d’acqua.
Il gestore di una piscina è tenuto a garantire l’incolumità fisica degli utenti con un’idonea organizzazione, un’adeguata vigilanza e il rispetto delle norme sulla sicurezza. L’assistente bagnanti risponde nei limiti della concreta possibilità di intervento.
Con questa motivazione, (con la sentenza n. 1398/2014, anticipata sul Sole 24 Ore del 27 novembre) il giudice monocratico presso il TRIBUNALE di Bari (I Sez. penale) ha riconosciuto la responsabilità dell’amministratore di un centro polisportivo per le lesioni subite da una bambina e scagionato l’assistente bagnanti, perché non in condizioni di impedire l’evento.
Ha pesato il fatto che l’assistente doveva presidiare due piscine per 615 metri quadri totali. Una è riservata ai bambini, profonda 80 centimetri, estesa 350 mq e separata dall’altra piscina con una tettoia. Circostanze che gli hanno impedito una visuale ottimale su entrambi gli specchi d’acqua e, dunque, un pronto intervento per evitare che la piccola riportasse le lesioni.
Di qui l’esclusiva responsabilità del gestore, cui il giudice ha addebitato la violazione dell’articolo 14 del Dm Interno 18.03.1996 («Norme di sicurezza per la costruzione e l’esercizio degli impianti sportivi») e dell’articolo 7 della legge della Regione Puglia 35/2008 («Disciplina igienico-sanitaria delle piscine a uso natatorio»), secondo cui, rispettivamente, il rapporto assistenti/superfici d’acqua è di una unità per ogni 500 mq e le piscine destinate ai bambini non devono superare la profondità di 60 centimetri.
Misure di salvaguardia che il gestore di impianti di balneazione, in quanto titolare nei confronti degli utenti di una posizione di garanzia ex articolo 40 del Codice penale, è tenuto ad adottare. Assieme ad ogni altra idonea misura tecnico- organizzativa che tuteli la loro vita e integrità fisica (Cassazione, sentenza 27396/2005). Il che, nel caso di specie, è venuto a mancare, in quanto -rileva la sentenza- qualora fosse stata assicurata la presenza di due assistenti bagnanti, uno per ogni specchio d’acqua, «l’evento penalmente rilevante –ovvero le concatenate e successive lesioni accusate dalla minore- non si sarebbe, secondo un elevato grado di probabilità, affatto verificato».
Di conseguenza, all’(unico) assistente presente nella struttura al momento dell’infortunio non può essere ascritta alcuna responsabilità, in ragione del fatto che l’organizzazione del servizio di salvamento era inidonea allo scopo e che –anzi- lo stesso assistente sarebbe accorso appena avvedutosi del fatto ed avrebbe estratto per primo la piccola dallo specchio d’acqua
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.12.2014).

APPALTIAppalti, l’indagine sul vincitore può bloccare l’aggiudicazione. Gare. Non serve la sentenza passata in giudicato.
È legittima la decisione di non procedere all’aggiudicazione definitiva di un appalto per il fatto che nei confronti del legale rappresentante della società aggiudicataria in via provvisoria risulta pendente un’indagine penale.
È quanto stabilito dalla Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza 11.12.2014 causa C-440/13 in base alla quale l’amministrazione aggiudicatrice può rinunciare ad aggiudicare un appalto pubblico per il quale si sia tenuta una gara e non procedere alla conferma definitiva al solo concorrente che sia rimasto in gara e sia stato dichiarato aggiudicatario in via provvisoria.
I fatti riguardano un’azienda regionale per l’emergenza sanitaria e l’aggiudicazione in via provvisoria a un unico concorrente in gara per l’affidamento del servizio di trasporto di organi. Nel frattempo erano state avviate indagini penali preliminari nei confronti del legale rappresentante della società per reati di truffa e di falso ideologico, con successivo rinvio a giudizio. L’Azienda ha quindi avviato un procedimento per annullare in autotutela la gara d’appalto e ha deciso di non procedere all’aggiudicazione definitiva. Non ha indetto una nuova gara e ha prorogato l’affidamento del servizio a due associazioni.
Il Tar Lombardia, chiamato in causa dalla società esclusa, ha ritenuto che, in base alla direttiva 2004/18/Ce, l’esclusione di un concorrente possa avvenire soltanto nel caso in cui questi sia stato condannato con sentenza passata in giudicato.
Ora, i giudici europei sottolineano che la direttiva 2004/18/Ce conferiscono alle amministrazioni aggiudicatrici anche il potere di escludere ogni operatore economico che abbia commesso un errore grave, accertato con qualsiasi mezzo di prova dall’amministrazione aggiudicatrice, o che abbia fornito false dichiarazioni, senza che sia necessario che nei confronti dell’operatore economico sia stata pronunciata una sentenza di condanna passata in giudicato.
Tra le precisazioni della Corte Ue, si precisa anche che per la revoca di un bando di gara la direttiva 2004/18 prevede poi l’obbligo di informare i candidati e gli offerenti. La giurisprudenza della Corte ha già dichiarato che la rinuncia all’aggiudicazione da parte dell’amministrazione non è limitata a casi eccezionali, né deve essere fondata su motivi gravi, e non c’è l’obbligo di portare a termine l’aggiudicazione. È peraltro obbligatorio comunicare i motivi su cui si basa la decisione, per garantire un livello minimo di trasparenza nelle procedure. Inoltre, la decisione dell’amministrazione deve poter costituire oggetto di ricorso ed essere eventualmente annullata in quanto contraria al diritto dell’Unione; le giurisdizioni nazionali devono poter verificare la compatibilità della revoca del bando di gara con le norme del diritto dell’Unione.
I giudici europei chiariscono anche che la direttiva 89/665/CEE sulle procedure di ricorso in materia di appalti pubblici consente un controllo di legittimità delle decisioni adottate dalle amministrazioni aggiudicatrici, volto a garantire il rispetto del diritto dell’Unione oppure delle disposizioni nazionali che lo recepiscono, senza che il controllo possa essere limitato al solo carattere arbitrario delle decisioni dell’amministrazione aggiudicatrice. Tuttavia, ciò non esclude la facoltà, per il legislatore nazionale, di attribuire ai giudici nazionali competenti il potere di esercitare un controllo in materia di opportunità
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).
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massima
Rinvio pregiudiziale – Appalti pubblici di servizi – Direttiva 2004/18/CE – Direttiva 89/665/CEE – Situazione personale del candidato o dell’offerente – Aggiudicazione dell’appalto in via provvisoria – Indagini penali avviate nei confronti del legale rappresentante dell’aggiudicatario – Decisione dell’amministrazione aggiudicatrice di non procedere all’aggiudicazione definitiva dell’appalto e di revocare la procedura di gara – Sindacato giurisdizionale.
1) Gli articoli 41, paragrafo 1, 43 e 45 della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, devono essere interpretati nel senso che, qualora i presupposti per l’applicazione delle cause di esclusione previste dal medesimo articolo 45 non siano soddisfatti, detto articolo non osta a che l’amministrazione aggiudicatrice decida di rinunciare ad aggiudicare un appalto pubblico per il quale si sia tenuta una gara e di non procedere all’aggiudicazione definitiva di tale appalto al solo concorrente che sia rimasto in gara e sia stato dichiarato aggiudicatario in via provvisoria.
2) Il diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici e, in particolare, l’articolo 1, paragrafo 1, terzo comma, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11.12.2007, devono essere interpretati nel senso che il controllo previsto da tale disposizione costituisce un controllo di legittimità delle decisioni adottate dalle amministrazioni aggiudicatrici, volto a garantire il rispetto delle norme pertinenti del diritto dell’Unione oppure delle disposizioni nazionali che recepiscono dette norme, senza che tale controllo possa essere limitato al solo carattere arbitrario delle decisioni dell’amministrazione aggiudicatrice. Tuttavia, ciò non esclude la facoltà, per il legislatore nazionale, di attribuire ai giudici nazionali competenti il potere di esercitare un controllo in materia di opportunità.

VARI: Videosorveglianza, divieto di riprese negli spazi pubblici. Corte Ue. Il privato subiva attacchi alle finestre.
Da Lussemburgo limiti all’utilizzo di impianti di videosorveglianza della propria abitazione se, seppure di poco, riprendono immagini dalla strada pubblica. Questo perché, in questi casi, l’attività deve essere classificata come trattamento dati, con la conseguenza che va applicata la direttiva 95/46 relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione dei dati, recepita in Italia con Dlgs 196/2003 (“Codice in materia di protezione dei dati personali”).
Lo ha chiarito la
Corte di Giustizia UE, Sez. IV, con la sentenza 11.12.2014 causa C-212/13, nel corso di un procedimento nel quale sono intervenuti sette Stati, inclusa l’Italia.
La vicenda ha preso avvio dall’installazione di un sistema di videosorveglianza da parte di un privato la cui abitazione, da anni, era oggetto di attacchi (con una fionda era stato rotto un vetro, ndr). Installata una telecamera, erano stati individuati gli autori che, però, avevano contestato la legalità delle registrazioni, poi acquisite dalla polizia. L’Ufficio per la tutela dei dati personali aveva dato ragione ai ricorrenti
Di qui il ricorso del proprietario del sistema, con la Corte suprema amministrativa della Repubblica Ceca che, prima di pronunciarsi, ha passato la questione interpretativa a Lussemburgo.
Prima di tutto gli eurogiudici hanno chiarito che l’immagine di una persona registrata da una telecamera è un dato personale perché consente di individuare l’identità dell’interessato, con la conseguenza che è necessario il consenso. Detto questo, la Corte è passata a verificare se fosse possibile applicare l’eccezione prevista dall’articolo 3 della direttiva che esclude dal campo di applicazione dell’atto Ue i trattamenti di dati personali effettuati da una persona fisica «per l’esercizio di attività a carattere esclusivamente personale o domestico». Nel caso al centro della questione la videosorveglianza era stata sì decisa e installata da una persona fisica dinanzi alla propria abitazione privata ma, seppure di poco, le riprese della telecamera fissa si estendevano nello spazio pubblico.
Una situazione che porta la Corte a concludere nel senso di non applicare l’eccezione prevista dalla direttiva. In questi casi, infatti, l’attività «è diretta verso l’esterno della sfera privata della persona che procede al trattamento dei dati» e non può essere classificata come un’attività esclusivamente personale o domestica. A ciò si aggiunga –osserva Lussemburgo– che l’eccezione deve essere interpretata in modo restrittivo per garantirne una lettura compatibile con l’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali Ue che tutela il diritto alla vita privata.
La Corte apre, però, la strada a una soluzione per tutelare la vittima di illeciti da parte di terzi. Secondo gli eurogiudici, infatti, il tribunale interno deve tenere conto, in linea con quanto previsto dall’articolo 7, lettera f) della direttiva, degli interessi legittimi del responsabile del trattamento come la tutela dei beni, della salute, della vita e della famiglia
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.12.2014).

VARITelecamere, stretto raggio. Vie pubbliche, vista limitata per la privacy. La Corte di giustizia europea sugli impianti installati da privati.
Telecamere private a vista limitata. La legge sulla privacy si applica anche agli impianti installati per proteggere la propria abitazione se riprendono la via pubblica. Deve essere bilanciato, però, l'interesse alla riservatezza con l'interesse alla tutela dei propri beni e della propria incolumità. Quindi sì alla telecamera privata per difendere casa, senza il consenso dell'interessato, ma ad alcune condizioni.

Il problema è stato affrontato dalla Corte di giustizia europea, con la
sentenza 11.12.2014 causa C-212/13, chiamata a pronunciarsi su un episodio capitato in Repubblica Ceca. Una famiglia, vittima di atti di vandalismo, ha piazzato una telecamera che riprendeva la strada pubblica. Le immagini registrate sono servite a individuare alcuni sospettati, uno dei quali si è lamentato della lesione della sua privacy. Ne è derivato un procedimento nel quale il giudice ceco si è chiesto se le riprese domestiche costituiscono un trattamento di dati, assoggettato alla direttiva europea sulla privacy (n. 95/46/Ce) o se invece sono un'attività lecita, consentita ai soggetti privati senza vincoli. La domanda è finita sul tavolo dei giudici europei.
La risposta della Corte Ue, in primo luogo, ha chiarito che le riprese con la telecamera di famiglia rappresentano un trattamento di dati personali: questo perché l'immagine di una persona registrata da una telecamera consente di identificare la persona interessata e costituisce un trattamento automatizzato. In secondo luogo non è possibile considerare questo trattamento di dati come un trattamento effettuato da persone fisiche per scopi esclusivamente personali: una qualifica di questo tipo implicherebbe esclusione dell'applicazione della normativa sulla privacy.
La sentenza ha chiarito che l'esenzione prevista dalla direttiva relativamente al trattamento di dati effettuato da una persona fisica per l'esercizio di attività a carattere esclusivamente personale o domestico deve essere interpretata in modo restrittivo: pertanto, una videosorveglianza che si estende allo spazio pubblico e che, di conseguenza, è diretta al di fuori della sfera privata della persona che tratta i dati non può essere considerata un'attività esclusivamente personale o domestica.
Attenzione, però, a concludere che la videoripresa a tutela delle abitazioni private sia vietata, a tutto vantaggio di malintenzionati.
Nella sentenza si ricorda, infatti, che l'interesse alla privacy deve essere bilanciato con l'interesse legittimo del responsabile del trattamento alla protezione dei beni, della salute e della vita propri nonché della sua famiglia.
Questo significa che, con riferimento a questo interesse di legittima tutela, alcuni adempimenti previsti dalla legge sulla privacy possono fare un passo indietro. Nell'ordinamento italiano il provvedimento generale sulla videosorveglianza dell'08.04.2010, adottato dal garante della privacy, contiene le prescrizioni cui attenersi.
Nel provvedimento generale si specifica che il codice della privacy (dlgs 196/2003) non si applica alla videosorveglianza effettuata da persone fisiche per fini esclusivamente personali, purché i dati non siano comunicati sistematicamente a terzi ovvero diffusi.
In queste ipotesi rientrano, ad esempio, gli strumenti di videosorveglianza idonei a identificare coloro che si accingono a entrare in luoghi privati (videocitofoni o altre apparecchiature che rilevano immagini o suoni, anche tramite registrazione), oltre a sistemi di ripresa installati nei pressi di immobili privati ed all'interno di condomini e loro pertinenze (quali posti auto e box).
Lo stesso provvedimento generale dispone, però, che l'angolo visuale delle riprese deve essere comunque limitato ai soli spazi di propria esclusiva pertinenza (per esempio, antistanti l'accesso alla propria abitazione) escludendo ogni forma di ripresa, anche senza registrazione di immagini, relativa ad aree comuni (cortili, pianerottoli, scale, garage comuni) oppure ad ambiti antistanti l'abitazione di altri condomini.
Altrimenti il rischio è quello di incorrere nel reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis codice penale) (
articolo ItaliaOggi del 12.12.2014).

VARI: La Corte di Giustizia UE dice no all'istallazione di una telecamera di videosorveglianza sulla casa diretta verso la strada: viola la privacy.
L’articolo 3, paragrafo 2, secondo trattino, della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24.10.1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, dev’essere interpretato nel senso che l’utilizzo di un sistema di videocamera, che porta a una registrazione video delle persone immagazzinata in un dispositivo di registrazione continua quale un disco duro, installato da una persona fisica sulla sua abitazione familiare per proteggere i beni, la salute e la vita dei proprietari dell’abitazione, sistema che sorveglia parimenti lo spazio pubblico, non costituisce un trattamento dei dati effettuato per l’esercizio di attività a carattere esclusivamente personale o domestico, ai sensi di tale disposizione (Corte di Giustizia UE, Sez. IV, sentenza 11.12.2014 causa C-212/13 - link a http://curia.europa.eu).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Sull'obbligo di attivare una procedura competitiva in caso sia di affidamento di un appalto che di concessione di servizio o di bene pubblico.
Come chiarito dalla giurisprudenza, la circostanza che si tratti, di una concessione di beni o servizi pubblici non esime l'ente locale dall'obbligo di dare corso ad una procedura competitiva per la scelta del concessionario, la quale si pone come un indiscusso strumento di garanzia dell'ingresso al mercato, della parità di trattamento, del principio di non discriminazione e della trasparenza tra gli operatori economici, nel rispetto dei principi di concorrenza e libertà di stabilimento.
Ciò -del resto- trova conferma anche nel rilievo che, anche a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, non può che essere preso atto dell'indifferenza comunitaria alla qualificazione nominale della fattispecie, con consequenziale obbligo dall'attivazione di una procedura competitiva in caso sia di affidamento di un appalto che di concessione di servizio o di bene pubblico (in virtù del al quale va, tra l'altro, riconosciuta la posizione soggettiva qualificata delle c.d. "imprese di settore").
Pertanto, nel caso di specie, riguardante l'affidamento da parte del Comune della gestione del servizio di accertamento e riscossione dell'imposta comunale sulla pubblicità e dei diritti sulle pubbliche affissioni, sussistono le condizioni per affermare che il Comune non ha operato nel rispetto della su indicata prescrizione, atteso che la stessa Amministrazione afferma di aver proceduto ad una mera "indagine informale" e, comunque, si astiene dal fornire qualsiasi elemento di prova atto a dare conto che la scelta nel nuovo concessionario sia avvenuta in esito ad un'effettiva selezione tra gli operatori del settore, in osservanza dei su indicati principi (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 10.12.2014 n. 12488 - (link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Il grave errore nell'esercizio dell'attività professionale in cui sia incorso l'appaltatore costituisce causa di esclusione dalla partecipazione alla gara.
L'art. 38 del DLgs. 163/2006, nell'elencare i requisiti di ordine generale dei partecipanti alle procedure di affidamento, stabilisce alla lett. f) che sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti "che hanno commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante": con ciò richiamando, peraltro, un principio generale già espresso dall'art. 68 del RD 23.5.1924 n. 827, in materia di amministrazione del patrimonio e di contabilità generale dello Stato.
Il grave errore nell'esercizio dell'attività professionale in cui sia incorso l'appaltatore costituisce, dunque, causa di esclusione dalla partecipazione alla gara in quanto in tale ipotesi si manifesta il prioritario interesse pubblico ad evitare di intrattenere rapporti contrattuali con un soggetto inadempiente in relazione al quale sussiste la ragionevole possibilità che si determini ancora detta sfavorevole evenienza: esclusione, va precisato, che non ha carattere sanzionatorio, essendo la stessa prevista a presidio dell'elemento fiduciario destinato a connotare, sin dal momento genetico, i rapporti contrattuali di appalto pubblico.
Pertanto, l'art. 38, c. 1, lett. f), del DLgs 163/2006 impone al concorrente, a pena di esclusione, la dichiarazione di pregresse risoluzioni contrattuali anche se relative ad affidamenti effettuati da altre stazioni, spettando in ogni caso all'Amministrazione di valutare la gravità e la pertinenza dell'errore professionale, con esclusione di qualsiasi intermediazione del concorrente stesso (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 10.12.2014 n. 6507 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Pannelli, «resiste» il regime differenziato. Tar Torino. In base alla zona della città.
Nuove incertezze sui pannelli solari, anche all’indomani dell’entrata in vigore della legge Sblocca Italia (Dl 133 convertito in legge 164/2014) che si occupa del settore inserendo le pompe di calore aria-aria tra le opere di manutenzione ordinaria.
I dubbi riguardano i pannelli che sfruttano il sole, nelle zone di pregio ambientale, e sono oggetto della sentenza 10.12.2014 n. 1946 del TAR Piemonte, Sez. I.
Per i giudici, sia i pannelli fotovoltaici, che convertono l’energia solare in elettrica, sia quelli termici, che producono calore, sono opere di manutenzione ordinaria (articolo 11, comma 3, Dlgs. 115/2008 ), eseguibili con Cia (comunicazione di inizio lavori). Il regime cambia per le zone con vincolo ambientale, perché a seconda del tipo di vincolo i due tipi di pannelli hanno una diversa procedura, che è solo in parte comune.
Nei centri storici e su edifici specificamente vincolati, sia per i pannelli fotovoltaici sia per i termici serve il parere della Soprintendenza. Al di fuori di questi casi, cioè nelle zone soggette a vincolo ambientale generalizzato (aree del piano paesistico, fasce di rispetto di 150 m dai corsi d’acqua), il regime cambia secondo il tipo di pannelli. Per il Tar, mentre per i pannelli termici occorre coinvolgere la Sovrintendenza, per i fotovoltaici nelle aree genericamente oggetto di piano paesistico e nelle fasce di rispetto (150 m dai corsi d’acqua e 300 m dal mare) non è necessario il parere della Soprintendenza.
Gli stessi giudici di Torino pur ritenendo «imperscrutabile» la logica del legislatore, ne prendono atto: su uno stesso tetto, all’interno della fascia di 150 m da un corso d’acqua, due pannelli di eguali dimensioni, uno fotovoltaico che generi energia elettrica, e l’altro che converta l’energia solare in energia termica producendo acqua calda, hanno un diverso regime, anche se corrispondono alle caratteristiche previste dall’articolo 11, comma 3, del Dlgs 115/ 2008 sull’efficienza energetica. Le caratteristiche che rendono realizzabili i due pannelli come manutenzione ordinaria, sono descritte nel citato articolo 11, comma 3: devono essere impianti aderenti o integrati nel tetto, con la stessa inclinazione e orientamento delle falde, che coincidano con la sagoma dell’edificio e con la superficie del tetto.
Nel caso deciso dal Tar, il proprietario di una villetta nel Comune di Ovada, a 150 m da un corso d’acqua, si era visto imporre dalla Sovrintendenza una pellicola antiriflesso per un impianto fotovoltaico: ne è nata una contestazione finita con l’annullamento della prescrizione, perché la tipologia del pannello escludeva la necessità di autorizzazione ambientale.
I due tipi di pannelli, secondo il Tar, hanno regimi diversi perché quelli termici sono regolati da una Direttiva comunitaria (2006/32, sull’efficienza energetica), che si disinteressa del fotovoltaico. Esistono quindi procedure comuni solo per le zone di maggior pregio. Eventuali errori sono rischiosi, in quanto l’irregolarità edilizia (assenza del parere della Soprintendenza, se obbligatorio) impedisce l’applicazione del Conto energia, che rende conveniente l’impianto fotovoltaico. Ma con la sentenza del Tar che coincide con le linee guida del ministero dello Sviluppo economico (Dm 10.09.2010, punto 12.1), al di fuori di centri e nuclei storici e degli edifici vincolati il parere dalla Sovrintendenza non sembra necessario
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.12.2014).
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SENTENZA
... per l'annullamento:
- delle note prot. 12321/12690 del 31.07.2013, 15333/18328 del 07.11.2013 e 15333-20273/401/44 del 09.01.2014, pervenute a mezzo raccomandata in data 13.1.2014, con cui l'Ufficio Tecnico del Comune di Ovada, con riferimento alla comunicazione presentata dai ricorrenti, relativa all'installazione di un impianto fotovoltaico aderente al tetto, ha comunicato che attesa la sussistenza del vincolo paesaggistico i lavori potranno iniziare solo dopo l'acquisizione del parere della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici;
- nonché del parere prot. n. 13522/34.10.05/233 della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le Province di Novara, Alessandria e Verbano-Cusio-Ossola;
di ogni altro atto ad essi presupposto, connesso e conseguente.
...
Il primo motivo di ricorso è fondato per le seguenti ragioni.
Pur non essendo condivisibile in toto l’assunto della difesa di parte ricorrente, secondo cui, in materia, deve trovare sempre applicazione la procedura semplificata di comunicazione preventiva al Comune, senza necessità alcuna di tutela dei vincoli ambientali e paesaggistici, neppure lo è la tesi della difesa erariale secondo cui, in presenza di qualsivoglia vincolo ex d.lgs. n. 42/2004, risulta sempre imprescindibile il parere della sovrintendenza.
Nel caso di specie, per le ragioni che si procede ad illustrare, si ritiene che, effettivamente, il parere della sovrintendenza non dovesse essere acquisito.
La normativa risulta contorta, oltre che frutto di numerose stratificazioni; tuttavia pare al collegio di poterla ricostruire nei seguenti termini.
L’art. 7, co. 1, del d.lgs. n. 28/2011, invocato dalla difesa erariale quale presupposto della necessità dell’autorizzazione della sovrintendenza, recita: “Gli interventi di installazione di impianti solari termici sono considerati attività ad edilizia libera e sono realizzati, ai sensi dell'articolo 11, comma 3, del decreto legislativo 30.05.2008, n. 115, previa comunicazione, anche per via telematica, dell'inizio dei lavori da parte dell'interessato all'amministrazione comunale, qualora ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni:
a) siano installati impianti aderenti o integrati nei tetti di edifici esistenti con la stessa inclinazione e lo stesso orientamento della falda e i cui componenti non modificano la sagoma degli edifici stessi;
b) la superficie dell'impianto non sia superiore a quella del tetto su cui viene realizzato;
c) gli interventi non ricadano nel campo di applicazione del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e successive modificazioni
.”
Ne consegue che è pur vero che la disposizione esclude la mera comunicazione di inizio attività in tutte le ipotesi in cui sussista qualsivoglia vincolo previsto dal d.lgs. n. 42/2004 ma è altresì vero che essa ha ad oggetto gli impianti solari termici, mentre, dai documenti in atti, risulta essere stata chiesta l’autorizzazione per l’installazione di un impianto fotovoltaico.
Sul punto non può quindi che condividersi la difesa di parte ricorrente, là dove afferma che la normativa invocata non è pertinente al caso di specie.
Con riferimento ai pannelli fotovoltaici, invece, l’art. 11 del d.lgs. n. 115/2008, nella versione vigente dal 06.05.2010 al 18.07.2014 (coeva e applicabile al procedimento qui sub iudice) recitava: “….Fatto salvo quanto previsto dall'articolo 26, comma 1, secondo periodo, della legge 09.01.1991, n. 10, in materia di assimilazione alla manutenzione straordinaria degli interventi di utilizzo delle fonti rinnovabili di energia, di conservazione, risparmio e uso razionale dell'energia in edifici ed impianti industriali, gli interventi di incremento dell'efficienza energetica che prevedano l'installazione di singoli generatori eolici con altezza complessiva non superiore a 1,5 metri e diametro non superiore a 1 metro, nonché di impianti solari termici o fotovoltaici aderenti o integrati nei tetti degli edifici con la stessa inclinazione e lo stesso orientamento della falda e i cui componenti non modificano la sagoma degli edifici stessi, sono considerati interventi di manutenzione ordinaria e non sono soggetti alla disciplina della denuncia di inizio attività di cui agli articoli 22 e 23 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e successive modificazioni, qualora la superficie dell'impianto non sia superiore a quella del tetto stesso. In tale caso, fatti salvi i casi di cui all'articolo 3, comma 3, lettera a), del decreto legislativo 19.08.2005, n. 192, e successive modificazioni, è sufficiente una comunicazione preventiva al Comune.”
In pratica per gli impianti fotovoltaici con le caratteristiche prospettate in ricorso (integrati nei tetti, con stessa inclinazione, stesso orientamento e senza modifica della sagoma) risulta sufficiente la comunicazione preventiva, fatto salvo l’art. 3, co. 3, lett. a), del d.lgs. n. 192/2005.
Quest’ultimo a sua volta individua una eccezione e dispone un rinvio nei seguenti termini: “a) gli edifici ricadenti nell'ambito della disciplina della parte seconda e dell'articolo 136, comma 1, lettere b) e c), del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, recante il codice dei beni culturali e del paesaggio, fatto salvo quanto disposto al comma 3-bis”.
A sua volta l’art. 3 del d.lgs. n. 192/2005 contiene un comma 3-bis (richiamato dalla sovra riportata disposizione) e un comma 3-bis.1, entrambe introdotti con il d.l. 04.06.2013 n. 63 (pubblicato in G.U. il 5 giugno, ed entrato in vigore il giorno successivo, dunque teoricamente applicabile
ratione temporis con riferimento alla comunicazione dei ricorrenti presentata in data 26.07.2013).
Il comma 3-bis prevede: “3-bis. Per gli edifici di cui al comma 3, lettera a), il presente decreto si applica limitatamente alle disposizioni concernenti:
a) l'attestazione della prestazione energetica degli edifici, di cui all'articolo 6;
b) l'esercizio, la manutenzione e le ispezioni degli impianti tecnici, di cui all'articolo 7
”.
Parrebbe dunque che il d.lgs. n. 115/2008 escluda dalla procedura semplificata gli immobili contemplati dal richiamato comma del d.lgs. 192/2005; sennonché detto stesso comma, con un richiamo a un comma successivo del medesimo articolo, limita ulteriormente la propria applicazione con riferimento ad aspetti (attestazione energetica degli edifici e esercizio e manutenzione di impianti) che nulla hanno a che vedere con l’installazione degli impianti in sé.
Ancora il successivo comma 3 bis.1 dell’art. 3 del d.lgs. n. 192/2005, con espresso riferimento alla problematica dei vincoli, recita: “Gli edifici di cui al comma 3, lettera a), sono esclusi dall'applicazione del presente decreto ai sensi del comma 3-bis, solo nel caso in cui, previo giudizio dell'autorità competente al rilascio dell'autorizzazione ai sensi del codice di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, il rispetto delle prescrizioni implichi un'alterazione sostanziale del loro carattere o aspetto, con particolare riferimento ai profili storici, artistici e paesaggistici”.
Non può tuttavia non osservarsi, posto che il comma 3-bis viene invocato dall’amministrazione nella propria relazione ai fini della ricostruzione della disciplina del titolo edilizio, che i commi 3-bis e 3-bis.1 dell’art. 3 del d.lgs. n. 192/2005 nulla hanno a che vedere con problematiche inerenti i titoli edilizi; essi si comprendono se si tiene mente al fatto che il d.lgs. n. 192/2005 (inopinatamente richiamato dal legislatore per identificare dei vincoli fatti salvi i quali, per contro, trovano sede in tutt’altro testo normativo, il d.lgs. n. 42/2004) ha in linea di principio oggetto del tutto difforme, ossia l’attuazione delle direttive comunitarie che impongono allo Stato italiano di adeguare, per quanto possibile, il patrimonio edilizio (nuovo ed esistente) alle caratteristiche di prestazione energetica degli edifici imposte in sede comunitaria. In questo contesto l’art. 3 del d.lgs. n. 192/2005 è finalizzato a scandire una gradualità (particolarmente per gli edifici preesistenti) nell’adeguamento degli edifici alle nuove tecnologie e nell’imposizione delle nuove caratteristiche di prestazione energetica dell’edilizia; tale gradualità sarà, evidentemente, tanto più giustificata quanto più gli immobili preesistenti presentano caratteristiche di pregio ambientale e culturale, che possono fisiologicamente entrare in conflitto con l’adeguamento energetico tramite nuove tecnologie.
Il richiamo, dunque, ai vincoli previsti dal d.lgs. n. 42/2004 nel contesto dell’art. 3, co. 3-bis e 3-bis.1, del d.lgs. n. 192/2005 va letto in questa prospettiva, evidentemente del tutto avulsa da quella inerente la semplificazione dei titoli edilizi necessari per l’implementazione degli impianti fotovoltaici; esso tenta di contemperare gli obblighi di rendere gli edifici esistenti coerenti con le moderne caratteristiche di prestazione energetica e le ragioni storico-artistico-ambientali, le quali ultime possono invece indurre alla conservazione del pregresso nello stato originale.
Date queste premesse ritiene il collegio che il rinvio al co. 3 del d.lgs. n. 192/2005 non possa che essere inteso come limitato ad individuare le due ipotesi di beni tutelati, ivi citate e previste in verità dal d.lgs. n. 42/2004, per le quali persiste l’obbligo, nel contesto della procedura semplificata per l’ottenimento del titolo edilizio, di acquisire i pareri in questione; ciò senza ulteriore possibilità di leggere la disposizione integrandola con i commi 3-bis e 3-bis.1 dell’art. 3 del d.lgs. n. 192/2005, proprio per l’eterogeneità delle disposizioni e dei rispettivi finalità e contenuti.
La sequenza dei rinvii a cascata, che rende pressoché imperscrutabile la voluntas legis, deve infatti ragionevolmente arrestarsi là dove implicherebbe il richiamo a problematiche del tutto avulse;sembra dunque potersi concludere che: a) innanzitutto vi è l’intento di semplificare la procedura inerente l’installazione di pannelli fotovoltaici con caratteristiche quali quelle per cui è causa (aderenti alla tetto, con stessa sagoma ed orientamento); b) restano fatti salvi i vincoli dettati dal d.lgs. 42/2004, nelle sole ipotesi di cui alla lett. b) e c) dell’art. 136.
Non è invece condivisibile la difesa erariale, secondo cui i vincoli paesaggistici sarebbero fatti salvi in ogni caso ed ipotesi; a tal fine infatti da un lato non è pertinente, come visto, il d.lgs. 28/2011, dall’altro non appare utile la disposizione generale dettata dall’art. 6, co. 3, del d.p.r. n. 380/2001 (sempre invocata dalla difesa erariale e dell’amministrazione).
Quest’ultima, nell’inserire in termini generali la realizzazione di pannelli solari fotovoltaici nell’ambito dell’edilizia libera, fa salve una serie di disposizioni di settore tra cui, certamente, il d.lgs. n. 42/2004. Tale norma tuttavia pacificamente convive con l’ancor vigente (modificata da ultimo con la legge n. 116/2014) e già citato art. 11 del d.lgs. n. 115/2008, che ha evidentemente un oggetto più circoscritto (i pannelli integrati nei tetti, con stessa inclinazione, stesso orientamento e che non ne modificano la sagoma), e come tale speciale, dunque ragionevolmente assoggettato a disciplina ulteriormente semplificata.
Per le ragioni già esposte, anche in quest’ultimo contesto, sono fatti salvi i vincoli di cui all’art. 136 lett. b) e c) del d.lgs. n. 42/2004 che contemplano: “b) le ville, i giardini e i parchi, non tutelati dalle disposizioni della Parte seconda del presente codice, che si distinguono per la loro non comune bellezza;
c) i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale, inclusi i centri ed i nuclei storici
.”
Pertanto in queste uniche due ipotesi occorre comunque l’autorizzazione paesaggistica.
Nel caso di specie si evince dalla documentazione in atti che l’immobile in questione ricade in area tutelata ai sensi dell’art. 142, lett. c), del d.lgs. n. 42/2004; pertanto non ricorre una delle due ipotesi [136 lett. c) e d)] per le quali sole è fatta salva la necessità dell’autorizzazione paesaggistica.
Il ricorso deve dunque trovare accoglimento con annullamento del provvedimento impugnato (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 10.12.2014 n. 1946 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Appalti pubblici, cauzione sotto scacco. Il consiglio di stato sulle conseguenze derivanti dalla mancanza dei requisiti.
Qualsiasi concorrente che rende false dichiarazioni o non rispetti i requisiti di ordine generale previsti per partecipare ad un appalto pubblico, oltre ad essere escluso dalla gara, può perdere la cauzione provvisoria pari al 2% del valore dell'appalto. E', quindi, legittimo il bando che prevede l'escussione della garanzia a corredo dell'offerta, oltre che per i concorrenti sorteggiati ai sensi dell'art. 48 del Codice dei contratti pubblici, anche per gli altri concorrenti e per la semplice inosservanza dei requisiti di ordine generale (ad esempio la regolarità contributiva).

E' quanto afferma l'adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la
sentenza 10.12.2014 n. 34, che è intervenuta per risolvere un contrasto giurisprudenziale.
La pronuncia doveva in particolare esprimersi sulla legittimità di estendere la misura prevista dall'art. 48 (esclusione dalla gara e contemporanea escussione della cauzione provvisoria) con riferimento alla mancata comprova del possesso dei requisiti di capacità economico finanziaria e tecnico-organizzativa (c.d. requisiti di ordine speciale) da parte dei soggetti sorteggiati nella fase precedente l'apertura delle buste, anche ad impresa che abbia reso una dichiarazione ex art. 38 del Codice dei contratti pubblici non veridica relativa ai requisiti di ordine generale. Non soltanto: si poneva anche il problema di ritenere applicabile l'esclusione dalla gara unitamente all'escussione della garanzia (di norma prevista a fine gara per il vincitore e per il secondo classificato che non abbiano comprovato i requisiti) anche agli altri concorrenti.
Nella gara oggetto di esame da parte dell'Adunanza plenaria la stazione appaltante aveva previsto entrambe le misure per una impresa non aggiudicataria, né sorteggiata e per una falsa dichiarazione relativa al Durc (e quindi per la mancata comprova di un requisito di ordine generale e non di un requisito di ordine speciale).
L'Adunanza plenaria legittima il comportamento della stazione appaltante e, quindi, sposa la tesi meno restrittiva della giurisprudenza amministrativa che aveva inteso privilegiare «l'altra funzione della cauzione, intesa come garanzia del rispetto dell'ampio patto d'integrità cui si vincola chi partecipa a gare pubbliche» e quindi applicare l'escussione a fronte di dichiarazioni non veritiere rese a norma dell'art. 38. I giudici sostengono infatti che la cauzione provvisoria «costituisce parte integrante dell'offerta e non mero elemento di corredo della stessa» e che con essa si vuole perseguire la finalità «di responsabilizzare i partecipanti in ordine alle dichiarazioni rese, di garantire la serietà e l'affidabilità dell'offerta, nonché di escludere da subito i soggetti privi delle richieste qualità volute dal bando». In sostanza quindi l'escussione rappresenta una misura sanzionatoria a fronte della violazione dell'obbligo di diligenza gravante sull'offerente.
Risulta pertanto legittimo prevedere negli atti di gara la comminatoria dell'escussione della cauzione a seguito della esclusione dalla gara di qualsivoglia concorrente per il quale non fosse stato confermato il possesso dei requisiti generali (
articolo ItaliaOggi del 12.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIE’ legittima la clausola, contenuta in atti di indizione di procedure di affidamento di appalti pubblici, che preveda l’escussione della cauzione provvisoria anche nei confronti di imprese non risultate aggiudicatarie, ma solo concorrenti, in caso di riscontrata assenza del possesso dei requisiti di carattere generale di cui all’art. 38 del codice dei contratti pubblici.
1. Il deferimento all’Adunanza Plenaria risulta giustificato dalla esistenza di contrasti giurisprudenziali evidenziati dalla sentenza non definitiva di rimessione, in ordine alla legittimità della clausola contenuta nell’atto di indizione, che consenta l’incameramento della cauzione provvisoria nei confronti dei concorrenti anche in caso non corrispondenza al vero di dichiarazioni riguardanti i requisiti generali di cui all’art. 38 del codice dei contratti pubblici.
Nel processo amministrativo le ipotesi di deferimento della causa all’Adunanza Plenaria sono due: quella facoltativa di cui all’art. 99, comma 1 c.p.a., che ricorre quando la sezione riscontri un contrasto di giurisprudenza reale o potenziale e non intende seguire l’indirizzo consolidato; quella obbligatoria di cui all’art. 99, comma 3, c.p.a., quando la sezione intende rimettere in discussione un principio di diritto già enunciato dall’Adunanza Plenaria (così, Cons. Stato, V, 31.10.2013, n. 5246).
Nella specie, si tratta di ipotesi del primo tipo.
Tale contrasto emerge dalle opposte conclusioni alle quali sono pervenute rispettivamente: nel senso della legittimità dell’operato dell’amministrazione appaltante, Consiglio di Stato sezione quinta n. 2232 del 18.04.2012, ma anche, ex plurimis, Consiglio di Stato, VI, 04.08.2009, n. 4905, sezione V, 12.02.2007, n. 554, sezione IV, 07.09.2004, n. 5792; nel senso della illegittimità, Consiglio di Stato, sezione quinta, n. 80 dell’11.01.2012 e prima ancora, sezione sesta, 28.08.2006, n. 5009, anche se relativamente al regime precedente al Codice dei contratti pubblici.
In tale ultimo senso, al fine di evitare il protrarsi di contrasti giurisprudenziali ai sensi del primo comma dell’art. 99 del c.p.a., milita l’osservazione che estesa parte della giurisprudenza di primo grado si esprima per la tesi più restrittiva.
Questa Adunanza Plenaria non può fare a meno di osservare che, certamente in senso diverso rispetto alla tesi più restrittiva, si era già espressa questa stessa Adunanza Plenaria (sentenza n. 8 del 04.05.2012) affermando, sia pure in un contesto più ampio, dedicato in modo centrale alla questione della gravità delle irregolarità contributive, che la possibilità di incamerare la cauzione provvisoria(che discende direttamente dall’art. 75 codice contratti pubblici) riguarda tutte le ipotesi di mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell’affidatario, intendendosi per fatto dell’affidatario qualunque ostacolo alla stipulazione a lui riconducibile; dunque non solo il rifiuto di stipulare o il difetto di requisiti speciali, ma anche il difetto di requisiti generali di cui all’art. 38 codice citato.
La affermazione della sentenza n. 8 del 2012 di questa Adunanza Plenaria, nel senso sopra riportato, costituisce oramai un dato acquisito della giurisprudenza di secondo grado (da ultimo, sentenza n. 5283 del 27.10.2014 della quinta sezione del Consiglio di Stato).
2. In considerazione della pronuncia resa dalla sentenza non definitiva, la presente controversia parte dal dato del passaggio in giudicato (oggetto della sentenza parziale di appello resa dal C.G.A.R.S.) in relazione al primo motivo di appello del Comune di Erice, sulla sufficienza del ricorso, ai fini della impugnativa, da parte della ricorrente di primo grado, nei confronti del disciplinare di gara, che contiene la clausola relativa all’incameramento della cauzione provvisoria; la sentenza parziale aggiungeva di ritenere assenti interferenze tra l’archiviazione pronunciata dall’AVCP e la controversia in esame.
3. La questione da esaminare attiene, quindi, a quanto posto dal quesito finale, integrato con quanto la sentenza non definitiva di rimessione individua quale contrasto di giurisprudenza e cioè: <<La valutazione della legittimità di atti di indizione di procedure di affidamento di appalti pubblici che contengano clausole recanti la comminatoria di escussione della cauzione provvisoria anche nei confronti di imprese non aggiudicatarie, ma solo partecipanti, per le quali sia stata accertata la carenza del possesso di requisiti di carattere generale di cui all’art. 38 del codice dei contratti pubblici>>.
Una volta che la sentenza non definitiva di rimessione si è pronunciata –respingendo il primo motivo di appello- sulla ammissibilità della impugnativa proposta avverso il disciplinare di gara, contenente la comminatoria dell’incameramento della cauzione provvisoria, compito di questo Organo giudicante è di pronunciarsi in ordine alla legittimità, nel suo contenuto, del disciplinare di gara e della più volte menzionata clausola.
Ad opinione di questa Adunanza Plenaria, la risposta al quesito deve essere di tipo positivo, sulla base delle seguenti argomentazioni, che riprendono le affermazioni già contenute nella sentenza n. 8 del 2012 dell’Ad. Pl. su citata (e anche Adunanza Plenaria n. 8 del 04.10.2005, che afferma il possibile incameramento della cauzione provvisoria per gli inadempimenti contrattuali di tutti i concorrenti).
La cauzione provvisoria assolve la funzione di garanzia del mantenimento dell’offerta in un duplice senso, giacché, per un verso, essa presidia la serietà dell’offerta e il mantenimento di questa da parte di tutti partecipanti alla gara fino al momento dell’aggiudicazione; per altro verso, essa garantisce la stipula del contratto da parte della offerente che risulti, all’esito della procedura, aggiudicataria.
In questo senso, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, nella decisione n. 8 del 2005, ha affermato che la cauzione provvisoria, oltre ad indennizzare la stazione appaltante dall'eventuale mancata sottoscrizione del contratto da parte dell'aggiudicatario (funzione indennitaria), svolge (può svolgere) altresì una funzione sanzionatoria verso altri possibili inadempimenti contrattuali dei concorrenti.
Per quanto concerne le norme di riferimento vanno richiamati gli artt. 48, comma 1, e 75, commi 1 e 6, del D.Lgs. n. 163/2006 i quali, rispettivamente, dispongono per quanto d’interesse, quanto segue.
L’art. 48 prevede che “Le stazioni appaltanti prima di procedere all'apertura delle buste delle offerte presentate, richiedono ad un numero di offerenti non inferiore al 10 per cento delle offerte presentate, arrotondato all'unità superiore, scelti con sorteggio pubblico, di comprovare, entro dieci giorni dalla data della richiesta medesima, il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, eventualmente richiesti nel bando di gara, presentando la documentazione indicata in detto bando o nella lettera di invito. … Quando tale prova non sia fornita, ovvero non confermi le dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell'offerta, le stazioni appaltanti procedono all'esclusione del concorrente dalla gara, all'escussione della relativa cauzione provvisoria e alla segnalazione del fatto all'Autorità per i provvedimenti di cui all'articolo 6, comma 11.” .
L’art. 75 al comma 1 prevede che “L'offerta è corredata da una garanzia, pari al due per cento del prezzo base indicato nel bando o nell'invito, sotto forma di cauzione o di fideiussione, a scelta dell'offerente. …”; al comma 6 prevede che: ”La garanzia copre la mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell'affidatario, ed è svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione del contratto medesimo.”.
La prima disposizione si riferisce all’ipotesi di un controllo a campione che abbia sortito un esito negativo circa il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa (ossia dei c.d. “requisiti speciali”) dichiarati dal concorrente all’atto dell’offerta.
La seconda previsione concerne invece il caso del contratto che non venga sottoscritto per fatto dell’aggiudicatario.
Riprendendo nuovamente la prima disposizione di legge (perché riprodotta nella sostanza della regola dal disciplinare di gara) secondo il tenore testuale dell’art. 48, co. 1, secondo periodo, qualora l’impresa concorrente, in sede di controllo a campione <<…non confermi le dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell’offerta, le stazioni appaltanti procedono all’esclusione del concorrente dalla gara, all’escussione della relativa cauzione provvisoria e alla segnalazione del fatto all’Autorità…>>.
Il disciplinare di gara, come ha chiarito la sentenza non definitiva di rimessione, a differenza di quanto ritenuto dal giudice di primo grado, prevedeva in modo chiaro ed espresso, che l’escussione della cauzione dovesse fare seguito alla esclusione dalla gara dei concorrenti per i quali non fosse stato confermato il possesso dei requisiti generali.
Il disciplinare disponeva che “a) all’esclusione dalla gara dei concorrenti per i quali non risulti confermato il possesso dei requisiti generali….; c) alla comunicazione di quanto avvenuto agli uffici della Amministrazione appaltante cui spetta di provvedere all’escussione della cauzione provvisoria”.
Emerge evidente che, nella fattispecie, dalla disciplina di gara, tratta dal combinato disposto della norma primaria e della sua integrazione a mezzo del disciplinare, l’escussione della cauzione non presupponga in via esclusiva il fatto dell’aggiudicatario né si limita alle dichiarazioni sui requisiti speciali; essa, al contrario, trova spazio applicativo anche quando (come verificatosi nel caso di specie), per il concorrente (pur se non aggiudicatario), risulti non corrispondente al vero quanto dichiarato in occasione della rappresentazione di requisiti generali (in tal senso, i principi già affermati da Ad. Plen. su citata n. 8 del 04.05.2012).
Le conclusioni alle quali si perviene risultano inoltre giustificate, se non imposte, sia dalla funzione della cauzione provvisoria e dalla previsione del suo incameramento, che dalla sua natura giuridica.
Secondo i principi elaborati dalla giurisprudenza e dall’Autorità di settore (cfr. Corte cost., 13.07.2011, n. 211/ord.; Cons. St., sez. V, 24.11.2011, n. 6239; sez. V, 09.11.2010, n. 7963; sez. V, 05.08.2011, n. 4712; sez. V, 12.06.2009, n. 3746; sez. V, 08.09.2008, n. 4267; sez. V, 09.12.2002, n. 6768; Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, determinazione n. 1 del 2010) strutturalmente la cauzione costituisce parte integrante dell'offerta e non mero elemento di corredo della stessa (che la stazione possa liberamente richiedere e quantificare).
L’escussione della cauzione provvisoria si profila come garanzia del rispetto dell’ampio patto di integrità cui si vincola chi partecipa ad una gara pubblica.
La sua finalità è quella di responsabilizzare i partecipanti in ordine alle dichiarazioni rese, di garantire la serietà e l’affidabilità dell’offerta, nonché di escludere da subito i soggetti privi delle richieste qualità volute dal bando.
La presenza di dichiarazioni non corrispondenti al vero altera di per sé la gara quantomeno per un aggravio di lavoro della stazione appaltante, chiamata a vagliare anche concorrenti inidonei o offerte prive di tutte le qualità promesse, con le relative questioni successivamente innescabili (come verificatosi nel caso di specie, con esigenze di ricalcolo e nuovo aggiudicatario).
L’escussione costituisce conseguenza della violazione dell’obbligo di diligenza gravante sull’offerente, tenuto conto che gli operatori economici, con la domanda di partecipazione, sottoscrivono e si impegnano ad osservare le regole della relativa procedura delle quali hanno piena contezza.
Si tratta di una misura autonoma ed ulteriore (rispetto alla esclusione dalla gara ed alla segnalazione all’Autorità di vigilanza), che costituisce, mediante l’anticipata liquidazione dei danni subiti dall’amministrazione, un distinto rapporto giuridico fra quest’ultima e l’imprenditore (tanto che si ammette l’impugnabilità della sola escussione se ritenuta realmente ed esclusivamente lesiva dell’interesse dell’impresa).
Sotto il profilo della natura giuridica, si ritiene (tra varie, Cons. Stato, VI, 03.03.2004, n. 1058 e Cons. Stato, V, 15.04.2013, n. 2016) che ferma restando la generale distinzione fra l’istituto della clausola penale (1383 c.c.) avente funzione di liquidazione anticipata del danno da inadempimento e della caparra confirmatoria (art. 1385 c.c.) avente la funzione di dimostrare la serietà dell’intento di stipulare il contratto sin dal momento delle trattative o del perfezionamento dello stesso, l’istituto della cauzione provvisoria debba ricondursi alla caparra confirmatoria, sia perché è finalizzata a confermare la serietà di un impegno da assumere in futuro, sia perché tale qualificazione risulta la più coerente con l’esigenza, rilevante contabilmente, di non vulnerare l’amministrazione costringendola a pretendere il maggior danno (per altra giurisprudenza, si veda in tal senso, Cons. Stato, V, 11.12.2007, n. 6362, la cauzione provvisoria svolge la funzione della clausola penale, diretta a predeterminare la liquidazione forfettaria del danno, tanto che non viene prevista la possibilità del danno eventualmente non coperto dalla cauzione incamerata).
In definitiva e in sostanza, si tratta di una misura di indole patrimoniale, priva di carattere sanzionatorio amministrativo nel senso proprio, che costituisce l’automatica conseguenza della violazione di regole e doveri contrattuali espressamente accettati.
Per replicare alle obiezioni sollevate dalla tesi più restrittiva, si ritiene di osservare che l’invocato principio di legalità riguarda le sanzioni in senso proprio e non già le misure di indole patrimoniale liberamente contenute negli atti di indizione, accettate dai concorrenti, non irragionevoli né illogiche, rispondenti all’autonomia patrimoniale delle parti, non contrarie a norme imperative e anzi agganciate alla ratio rinvenibile nelle disposizioni del codice.
Il principio di tassatività è, allo stesso modo, male invocato, essendo lo stesso riferibile alle sole cause di esclusione dalla gara (nel senso della legittimità della previsione di adempimenti a pena di esclusione, ma purché conformi ai casi tassativi indicati dall’articolo 46 del codice dei contratti pubblici, Consiglio di Stato, ad. plen. 25.02.2014, n. 9) e non già ad altre misure di tipo patrimoniale contenute in clausole degli atti di indizione e riferibili a doveri di correttezza contrattuale.
Si aggiunga che –oltre ad una lettura evolutiva dell’art. 75 nel senso sopra riportato di far riferimento anche ai concorrenti e non solo all’aggiudicatario e non solo ai requisiti speciali di cui all’art. 48 ma anche ai requisiti generali di cui all’art. 38– porta e concludere nel senso sostenuto anche la previsione contenuta nell’art. 49, che, sia pure nell’ambito della disciplina dell’avvalimento, ma con valenza sistematica (ai sensi degli articoli 1362 e seguenti codice civile) dal punto di vista interpretativo, al comma 3 prevede che “nel caso di dichiarazioni mendaci, ferma restando l’applicazione dell’articolo 38, lettera h nei confronti dei sottoscrittori, la stazione appaltante esclude il concorrente (non già il solo aggiudicatario) e escute la garanzia”.
Per completezza, si deve rilevare che il recente inserimento, all’articolo 38, del comma 2-bis, (inserito dall’art. 39, comma 1, del D.L. 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11.08.2014, n. 114) prevede che la mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2 obbliga il concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, in misura non inferiore all’uno per mille e non superiore all’uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 50.000 euro, il cui versamento è garantito dalla cauzione provvisoria (assegnando termine per regolarizzare e prevedendo altresì che le irregolarità non essenziali non rilevino). In caso di inutile decorso del termine il concorrente è escluso dalla gara.
Il legislatore, inoltre, proprio al fine di evitare gli inconvenienti determinati da “mancanze, falsità o incompletezze delle dichiarazioni”, prevede, in modo innovativo, che ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte, non debba rilevare ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per la individuazione della soglia di anomalia delle offerte.
Al di là della irrilevanza ratione temporis, in virtù della disposizione intertemporale del comma 3 del su menzionato art. 39 (per il quale le nuove disposizioni si applicano solo alle procedure di affidamento indette successivamente al 24.06.2014), ciò che rileva per l’interprete, ove mai ve ne fosse bisogno, è la conferma della legittimità (della previsione nei bandi della “sanzione”) dell’incameramento della cauzione provvisoria in caso di mancanze relative ai requisiti generali di cui all’art. 38, riferibili a tutti i concorrenti e non al solo aggiudicatario.
4. Ai sensi dell’art. 99, comma 4 c.p.a., l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, investita di una questione oggetto di contrasto giurisprudenziale, in omaggio al principio di economia processuale e per esigenze di celerità, di regola decide la controversia anche nel merito, salva la presenza di ulteriori esigenze istruttorie, nel caso di specie insussistenti (così Consiglio di Stato, ad. plen., 13.06.2012, n.22).
Ritenendo pertanto di decidere nel merito per intero la controversia sottoposta all’esame, sulla base delle sopra esposte considerazioni, va accolto ai sensi di cui in motivazione il ricorso in appello proposto dal Comune di Erice e, in riforma dell’appellata sentenza, va respinto il ricorso originario, con la enunciazione dei seguenti principi di diritto: <<E’ legittima la clausola, contenuta in atti di indizione di procedure di affidamento di appalti pubblici, che preveda l’escussione della cauzione provvisoria anche nei confronti di imprese non risultate aggiudicatarie, ma solo concorrenti, in caso di riscontrata assenza del possesso dei requisiti di carattere generale di cui all’art. 38 del codice dei contratti pubblici>> (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 10.12.2014 n. 34 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Presupposti fondamentali per il legittimo esercizio da parte dell'Amministrazione del potere di autotutela, indicati dall'art. 21-nonies, l. 07.08.1990 n. 241, sono l'illegittimità iniziale del provvedimento annullando; l'interesse pubblico attuale e concreto alla sua rimozione; l'adozione dell'annullamento d'ufficio entro un ragionevole lasso di tempo; la valutazione comparativa degli interessi dei destinatari del provvedimento di secondo grado; l'insussistenza di un affidamento legittimo che osti al dispiegarsi del potere di autotutela.
Nel caso di specie, l’ente comunale a distanza di circa tre anni dal rilascio delle autorizzazioni ha disposto l’annullamento delle stesse, senza verificare l’affidamento maturato dalla società ricorrente e senza valutare che l’autorizzazione era ormai in scadenza e, quindi, aveva prodotto gli effetti che il comune voleva neutralizzare (alterazione della concorrenza).
Ne deriva, quindi, che il provvedimento impugnato è, in ogni caso, illegittimo perché adottato in violazione dell’art. 21-nonies L. 241/1990

Orbene, tanto premesso in punto di fatto, il ricorso è fondato nei limiti di seguito specificati.
Presupposti fondamentali per il legittimo esercizio da parte dell'Amministrazione del potere di autotutela, indicati dall'art. 21-nonies, l. 07.08.1990 n. 241, sono l'illegittimità iniziale del provvedimento annullando; l'interesse pubblico attuale e concreto alla sua rimozione; l'adozione dell'annullamento d'ufficio entro un ragionevole lasso di tempo; la valutazione comparativa degli interessi dei destinatari del provvedimento di secondo grado; l'insussistenza di un affidamento legittimo che osti al dispiegarsi del potere di autotutela (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. V 02/10/2014, n. 4902).
Nel caso di specie, l’ente comunale a distanza di circa tre anni dal rilascio delle autorizzazioni ha disposto l’annullamento delle stesse, senza verificare l’affidamento maturato dalla società ricorrente e senza valutare che l’autorizzazione era ormai in scadenza e, quindi, aveva prodotto gli effetti che il comune voleva neutralizzare (alterazione della concorrenza).
Ne deriva, quindi, che il provvedimento impugnato è, in ogni caso, illegittimo perché adottato in violazione dell’art. 21-nonies L. 241/1990 (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 09.12.2014 n. 2089 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La comunicazione dei motivi ostativi al rilascio del provvedimento ha lo scopo di far conoscere alle Pubbliche amministrazioni, in contraddittorio rispetto alle motivazioni da esse assunte in base agli esiti dell'istruttoria espletata, ragioni fattuali e giuridiche dell'interessato che potrebbero contribuire a far assumere agli organi competenti una diversa determinazione finale, derivante, appunto, dalla ponderazione di tutti gli interessi in campo e determinando una possibile riduzione del contenzioso fra le parti.
Anche in fase istruttoria del procedimento amministrativo, una volta che la parte privata abbia dettagliatamente e documentalmente cercato di provare le proprie ragioni, sta alla parte pubblica motivare in ordine alle ragioni ostative all'accoglimento dell'istanza, confutando le affermazioni della parte interessata. Ciò è necessario al fine del rispetto dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, norma che altrimenti sarebbe del tutto priva di utilità nel nostro sistema e che rappresenta l'esplicitazione del principio costituzionale di buon andamento e imparzialità dell'Amministrazione.
Tali principi naturalmente non impongono alla p.a. la precisa e puntuale contestazione di tutti i rilievi mossi dall’istante, ma, comunque, comportano la necessità che la p.a. risponda anche con una motivazione complessiva alle perplessità evidenziate in sede di presentazioni di memorie, in modo tale da dimostrare che, nonostante le osservazioni del privato, la p.a. non è in grado di mutare il proprio convincimento.
Ne consegue che è certamente annullabile per violazione dell’art. 10-bis il provvedimento che, nonostante la presentazioni di memorie, confermi quanto già evidenziato nella comunicazione dei motivi ostativi senza dimostrare di aver esaminato quanto rilevato nelle memorie. Tali casi normalmente si verificano quando la p.a. rigetta l’istanza con motivazioni di mero stile, che denotano un’assenza di effettiva e concreta ponderazione delle memorie presentate dal privato e che, quindi, svuotano di contenuti l’art. 10-bis L. 241/1990.

E’ fondato il primo, assorbente, motivo di ricorso, con cui si deduce la violazione dell’art. 10-bis L. 241/1990.
La comunicazione dei motivi ostativi al rilascio del provvedimento ha lo scopo di far conoscere alle Pubbliche amministrazioni, in contraddittorio rispetto alle motivazioni da esse assunte in base agli esiti dell'istruttoria espletata, ragioni fattuali e giuridiche dell'interessato che potrebbero contribuire a far assumere agli organi competenti una diversa determinazione finale, derivante, appunto, dalla ponderazione di tutti gli interessi in campo e determinando una possibile riduzione del contenzioso fra le parti (cfr., Consiglio di Stato, sez. III, 01/08/2014, n. 4127).
Come, peraltro, avviene in materia processuale, anche in fase istruttoria del procedimento amministrativo, una volta che la parte privata abbia dettagliatamente e documentalmente cercato di provare le proprie ragioni, sta alla parte pubblica motivare in ordine alle ragioni ostative all'accoglimento dell'istanza, confutando le affermazioni della parte interessata. Ciò è necessario al fine del rispetto dell'art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, norma che altrimenti sarebbe del tutto priva di utilità nel nostro sistema e che rappresenta l'esplicitazione del principio costituzionale di buon andamento e imparzialità dell'Amministrazione (cfr., TAR Napoli (Campania) sez. IV, 12/06/2014, n. 3249).
Tali principi naturalmente non impongono alla p.a. la precisa e puntuale contestazione di tutti i rilievi mossi dall’istante, ma, comunque, comportano la necessità che la p.a. risponda anche con una motivazione complessiva alle perplessità evidenziate in sede di presentazioni di memorie, in modo tale da dimostrare che, nonostante le osservazioni del privato, la p.a. non è in grado di mutare il proprio convincimento.
Ne consegue che è certamente annullabile per violazione dell’art. 10-bis il provvedimento che, nonostante la presentazioni di memorie, confermi quanto già evidenziato nella comunicazione dei motivi ostativi senza dimostrare di aver esaminato quanto rilevato nelle memorie. Tali casi normalmente si verificano quando la p.a. rigetta l’istanza con motivazioni di mero stile, che denotano un’assenza di effettiva e concreta ponderazione delle memorie presentate dal privato e che, quindi, svuotano di contenuti l’art. 10-bis L. 241/1990 TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 09.12.2014 n. 2085 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La mancanza di sottoscrizione di un atto amministrativo non è idonea a metterne in discussione la validità e gli effetti ove, come nel caso di specie, detta omissione non metta in dubbio la riferibilità dello stesso all'organo competente.
Non coglie nel segno il primo mezzo, col quale si deduce la nullità dell’atto impugnato per la mancanza di sottoscrizione dell’autore dell’atto, ma secondo costante orientamento giurisprudenziale, dal quale non vi è motivo di discostarsi, la mancanza di sottoscrizione di un atto amministrativo non è idonea a metterne in discussione la validità e gli effetti ove, come nel caso di specie, detta omissione non metta in dubbio la riferibilità dello stesso all'organo competente (TAR Napoli, sez. III, 04.05.2012 n. 2039).
Il motivo va quindi disatteso (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 09.12.2014 n. 2078 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'atto di compravendita di un immobile non in regola con la normativa urbanistica è nullo.
Questa S.C. ha avuto occasione di recente di affermare, discostandosi dal proprio precedente orientamento, che la non perfetta formulazione dell'art. 40, secondo comma, l. 28.02.1985 n. 47, consente tuttavia di affermare che dalla stesa è desumibile il principio generale della nullità (di carattere sostanziale) degli atti di trasferimento di immobili non in regola con la normativa urbanistica, cui si aggiunge una nullità di carattere formale per gli atti di trasferimento di immobili non in regola con la normativa urbanistica o per i quali è in corso la regolarizzazione, ove tali circostanze non risultino dagli atti stessi
Con il primo motivo il ricorrente deduce che la sentenza impugnata sarebbe dovuta entrare nel merito della domanda di sanatoria, rilevando le inesattezze e false attestazioni nella stessa contenute (come accertate dalla C.T.U.) e stabilire che gli abusi realizzati avevano dato vita ad una autonoma costruzione, assolutamente diversa da quella progettata con riferimento alla quale era stata rilasciata la licenza edilizia, per cui detta sanatoria non poteva conseguire accoglimento da parte del Comune e gli abusi edilizi perpetrati sull'immobile sarebbero rimasti tali, e quindi non poteva assolutamente esserle riconosciuta la possibilità prevista dalla legge 47/1985 di legittimare e rendere commerciabile l'immobile derivato da quegli abusi.
Il motivo è fondato.
Questa S.C. ha avuto occasione di recente di affermare, discostandosi dal proprio precedente orientamento, che la non perfetta formulazione dell'art. 40, secondo comma, l. 28.02.1985 n. 47, consente tuttavia di affermare che dalla stesa è desumibile il principio generale della nullità (di carattere sostanziale) degli atti di trasferimento di immobili non in regola con la normativa urbanistica, cui si aggiunge una nullità di carattere formale per gli atti di trasferimento di immobili non in regola con la normativa urbanistica o per i quali è in corso la regolarizzazione, ove tali circostanze non risultino dagli atti stessi (sent. 17.10.2013 n. 23591).
La Corte di appello di Roma non si è attenuta a tale principio (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 05.12.2014 n. 25811 - link a www.avvocatocassazionista.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’allevamento di animali rientra nell’attività agricola ai sensi dell’articolo 2135 del codice civile e l’allevamento delle specie avicole in particolare, salvo che per dimensioni e tecniche ricada nell’attività industriale, è considerata agricola per espressa previsione normativa (cfr. legge 03.05.1971, n. 419 emanata per l’applicazione dei Regolamenti comunitari n. 1619 del 1968 e n. 95 del 1969), quand’anche abbia un valore preminente rispetto alla terra.
Tanto al fine di rilevare la compatibilità dell’attività di allevamento di colombi qui in questione con la tipizzazione della zona in cui è insediata, destinata dal piano regolatore generale ad attività agricola.
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Quanto alla compatibilità dell’insediamento avicolo con la disciplina dettata dall’articolo 54 del regolamento comunale di igiene, va evidenziato che di nessuna utilità è la delimitazione del centro abitato di cui alla delibera di giunta municipale n. 126 del 1996, trattandosi di perimetrazione adottata ai fini del codice della strada.
La norma regolamentare, laddove vieta la presenza di stalle, pollai e altri depositi di animali da cortile all’interno dell’abitato del capoluogo e delle frazioni come perimetrati con delibera consiliare fa riferimento ad un atto di pianificazione degli allevamenti zootecnici ispirato a criteri urbanistico–edilizi e igienico-sanitari, che comportano valutazioni di natura latamente tecnico–discrezionale, appartenenti come tali alla competenza dell’organo consiliare.
Tutt’altra natura ha la perimetrazione del centro abitato ai fini del codice della strada, essendo questa predisposta in funzione delle esigenze di organizzazione del traffico, per stabilire i limiti di velocità, la segnaletica e tutto quanto rileva nell’ambito della circolazione stradale.
La differenza tra le diverse perimetrazioni non ne consente un utilizzo al di fuori della finalità per cui è stata adottata ed in particolare ai fini della disciplina urbanistica nella quale ricade anche l’igiene.

Innanzi tutto va evidenziato che l’allevamento di animali rientra nell’attività agricola ai sensi dell’articolo 2135 del codice civile e l’allevamento delle specie avicole in particolare, salvo che per dimensioni e tecniche ricada nell’attività industriale, è considerata agricola per espressa previsione normativa (cfr. legge 03.05.1971, n. 419 emanata per l’applicazione dei Regolamenti comunitari n. 1619 del 1968 e n. 95 del 1969), quand’anche abbia un valore preminente rispetto alla terra.
Tanto al fine di rilevare la compatibilità dell’attività di allevamento di colombi qui in questione con la tipizzazione della zona in cui è insediata, destinata dal piano regolatore generale ad attività agricola.
Fermo tanto, quanto alla compatibilità dell’insediamento avicolo con la disciplina dettata dall’articolo 54 del regolamento comunale di igiene, va evidenziato che di nessuna utilità è la delimitazione del centro abitato di cui alla delibera di giunta municipale n. 126 del 1996, trattandosi di perimetrazione adottata ai fini del codice della strada.
La norma regolamentare, laddove vieta la presenza di stalle, pollai e altri depositi di animali da cortile all’interno dell’abitato del capoluogo e delle frazioni come perimetrati con delibera consiliare fa riferimento ad un atto di pianificazione degli allevamenti zootecnici ispirato a criteri urbanistico–edilizi e igienico-sanitari, che comportano valutazioni di natura latamente tecnico–discrezionale, appartenenti come tali alla competenza dell’organo consiliare.
Tutt’altra natura ha la perimetrazione del centro abitato ai fini del codice della strada, essendo questa predisposta in funzione delle esigenze di organizzazione del traffico, per stabilire i limiti di velocità, la segnaletica e tutto quanto rileva nell’ambito della circolazione stradale.
La differenza tra le diverse perimetrazioni non ne consente un utilizzo al di fuori della finalità per cui è stata adottata ed in particolare ai fini della disciplina urbanistica nella quale ricade anche l’igiene (sulla distinzione tra la delimitazione del codice della strada e quella prevista ai fini della disciplina urbanistica, cfr., Cons. Stato, IV, 05.04.2005, n. 1560; TAR Campania, Salerno, 20.05.2013, n. 1118; TAR Puglia, Bari, III, 10.05.2013, n. 709).
Peraltro non è irrilevante che l’articolo 54 del regolamento comunale richieda che la perimetrazione sia adottata con delibera di consiglio comunale, mentre la delibera n. 126 del 1996 è atto della giunta comunale.
In conclusione, deve ritenersi fondata la censura dedotta da parte ricorrente di violazione o falsa applicazione dell’articolo 54 del regolamento comunale di igiene.
Ciò stante, in mancanza della perimetrazione del centro abitato prevista dalla norma regolamentare, sulla base della perizia di parte, non contraddetta con mezzi probatori adeguati, deve ritenersi che la zona interessata dalla azienda avicola è al di fuori della zona abitata.
Nella relazione, infatti, si dà atto che la zona nell’ultimo ventennio non ha subito variazioni dovute a nuove costruzioni e ricade a tutt’oggi in zona agricola B2 del piano regolatore generale vigente (paesaggio agrario tipico), nella quale sono consentiti solo interventi di ristrutturazione e ampliamento dei fabbricati esistenti alla data di adozione del PRG (03.03.1969).
Tanto risulta visivamente dalle rappresentazioni fotografiche e planimetriche allegate alla relazione.
Quanto all’ulteriore divieto pure posto dalla norma regolamentare richiamata, della distanza inferiore a metri 50 dall’abitazione più vicina (ipotesi chiaramente ulteriore al divieto di allocazione all’interno dell’abitato), la disposizione non viene più in considerazione, atteso che è stata rimossa la parte dell’impianto che non rispettava tale distanza (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.12.2014 n. 5990 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il certificato di agibilità, a norma dell’art. 24 del T.U. sull’edilizia, unicamente “attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti”, avendo oltretutto il Consiglio di Stato efficacemente scolpito la diversa funzione che rivestono i titoli abilitativi edilizi e il certificato di agibilità, precisando al riguardo che la “funzione del certificato di agibilità è accertare che l'immobile, al quale si riferisce, è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti; invece funzione specifica della d.i.a. (come del permesso di costruire, n.d.s.) è il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche”.
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Il certificato di agibilità è del tutto inidoneo ad attestare la specifica destinazione d’uso (commerciale nel caso di specie).

... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia, del provvedimento n. 3949 dell’11/07/2014, avente ad oggetto autorizzazione al trasferimento "fuori sede" della rivendita tabacchi dei ricorrenti.
...
- ritenuto che il trasferimento di una rivendita fuori zona è subordinato non solo all’accertamento dei requisiti e condizioni di cui all’art. 10, D.M. n. 38/2013 ma anche all’osservanza del procedimento all’uopo definito dall’art. 11, commi 2 e ss. stesso decreto, dovendo dunque la perizia giurata allegata all’istanza, indicare le tre rivendite più vicine non solo alla sede proposta ma anche a quella attuale, la cui indicazione difetta nella perizia de qua prodotta dall’Avvocatura di Stato, come attesta lo stesso provvedimento gravato e occorrendo altresì allegare alla domanda “idonea documentazione che attesta la regolarità urbanistico–edilizia del locale proposto, nonché la relativa destinazione d’uso commerciale” (art. 11, coma 3, D.M. n. 38/2013), laddove il certificato di agibilità prodotto alla P.A. dalla controinteressata, a norma dell’art. 24 del T.U. sull’edilizia, unicamente “attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti”, come del resto la giurisprudenza ha già precisato (TAR Campania–Napoli, Sez. III, n. 2240/2010; TAR Lombardia–Milano, Sez. II, 17.09.2009 n. 4672), avendo oltretutto il Consiglio di Stato efficacemente scolpito la diversa funzione che rivestono i titoli abilitativi edilizi e il certificato di agibilità, precisando al riguardo che la “funzione del certificato di agibilità è accertare che l'immobile, al quale si riferisce, è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti; invece funzione specifica della d.i.a. (come del permesso di costruire, n.d.s.) è il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche” (Consiglio di Stato sez. IV 26.08.2014 n. 4309);
- tenuto anche conto che il certificato di agibilità è del tutto inidoneo ad attestare la specifica destinazione d’uso commerciale (TAR Campania-Napoli, Sez. III, ordinanza 05.12.2014 n. 2027 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La messa a gara degli spazi pubblici per la collocazione degli impianti pubblicitari è pienamente legittima.
E' corretto allocare l'uso degli spazi pubblici contingentati con gara, dovendosi altrimenti ricorrere all'unico criterio alternativo dell'ordine cronologico di presentazione delle domande accoglibili, che è certo meno idoneo ad assicurare l'interesse pubblico all'uso più efficiente del suolo pubblico e quello dei privati al confronto concorrenziale.
Il procedimento di gara non contrasta infatti con la libera espressione dell'attività imprenditoriale di cui si tratta, considerato, in linea generale, che la procedura ad evidenza pubblica è istituto tipico di garanzia della concorrenza nell'esercizio dell'attività economica privata incidente sull'uso di risorse pubbliche e che, in particolare, la concessione tramite gara dell'uso di beni pubblici per l'esercizio di attività economiche private è istituto previsto nell'ordinamento, essendo perciò fondata la qualificazione della gara come strumento per assicurare il principio costituzionale della libera iniziativa economica anche nell'accesso al mercato degli spazi per la pubblicità.
Quanto sopra è peraltro coerente con i principi comunitari, in particolare di non discriminazione, di parità di trattamento e di trasparenza. Sul presupposto per cui con la concessione di una'area pubblica si fornisce un'occasione di guadagno a soggetti operanti sul mercato (come nel caso di specie), si impone di conseguenza una procedura competitiva per il rilascio della concessione, necessaria per l'osservanza dei ricordati principi a presidio e tutela di quello, fondamentale, della piena concorrenza.
Inoltre, proprio perché le concessioni di beni pubblici di rilevanza economica (e tra questi vanno comprese anche le concessioni di cui si controverte) sono idonee a fornire un'occasione di guadagno a soggetti operanti sul libero mercato devono applicarsi i principi discendenti dall'art. 81 del Trattato UE e delle Direttive comunitarie in materia di appalti, quali quelli della loro attribuzione mediante procedure concorsuali, trasparenti, non discriminatorie, nonché tali da assicurare la parità di trattamento ai partecipanti.
Da ciò ne consegue, ulteriormente, che il concessionario di un bene non vanta alcuna aspettativa al rinnovo del rapporto, il cui diniego, nei limiti della ragionevolezza e della logicità dell'agire non necessita di ulteriore motivazione. In sede di rinnovo di una concessione, il precedente concessionario va posto sullo stesso piano di un altro soggetto richiedente (TRGA Trentino-Alto Adige-Bolzano, sentenza 05.12.2014 n. 278 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI: Per escludere radicalmente ogni possibilità di legittimo affidamento "in house" è sufficiente che vi sia, sebbene in minima percentuale, una partecipazione privata al capitale sociale.
La giurisprudenza comunitaria è tassativa nel ritenere impossibile la partecipazione ancorché in percentuale minima di soggetti privati alle società in house e tale posizione è stata ripetutamente confermata dal Consiglio di Stato, a partire dall'Adunanza Plenaria n 1 del 2008.
È pacifico, nell'attuale stato di evoluzione giurisprudenziale, che il requisito della totalità della proprietà pubblica del capitale della società "in house" debba sussistere in termini assoluti. Invero, l'affidamento diretto (in house) di un servizio pubblico viene consentito tutte le volte in cui un ente pubblico decida di affidare la gestione del servizio, al di fuori del sistema della gara, avvalendosi di una società esterna (ossia, soggettivamente separata) che presenti caratteristiche tali da poterla qualificare come una "derivazione" o una "longa manus" dell'ente stesso.
Infatti, in ragione del cd. controllo analogo, che richiede non solo la necessaria partecipazione pubblica totalitaria (posto che la partecipazione, pur minoritaria, di un'impresa privata al capitale di una società, alla quale partecipi anche l'Amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla medesima un controllo analogo a quello che essa svolge sui propri servizi) e la presenza di strumenti di controllo da parte dell'ente più incisivi rispetto a quelli previsti dal diritto civile.
Inoltre non deve essere statutariamente consentito che una quota del capitale sociale, anche minoritaria, possa essere alienata a soggetti privati; il consiglio di amministrazione della società deve essere privo di rilevanti poteri gestionali; all'ente pubblico controllante deve essere consentito l'esercizio di poteri maggiori rispetto a quelli che il diritto societario riconosce normalmente alla maggioranza sociale; l'impresa non deve acquisire una vocazione commerciale che renda precario il controllo dell'ente pubblico, con la conseguente apertura obbligatoria della società ad altri capitali, fino all'espansione territoriale dell'attività a tutta l'Italia e all'estero; le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell'ente affidante, e della cd. "destinazione prevalente dell'attività" (cioè il rapporto di stretta strumentalità fra le attività dell'impresa e le esigenze pubbliche che l'ente controllante è chiamato a soddisfare), l'ente in house non può ritenersi terzo rispetto all'Amministrazione controllante, ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell'Amministrazione stessa. Al contrario, per escludere radicalmente ogni possibilità di legittimo affidamento "in house" è, infatti, sufficiente che vi sia, sebbene in minima percentuale, una partecipazione privata al capitale sociale.
La nuova direttiva comunitaria sulle concessioni 2014/23/UE, che sul punto ammette in talune ipotesi la partecipazione indiretta dei privati alle società in house, non risulta ancora recepita dagli Stati membri, né essa si può considerare self executing, sia per la sua natura, che richiede un recepimento e adattamento a livello nazionale, sia perché non è ancora scaduto il termine per il recepimento stesso (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 04.12.2014 n. 629 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ENTI LOCALIIl prefetto annulla le multe in autotutela.
Stop alle multe dell'autovelox: il prefetto annulla in autotutela le sanzioni impugnate dagli automobilisti perché l'apparecchio si trova su di una strada urbana, per quanto pericolosa, e la polizia municipale non ha provveduto alla contestazione immediata. Ma attenzione: l'ufficio del governo non può pretendere dal comune, che già ha fatto cassa, i verbali per i quali non è stato proposto ricorso o risulta pagata l'oblazione; la sanzione inflitta dall'ente locale, infatti, si è ormai consolidata e non può essere il prefetto a rimodularla.

È quanto emerge dalla
sentenza 03.12.2014 n. 860, pubblicata dalla I Sez. del TAR Abruzzo-L'Aquila.
È accolto solo in parte il ricorso di un comune del Teramano: la statale passa nel territorio amministrato e il velox è piazzato su di una strada che deve ritenersi rientrante del centro abitato. Ha sbagliato, insomma, la polizia locale a elevare i verbali senza la contestazione immediata richiesta dal codice della strada.
Ma l'ufficio territoriale del governo ha esagerato, ordinando al comune di consegnare tutti i verbali delle multe-velox, compresi quelli per i quali sono scaduti i termini per impugnare o è stata pagata l'oblazione: invece il pagamento in misura ridotta determina una vera e propria estinzione della controversia che non è più recuperabile dal trasgressore ma anche dalla parte pubblica (
articolo ItaliaOggi del 18.12.2014).

URBANISTICA: Le osservazioni presentate dai privati al piano regolatore generale adottato dal Comune, non sono rimedi giuridici, ma semplici apporti collaborativi dati dai cittadini alla formazione del piano; pertanto, il mancato accoglimento delle osservazioni non richiede specifica motivazione, quando siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano.
D’altronde, per giurisprudenza altrettanto pacifica, l'onere di motivazione gravante sull'Amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le scelte effettuate incidano su zone territorialmente circoscritte, ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte predette, senza necessità di una motivazione puntuale e mirata, così come, nell'ambito del procedimento volto all'adozione dello strumento urbanistico, non occorre controdedurre singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e opposizione; in sostanza le scelte urbanistiche richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un'area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative; così come mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate, per le quali quest'ultimo prevedeva diversa destinazione, non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un'area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale.

Infondata è anche la doglianza di cui al IV motivo di ricorso.
Per giurisprudenza consolidata da cui il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi, le osservazioni presentate dai privati al piano regolatore generale adottato dal Comune, non sono rimedi giuridici, ma semplici apporti collaborativi dati dai cittadini alla formazione del piano; pertanto, il mancato accoglimento delle osservazioni non richiede specifica motivazione, quando siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano (TAR Umbria 21.01.2010, n. 24; TAR Campania Napoli sez. I, 02.07.2007, n. 6414).
D’altronde, per giurisprudenza altrettanto pacifica, l'onere di motivazione gravante sull'Amministrazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le scelte effettuate incidano su zone territorialmente circoscritte, ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l'indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte predette, senza necessità di una motivazione puntuale e mirata, così come, nell'ambito del procedimento volto all'adozione dello strumento urbanistico, non occorre controdedurre singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e opposizione; in sostanza le scelte urbanistiche richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un'area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative; così come mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate, per le quali quest'ultimo prevedeva diversa destinazione, non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un'area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale (ex multis di recente Consiglio di Stato sez. IV, 01.07.2014, n. 3294).
Nella fattispecie, come detto, i ricorrenti non sono titolari di una aspettativa qualificata al mantenimento di una determinata destinazione edificatoria (per effetto di piani attuativi approvati, convenzioni di lottizzazione o urbanistiche o giudicati di annullamento di diniego di titolo edilizio cfr. Consiglio di Stato sez. VI, 04.11.2013, n. 5292) ma soltanto di un'aspettativa generica ad una “non reformatio in peius”, analoga a quella di ogni altro proprietario che aspiri ad un uso proficuo dell'immobile
(TAR Umbria, sentenza 03.12.2014 n. 591 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sull'inapplicabilità alle concessione di servizi delle disposizioni contenute relative al sub-procedimento di verifica dell'anomalia delle offerte contenute nel d.lgs. n. 163/2006.
Le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 163/2006, relative al sub-procedimento di verifica dell'anomalia delle offerte, in particolare l'art. 86, non sono applicabili ad una procedura di affidamento in concessione delle attività di fornitura, installazione, gestione e manutenzione di manufatti pubblicitari comunali.
Trattandosi, infatti, di una procedura di affidamento di una concessione di servizi ai sensi dell'art. 30 del d.lgs. n. 163/2006, la stessa non è soggetta alle norme del contenute nella parte II di tale corpus normativo, riguardante i contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture nei settori ordinari.
Infatti, il citato art. 30 stabilisce che le procedure di affidamento di concessioni di servizi sono sottratte alla puntuale disciplina del diritto comunitario e del codice dei contratti pubblici, ed invece assoggettate ai principi desumibili dal Trattato e i principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, i principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità.
Pertanto, in nessuno di questi principi generali può essere fatto rientrare l'art. 86, il quale, nel disciplinare i criteri di individuazione delle offerte anormalmente basse, contiene regole puntuali, relative ai presupposti al ricorrere dei quali le stazioni appaltanti sono tenute o meramente facoltizzate a verificare l'eventuale anomalia delle offerte.
Ciò si ricava in particolare dal c.3 dell'art. 86, che rimette alle valutazioni delle stazioni appaltanti la verifica di congruità al di fuori dei casi tassativi previsti dai precedenti commi 1 e 2. Al riguardo, è stato affermato che le valutazioni in questione costituiscono tipica espressione di discrezionalità tecnico-amministrativa, ordinariamente sottratta al sindacato di legittimità del g.a., se non inficiata da evidente irragionevolezza o travisamento dei fatti emersi nell'istruttoria. Quindi, se ciò vale per le procedure di affidamento di appalti pubblici a fortiori la regola in questione è applicabile agli affidamenti di concessioni di servizi.
Si deve conseguentemente dedurre che la portata precettiva del c. 3 dell'art. 86 si risolve nel rinvio alle regole generali dell'agire amministrativo, ed in particolare ai principi in materia di contratti pubblici enunciati dall'art. 2 del d.lgs. n. 163/2006, che sono a loro volta applicabili anche alle concessioni di servizi, in virtù del richiamo espresso dell'art. 30 ai principi generali relativi ai contratti pubblici.
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L'art. 2 del d.lgs. n. 163/2006, dispone che l'affidamento e l'esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture, ai sensi del presente codice, deve garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza.
Da quest'ultima disposizione si ricava che la verifica dell'anomalia dell'offerta è finalizzata alla corretta esecuzione del contratto posto a gara e costituisce una cautela preventiva della stazione appaltante, attraverso la quale essa anticipa nella fase dell'evidenza pubblica antecedente alla conclusione del contratto un approfondimento delle caratteristiche dell'offerta, al fine di saggiarne la sostenibilità economica, in tal modo prevenendo possibili inadempimenti dell'impresa aggiudicataria in fase esecutiva, fonti di gravi ripercussioni per l'interesse pubblico sotteso alla regolare esecuzione dei contratti stipulati dall'amministrazione.
Emerge dunque da questa angolazione la natura ampiamente discrezionale delle valutazioni che sottostanno alla decisione di sottoporre a verifica di anomalia le offerte presentate in sede di gara. Inoltre, secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale l'applicabilità alle concessioni di servizi delle disposizioni del codice dei contratti può avvenire in conseguenza di un richiamo ad esse da parte della normativa di gara, e dunque in virtù di un autovincolo espresso dell'amministrazione aggiudicatrice.
Peraltro, a questo riguardo è necessario un richiamo puntuale, doveroso alla luce della regola del clare loqui cui le amministrazioni sono tenute nella predisposizione dei bandi di gara (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 01.12.2014 n. 5915 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

URBANISTICA: Sulla discrezionalità del potere pubblico di pianificazione urbanistica.
Scopo dichiarato dei ricorrenti è quello di aspirare ad una classificazione non peggiorativa dei terreni di rispettiva proprietà rispetto alla previgente disciplina urbanistica e/o a destinazioni più favorevoli quali quelle concesse ad aree limitrofe, con ciò invocando una generica aspettativa alla “non reformatio in peius” o alla “reformatio in melius” delle destinazioni di zona, che per giurisprudenza pacifica, è posizione sostanziale sfornita di tutela in quanto del tutto cedevole dinanzi alla discrezionalità del potere pubblico di pianificazione urbanistica.
3. Il ricorso è infondato e va respinto.
3.1. Parte ricorrente con le censure di cui al secondo motivo di gravame, lamenta il carattere sfavorevole, rispetto alle previsioni del precedente strumento urbanistico, delle destinazioni impresse in sede di approvazione del nuovo P.R.G. consistenti in parte in destinazione a zona pubblica attrezzata, in parte a parco ed in parte ancora a parcheggi.
Deve anzitutto evidenziarsi quanto alla lamentata destinazione a verde, che il Comune resistente con deliberazione C.C. n. 323/2007 di parziale accoglimento delle osservazioni presentate, ha inserito l’area dei ricorrenti nella perequazione residenziale proprio in considerazione della reiterazione del pregresso vincolo per spazi pubblici, riconoscendo un diritto edificatorio pari all’applicazione di indice territoriale di 0,5 mc/mq.
Tale previsione, non impugnata nemmeno in via presupposta con il ricorso in epigrafe, comporta l’inammissibilità del ricorso in parte qua per difetto di interesse, non avendo parte ricorrente mosso alcuna censura nei confronti di tal scelta perequativa, in linea di principio comunque attributiva di un valore edificatorio all’area dei ricorrenti, senza dunque l’azzeramento del contenuto economico del diritto di proprietà invece caratterizzante i vincoli preordinati all’esproprio (ex multis Consiglio di Stato sez. IV, 27.12.2011, n. 6874).
3.2. Il ricorso va pertanto dichiarato in parte qua inammissibile.
3.3. Le censure rubricate al I motivo sono prive di pregio.
Scopo dichiarato dei ricorrenti, infatti, è quello di aspirare ad una classificazione non peggiorativa dei terreni di rispettiva proprietà rispetto alla previgente disciplina urbanistica e/o a destinazioni più favorevoli quali quelle concesse ad aree limitrofe, con ciò invocando una generica aspettativa alla “non reformatio in peius” o alla “reformatio in melius” delle destinazioni di zona, che per giurisprudenza pacifica, è posizione sostanziale sfornita di tutela (ex plurimis TAR Puglia-Bari sez II, 11.01.2011, n. 214; Consiglio di Stato sez. IV, 04.03.2003 n. 1191; Consiglio di Stato Adunanza Plenaria, 22.12.1999, n. 24) in quanto del tutto cedevole dinanzi alla discrezionalità del potere pubblico di pianificazione urbanistica (ex multis TAR Lombardia Milano sez II, 10.05.2005, n. 934; TAR Toscana sez I, 25.05.2005, n. 2573; TAR Umbria 25.09.2014, n. 505)
(TAR Umbria, sentenza 03.12.2014 n. 591 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAGoogle Earth non sana l’abuso edilizio. Tar Napoli. Le immagini satellitari non hanno data certa e vanno perciò supportate da altri elementi più circostanziati.
In materia di abusi edilizi, le immagini tratte dal software Google Earth non sono idonee a certificare la data di costruzione dell’opera necessaria per la domanda di sanatoria poiché il programma non fornisce informazioni dettagliate sulla provenienza, data di realizzazione e metodo di rilevamento.
Lo ha stabilito il
TAR Campania-Napoli, Sez. II, con la sentenza 27.11.2014 n. 6118.
I giudici hanno dato ragione a un Comune che, contestando la violazione del Testo unico in materia edilizia (Dpr n. 380/2001), aveva bocciato la richiesta di un privato di regolarizzare due porticati da adibire a box auto e un muro di confine con apertura di un accesso carrabile, avvalendosi del cosiddetto Piano Casa della Regione Campania all’epoca già prorogato (legge regionale n. 19/2009, modificata da leggi regionali n. 1 e 4/2011 e 1/2012).
La misura consente ampliamenti straordinari, per uso abitativo, sino 20% della volumetria esistente anche in deroga agli strumenti urbanistici vigenti, entro un limite temporale dall’entrata in vigore (dai 18 mesi iniziali, la scadenza è al 10.01.2016). Secondo la sentenza, il no alla sanatoria è legittimo se anche per tali opere –qui già oggetto di ordine di demolizione dopo un sequestro– manca la prova valida della data di esecuzione che serve ad accertarne il requisito della cosiddetta doppia conformità chiesto dalla norma (articolo 36 del Tu), per cui l’abuso deve essere autorizzabile sia al momento della domanda che in quello in cui è commesso.
E, in particolare, se per tale onere il privato fornisce alla Pa foto satellitari scattate da Google, nel caso in esame per dimostrare che i lavori sono successivi all’entrata in vigore del Piano Casa.
Il Tar ha escluso che «i rilevamenti tratti da Google Earth possano costituire, in assenza di più circostanziati elementi che la ricorrente non ha fornito, documenti idonei allo scopo, in considerazione della provenienza del suddetto rilevamento, delle incertezze in merito all’epoca di risalenza delle immagini visualizzate (come emerge dallo stesso sito per impostazione predefinita il software «visualizza le immagini di qualità migliore disponibili per una determinata località», con la precisazione che «a volte potrebbero essere visualizzate immagini meno recenti se sono più nitide rispetto a quelle più recenti»), della genericità delle informazioni relative ai metodi di esecuzione del rilevamento medesimo (a tale riguardo si osserva, peraltro, che le immagini depositate in giudizio risultano essere tratte dalla versione «base del software e non da quelle più evolute predisposte per scopi commerciali)»
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTINelle gare pubbliche regolarizzazioni in dubbio per il Durc. Appalti. Sentenze di segno opposto.
Forti incertezze sui Durc (documento unico di regolarità contributiva) per le imprese che intendano partecipare a gare pubbliche.
La sentenza 27.11.2014 n. 1153 del TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, ritiene che l’impresa debba attestare con Durc la regolarità contributiva con riferimento al momento della partecipazione alla gara. Non si possono quindi regolarizzare i debiti previdenziali fruendo del termine quindicinale che l’ente previdenziale è tenuto ad assegnare all’impresa per fruire di «agevolazioni normative e contributive» (art. 7 Dm lavoro 24.10.2007). La regolarizzazione sarebbe possibile solo per il cosiddetto Durc “interno”, ossia quello rilasciato dall’Inps per il riconoscimento di benefici o sgravi contributivi all’impresa, mentre per partecipare alle gare occorre il Durc “esterno”, per il quale non è prevista la regolarizzazione.
Di segno opposto è la sentenza del Consiglio di Stato 14.10.2014 n. 5064, la quale sottolinea che l’ente previdenziale è obbligato a consentire all’impresa di regolarizzare la posizione, e ciò si riverbera in senso favorevole sugli appalti.
La tesi del Consiglio di Stato è condivisa anche dal Tar del Lazio, che nell’ordinanza sospensiva 04.12.2014 n. 6255 si è espresso favorevolmente alla regolarizzazione. La possibilità di fruire di 15 giorni per regolarizzare la posizione contributiva (art. 7 Dm 24.10.2007), senza quindi distinguere tra Durc interno ed esterno, sembra anche coerente con l’articolo 4 del Dl 34/2014 (convertito in legge 78/2014), norma che consentirà di sostituire il Durc con un’interrogazione telematica. Quando l’interrogazione sarà possibile (si attende un decreto del Lavoro) essa sarà valida sia a fini previdenziali, sia per partecipare a gare di appalto, ed è previsto che siano individuati i «requisiti di regolarità» e le «tipologie di pregresse irregolarità» ostative al godimento di benefici normativi e contributivi.
Quindi, non esiste né una regolarità assoluta, né un’irregolarità netta, ma sono possibili zone intermedie, coerenti all’elasticità che l’articolo 38 del Dlgs 167/2006 (sugli appalti pubblici) individua con il concetto di «violazioni gravi, definitivamente accertate» che il Durc aiuta ad individuare. Inoltre va tenuta presente la modifica della legislazione sugli appalti introdotta dall’art. 39, co.1, del Dl 90/2014 (convertito in legge 114/2014): l’articolo 38 del Dlgs 163/2006 sui Lavori Pubblici è stato arricchito del comma 2-bis , il quale consente una certa elasticità e quindi autorizza a leggere il Durc come regolarizzabile.
La norma del 2014 prevede infatti che in mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale della partecipazione a gare generi una sanzione tra mille e 50mila euro e apra le porte ad una regolarizzazione entro 10 giorni. Se esistono quindi le procedure per regolarizzare il Durc e anche le sanzioni per bilanciare eventuali irregolarità, anche il Durc può essere regolarizzato
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI SERVIZICirca l’assunto per cui l’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 non sarebbe applicabile alle concessioni di servizi, va richiamato quell’orientamento giurisprudenziale che al principio espresso da detta disposizione –in base al quale la partecipazione alle gare pubbliche richiede il possesso di alcuni inderogabili requisiti di moralità– riconosce le caratteristiche di principio di carattere generale, quindi valido anche nelle gare dirette all’affidamento di concessioni di servizi (ai sensi dell’art. 30, comma 3, del d.lgs. n. 163 del 2006), in quanto fondamentale principio di ordine pubblico economico, che soddisfa l’imprescindibile esigenza che il soggetto che contrae con l’Amministrazione sia “affidabile” e perciò in possesso dei requisiti di ordine generale e di moralità che la norma tipizza.
Correttamente, allora, l’Amministrazione comunale ha nella fattispecie dato attuazione alle previsioni dell’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, indipendentemente dalla sussistenza o meno di un espresso richiamo alle stesse da parte della lex specialis della gara, stante la portata precettiva della relativa disciplina e l’automatica efficacia integrativa della normativa di gara che comunque ne scaturiva.

Quanto, poi, all’assunto per cui l’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 non sarebbe applicabile alle concessioni di servizi, va richiamato quell’orientamento giurisprudenziale che al principio espresso da detta disposizione –in base al quale la partecipazione alle gare pubbliche richiede il possesso di alcuni inderogabili requisiti di moralità– riconosce le caratteristiche di principio di carattere generale, quindi valido anche nelle gare dirette all’affidamento di concessioni di servizi (ai sensi dell’art. 30, comma 3, del d.lgs. n. 163 del 2006), in quanto fondamentale principio di ordine pubblico economico, che soddisfa l’imprescindibile esigenza che il soggetto che contrae con l’Amministrazione sia “affidabile” e perciò in possesso dei requisiti di ordine generale e di moralità che la norma tipizza (v. Cons. Stato, Sez. VI, 21.05.2013 n. 2725).
Correttamente, allora, l’Amministrazione comunale ha nella fattispecie dato attuazione alle previsioni dell’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, indipendentemente dalla sussistenza o meno di un espresso richiamo alle stesse da parte della lex specialis della gara, stante la portata precettiva della relativa disciplina e l’automatica efficacia integrativa della normativa di gara che comunque ne scaturiva (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 31.01.2012 n. 467, circa il principio per cui la funzione della regolamentazione dettata in materia dal d.lgs. n. 163 del 2006 comporta che le relative disposizioni entrino a far parte ex se della disciplina della procedura di evidenza pubblica, senza necessità che la cogenza delle stesse venga prevista nel bando o nel disciplinare; v., da ultimo, anche Cons. Stato, Ad. plen., 25.02.2014 n. 9 e 30.07.2014 n. 16, a proposito del carattere perentorio degli adempimenti doverosi di cui all’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 con l’effetto di eterointegrazione della normativa di gara che la portata imperativa della disposizione di legge produce)
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 27.11.2014 n. 1153 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl Collegio concorda con quell’orientamento giurisprudenziale che considera inapplicabile la norma in esame (dell’art. 31, comma 8, del decreto-legge n. 69 del 2013, conv. dalla legge n. 98 del 2013) alle ipotesi in cui il DURC viene acquisito dall’ente appaltante per la verifica della sussistenza del requisito di partecipazione alla gara ex art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006.
A fondamento di tale indirizzo è la considerazione che:
1) l’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 richiede che il requisito in materia di regolarità contributiva, al pari di tutti quelli di ordine generale, sussista già al momento della partecipazione alla gara e permanga fino al momento della stipula del contratto, sì che non risulta ammissibile che la regolarità contributiva sia verificabile con riferimento ad una fase temporale (scadenza del termine di quindici giorni decorrente dalla richiesta di regolarizzazione compiuta nel corso della gara) successiva al momento della partecipazione alla selezione;
2) una diversa interpretazione non appare compatibile con i principi di tutela dell’interesse pubblico alla scelta di un contraente affidabile e della par condicio tra le imprese concorrenti, in quanto comporterebbe la possibilità di partecipare in ogni caso alle gare per le imprese in stato di irregolarità contributiva, potendo poi fidare esse sulla possibilità di sanare la propria posizione dopo il preavviso di DURC negativo da parte dell’INPS, con evidente violazione della ratio della disposizione, che nella regolarità contributiva dell’impresa vuole apprezzare non solo un dato formale, ma un dato di affidabilità complessiva della ditta partecipante alla gara;
3) la regolarità contributiva è requisito indispensabile non solo per la partecipazione alla gara ma anche per la stipulazione del contratto, con la conseguenza che l’impresa deve essere in regola con i relativi obblighi fin dalla presentazione della domanda e conservare tale regolarità per tutto lo svolgimento della procedura di gara, posto che la cosiddetta correttezza contributiva non costituisce un dato che possa essere temporaneamente frazionato, o virtualmente ricostruito ex post, attenendo alla diligente condotta dell’impresa in riferimento a tutte le obbligazioni contributive, sia relative a periodi precedenti sia maturate nel periodo in cui è stata espletata la gara, quale indice rivelatore dell’irreprensibilità dell’impresa nei rapporti con le proprie maestranze ma anche della sua capacità di far fronte alle relative obbligazioni, quindi dell’affidabilità della stessa nei confronti dell’ente appaltante;
4) poiché il requisito per la partecipazione alla gara è quello della regolarità contributiva –di cui il DURC costituisce una mera attestazione formale da parte dell’ente previdenziale–, l’ordinaria diligenza esige che il concorrente verifichi già da solo l’assenza di debiti previdenziali, e non può dunque enfatizzarsi la portata della norma procedimentale di cui all’art. 31, comma 8, del decreto-legge n. 69 del 2013 per ritenere che il requisito della regolarità contributiva debba sussistere “solamente” al momento di scadenza del termine quindicinale che l’ente previdenziale è tenuto ad assegnare all’impresa per la regolarizzazione della posizione contributiva;
5) la regolarizzazione ex art. 31, comma 8, del decreto-legge n. 69 del 2013, nell’attribuire rilevanza a date condizioni per il conseguimento del DURC positivo, assume a riferimento parametri diversi da quelli previsti dall’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, a proposito in particolare della soglia di rilevanza delle inadempienze contributive ostative alla partecipazione alla gara;
6) l’antinomia tra le due disposizioni va in definitiva risolta sulla base del principio di specialità, sicché l’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 continua a disciplinare in via autonoma i presupposti per la partecipazione alle gare, mentre l’art. 31, comma 8, del decreto-legge n. 69 del 2013 si applica al solo DURC c.d. interno, ossia quello redatto dall’INPS per il riconoscimento di benefici o sgravi contributivi alla ditta, e non riguarda invece il documento relativo alla verifica dei requisiti per la partecipazione alle gare, che non può virtualmente attribuire una regolarità contributiva ad impresa che ne era originariamente priva. Dal che la legittimità della determinazione adottata dall’Amministrazione comunale in ragione del DURC negativo acquisito a carico della ricorrente.

Altra doglianza investe la sussistenza stessa dell’irregolarità contributiva posta a base dell’atto impugnato.
La ricorrente, in particolare, richiama la disposizione dell’art. 31, comma 8, del decreto-legge n. 69 del 2013, conv. dalla legge n. 98 del 2013 (“Ai fini della verifica per il rilascio del documento unico di regolarità contributiva (DURC), in caso di mancanza dei requisiti per il rilascio di tale documento gli Enti preposti al rilascio, prima dell’emissione del DURC o dell’annullamento del documento già rilasciato, invitano l’interessato, mediante posta elettronica certificata o con lo stesso mezzo per il tramite del consulente del lavoro ovvero degli altri soggetti di cui all’articolo 1 della legge 11.01.1979, n. 12, a regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a quindici giorni, indicando analiticamente le cause della irregolarità”), e ne desume l’irrilevanza del DURC negativo emesso a suo carico perché non preceduto dall’invito alla regolarizzazione, avviso che avrebbe consentito alla stessa di sanare il debito contributivo e di acquisire pertanto il titolo per la partecipazione alla gara.
La censura è infondata.
Seppur in presenza di pronunce di diverso tenore, il Collegio concorda con quell’orientamento giurisprudenziale che considera inapplicabile la norma in esame alle ipotesi in cui il DURC viene acquisito dall’ente appaltante per la verifica della sussistenza del requisito di partecipazione alla gara ex art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 (v. TAR Lazio, Sez. III, 18.07.2014 n. 7732; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 02.07.2014 n. 3619 e 12.06.2014 n. 3334).
A fondamento di tale indirizzo è la considerazione che:
1) l’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 richiede che il requisito in materia di regolarità contributiva, al pari di tutti quelli di ordine generale, sussista già al momento della partecipazione alla gara e permanga fino al momento della stipula del contratto, sì che non risulta ammissibile che la regolarità contributiva sia verificabile con riferimento ad una fase temporale (scadenza del termine di quindici giorni decorrente dalla richiesta di regolarizzazione compiuta nel corso della gara) successiva al momento della partecipazione alla selezione;
2) una diversa interpretazione non appare compatibile con i principi di tutela dell’interesse pubblico alla scelta di un contraente affidabile e della par condicio tra le imprese concorrenti, in quanto comporterebbe la possibilità di partecipare in ogni caso alle gare per le imprese in stato di irregolarità contributiva, potendo poi fidare esse sulla possibilità di sanare la propria posizione dopo il preavviso di DURC negativo da parte dell’INPS, con evidente violazione della ratio della disposizione, che nella regolarità contributiva dell’impresa vuole apprezzare non solo un dato formale, ma un dato di affidabilità complessiva della ditta partecipante alla gara;
3) la regolarità contributiva è requisito indispensabile non solo per la partecipazione alla gara ma anche per la stipulazione del contratto, con la conseguenza che l’impresa deve essere in regola con i relativi obblighi fin dalla presentazione della domanda e conservare tale regolarità per tutto lo svolgimento della procedura di gara, posto che la cosiddetta correttezza contributiva non costituisce un dato che possa essere temporaneamente frazionato, o virtualmente ricostruito ex post, attenendo alla diligente condotta dell’impresa in riferimento a tutte le obbligazioni contributive, sia relative a periodi precedenti sia maturate nel periodo in cui è stata espletata la gara, quale indice rivelatore dell’irreprensibilità dell’impresa nei rapporti con le proprie maestranze ma anche della sua capacità di far fronte alle relative obbligazioni, quindi dell’affidabilità della stessa nei confronti dell’ente appaltante;
4) poiché il requisito per la partecipazione alla gara è quello della regolarità contributiva –di cui il DURC costituisce una mera attestazione formale da parte dell’ente previdenziale–, l’ordinaria diligenza esige che il concorrente verifichi già da solo l’assenza di debiti previdenziali, e non può dunque enfatizzarsi la portata della norma procedimentale di cui all’art. 31, comma 8, del decreto-legge n. 69 del 2013 per ritenere che il requisito della regolarità contributiva debba sussistere “solamente” al momento di scadenza del termine quindicinale che l’ente previdenziale è tenuto ad assegnare all’impresa per la regolarizzazione della posizione contributiva;
5) la regolarizzazione ex art. 31, comma 8, del decreto-legge n. 69 del 2013, nell’attribuire rilevanza a date condizioni per il conseguimento del DURC positivo, assume a riferimento parametri diversi da quelli previsti dall’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, a proposito in particolare della soglia di rilevanza delle inadempienze contributive ostative alla partecipazione alla gara;
6) l’antinomia tra le due disposizioni va in definitiva risolta sulla base del principio di specialità, sicché l’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 continua a disciplinare in via autonoma i presupposti per la partecipazione alle gare, mentre l’art. 31, comma 8, del decreto-legge n. 69 del 2013 si applica al solo DURC c.d. interno, ossia quello redatto dall’INPS per il riconoscimento di benefici o sgravi contributivi alla ditta, e non riguarda invece il documento relativo alla verifica dei requisiti per la partecipazione alle gare, che non può virtualmente attribuire una regolarità contributiva ad impresa che ne era originariamente priva. Dal che la legittimità della determinazione adottata dall’Amministrazione comunale in ragione del DURC negativo acquisito a carico della ricorrente.
Un’ultima questione riguarda l’irregolarità fiscale, anch’essa posta a fondamento dell’atto impugnato, ma secondo la ricorrente insuscettibile di produrre effetti nella gara per la duplice ragione che l’importo del debito supera la prescritta soglia di € 10.000,00 solo in ragione dell’avvenuto computo di interessi, sanzioni ed oneri diversi e che difetta il carattere del definitivo accertamento dell’inadempienza.
Sennonché, sia gli interessi legali che le sanzioni amministrative hanno carattere accessorio del debito principale e di questo condividono la natura tributaria ai fini del requisito soggettivo di partecipazione alle gare (v. TAR Puglia, Bari, Sez. I, 08.03.2012 n. 491); quanto al presupposto dell’accertamento definitivo, poi, è stata esibita in giudizio la nota con cui l’Agenzia delle Entrate attesta l’iscrizione a ruolo del debito tributario della ricorrente, essendo peraltro sufficiente che la definitività dell’accertamento dell’irregolarità fiscale sopraggiunga nel corso del procedimento di gara (v. TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 16.02.2012 n. 401), circostanza che si desume, se non altro, dalla richiesta di rateizzazione del debito formulata dalla stessa ditta (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 27.11.2014 n. 1153 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: 1. Atto amministrativo. Autotutela decisoria. Ritiro giustificato per ragioni di opportunità. Natura. È un atto di revoca. Qualificazione. Spetta al G.A.
1.1. In tema di procedure ad evidenza pubblica per assegnazione di concessione demaniale (in relazione ad un’area destinata ad alaggio e sosta delle imbarcazioni da diporto), qualora la P.A. ritiri il bando, nell’esercizio dei poteri di autotutela decisoria, non già a cagione di vizi di legittimità dell’atto inciso bensì per valutazioni di opportunità, il relativo provvedimento va qualificato come revoca e non di annullamento d’ufficio.
1.2. La qualificazione del provvedimento impugnato in sede giurisdizionale, che implica la considerazione di tutto il contenuto del provvedimento e non solo del nomen iuris attribuitogli dall'Amministrazione, è rimessa al Giudice Amministrativo; pertanto, l'errata qualificazione da parte dell'Amministrazione non può integrare un vizio del provvedimento, salvo il giudizio di legittimità da formulare attraverso il parametro della fattispecie legale cui il provvedimento stesso realmente e sostanzialmente appartiene.

2. (segue): diverso apprezzamento dell'interesse pubblico originario. Sufficienza.
Legittimamente l'Autorità demaniale revoca, nell'esercizio di poteri di autotutela decisoria, un bando di assegnazione area demaniale per imbarcazioni da diporto, in esito ad un diverso apprezzamento e, cioè, ad nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, traendo perciò origine l'atto di ritiro non già in sopravvenienze di fatto o di diritto, bensì in un diverso assetto degli interessi pubblici previamente considerati.
Tale possibilità è ammissibile alla stregua della previsione dell’art. 21-quinquies della l. n. 241 del 1990 che, infatti, menziona tra i presupposti legittimanti l’esercizio del potere di revoca anche la “nuova valutazione dell'interesse pubblico originario”; del resto le varie ipotesi contemplate dal ridetto art. 21-quinquies legge n. 241/1990 sono tutte accomunate dalla più ampia discrezionalità nella scelta dell’opportunità di procedere all’adozione di una determinazione in autotutela.

3. (segue): comunicazione di avvio del procedimento. Omissione. Irrilevanza.
3.1. In tema di procedimenti di autotutela decisoria volti al ritiro di bando di gara pubblica per affidamento di concessione demaniale marittima, l’omessa comunicazione di avvio del procedimento non determina alcuna efficacia invalidante sul provvedimento conclusivo e ciò sia in considerazione della stessa natura dell’atto revocato (per l’appunto, il bando di una procedura in itinere), sia, conseguentemente, in quanto alla data di adozione del provvedimento di revoca nessun vantaggio era stato acquisito dal soggetto concorrente alla procedura di gara, laddove risulti che tra la pubblicazione del bando e il relativo atto di revoca sia intercorso un lasso temporale talmente breve da precludere finanche l’esame delle domande dei concorrenti, il cui termine di presentazione non era oltretutto spirato alla data di adozione del provvedimento di autotutela.
3.2. In tema di procedimenti di autotutela decisoria volti al ritiro di bando di gara pubblica per l'affidamento di concessione demaniale marittima, l’omessa comunicazione di avvio del procedimento non vizia il provvedimento conclusivo, laddove risulti dalla motivazione dell'atto di revoca che una partecipazione procedimentale non avrebbe determinato, in rapporto all’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione, una soluzione di segno diverso rispetto all’esercizio dello ius poenitendi.

4. (segue): indennizzo. Omessa previsione. Non rileva.
La legittimità del provvedimento di revoca di procedura di gara per affidamento di concessione demaniale marittima non esclude, in linea generale e astratta, la spettanza di un indennizzo, alla stregua dell’art. 21-quinquies legge n. 241/1990; la mancata previsione o corresponsione della somma dovuta a titolo di indennizzo non inficia per ciò solo la legittimità del provvedimento di revoca, potendo eventualmente incidere sul piano delle conseguenze scaturenti dall’adozione del provvedimento.
5. (segue): bandi di gara. Non sono provvedimenti amministrativi ad efficacia durevole. Loro revoca. Indennizzo. Non spetta.
5.1. Non è meritevole di accoglimento la domanda di indennizzo ex art. 21-quinquies legge n. 241/1990 formulata da concorrente a procedura di gara per affidamento di concessione demaniale marittima, ove il bando che indiceva tale procedura sia stato revocato prima della scadenza del termine per la presentazione delle relative domande di partecipazione.
5.2. I bandi di selezione non rientrano tra i provvedimenti amministrativi ad efficacia durevole per i quali l’art. 21-quinquies, comma 1 della l. n. 241 del 1990 prevede l’obbligo per l’amministrazione di provvedere all’indennizzo dei soggetti interessati quale ristoro dei pregiudizi provocati dalla revoca.

6. (segue): pregiudizi patiti da concorrente a gara legittimamente revocata. Responsabilità precontrattuale della P.A. Danno ingiusto. Configurabilità.
6.1. L'Amministrazione che revochi legittimamente una procedura di gara è tenuta a ristorare i pregiudizi patiti dai concorrenti a titolo di responsabilità precontrattuale; come desumibile dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 6 del 05.09.2005, la responsabilità precontrattuale è configurabile anche nel caso di inosservanza di regole di condotta che, pur non determinando l’invalidità della procedura, implicano l’insorgere di un obbligo risarcitorio correlato alla violazione di principi di affidamento, correttezza e buona fede.
6.2. È configurabile una responsabilità precontrattuale in capo alla P.A. che (legittimamente) revochi una procedura di gara, giustificando l’intervento in autotutela in ragione di un diverso apprezzamento dell’interesse pubblico originario in assenza di sopravvenienze fattuali ovvero normative ed a breve distanza di tempo dall’approvazione del bando e, dunque, dall’indizione della selezione ma, pur sempre, in una fase successiva all’avvenuta presentazione da parte di operatore economico interessato della propria domanda di partecipazione corredata della necessaria documentazione.
In tal caso, il contegno tenuto dall’amministrazione assume rilievo al fine di fondare la pretesa alla riparazione del pregiudizio correlato al c.d. interesse negativo che, tuttavia, non può che essere limitato al solo danno emergente e, cioè, alle spese sostenute dal ricorrente per la partecipazione alla selezione.

2. La domanda di annullamento non merita accoglimento e va, pertanto, disattesa.
2.1. Nella fattispecie oggetto di giudizio, come emerge dalla documentazione prodotta, l’amministrazione comunale, con la deliberazione della Giunta Municipale gravata, è intervenuta sul bando per l’assegnazione di una concessione demaniale (in relazione ad un’area destinata ad alaggio e sosta delle imbarcazioni da diporto), approvato con la precedente determinazione n. 12 del 05.02.2008, nell’esercizio dei poteri di autotutela decisoria.
2.2. Come correttamente rilevato dalla difesa di parte ricorrente, la determinazione impugnata reca a proprio fondamento non già vizi di legittimità dell’atto inciso bensì valutazioni di opportunità; da ciò consegue, dunque, sul piano della qualificazione, che la determinazione integra propriamente un provvedimento di revoca e non di annullamento d’ufficio.
2.3. Il Collegio ritiene di ribadire, in primo luogo ed in conformità all’univoca giurisprudenza, che la qualificazione del provvedimento impugnato, che implica la considerazione di tutto il contenuto del provvedimento e non solo del nomen iuris attribuitogli dall'Amministrazione, è rimessa al giudice; pertanto, l'errata qualificazione da parte dell'Amministrazione non può integrare un vizio del provvedimento, salvo il giudizio di legittimità da formulare attraverso il parametro della fattispecie legale cui il provvedimento stesso realmente e sostanzialmente appartiene.
2.4. Ciò chiarito, l’analisi della deliberazione adottata consente di concludere nel senso dell’adeguatezza del substrato motivazionale; nello specifico, l’amministrazione ha ritenuto di procedere alla revoca in esito ad un diverso apprezzamento e, cioè, ad nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, adducendo l’opportunità di riconsiderare in sede pianificatoria, attraverso una specifica variante, la destinazione dell’ambito nel quale l’area de qua si inserisce, stante, tra l’altro, la vocazione turistica- balneare del contesto e la prossimità di spiagge libere.
2.5. Dalla documentazione in atti emerge, dunque, che la determinazione impugnata trae radice non già in sopravvenienze di fatto o di diritto, bensì in un diverso assetto degli interessi pubblici previamente considerati.
2.6. Tale possibilità non è preclusa all’amministrazione alla stregua della previsione dell’art. 21-quinquies della l. n. 241 del 1990 che, infatti, menziona tra i presupposti legittimanti l’esercizio del potere di revoca anche la “nuova valutazione dell'interesse pubblico originario”, dovendosi, altresì, sottolineare che le varie ipotesi contemplate dalla sopra richiamata disposizione sono tutte accomunate dalla più ampia discrezionalità nella scelta dell’opportunità di procedere all’adozione di una determinazione in autotutela, scelta che, nella fattispecie, risulta immune da vizi di manifesta irragionevolezza o di arbitrarietà.
2.7. In tale quadro, inoltre, l’omessa comunicazione di avvio del procedimento, pure contestata dal ricorrente, non determina alcuna efficacia invalidante sulla deliberazione e ciò sia in considerazione della stessa natura dell’atto revocato (per l’appunto, il bando di una procedura in itinere), sia, conseguentemente, in quanto alla data di adozione di tale deliberazione nessun vantaggio era stato acquisito dal ricorrente –essendo intercorso tra le due determinazioni (quella di pubblicazione del bando e la deliberazione di revoca) un lasso temporale talmente breve da precludere finanche l’esame delle domande, il cui termine di presentazione, peraltro, non era alla data di adozione della deliberazione gravata ancora spirato– sia, infine, alla luce delle argomentazioni sviluppate dalla difesa dell’amministrazione, supportate dallo stesso contenuto della deliberazione impugnata, di portata tale da escludere che una partecipazione procedimentale avrebbe determinato, in rapporto all’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione, una soluzione di segno diverso rispetto all’esercizio dello ius poenitendi.
3. La legittimità del provvedimento di revoca non esclude, tuttavia, in linea generale e astratta, la spettanza di un indennizzo, alla stregua dell’art. 21-quinquies sopra richiamato, dovendosi, comunque, rimarcare che la mancata previsione o corresponsione della somma dovuta a tale titolo non inficia per ciò solo la legittimità del provvedimento di revoca, potendo eventualmente incidere sul piano delle conseguenze scaturenti dall’adozione del provvedimento.
3.1. Il Collegio rileva che, nel caso che ne occupa, anche la domanda diretta ad ottenere la condanna dell’amministrazione al pagamento in favore del ricorrente dell’indennizzo non merita accoglimento, difettando i relativi presupposti.
3.2. Occorre considerare, infatti, che la deliberazione gravata ha inciso sul bando di selezione di una procedura che, giova ribadire, non ha raggiunto neanche la fase di scadenza del termine per la presentazione delle relative domande di partecipazione; come chiarito dalla consolidata giurisprudenza, i badi di selezione non rientrano tra i provvedimenti amministrativi ad efficacia durevole per i quali l’art. 21-quinquies, comma 1 della l. n. 241 del 1990 prevede l’obbligo per l’amministrazione di provvedere all’indennizzo dei soggetti interessati quale ristoro dei pregiudizi provocati dalla revoca (cfr., ex multis, TAR Lazio, Roma, sez. III, 24.03.2009, n. 3063).
4. Merita, invece, accoglimento, nei termini e nei limiti di seguito esplicitati, la domanda di risarcimento del danno.
4.1. Il Collegio ritiene, infatti, che nella fattispecie venga in considerazione una responsabilità precontrattuale dell’amministrazione; come desumibile dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 6 del 05.09.2005, la responsabilità precontrattuale è configurabile anche nel caso di inosservanza di regole di condotta che, pur non determinando l’invalidità della procedura, implicano l’insorgere di un obbligo risarcitorio correlato alla violazione di principi di affidamento, correttezza e buona fede.
4.2. Tale violazione risulta particolarmente evidente nel caso che ne occupa, tenuto conto, in specie, della circostanza che l’intervento in autotutela dell’amministrazione è giustificato, come sopra esposto, da un diverso apprezzamento dell’interesse pubblico originario in assenza di sopravvenienze fattuali ovvero normative ed a breve distanza di tempo dall’approvazione del bando e, dunque, dall’indizione della selezione ma, pur sempre, in una fase successiva all’avvenuta presentazione da parte del ricorrente della propria domanda di partecipazione corredata della necessaria documentazione.
In altri termini, il contegno tenuto dall’amministrazione assume rilievo al fine di fondare la pretesa alla riparazione del pregiudizio correlato al c.d. interesse negativo che, tuttavia, non può nella fattispecie in esame che essere limitato al solo danno emergente e, cioè, alle spese sostenute dal ricorrente per la partecipazione alla selezione.
4.3. La sopra esposta limitazione è giustificata sia dallo stato della procedura, all’evidenza prodromico, sia dalla circostanza che non vengono in considerazione danni correlati al c.d. lucro cessante, né la difesa del ricorrente ha sviluppato deduzioni sul punto che, comunque, avrebbero richiesto congrue allegazioni probatorie (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 24.11.2014 n. 834 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO – Impianti di telecomunicazione – Principi generali di cui al T.U. n. 380/2001 – Applicabilità – Adozione di atti interlocutori atipici – Illegittimità.
In materia di impianti di telecomunicazione, oltre alle disposizioni settoriali di cui al D.Lgs. n. 259/2003, operano i principi generali del T.U. n. 380/2001. Conseguentemente, allorquando insorgano dubbi circa la natura di interventi edilizi regolarmente autorizzati, il Comune può al massimo adottare un’ordinanza di sospensione dei lavori, che deve essere debitamente motivata e che può avere un’efficacia temporale massima di 45 giorni (art. 27, comma 3, T.U. n. 380/2001); non è invece consentito adottare atti interlocutori atipici, in quanto in materia edilizia vige il principio generale per cui o un intervento è assentibile (eventualmente con prescrizioni e modifiche, imposte ad esempio dalle autorità competenti in materia paesaggistica) o non lo è, tertium non datur (TAR Marche, sentenza 21.11.2014 n. 953 - link a www.ambientediritto.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL’amministrazione prima di bandire la procedura concorsuale aveva omesso di inoltrare la rituale comunicazione preventiva prescritta dall’art. 34-bis d.lgs. 165/2001 -disposizione aggiunta nel corpo del d.lgs. 165/2001 dall’art. 7 della L. 16.01.2003, n. 3– in tema di mobilità del personale.
In particolare il comma 1 del richiamato art. 34-bis –nel regolare il procedimento autorizzativo relativo alle procedure concorsuali per l’accesso ai pubblici impieghi prescrive che: “Le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, con esclusione delle amministrazioni previste dall’articolo 3, comma 1, ivi compreso il Corpo nazionale dei vigili del fuoco, prima di avviare le procedure di assunzione di personale, sono tenute a comunicare ai soggetti di cui all’articolo 34, commi 2 e 3, l’area, il livello e la sede di destinazione per i quali si intende bandire il concorso nonché, se necessario, le funzioni e le eventuali specifiche idoneità richieste”.
Il comma 5 del richiamato art. 34-bis aggiunge inoltre che: “Le assunzioni effettuate in violazione del presente articolo sono nulle di diritto. Restano ferme le disposizioni previste dall’articolo 39 della legge 27.12.1997, n. 449, e successive modificazioni”.
Le disposizioni citate contenute nel testo unico sul pubblico impiego ha inequivocabile carattere inderogabile ed impone alle amministrazioni un’attività di carattere rigorosamente vincolato al rispetto delle procedure preventive di monitoraggio.
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Sicché, l’amministrazione si è trovata nella necessità di revocare la procedura concorsuale proprio allo scopo di non vanificare le eventuali assunzioni, afflitte da nullità di diritto per assenza della doverosa procedura preventiva di mobilità del personale.
Nel caso di specie, pertanto, non si ravvisa la dedotta violazione dell’art. 3 e dell’art. 21-nonies L. n. 241/1990, per difetto di motivazione e per insussistenza dell’interesse pubblico, in quanto l’iniziativa di autotutela dell’amministrazione non è stata provocata da una mera esigenza di ripristino della legalità violata quanto dall’urgenza di osservare le procedure in tema di mobilità, predisposte dal legislatore all’evidente scopo di consentire una gestione ed un utilizzo efficiente ed economico delle risorse umane disponibili e per evitare profili di nullità di assunzioni condotte a prescindere dall’attivazione di tali procedure.

1.- Il ricorso ed i relativi motivi aggiunti sono infondati.
L’art. 23, comma 13, Legge regione Campania n. 1 del 27.01.2012, la Regione dispone che, “ai fini del contenimento della spesa del personale le procedure concorsuali in atto presso il Consiglio regionale alla data di entrata in vigore della presente legge sono sospese per l’anno finanziario 2012.”.
2.- Orbene, la necessità per l’amministrazione regionale di effettuare una ricognizione degli atti del procedimento concorsuale in essere, per valutarne la coerenza con le vigenti disposizioni di legge nazionali e regionali in materia di personale, con i vincoli posti dalla finanza pubblica.
Nel caso di specie, infatti, l’amministrazione prima di bandire la procedura concorsuale aveva omesso di inoltrare la rituale comunicazione preventiva prescritta dall’art. 34-bis d.lgs. 165/2001 -disposizione aggiunta nel corpo del d.lgs. 165/2001 dall’art. 7 della L. 16.01.2003, n. 3– in tema di mobilità del personale.
In particolare il comma 1 del richiamato art. 34-bis –nel regolare il procedimento autorizzativo relativo alle procedure concorsuali per l’accesso ai pubblici impieghi  prescrive che: “Le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, con esclusione delle amministrazioni previste dall’articolo 3, comma 1, ivi compreso il Corpo nazionale dei vigili del fuoco, prima di avviare le procedure di assunzione di personale, sono tenute a comunicare ai soggetti di cui all’articolo 34, commi 2 e 3, l’area, il livello e la sede di destinazione per i quali si intende bandire il concorso nonché, se necessario, le funzioni e le eventuali specifiche idoneità richieste”.
Il comma 5 del richiamato art. 34-bis aggiunge inoltre che: “Le assunzioni effettuate in violazione del presente articolo sono nulle di diritto. Restano ferme le disposizioni previste dall’articolo 39 della legge 27.12.1997, n. 449, e successive modificazioni”.
3.- Le disposizioni citate contenute nel testo unico sul pubblico impiego ha inequivocabile carattere inderogabile ed impone alle amministrazioni un’attività di carattere rigorosamente vincolato al rispetto delle procedure preventive di monitoraggio.
Il rispetto della citata normativa ha quindi imposto alla Regione di intervenire in autotutela, di fronte all’esigenza non rimediabile di operare per una migliore utilizzazione delle risorse umane ed, in definitiva, per un doveroso contenimento della spesa pubblica.
In ogni caso le esigenze prioritarie di contenimento della spesa pubblica, esigenze poste a fondamento del potere di autotutela esercitato dalla Regione, si sono confrontate con una posizione dei ricorrenti, partecipanti ad una procedura pubblica di selezione non ancora conclusa, qualificabile come mera aspettativa di fatto alla definizione del relativo procedimento (in questo senso, giurisprudenza conforme: Cons. Stato, sez. III, 01.08.2011, n. 4554; Cons. Stato, sez. VI, 27.06.2005, n. 3401).
Appaiono quindi destituite di fondamento le molteplici censure in merito all’eccesso di potere per violazione del giusto procedimento e degli artt. 3 e 97 Cost., posto che l’amministrazione regionale si è trovata nella necessità di revocare la procedura concorsuale proprio allo scopo di non vanificare le eventuali assunzioni, afflitte da nullità di diritto per assenza della doverosa procedura preventiva di mobilità del personale.
4.- Nel caso di specie, pertanto, non si ravvisa la dedotta violazione dell’art. 3 e dell’art. 21-nonies L. n. 241/1990, per difetto di motivazione e per insussistenza dell’interesse pubblico, in quanto l’iniziativa di autotutela dell’amministrazione non è stata provocata da una mera esigenza di ripristino della legalità violata quanto dall’urgenza di osservare le procedure in tema di mobilità, predisposte dal legislatore all’evidente scopo di consentire una gestione ed un utilizzo efficiente ed economico delle risorse umane disponibili e per evitare profili di nullità di assunzioni condotte a prescindere dall’attivazione di tali procedure.
In questo senso, appaiono destituite di giuridico fondamento anche le doglianze, formulate in particolare col ricorso per motivi aggiunti, relative all’asserita violazione dei principi di ragionevolezza e di eguaglianza, di cui agli artt. 3 e 97 Cost., posto che, proprio in ossequio ai richiamati principi, l’amministrazione regionale è dovuta intervenire allo scopo di portare a termine una procedura concorsuale condannata a concludersi con assunzioni che sarebbero state comunque affette da nullità (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 11.11.2014 n. 5789 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANiente reato se non c'è la Scia. Liberalizzata l'attività relativa a impianti gpl domestici. PREVENZIONE INCENDI/ Il Tribunale di Chieti sulle funzioni dei vigili del fuoco.
L'omessa presentazione della Scia (Segnalazione certificata di inizio attività) prevista dall'art. 4 del dlgs 151/2011, in materia di semplificazione dei procedimenti relativi alla prevenzione degli incendi, non integra la violazione dell'art. 20 del dlgs 139/2006 avente ad oggetto le funzioni e ai compiti del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, non assumendo pertanto penale rilevanza.
Con questo principio il TRIBUNALE di Chieti (
sentenza 10.11.2014 n. 1136) ha assolto perché il fatto non è previsto dalla legge come reato il proprietario di un impianto di deposito di gpl ad uso domestico in categoria A.
La sentenza ha il pregio di fare chiarezza sul problema del rapporto tra la disposizione incriminatrice, ossia l'art. 20 del dlgs 139/2006, e il regolamento di cui al successivo dlgs 151/2011, che ha previsto la semplificazione del regime autorizzativo di alcuni impianti di deposito di gpl, in particolare quelli di cat. A) e B).
In particolare, il regolamento ha rivisto il sistema autorizzativo dei predetti impianti mediante presentazione di una Scia, mentre in precedenza era prevista la presentazione di un'istanza alla quale seguiva, poi, all'esito di un procedimento, il rilascio di un'apposita autorizzazione.
Il Tribunale ha precisato che il fatto non è penalmente punibile in quanto in ossequio al principio di tassatività, che impedisce l'analogia in malam partem, non può ritenersi che l'art. 20 predetto punendo chiunque «ometta di richiedere il rilascio o il rinnovo del certificato», possa far riferimento anche all'omessa presentazione della Scia la quale costituisce una fattispecie del tutto diversa dal provvedimento amministrativo, non dovendo essere richiesta e, quindi, neanche rilasciata o rinnovata, trattandosi di atto soggettivamente e oggettivamente privatistico.
Secondo il giudice, quindi, essendo la disposizione incriminatrice, ai fini applicativi, integrata dal regolamento, il quale differenzia la tipologia del procedimento amministrativo di controllo e vigilanza in materia di antincendio in base all'attività, l'aver previsto la Scia per tali impianti ha sostanzialmente liberalizzato l'attività ritenendola non involgente interessi pubblici rilevanti e, quindi, non penalmente rilevante.
La conclusione cui è pervenuto il Tribunale è in linea con il sistema di eterointegrazione della norma incriminatrice, seppur relativo ad una norma integrata con un intervento legislativo successivo (2011) a quello della previsione della fattispecie di reato (2006) (
articolo ItaliaOggi Sette del 15.12.2014).

CONDOMINIOSe la spesa non è di tutti il regolamento è nullo. Non si può far pagare la facciata di un altro edificio. Supercondominio. La Cassazione chiarisce i limiti della «diversa convenzione».
È nulla la delibera assembleare con cui vengono messe a carico dei condomini di un singolo edificio, ricompreso in un insieme di fabbricati raggruppati in un supercondominio, le spese per il rifacimento della facciata di un diverso edificio appartenente al lo stesso complesso immobiliare.
Lo ha deciso la Corte di Cassazione con sentenza 06.11.2014 n. 23688.
Il Tribunale di Perugia, nella sentenza cassata, aveva invece dato rilievo a specifiche clausole del regolamento condominiale, in forza delle quali le spese di manutenzione straordinaria sarebbero gravate non esclusivamente sui proprietari degli edifici interessati ai lavori, ma anche sui proprietari di tutti gli edifici.
La «diversa convenzione»
La Cassazione ha negato ogni fondatezza della tesi sostenuta nella sentenza impugnata, secondo la quale le disposizioni del regolamento di condominio in questione avrebbero dato luogo a una «diversa convenzione», ai sensi dell’articolo. 1123, primo comma, ultima parte, del Codice civile: per la suprema Corte tale ultima previsione consente soltanto una ripartizione convenzionale, diversa da quella legale, delle spese cui i condomini di un edificio siano comunque tenuti a contribuire.
Invece, si legge nella sentenza, non risultava che i ricorrenti avessero manifestato una loro espressa adesione all’accollo delle spese; e, ha aggiunto la Cassazione, non è neppure il caso di affrontare il problema se sia valida una simile disposizione del regolamento di un supercondominio, la quale consideri tutti i supercondòmini proprietari delle facciate di tutti gli edifici facenti parte di tale condominio complesso. In sostanza, sarebbe chiaro che è nulla la singola deliberazione di riparto delle spese, mentre andrebbe verificata la validità delle clausole regolamentari poste a fondamento della prima, pur non potendo tali clausole intendersi come «convenzioni» sulle spese agli effetti dell’articolo 1123, primo comma, del Codice civile.
I dubbi sulla sentenza
Questo passaggio lascia qualche perplessità. In realtà i criteri di ripartizione delle spese stabiliti dall’articolo 1123 del Codice civile possono essere derogati da un accordo sottoscritto da tutti i condòmini, oppure da una deliberazione presa dagli stessi in sede assembleare con l’unanimità dei consensi dei partecipanti. La natura delle disposizioni contenute nell’articolo 1118, comma 1 e nell’articolo 1123 del Codice civile non preclude l’adozione di discipline convenzionali che differenzino tra loro i diritti di ciascun condòmino sulle parti comuni e, simmetricamente, gli oneri di gestione del condominio, attribuendo gli uni e gli altri in proporzione maggiore o minore.
La clausola regolamentare con cui venga convenuto l’accollo ad alcuni condòmini dell’onere di contribuire alle spese concernenti un determinato bene, pur non rientrando tra quelli comuni agli stessi sulla base del collegamento funzionale a base dell’articolo 1117 del Codice civile, va, quindi, intesa come idonea a ribaltare, nei riguardi degli stessi partecipanti, il funzionamento della presunzione di comproprietà sul bene.
Una clausola del genere, se originata dal consenso di tutti i condòmini, va pure a incidere sui diritti individuali del singolo condòmino, nel caso in esame attribuendo diritti maggiori ad alcuni condòmini rispetto a quelli che deriverebbero dalla presunzione di attribuzione di cui all’articolo 1117.
Quindi rimane poco chiaro per quale motivo una “convenzione” inserita in un regolamento condominiale non possa valere a fondare la contitolarità dei condomini su parti prive di immediato collegamento funzionale con la rispettiva unità immobiliare, e dunque a comportarne il conseguente obbligo di partecipare alle relative spese (nonché la validità della deliberazione che attui tale obbligo), quale espressione dell’autonomia negoziale meritevole di tutela giuridica a norma dell’articolo 1322 del Codice civile
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.12.2014).

VARIAllaccio idrico abusivo, non c'è scusa che tenga.
Allacciarsi abusivamente al servizio idrico integra il reato di furto aggravato anche quando gli autori siano marito e moglie incinta, con gravi situazioni economiche e con un neonato a carico. La scriminante dello stato di necessità, infatti, non può essere accordata tutte le volte in cui l'accesso all'acqua possa ottenersi in modo lecito, pure facendo su e giù da una fontanella pubblica distante diversi metri da casa.

È quanto sostenuto dalla VI Sez. penale della Corte di Cassazione con la
sentenza 02.10.2014 n. 41069.
Nel caso di specie a una famiglia, in crisi economica e con figli, è stato interrotto il servizio idrico a cagione della sua morosità nel pagamento della fornitura. Per far fronte all'evidente necessità di accedere all'acqua, marito e moglie (incinta) hanno rimosso i sigilli e si sono allacciati abusivamente all'impianto. Ne è disceso un procedimento penale a carico dei due per il reato di furto aggravato. All'esito del giudizio di primo grado il tribunale ha, però, assolto la coppia ritenendo che la loro condotta fosse scriminata dallo stato di necessità.
Secondo il giudice di primo grado, infatti, la presenza di bambini in tenera età assieme all'obiettiva rilevanza dell'uso di acqua per le esigenze primarie di igiene ed alimentazione della famiglia facevano ritenere che gli imputati si fossero «trovati in presenza della necessità di salvare non solo se stessi, ma soprattutto i loro figli dal pericolo grave ed attuale di un danno consistente in rischio di malattie conseguenti alla mancanza di acqua». Il tribunale ha poi sottolineato come, in seguito all'apposizione -per la seconda volta- dei sigilli, fosse intervenuta la stessa amministrazione comunale facendosi carico del costo dell'acqua ad uso degli imputati.
Il verdetto non è stato condiviso dalla procura la quale ha deciso di presentare ricorso alla Corte di cassazione per ottenerne l'annullamento. La prospettazione dei fatti offerta dalla ricorrente è senz'altro più severa di quella affermata nella sentenza impugnata. Secondo il pm, infatti, nella vicenda in esame non ricorrevano affatto gli estremi dello stato di necessità per i due imputati, in particolare il requisito, richiesto dall'art. 54, del codice penale, della inevitabilità della condotta dannosa: a suo dire la mancata erogazione dell'acqua in casa era fronteggiabile mediante l'accesso alla fontanella pubblica, distante soli 50 metri dall'abitazione; inoltre, al trasporto di un quantitativo sufficiente di acqua avrebbe potuto provvedere il marito, sicché la circostanza che la moglie fosse incinta non rilevava; infine, non vi era certezza sulle effettive capacità economiche degli imputati posto che questi avevano scelto di rimanere contumaci nel processo.
Ebbene, gli ermellini, con motivazione tanto discutibile quanto chirurgica, ha accolto il ricorso presentato dal pm, per l'effetto annullando la sentenza di assoluzione e rinviando ad altro giudice della Corte d'appello per un nuovo esame della vicenda.
La Cassazione ha osservato come le argomentazioni adottate dal tribunale per affermare la ricorrenza dello stato di necessità fossero erronee sul piano della corretta applicazione della norma penale, la quale chiede «l'assoluta necessità della condotta» e «l'inevitabilità del pericolo».
Nel caso concreto –osservano i giudici rimani– «gli imputati non si trovarono costretti a ricorrere alla rimozione dei sigilli apposti al contatore»: per garantirsi l'approvvigionamento di acqua dopo l'interruzione della fornitura, infatti, essi potevano contare su una fonte pubblica sita a distanza modesta dalla loro abitazione oppure, già dopo l'apposizione dei ricordati sigilli, essi avrebbero potuto rivolgersi al comune per chiedere –come peraltro effettivamente accaduto dopo la seconda interruzione conseguente all'accertamento dei reato– che l'amministrazione intervenisse facendosi carico delle spese di quella somministrazione (
articolo ItaliaOggi Sette del 15.12.2014).

AGGIORNAMENTO ALL'11.12.2014

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DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGO: Interpretazione e applicazione dell'articolo 5, comma 9, del decreto-legge n. 95 del 2012, come modificato dall'articolo 6 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90 (circolare 04.12.2014 n. 6/2014).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Quesito su impianti fotovoltaici (Ministero dell'Interno, Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile, nota 28.10.2014 n. 12678 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIALinee di indirizzo sulle modalità applicative della disciplina in materia di prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento, recata dal Titolo III-bis alla parte seconda del d.lgs. 03.04.2006, n. 152, alla luce delle modifiche introdotte dal d.lgs. 04.03.2014, n. 46 (Ministero dell'Ambiente ed ella Tutela del Territorio e del Mare, nota 27.10.2014 n. 22295 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 09.12.2014 n. 285 "Definizione delle caratteristiche del sistema pubblico per la gestione dell’identità digitale di cittadini e imprese (SPID), nonché dei tempi e delle modalità di adozione del sistema SPID da parte delle pubbliche amministrazioni e delle imprese" (D.P.C.M. 24.10.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 09.12.2014, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 30.11.2014, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 02.12.2014 n. 143).

TRIBUTI: G.U. 06.12.2014 n. 284, suppl. ord. n. 93, "Esenzione dall’IMU, prevista per i terreni agricoli, ai sensi dell’articolo 7, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 30.12.1992, n. 504" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 28.11.2014).

LAVORI PUBBLICI: G.U. 05.12.2014 n. 283 "Procedure e schemi-tipo per la redazione e la pubblicazione del programma triennale, dei suoi aggiornamenti annuali e dell’elenco annuale dei lavori pubblici e per la redazione e la pubblicazione del programma annuale per l’acquisizione di beni e servizi" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 24.10.2014).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: P. Palazzi, Ascensore esterno - una (severa) critica alla sentenza TAR Lazio n. 726 del 22/09/2014 (07.12.2014 - link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it).

SICUREZZA LAVORO: G. Milizia L’idoneità tecnico professionale della ditta è imprescindibile dai doveri di sicurezza: quali responsabilità penali per il committente e per l’appaltatore per l’infortunio in cantiere? (03.12.2014 - link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: I. Pagano, In caso di ordinanze di demolizione rimaste ineseguite, l'atto, adottato dall'Amministrazione a notevole distanza di tempo, per la riattivazione dell'esercizio del potere rispristinatorio, deve essere preceduto da un'adeguata, autonoma attività istruttoria e deve essere congruamente motivato in ordine all'attualità dell'interesse pubblico (01.12.2014 - link a www.diritto.it).

SICUREZZA LAVORO: Coordinatore di cantiere: fin dove arriva il suo controllo e la sua responsabilità?
La rivista "Ambiente&Sicurezza sul Lavoro" torna a parlare delle figure di cantiere e degli obblighi di sicurezza del coordinatore con riferimento alle sentenze più interessanti in materia.
Nell'articolo "Vigilanza in cantiere, limiti ai doveri di controllo del coordinatore" si analizzano due sentenze una del Tribunale di Milano Ufficio GIP, 23.01.2014 n. 27 e una del Tribunale di Como Sez. Pen., 26.02.2014 n. 270, ove i giudici lombardi si sono espressi recentemente ridefinendo compiti e ruoli del coordinatore per la sicurezza, specificando che la sua presenza in cantiere non deve essere costante e quotidiana, ma tale da permettere l'esercizio del potere di coordinamento.
In tal modo si ribadiscono i limiti della responsabilità del Coordinatore, riconducendo la sua posizione di garanzia nell'alveo degli obblighi fissati dalla legge, e specificatamente dall'art. 92 del D.Lgs. 81/2008.
In particolare, la domanda che si pone il GIP è: "fino a che punto il CSE deve spingersi nel controllo dell'attività di cantiere?". E più in particolare: "era compito a lui spettante il controllo del perfetto stato delle tavole del ponteggio?".
Il giudice milanese, riportandosi alla lettera della norma sottolinea che il suo compito è di coordinamento e di aggiornamento del piano di sicurezza, di coordinamento delle attività dei responsabili, ma non può sostituirsi agli stessi.
Ad analoga soluzione perviene il Tribunale di Como che in primis ribadisce il principio per cui, qualora ricorrano diversi soggetti garanti, ognuno può essere considerato responsabile solo se gli sia imputabile una qualche forma di colpa riconducibile a quelli che sono i suoi specifici obblighi, e l'eventuale pluralità di garanti implica che tutti i soggetti devono contribuire ad assicurare l'incolumità del lavoratore (Ambiente & Sicurezza sul Lavoro n. 11/2014 - tratto da www.insic.it).

QUESITI & PARERI

APPALTI SERVIZI: Elementi che differenziano un appalto da una concessione.
Quando un operatore privato si assume i rischi della gestione del servizio, rifacendosi sostanzialmente sull'utente mediante la riscossione di un qualsiasi tipo di canone, tariffa o diritto, allora si ha concessione, ragione per cui può affermarsi che è la modalità di remunerazione il tratto distintivo della concessione dall'appalto di servizi.
Pertanto, si avrà concessione quando l'operatore si assume in concreto i rischi economici della gestione del servizio, rifacendosi essenzialmente sull'utenza, mentre si avrà appalto quando l'onere del servizio venga a gravare sostanzialmente sull'amministrazione.

Il Comune si pone il dubbio se sia possibile applicare l'istituto del 'project financing di servizi', previsto dall'art. 278 del DPR 207/2010 (per le concessioni di servizi) per l'affidamento del 'servizio di gestione della parte elettrica degli immobili comunali'; infatti il Comune precisa che, nel caso di specie, esso verserebbe all'affidatario un 'canone annuo onnicomprensivo' e ciò lo porterebbe a configurare il rapporto come appalto di servizi.
Il riscontro verrà quindi dato sul tratto distintivo tra concessioni ed appalti.
Sulla questione, una recente pronuncia del Giudice amministrativo di seconda istanza
[1], che conferma un filone giurisprudenziale maggioritario [2], si è così espressa: 'Quando un operatore privato si assume i rischi della gestione del servizio, rifacendosi sostanzialmente sull'utente mediante la riscossione di un qualsiasi tipo di canone, tariffa o diritto, allora si ha concessione, ragione per cui può affermarsi che è la modalità della remunerazione il tratto distintivo della concessione dall'appalto di servizi. Pertanto, si avrà concessione quando l'operatore si assume in concreto i rischi economici della gestione del servizio, rifacendosi essenzialmente sull'utenza, mentre si avrà appalto quando l'onere del servizio venga a gravare sostanzialmente sull'amministrazione. Nel caso di specie (ndr: affidamento di servizi relativi alla nautica di diporto) la remunerazione spettante alla società in conseguenza dell'affidamento consisteva unicamente nel corrispettivo stabilito in sede di lex specialis...a carico dell'amministrazione comunale e non si accompagnava in alcun modo con ulteriori forme di remunerazione direttamente o indirettamente ricadenti sui fruitori finali dei servizi. Ne consegue che l'affidamento operato dal Comune nei confronti della società deve qualificarsi non come concessione di servizi bensì come appalto di servizi ai sensi del comma 10 dell'art. 3 del d.lgs. 163/2006'.
Si ritiene altresì utile citare un pronunciamento
[3] dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (ora Autorità nazionale anti corruzione), la quale in relazione alla 'gestione della rete degli impianti elettrici di tutti gli edifici comunali, acquisto di energia elettrica, manutenzione ordinaria e straordinaria, adeguamento tecnologico, riqualificazione e risparmio energetico' ha così statuito: 'l'affidamento è da configurare quale appalto di lavori o di servizi a seconda della prevalenza dell'attività esercitata e non come concessione'.
---------------
[1] C.St., sent. 21.05.2014, n. 2624.
[2] Ex multis: C. St., sent. 4.11.2012, n. 4682, 09.11.2011, n. 5068.
[3] Deliberazione n. 12 del 26.01.2011
(09.12.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

VARI: Bonus mobili.
Domanda
Ho acquistato dei mobili utilizzando la carta di credito. Mi è stato rilasciato uno scontrino. Avendo ristrutturato il mio appartamento, posso usufruire dell'agevolazione del risparmio Irpef del 50% per l'acquisto dei mobili?
Risposta
Ai fini della detrazione, lo scontrino se riporta il codice fiscale dell'acquirente e indica natura, qualità e quantità dei beni acquistati, equivale alla fattura. Se manca il codice fiscale, la detrazione è comunque ammessa se in esso è indicata natura, qualità e quantità dei beni acquistati e se esso è riconducibile al contribuente titolare della carta in base alla corrispondenza con i dati del pagamento (esercente, importo, data e ora).
In questo caso, la data di pagamento è individuata nel giorno di utilizzo della carta di credito o di debito da parte del titolare, che risulta nella ricevuta telematica di avvenuta transazione, e non nel giorno di addebito sul conto corrente del titolare stesso (circolare n. 29/13 - paragrafo 3.6) (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.12.2014).

SEGRETARI COMUNALI: Segretari comunali. Percentuale quota diritti di rogito.
Il comma 2-bis dell'articolo 10 del d.l. 90/2014, convertito in l. 114/2014 dispone che, negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno qualifica dirigenziale, una quota del provento annuale spettante al comune ai sensi dell'art. 30, secondo comma, della l. 734/1973, come sostituito dal comma 2 del medesimo articolo, per gli atti di cui ai numeri 1, 2, 3, 4 e 5 della tabella D allegata alla l. 604/1962, e successive modificazioni, è attribuita al segretario comunale rogante, in misura non superiore a un quinto dello stipendio in godimento.
Il Comune ha chiesto delucidazioni in ordine alla quota del provento annuale, spettante all'Ente ai sensi dell'art. 30, secondo comma, della l. 734/1973 come sostituito dall'art. 10, comma 2, del d.l. 90/2014, convertito in l. 114/2014, da attribuire al proprio segretario rogante, inquadrato in classe A. In particolare, l'amministrazione istante si è posta il dubbio concernente la percentuale di detta quota, considerato che l'art. 41, comma 4, della l. 312/1980 (che fissava la percentuale del riparto in favore del segretario rogante) risulta abrogato.
Preliminarmente si osserva che la richiamata norma, a livello interpretativo, ha formato oggetto di dubbi e criticità.
Pertanto, è doveroso precisare che l'Autorità competente a fornire i chiarimenti del caso è il Ministero dell'Interno (da cui dipendono i segretari comunali), in quanto trattasi di aspetti che incidono sul trattamento economico della predetta categoria.
Tuttavia, in via collaborativa, si ritiene comunque utile esporre le seguenti considerazioni, in base al materiale reperito al riguardo.
L'art. 10, comma 1, del d.l. 90/2014, convertito in l. 114/2014, ha innanzitutto abrogato l'art. 41, quarto comma, della l. 312/1980
[1].
Il comma 2 del citato articolo ha poi sostituito l'art. 30, secondo comma, della l. 734/1973, prevedendo che il provento annuale dei diritti di segreteria è attribuito integralmente al comune e alla provincia.
Il successivo comma 2-bis dell'articolo 10 in esame dispone che, negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno qualifica dirigenziale, una quota del provento annuale spettante al comune ai sensi dell'art. 30, secondo comma, della l. 734/1973, come sostituito dal comma 2 del medesimo articolo, per gli atti di cui ai numeri 1, 2, 3, 4 e 5 della tabella D allegata alla l. 604/1962, e successive modificazioni, è attribuita al segretario comunale rogante, in misura non superiore a un quinto dello stipendio in godimento.
In generale, sul contenuto del comma 2-bis, dell'art. 10 del d.l. 90/2014, la Corte dei conti
[2] ha specificato che detta norma 'prevede e distingue le due ipotesi legittimanti l'erogazione di quota dei proventi. La prima, quella dei segretari preposti a comuni privi di personale con qualifica dirigenziale, fattispecie in cui non ritiene rilevante la fascia professionale in cui è inquadrato il segretario preposto. La seconda, quella dei segretari che non hanno qualifica dirigenziale, in cui àncora l'attribuzione di quota dei diritti di rogito allo status professionale del segretario preposto, prescindendo dalla classe demografica del comune di assegnazione'.
Inoltre, con riferimento alla determinazione della quota spettante, si osserva che, dall'attuale formulazione della disposizione di cui si discute, come novellata, emerge tra l'altro che non è stato riproposto alcun riferimento a determinate percentuali, come in precedenza, ma è stato fissato solo un limite massimo riferito allo stipendio in godimento del segretario comunale.
La Corte dei conti
[3] ha ritenuto espressamente che'(....)laddove spettanti, i proventi annuali dei diritti di segreteria e i diritti di rogito vadano attribuiti al segretario comunale secondo una quota che non può superare un quinto dello stipendio in godimento (trattamento teorico della figura professionale compresa la retribuzione di risultato) da calcolarsi in relazione al periodo di servizio prestato nell'anno dal segretario comunale o provinciale'.
Si è inoltre evidenziato che l'espressione adottata dal legislatore, riferita al 'provento annuale' induce a ritenere che gli importi dei diritti di segreteria e di rogito vadano introitati integralmente al bilancio dell'ente locale, per essere poi erogati, al termine dell'esercizio, in una quota calcolata in misura non superiore al quinto dello stipendio in godimento del segretario comunale, ove spettante.
In conclusione, nella deliberazione da ultimo citata, si è affermato che, nel silenzio della legge ed in assenza di regolamentazione nell'ambito della contrattazione collettiva di categoria, successiva alla novella normativa, i proventi in esame sono attribuiti integralmente (e non in percentuale) al segretario comunale, laddove gli importi riscossi dal comune, nel corso dell'esercizio, non eccedano i limiti della quota del quinto della retribuzione in godimento del medesimo segretario.
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[1] Tale disposizione recitava testualmente: 'Dal 01.01.1979, una quota del provento spettante al comune o alla provincia ai sensi dell'articolo 30, secondo comma, della legge 15.11.1973, n. 734, per gli atti di cui ai numeri 1, 2, 3, 4 e 5 della tabella D allegata alla legge 08.06.1962, n. 604, è attribuita al segretario comunale e provinciale rogante, in misura pari al 75 per cento e fino ad un massimo di un terzo dello stipendio in godimento'.
[2] Cfr. sez. reg. di controllo per la Lombardia, n. 275/2014. Nella fattispecie esaminata si trattava di segretario di classe A titolare di segreteria convenzionata tra comuni tutti privi di dirigenti.
[3] Cfr. sez. reg. di controllo per la Sicilia, n. 194/2014/PAR
(05.12.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Gli assessori non ruotano. Alternarli sempre complica il lavoro dell'ente. L'accordo sulla continua sostituzione in giunta è di dubbia validità.
È legittima la rotazione nella nomina, da parte del sindaco, di uno dei due assessori nell'ambito della giunta municipale del comune?

Nella fattispecie in esame il consiglio comunale ha specificato, con delibera, che il sindaco «ha deciso di dare stabilità alla figura del vicesindaco, mentre per l'altro assessore di fatto la nomina sarà ripartita tra più consiglieri, alternandoli». Pertanto il vertice dell'ente, al termine di ogni seduta di giunta, procede alla revoca dell'assessore e alla contestuale nomina alla stessa carica di un diverso consigliere, con riserva di comunicazione al primo consiglio comunale utile.
In merito, l'articolo 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 dispone che il sindaco nomina, nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, i componenti della giunta, tra cui un vicesindaco, e ne dà comunicazione al consiglio nella prima seduta successiva alla elezione.
Il successivo comma 3 prevede che entro il termine fissato dallo statuto, il sindaco, sentita la giunta, presenta al consiglio le linee programmatiche relative alle azioni e ai progetti da realizzare nel corso del mandato, mentre il comma 4 dà facoltà al sindaco di revocare uno o più assessori, dandone motivata comunicazione al consiglio.
In tema di revoca degli assessori, la giurisprudenza ha sempre affermato l'obbligo di motivazione del relativo provvedimento sindacale, in virtù di quanto previsto dal sopra citato comma 4.
Il consiglio di stato, sez. V con sentenza 12.10.2009 n. 6253, ha affermato che «l'obbligo di motivazione del provvedimento di revoca dell'incarico di un singolo assessore (o di più assessori) può senz'altro basarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico-amministrative, rimesse in via esclusiva al sindaco».
Anche il Tar della Puglia, Bari, sez. I, con sentenza 29.05.2012 n. 106, ha affermato che è «noto il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, secondo cui la natura ampiamente discrezionale del provvedimento di revoca dell'incarico di assessore consente di ritenere ammissibile una motivazione basata sulle più ampie valutazioni di opportunità politica e amministrativa, rimesse in via esclusiva al vertice dell'ente locale, in quanto aventi ad oggetto un incarico fiduciario (cfr. Cons. stato, sez. V, 23.02.2012 n. 1053 e i numerosi precedenti ivi richiamati)».
In ordine alla specifica fattispecie, assume tuttavia particolare rilevanza l'ordinanza n. 788/2009 del 21.10.2009 con la quale il Tar della Puglia, Lecce, sez. I, ha affermato che il decreto di revoca della nomina ad assessore adottato dal sindaco non può certamente trovare giustificazione nell'accordo in ordine all'alternanza alla carica di assessore raggiunto in seno a una delle forze politiche che sostengono il sindaco; inoltre, la validità di un simile accordo si presenta altamente problematica, in considerazione dell'innegabile contrasto con interessi pubblicistici di indubbio rilievo, come quello al buon andamento dell'amministrazione o al rispetto della volontà del corpo elettorale.
Si condividono, pertanto, le perplessità evidenziate dal Tar Puglia con la citata ordinanza n. 788/2009, anche in considerazione del fatto che la giunta, secondo la previsione dell'articolo 36 del decreto legislativo n. 267/2000, è uno degli organi di governo del comune, e in quanto tale assume una responsabilità di tipo collegiale di fronte al consiglio, ai sensi dell'articolo 48 dello stesso decreto, il quale tra l'altro, al comma 2, assegna a tale organo compiti di collaborazione con il sindaco nell'attuazione degli indirizzi generali del consiglio, rispondendo allo stesso con cadenza annuale in merito alla propria attività espletata e svolgendo compiti di proposta e di impulso nei confronti del medesimo organo consiliare.
Peraltro, la continua rotazione degli assessori, richiedendo sempre la conseguente comunicazione al consiglio, comporterebbe un gravoso appesantimento delle procedure formali, non agevolerebbe il lavoro collegiale della giunta ed impedirebbe di risalire con chiarezza a eventuali responsabilità in caso di non corretta gestione degli assessorati di competenza. Inoltre nell'eventualità del mancato rispetto del patto politico all'interno del consiglio, l'eventuale revoca di un assessore, non supportata da adeguata motivazione nei termini richiesti dalla giurisprudenza, potrebbe esporre l'ente a possibili contenziosi (articolo ItaliaOggi del 05.12.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Comando e divieto attribuzione assegno ad personam.
L'ARAN ha precisato che, in caso di comando del dipendente presso altro ente o amministrazione, secondo una regola generale ormai consolidata nella prassi applicativa, il trattamento accessorio viene corrisposto dall'ente presso il quale il lavoratore rende la propria prestazione (con oneri a carico del medesimo ente utilizzatore).
L'ente che utilizza il lavoratore rimborsa all'amministrazione di appartenenza gli oneri relativi al trattamento fondamentale.

Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad alcune problematiche connesse alla posizione di un dipendente ministeriale assegnato in comando presso l'Ente istante. In particolare, l'Amministrazione rappresenta che il Ministero, da cui l'interessato dipende, ha prospettato la sospensione al medesimo della corresponsione dell'indennità di amministrazione percepita, per tutta la durata del periodo di comando, con la conseguenza che il Comune dovrebbe provvedere ad erogare analoga indennità prevista dal contratto di comparto.
Ciò posto, il Comune, in relazione alla previsione contenuta nella legge di stabilità per il 2014, che abroga le norme che prevedono, per le pubbliche amministrazioni, l'attribuzione di un assegno ad personam
[1] nel caso in cui il dipendente transiti da un'amministrazione all'altra, chiede se detta statuizione riguardi anche la fattispecie del comando e se, in caso affermativo, esista un'opzione giuridica percorribile, atta ad evitare che il dipendente in questione subisca di fatto una decurtazione stipendiale.
Sentito il Servizio organizzazione, formazione, valutazione e relazioni sindacali, preliminarmente si osserva che l'art. 70, comma 12, del d.lgs. 165/2001 prevede che 'in tutti i casi, anche se previsti da normative speciali, nei quali enti pubblici territoriali, enti pubblici non economici o altre amministrazioni pubbliche, dotate di autonomia finanziaria, sono tenute ad autorizzare la utilizzazione da parte di altre pubbliche amministrazioni di proprio personale, in posizione di comando, di fuori ruolo, o in altra analoga posizione, l'amministrazione che utilizza il personale rimborsa all'amministrazione di appartenenza l'onere relativo al trattamento fondamentale'.
A tal proposito, l'ARAN ha precisato che, in caso di comando del dipendente presso altro ente o amministrazione, secondo una regola generale ormai consolidata nella prassi applicativa, il trattamento accessorio viene corrisposto dall'ente presso il quale il lavoratore rende la propria prestazione (con oneri a carico dell'ente utilizzatore)
[2]. Inoltre, la predetta Agenzia ha specificato che a mente di quanto disposto dall'art. 70, comma 12, del d.lgs. 165/2001, l'ente che utilizza il lavoratore deve rimborsare all'amministrazione di appartenenza gli oneri relativi al trattamento fondamentale.
Pertanto, il rimborso relativo alla retribuzione del dipendente interessato, da parte dell'ente utilizzatore all'amministrazione di appartenenza, dovrà rispettare i principi sopra indicati.
Si rileva peraltro che, da quanto esplicitato dal Ministero dell'economia e delle finanze
[3], risulta che l'indennità di amministrazione è una componente del trattamento accessorio, seppure a carattere fisso e continuativo.
A tal proposito, si osserva che, in relazione a quanto asserito dall'ARAN, per quanto attiene al trattamento accessorio da corrispondere al personale collocato in posizione di comando, il principio generale è quello che a tali dipendenti spetti comunque l'indennità di amministrazione ed, in genere, il trattamento accessorio dell'amministrazione presso la quale gli stessi prestano servizio
[4].
Si soggiunge inoltre che l'indennità di comparto, poi ridefinita 'salario aggiuntivo per il personale degli enti locali' dall'art. 70 del CCRL del 07.12.2006, non può ritenersi corrispondente in via analogica all'indennità di amministrazione del comparto Ministeri, in quanto trova la propria giustificazione in un'ottica di uniformità applicativa a livello di comparto unico, sia sotto il profilo terminologico che sostanziale, ed è finalizzata esclusivamente ad equiparare il trattamento economico del personale degli enti locali al trattamento in godimento del personale regionale.
Premesso un tanto, l'art. 1, comma 458, della l. 147/2013 (legge di stabilità 2014) ha abrogato l'art. 202 del d.p.r. 3/1957
[5], come anche l'art. 3, commi 57 e 58, della legge 24.12.1993, n. 537 [6].
Il successivo comma 459 dell'articolo 1 in esame stabilisce altresì che, in conseguenza di quanto disposto dal precedente comma 458, le amministrazioni interessate adeguino i trattamenti economici e giuridici degli interessati a partire dalla prima mensilità successiva alla data di entrata in vigore della stessa legge di stabilità.
Si osserva al riguardo che, secondo l'ANCI
[7], le richiamate disposizioni si applicano al personale dello Stato, per il quale i passaggi di carriera sono di norma disciplinati dalla legge e non dalla contrattazione collettiva come avviene invece per il personale del comparto enti locali, che ha previsto disposizioni similari [8], con erogazione di assegni ad personam riassorbibili, con specifico riferimento peraltro ai casi di progressioni verticali e di passaggio da un ente all'altro per mobilità.
In relazione all'istituto della mobilità, appare rilevante per il caso che ci occupa quanto affermato da certa dottrina, che ha richiamato fra l'altro anche orientamenti giurisprudenziali formatisi in proposito
[9].
Si è evidenziato, infatti, che secondo il prevalente orientamento, i c.d. assegni perequativi ad personam in favore del personale transitato in altre amministrazioni
[10] sono configurabili solo qualora il trasferimento del dipendente pubblico assuma caratteristiche di stabilità [11].
Pertanto, 'si deve tendenzialmente escludere che gli emolumenti in questione siano riconoscibili nel caso di mero distacco o comando del dipendente pubblico presso altra amministrazione -in quanto fattispecie connotate dalla temporaneità e reversibilità degli effetti- mentre si deve ritenere che essi trovino sicuramente applicazione nel caso di procedure di mobilità che, invece, comportano il trasferimento definitivo del dipendente nei ruoli dell'amministrazione di destinazione'.
Infatti, tramite l'istituto del comando, il dipendente pubblico viene autorizzato, con specifico provvedimento amministrativo, a prestare servizio presso altra amministrazione o presso altro ente pubblico, per un periodo determinato, in via eccezionale e per riconosciute esigenze di servizio, determinandosi una modificazione solo in senso oggettivo
[12] del rapporto di servizio.
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[1] Al fine di assicurare un'integrazione del trattamento stipendiale volta a mantenere inalterato il miglior trattamento economico già conseguito dal dipendente.
[2] Cfr. pareri RAL 438 e M21 (personale dei Ministeri), consultabili in: www.aranagenzia.it.
[3] Cfr. circolare del Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato n. 12 del 15.04.2011.
[4] Cfr. parere M114.
[5] Detta norma recitava: 'Nel caso di passaggio di carriera presso la stessa o diversa amministrazione agli impiegati con stipendio superiore a quello spettante nella nuova qualifica è attribuito un assegno personale, utile a pensione, pari alla differenza fra lo stipendio già goduto ed il nuovo, salvo riassorbimento nei successivi aumenti di stipendio per la progressione di carriera anche se semplicemente economica'.
[6] Si riporta il testo di dette norme: '57. Nei casi di passaggio di carriera di cui all'articolo 202 del citato testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10.01.1957, n. 3, ed altre analoghe disposizioni, al personale con stipendio o retribuzione pensionabile superiore a quello spettante nella nuova posizione è attribuito un assegno personale pensionabile, non riassorbibile e non rivalutabile, pari alla differenza fra lo stipendio o retribuzione pensionabile in godimento all'atto del passaggio e quello spettante nella nuova posizione. 58.L'assegno personale di cui al comma 57 non è cumulabile con indennità fisse e continuative, anche se non pensionabili, spettanti nella nuova posizione, salvo che per la parte eventualmente eccedente'.
[7] Cfr. parere del 18.07.2014.
[8] Cfr. art. 28 del CCNL comparto Regioni-Autonomie locali del 05.10.2001.
[9] Cfr. Leonardo Cipriano, Non sempre il trasferimento del dipendente pubblico comporta il riconoscimento di un assegno perequativo non riassorbibile, consultabile in www.diritto.it.
[10] Al fine di colmare le eventuali differenze tra il maggior trattamento economico già percepito presso l'amministrazione di provenienza e quello in godimento presso l'amministrazione di destinazione.
[11] Cfr. Cons. di Stato, sez. IV, sentenza n. 66/2002; Cass. Civ., sez. lavoro, n. 5959 del 2012, con riferimento esclusivamente ai casi di definitivo trasferimento di personale.
[12] Atteso che il dipendente viene destinato in via ordinaria ed abituale a svolgere le proprie prestazioni lavorative nell'ambito di una diversa organizzazione nella quale egli viene inserito sia a livello funzionale che gerarchico
(01.12.2014 -
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PUBBLICO IMPIEGO: Procedimenti disciplinari.
Domanda
Nell'ambito di un procedimento disciplinare il diritto di accesso del dipendente pubblico può estendersi alle denunce e agli esposti che hanno attivato la procedura?
Risposta
Il soggetto che subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti utilizzati dall'amministrazione nell'esercizio del potere di vigilanza, compresi gli esposti e le denunce che hanno determinato l'attivazione di tale potere (Cds, sez. IV, 19.01.2012, n. 231; sez. V, 19.05.2009, n. 3081).
Il diritto alla riservatezza non può essere invocato quando la richiesta di accesso ha a oggetto il nome di coloro che hanno reso denunce o rapporti informativi nell'ambito di un procedimento ispettivo. Infatti, al diritto alla riservatezza, non può riconoscersi un'estensione tale da includere il diritto all'anonimato di colui che rende una dichiarazione a carico di terzi, tanto più che l'ordinamento non attribuisce valore giuridico positivo all'anonimato (Cds, sez. VI, 25.06.2007, n. 3601).
Il Consiglio di stato, sez. V, con sentenza 28.09.2012 n. 5132 ha precisato che la conoscenza integrale dell'esposto rappresenta uno strumento indispensabile per la tutela degli interessi giuridici in quanto solo in questo modo è possibile proporre eventualmente denuncia per calunnia a tutela dell'onorabilità (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.12.2014).

APPALTI: Richiesta di rating ai garanti.
Domanda
Nei bandi di gara è possibile inserire la richiesta di rating ai garanti?
Risposta
La richiesta, da parte delle stazioni appaltanti, di rating pari o superiore a un determinato minimo attribuito dalle società di certificazione internazionale è una previsione che si pone in violazione dei principi di cui all'articolo 2 del Codice degli appalti. Infatti, una simile richiesta introduce restrizioni non previste dal Codice che non appaiono neppure correlate e proporzionate con gli obiettivi che si intende perseguire.
I correttivi introdotti da talune amministrazioni aggiudicatrici alleviano leggermente gli effetti delle restrizioni poste, ma non appaiono sufficienti a garantire condizioni di pari concorrenza tra le imprese sul mercato (Avcp Determinazione n. 1 del 29/07/2014 - Problematiche in ordine all'uso della cauzione provvisoria e definitiva - artt. 75 e 113 del Codice).
La richiesta di rating ai garanti, inserita nei bandi di gara, determina disparità tra i soggetti che operano nel mercato creditizio/finanziario e potrebbe limitare la partecipazione alle gare delle imprese che segnalano difficoltà a reperire le garanzie necessarie per accedere alla gara d'appalto.
Nella Determinazione n. 2 del 13.03.2013 -Questioni concernenti l'affidamento dei servizi assicurativi e di intermediazione assicurativa- l'Avcp ha osservato che, piuttosto che valutare la qualità delle imprese di assicurazione sulla base del rating, è preferibile ricorrere ad altri indicatori quali l'indice di solvibilità, congiuntamente alla raccolta premi specifica (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.12.2014).

INCARICHI PROFESSIONALI: Servizi legali.
Domanda
Per l'affidamento di un servizio legale in un ente locale è necessario avviare una selezione pubblica o è possibile un affidamento in via fiduciaria?
Risposta
L'affidamento dei servizi legali deve avvenire nel rispetto di una procedura di selezione pubblica, ai sensi dell'art. 7, comma 6, del dlgs 165/2001 – Testo Unico sul Pubblico Impiego.
L'oggetto del servizio legale non si esaurisce nel patrocinio legale a favore dell'Ente, ma rientra nella nozione più ampia di consulenza legale che presuppone una procedura comparativa idonea a consentire, a tutti gli aventi diritto, di partecipare alla selezione per la scelta del miglior contraente.
Il Tar Campania, sez. II, con sentenza del 16/07/014 n. 1383 ha ribadito la distinzione tra patrocinio e servizio legale: il primo è un contratto volto a soddisfare il bisogno di difesa giudiziale dell'ente, inquadrabile nell'ambito della prestazione d'opera intellettuale, il servizio legale, invece, costituisce, per organizzazione e complessità, un'attività più articolata che giustifica la previsione di una selezione pubblica (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.12.2014).

TRIBUTI: Tassa rifiuti per il garage.
Domanda
La tassa rifiuti per un garage, anche se non produce rifiuti, è sempre e comunque dovuta?
Risposta
No, tuttavia è onere del contribuente indicare nella denuncia relativa al tributo (quella originaria o quella di variazione) e fornire la prova (in base ad elementi obiettivamente rilevabili dall'ente impositore o con altra idonea documentazione) che il garage in questione non può produrre rifiuti (e, quindi, non può essere assoggettato alla tassa) per sua natura o per il particolare uso cui è stabilmente destinato o perché si trova in condizioni di obiettiva inutilizzabilità.
Solo in tal modo può essere vinta la presunzione legale relativa di produzione di rifiuti da parte dei locali posseduti o detenuti. In questo senso si è espressa la recente ordinanza 23505/14 della Cassazione, che ha anche sottolineato come tale dimostrazione non sia suscettibile di essere «ritenuta in modo presunto dal giudice», bensì dimostrata da parte del contribuente.
Tale ordinanza fa seguito ad altre analoghe recenti pronunce della Cassazione, tra le quali l'ordinanza 8245/2014 e le sentenze 11351/2012 e 17703/2004 (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.12.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Ferie.
Con riferimento alle fattispecie -che si configurano patologiche e che perciò dovrebbero verificarsi eccezionalmente- di mancata fruizione delle ferie per ragioni di servizio entro il primo semestre dell'anno successivo o di inerzia del dipendente nel richiederle, l'Aran ritiene possibile che l'interessato possa fruirne anche oltre i termini contrattualmente stabiliti, atteso che si tratta di diritto irrinunciabile.
In tale ipotesi spetta comunque all'amministrazione fissare i periodi di fruizione, in applicazione dell'art. 2109 del codice civile.

Il Comune ha chiesto se sia lecito, in virtù del principio di irrinunciabilità delle ferie, concedere la fruizione di ferie residue relative all'anno 2013, non fruite entro i termini stabiliti dal contratto collettivo di lavoro. L'Ente precisa che il dipendente interessato non ha presentato formale istanza e che il medesimo è stato assente 53 giorni per malattia.
Preliminarmente si osserva che allo stato attuale la disciplina applicabile in materia agli enti locali del comparto unico risulta ancora l'art. 18 del CCNL del 06.07.1995
[1].
Pertanto, appare utile soffermarsi su alcune indicazioni interpretative fornite in proposito dall'ARAN.
La predetta Agenzia ha innanzitutto specificato che ciascun ente, in base alle previsioni contemplate al richiamato articolo 18, è tenuto a governare in maniera responsabile l'istituto delle ferie, attraverso una corretta programmazione delle stesse, in quanto la fruizione non può essere imputata esclusivamente alla volontà del dipendente
[2].
Premesso un tanto, si è richiamato il disposto dell'art. 2109 del codice civile, che stabilisce espressamente che le ferie sono assegnate dal datore di lavoro, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del lavoratore. In virtù di detto principio, è pertanto consentito alle amministrazioni anche procedere all'assegnazione d'ufficio delle ferie.
L'ARAN ha rimarcato in particolare come la disciplina contenuta nei contratti collettivi di lavoro in materia di ferie conservi tuttora la propria validità ed efficacia, rappresentando un preciso vincolo negoziale.
Conseguentemente i termini di fruizione delle ferie previsti dall'art. 18 del CCNL del 06.07.1995 devono ritenersi prevalenti rispetto a quelli contemplati nel d.lgs. 66/2003, considerata l'esplicita salvaguardia della disciplina contrattuale contenuta nel medesimo decreto
[3].
Pertanto, i termini da rispettare per la fruizione delle ferie sono quelli indicati all'art. 18 del citato contratto nazionale, sia per l'eventuale differimento dovuto ad esigenze personali (entro il 30 aprile dell'anno successivo a quello di maturazione del diritto), sia per quanto concerne il differimento per esigenze di servizio (30 giugno dell'anno successivo).
L'ARAN ha inoltre chiarito che la violazione di detti termini si può tradurre in un inadempimento contrattuale, anche suscettibile di dar luogo a contenzioso giudiziario.
Con specifico riferimento poi alla fattispecie della mancata fruizione delle ferie per ragioni di servizio entro il primo semestre o al caso in cui la mancata fruizione derivi dall'inerzia del dipendente, che non ha provveduto a richiederle dopo tale termine, la predetta Agenzia ha fornito le ulteriori considerazioni
[4].
Si è evidenziato che le fattispecie richiamate configurano ipotesi patologiche, che dovrebbero verificarsi solo in casi eccezionali. Ad ogni buon conto, considerato che deve comunque ritenersi esclusa la possibilità di monetizzare le ferie non godute
[5] e che le stesse sono un diritto irrinunciabile, si è ritenuto possibile che il dipendente possa fruirne anche oltre i termini temporali contrattualmente stabiliti. In tale ipotesi -si è precisato- spetta comunque all'amministrazione fissare i periodi di fruizione, in applicazione dell'art. 2109 del codice civile, anche in mancanza di formale richiesta del dipendente (le ferie sono assegnate dal datore di lavoro, tenuto conto delle esigenze dell'amministrazione e degli interessi del lavoratore).
Alla luce del ricostruito quadro legale e contrattuale in materia, l'ARAN afferma in conclusione che l'attribuzione e la fruizione delle ferie deve avvenire ad ogni buon conto entro l'anno solare successivo a quello di maturazione e comunque entro i termini fissati dal d.lgs. 66/2003.
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[1] Cfr. art. 83 del CCRL del 07.12.2006, che conferma la disciplina del CCNL del 06.07.1995, per le parti non disapplicate dalla contrattazione collettiva regionale.
[2] Cfr. RAL 1424, consultabile sul sito: www.aranagenzia.it.
[3] Cfr. art. 10, comma 1, del d.lgs. 66/2003.
[4] Cfr. RAL 498.
[5] Cfr. art. 5, comma 8, del d.l. 95/2012, convertito in l. 135/2012 e Dipartimento della funzione pubblica, nota n. 40033 dell'08.10.2012
(28.11.2014 -
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CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Pubblicazione sul sito istituzionale del Comune della registrazione delle sedute del consiglio comunale. Ammissibilità.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla possibilità di pubblicare sul sito istituzionale dell'Ente la registrazione audio delle sedute consiliari. A tal fine precisa che il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale prevede la registrazione della seduta ma nulla dice in merito alla possibilità o meno di pubblicazione della stessa.
In via generale, si osserva che il funzionamento dei consigli, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal regolamento (articolo 38, comma 2, TUEL).
È, pertanto, nell'ambito delle norme interne dell'ente locale, che dovrebbero rinvenirsi le disposizioni sulla possibilità di registrazione del dibattito, con indicazione delle relative modalità e limiti e con disciplina della eventuale successiva pubblicazione dei dati registrati.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale dell'Ente prevede, all'articolo 6 bis, la registrazione su nastro o altro supporto elettronico della seduta consiliare.
Il comma 9 dell'indicata norma recita, in particolare: 'Per l'ascolto da parte dei consiglieri o di terzi verranno messe a disposizione copie dei supporti originali indicati nel precedente comma 3'.
[1]
Premesso che l'interpretazione delle norme del regolamento consiliare spetta all'organo che lo ha approvato, si ritiene che la norma da ultimo citata, nell'indicare la modalità di messa a disposizione dell'avvenuta registrazione, potrebbe includere anche quella concretizzantesi nella pubblicazione della stessa sul sito istituzionale dell'Ente. Atteso, infatti, che l'ascolto è consentito a qualsiasi terzo che ne faccia richiesta e implicherebbe l'obbligo per il Comune di procedere alla duplicazione dell'originale della registrazione su altri supporti magnetici, si ritiene che la pubblicazione rappresenterebbe una modalità meno gravosa per gli uffici i quali con la pubblicazione -che verrebbe effettuata una tantum in conseguenza delle sedute consiliari- assolverebbero alla richiesta di messa a disposizione della registrazione verso la generalità degli interessati.
Si consideri, altresì, che, come affermato dal Garante per la protezione dei dati personali,
[2] 'l'ente locale, dovrebbe fare, opportunamente, largo uso di nuove tecnologie che facilitino la conoscenza da parte dei cittadini, tenuto conto anche del diritto all'utilizzo nei loro confronti delle tecnologie telematiche (art. 3 d.lg. 07.03.2005, n. 82, recante il 'Codice dell'amministrazione digitale')' e la pubblicazione sul sito istituzionale dell'Ente verrebbe incontro ad una tale esigenza.
Per completezza espositiva, si ricorda la necessità di limitare la registrazione o 'oscurare' le parti di essa contenenti dati sensibili o concernenti la riservatezza di determinati soggetti o questioni affrontate nel dibattito consiliare.
[3]
Ciò affermato, ribadito che compete al consiglio comunale l'interpretazione della suddetta norma regolamentare, si suggerisce, per risolvere eventuali incertezze, di disciplinare in maniera espressa e inequivoca la questione della pubblicazione della registrazione delle sedute consiliari, ad integrazione dell'articolo 6 bis del proprio regolamento.
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[1] Il comma 3 dell'articolo 6-bis prevede la registrazione degli interventi su nastro o altro supporto elettronico.
[2] Garante per la protezione dei dati personali, 'Linee guida in materia di trattamento di dati personali per finalità di pubblicazione e diffusione di atti e documenti di enti locali', deliberazione n. 17 del 19.04.2007.
[3] È finalizzata a soddisfare, in parte, tale esigenza la previsione di cui all'articolo 6 bis, comma 10, del regolamento del consiglio comunale il quale recita: 'L'impianto di registrazione verrà disattivato durante la discussione di proposte trattate in seduta segreta'
(21.11.2014 -
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ATTI AMMINISTRATIVI: Presentazione al sindaco di documenti personali da parte di privati cittadini. Obblighi dell'amministrazione comunale.
Le richieste personali dei privati cittadini, anche correlate al deposito di singoli documenti, possono essere avanzate all'amministrazione comunale nelle forme e modalità previste dalla normativa vigente e, pertanto, mediante presentazione agli uffici amministrativi competenti all'istruttoria -non, invece al consiglio comunale-, alla luce del principio di separazione delle funzioni tra organi di indirizzo politico e organi amministrativi.
Il Comune, sentito anche per le vie brevi, chiede se il sindaco sia obbligato a far pervenire al consiglio comunale o a singoli consiglieri determinati documenti di carattere privato, recapitatigli da un cittadino, come richiesto dallo stesso. In particolare, si tratterebbe di materiale documentale concernente questioni di interesse individuale del privato, quali lettere, atti rilasciati dall'Amministrazione a tale soggetto od osservazioni dello stesso e documenti di vario genere relativi a vertenze esistenti tra il cittadino e il Comune.
Al quesito posto si ritiene di fornire risposta negativa.
Com'è noto il consiglio comunale, ai sensi dell'articolo 42 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, è organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo. Le sue competenze, elencate all'articolo 42, comma 2, sono attinenti all'adozione degli atti fondamentali ivi indicati. Risulta, pertanto, estraneo ai compiti del consiglio l'esame di documenti presentati da un cittadino e concernenti sue situazioni conflittuali esistenti con il Comune.
Si ritiene che richieste personali, anche con deposito di singoli documenti, possano essere avanzate all'amministrazione comunale nelle forme e modalità previste dalla normativa vigente e, pertanto, mediante presentazione agli uffici amministrativi competenti all'istruttoria (e non già al consiglio comunale), alla luce del principio di separazione delle funzioni tra organi di indirizzo politico e organi amministrativi.
Non può, peraltro, escludersi la possibilità che la documentazione depositata presso gli uffici comunali venga inoltrata agli organi politici (di solito singoli assessori), ad esempio, in caso di presentazione da parte di un privato cittadino di segnalazioni su questioni di generale interesse della collettività comunale.
Tale fattispecie risulta, tuttavia, differente da quella in esame, atteso che le segnalazioni si sostanziano in suggerimenti, reclami o descrizione di determinate situazioni che possono incidere sull'attività della pubblica amministrazione e non riguardano, invece, controversie personali di un individuo in essere con il Comune (13.11.2014 -
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NEWS

AMBIENTE-ECOLOGIA: Paletti per la rinnovata Aia. Limiti per le ispezioni e la sospensione delle operazioni. La circolare n. 22295/2014 del ministero chiarisce i confini dell'autorizzazione ambientale.
Le attività accessorie vanno sottoposte ad «autorizzazione integrata ambientale» solo se influenti sull'esercizio di quella principale, già sottoposta ad «Aia» per l'alto potenziale inquinante.

Con nota 27.10.2014 n. 22295 di prot. il ministero dell'ambiente detta le prime «linee di indirizzo» sull'applicazione della nuova disciplina in materia di «prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento» in vigore dallo scorso 11.04.2014, circoscrivendo il campo di applicazione delle novità introdotte nel dlgs 152/2006 dal dlgs 46/2014 (recante attuazione della direttiva 2010/75/Ue sull'«Integrated Pollution Prevention and Control», cd. «Ippc», altresì tradotta sul piano nazionale con il termine citato di «Aia»).
Tra i chiarimenti del dicastero anche la conduzione delle ispezioni negli impianti, che devono essere limitate alle modalità applicative dell'autorizzazione e a nuovi rischi ambientali, così come l'irrogazione della sospensione dalle operazioni, possibile unicamente per reiterate violazioni delle medesime prescrizioni o per imminente danno all'ecosistema.
Attività sottoposte ad «Aia». La circolare MinAmbiente precisa quali siano le «attività accessorie tecnicamente connesse» a quella principale che, costituendo con quest'ultima una unica «installazione» (nuova nozione che ha sostituito quella di «impianto»), devono essere ricomprese nell'autorizzazione integrata ambientale. Il Dicastero sottolinea come le attività accessorie coincidano con quelle svolte nello stesso o contiguo «sito» direttamente connesso con quello dell'attività principale per mezzo di infrastrutture tecnologiche funzionali alla sua conduzione e le cui modalità di svolgimento abbiano qualche implicazione tecnica con l'attività primaria (come nel caso in cui il «fuori servizio» di quelle connesse determini direttamente o indirettamente problemi all'esercizio della principale).
Ma questo, precisa il ministero, al netto delle infrastrutture costituite da reti di distribuzione o collettamento (come reti elettriche, reti idriche, metanodotti) a meno che non siano in via principale e prioritaria dedicate alle attività coinsediate, o di estensione limitata al sito. Ancora, il MinAmbiente precisa come per «sito» in cui sono collocate le installazioni (tecnicamente il «luogo», ex nuovo articolo 5 del dlgs 152/2006) debba intendersi quello definito dal regolamento (Ce) n. 761/2001 (in tema di ecogestione) come «tutto il terreno, in una zona geografica precisa, sotto il controllo gestionale di un'organizzazione che comprende attività, prodotti e servizi. Esso include qualsiasi infrastruttura, impianto e materiali».
Migliori tecniche disponibili. Gli standard (meglio noti come «Bat» «Best Available Techniques») che gli impianti industriali devono rispettare per poter ottenere l'autorizzazione integrata ambientale sono, per i procedimenti Aia avviati dal 07.01.2013 (termine dal quale il nuovo dlgs 46/2014 fa partire il cd. «periodo transitorio») quelli direttamente stabiliti dall'Ue. E solo in via residuale (per assenza di nuovi riferimenti o lacunosità degli stessi), precisa il MinAmbiente, quelli nazionali adottati sulla base del dlgs 372/1999 o del dlgs 59/2005 (disciplina previgente).
Il chiarimento poggia su una delle più rilevanti innovazioni introdotte dalla riformulazione della disciplina, ossia l'obbligo per le Autorità competenti al rilascio dell'«Aia» (e dunque, a valle, per i gestori delle installazioni) di osservare le ultime «Bat» definite direttamente dalla Commissione Ue, senza aspettare (come nella pregressa normativa) la loro declinazione sul piano nazionale tramite decreti ministeriali.
Gestione di rifiuti. Con la circolare in parola arrivano anche delucidazioni su particolari installazioni di trattamento rifiuti che rientrano nella nuova disciplina «Aia», come quelle di frantumazione e incenerimento. I frantumatori che fanno scattare, unitamente alle dimensioni dell'impianto e alla tipologia di rifiuti trattati, gli obblighi autorizzatori, sono quelli che determinano «con azione meccanica la riduzione in pezzi e frammenti di un rifiuto costituito da un oggetto metallico, allo scopo di ottenere residui di metallo riciclabili», coincidenti con i dispositivi denominati «shredder» nella versione inglese della direttiva 2010/75/Ue e già contemplati dal dlgs 209/2003 (recante attuazione della direttiva 2000/53/Ce sui veicoli fuori uso).
La «capacità di incenerimento» che fa scattare, oltre certe soglie, gli obblighi «Aia» per i relativi impianti di combustione coincide invece con la «capacità nominale» rintracciabile nell'articolo 237-ter del dlgs 152/2006, quale «somma delle capacità di incenerimento dei forni che costituiscono un impianto di incenerimento o coincenerimento dei rifiuti, quali dichiarate dal costruttore e confermate dal gestore, espressa in quantità di rifiuti che può essere incenerita in un'ora, rapportata al potere calorifico dichiarato dei rifiuti».
Relazione di riferimento. Fondamentale per i gestori delle installazioni, avverte il MinAmbiente, sarà la tempestiva presentazione alle Autorità della nuova «relazione di riferimento» recante le informazioni su qualità del suolo e delle acque sotterranee (necessaria per un raffronto con lo stato al momento della cessazione definitiva delle attività).
Il ritardo nella predisposizione della Relazione (i cui contenuti devono essere definiti, ex articolo 29-sexies del dlgs 152/2006, da apposito decreto ministeriale, già predisposto dal Dicastero lo scorso 13 novembre ma ancora non pubblicato) potrà infatti determinare per i gestori un blocco delle istanze relative alla procedura di «Aia» (nuova o di adeguamento).
Rinnovi. Tra le fondanti novità del dlgs 46/2014 vi è l'abolizione della procedura di «rinnovo» dell'autorizzazione integrata, fusa con quella di «riesame» da parte dell'Autorità pubblica al verificarsi di determinati presupposti (nuove «Bat» intervenute, decorso di 10 anni da rilascio o precedente riesame, esito negativo di controlli, valori inquinanti da abbassare ulteriormente).
Il MinAmbiente chiarisce in merito alle diverse situazioni che possono interessare i gestori degli impianti, e ciò alla luce del sofisticato sistema transitorio dettato dal dlgs 46/2014, il quale distingue tra le installazioni in possesso di una autorizzazione ambientale al 06.01.2013 o che entro lo stesso termine ne abbiano fatto domanda e poi avviato la propria attività entro il 06.01.2014 (definite dal dlgs 46/2014 come «installazioni esistenti») e le (residuali) «installazioni nuove».
Chiarisce infatti il MinAmbiente che: i provvedimenti Aia rilasciati dopo l'11.04.2014 (data di entrata in vigore della nuova disciplina) non possono più prevedere obbligo di rinnovo periodico e le relative istanze pendenti devono essere archiviate su domanda dei gestori; i procedimenti di rinnovo avviati dopo il 07.01.2013 e ancora in corso devono essere convertititi in procedimenti di riesame; i termini di scadenza dei provvedimenti «Aia» in vigore all'11.04.2014 sono prorogati (con un raddoppio).
Controlli e ispezioni. Il Dicastero chiarisce i confini delle più stringenti ispezioni affidate dalla nuova disciplina alle Autorità di controllo, ora chiamate (dal neo articolo 29-sexies, dlgs 152/2006) a effettuare «l'esame di tutta la gamma degli effetti ambientali indotti dalle installazioni».
Per il MinAmbiente tali sopralluoghi non potranno riguardare tutti i rischi già valutati in sede di rilascio dell'«Aia», ma andranno condotti nell'ambito di quanto programmato da quest'ultima, limitando quindi gli eventuali approfondimenti istruttori alle sole modalità applicative del «Piano di monitoraggio e controllo» e alla presenza di possibili problematiche non già valutate.
Sospensione delle autorizzazioni. La circolare 27.10.2014 circoscrive infine le previste ipotesi di sospensione dell'«Aia» per reiterate violazioni o immediato pericolo per l'ambiente. In merito alla sospensione a causa di violazione delle prescrizioni Aia per «più di due volte l'anno», il MinAmbiente precisa come il periodo da considerare sia esclusivamente quello dei 365 giorni precedenti l'ultimo accertamento e il conteggio vada effettuato solo sulle violazioni dello stesso precetto (come, per esempio, l'inosservanza del medesimo limite di emissione, per la medesima sostanza, in corrispondenza del medesimo punto di emissione).
Le sospensioni, invece, dovute a «situazioni di immediato pericolo o danno per l'ambiente o per la salute umana» potranno scattare solo per violazione di esplicite prescrizioni «Aia» suscettibili di determinare nell'immediato futuro effetti negativi sull'ambiente. E quindi non per violazioni di obblighi normativi non esplicitamente richiamati nell'autorizzazione (come l'inosservanza di valori limite di emissione per sostanze non ritenute pertinenti e significative a valle dell'istruttoria e pertanto non fissati degli atti) o per quelle che non causano effetti immediati (come la mancata trasmissione alle Autorità di piani di adeguamento da realizzare in anni successivi) o le cui ripercussioni sono terminate (come il superamento «una tantum» di un valore di emissione in condizioni di normale esercizio) (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.12.2014).

PUBBLICO IMPIEGOFunzione pubblica. Stop parziale agli incarichi ai pensionati.
Lo stop agli incarichi ai pensionati, nella versione rafforzata dal decreto sulla Pubblica amministrazione (articolo 6 del Dl 90/2014), riguarda solo le attività espressamente indicate dalla norma, e non può essere oggetto di interpretazioni estensive. Al blocco, inoltre, sfuggono gli incarichi conferiti prima del 25 giugno scorso, data di entrata in vigore della norma, che quindi possono tranquillamente arrivare alla loro scadenza.

A fissare la geografia del blocco, proponendo un ambito di applicazione più ristretto di quello circolato in alcune interpretazioni di questi mesi, è la Funzione pubblica, nella circolare 04.12.2014 n. 6/2014 che si è resa necessaria per superare le tante incertezze incontrate dalle amministrazioni.
La norma, spiega la circolare, serve a evitare che gli enti pubblici aggirino gli obblighi di pensionamento introdotti negli ultimi anni, e non a evitare tout court ai pensionati di dare il proprio contributo. Per questa ragione, lo stop si accende solo per gli incarichi dirigenziali, anche se a tempo determinato, e quelli che «implicano la direzione di uffici e la gestione di risorse umane», compresi dunque i ruoli di direttore scientifico o sanitario.
L’interpretazione “restrittiva” offerta dalla Funzione pubblica impone di effettuare distinzioni spesso di dettaglio. Ai pensionati, per esempio, non è possibile affidare incarichi di studio o consulenza, ma nessun divieto ferma gli incarichi di ricerca, che sono considerati distinti dalla normativa e possono anche prevedere la responsabilità di un progetto
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.12.2014).

PUBBLICO IMPIEGOP.a., pensionati out. Incarichi vietati, molte le eccezioni. Madia sul divieto di conferire compiti dirigenziali.
Una regola con molte eccezioni. Il divieto di conferire incarichi dirigenziali, direttivi, di studio e consulenza ai pensionati (contenuto nell'art. 6 del decreto legge di riforma della p.a., dl 90/2014) è di «stretta interpretazione». Perché, diversamente, incorrerebbe nei rilievi della Corte costituzionale. Per questo sono esclusi dal divieto coloro che, collocati in quiescenza per aver raggiunto i requisiti minimi nella propria carriera, vogliano concorrere per un altro impiego pubblico in una carriera in cui sia ancora possibile prestare servizio (si pensi all'università e all'amministrazione della giustizia che hanno un'età pensionabile più alta). Via libera anche agli incarichi di ricerca e di docenza (non espressamente contemplati dal divieto) a condizione che siano reali, così come agli incarichi nelle commissioni di concorso o di gara. «Per la loro natura eccezionale» devono poi ritenersi esclusi anche gli incarichi dei commissari straordinari degli enti pubblici. E la stessa cosa dicasi per i subcommissari. Negli enti locali, infine, il divieto non si applica agli incarichi in organi di controllo (collegi sindacali e collegi dei revisori) a condizione che non abbiano natura dirigenziale.

Con la circolare 04.12.2014 n. 6/2014 il ministro della funzione pubblica, Marianna Madia, ha chiarito la portata applicativa di una norma molto discussa della riforma p.a, quella che «per agevolare il ricambio generazionale e il ringiovanimento del personale nelle p.a.» vieta a tutte le pubbliche amministrazioni comprese nell'elenco Istat (incluse le autorità indipendenti, la Consob, i ministeri, gli enti territoriali) di continuare ad avvalersi di dipendenti in pensione, attribuendo loro rilevanti responsabilità amministrative. Una prassi che secondo il dicastero di palazzo Vidoni finisce per sbarrare la strada ai dipendenti più giovani.
Le nuove regole si applicano dall'entrata in vigore del decreto legge, ossia dal 25.06.2014. Gli incarichi conferiti prima non saranno soggetti ad alcun divieto, al pari di quelli attribuiti da soggetti diversi dalla pubblica amministrazione.
Disco rosso, invece, per le cariche in organi di governo di enti e società controllate (presidente, amministratore o componente del cda).
Il divieto non si applica se gli incarichi sono gratuiti a condizione però che non abbiano una durata superiore a un anno (non prorogabile né rinnovabile). Le p.a. potranno quindi attribuire un incarico gratuito a un dirigente in pensione per consentirgli di affiancare il nuovo titolare dell'incarico per non più di un anno. Il via libera agli incarichi gratuiti per un anno vale per «ciascuna amministrazione».
Quindi, chiarisce la nota della funzione pubblica, il dipendente pubblico collocato in quiescenza potrà ricevere differenti incarichi da parte di enti diversi, purché ciascuno rispetti il limite di durata annuale (articolo ItaliaOggi del 06.12.2014).

EDILIZIA PRIVATANella Scia-imprese ridotta l’autotutela degli uffici Pa. Sblocca Italia. Dopo i 60 giorni per i controlli chiusura dell’attività eccezionale.
Maggiori certezze per chi deve utilizzare la Scia per avviare una attività d'impresa regolamentata da leggi specifiche (caso frequente nei settori dei servizi e del commercio) perché agli enti che ricevono la Scia e devono controllarla sono state poste limitazioni alla possibilità di bloccare l'attività.
Gli enti che non controllano la Scia entro 60 giorni solo in pochi casi avranno il potere di riesaminare i requisiti dichiarati dal segnalante e vietare, se non sussistono, la prosecuzione della attività.

E' questa la conseguenza di una modifica all'articolo 19 della legge 241/1990 introdotta dall'articolo 25 della legge 164/2014, lo sblocca Italia.
Prima della modifica il quadro normativo della Scia era il seguente:
entro 60 giorni dal ricevimento della Scia l'ente competente, Comune, Camera di commercio e così via, deve (termine perentorio) controllare la dichiarazione sui requisiti previsti dalla legge di settore;
se mancano requisiti, entro tale termine deve vietare l'inizio o la prosecuzione dell'attività, qualora il segnalante non regolarizzi la Scia;
se l'ente effettua il controllo dopo il termine, anche di mesi o anni, e i requisiti sono ritenuti inesistenti, in tutto o in parte, può bloccare l'attività con gli strumenti della autotutela previsti dagli articoli 21-quinquies (revoca) e 21-nonies (annullamento) che consentono all'ente una ampia discrezionalità;
se il segnalante, al fine di dichiarare i requisiti, rilascia una autocertificazione falsa l'ente può vietare in qualsiasi momento la prosecuzione dell'impresa e il segnalante rischia una condanna penale;
se i requisiti sono inesistenti, oltre alle conseguenze indicate nei punti precedenti, l'imprenditore incorrerà nelle sanzioni amministrative previste dalle norme di settore (se, per esempio, con la Scia si apre illegittimamente un negozio la sanzione va da 2.582 a 15.493 euro).
Tutti concordano che sono due i maggiori ostacoli che finora hanno penalizzato l’uso della Scia: le norme sui requisiti per iniziare una impresa sono spesso ambigue e applicate diversamente nei vari territori; il potere degli enti di rimettere in discussione l'impresa anche dopo anni.
L'articolo 25 della legge 164/2014 stabilisce che l'ente che non ha controllato entro i 60 giorni, qualora successivamente accerti la carenza dei requisiti, può bloccare l'impresa solo se la Scia riguarda una attività che comporta «pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l'ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale».
La maggior parte delle attività economiche non coinvolgono questi interessi sensibili e quindi gli imprenditori, scaduti i 60 giorni dall'invio della Scia, possono operare senza il rischio amministrativo, ovviamente se l'autocertificazione non è falsa. È stato quindi pressoché neutralizzato il timore dell'autotutela ma chi ha compilato la Scia rimane nell'incertezza di aver interpretato e applicato correttamente la normativa del suo settore.
Per evitare questi rischi occorre dare applicazione all’articolo 7 della direttiva sui servizi del 2006 dove si afferma che gli Stati forniscono agli imprenditori «in linguaggio semplice e comprensibile» informazioni sul modo in cui i requisiti per iniziare l'impresa «vengono generalmente interpretati e applicati»
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.12.2014 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

PATRIMONIOAscensori sicuri anche nel pubblico. Norme UE.
Le regole Ue si estendono agli ascensori «pubblici». Il Dpr di modifica alla disciplina è stato approvato dal Consiglio dei ministri lunedì sera.
L’Anacam (imprese di costruzione e manutenzione) segnala le tre modifiche rilevanti al testo vigente del Dpr 162/1999:
1) sono stati completamente eliminati i riferimenti agli ascensori «in servizio privato», quindi tutti gli ascensori –indipendentemente dal fatto che vengano o meno adibiti a “servizio pubblico”– seguiranno le medesime regole definite negli allegati del Dpr 162 e della direttiva 95/16/CE quanto a progettazione, conformità e messa in esercizio;
2) gli organismi accreditati da Accredia per le verifiche ispettive, anche se non notificati per le valutazioni di conformità, potranno svolgere l’attività di verifica;
3) è stato introdotta la differenziazione tra edifici esistenti ed edifici di nuova costruzione: per i primi, gli organismi accreditati e notificati saranno autorizzati a rilasciare l’autorizzazione preventiva all’installazione di ascensori in deroga alle misure stabilite dalle norme armonizzate per le fosse e le testate, una volta accertata l’effettiva impossibilità di ricavare i prescritti spazi liberi o volumi di rifugio; per i secondi, è lo Sviluppo a rilasciare l’accordo preventivo, limitatamente ai casi di impossibilità per motivi di carattere geologico
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.12.2014).

APPALTI SERVIZIIn house, servizi di natura commerciale da mettere a gara.
Nell'ambito di un rapporto in house fra un ministero e una società pubblica controllata al 100% è legittimo affidare in via diretta soltanto i servizi strumentali al perseguimento dell'interesse generale; i servizi aggiuntivi di natura commerciale devono invece essere messi in concorrenza con una gara pubblica.

È quanto afferma l'Autorità garante della concorrenza e del mercato con la segnalazione n. 1155, pubblicata sul bollettino 01.12.2014 n. 46, in cui si analizza il rapporto in house esistente fra il ministero dei beni culturali e la società Ales (partecipata al 100% dal ministero) incaricata della gestione dei musei, nonché la legittimità di diverse convenzioni in essere o in procinto di essere stipulate, che prevedevano l'affidamento diretto di una molteplicità di attività (merchandising museale, comunicazione, promozione del patrimonio culturale, supporto e monitoraggio della sicurezza dei siti culturali, riordino e gestione informatizzata degli archivi degli istituti periferici del ministero) in precedenza affidati con gara a operatori privati.
Il provvedimento, partendo dall'analisi delle attività previste nello statuto di Ales, mette in risalto come Ales abbia anche «una potenziale vocazione commerciale basata sul rischio di impresa, suscettibile di condizionare le scelte strategiche della società stessa, distogliendola dalla cura primaria dell'interesse pubblico di riferimento».
Oltre ai servizi strumentali alla fruizione dei siti culturali, legittimamente affidabili in house, la segnalazione evidenzia l'esistenza di servizi aggiuntivi di natura evidentemente commerciali, per l'affidamento dei quali occorre sempre salvaguardare la concorrenza per l'accesso al mercato. Per gli altri servizi «aggiuntivi» (editoria, consulenze, ricerche, studi; attività di pubblicità e promozione, l'attività di merchandising servizio di manutenzione edifici) un affidamento in house -senza quindi ricorrere ad una gara- avrebbe effetti distorsivi della concorrenza.
Infatti, dice l'Antitrust, il fatto che l'impresa gestisca determinati servizi in condizioni di monopolio fa si che possa «presentarsi sui mercati concorrenziali offrendo a soggetti diversi dall'ente affidante ulteriori servizi di natura commerciale, facendosi forza di vantaggi competitivi ingiustificati perché acquisiti grazie al conferimento di un'attività riservata».
Da ciò la richiesta al ministero di modificare lo statuto di Ales eliminando attività riferibili a una finalità strettamente commerciale e di rivedere le modalità di affidamento dei servizi attinenti alla gestione dei musei e delle aree archeologiche secondo criteri obiettivi e trasparenti, tali da assicurare la concorrenza tra i soggetti interessati (articolo ItaliaOggi del 05.12.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Fotovoltaico sugli edifici, serve la prevenzione incendi.
La prevenzione incendi si applica anche agli impianti fotovoltaici installati sugli edifici. L'installazione di un impianto fotovoltaico su di un edificio può far aumentare il rischio di incendio, se non si seguono attentamente determinate prescrizioni. Questo aggravio è dovuto alle caratteristiche elettrico-costruttive dell'impianto e alla sua modalità di posa in opera. La prevenzione, infatti, assolve funzione di preminente interesse pubblico diretta a conseguire, secondo criteri applicativi uniformi sul territorio nazionale, gli obiettivi di sicurezza della vita umana, di incolumità delle persone e di tutela dei beni dell'ambiente attraverso la promozione, lo studio, la predisposizione e la sperimentazione di norme, misure, provvedimenti, accorgimenti e modi di azione intesi a evitare l'insorgenza di un incendio e degli eventi a esso comunque connessi o a limitarne le conseguenze».

Lo ha precisato il ministero dell'interno con la nota 28.10.2014 n. 12678 di prot..
Nel caso di un'attività esistente nella quale venga installato un nuovo impianto fotovoltaico di tipo «incorporato» al fine dì valutare se tale modifica apportata comporti un aggravio del preesistente livello di rischio incendio, il responsabile dovrà opportunamente valutare i seguenti aspetti: l'interferenza con il sistema di ventilazione dei prodotti della combustione (ostruzione parziale/totale di traslucidi, impedimenti apertura evacuatori), la modalità di propagazione dell'incendio in un fabbricato delle fiamme all'esterno o verso l'interno del fabbricato (presenza di condutture sulla copertura di un fabbricato suddiviso in più compartimenti - modifica della velocità di propagazione di un incendio in un fabbricato mono compartimento), la sicurezza degli operatori addetti alla manutenzione e di quelli addetti alle operazioni di soccorso (articolo ItaliaOggi del 02.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Terre da scavo, restyling per i piccoli cantieri. In arrivo ulteriori istruzioni per il riutilizzo nello stesso sito. Rifiuti. Regole specifiche anche per il deposito temporaneo e le infrastrutture.
Una nuova disciplina sul deposito temporaneo di terre e rocce da scavo e la razionalizzazione e semplificazione del riutilizzo nello stesso sito di questi materiali prodotti in piccoli cantieri. Così il decreto Sblocca Italia introduce nuovi criteri per la semplificazione della disciplina sulle terre e rocce da scavo, che si aggiungono a quelli già previsti nella prima versione del Dl 133/2014 (coordinamento disposizioni vigenti, esplicitazione norme abrogate, proporzionalità della disciplina, divieto di introdurre livelli di regolamentazione superiori a quelli comunitari).
In realtà questi nuovi indirizzi per il riordino della normativa sono meno innovativi di quanto potrebbero apparire ad una prima lettura e -forse- sono unicamente volti a confermare disposizioni già esistenti che gli enti locali tendono ad interpretare restrittivamente, vanificando così le finalità reali delle norme.
Il deposito temporaneo
La legge di conversione del Dl Sblocca Italia (Dl 164/2014) prevede che il futuro regolamento (Dpr) di riorganizzazione della materia dovrà contenere anche una specifica disciplina sul deposito temporaneo dei materiali da scavo che integri quella prevista dal Codice dell’ambiente (articolo 183 Dlgs n. 152/2006).
In realtà, questo nuovo criterio, potrebbe creare non pochi fraintendimenti in futuro. Infatti, il deposito temporaneo disciplinato dall’articolo 183 ha ad oggetto un’attività preliminare di gestione dei rifiuti, la cui applicazione presupporrebbe che le terre e rocce da scavo non vengano riutilizzate come sottoprodotti, ma debbano essere avviate a smaltimento o recupero come rifiuti.
Discorso diverso, invece, è il deposito temporaneo dei materiali scavati in attesa di essere riutilizzati in altri cantieri come sottoprodotti. Questa possibilità non ricade nell’ipotesi disciplinata dall’articolo 183, ma è già stata prevista dal Dm 161/2012 (siti di deposito intermedio) e potrebbe già essere applicata analogicamente a tutti i cantieri anche nell’ambito della procedura semplificata ex articolo 41-bis del Dl 69/2013.
Non è, dunque, chiaro il criterio ispiratore del legislatore e si auspica che la riorganizzazione della disciplina di settore non confonda il deposito temporaneo di rifiuti con il deposito temporaneo di sottoprodotti.
I piccoli cantieri
L’ulteriore criterio di semplificazione introdotto dalla legge di conversione rispetto ai piccoli cantieri sembra più una dichiarazione di principio piuttosto che un criterio sostanziale.
Innanzitutto, il principio di razionalizzazione e semplificazione varrebbe solo per i piccoli cantieri (fino a 6mila metri c ubi) e limitatamente a interventi di costruzione e manutenzione di reti e infrastrutture, con esclusione di altri interventi di scavo sebbene di piccole dimensioni.
Non è neppure chiara la portata della semplificazione stessa che dovrebbe trovare applicazione solo quando i materiali da scavo vengono riutilizzati nel medesimo cantiere di produzione.
Questa ipotesi, invero, è già prevista per tutti i cantieri (grandi o piccoli) dall’articolo 185, comma 1, lett. c), del Codice dell’ambiente il quale consente senza particolari formalismi il riutilizzo di suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione nel medesimo sito di produzione, escludendo questo caso dalla disciplina sui rifiuti.
A questo punto, è legittimo domandarsi quali siano le effettive chances di successo della futura norma di riorganizzazione e razionalizzazione del settore, dato che proprio i criteri di ispirazione di questa norma sono confusi e tra loro contraddittori. Si auspica che chi metterà mano al nuovo testo normativo segua i principi generali di razionalizzazione, semplificazione e proporzionalità inizialmente indicati nel Dl Sblocca Italia, senza concentrarsi sugli specifici criteri aggiuntivi appena introdotti che rischiano di creare maggiore confusione.
La via d’uscita
Potrebbe, invece, essere opportuno che il legislatore, nel riorganizzare la materia, semplifichi la possibilità di riutilizzo dei materiali da scavo prodotti in piccoli cantieri rispetto ad interventi di manutenzione di reti e infrastrutture in siti esterni, prevedendo anche la possibilità di depositare temporaneamente i materiali presso le sedi delle imprese esecutrici dei lavori, con facoltà delle stesse di indicare successivamente (ma entro un periodo di tempo certo) i futuri siti di riutilizzo.
Forse erano queste le finalità che il legislatore intendeva perseguire con la legge di conversione, anche se ciò che è scritto nel decreto Sblocca Italia ha un significato diverso
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.12.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Via libera ai lavori prima della bonifica. Ambiente. Solo sulle aree di Comuni e Province.
Via libera alle opere edilizie prima delle bonifiche, ma solo sui siti pubblici, di proprietà di Comuni e Province.

Il decreto Sblocca Italia interviene anche sulla bonifica dei siti contaminati. In particolare, viene chiarito l’ambito di applicazione dell’articolo 34, comma 7, del Dl 133/2014 che regolava la possibilità di eseguire interventi edilizi sui siti sottoposti a bonifica.
La legge di conversione (Dl 164/2014) chiarisce che tale norma si applica solo ai siti inquinati di proprietà di enti territoriali, con riferimento ai quali è possibile realizzare infrastrutture e opere lineari anche in pendenza di interventi di bonifica o messa in sicurezza, a condizione che la realizzazione di tali opere non pregiudichi il completamento o la realizzazione - per l’appunto - degli interventi ambientali e non comporti un rischio per i lavoratori e per i futuri fruitori dell'opera.
Il successivo comma 8, dunque, stabilisce le modalità operative di coordinamento degli interventi di realizzazione delle opere con gli interventi di bonifica.
A differenza della previgente previsione normativa, la nuova formulazione è sicuramente più chiara e intellegibile. Resta comunque il dubbio circa la reale necessità di una simile previsione: la disciplina ambientale non prevede espressi divieti a realizzare opere edilizie in pendenza degli interventi di bonifica, contenendo invece previsioni che supporrebbero il contrario.
La legge di conversione interviene anche sugli articoli 242 e 242-bis del Dlgs 152/2006 aventi ad oggetto la procedura di bonifica ordinaria e quella semplificata.
Nel primo caso, la novità riguarda la possibilità per la Regione di autorizzare progetti pilota di interventi di bonifica in situ con tecnologie innovative.
La previsione, dunque, incentiverebbe l’intervento in situ con conseguenti minori effetti negativi per l’ambiente in termini di movimentazione di terreni contaminati (CO2) e di saturazione degli impianti di smaltimento e/o recupero.
Il legislatore ha introdotto anche la possibilità di programmare gli interventi di bonifica semplificati in fasi. In particolare, per i siti inferiori a 15mila mq è previsto un intervento in un’unica fase che deve concludersi in 18 mesi.
Per i siti tra 15mila e 400mila mq è riconosciuta la possibilità di prevedere fino a tre fasi di intervento, ognuna delle quali deve essere iniziata e completata in 18 mesi. Infine, per i siti di estensione superiore a 400mila mq sarà il progetto di intervento ad individuare e giustificare il numero di fasi o lotti funzionali in cui si articolerà la bonifica e il relativo crono-programma di attuazione. Anche in questo caso, il chiarimento legislativo introduce una effettiva semplificazione
 (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.12.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Recupero rifiuti, regole ferree. Il rispetto dei meri criteri tecnici non salva da illeciti. La Cassazione sulla corretta applicazione della disciplina europea sull'End of waste.
Per invocare la «cessazione della qualifica di rifiuto» di determinati residui ai sensi delle regole Ue sull'End of waste non è sufficiente il rispetto dei requisiti tecnici previsti in relazione alla qualità dei materiali e al tipo di trattamento praticato, occorrendo anche l'osservanza delle parallele prescrizioni burocratiche imposte dalla stessa disciplina, come quelle su certificazione di qualità delle procedure e conformità dell'output generato. Diversamente, l'attività posta in essere costituisce gestione illecita di rifiuti e, come tale, sanzionata dal «Codice ambientale» (dlgs 152/2006). Arriva dalla Corte di cassazione la prima pronuncia sulla corretta applicazione sul territorio nazionale dei regolamenti Ue che stabiliscono le condizioni per riabilitare a veri e propri beni i residui di lavorazione classificati a monte come rifiuti.
La pronuncia della Corte. Con la sentenza 17.10.2014 n. 43430 il giudice di legittimità ha effettuato una ricognizione sulla portata del regolamento comunitario 333/2011/Ue recante i criteri che determinano quando alcuni tipi di metalli (rottami di ferro, acciaio e alluminio) cessano di essere considerati rifiuti, provvedimento adottato (come gli analoghi atti Ue relativi all'End of waste di rame e vetro) in attuazione della direttiva 2008/98/Ce (articolo 6).
Chiamata a pronunciarsi su una fattispecie relativa al deposito di residui ferrosi effettuato da una azienda sul proprio sito, e ritenuto illecito dai giudici di merito, la Corte ha rigettato le istanze della difesa dirette alla «declassificazione» degli stessi da «rifiuti» a «beni» ai sensi del citato Regolamento 333/2011/Ue (direttamente operativo sul territorio degli Stati membri, in quanto atto «self executing»).
La Cassazione ha, infatti, sottolineato come proprio in base al citato provvedimento comunitario i rottami metallici possono cessare di essere considerati rifiuti «non già e non solo in base alla loro natura, alla loro consistenza e ai trattamenti che subiscono sul luogo di produzione (...) ma anche per effetto delle specifiche prescrizioni (...) e del positivo esito delle procedure preliminari delineate da detta normativa».
Le regole Ue sull'End of waste»... Ed effettivamente, come ricordato dalla stessa Corte nella parte motiva della sentenza, il regolamento 333/2011/Ue sui rottami metallici stabilisce (pedissequamente agli omonimi provvedimenti 715/2013/Ue sul rame e 1179/2012/Ue sul vetro) che detti residui cessano di essere considerati rifiuti solo se, all'atto della loro cessione dal produttore ad altro detentore siano soddisfatte tutte le seguenti condizioni (sostanziali e formali): i rifiuti da recuperare sono costituiti da materiali rispondenti a precisi requisiti tecnici (assenza di elementi estranei alla loro natura metallica e sostanze pericolose); sono stati sottoposti a specifiche operazioni di recupero (separazione a monte da altre sostanze, pulitura); i rottami ottenuti dal trattamento sono idonei al riutilizzo diretto in altro ciclo produttivo; il loro produttore ha condotto le descritte procedure osservando a monte un sistema di «gestione della qualità» riconosciuto ai sensi della normativa Ue; la loro cessione al detentore successivo è accompagnata da un «certificato di conformità» dei rottami a tutti i suddetti criteri.
Proprio questi due ultimi requisiti di carattere formale, ha sottolineato la Cassazione nella sentenza 43430/2014, sono indefettibili per non incorrere nell'illecita gestione di rifiuti prevista e punita dall'articolo 256, dlgs 152/2006.
... e quelle nazionali. Poiché, a mente del citato Regolamento Ue, la riabilitazione da «rifiuti» a «beni» avviene solo «all'atto della cessione» dei rottami dal produttore (ossia dal soggetto che pone in essere tutte le procedure tecniche e burocratiche descritte) al detentore, è altresì necessario (come suggerisce la stessa Corte di legittimità nella sentenza in parola) che in tutte le fasi precedenti siano comunque osservate anche le più generali regole nazionali (ex dlgs 152/2006 e provvedimenti satellite) sulla gestione dei rifiuti, tra cui (lo ricordiamo) il possesso di relativa autorizzazione per impianti e attività, il rispetto delle norme sul deposito temporaneo, le prescrizioni sul tracciamento (registri e formulari, Sistri quando previsto).
In relazione allo specifico istituto dell'End of waste, la norma nazionale di riferimento è costituita dall'articolo 184-ter dello stesso dlgs 152/2006 che recepisce le condizioni base dettate dal citato articolo 6 della direttiva Ue sui rifiuti (utilizzazione dei «residui riabilitati» per scopi specifici; esistenza di un mercato che li assorba; rispetto degli standard propri dei prodotti; assenza di impatti negativi sull'ecosistema) e riconosce la supremazia dei regolamenti Ue (adottati e adottandi) in materia, stabilendo (però) come nelle more dell'adozione di precisi criteri comunitari per singole categorie di rifiuti possano dal Minambiente essere adottate (cedevoli) regole nazionali e infine che, fino all'adozione di tali ultime norme, continueranno comunque a valere le (storiche) disposizioni sulla produzione di «materie prime secondarie» (previste dai decreti ministeriali dm 05.02.1998, 161/2002, 269/2005 e dal dl 172/2008).
A tale disciplina generale ex articolo 184-ter il legislatore nazionale ha proprio negli ultimi mesi affiancato ulteriori disposizioni in materia. A livello procedurale, il dl 91/2014 (come modificato dalla legge di conversione) ha, infatti, dallo scorso agosto rimodulato l'articolo 216 del «Codice ambientale» sancendo l'applicabilità del regime autorizzatorio semplificato (avvio delle operazioni decorsi 90 giorni dalla comunicazione alla provincia, in luogo dell'autorizzazione regionale) alle operazioni di recupero dei beni a fine vita svolte secondo le citate norme Ue sull'End of waste (con l'obbligo per enti e imprese che già effettuano tali attività ai sensi dei citati decreti ministeriali di adeguarsi a dette regole comunitarie entro il marzo 2015).
In relazione alle singole categorie di residui, lo stesso dl 91/2014 ha altresì stabilito (articolo 13, comma 4-ter) che, in attesa di regole «Eow» ad hoc, è consentito il riutilizzo delle materie prime secondarie ottenute da rifiuti inerti (acquisite da impianti di recupero autorizzati in via semplificata) per opere di recupero ambientale, rilevati, sottofondi stradali, ferroviari e aeroportuali, piazzali e ha consentito altresì la gestione come normali beni dei materiali dragati a condizione che: dopo il recupero in casse di colmata presentino valori sotto le «concentrazioni soglia di contaminazione» ex dlgs 152/2006; siano destinati a riutilizzo diretto in sito certo e senza rischi per ambiente; rispettino i requisiti tecnici per prodotti o materie prime secondarie, siano (pedissequamente alle norme Ue) accompagnati da una «dichiarazione di conformità» del produttore o detentore e da documenti di trasporto previsti dalla normativa di settore.
Sempre in relazione a specifici residui, a oggi l'unico provvedimento nazionale attuativo del citato articolo 184-ter del dlgs 152/2006 è invece costituito dal dm Ambiente 22/2013, che consente riabilitare i rifiuti costituiti dai «combustibili solidi secondari» (cosiddetti «Css», prodotti da materiali e sostanze a fine vita) a veri e propri beni (denominati «Css-combustibili») nel rispetto delle seguenti regole: input costituito esclusivamente da rifiuti urbani, speciali non pericolosi espressamente previsti o materiali non pericolosi compatibili con regolamento (Ce) n. 1272/2008; processo in impianti con certificazione ambientale di qualità e secondo precisi standard; materiali di output accompagnati da un certificato di conformità, trasferiti (con tracciamento del trasporto) al successivo utilizzatore entro breve termine e riutilizzati senza pericolo per l'ambiente.
Le novità in itinere. Ulteriori norme sull'End of waste sono attese sia a livello comunitario che nazionale. Lo schema di nuova direttiva sui rifiuti (presentata lo scorso 02.07.2014 dalla Commissione Ue) annuncia infatti un ulteriore allargamento delle categorie di rifiuti per le quali sarà necessaria l'adozione di specifici regolamenti «EoW», prevedendo a fianco di aggregati, rifiuti di carta, vetro, metalli, pneumatici e tessili (già menzionati dalla direttiva 2008/98/Ce) regole ad hoc anche per ceneri, scorie e rifiuti composti.
A livello nazionale, invece, è il dl 133/2014 (cosiddetto «Sblocca Italia», come convertito in legge lo scorso 12.11.2014) a mettere in cantiere nuove norme per la cessazione della qualifica di rifiuto dei materiali da scavo, delegando a un apposito dpr la riformulazione entro il febbraio 2015 dell'intera disciplina sulle terre e rocce in questione (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.12.2014).

APPALTIResponsabilità solidale addio. Appalti, si cambia dal 13 dicembre. Successioni soft. SEMPLIFICAZIONI FISCALI/ Il decreto 175/2014 pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale.
Dal prossimo 13 dicembre, via la responsabilità solidale sugli appalti, incrementata la detrazione dell'Iva sulle sponsorizzazioni e la soglia per la comunicazione delle operazioni con Paesi «black list». Previsto anche l'ampliamento dei casi di esonero per la presentazione delle dichiarazioni di successione.
Risolto, infine, il problema del versamento degli acconti d'imposta, in scadenza lunedì 1° dicembre, per i soggetti in perdita sistemica, dopo l'allungamento del periodo di osservazione da tre a cinque anni, con la possibile fuoriuscita dal regime e l'inapplicabilità della maggiorazione Ires (10,5%).

Con la pubblicazione del decreto legislativo n. 175 del 21/11/2014, più noto come il «decreto sulle semplificazioni fiscali», nella Gazzetta Ufficiale del 28/11/2014 n. 277, alcune semplificazioni scattano già a partire dal prossimo 13 dicembre, stante l'entrata in vigore nei 15 giorni successivi alla pubblicazione.
Tra le semplificazioni più interessanti, e che si rendono subito applicabili, trova spazio anche l'abolizione della responsabilità fiscale negli appalti; il provvedimento in commento, infatti, abroga i commi da 28 a 28-ter, dell'art. 35, dl n. 223/2006.
Si ricorda che i detti articoli disponevano che, in caso di appalto di opere o di servizi, l'appaltatore rispondesse in solido con il subappaltatore delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente, dovute dal subappaltatore all'erario, con riferimento alle prestazioni eseguite nell'ambito del rapporto di subappalto, sebbene nei limiti dell'ammontare del corrispettivo dovuto.
Il presupposto per l'applicazione della disciplina sulle società in perdita sistemica è costituito, già dal periodo d'imposta 2014, da cinque periodi d'imposta consecutivi in perdita fiscale ovvero, indifferentemente, da quattro in perdita fiscale e uno con reddito imponibile inferiore al reddito minimo, in luogo dei tre previsti con le vecchie disposizioni.
La disciplina sulle società in perdita fiscale, pertanto, sarà applicabile soltanto qualora il medesimo soggetto abbia conseguito perdite di tale natura per i precedenti cinque periodi d'imposta (per i periodi 2009, 2010, 2011, 2012 e 2013) ovvero in perdita fiscale per quattro periodi (per esempio, i periodi 2009, 2010, 2012 e 2013) e per uno con reddito imponibile inferiore al reddito minimo (2011); la conseguenza è che la società, se rimasta operativa, non sarà gravata, tra l'altro, dell'addizionale del 10,5% dell'Ires e che di questa nuova situazione potrà tenerne conto anche per il versamento degli acconti in scadenza il 1° dicembre.
I soggetti che operano con paesi a fiscalità privilegiata («black list») devono inviare una comunicazione all'Entrate ma, con l'entrata in vigore del decreto in commento, restano escluse dall'obbligo di comunicazione le operazioni che non superano 10 mila euro, stante il fatto che quest'ultimo rappresenta il limite complessivo annuo.
Si aggiunge l'ulteriore novità concernente all'opzione necessaria per effettuare operazioni intracomunitarie, che sarà esercitata contestualmente all'apertura della partita Iva, con l'immediata inclusione nella banca dati dei soggetti passivi che compiono operazioni intracomunitarie e quella riguardante le sanzioni riguardanti i modelli Intrastat che saranno applicate una sola volta per ogni elenco mensile, inesatto o incompleto, a prescindere dal numero delle operazioni mancanti o inserite in modo non corretto nel listing stesso.
Infine, il provvedimento introduce l'esonero dalla presentazione della dichiarazione di successione, per eredità da parenti in linea diretta inferiore ai 100 mila euro, esclusi immobili o diritti reali sugli stessi, oltre a talune semplificazioni in termini di documenti da allegare (articolo ItaliaOggi del 29.11.2014).

GIURISPRUDENZA

CONSIGLIERI COMUNALI: Un consigliere comunale non può far causa al proprio ente senza nominare il difensore. E se lo fa ugualmente può essere condanno anche per "lite temeraria".
7. Il ricorso è inammissibile.
7.1. Come risulta dall’epigrafe dell'atto introduttivo di appello S.V. sta in giudizio senza il patrocinio di alcun avvocato pur non avendo la qualità per esercitare l'ufficio di difensore.
7.2. Ai sensi dell'articolo 22, commi 1 e 2, c.p.a., davanti agli organi della giurisdizione amministrativa le parti devono valersi obbligatoriamente del ministero di avvocati e, davanti al Consiglio di Stato, di avvocati ammessi al patrocinio innanzi alle giurisdizioni superiori; tale è la regola generale e lo era anche prima dell'entrata in vigore del nuovo codice del processo amministrativo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 03.10.2013, n. 5245; sez. IV, 25.03.1996, n. 382).
Secondo il giudice delle leggi, l'assistenza tecnica obbligatoria, riflesso dell'inviolabilità del diritto di difesa sancito dall'art. 24, co. 2, Cost., costituisce una regola generale cui la legge può derogare (salvo il limite dell'effettività della garanzia della difesa su un piano di uguaglianza), è un diritto irrinunciabile, e non contrasta con l'art. 6 della CEDU nella parte in cui sancisce il diritto all'autodifesa posto che esso non assume valenza assoluta (cfr. Corte cost., 22.12.1980, n. 188; 03.10.1979, n. 125; nello stesso senso Cass. civ. ord., sez. II, 09.06.2011, n. 12570).
7.3. Nel nuovo processo amministrativo, non costituisce eccezione all'obbligo del patrocinio, la possibilità (riconosciuta dall'art. 22, co. 3, c.p.a.), di stare in giudizio senza il ministero del difensore, quando la parte o la persona che la rappresenta "...ha la qualità necessaria per esercitare l'ufficio di difensore con procura presso il giudice adito ..."; in questa ipotesi, infatti, non vi è esclusione di difesa tecnica venendo meno solo la necessità che la parte -che possiede la prescritta abilitazione e condizione professionale per difendere innanzi al giudice adito- debba necessariamente avvalersi di altro difensore.
7.4. Costituiscono, invece, eccezioni in senso proprio alla regola sul patrocinio obbligatorio, i casi di difesa personale della parte previsti dall'art. 23, c.p.a. (in materia di accesso, in materia elettorale e nei giudizi relativi al diritto dei cittadini dell'Unione Europea di circolare nel territorio degli Stati membri); tale eccezionale possibilità, però, è espressamente preclusa per i giudizi di impugnazione che si celebrano davanti al Consiglio di Stato dall'art. 95, co. 6, c.p.a. (“Ai giudizi di impugnazione non si applica l’art. 23, comma 1”.
7.5. Poiché il ricorrente non versa in alcuna delle tassative condizioni che consentono la difesa personale, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
8.- Le spese di giudizio, regolamentate secondo l’ordinario criterio della soccombenza, sono liquidate in dispositivo tenuto conto dei parametri stabiliti dal regolamento 10.03.2014, n. 55.
Il Collegio rileva (come già segnalato con ordinanza del 28.05.2014 ai sensi dell’art. 73, co. 3, c.p.a.), che la pronuncia di inammissibilità del ricorso si fonda, come dianzi illustrato, su ragioni manifeste che integrano i presupposti applicativi della norma sancita dall’art. 26, co. 2, c.p.a. secondo l’interpretazione che ne è stata data dalla giurisprudenza di questo Consiglio (cfr., Sez. V, 11.06.2013, n. 3210; Sez. V, 31.05.2011, n. 3252; Sez. V, 26.03.2012, n. 1733, cui si rinvia a mente degli artt. 74 e 88, co. 2, lett. d), c.p.a. anche in ordine alle modalità applicative della pena pecuniaria ex art. 26, co. 2 cit.).
Le conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza del Consiglio di Stato sul punto in esame sono state, nella sostanza, recepite dalla novella recata dal d.l. n. 90 del 2014 all’art. 26 c.p.a. Invero:
a) l’art. 26, comma 1, che rinviava (e rinvia) all’art. 96 c.p.c., prevedeva la condanna, su istanza di parte, al risarcimento del danno se la parte ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave (art. 96, comma 1, c.p.c.), nonché la condanna anche d’ufficio in favore dell’altra parte, di una somma equitativamente determinata;
b) l’art. 26, co. 2, c.p.a. prevedeva (e prevede) che il giudice condannasse d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso, quando la parte soccombente aveva agito o resistito temerariamente in giudizio;
c) il d.l. n. 90 del 2014 ha inciso sia sull’art. 26, co. 1, c.p.a., in termini generali, valevoli per tutti i riti davanti al giudice amministrativo, sia sull’art. 26, comma 2, c.p.a., in termini specifici, valevoli solo per il rito appalti;
d) sebbene l’art. 26, co. 1, continui a richiamare l’art. 96 c.p.c. in tema di lite temeraria, detta ora una regola più puntuale stabilendosi che in ogni caso, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati;
e) nell’art. 26, co. 2 c.p.a. si detta una ulteriore regola sulla sanzione pecuniaria per lite temeraria nel caso di contenzioso sugli pubblici appalti soggetto al rito dell’art. 120 c.p.a.; infatti l’importo della sanzione pecuniaria (che come visto va dal doppio al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo), può essere elevato fino all'uno per cento del valore del contratto, ove il valore del contratto sia superiore al quintuplo del contributo unificato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.12.2014 n. 6015 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Proposta di programma di recupero urbano respinti - Motivazione - Sufficienza.
Il Consiglio di Stato ha riformato integralmente la decisione del TAR Lombardia relativa ad un caso in cui il Consiglio Comunale aveva respinto una proposta di programma di recupero urbano (PRU) nonostante il parere favorevole di massima della Commissione Edilizia.
La giurisprudenza prevalente (se non costante) è infatti nel senso che “sussiste il difetto di motivazione quando non è possibile ricostruire il percorso logico giuridico seguito dall’autorità emanante e sono indecifrabili le ragioni sottese alla determinazione assunta”.
“L’obbligo di motivazione del provvedimento amministrativo non può ritenersi violato qualora anche a prescindere dal tenore letterale dell’atto finale  i documenti dell’istruttoria offrano elementi sufficienti e univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni e l’iter motivazionale posti a sostegno della determinazione assunta”.

Appare, infatti, meritevole di positivo apprezzamento la censura con la quale l’amministrazione comunale sostiene l’adeguatezza della motivazione a sostegno del provvedimento impugnato in primo grado.
Al riguardo, appare utile rilevare che, secondo quanto dispone l’art. 3, comma 1, secondo periodo della, l. 241/1990, “La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria.” La giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. ex plurimis Cons. St., Sez. V, 31.03.2012, n. 1907; Id. 07.02.2012, n. 658) ha chiarito che sussiste il difetto di motivazione quando non è possibile ricostruire il percorso logico giuridico seguito dall'autorità emanante e sono indecifrabili le ragioni sottese alla determinazione assunta.
Tuttavia, l'obbligo di motivazione del provvedimento amministrativo non può ritenersi violato qualora, anche a prescindere dal tenore letterale dell'atto finale, i documenti dell'istruttoria offrano elementi sufficienti e univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni e l'iter motivazionale posti a sostegno della determinazione assunta.
Nella fattispecie in esame la delibera C.C. n. 9 del 1999, oltre ad indicare i presupposti sulla scorta dei quali è stato attivato il procedimento, le vicende partecipative che lo hanno caratterizzato, pone in luce il parere espresso in sede istruttoria dalla Commissione edilizia, facendolo proprio nella misura in cui, pur essendo di massima favorevole, evidenzia “…che l’impatto insediativo ipotizzato con la realizzazione del P.R.U., sommato agli interventi già previsti nelle immediate vicinanze, se realizzato nei tempi preposti avrebbe un impatto critico sui servizi. Si suggerisce di rivedere la proposta nel lungo termine riducendo le volumetrie”.
Un simile riferimento risulta sufficiente per giustificare il dispositivo con il quale l’atto impugnato in primo grado ha respinto l’istanza dell’originaria ricorrente, sicché non risulta sussistente il dedotto difetto di motivazione
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.12.2014 n. 6006 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIIl Collegio non ignora che, secondo un orientamento giurisprudenziale minoritario, le norme invocate dalla ricorrente (art. 86, comma 3-bis, e art. 87, comma 4, del d.lgs. n. 163/2006, nonché l'art. 26, comma 6, del d.lgs. n. 81/2008) hanno un valore immediatamente precettivo e sono come tali idonee ad eterointegrare automaticamente le regole della singola gara ai sensi dell'art. 1374 c.c., determinando l'inosservanza di dette norme l'esclusione dalla gara per incompletezza della offerta.
Secondo un diverso orientamento, le norme in questione non trovano applicazione con riferimento agli appalti di servizi di cui all'allegato II B, poiché esse non sono richiamate dall'art. 20, comma 1, del D.Lgs. n. 163/2006, non sono espressive di principi generali e, in quanto disposizioni di dettaglio, neppure possono trasformarsi in norme di principio sol perché poste a presidio di interessi aventi una rilevanza costituzionale.
Il Collegio ritiene di condividere l'orientamento espresso dalla pronuncia da ultimo menzionata, anche in base alla considerazione che, ove il legislatore avesse inteso rendere obbligatoria per tutti i tipi di appalti la indicazione degli oneri della sicurezza già nella offerta economica, avrebbe introdotto le opportune modifiche all'art. 20, comma 1, del codice dei contratti pubblici.
Inoltre, la non applicazione dell'art. 86, commi 3-bis e 3-ter, e dell'art. 87, comma 4, agli appalti di servizi di cui all'allegato II B non implica affatto che, in tali casi, alle stazioni appaltanti ed alle imprese sia consentito di non adempiere all'obbligo di remunerare i lavoratori secondo i contratti vigenti o di sottrarsi agli obblighi inerenti la sicurezza sui luoghi di lavoro, poiché le stazioni appaltanti possono, comunque, vincolarsi al rispetto delle suddette norme in punto di obbligo di indicazione, nell'offerta economica, degli oneri della sicurezza non soggetti a ribasso.
Invero, l'obbligo di specificare, a pena di esclusione, gli oneri della sicurezza nell'offerta economica non può farsi discendere automaticamente dall'art. 26, comma 6, del D.Lgs. n. 81/2008, il quale si limita a prescrivere che gli enti aggiudicatori, "nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell'anomalia delle offerte" valutino l'adeguatezza del valore economico al costo del lavoro e della sicurezza, sebbene quest'ultimo debba essere "indicato e risultare congruo rispetto all'entità ed alle caratteristiche dei lavori, dei servizi e delle forniture" diversamente da quanto -ad esempio- statuisce l'art. 17 della legge n. 68/1999 in tema di dichiarazione sostitutiva del rispetto della normativa sul diritto al lavoro dei disabili.
Ne consegue che, quando si tratta di appalti diversi dai lavori pubblici (per gli appalti di lavori pubblici, infatti, vige la norma ad hoc dei piani di sicurezza ex art. 131 del D.Lgs. n. 163/2006) e non vi sia nel bando una comminatoria espressa d'esclusione, ove sia omesso lo scorporo degli oneri stessi, il relativo costo, appunto perché coessenziale e consustanziale al prezzo offerto, potrebbe rilevare ai soli fini dell'anomalia di quest'ultimo, nel senso che, per scelta della stazione appaltante (da interpretare sempre a favore del non predisponente), il momento di valutazione degli oneri stessi non è eliso, ma è posticipato al subprocedimento di verifica della congruità dell'offerta nel suo complesso.

L'art. 20, comma 1, del D. Lgs. n. 163/2006 recita: "L'aggiudicazione degli appalti aventi per oggetto i servizi elencati nell'allegato II B è disciplinata esclusivamente dall'art. 68 (specifiche tecniche), dall'articolo 65 (avviso sui risultati della procedura di affidamento), dall'articolo 225 (avvisi relativi agli appalti aggiudicati)", tale disposizione va integrata con quella del successivo art. 27, ai sensi del quale l'affidamento dei contratti pubblici esclusi, in tutto o in parte, dall'applicazione dello stesso d.lgs. n. 163/2006 deve avvenire "nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità".
Orbene, il Collegio non ignora che, secondo un orientamento giurisprudenziale minoritario, le norme invocate dalla ricorrente (art. 86, comma 3-bis, e art. 87, comma 4, del d.lgs. n. 163/2006, nonché l'art. 26, comma 6, del d.lgs. n. 81/2008) hanno un valore immediatamente precettivo e sono come tali idonee ad eterointegrare automaticamente le regole della singola gara ai sensi dell'art. 1374 c.c., determinando l'inosservanza di dette norme l'esclusione dalla gara per incompletezza della offerta: (conf.: Cons. Stato, Sez. III, 28.08.2012 n. 4622, avente ad oggetto l'affidamento di un servizio di ristorazione il cui bando non prevedeva l'obbligo della indicazione degli oneri della sicurezza, in relazione ad appalti di servizi compresi nell'allegato II A del D.Lgs. n. 163/2006; TAR Lombardia, n. 1217/2011, avente ad oggetto un appalto per la manutenzione di verde pubblico; TAR Piemonte, I, 21.12.2012, n. 1376; Cons. Stato, Sez. III, 03.07.2013 n. 3565).
Secondo un diverso orientamento, le norme in questione non trovano applicazione con riferimento agli appalti di servizi di cui all'allegato II B, poiché esse non sono richiamate dall'art. 20, comma 1, del D.Lgs. n. 163/2006, non sono espressive di principi generali e, in quanto disposizioni di dettaglio, neppure possono trasformarsi in norme di principio sol perché poste a presidio di interessi aventi una rilevanza costituzionale (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. III, 18.10.2013, n. 5070).
Il Collegio ritiene di condividere l'orientamento espresso dalla pronuncia da ultimo menzionata, anche in base alla considerazione che, ove il legislatore avesse inteso rendere obbligatoria per tutti i tipi di appalti la indicazione degli oneri della sicurezza già nella offerta economica, avrebbe introdotto le opportune modifiche all'art. 20, comma 1, del codice dei contratti pubblici.
Inoltre, la non applicazione dell'art. 86, commi 3-bis e 3-ter, e dell'art. 87, comma 4, agli appalti di servizi di cui all'allegato II B non implica affatto che, in tali casi, alle stazioni appaltanti ed alle imprese sia consentito di non adempiere all'obbligo di remunerare i lavoratori secondo i contratti vigenti o di sottrarsi agli obblighi inerenti la sicurezza sui luoghi di lavoro, poiché le stazioni appaltanti possono, comunque, vincolarsi al rispetto delle suddette norme in punto di obbligo di indicazione, nell'offerta economica, degli oneri della sicurezza non soggetti a ribasso.
Invero, l'obbligo di specificare, a pena di esclusione, gli oneri della sicurezza nell'offerta economica non può farsi discendere automaticamente dall'art. 26, comma 6, del D.Lgs. n. 81/2008, il quale si limita a prescrivere che gli enti aggiudicatori, "nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell'anomalia delle offerte" valutino l'adeguatezza del valore economico al costo del lavoro e della sicurezza, sebbene quest'ultimo debba essere "indicato e risultare congruo rispetto all'entità ed alle caratteristiche dei lavori, dei servizi e delle forniture" diversamente da quanto -ad esempio- statuisce l'art. 17 della legge n. 68/1999 in tema di dichiarazione sostitutiva del rispetto della normativa sul diritto al lavoro dei disabili (conf.: TAR Basilicata, I, 23.12.2013, n. 810; TAR Piemonte, I, 21.12.2012, n. 1376).
Ne consegue che, quando si tratta di appalti diversi dai lavori pubblici (per gli appalti di lavori pubblici, infatti, vige la norma ad hoc dei piani di sicurezza ex art. 131 del D.Lgs. n. 163/2006) e non vi sia nel bando una comminatoria espressa d'esclusione, ove sia omesso lo scorporo degli oneri stessi, il relativo costo, appunto perché coessenziale e consustanziale al prezzo offerto, potrebbe rilevare ai soli fini dell'anomalia di quest'ultimo, nel senso che, per scelta della stazione appaltante (da interpretare sempre a favore del non predisponente), il momento di valutazione degli oneri stessi non è eliso, ma è posticipato al subprocedimento di verifica della congruità dell'offerta nel suo complesso (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. III, 18.10.2013, n. 5070) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 05.12.2014 n. 2132 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIIl servizio di illuminazione delle lampade votive assume la natura di servizio pubblico di rilevanza economica, al quale trovano applicazione i precedenti commi 20 e 21, secondo cui “al fine di assicurare il rispetto della disciplina europea, la parità tra gli operatori, l'economicità della gestione e di garantire adeguata informazione alla collettività di riferimento, l'affidamento del servizio è effettuato sulla base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell'ente affidante, che dà conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche se previste.
Gli affidamenti in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto non conformi ai requisiti previsti dalla normativa europea devono essere adeguati entro il termine del 31.12.2013 pubblicando, entro la stessa data, la relazione prevista al comma 20. Per gli affidamenti in cui non è prevista una data di scadenza gli enti competenti provvedono contestualmente ad inserire nel contratto di servizio o negli altri atti che regolano il rapporto un termine di scadenza dell'affidamento. Il mancato adempimento degli obblighi previsti nel presente comma determina la cessazione dell'affidamento alla data del 31.12.2013”.
Come visto, all’affidamento di tali servizi è applicabile l’art. 30 d.lgs. 12.04.2006, n. 163, recante il codice dei contratti pubblici, che definisce l’istituto della concessione di servizi e stabilisce che “la scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto della concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi”.
Il citato art. 30, inoltre, estende alla concessione di servizi il principio sancito dall’art. 143, comma 7, e cioè che “l'offerta e il contratto devono contenere il piano economico-finanziario di copertura degli investimenti e della connessa gestione per tutto l'arco temporale prescelto e devono prevedere la specificazione del valore residuo al netto degli ammortamenti annuali, nonché l'eventuale valore residuo dell'investimento non ammortizzato al termine della concessione, anche prevedendo un corrispettivo per tale valore residuo. Le offerte devono dare conto del preliminare coinvolgimento di uno o più istituti finanziatori nel progetto”.
Laddove si tratti di servizi pubblici il cui valore non superi la soglia di rilevanza comunitaria, l’affidamento può avvenire con lo strumento del cottimo fiduciario, ai sensi dell’art. 125 del medesimo codice dei contratti pubblici.

Prima di esaminare singolarmente i cinque motivi di ricorso, è opportuno illustrare sinteticamente il quadro normativo nella materia di interesse.
Su esso non incide più l’art. 4, comma 32, d.l. 13.08.2011, n. 138, conv. con mod. dalla l. 14.09.2011, n. 148, essendo stato l’intero articolo dichiarato costituzionalmente illegittimo (Corte cost. 20.07.2012, n. 1999).
Ciò posto, l’art. 34, comma 26, d.l. 18.10.2012, n. 179, conv. con mod. dalla l. 17.12.2002, n. 221, stabilisce che, “al fine di aumentare la concorrenza nell'ambito delle procedure di affidamento in concessione del servizio di illuminazione votiva, all'articolo unico del decreto del Ministro dell'interno 31.12.1983, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 16 del 17.01.1984, al numero 18) sono soppresse le seguenti parole: "e illuminazioni votive". Conseguentemente i comuni, per l'affidamento del servizio di illuminazione votiva, applicano le disposizioni di cui al decreto legislativo n. 163 del 2006, e in particolare l'articolo 30 e, qualora ne ricorrano le condizioni, l'articolo 125”.
In sostanza, il servizio di illuminazione delle lampade votive assume la natura di servizio pubblico di rilevanza economica, al quale trovano applicazione i precedenti commi 20 e 21, secondo cui “al fine di assicurare il rispetto della disciplina europea, la parità tra gli operatori, l'economicità della gestione e di garantire adeguata informazione alla collettività di riferimento, l'affidamento del servizio è effettuato sulla base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell'ente affidante, che dà conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche se previste.
Gli affidamenti in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto non conformi ai requisiti previsti dalla normativa europea devono essere adeguati entro il termine del 31.12.2013 pubblicando, entro la stessa data, la relazione prevista al comma 20. Per gli affidamenti in cui non è prevista una data di scadenza gli enti competenti provvedono contestualmente ad inserire nel contratto di servizio o negli altri atti che regolano il rapporto un termine di scadenza dell'affidamento. Il mancato adempimento degli obblighi previsti nel presente comma determina la cessazione dell'affidamento alla data del 31.12.2013
”.
Come visto, all’affidamento di tali servizi è applicabile l’art. 30 d.lgs. 12.04.2006, n. 163, recante il codice dei contratti pubblici, che definisce l’istituto della concessione di servizi e stabilisce che “la scelta del concessionario deve avvenire nel rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto della concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi”.
Il citato art. 30, inoltre, estende alla concessione di servizi il principio sancito dall’art. 143, comma 7, e cioè che “l'offerta e il contratto devono contenere il piano economico-finanziario di copertura degli investimenti e della connessa gestione per tutto l'arco temporale prescelto e devono prevedere la specificazione del valore residuo al netto degli ammortamenti annuali, nonché l'eventuale valore residuo dell'investimento non ammortizzato al termine della concessione, anche prevedendo un corrispettivo per tale valore residuo. Le offerte devono dare conto del preliminare coinvolgimento di uno o più istituti finanziatori nel progetto”.
Laddove si tratti di servizi pubblici il cui valore non superi la soglia di rilevanza comunitaria, l’affidamento può avvenire con lo strumento del cottimo fiduciario, ai sensi dell’art. 125 del medesimo codice dei contratti pubblici (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 05.12.2014 n. 2130 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASpetta al privato dare dimostrazione dell’avvenuto pagamento dell’oblazione cui è stata subordinata dal legislatore la sanatoria delle opere abusive. Tale onere non è attenuato né dal decorso del tempo, né dall’avvenuto trasferimento della titolarità del diritto di proprietà sull’immobile abusivo, tenuto conto, in particolare, del mancato intervento di un provvedimento espresso di sanatoria.
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Il decorso dei termini fissati dall'art. 35 comma 18, l. 28.02.1985, n. 47 (ventiquattro mesi per la formazione del silenzio-accoglimento sull'istanza di condono edilizio e trentasei mesi per la prescrizione dell'eventuale diritto al conguaglio delle somme dovute) presuppone in ogni caso la completezza della domanda di sanatoria, accompagnata in particolare dall'integrale pagamento di quanto dovuto a titolo di oblazione per quanto attiene la formazione del silenzio-accoglimento

Il motivo è infondato.
Va premesso che spetta al privato dare dimostrazione dell’avvenuto pagamento dell’oblazione cui è stata subordinata dal legislatore la sanatoria delle opere abusive. Tale onere non è attenuato né dal decorso del tempo, né dall’avvenuto trasferimento della titolarità del diritto di proprietà sull’immobile abusivo, tenuto conto, in particolare, del mancato intervento di un provvedimento espresso di sanatoria.
Ciò posto, il decorso dei termini fissati dall'art. 35 comma 18, l. 28.02.1985, n. 47 (ventiquattro mesi per la formazione del silenzio-accoglimento sull'istanza di condono edilizio e trentasei mesi per la prescrizione dell'eventuale diritto al conguaglio delle somme dovute) presuppone in ogni caso la completezza della domanda di sanatoria, accompagnata in particolare dall'integrale pagamento di quanto dovuto a titolo di oblazione per quanto attiene la formazione del silenzio-accoglimento (Cons. Stato, Sez. V, 16.04.2013, n. 2116; Cons. Stato, Sez. IV, 07.08.2012, n. 4525; Cons. Stato, Sez. V, 02.02.2012, n. 578; Cons. Stato, Sez. IV, 16.02.2001, n. 1012; Cons. Stato, Sez. IV, 07.07.2009, n. 4350; Cons. Stato, Sez. IV, 19.02.2008, n. 554; Cons. Stato, Sez. V, 19.04.2007, n. 1809).
Nel caso di specie, non essendovi prova dell’integrale pagamento dell’oblazione, deve escludersi che si sia formato il silenzio-assenso di cui si discorre
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 05.12.2014 n. 2127 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione dell'abuso edilizio, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia, è atto vincolato alla constatata abusività e non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione circa la sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione d'illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto.
Il motivo è infondato.
L'ordine di demolizione dell'abuso edilizio, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia, è atto vincolato alla constatata abusività e non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione circa la sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione d'illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto (Cons. Stato, Sez. V, 27.08.2014, n. 4381; Cons. Stato, Sez. V, 30.06.2014, 3281; Cons. Stato, Sez. V, 27.05.2014, n. 2696)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 05.12.2014 n. 2127 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non sussiste l'illegittimità dell'ingiunzione di demolizione in quanto notificata ad un solo comproprietario, poiché la mancata notificazione della disposta misura repressivo-ripristinatoria, può, al più, incidere sulla relativa conoscenza.
Pertanto, ai fini della legittimità dell'iter procedimentale posto in essere dall'amministrazione per il ripristino dei valori giuridici offesi dalla realizzazione di un'opera abusiva, è sufficiente la notificazione dell'ordinanza di demolizione, che non ha natura sanzionatoria, così come degli atti meramente consequenziali, ad uno solo dei comproprietari.
Spetterà, eventualmente, agli altri comproprietari far valere l'omessa notifica.

Con il terzo motivo, la ricorrente si duole che l’ordinanza di demolizione sia stata solo notificata a lei e non anche agli altri eredi di Pasquale Zaffino, con i quali sussiste tutt’ora la comunione ereditaria.
Anche tale motivo è infondato.
Secondo la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, non sussiste l'illegittimità dell'ingiunzione di demolizione in quanto notificata ad un solo comproprietario, poiché la mancata notificazione della disposta misura repressivo-ripristinatoria, può, al più, incidere sulla relativa conoscenza; pertanto, ai fini della legittimità dell'iter procedimentale posto in essere dall'amministrazione per il ripristino dei valori giuridici offesi dalla realizzazione di un'opera abusiva, è sufficiente la notificazione dell'ordinanza di demolizione, che non ha natura sanzionatoria, così come degli atti meramente consequenziali, ad uno solo dei comproprietari (Cons. Stato, Sez. VI, 27.03.2012, n. 1810).
Spetterà, eventualmente, agli altri comproprietari far valere l'omessa notifica (C.G.A., Sez. giurisd., 03.09.1997, 331)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 05.12.2014 n. 2127 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIn tema di appalti pubblici:
a) in linea stratta, la redazione dei processi verbali della commissione di gara può essere fatta sulla base di appunti presi durante lo svolgimento della singola seduta e, quindi, in un tempo successivo rispetto a quello in cui le relative deliberazioni sono state adottate, atteso che la lettura e l’approvazione del processo verbale costituiscono adempimenti che non devono avere luogo necessariamente nella medesima adunanza;
b) gli atti ed i fatti descritti nel processo verbale, avendo la funzione di costituire una documentazione probante circa l’esistenza dei medesimi, fanno piena prova fino a querela di falso;
c) la mancanza, sul relativo verbale, delle firme dei partecipanti alla seduta estranei ai componenti del seggio di gara non ne inficia la validità, in quanto l’attestazione resa dal pubblico ufficiale verbalizzante è sufficiente, a garanzia della loro presenza in loco e della riferibilità ai medesimi delle attività e delle dichiarazioni riportate a verbale;
d) ai sensi dell’art. 46, comma 1-bis, del D.lgs. 12.04.2006 n. 163, l’esclusione dalla gara è disposta esclusivamente nel caso in cui il codice, la legge statale o il regolamento attuativo la comminino espressamente, ovvero introducano comunque “adempimenti doverosi” o “norme di divieto”, pur senza prevedere espressamente l’esclusione, ma sempre nella logica del numerus clausus, con conseguente nullità delle clausole di bando che dispongano in maniera difforme;
e) ambedue le omissioni ascrivibili all’offerta dell’aggiudicataria non rientrano tra le cause tassative di esclusione, in quanto la validità dell’offerta per 180 giorni discende direttamente dalla legge, mentre l’indicazione del prezzo in cifre si ricava meccanicamente dalla percentuale di ribasso offerta;
f) nella valutazione dell’offerta, la stazione appaltante ha utilizzato, secondo le previsioni del bando, il metodo aggregativo-compensatore di cui all’allegato P del D.P.R. n. 2017 del 2010, fermo restando che il richiamo all’art. 16 del capitolato speciale vale solo ad individuare i parametri da tenere in considerazione e non il metodo di valutazione;
g) per altro, quand’anche si trattasse di clausole tra loro in contraddizione, come sostenuto in ricorso, la loro diretta incisività sulla corretta e consapevole elaborazione dell’offerta, ne avrebbe imposto l’immediata contestazione, senza attendere l’esito della gara;
h) l’attribuzione del punteggio finale deriva dall’applicazione del predetto metodo;
i) la sindacabilità, ad opera del G.A., del giudizio di non anomalia dell’offerta è limitata alle sole ipotesi di errori di valutazione evidenti e gravi, oppure di valutazioni abnormi o affette da errori di fatto.

Ritenuta la manifesta infondatezza del ricorso, in quanto, in tema di appalti pubblici:
a) in linea stratta, la redazione dei processi verbali della commissione di gara può essere fatta sulla base di appunti presi durante lo svolgimento della singola seduta e, quindi, in un tempo successivo rispetto a quello in cui le relative deliberazioni sono state adottate, atteso che la lettura e l’approvazione del processo verbale costituiscono adempimenti che non devono avere luogo necessariamente nella medesima adunanza (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. III, 12.09.2013 n. 8257; TAR Brescia, Sez. II, 09.08.2012 n. 1440);
b) gli atti ed i fatti descritti nel processo verbale, avendo la funzione di costituire una documentazione probante circa l’esistenza dei medesimi, fanno piena prova fino a querela di falso (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 04.11.2002 n. 6004 e Sez. V, 19.03.2001 n. 1642);
c) la mancanza, sul relativo verbale, delle firme dei partecipanti alla seduta estranei ai componenti del seggio di gara non ne inficia la validità, in quanto l’attestazione resa dal pubblico ufficiale verbalizzante è sufficiente, a garanzia della loro presenza in loco e della riferibilità ai medesimi delle attività e delle dichiarazioni riportate a verbale;
d) ai sensi dell’art. 46, comma 1-bis, del D.lgs. 12.04.2006 n. 163, l’esclusione dalla gara è disposta esclusivamente nel caso in cui il codice, la legge statale o il regolamento attuativo la comminino espressamente, ovvero introducano comunque “adempimenti doverosi” o “norme di divieto”, pur senza prevedere espressamente l’esclusione, ma sempre nella logica del numerus clausus, con conseguente nullità delle clausole di bando che dispongano in maniera difforme (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 22.07.2014 n. 3905 e 13.05.2010 n. 2956);
e) ambedue le omissioni ascrivibili all’offerta dell’aggiudicataria non rientrano tra le cause tassative di esclusione, in quanto la validità dell’offerta per 180 giorni discende direttamente dalla legge, mentre l’indicazione del prezzo in cifre si ricava meccanicamente dalla percentuale di ribasso offerta;
f) nella valutazione dell’offerta, la stazione appaltante ha utilizzato, secondo le previsioni del bando, il metodo aggregativo-compensatore di cui all’allegato P del D.P.R. n. 2017 del 2010, fermo restando che il richiamo all’art. 16 del capitolato speciale vale solo ad individuare i parametri da tenere in considerazione e non il metodo di valutazione;
g) per altro, quand’anche si trattasse di clausole tra loro in contraddizione, come sostenuto in ricorso, la loro diretta incisività sulla corretta e consapevole elaborazione dell’offerta, ne avrebbe imposto l’immediata contestazione, senza attendere l’esito della gara (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 09.01.2014 n. 62);
h) l’attribuzione del punteggio finale deriva dall’applicazione del predetto metodo;
i) la sindacabilità, ad opera del G.A., del giudizio di non anomalia dell’offerta è limitata alle sole ipotesi di errori di valutazione evidenti e gravi, oppure di valutazioni abnormi o affette da errori di fatto (cfr. CGA 20.02.2013 n. 250), che non sono riscontrabili nella fattispecie de quo, stante in particolare l’applicabilità del CCNL Multiservizi anche agli operatori del settore sanitario e la non macroscopica ed evidente irregolarità del calcolo sui costi generali e della sicurezza (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 05.12.2014 n. 2100 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Prestazione incompleta, il compenso resta pieno.
Il professionista ha diritto a incassare il compenso anche se non effettua tutte le attività descritte nella parcella pro forma. Infatti, il cliente può omettere il pagamento solo nel caso in cui riesca a dimostrare l'inadempienza in relazione alle singoli voci.

È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione -Sez. II civile- che, con la sentenza 04.12.2014 n. 25642, ha respinto il ricorso del cliente di un commercialista che lamentava che le prestazioni indicate nella parcella pro forma non rispondevano a quelle realmente effettuate.
Per questo non aveva effettuato il pagamento. Così il commercialista aveva chiesto e ottenuto un decreto ingiuntivo. Inutile l'opposizione da parte del cliente.
Ora la Suprema corte ha reso definitivo il verdetto.
Sul punto la seconda sezione civile ha motivato che la parcella del difensore è assimilabile a rendiconto in relazione al quale le contestazioni del cliente non possono essere generiche, ma devono riguardare specificamente le singole voci esposte, sorgendo solo in caso di contestazione l'obbligo del professionista di fornire una più appropriata dimostrazione delle sue pretese, le quali, in caso contrario, devono ritenersi provate nel loro fondamento di fatto.
E non solo. Affermando questo principio i Supremi giudici hanno inoltre ribadito che nel contratto d'opera la prestazione di colui che si è obbligato a compiere l'opera, non comprende solo lo svolgimento di un'attività lavorativa, ma anche la produzione del risultato utile promesso, sicché essa non può ritenersi adempiuta ove l'indicata attività non sia valsa a conseguire il preciso risultato contemplato dalla convenzione.
Di segno opposto rispetto alla decisione in esame è la sentenza della Cassazione, n. 16782 del 22 luglio scorso, secondo cui il commercialista non ha diritto ad alcun compenso extra se la lettera di incarico, che prevede una remunerazione omnicomprensiva, parla genericamente di consulenza fiscale. Rientrano nelle sue competenze le trasferte presso il cliente e le procedure organizzative degli uffici.
In quell'occasione la seconda sezione civile ha respinto il ricorso di una commercialista che chiedeva compensi extra per trasferte, rispetto a quanto pattuito nella lettera di incarico (articolo ItaliaOggi del 05.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATALa costituzione di un rapporto fideiussorio a garanzia del pagamento del contributo, per il rilascio del permesso di costruire, non radica in capo all'amministrazione comunale il dovere di esigere l'adempimento dal fideiussore preventivamente all'applicazione delle sanzioni pecuniarie ex art. 42, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
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Le sanzioni ex art. 42 dpr 380/2001 sono una conseguenza legale ed automatica del ritardo nell'adempimento, che esula dalla conoscenza dell'interessato e opera senza che l'amministrazione creditrice abbia l’onere di preavviso né necessità di preventiva messa in mora dell'obbligato.

In secondo luogo, occorre richiamare la condivisibile giurisprudenza secondo cui la costituzione di un rapporto fideiussorio a garanzia del pagamento del contributo, per il rilascio del permesso di costruire, non radica in capo all'amministrazione comunale il dovere di esigere l'adempimento dal fideiussore preventivamente all'applicazione delle sanzioni pecuniarie ex art. 42, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (TAR Campania–Napoli, Sez. VIII, 12.01.2012, n. 108; TAR Lombardia–Milano, Sez. II, 21.07.2009, n. 4405; sul previgente art. 3 l. 28.02.1985, n. 47, cfr. anche Cons. Stato, Sez. IV, 17.02.2014).
Ciò posto, ai sensi dell’art. 42 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il mancato versamento, nei termini stabiliti, del contributo di costruzione comporta: a) l'aumento del contributo in misura pari al 10 per cento qualora il versamento del contributo sia effettuato nei successivi centoventi giorni; b) l'aumento del contributo in misura pari al 20 per cento quando, superato il termine di cui alla lettera a), il ritardo si protrae non oltre i successivi sessanta giorni; c) l'aumento del contributo in misura pari al 40 per cento quando, superato il termine di cui alla lettera b), il ritardo si protrae non oltre i successivi sessanta giorni.
Tali sanzioni sono una conseguenza legale ed automatica del ritardo nell'adempimento, che esula dalla conoscenza dell'interessato e opera senza che l'amministrazione creditrice abbia l’onere di preavviso né necessità di preventiva messa in mora dell'obbligato (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 17.03.2014, n. 1326; Cons. Stato, Sez. IV, 17.02.2014, n. 731).
La società ricorrente sostiene, però, che nel caso di specie le sanzioni non sarebbero applicabili, in considerazione dell’errore commesso dal Comune di Cosenza nella determinazione del contributo di concessione. In sostanza, il suo inadempimento all’obbligo di corrispondere il contributo de quo sarebbe una legittima reazione avverso l’illegittimità commessa dall’amministrazione pubblica.
Va però ricordato che il vigente ordinamento esclude che il privato possa far valere da sé le proprie ragioni, salvi i casi espressamente previsti dalla legge (ad esempio, nell’ambito contrattualistico, l’eccezione inadimplenti non est adimplendum di cui all’art. 1460 c.c.; o il diritto di ritenzione accordato al possessore di buona fede dall’art. 1152 c.c.; o, ancora, i poteri autoritativi riconosciuti dall’art. 823 c.c. alle amministrazioni pubbliche a tutela dei beni demaniali).
Nel caso in esame, nessuna norma autorizza l’autotutela del privato, mercé la sospensione dei pagamenti delle rate del contributo di costruzione, sicché tale sospensione, messa in pratica dalla ricorrente, configura condotta illecita, tale da comportare l’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 42 d.P.R. 06.06.2014, n. 380, da computarsi –come ha fatto il Comune di Cosenza- sulle somme effettivamente dovute.
E’ vero, peraltro, che la G.M.P. S.r.l. si è rivola a questo Tribunale Amministrativo Regionale, per far accertare l’errore di calcolo riscontrato. Ma ciò è avvenuto solo in data 04.04.2014, dopo la notifica, da parte del Comune di Cosenza, dell’ordinanza ingiunzione, allorché erano decorsi più di 240 giorni dal termine per il pagamento di tutte le rate ancora non corrisposte dalla G.M.P.
Non può dunque ritenersi che l’inadempimento da parte della società ricorrente, che già prima della proposizione del ricorso giurisdizionale aveva assunto le dimensioni temporali cui l’art. 42 citato ancora l’applicazione di sanzioni amministrative, sia in qualche modo giustificato.
La G.M.P. S.r.l. ha poi sottolineato di aver corrisposto, in data 30.01.2014, la somma di € 10.000,00, a titolo di acconto sulla quarta rate della quota di contributo di costruzione costituita dagli oneri di urbanizzazione; ciò dovrebbe comportare che la sanzione per il ritardato pagamento degli stessi non debba essere computata sull’intero ammontare della rata (€ 20.236,08), ma solo sulla residua somma (€ 10.236.08).
Tale osservazione, però, non coglie nel segno, atteso che il pagamento è avvenuto solo in data 30.01.2014, allorché era scaduto da oltre 240 giorni il termine per il pagamento della quarta rata della quota del contributo di costruzione costituita dagli oneri di urbanizzazione (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 04.12.2014 n. 2096 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn materia di ordinanze contingibili e urgenti l’obbligo della comunicazione sussiste allorché l’invio della stessa risulti in concreto compatibile con il procedimento alla base del provvedimento.
Nel caso di specie, nell’ordinanza impugnata non vi è alcuna allegazione dei motivi di urgenza che abbiano reso obiettivamente impossibile la comunicazione di avvio del procedimento. Inoltre, dall’esame della situazione di fatto e dal tipo di pericolo indicato nell’ordinanza (infiltrazioni non continue e muffe all’interno dell’abitazione della ricorrente, anche se visibili dall’esterno) non sussisteva alcuna concreta ragione, per adottare il provvedimento impugnato, in carenza di contraddittorio e senza il coinvolgimento della diretta interessata.
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Presupposti per la legittima adozione da parte del Sindaco dell’ordinanza contingibile e urgente sono rappresentati dall’esistenza di un grave pericolo che minacci l’incolumità pubblica o la sicurezza urbana. La contigibilità consiste in una situazione imprevedibile ed eccezionale che non può essere fronteggiata con i mezzi ordinari previsti dall’ordinamento, mentre l’urgenza, causata dall’imminente pericolosità, impone l’adozione di un efficace provvedimento straordinario e di durata temporanea in deroga ai mezzi ordinari previsti dall’ordinamento giuridico.
Secondo la giurisprudenza amministrativa, infatti, il Sindaco può ricorrere motivatamente allo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente unicamente al fine di fronteggiare con immediatezza sia una situazione di natura eccezionale ed imprevedibile (in attesa dell’adozione delle misure ordinarie), sia una condizione di pericolo imminente al momento dell’adozione dell’ordinanza, indipendentemente dalla circostanza che la situazione di emergenza fosse sorta in epoca antecedente. Indispensabile, comunque, è sempre la sussistenza, l’attualità e la gravità del pericolo, cioè il rischio concreto di un danno grave e imminente.
Nel caso di specie, dalla lettura del provvedimento impugnato emerge la mancanza dei presupposti costitutivi del potere del Sindaco, non riscontrandosi un pericolo per l’incolumità pubblica dalla sussistenza di infiltrazioni d’acqua e muffe con effetti e rilevanza circoscritta all’abitazione della ricorrente, derivanti dal piano superiore.
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Il potere del Sindaco, come precisato, può essere esercitato al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini e solo per fronteggiare situazioni di carattere eccezionale ed imprevedibile, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, con la conseguenza che prima dell’adozione di tali ordinanze si impone un rigoroso accertamento in concreto della sussistenza dei presupposti che ne giustificano l’esercizio, dando atto in motivazione della situazione di grave e concreto pericolo per l’interesse pubblico specifico a cui si intende apprestare una tutela anticipata attraverso l’adozione dell’ordinanza contingibile ed urgente.
Ora, se è pur vero l’accertamento del pericolo costituisce una valutazione rimessa alla discrezionalità dell’amministrazione deve rilevarsi che l’autorità giudiziaria può legittimamente sindacare il corretto esercizio di tale potere, al fine di verificare la sussistenza dei presupposti di legge ed accertare se le misure assunte non siano manifestamente irragionevoli, irrazionali o illogiche.
Nel caso di specie, lo stato dei luoghi non consente di ritenere la sussistenza di una situazione di pericolo per l’incolumità pubblica tale da richiedere un intervento del Sindaco, in quanto per un verso non si trattava di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciavano l’incolumità dei cittadini e per altro verso non si trattava di fronteggiare una situazione di carattere eccezionale ed imprevedibile.
Tali argomentazioni hanno carattere assorbente e comportano l’annullamento del provvedimento impugnato.
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In relazione all’accertamento della responsabilità delle infiltrazioni, si precisa, come variamente evidenziato dalla giurisprudenza amministrativa, che l’ordinanza in oggetto prescinde da qualunque accertamento di responsabilità nella causazione del fattore di pericolo e si rivolge alla proprietaria del bene su cui occorre intervenire, in quanto soggetto che si trova in rapporto con la fonte del pericolo tale da consentirle di eliminare la riscontrata situazione di rischio.
Quest’ultima, quindi, pur dovendo in questa fase accollarsi gli oneri dell’intervento, potrà rivalersi nella deputata sede nei confronti dei soggetti ritenuti responsabili (ivi compreso l’Ente pubblico), previo accertamento delle relativa responsabilità, senza che l’esecuzione della messa in sicurezza imposta dall’atto in questa sede gravato possa intendersi quale acquiescenza, tale da precludere le pretese di rivalsa.

Con ricorso L.A. chiedeva di annullare l’ordinanza contingibile e urgente del Sindaco di Praia a Mare. Riferiva: che il Sindaco di Praia a Mare ordinava alla ricorrente, in qualità di proprietaria dell’abitazione descritta in ricorso, di provvedere con immediatezza alla bonifica e alla eliminazione degli inconvenienti igienici riscontrati sulla propria unità immobiliare; che da un sopralluogo effettuato dai tecnici dell’Asl veniva accertata la presenza di vistose macchie di umidità, lo sviluppo di muffe e il distacco della pittura, eventi da ricondurre a infiltrazioni d’acqua piovana provenienti dal terrazzo o dal cornicione sovrastante.
...
Secondo la giurisprudenza amministrativa, in materia di ordinanze contingibili e urgenti l’obbligo della comunicazione sussiste allorché l’invio della stessa risulti in concreto compatibile con il procedimento alla base del provvedimento (Cfr. Tar Calabria, Catanzaro, Sez. I, 27.04.2005, n. 692).
Nel caso di specie, nell’ordinanza impugnata non vi è alcuna allegazione dei motivi di urgenza che abbiano reso obiettivamente impossibile la comunicazione di avvio del procedimento (Tar Campania Napoli, Sez. V, 19.06.2014, n. 3429). Inoltre, dall’esame della situazione di fatto e dal tipo di pericolo indicato nell’ordinanza (infiltrazioni non continue e muffe all’interno dell’abitazione della ricorrente, anche se visibili dall’esterno) non sussisteva alcuna concreta ragione, per adottare il provvedimento impugnato, in carenza di contraddittorio e senza il coinvolgimento della diretta interessata.
Presupposti per la legittima adozione da parte del Sindaco dell’ordinanza contingibile e urgente sono rappresentati dall’esistenza di un grave pericolo che minacci l’incolumità pubblica o la sicurezza urbana. La contigibilità consiste in una situazione imprevedibile ed eccezionale che non può essere fronteggiata con i mezzi ordinari previsti dall’ordinamento, mentre l’urgenza, causata dall’imminente pericolosità, impone l’adozione di un efficace provvedimento straordinario e di durata temporanea in deroga ai mezzi ordinari previsti dall’ordinamento giuridico (Tar Lombardia Milano, Sez. IV, 14.05.2014, n. 1255).
Secondo la giurisprudenza amministrativa, infatti, il Sindaco può ricorrere motivatamente allo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente unicamente al fine di fronteggiare con immediatezza sia una situazione di natura eccezionale ed imprevedibile (in attesa dell’adozione delle misure ordinarie), sia una condizione di pericolo imminente al momento dell’adozione dell’ordinanza, indipendentemente dalla circostanza che la situazione di emergenza fosse sorta in epoca antecedente. Indispensabile, comunque, è sempre la sussistenza, l’attualità e la gravità del pericolo, cioè il rischio concreto di un danno grave e imminente (Tar Trentino Alto Adige, 29.01.2014, n. 19; Tar Calabria, sez. I, 25.06.2013, n. 709; Tar Basilicata, 23.05.2013, n. 294).
Nel caso di specie, dalla lettura del provvedimento impugnato emerge la mancanza dei presupposti costitutivi del potere del Sindaco, non riscontrandosi un pericolo per l’incolumità pubblica dalla sussistenza di infiltrazioni d’acqua e muffe con effetti e rilevanza circoscritta all’abitazione della ricorrente, derivanti dal piano superiore.
Il potere del Sindaco, come precisato, può essere esercitato al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini e solo per fronteggiare situazioni di carattere eccezionale ed imprevedibile, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, con la conseguenza che prima dell’adozione di tali ordinanze si impone un rigoroso accertamento in concreto della sussistenza dei presupposti che ne giustificano l’esercizio, dando atto in motivazione della situazione di grave e concreto pericolo per l’interesse pubblico specifico a cui si intende apprestare una tutela anticipata attraverso l’adozione dell’ordinanza contingibile ed urgente.
Ora, se è pur vero l’accertamento del pericolo costituisce una valutazione rimessa alla discrezionalità dell’amministrazione deve rilevarsi che l’autorità giudiziaria può legittimamente sindacare il corretto esercizio di tale potere, al fine di verificare la sussistenza dei presupposti di legge ed accertare se le misure assunte non siano manifestamente irragionevoli, irrazionali o illogiche.
Nel caso di specie, lo stato dei luoghi non consente di ritenere la sussistenza di una situazione di pericolo per l’incolumità pubblica tale da richiedere un intervento del Sindaco, in quanto per un verso non si trattava di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciavano l’incolumità dei cittadini e per altro verso non si trattava di fronteggiare una situazione di carattere eccezionale ed imprevedibile.
Tali argomentazioni hanno carattere assorbente e comportano l’annullamento del provvedimento impugnato.
In relazione all’accertamento della responsabilità delle infiltrazioni, si precisa, come variamente evidenziato dalla giurisprudenza amministrativa, che l’ordinanza in oggetto prescinde da qualunque accertamento di responsabilità nella causazione del fattore di pericolo e si rivolge alla proprietaria del bene su cui occorre intervenire, in quanto soggetto che si trova in rapporto con la fonte del pericolo tale da consentirle di eliminare la riscontrata situazione di rischio.
Quest’ultima, quindi, pur dovendo in questa fase accollarsi gli oneri dell’intervento, potrà rivalersi nella deputata sede nei confronti dei soggetti ritenuti responsabili (ivi compreso l’Ente pubblico), previo accertamento delle relativa responsabilità, senza che l’esecuzione della messa in sicurezza imposta dall’atto in questa sede gravato possa intendersi quale acquiescenza, tale da precludere le pretese di rivalsa (Tar Campania, Sez. V, 14.10.2013, n. 4603) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 04.12.2014 n. 2090 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Affidamenti in house vietati se ci sono quote azionarie di privati. Impossibile applicare, per ora, la nuova direttiva europea sugli appalti.
Per escludere radicalmente ogni possibilità di legittimo affidamento "in house" è sufficiente che vi sia, sebbene in minima percentuale, una partecipazione privata al capitale sociale.
Lo ha ribadito il TAR Friuli Venezia Giulia con la sentenza 04.12.2014 n. 629.
La nuova direttiva comunitaria sulle concessioni 2014/23/UE, che ammette in talune ipotesi la partecipazione indiretta dei privati alle società in house, “non risulta ancora recepita dagli Stati membri, né essa si può considerare self executing, sia per la sua natura, che richiede un recepimento e adattamento a livello nazionale, sia perché non è ancora scaduto il termine per il recepimento stesso”.
Pertanto, nel caso esaminato dal Tar Friuli, la non contestata partecipazione dei privati alla società “comporta che essa non può essere considerata una società di “in house providing”, per cui risulta illegittima la delibera impugnata di adesione a detta società e di affidamento alla stessa del servizio di raccolta rifiuti”. A nulla rileva poi la definizione contenuta nella normativa regionale della società come ente pubblico economico.
IMPOSSIBILE LA PARTECIPAZIONE DI SOGGETTI PRIVATI ANCHE SE SOLO IN MINIMA PERCENTUALE. Nella sentenza si ricorda che “la giurisprudenza comunitaria è tassativa nel ritenere impossibile la partecipazione ancorché in percentuale minima di soggetti privati alle società in house e tale posizione è stata ripetutamente confermata dal Consiglio di Stato, a partire dall’Adunanza Plenaria n 1 del 2008”.
Pertanto “È pacifico, nell'attuale stato di evoluzione giurisprudenziale, che il requisito della totalità della proprietà pubblica del capitale della società "in house" debba sussistere in termini assoluti”.
L'affidamento diretto (in house) di un servizio pubblico “viene consentito tutte le volte in cui un ente pubblico decida di affidare la gestione del servizio, al di fuori del sistema della gara, avvalendosi di una società esterna (ossia, soggettivamente separata) che presenti caratteristiche tali da poterla qualificare come una "derivazione" o una "longa manus" dell'ente stesso. Infatti, in ragione del cd. controllo analogo, che richiede non solo la necessaria partecipazione pubblica totalitaria (posto che la partecipazione, pur minoritaria, di un'impresa privata al capitale di una società, alla quale partecipi anche l'Amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla medesima un controllo analogo a quello che essa svolge sui propri servizi) e la presenza di strumenti di controllo da parte dell'ente più incisivi rispetto a quelli previsti dal diritto civile
(commento tratto da www.casaeclima.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Va invece considerata fondata la censura relativa al fatto che di Ambiente servizi facciano parte, sia pure in posizione minoritaria, anche soggetti privati. Infatti, il maggiore azionista dell'ambiente servizi è il consorzio Z.I.P.R. di cui fanno parte 40 società tra cui alcune indubbiamente private. Orbene, la giurisprudenza comunitaria è tassativa nel ritenere impossibile la partecipazione ancorché in percentuale minima di soggetti privati alle società in house e tale posizione è stata ripetutamente confermata dal Consiglio di Stato, a partire dall’Adunanza Plenaria n. 1 del 2008.
È pacifico, nell'attuale stato di evoluzione giurisprudenziale, che il requisito della totalità della proprietà pubblica del capitale della società "in house" debba sussistere in termini assoluti.
Invero, l'affidamento diretto (in house) di un servizio pubblico viene consentito tutte le volte in cui un ente pubblico decida di affidare la gestione del servizio, al di fuori del sistema della gara, avvalendosi di una società esterna (ossia, soggettivamente separata) che presenti caratteristiche tali da poterla qualificare come una "derivazione" o una "longa manus" dell'ente stesso.
Infatti, in ragione del cd. controllo analogo, che richiede non solo la necessaria partecipazione pubblica totalitaria (posto che la partecipazione, pur minoritaria, di un'impresa privata al capitale di una società, alla quale partecipi anche l'Amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla medesima un controllo analogo a quello che essa svolge sui propri servizi) e la presenza di strumenti di controllo da parte dell'ente più incisivi rispetto a quelli previsti dal diritto civile.
Inoltre non deve essere statutariamente consentito che una quota del capitale sociale, anche minoritaria, possa essere alienata a soggetti privati; il consiglio di amministrazione della società deve essere privo di rilevanti poteri gestionali; all'ente pubblico controllante deve essere consentito l'esercizio di poteri maggiori rispetto a quelli che il diritto societario riconosce normalmente alla maggioranza sociale; l'impresa non deve acquisire una vocazione commerciale che renda precario il controllo dell'ente pubblico, con la conseguente apertura obbligatoria della società ad altri capitali, fino all'espansione territoriale dell'attività a tutta l'Italia e all'estero; le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell'ente affidante, e della cd. "destinazione prevalente dell'attività" (cioè il rapporto di stretta strumentalità fra le attività dell'impresa e le esigenze pubbliche che l'ente controllante è chiamato a soddisfare), l'ente in house non può ritenersi terzo rispetto all'Amministrazione controllante, ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell'Amministrazione stessa (TAR Puglia-Bari 02.04.2013 n. 458).
Al contrario, per escludere radicalmente ogni possibilità di legittimo affidamento "in house" è, infatti, sufficiente che vi sia, sebbene in minima percentuale, una partecipazione privata al capitale sociale (CSGAS 09.02.2009 n 48; TAR Puglia Bari 14.05.2010 n. 1891; confronta anche Corte conti FVG 08.05.2009 n. 55).
La nuova direttiva comunitaria sulle concessioni 2014/23/UE, che sul punto ammette in talune ipotesi la partecipazione indiretta dei privati alle società in house, non risulta ancora recepita dagli Stati membri, né essa si può considerare self executing, sia per la sua natura, che richiede un recepimento e adattamento a livello nazionale, sia perché non è ancora scaduto il termine per il recepimento stesso.
Allo stato quindi la non contestata partecipazione dei privati alla società Ambiente servizi comporta che essa non può essere considerata una società di “in house providing”, per cui risulta illegittima la delibera impugnata di adesione a detta società e di affidamento alla stessa del servizio di raccolta rifiuti. Ai fini della presente controversia, a nulla rileva poi la definizione contenuta nella normativa regionale della società come ente pubblico economico.

EDILIZIA PRIVATAL’apposizione di una doppia finestra, e come tale in grado di modificare l’estetica del fabbricato, non può essere qualificato alla stregua di una semplice manutenzione.
E’ impugnato un atto con cui l’amministrazione civica ha disposto che l’interessata rimetta nel pristino stato un numero non individuato di porte-finestre esterne ai serramenti, che consistono in doppie finestre a protezione delle aperture dell’appartamento di proprietà ubicato in via san Barnaba 19/10; il collegio osserva che dalla letterale formulazione del provvedimento gravato si ritrae che quanto è stato ritenuto contrastante con le norme regolamentari applicate è solo l’installazione delle doppie finestre a protezione dei serramenti preesistenti.
Non hanno pertanto rilievo ai fini del presente decidere le produzioni con cui l’interessata rappresenta suoi ritratti giovanili a cui fanno da sfondo delle finestre in legno. Le istantanee riprodurrebbero l’interessata decenni addietro in posa sul balcone su cui si aprono le finestre ora schermate dai doppi vetri, e sono intese ad offrire la prova che la situazione attuale preesiste da molto tempo.
Il collegio non condivide tale assunto, proprio in considerazione della contestazione mossa dal comune che non riguarda la natura lignea od avvolgibile dei serramenti, bensì l’installazione della doppia finestra che avrebbe alterato il decoro dell’insieme abitato.
In tal senso devono ritenersi irrilevanti le allegazioni indicate.
Ciò premesso, con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione delle norme sul procedimento che è necessario rispettare per conseguire l’autorizzazione all’installazione dei manufatti contestati: a tenore dell’atto introduttivo della lite la condotta sanzionata sarebbe rubricabile come manutenzione ordinaria, come tale non abbisognevole di determinazione alcuna o della previa presentazione di domande all’autorità.
Il tribunale osserva che non si tratta dell’installazione o della sostituzione dei serramenti quanto dell’apposizione di una doppia finestra, cosa non comune agli altri appartamenti del condominio, e come tale in grado di modificare l’estetica del fabbricato: ne consegue che quanto posto in essere non può essere qualificato alla stregua di una semplice manutenzione, sì che la censura è infondata (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 03.12.2014 n. 1785 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel presentare una richiesta di permesso di costruire, la dichiarazione del progettista abilitato che assevera la conformità del progetto alla disciplina urbanistica deve essere intesa come un requisito essenziale della domanda ai fini della formazione del silenzio-assenso.
Essa, difatti, nell’ipotesi di silenzio-assenso costituisce appunto la motivazione interna del provvedimento favorevole al privato e può giustificare, in un ottica di semplificazione, l’inerzia dell’Amministrazione e il conseguente assenso tacito su un progetto apparentemente conforme alla disciplina urbanistica.

Il ricorso è infondato.
Ai sensi del comma 1 dell’articolo 20 del d.p.r. n. 380 del 2001, così come modificato dal d.l. n. 70 del 2011 (in vigore dal 13.07.2011), “la domanda per il rilascio del permesso di costruire, sottoscritta da uno dei soggetti legittimati ai sensi dell'articolo 11, va presentata allo sportello unico corredata da un'attestazione concernente il titolo di legittimazione, dagli elaborati progettuali richiesti, e quando ne ricorrano i presupposti, dagli altri documenti previsti dalla parte. La domanda è accompagnata da una dichiarazione del progettista abilitato che asseveri la conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie nel caso in cui la verifica in ordine a tale conformità non comporti valutazioni tecnico-discrezionali, alle norme relative all'efficienza energetica”.
Ai sensi del successivo comma 9: “Decorso inutilmente il termine per l'adozione del provvedimento conclusivo, ove il dirigente o il responsabile dell'ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-assenso, fatti salvi i casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, per i quali si applicano le disposizioni di cui al comma 9”.
Ad avviso del Collegio, deve ritenersi pertanto che la dichiarazione del progettista abilitato che assevera la conformità del progetto alla disciplina urbanistica deve essere intesa come un requisito essenziale della domanda ai fini della formazione del silenzio-assenso.
Essa, difatti, nell’ipotesi di silenzio-assenso costituisce appunto la motivazione interna del provvedimento favorevole al privato e può giustificare, in un ottica di semplificazione, l’inerzia dell’Amministrazione e il conseguente assenso tacito su un progetto apparentemente conforme alla disciplina urbanistica.
Questo Tribunale amministrativo, del resto, si è già espresso in senso conforme su tale circostanza, in più occasioni (cfr. Tar Pescara, sentenza n. 583 del 2013; ibidem, sentenza n. 27 del 2014).
Non essendovi contestazione in fatto in ordine alla mancanza dell’asseverazione del progettista, pertanto, il Collegio non può che respingere la domanda tesa all’accertamento della formazione del silenzio assenso (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 03.12.2014 n. 486 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAE’ noto che i titoli abilitativi edilizi, da un lato si rilasciano ai sensi dell’art. 11, comma 3, T.U. 06.06.2001 n. 380, salvi i diritti dei terzi, e quindi dovrebbero in linea di principio prescindere dai titoli civilistici dei terzi stessi, anche se in astratto suscettibili di paralizzarne l’efficacia, come nel caso esemplare di un permesso di costruire rilasciato su un fondo che è inedificabile per causa di una servitù in tal senso.
Dall’altro lato però, i titoli stessi impongono ai sensi dell’art. 11 citato, comma 1, all’amministrazione che le rilascia di verificare la legittimazione del richiedente, e con essa, si dovrebbe ritenere, anche la sussistenza di diritti di terzi che la escludano.
La contraddizione potenziale -secondo la giurisprudenza- si compone applicando il principio di non aggravamento del procedimento.
In tali termini, un titolo confliggente con i diritti di terzi sarà legittimo se l’amministrazione non poteva riconoscerne l’esistenza in base ai soli atti del procedimento forniti dalla parte interessata; sarà invece illegittima se dell’esistenza del vincolo l’amministrazione aveva motivo di sospettare.
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In generale, per l’art. 1002 c.c. comma 1, “ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa.”.
Nel caso particolare che qui rileva, di installazione di una canna fumaria che interessi anche la facciata in corrispondenza delle proprietà di altri condomini, costante giurisprudenza non nega a priori la possibilità di effettuare l’opera senza l’assenso di costoro; richiede però, perché se ne possa prescindere, che in concreto non siano pregiudicati l’armonia e il decoro della facciata in questione.
Di conseguenza, il provvedimento impugnato, che motiva soltanto con riguardo alla mancanza della “piena titolarità a intervenire” (doc. 10 Comune, cit.) derivante dal diniego degli altri condomini, e non apprezza l’impatto dell’opera sulla facciata interessata, risulta illegittimo e va annullato.

... per l’annullamento, previa sospensione, del provvedimento 16.07.2014 prot. n. 28344 del successivo 17 luglio, conosciuto in data imprecisata, con il quale il Dirigente del settore attività produttive e sviluppo economico del Comune di Mantova ha respinto la richiesta presentata dalla Borgo Immobiliare S.r.l. per la installazione di una canna fumaria esterna nell’immobile sito al locale corso Vittorio Emanuele II civico 73, distinto al catasto al foglio 34, mappale 142, subalterno 20;
...
 - che è infondato e va respinto anche il secondo motivo. E’ noto che i titoli abilitativi edilizi, da un lato si rilasciano ai sensi dell’art. 11, comma 3, T.U. 06.06.2001 n. 380, salvi i diritti dei terzi, e quindi dovrebbero in linea di principio prescindere dai titoli civilistici dei terzi stessi, anche se in astratto suscettibili di paralizzarne l’efficacia, come nel caso esemplare di un permesso di costruire rilasciato su un fondo che è inedificabile per causa di una servitù in tal senso.
Dall’altro lato però, i titoli stessi impongono ai sensi dell’art. 11 citato, comma 1, all’amministrazione che le rilascia di verificare la legittimazione del richiedente, e con essa, si dovrebbe ritenere, anche la sussistenza di diritti di terzi che la escludano. La contraddizione potenziale -secondo la giurisprudenza, per tutte già TAR Liguria 11.07.2007 n. 1376- si compone applicando il principio di non aggravamento del procedimento.
In tali termini, un titolo confliggente con i diritti di terzi sarà legittimo se l’amministrazione non poteva riconoscerne l’esistenza in base ai soli atti del procedimento forniti dalla parte interessata; sarà invece illegittima se dell’esistenza del vincolo l’amministrazione aveva motivo di sospettare. Così nel caso di specie, dato che negli edifici in condominio per definizione a fronte dell’opera del singolo condomino vi sono i diritti degli altri condomini, e quindi correttamente il Comune li ha considerati;
- che è invece fondato e va accolto il terzo motivo. In generale, per l’art. 1002 c.c. comma 1, “ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa.”.
Nel caso particolare che qui rileva, di installazione di una canna fumaria che interessi anche la facciata in corrispondenza delle proprietà di altri condomini, costante giurisprudenza –Cass. civ. sez. II 11.05.2011 n. 10350, T. Roma sez. XII 28.07.2002, T. Milano 26.03.1992 e T. Trento 16.05.2013 n. 432- non nega a priori la possibilità di effettuare l’opera senza l’assenso di costoro; richiede però, perché se ne possa prescindere, che in concreto non siano pregiudicati l’armonia e il decoro della facciata in questione.
Di conseguenza, il provvedimento impugnato, che motiva soltanto con riguardo alla mancanza della “piena titolarità a intervenire” (doc. 10 Comune, cit.) derivante dal diniego degli altri condomini, e non apprezza l’impatto dell’opera sulla facciata interessata, risulta illegittimo e va annullato (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 02.12.2014 n. 1308 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi del comma 1 dell'art. 10 del dlgs n. 42 del 2004, le piazze pubbliche (in specie laddove rientranti nell’ambito dei centri storici) sono qualificabili come ‘beni culturali’ indipendentemente dall’adozione di una dichiarazione di interesse storico-artistico.
1.- Risulta dalla sentenza appellata che il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia ha accolto il ricorso proposto da La Luna s.r.l. avverso il parere della Soprintendenza del 14.12.2011 e il collegato diniego comunale del permesso in sanatoria di un gazebo antistante il marciapiede dell’esercitata attività di ristorazione in Piazza Amedeo, nel centro storico di Taranto.
La sentenza si è basata sulla considerazione che “le pubbliche piazze, vie, strade, e altri spazi urbani di interesse artistico o storico” non costituiscono beni culturali ipso iure, in assenza della dichiarazione di cui agli artt. 12 e 13 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, nella specie non emessa.
Con l’appello qui in esame, fondato su un unico motivo di censura, l’Amministrazione dei beni culturali critica la sentenza nel diverso assunto che le piazze pubbliche non necessitano di dichiarazione di interesse storico-artistico, in quanto sono di per sé beni culturali; e nel concreto ha illustrato il contesto ambientale e monumentale, caratterizzato dal Palazzo del Governo e dal Palazzo delle Poste.
Ha resistito in giudizio la società appellata, con il controricorso e la memoria depositata l’08.05.2014, sostenendo che non tutte le pubbliche piazze, strade, vie ed altri spazi aperti urbani rientrano tra i beni culturali ma solo quelle aventi caratteristica dichiarata di “interesse artistico o storico”; e in subordine riproponendo il motivo assorbito in primo grado, relativo alla contestata eccessività di impatto del gazebo e al suo carattere solo temporaneo.
Alla pubblica udienza del 10.06.2014 la causa è stata trattenuta in decisione.
2.- L’appello è fondato e la sentenza merita di essere riformata, non sussistendo valida ragione per discostarsi dai precedenti richiamati e dalle persuasive conclusioni cui si è pervenuti in sede di decisione cautelare ed alla quale si rinvia (Cons. Stato, VI, ord. 26.09.2013, n. 3804: vale a dire, Cons. Stato, VI, 24.01.2001, n. 482; 30.07.2013, n. 4010; 11.09.3013, n. 4497).
La Sezione ha infatti accolto la misura cautelare ed ha sospeso l’esecutività della sentenza impugnata “stante la pacifica inclusione della Piazza Amedeo all’interno del centro storico di Taranto e in coerenza con la giurisprudenza della Sezione secondo cui, ai sensi del comma 1 dell'articolo 10 del decreto legislativo n. 42 del 2004, le piazze pubbliche (in specie laddove rientranti nell’ambito dei centri storici) sono qualificabili come ‘beni culturali’ indipendentemente dall’adozione di una dichiarazione di interesse storico-artistico (in tal senso: Cons. Stato, VI, sent. 482/2011; id., VI, sent. 4010/2013; id., VI, sent. 4497/2013)”.
Nell’identità delle questioni controverse tra la parti e non avendo l’attività processuale successiva apportato diversi o ulteriori elementi di giudizio, i relativi fondamenti in punto di fatto e di diritto non possono che essere qui ribaditi
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 01.12.2014 n. 5934 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non implica precarietà dell'opera, ai fini autorizzativi e dell'esenzione dal permesso di costruire, il carattere stagionale di essa, quando la stessa è destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione (non sono infatti manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati ad un’utilizzazione perdurante nel tempo, sicché l'alterazione non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante), anche se con la reiterazione della presenza del manufatto di anno in anno nella sola buona stagione.
Non fondato è poi il subordinato motivo riproposto dalla società appellata in ordine alla confutata alterazione della percezione di insieme del contesto ambientale e monumentale della piazza nonché circa la rimovibilità del gazebo.
Si tratta invero di una valutazione svolta nel pieno esercizio della discrezionalità tecnica propria dell’Amministrazione dei beni culturali nell’esercizio della funzione di tutela: che non appare esercitata in modo travisante dei fatti, né in modo logicamente inattendibile.
Nella fattispecie, non si può del resto dubitare tanto dei presupposti bene ritenuti dalla locale Soprintendenza nel quadro della discrezionalità tecnica propria della tutela (invasività del centro storico con un gazebo alterante la visione d’insieme dell’architettura monumentale esistente), quanto dell’effetto di snaturamento dei caratteri formali di contesto del marciapiede a seguito dell’installazione del gazebo stesso (a dire dell’appellata “avente carattere precario, all’interno del quale, soprattutto nel periodo invernale, somministrare i pasti agli avventori”).
Infatti è palese, a sostegno degli elementi rilevati che debbono caratterizzare il legittimo esercizio della discrezionalità tecnica che l’intervento innovativo alla visione d’insieme, non autorizzato, viene a realizzare non solo un cambiamento circa la destinazione d’uso del marciapiede ma soprattutto una difforme sua connessione fisica (in riferimento al quadro spaziale e percettivo).
Al riguardo è poi da osservare che la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che non implica precarietà dell'opera, ai fini autorizzativi e dell'esenzione dal permesso di costruire, il carattere stagionale di essa, quando la stessa è destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione (non sono infatti manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati ad un’utilizzazione perdurante nel tempo, sicché l'alterazione non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante: Cons. Stato, V, 24.02.1996, n. 226; V, 24.02.2003, n. 986; IV, 23.07.2009, n. 4673; V, 12.12.2009, n. 7789; VI, 16.02.2011, n. 986), anche se con la reiterazione della presenza del manufatto di anno in anno nella sola buona stagione (ex multis: Cass., III, 05.03.2013, n. 10235 e 21.06.2011, n. 34763; Cons. Stato, IV, 22.12.2007, n. 6615; VI, 16.02.2011, n. 986; VI, 07.09.2012, n. 4759; VI, 18.09.2013, n. 4642)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 01.12.2014 n. 5934 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI:  In primo luogo, le previsioni di cui all’art. 38 D.Lgs. n. 163 del 2006 devono ritenersi applicabili a ciascuno dei concorrenti, ai quali non è riservata dalla legge la libertà di sindacare la gravità o meno dei reati commessi dai singoli rappresentanti legali delle ditte concorrenti: tale vaglio è rimesso alla esclusiva valutazione della stazione appaltante, alla quale devono essere fornite tutte le necessarie informazioni riguardo allo scopo, solo ad essa riservato, di verificare la moralità o la professionalità degli aspiranti all’aggiudicazione del contratto.
Quindi, nel caso di specie, il concorrente –non effettuando la dichiarazione considerata necessaria dalla legge– ha precluso l’esercizio della funzione tipica del soggetto chiamato alla verifica del pubblico interesse.
In secondo luogo, la dichiarazione di estinzione del reato –disposta nella specie dopo la domanda di partecipazione alla gara- non ha effetti meramente dichiarativi, poiché il giudice chiamato a pronunciarsi deve verificare la sussistenza di determinati presupposti che non possono essere considerati consistenti unicamente nel decorso del tempo: dunque, essendo stata decisa la dichiarazione di estinzione dopo la domanda di partecipazione alla gara, la condanna doveva essere menzionata.
In terzo luogo, si deve rilevare che la condanna irrogata alla rappresentante legale della cooperativa sociale ... atteneva a fatti molto dolorosi, ovverosia l’omicidio colposo di un neonato, fatto dovuto a trascuratezza: si deve al riguardo considerare che il servizio posto in gara riguardava l’affidamento della gestione dei nidi infanzia comunali e quindi la stazione appaltante era invece realmente tenuta a verificare la natura di fatti strettamente collegati alla professionalità di chi aspirava a svolgere questo servizio.

In ogni caso l’esame della seconda censura sollevata dall’appellante a.t.i. risulta infondata.
Sostiene l’appellante che il precedente penale a carico della rappresentante legale della cooperativa ...., e non dichiarato ai sensi dell’art. 38 D.Lgs. n. 163 del 2006, fosse da ritenersi irrilevante, in quanto il reato non poteva essere pertinente alla professionalità dell’interessata ed inoltre, perché lo stesso reato era stato dichiarato estinto, sia pure dopo la procedura di gara, ma comunque con pronuncia ad effetti evidentemente dichiarativi.
In realtà, in primo luogo, le previsioni di cui all’art. 38 D.Lgs. n. 163 del 2006 devono ritenersi applicabili a ciascuno dei concorrenti, ai quali non è riservata dalla legge la libertà di sindacare la gravità o meno dei reati commessi dai singoli rappresentanti legali delle ditte concorrenti: tale vaglio è rimesso alla esclusiva valutazione della stazione appaltante, alla quale devono essere fornite tutte le necessarie informazioni riguardo allo scopo, solo ad essa riservato, di verificare la moralità o la professionalità degli aspiranti all’aggiudicazione del contratto.
Quindi, nel caso di specie, il concorrente –non effettuando la dichiarazione considerata necessaria dalla legge– ha precluso l’esercizio della funzione tipica del soggetto chiamato alla verifica del pubblico interesse.
In secondo luogo, la dichiarazione di estinzione del reato –disposta nella specie dopo la domanda di partecipazione alla gara- non ha effetti meramente dichiarativi, poiché il giudice chiamato a pronunciarsi deve verificare la sussistenza di determinati presupposti che non possono essere considerati consistenti unicamente nel decorso del tempo: dunque, essendo stata decisa la dichiarazione di estinzione dopo la domanda di partecipazione alla gara, la condanna doveva essere menzionata.
In terzo luogo, si deve rilevare che la condanna irrogata alla rappresentante legale della cooperativa sociale ... atteneva a fatti molto dolorosi, ovverosia l’omicidio colposo di un neonato, fatto dovuto a trascuratezza: si deve al riguardo considerare che il servizio posto in gara riguardava l’affidamento della gestione dei nidi infanzia comunali e quindi la stazione appaltante era invece realmente tenuta a verificare la natura di fatti strettamente collegati alla professionalità di chi aspirava a svolgere questo servizio.
Quanto alle deduzioni dell’appellante sull’obbligo della stazione appaltante di acquisire la documentazione e sul rilievo della invocata pronuncia dell’Adunanza Plenaria, per la loro reiezione è decisivo considerare che il bando di gara –da considerare legittimo in considerazione del potere dell’amministrazione di fissare tempi certi per la definizione del procedimento- ha qualificato come perentorio il termine da essa fissato per la produzione dei documenti, sicché rileva di per sé la circostanza obiettiva del relativo decorso del tempo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 01.12.2014 n. 5921 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Fascia di servitù idraulica: dieci metri (96, lett. f, RD n. 523/1904) o la diversa misura fissata dal regolamento - Valore di vincolo assoluto di inedificabilità - Va applicato anche rispetto ad un corso d’acqua che, nello specifico sito, sia stato coperto o protetto da un consistente argine.
Il Comune, di fronte alla domanda di sanatoria, di un box costruito in prossimità di un corso d’acqua pubblica, in violazione del divieto di cui alla lett. f) dell’art. 96 RD n. 523/1904 o di quello diverso fissato dal regolamento, “non poteva che negare il titolo abilitativo edilizio in sanatoria.
L’art. 96 cit. non fa alcuna distinzione tra argini naturali ed artificiali, sicché è del tutto irrilevante che, nel tratto in questione, il torrente Lura sia stato delimitato da un muro di contenimento.
 Ugualmente non può assumere rilevanza il fatto che il torrente Lura, in quel tratto, è completamente coperto. La norma di cui all’art. 96 cit. vale, infatti, anche per i corsi d’acqua tombinati.
Tale conclusione, pacifica in giurisprudenza, trova giustificazione nella finalità del divieto di edificazione posto dal citato art. 96, che non è solo quella di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali ed il loro libero deflusso, ma anche quella di consentire uno spazio di manovra nel caso di … manutenzione delle condutture …”
(T.S.A.P., sentenza 29.11.2014 n. 246).

URBANISTICATutti i divieti di alienazione previsti dall’art. 35, commi 15 e ss., della L. n. 865/1971 e riprodotti nella convenzione P.E.E.P. qui in esame sono stati abrogati dall’art. 23, comma 2, della L. 17.02.1992, n. 179, con effetto dal 15.03.1992.
Ciò comporta che, a far data dal 15.03.1992, tutti gli alloggi realizzati in attuazione della convenzione P.E.E.P. stipulata il 09.05.1985 dal Comune con la cooperativa ... sono divenuti liberamente alienabili da parte dei rispettivi proprietari, non soggiacendo più ai divieti di alienazione sanciti a pena di nullità dalle previsioni abrogate dell’art. 35, pedissequamente riprodotte nella predetta convenzione.
Né è possibile ritenere che i divieti in questione, benché abrogati dall’art. 23, comma 2, della L. n. 179/1992, siano sopravvissuti e siano tuttora efficaci e vincolanti tra le parti, iure privatorum, in forza delle pattuizioni contenute nella convenzione de qua, dal momento che i divieti di cui discute non sono stati generati dalla convenzione ma direttamente dalla legge: come dimostra, sia l’espresso richiamo all’art. 35 L. 865/1971 contenuto nelle clausole convenzionali contemplanti i predetti divieti (“Come previsto dall’art. 35, comma 15, della legge n. 865 del 22.10.1971…”, cfr. art. 9 convenzioni), sia la riproduzione pressoché letterale in dette clausole del contenuto del citato comma 15 dell’art. 35, sia, infine, la circostanza che la violazione dei predetti divieti sia stata convenzionalmente sanzionata a pena di “nullità” dell’atto di disposizione, la quale non può avere fonte convenzionale ma solo legale.
Se, dunque, i divieti di alienazione degli alloggi realizzati sulle aree P.E.E.P. del Comune di Rivoli discendevano direttamente dalla legge e non dalla convenzione (la quale si è limitata a recepire la normativa di settore all’epoca vigente), ne consegue che, abrogata la legge fonte del divieto, è venuto meno anche il divieto (a far data dal 15.03.1992).
In tal senso si è pronunciato anche il Ministero dei Lavori Pubblici, Segretariato generale del Comitato per l’Edilizia residenziale, nella circolare 09.08.1993 prot. B/7418 e nella successiva circolare 07.06.1996 prot. n. 2166, fatte proprie dalla Regione Piemonte, Assessorato Urbanistica ed Edilizia Residenziale nella circolare 21.07.1997, prot. 24324/646/97.
Nello stesso senso si è pronunciata anche la Corte di Cassazione, sez, I, civ, con sentenza 10.11.2008 n. 26915.

... per l'annullamento della deliberazione del Consiglio Comunale di Rivoli del 25.11.2004, n. 120, pubblicata all'albo pretorio del Comune per quindici giorni consecutivi a partire dal 02.12.2004, avente ad oggetto l'approvazione dello schema di modifica della convenzione per l'eliminazione dei vincoli e l'approvazione del metodo di stima e calcolo del corrispettivo per aree comprese in ambito p.e.e.p. o localizzate ai sensi dell'art. 51 della legge n. 865/1971 già concesse in diritto di proprietà, laddove determinano gli importi a carico dei ricorrenti, titolari di unità immobiliari della cooperativa edilizia, ora condominio, "Savarino";
...
Va osservato, infatti, che tutti i divieti di alienazione previsti dall’art. 35, commi 15 e ss., della L. n. 865/1971 e riprodotti nella convenzione P.E.E.P. qui in esame sono stati abrogati dall’art. 23, comma 2, della L. 17.02.1992, n. 179, con effetto dal 15.03.1992.
Ciò comporta che, a far data dal 15.03.1992, tutti gli alloggi realizzati in attuazione della convenzione P.E.E.P. stipulata il 09.05.1985 dal Comune di Rivoli con la cooperativa Savarino sono divenuti liberamente alienabili da parte dei rispettivi proprietari, non soggiacendo più ai divieti di alienazione sanciti a pena di nullità dalle previsioni abrogate dell’art. 35, pedissequamente riprodotte nella predetta convenzione.
Né è possibile ritenere che i divieti in questione, benché abrogati dall’art. 23, comma 2, della L. n. 179/1992, siano sopravvissuti e siano tuttora efficaci e vincolanti tra le parti, iure privatorum, in forza delle pattuizioni contenute nella convenzione de qua, dal momento che i divieti di cui discute non sono stati generati dalla convenzione ma direttamente dalla legge: come dimostra, sia l’espresso richiamo all’art. 35 L. 865/1971 contenuto nelle clausole convenzionali contemplanti i predetti divieti (“Come previsto dall’art. 35, comma 15, della legge n. 865 del 22.10.1971…”, cfr. art. 9 convenzioni), sia la riproduzione pressoché letterale in dette clausole del contenuto del citato comma 15 dell’art. 35, sia, infine, la circostanza che la violazione dei predetti divieti sia stata convenzionalmente sanzionata a pena di “nullità” dell’atto di disposizione, la quale non può avere fonte convenzionale ma solo legale.
Se, dunque, i divieti di alienazione degli alloggi realizzati sulle aree P.E.E.P. del Comune di Rivoli discendevano direttamente dalla legge e non dalla convenzione (la quale si è limitata a recepire la normativa di settore all’epoca vigente), ne consegue che, abrogata la legge fonte del divieto, è venuto meno anche il divieto (a far data dal 15.03.1992).
In tal senso si è pronunciato anche il Ministero dei Lavori Pubblici, Segretariato generale del Comitato per l’Edilizia residenziale, nella circolare 09.08.1993 prot. B/7418 e nella successiva circolare 07.06.1996 prot. n. 2166, fatte proprie dalla Regione Piemonte, Assessorato Urbanistica ed Edilizia Residenziale nella circolare 21.07.1997, prot. 24324/646/97.
Nello stesso senso si è pronunciata anche la Corte di Cassazione, sez, I, civ, con sentenza 10.11.2008 n. 26915.
Alla luce di tali rilievi, ritiene il collegio che, in accoglimento della censura dedotta dalla parte ricorrente con il secondo motivo dedotto, la deliberazione impugnata sia illegittima e debba essere annullata per violazione dell’art. 23 della L. 17.02.1992 n. 179 dal momento che essa ha inteso imporre, indebitamente, ai proprietari degli alloggi PEEP il pagamento di un corrispettivo per l’eliminazione di divieti di alienazione che, in realtà, sono già stati abrogati ex lege a far data dal 15.03.1992 (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 28.11.2014 n. 1916 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl giudizio di verifica della congruità di un’offerta anomala ha natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell’offerta nel suo insieme: l’attendibilità dell’offerta va, cioè, valutata nel suo complesso, e non con riferimento alle singole voci di prezzo ritenute incongrue, avulse dall'incidenza che potrebbero avere sull'offerta economica nel suo insieme, ferma restando la possibile rilevanza del giudizio di inattendibilità che dovesse investire voci che, per la loro importanza ed incidenza complessiva, renderebbero l'intera operazione economica implausibile e, per l'effetto, insuscettibile di accettazione da parte dell'amministrazione, in quanto insidiata da indici strutturali di carente affidabilità.
In buona sostanza occorre rilevare che la verifica di anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando, invece, ad accertare se l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile o inattendibile, e dunque se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell’appalto.
In secondo luogo l’indagine costituisce espressione di un potere tecnico-discrezionale dell’amministrazione di per sé insindacabile in sede di legittimità, salva l’ipotesi in cui le valutazioni affette da macroscopica irragionevolezza, arbitrarietà, irrazionalità o travisamento dei fatti.

La giurisprudenza prevalente ha ripetutamente osservato che il giudizio di verifica della congruità di un’offerta anomala ha natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell’offerta nel suo insieme (Consiglio di Stato, sez. V – 08/09/2010 n. 6495): l’attendibilità dell’offerta va, cioè, valutata nel suo complesso, e non con riferimento alle singole voci di prezzo ritenute incongrue, avulse dall'incidenza che potrebbero avere sull'offerta economica nel suo insieme, ferma restando la possibile rilevanza del giudizio di inattendibilità che dovesse investire voci che, per la loro importanza ed incidenza complessiva, renderebbero l'intera operazione economica implausibile e, per l'effetto, insuscettibile di accettazione da parte dell'amministrazione, in quanto insidiata da indici strutturali di carente affidabilità (Consiglio di Stato, sez. V – 17/01/2014 n. 162).
In buona sostanza occorre rilevare che la verifica di anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando, invece, ad accertare se l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile o inattendibile, e dunque se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell’appalto (Consiglio di Stato, sez. VI – 21/05/2009 n. 3146; sentenza Sezione 08/02/2012 n. 195).
In secondo luogo l’indagine costituisce espressione di un potere tecnico-discrezionale dell’amministrazione di per sé insindacabile in sede di legittimità, salva l’ipotesi in cui le valutazioni affette da macroscopica irragionevolezza, arbitrarietà, irrazionalità o travisamento dei fatti (Consiglio di Stato, sez. V – 02/10/2014 n. 4932; sez. IV – 20/05/2008 n. 2348)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 27.11.2014 n. 1300 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL’opzione interpretativa delineata dal Collegio è peraltro coerente con il principio generale per cui il bando di gara cristallizza le regole applicabili alla procedura competitiva, con conseguente indifferenza e insensibilità alle modifiche normative sopravvenute.
Va peraltro osservato che, nelle gare pubbliche, i valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle ministeriali non costituiscono un limite inderogabile, ma semplicemente un parametro di valutazione della congruità dell'offerta sotto tale profilo, con la conseguenza che l'eventuale scostamento da tali parametri delle relative voci di costo non legittima ex se un giudizio di anomalia.
In materia di incongruenze concernenti il costo del lavoro, infatti, devono considerarsi anormalmente basse le offerte che si discostino in modo evidente dai costi medi del lavoro indicati nelle tabelle predisposte dal Ministero del Lavoro base ai valori previsti dalla contrattazione collettiva: detti “costi medi” non costituiscono parametri inderogabili, ma indici del giudizio di adeguatezza dell'offerta, con la conseguenza che è ammissibile l'offerta che da essi si discosti, purché lo scostamento non sia eccessivo e vengano salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori, così come stabilito in sede di contrattazione collettiva.

E’ anzitutto infondata la contestazione sulla scostamento dalle tabelle “luglio 2013”, dato che correttamente l’amministrazione ha fatto riferimento a quelle di “aprile 2013” per tempo vigenti; è pur vero che l’art. 10 del capitolato speciale d’appalto stabiliva testualmente che “Saranno considerate inammissibili e quindi escluse, le offerte nelle quali il costo del lavoro previsto sia inferiore al costo stabilito dalla tabella Ministeriale di riferimento per la provincia di Bergamo …, in vigore all’atto della consegna dell’offerta”.
Ebbene, il termine ultimo di presentazione delle offerte era effettivamente fissato per il 14/02/2014 e le nuove tabelle sono state approvate con D.M. datato 13/02/2014, ma la loro pubblicazione è stata effettuata, per comunicato, nella Gazzetta ufficiale dell’01/03/2014 n. 50: la loro efficacia non può pertanto retroagire a un periodo anteriore.
L’opzione interpretativa delineata dal Collegio è peraltro coerente con il principio generale per cui il bando di gara cristallizza le regole applicabili alla procedura competitiva (TAR Toscana, sez. I – 15/03/2012 n. 541, che risulta appellata; TAR Valle d’Aosta – 17/02/2012 n. 15 confermata da Consiglio di Stato, sez. V – 17/01/2014 n. 174), con conseguente indifferenza e insensibilità alle modifiche normative sopravvenute. Il principio è stato recentemente applicato da Consiglio di Stato, sez. III – 27/03/2014 n. 1487.
Va peraltro osservato che, nelle gare pubbliche, i valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle ministeriali non costituiscono un limite inderogabile, ma semplicemente un parametro di valutazione della congruità dell'offerta sotto tale profilo, con la conseguenza che l'eventuale scostamento da tali parametri delle relative voci di costo non legittima ex se un giudizio di anomalia (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V – 24/07/2014 n. 3937, che richiama Consiglio di Stato, sez. IV – 22/03/2013 n. 1633).
In materia di incongruenze concernenti il costo del lavoro, infatti, devono considerarsi anormalmente basse le offerte che si discostino in modo evidente dai costi medi del lavoro indicati nelle tabelle predisposte dal Ministero del Lavoro base ai valori previsti dalla contrattazione collettiva: detti “costi medi” non costituiscono parametri inderogabili, ma indici del giudizio di adeguatezza dell'offerta, con la conseguenza che è ammissibile l'offerta che da essi si discosti, purché lo scostamento non sia eccessivo e vengano salvaguardate le retribuzioni dei lavoratori, così come stabilito in sede di contrattazione collettiva (Consiglio di Stato, sez. III – 09/07/2014 n. 3492)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 27.11.2014 n. 1300 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla mancata tempestività delle operazioni di verbalizzazione, recentemente la giurisprudenza ha sostenuto che <<è sufficiente rilevare che né l’art. 43 della direttiva n. 2004/18CE disciplinante il contenuto dei verbali delle operazioni di gara, né l’art. 78 del codice dei contratti, prevedono la necessità e obbligatorietà della verbalizzazione analitica di ogni singola seduta; conseguentemente, in mancanza di una specifica normativa di settore e di una specifica disciplina di gara, va esclusa la necessità di redigere contestuali e distinti verbali per ciascuna seduta della commissione di gara potendosi legittimamente accorpare in un unico atto la verbalizzazione della varie sedute della commissione ed anche la sua redazione non contestuale al compimento delle operazioni di gara>>.
Con il motivo proposto in subordine, parte ricorrente si duole della violazione del principio di buona amministrazione e dell’art. 84 del D.Lgs. 163/2006, in quanto la Commissione ha indebitamente redatto un unico verbale conclusivo, che non permette di comprovare la presenza dei suoi membri né le attività delle sedute precedenti, e sul piano sostanziale di ricostruire quanto avvenuto nelle singole adunanze (compresi i giudizi espressi, anche dai singoli Commissari); inoltre anche la decisione di non valutare l’offerta completa ma soltanto i suoi singoli elementi è illegittima.
La censura è priva di pregio.
Sulla mancata tempestività delle operazioni di verbalizzazione, recentemente la giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. III – 01/09/2014 n. 4449) ha sostenuto che <<è sufficiente rilevare che né l’art. 43 della direttiva n. 2004/18CE disciplinante il contenuto dei verbali delle operazioni di gara, né l’art. 78 del codice dei contratti, prevedono la necessità e obbligatorietà della verbalizzazione analitica di ogni singola seduta; conseguentemente, in mancanza di una specifica normativa di settore e di una specifica disciplina di gara, va esclusa la necessità di redigere contestuali e distinti verbali per ciascuna seduta della commissione di gara potendosi legittimamente accorpare in un unico atto la verbalizzazione della varie sedute della commissione ed anche la sua redazione non contestuale al compimento delle operazioni di gara>>.
In ogni caso la stazione appaltante ha rilevato come il verbale formato il 09/06/2014 abbia fatto riferimento a 6 riunioni tenute dal 29/05/2014, per un’estensione temporale di 11 giorni, ragionevolmente non eccessiva.
Per il resto parte ricorrente non ha individuato specifiche omissioni, dati oscuri o altri elementi idonei a originare la dedotta “incomprensione” dello svolgimento delle operazioni, mentre del tutto indeterminata è la censura sulla mancata valutazione dell’offerta completa. In ogni caso la contestazione è assorbita dalle puntuali rimostranze rivolte contro la verifica di anomalia, già esaminate dal Collegio
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 27.11.2014 n. 1300 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALa zonizzazione acustica deve essere effettuata tenendo conto delle preesistenti destinazioni d'uso del territorio (v. art. 4, comma 1-a, della legge 447/1995). Non è quindi consentita una pianificazione manipolativa, che crei un’erronea impressione di omogeneità tra aree destinate a usi inconciliabili.
D’altra parte, è intrinseco e inevitabile in tutte le scelte pianificatorie un certo grado di approssimazione, in quanto le specificità di ogni singola porzione del territorio finirebbero altrimenti per rendere impossibile la composizione di un quadro d’insieme regolato a livello amministrativo.
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Nelle approssimazioni pianificatorie rischia però, talvolta, di essere compromesso il diritto alla salute dei soggetti che subiscono le immissioni rumorose provenienti dagli edifici situati nelle vicinanze. A questo rischio offre un rimedio la disciplina sulle immissioni eccedenti la normale tollerabilità di cui all’art. 844 del codice civile. Utilizzando i parametri contenuti in questa norma, il giudice ordinario può disapplicare la zonizzazione acustica e imporre adempimenti più severi per tutelare la tranquillità e il riposo delle persone.
Come si è potuto osservare anche negli antefatti del caso in esame, per dare applicazione all’art. 844 del codice civile la giurisprudenza ordinaria considera non tollerabili le immissioni sonore di una specifica sorgente che superino di 3 dB(A) la rumorosità di fondo.
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La disciplina stabilita per finalità amministrative, e specificamente per la zonizzazione acustica, prevede limiti meno restrittivi. In primo luogo, il differenziale ammissibile (inteso ex art. 2, comma 3-b, della legge 447/1995 come differenza tra il livello equivalente di rumore ambientale e il rumore residuo, quest’ultimo misurato con le stesse modalità del rumore ambientale una volta escluse le specifiche sorgenti disturbanti) è pari a 5 dB(A) durante il giorno (06.00-22.00) e a 3 dB(A) per il periodo notturno (22.00-06.00), come specificato nell’art. 4, comma 1, del DPCM 14.11.1997.
Inoltre, i limiti differenziali non si applicano se il ricettore del rumore si trova nella classe VI, e neppure quando il rumore ambientale sia da considerare trascurabile ai sensi dell’art. 4, comma 2, del DPCM 14.11.1997. Vi sono poi ulteriori fattispecie integralmente escluse dall’applicazione dei limiti differenziali (v. il comma 3 del citato art. 4 del DPCM 14.11.1997).
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Il legislatore si è posto il problema di armonizzare la tutela amministrativa e quella civilistica, ma solo per particolari tipologie di sorgenti disturbanti.
L’art. 6-ter del DL 30.12.2008 n. 208 (“[n]ell'accertare la normale tollerabilità delle immissioni e delle emissioni acustiche, ai sensi dell'articolo 844 del codice civile, sono fatte salve in ogni caso le disposizioni di legge e di regolamento vigenti che disciplinano specifiche sorgenti e la priorità di un determinato uso”) fa coincidere la normale tollerabilità civilistica con i parametri amministrativi riferiti ai settori che hanno una speciale regolazione.
Tra le norme che stabiliscono i suddetti parametri rientrano quelle dei regolamenti di esecuzione previsti dall’art. 11 della legge 447/1995 (traffico ferroviario, traffico veicolare, attività motoristiche) e quelle contenute nel DM 11.12.1996 (impianti a ciclo produttivo continuo). Al di fuori di questi e simili casi, l’esistenza di una doppia tutela, amministrativa e civilistica, lascia aperta la possibilità che i limiti alla rumorosità posti dalla zonizzazione acustica non siano sufficienti a contenere le immissioni entro la soglia della normale tollerabilità.
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Vi sono principi e indicazioni normative che consentono di ridurre il divario tra le valutazioni amministrative e quelle civilistiche. In particolare, come nella zonizzazione acustica occorre assicurare protezione alle attività produttive esistenti, se conformi alla destinazione urbanistica, così l’art. 844, comma 2, del codice civile impone di tenere conto delle esigenze della produzione, e permette di considerare favorevolmente la priorità di un determinato uso, anche quando si tratti di un uso produttivo (il criterio della priorità dell’uso è ribadito dal citato art. 6-ter del DL 208/2008).
Reciprocamente, sul lato amministrativo, è necessario che la pianificazione cerchi di prevenire le situazioni di conflitto tra i privati relative al diritto alla salute, bilanciando il criterio della destinazione d’uso prevalente in una determinata area con adeguate analisi circa il rischio di immissioni superiori alla normale tollerabilità.

Sul rapporto tra zonizzazione acustica e art. 844 del codice civile
14. La zonizzazione acustica deve essere effettuata tenendo conto delle preesistenti destinazioni d'uso del territorio (v. art. 4, comma 1-a, della legge 447/1995). Non è quindi consentita una pianificazione manipolativa, che crei un’erronea impressione di omogeneità tra aree destinate a usi inconciliabili.
D’altra parte, è intrinseco e inevitabile in tutte le scelte pianificatorie un certo grado di approssimazione, in quanto le specificità di ogni singola porzione del territorio finirebbero altrimenti per rendere impossibile la composizione di un quadro d’insieme regolato a livello amministrativo.
15. Nelle approssimazioni pianificatorie rischia però, talvolta, di essere compromesso il diritto alla salute dei soggetti che subiscono le immissioni rumorose provenienti dagli edifici situati nelle vicinanze. A questo rischio offre un rimedio la disciplina sulle immissioni eccedenti la normale tollerabilità di cui all’art. 844 del codice civile. Utilizzando i parametri contenuti in questa norma, il giudice ordinario può disapplicare la zonizzazione acustica e imporre adempimenti più severi per tutelare la tranquillità e il riposo delle persone (v. Cass. civ. Sez. II 06.11.2013 n. 25019).
Come si è potuto osservare anche negli antefatti del caso in esame, per dare applicazione all’art. 844 del codice civile la giurisprudenza ordinaria considera non tollerabili le immissioni sonore di una specifica sorgente che superino di 3 dB(A) la rumorosità di fondo.
16. La disciplina stabilita per finalità amministrative, e specificamente per la zonizzazione acustica, prevede limiti meno restrittivi. In primo luogo, il differenziale ammissibile (inteso ex art. 2, comma 3-b, della legge 447/1995 come differenza tra il livello equivalente di rumore ambientale e il rumore residuo, quest’ultimo misurato con le stesse modalità del rumore ambientale una volta escluse le specifiche sorgenti disturbanti) è pari a 5 dB(A) durante il giorno (06.00-22.00) e a 3 dB(A) per il periodo notturno (22.00-06.00), come specificato nell’art. 4, comma 1, del DPCM 14.11.1997.
Inoltre, i limiti differenziali non si applicano se il ricettore del rumore si trova nella classe VI, e neppure quando il rumore ambientale sia da considerare trascurabile ai sensi dell’art. 4, comma 2, del DPCM 14.11.1997. Vi sono poi ulteriori fattispecie integralmente escluse dall’applicazione dei limiti differenziali (v. il comma 3 del citato art. 4 del DPCM 14.11.1997).
17. Il legislatore si è posto il problema di armonizzare la tutela amministrativa e quella civilistica, ma solo per particolari tipologie di sorgenti disturbanti. L’art. 6-ter del DL 30.12.2008 n. 208 (“[n]ell'accertare la normale tollerabilità delle immissioni e delle emissioni acustiche, ai sensi dell'articolo 844 del codice civile, sono fatte salve in ogni caso le disposizioni di legge e di regolamento vigenti che disciplinano specifiche sorgenti e la priorità di un determinato uso”) fa coincidere la normale tollerabilità civilistica con i parametri amministrativi riferiti ai settori che hanno una speciale regolazione.
Tra le norme che stabiliscono i suddetti parametri rientrano quelle dei regolamenti di esecuzione previsti dall’art. 11 della legge 447/1995 (traffico ferroviario, traffico veicolare, attività motoristiche) e quelle contenute nel DM 11.12.1996 (impianti a ciclo produttivo continuo). Al di fuori di questi e simili casi, l’esistenza di una doppia tutela, amministrativa e civilistica, lascia aperta la possibilità che i limiti alla rumorosità posti dalla zonizzazione acustica non siano sufficienti a contenere le immissioni entro la soglia della normale tollerabilità.
18. Peraltro, vi sono principi e indicazioni normative che consentono di ridurre il divario tra le valutazioni amministrative e quelle civilistiche. In particolare, come nella zonizzazione acustica occorre assicurare protezione alle attività produttive esistenti, se conformi alla destinazione urbanistica, così l’art. 844, comma 2, del codice civile impone di tenere conto delle esigenze della produzione, e permette di considerare favorevolmente la priorità di un determinato uso, anche quando si tratti di un uso produttivo (il criterio della priorità dell’uso è ribadito dal citato art. 6-ter del DL 208/2008).
Reciprocamente, sul lato amministrativo, è necessario che la pianificazione cerchi di prevenire le situazioni di conflitto tra i privati relative al diritto alla salute, bilanciando il criterio della destinazione d’uso prevalente in una determinata area con adeguate analisi circa il rischio di immissioni superiori alla normale tollerabilità (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.11.2014 n. 1296 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare pubbliche. Dichiarazioni ex art. 38 cod. contratti. Risoluzione in danno. Obbligatorietà. Omissione. Esclusione dell'operatore economico. Necessità.
1. Laddove partecipi a gara pubblica di appalto un operatore economico, che abbia subito la risoluzione in danno di un contratto d’appalto stipulato in precedenza, il medesimo operatore è tenuto a dichiarare nella domanda di partecipazione l’avvenuta risoluzione del contratto, ai sensi dell’art. 38, primo comma, lett. f), del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, il quale demanda alla stazione appaltante la valutazione circa il rilievo dell’errore professionale compiuto dall’impresa che aspira alla stipula del contratto, in modo da accertarne l’affidabilità professionale mediante un apprezzamento necessariamente discrezionale.
Da tale premessa consegue che l’Amministrazione, per poter esercitare il proprio potere, deve essere posta a conoscenza degli avvenimenti rilevanti a tale scopo: l’impresa partecipante alla gara deve presentare una dichiarazione esauriente, che permetta alla stazione appaltante una valutazione informata sulla sua affidabilità (salva la sua possibilità di impugnare l’esclusione che ritenga ingiustificata).
2. Eventuali elementi giustificativi, ovvero escludenti in concreto l’imputabilità della risoluzione dell'operatore economico debbono essere rappresentati alla stazione appaltante in vista dell’esercizio dei suoi poteri discrezionali.
In caso di omessa dichiarazione, ex art. 38, primo comma, lett. f), del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, non assume rilievo né il fatto che la causa della risoluzione sarebbe stata attribuibile a un'impresa associata in R.t.i., dal momento che le imprese associate rispondono quanto meno in parte solidalmente di eventuali inadempimenti, né il fatto che non vi sarebbe stato un grave inadempimento, poiché la risoluzione –per un contratto avente durata quinquennale– sarebbe stato risulto circa 13 mesi prima della scadenza concordata.

Ciò posto, la Sezione ritiene che il ricorso incidentale di primo grado risulta fondato.
E’ pacifico in causa il fatto che l’odierna appellata ha subito la risoluzione in danno di un contratto d’appalto stipulato in precedenza, e che tale circostanza non è stata dichiarata nella domanda di partecipazione al procedimento di cui ora si tratta: con l’atto 38 del 25.06.2013, il Comune di Guidonia Montecelio ha risolto un contratto d’appalto, in danno dell’a.t.i. composta dalla mandante s.r.l. Cooperativa Edera e la mandataria s.r.l. Aimeri ambiente.
L’appellata sostiene di non avere omesso una dichiarazione obbligatoria in quanto (come risulta dalla documentazione agli atti della presente controversia) la causa della risoluzione sarebbe stata dichiaratamente ed esplicitamente attribuibile ad inadempimenti della s.r.l. Aimeri ambiente, e comunque non vi sarebbe stato un grave inadempimento, poiché la risoluzione –per un contratto avente durata quinquennale– è stato risulto circa 13 mesi prima della scadenza concordata.
Ad avviso del Collegio, la linea difensiva dell’appellata non è condivisibile.
Infatti, il Comune di Guidonia Montecelio ha dichiarato la risoluzione del contratto anche in danno dell’odierna appellata e comunque le imprese associate rispondono quanto meno in parte solidalmente di eventuali inadempimenti (Cons. Stato, Ad.Plen., 13.06.2012, n. 22; Sez. V, 21.12.2012, n. 6614).
In presenza di tali circostanze di fatto, l’odierna appellata aveva l’obbligo di dichiarare l’avvenuta risoluzione del contratto, ai sensi dell’art. 38, primo comma, lett. f), del d.lgs. 12.04.2006, n. 163.
La norma appena richiamata, infatti, demanda alla stazione appaltante la valutazione circa il rilievo dell’errore professionale compiuto dall’impresa che aspira alla stipula del contratto, in modo da accertarne l’affidabilità professionale mediante un apprezzamento necessariamente discrezionale.
Da tale premessa consegue che l’Amministrazione, per poter esercitare il proprio potere, deve essere posta a conoscenza degli avvenimenti rilevanti a tale scopo: l’impresa partecipante alla gara deve presentare una dichiarazione esauriente, che permetta alla stazione appaltante una valutazione informata sulla sua affidabilità (salva la sua possibilità di impugnare l’esclusione che ritenga ingiustificata).
L’odierna appellata –poiché non ha dichiarato di avere subito la risoluzione in danno di un precedente contratto di appalto– non ha reso conoscibile per la stazione appaltante un elemento rilevante.
Eventuali elementi giustificativi, ovvero escludenti in concreto l’imputabilità della risoluzione all’appellata, dovevano essere da questa rappresentati alla stazione appaltante in vista dell’esercizio dei suoi poteri discrezionali: come dedotto dall’appellante, l’odierna appellata doveva essere esclusa dal procedimento, in applicazione dell’art. 38, primo comma, lett. f), del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.11.2014 n. 5763 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIBando da revocare se resta una sola impresa. Consiglio di Stato. Se gli altri partecipanti si ritirano, l’assenza di concorrenza fa venire meno l’efficienza e l’economicità.
La stazione appaltante può revocare l’appalto già indetto anche senza aver visto e valutato l’unica offerta rimasta in gara se manca o è venuto meno il confronto concorrenziale tra più partecipanti che consente di ottenere l'offerta più conveniente.
L’ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. V, nella sentenza 21.11.2014 n. 5761.
I giudici hanno dato ragione a un Comune che aveva interrotto (e quindi non aggiudicato all’unica impresa ancora in gara con un’offerta) la procedura per un contratto di affidamento in concessione dei lavori di recupero ambientale di un’area di un ex cava locale, ritenendo di non poter scegliere l’offerta economicamente più vantaggiosa, criterio fissato dal bando e disciplinato dal Codice degli appalti (articolo 83 del Dlgs n. 163/2006).
Alla gara avevano partecipato altre due aziende, una poi esclusa per irregolarità amministrativa e un’altra ritiratasi per lo stallo creatosi con lo “stop” deciso per le indagini di magistrati penali e Corte dei conti (presunta concussione e responsabilità contabile contestata agli ormai ex amministratori comunali).
Secondo il collegio, la revoca per l’assenza di concorrenza è legittima perché «basata su criteri di economicità ed efficienza»: il bando con procedura aperta -sistema in cui ogni operatore economico interessato può presentare un’offerta- «deve essere aggiudicato sulla base del raffronto di più offerte, secondo il principio già fissato dall’articolo 69 del regio decreto n. 827 del 1924 (asta pubblica, Regolamento per l’amministrazione del patrimonio e la contabilità generale dello Stato, ndr), per cui le disposizioni che derogano a tale principio costituiscono norme eccezionali di stretta interpretazione».
Per i giudici, tale annullamento è previsto dal Codice: quando il bando -come nel caso in esame- prevede la possibilità di aggiudicazione anche con una sola offerta valida (articolo 55, comma 4), si può non procedervi se nessuna è conveniente o idonea al contratto (articolo 81, comma 3). Così, dice la sentenza, «ragionevolmente il Comune ha ritenuto che -impostando una nuova gara- fosse possibile ottenere una migliore offerta», dopo aver «dovuto valutare se fosse conforme all’interesse pubblico la conclusione»
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Sulla questione riguardante le modificazioni soggettive dei raggruppamenti temporanei di impresa, la giurisprudenza non si è pronunciata univocamente.
Secondo un orientamento più restrittivo, l'immodificabilità soggettiva dei partecipanti alle gare pubbliche, preordinata a garantire l'Amministrazione appaltante in ordine alla verifica dei requisiti di idoneità morale, tecnico organizzativa ed economica, non consente altre modifiche se non quelle ammesse (tassativamente) dall'art. 37, commi 18 e 19, del d.lgs. n. 163 del 2006.
Secondo un altro orientamento, più estensivo, le modifiche soggettive elusive del divieto posto dall’articolo 37, comma 9, del codice dei contratti, sono quelle riguardanti l'aggiunta o la sostituzione di imprese, rispetto a quelle indicate al momento di partecipazione alla gara e non anche quelle che conducono al recesso di una delle imprese del raggruppamento o consorzio. In tal caso, infatti, l'amministrazione, al momento del mutamento soggettivo, ha già provveduto a verificare i requisiti di capacità tecnica e di moralità dell'impresa o delle imprese che restano, con la conseguenza che i rischi che il divieto posto dal citato comma 9 dell’art. 37 del codice dei contratti mira ad impedire non potrebbero verificarsi.
Sulla questione si è espressa quindi l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione n. 8 del 04.05.2012.
L’Adunanza Plenaria ha preliminarmente ricordato che il principio di immodificabilità soggettiva dei partecipanti alle gare pubbliche mira a garantire una conoscenza piena, da parte delle amministrazioni aggiudicatrici, dei soggetti che intendono contrarre con le amministrazioni stesse, consentendo una verifica preliminare e compiuta dei requisiti di idoneità morale, tecnico-organizzativa ed economico-finanziaria dei concorrenti.
Ciò posto, l’Adunanza Plenaria ha ritenuto che le modifiche soggettive che si pongono in contrasto con il principio di immodificabilità soggettiva dei partecipanti alle gare pubbliche sono quelle che portano all'aggiunta o alla sostituzione delle imprese partecipanti e non anche quelle che conducono al recesso di una delle imprese del raggruppamento: in tal caso, infatti, le esigenze di effettuare una verifica preliminare dei requisiti di idoneità morale, tecnico-organizzativa ed economico-finanziaria dei concorrenti non risultano frustrate poiché l'Amministrazione, al momento del recesso, ha già provveduto a verificare i requisiti di capacità e di moralità dell'impresa o delle imprese che restano, sicché i rischi che il divieto mira ad impedire non possono verificarsi.
L’Adunanza Plenaria ha tuttavia aggiunto che il recesso dell'impresa componente di un raggruppamento nel corso della procedura di gara non può valere a sanare una situazione di preclusione all'ammissione alla procedura sussistente al momento dell'offerta in ragione della sussistenza di cause di esclusione riguardanti il soggetto recedente, pena la violazione della par condicio tra i concorrenti.
Il divieto di modificazione soggettiva, di cui all’art. 37 del codice dei contratti, secondo quanto affermato dall’Adunanza Plenaria, non ha, quindi, l'obiettivo di precludere sempre e comunque il recesso dal raggruppamento in costanza di procedura di gara ma il rigore della disposizione deve essere temperato in ragione dello scopo che persegue, che è quello di consentire alla stazione appaltante, in primo luogo, di verificare il possesso dei requisiti da parte dei soggetti che partecipano alla gara e, correlativamente, di precludere modificazioni soggettive, sopraggiunte ai controlli, e dunque, in grado di impedire le suddette verifiche preliminari.
Tale essendo, dunque, la funzione di detta disposizione è evidente, ha aggiunto la Plenaria, che le uniche modifiche soggettive elusive del dettato legislativo siano quelle che portano all'aggiunta o alla sostituzione delle imprese partecipanti e non anche quelle che conducono al recesso di una delle imprese del raggruppamento, «in tal caso, infatti, le esigenze succitate non risultano affatto frustrate poiché l'amministrazione, al momento del mutamento soggettivo, ha già provveduto a verificare i requisiti di capacità e di moralità dell'impresa o delle imprese che restano, sicché i rischi che il divieto mira ad impedire non possono verificarsi».
Dopo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato anche l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (AVCP) si è espressa sulla questione, con la Determinazione n. 4 del 10.10.2012 (contenente indicazioni generali per la redazione dei bandi di gara ai sensi degli articoli 64, comma 4-bis e 46, comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici) e con la Determinazione n. 5 del 06.11.2013, con la quale ha approvato le “Linee guida su programmazione, progettazione ed esecuzione del contratto nei servizi e nelle forniture”.
L’AVCP, richiamando espressamente le conclusioni raggiunte dall’Adunanza Plenaria, ha affermato, con la Determinazione n. 4 del 10.10.2012, che «anche al di fuori delle ipotesi espressamente normate, deve ritenersi ammissibile il recesso di una o più imprese dal raggruppamento (e non l’aggiunta o la sostituzione), a patto che i rimanenti soggetti siano comunque in possesso dei requisiti di qualificazione per le prestazioni oggetto dell’appalto. Tale limitata facoltà può essere esercitata a condizione che la modifica della compagine soggettiva, in senso riduttivo, avvenga per esigenze organizzative proprie del raggruppamento o del consorzio e non per evitare una sanzione di esclusione dalla gara per difetto dei requisiti in capo al componente che recede... In altri termini, il recesso dell’impresa componente, nel corso della procedura di gara, non può mai valere a sanare ex post una situazione di preclusione all’ammissione alla procedura in ragione della esistenza, a suo carico, di cause di esclusione».
Con la successiva Determinazione 06.11.2013, n. 5, l’AVCP ha ribadito di dover condividere sul punto l'orientamento giurisprudenziale più estensivo «ritenendo ammissibile il solo mutamento soggettivo in senso riduttivo del raggruppamento, con assunzione del servizio in capo al/ai rimanenti componenti dello stesso, previa verifica che tale operazione non sia stata effettuata per eludere la disciplina di gara … e che l'esecutore sia singolarmente in possesso dei requisiti indicati nella lex specialis per l'esecuzione della prestazione».
Questa Sezione ritiene che l’interpretazione delle citate disposizioni fornita dall’Adunanza Plenaria e dalla AVCP debba essere seguita anche perché tiene conto delle frequenti modificazioni soggettive che si verificano nel mondo delle imprese e dell’interesse (che è anche delle amministrazioni) di non escludere dalle procedure (solo a causa dell’intervenuto recesso di una partecipante) RTI che potrebbero essere aggiudicatari di una gara ed in grado di eseguire comunque l'appalto.
Peraltro l’indicata soluzione, come ha affermato l’Adunanza Plenaria non determina una violazione della par condicio dei concorrenti, «perché non si tratta di introdurre nuovi soggetti in corsa, ma solo di consentire a taluno degli associati o consorziati il recesso, mediante utilizzo dei requisiti dei soggetti residui, già comunque posseduti».

8.- Sulla questione riguardante le modificazioni soggettive dei raggruppamenti temporanei di impresa, la giurisprudenza non si è pronunciata univocamente.
Secondo un orientamento più restrittivo, l'immodificabilità soggettiva dei partecipanti alle gare pubbliche, preordinata a garantire l'Amministrazione appaltante in ordine alla verifica dei requisiti di idoneità morale, tecnico organizzativa ed economica, non consente altre modifiche se non quelle ammesse (tassativamente) dall'art. 37, commi 18 e 19, del d.lgs. n. 163 del 2006 (Consiglio di Stato, Sez. IV, 14.12.2012 n. 6446 e, di recente, 03.07.2014 n. 3344).
Secondo un altro orientamento, più estensivo, le modifiche soggettive elusive del divieto posto dall’articolo 37, comma 9, del codice dei contratti, sono quelle riguardanti l'aggiunta o la sostituzione di imprese, rispetto a quelle indicate al momento di partecipazione alla gara e non anche quelle che conducono al recesso di una delle imprese del raggruppamento o consorzio. In tal caso, infatti, l'amministrazione, al momento del mutamento soggettivo, ha già provveduto a verificare i requisiti di capacità tecnica e di moralità dell'impresa o delle imprese che restano, con la conseguenza che i rischi che il divieto posto dal citato comma 9 dell’art. 37 del codice dei contratti mira ad impedire non potrebbero verificarsi (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 842 del 16.02.2010, Sez. V, n. 6546 del 10.09.2010).
9.- Sulla questione si è espressa quindi l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione n. 8 del 04.05.2012.
L’Adunanza Plenaria ha preliminarmente ricordato che il principio di immodificabilità soggettiva dei partecipanti alle gare pubbliche mira a garantire una conoscenza piena, da parte delle amministrazioni aggiudicatrici, dei soggetti che intendono contrarre con le amministrazioni stesse, consentendo una verifica preliminare e compiuta dei requisiti di idoneità morale, tecnico-organizzativa ed economico-finanziaria dei concorrenti.
Ciò posto, l’Adunanza Plenaria ha ritenuto che le modifiche soggettive che si pongono in contrasto con il principio di immodificabilità soggettiva dei partecipanti alle gare pubbliche sono quelle che portano all'aggiunta o alla sostituzione delle imprese partecipanti e non anche quelle che conducono al recesso di una delle imprese del raggruppamento: in tal caso, infatti, le esigenze di effettuare una verifica preliminare dei requisiti di idoneità morale, tecnico-organizzativa ed economico-finanziaria dei concorrenti non risultano frustrate poiché l'Amministrazione, al momento del recesso, ha già provveduto a verificare i requisiti di capacità e di moralità dell'impresa o delle imprese che restano, sicché i rischi che il divieto mira ad impedire non possono verificarsi.
9.1.- L’Adunanza Plenaria ha tuttavia aggiunto che il recesso dell'impresa componente di un raggruppamento nel corso della procedura di gara non può valere a sanare una situazione di preclusione all'ammissione alla procedura sussistente al momento dell'offerta in ragione della sussistenza di cause di esclusione riguardanti il soggetto recedente, pena la violazione della par condicio tra i concorrenti.
9.2.- Il divieto di modificazione soggettiva, di cui all’art. 37 del codice dei contratti, secondo quanto affermato dall’Adunanza Plenaria, non ha, quindi, l'obiettivo di precludere sempre e comunque il recesso dal raggruppamento in costanza di procedura di gara ma il rigore della disposizione deve essere temperato in ragione dello scopo che persegue, che è quello di consentire alla stazione appaltante, in primo luogo, di verificare il possesso dei requisiti da parte dei soggetti che partecipano alla gara e, correlativamente, di precludere modificazioni soggettive, sopraggiunte ai controlli, e dunque, in grado di impedire le suddette verifiche preliminari.
Tale essendo, dunque, la funzione di detta disposizione è evidente, ha aggiunto la Plenaria, che le uniche modifiche soggettive elusive del dettato legislativo siano quelle che portano all'aggiunta o alla sostituzione delle imprese partecipanti e non anche quelle che conducono al recesso di una delle imprese del raggruppamento, «in tal caso, infatti, le esigenze succitate non risultano affatto frustrate poiché l'amministrazione, al momento del mutamento soggettivo, ha già provveduto a verificare i requisiti di capacità e di moralità dell'impresa o delle imprese che restano, sicché i rischi che il divieto mira ad impedire non possono verificarsi».
10.- Dopo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato anche l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (AVCP) si è espressa sulla questione, con la Determinazione n. 4 del 10.10.2012 (contenente indicazioni generali per la redazione dei bandi di gara ai sensi degli articoli 64, comma 4-bis e 46, comma 1-bis, del Codice dei contratti pubblici) e con la Determinazione n. 5 del 06.11.2013, con la quale ha approvato le “Linee guida su programmazione, progettazione ed esecuzione del contratto nei servizi e nelle forniture”.
10.1.- L’AVCP, richiamando espressamente le conclusioni raggiunte dall’Adunanza Plenaria, ha affermato, con la Determinazione n. 4 del 10.10.2012, che «anche al di fuori delle ipotesi espressamente normate, deve ritenersi ammissibile il recesso di una o più imprese dal raggruppamento (e non l’aggiunta o la sostituzione), a patto che i rimanenti soggetti siano comunque in possesso dei requisiti di qualificazione per le prestazioni oggetto dell’appalto. Tale limitata facoltà può essere esercitata (cfr. Cons. St., Ad. Plen. n. 8/2012) a condizione che la modifica della compagine soggettiva, in senso riduttivo, avvenga per esigenze organizzative proprie del raggruppamento o del consorzio e non per evitare una sanzione di esclusione dalla gara per difetto dei requisiti in capo al componente che recede... In altri termini, il recesso dell’impresa componente, nel corso della procedura di gara, non può mai valere a sanare ex post una situazione di preclusione all’ammissione alla procedura in ragione della esistenza, a suo carico, di cause di esclusione».
10.2.- Con la successiva Determinazione 06.11.2013, n. 5, l’AVCP ha ribadito di dover condividere sul punto l'orientamento giurisprudenziale più estensivo «ritenendo ammissibile il solo mutamento soggettivo in senso riduttivo del raggruppamento, con assunzione del servizio in capo al/ai rimanenti componenti dello stesso, previa verifica che tale operazione non sia stata effettuata per eludere la disciplina di gara … e che l'esecutore sia singolarmente in possesso dei requisiti indicati nella lex specialis per l'esecuzione della prestazione».
11.- Questa Sezione ritiene che l’interpretazione delle citate disposizioni fornita dall’Adunanza Plenaria e dalla AVCP debba essere seguita anche perché tiene conto delle frequenti modificazioni soggettive che si verificano nel mondo delle imprese e dell’interesse (che è anche delle amministrazioni) di non escludere dalle procedure (solo a causa dell’intervenuto recesso di una partecipante) RTI che potrebbero essere aggiudicatari di una gara ed in grado di eseguire comunque l'appalto.
12.- Peraltro l’indicata soluzione, come ha affermato l’Adunanza Plenaria non determina una violazione della par condicio dei concorrenti, «perché non si tratta di introdurre nuovi soggetti in corsa, ma solo di consentire a taluno degli associati o consorziati il recesso, mediante utilizzo dei requisiti dei soggetti residui, già comunque posseduti» (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 21.11.2014 n. 5752 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo il maggioritario orientamento seguito da questo Consiglio, l'esistenza di una garanzia fideiussoria non comporta per l'Amministrazione comunale il dovere di chiedere l'adempimento al fideiussore prima di poter irrogare le sanzioni per omesso o ritardato pagamento dei contributi concessori; tale dovere non può farsi discendere neanche dal richiamo all'art. 1227 c.c., che è disposizione riferibile alle sole obbligazioni di natura risarcitoria, e non anche a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura sanzionatoria, come è quella in esame.
Peraltro, il Collegio osserva che sussiste tuttora un diverso orientamento, seguito dai TAR e da una parte di questo Consiglio, secondo cui le previsioni legislative di sanzioni per il ritardato pagamento degli oneri concessori si giustificano con la necessità, per l'ente locale, di disporre tempestivamente delle somme spettanti, atteso l'interesse pubblico alla celere realizzazione e completamento delle opere di urbanizzazione; la scelta del Comune di non incamerare la fideiussione tempestivamente si pone, pertanto, in contrasto con l'esigenza di una celere acquisizione della disponibilità delle somme e determina nel contempo un ingiustificato aggravamento della posizione del debitore.
Per questo secondo orientamento, tale scelta del Comune finirebbe per ledere il principio di correttezza e buona fede, tenuto conto che al privato è stato imposto un onere finanziario (costo della polizza) per una finalità (certezza di tempi nella disponibilità della somma) che l'Ente pubblico, per scelta non aderente alla funzione della disposizione normativa, abbandona per perseguire, nella sostanza, una finalità secondaria (ottenere una consistente maggior somma) a danno del privato, il quale presumibilmente non adempie nei termini per temporanei problemi di liquidità, tenuto conto che l'obbligazione di pagamento non viene meno, ma cambia soltanto il soggetto creditore (da Comune ad assicurazione), con l'aggravio del pagamento degli interessi convenuti in polizza.
Pertanto, la sanzione scaturente dalla applicazione dell'art. 3, l. n. 47 del 1985, è regolata da tutte le disposizioni di principio in materia di obbligazioni e in particolare dal principio secondo il quale il creditore ha il dovere di cooperare con il debitore per il puntuale adempimento dell'obbligazione.

Rileva il Collegio che, secondo il maggioritario orientamento seguito da questo Consiglio, l'esistenza di una garanzia fideiussoria non comporta per l'Amministrazione comunale il dovere di chiedere l'adempimento al fideiussore prima di poter irrogare le sanzioni per omesso o ritardato pagamento dei contributi concessori; tale dovere non può farsi discendere neanche dal richiamo all'art. 1227 c.c., che è disposizione riferibile alle sole obbligazioni di natura risarcitoria, e non anche a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura sanzionatoria, come è quella in esame (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 19.11.2012, n. 5818; Consiglio di Stato, sez. IV, 30.07.2012, n. 4320; Consiglio di Stato, sez. V, 24.03.2005, n. 1250; Consiglio di Stato, sez. V, 11.11.2005, n. 6345; Consiglio di Stato, sez. V, 16.07.2007, n. 4025).
Peraltro, il Collegio osserva che sussiste tuttora un diverso orientamento, seguito dai TAR e da una parte di questo Consiglio, secondo cui le previsioni legislative di sanzioni per il ritardato pagamento degli oneri concessori si giustificano con la necessità, per l'ente locale, di disporre tempestivamente delle somme spettanti, atteso l'interesse pubblico alla celere realizzazione e completamento delle opere di urbanizzazione; la scelta del Comune di non incamerare la fideiussione tempestivamente si pone, pertanto, in contrasto con l'esigenza di una celere acquisizione della disponibilità delle somme e determina nel contempo un ingiustificato aggravamento della posizione del debitore.
Per questo secondo orientamento, tale scelta del Comune finirebbe per ledere il principio di correttezza e buona fede, tenuto conto che al privato è stato imposto un onere finanziario (costo della polizza) per una finalità (certezza di tempi nella disponibilità della somma) che l'Ente pubblico, per scelta non aderente alla funzione della disposizione normativa, abbandona per perseguire, nella sostanza, una finalità secondaria (ottenere una consistente maggior somma) a danno del privato, il quale presumibilmente non adempie nei termini per temporanei problemi di liquidità, tenuto conto che l'obbligazione di pagamento non viene meno, ma cambia soltanto il soggetto creditore (da Comune ad assicurazione), con l'aggravio del pagamento degli interessi convenuti in polizza (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 10.01.2003, n. 32).
Pertanto, la sanzione scaturente dalla applicazione dell'art. 3, l. n. 47 del 1985, è regolata da tutte le disposizioni di principio in materia di obbligazioni e in particolare dal principio secondo il quale il creditore ha il dovere di cooperare con il debitore per il puntuale adempimento dell'obbligazione (cfr., cit. Consiglio di Stato, sez. V, 10.01.2003, n. 32 e Consiglio di Stato, sez. I, 17.05.2013, n. 11663).
Nel caso di specie, alla data dell’emanazione del provvedimento impugnato del Comune di Collegno (26.04.1993), la quarta rata risultava scaduta da oltre 420 giorni; con detto provvedimento del 26.04.1993, dunque ad oltre un anno dalla scadenza della quarta rata, il Comune di Collegno ha intimato alla concessionaria il pagamento della somma complessiva di L. 496.620.000 a titolo di penale per il ritardo nel versamento della seconda, terza e quarta rata; peraltro, la seconda e terza rata sono state versate in data 14.02.1992, con un ritardo di circa un anno rispetto alle scadenze predeterminate.
Alla scadenza dei singoli termini previsti per il versamento dei ratei dovuti (seconda e terza rata pagati in ritardo), non era seguita alcuna iniziativa da parte del Comune appellante né nei confronti della Reale Mutua Assicurazioni, che aveva rilasciato la polizza fideiussoria n. 1013, in favore dell’odierno appellato, in data 12.07.1988, né nei confronti dell’odierna appellata.
Rileva il Collegio, che nel caso di specie si deve applicare la sanzione di cui all’art. 3 della l. 28.02.1985, n. 47, la quale prevede che “Il mancato versamento, nei termini di legge (…) comporta: a) l'aumento del contributo in misura pari al 20 per cento qualora il versamento del contributo sia effettuato nei successivi centoventi giorni; b) l'aumento del contributo in misura pari al 50 per cento quando, superato il termine di cui alla lettera a), il ritardo si protrae non oltre i successivi sessanta giorni; c) l'aumento del contributo in misura pari al 100 per cento quando, superato il termine di cui alla lettera b), il ritardo si protrae non oltre i successivi sessanta giorni”.
Pertanto, è evidente, da un lato, che la sanzione di cui all’art. 3 della l. 28.02.1985, n. 47 costituisce conseguenza automatica del ritardato pagamento.
Tuttavia, dall’altro, e in specifico nel caso in esame, valorizzando il principio di leale collaborazione tra cittadino e Comune, che ha valenza pubblicistica e rientra nell’ambito dei principi di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., è evidente che il Comune avrebbe dovuto comunque attivarsi prontamente per escutere il fideiussore, atteso che la fideiussione conteneva anche un obbligo di reintegrare la stessa, qualora essa fosse stata utilizzata in tutto o in parte a seguito di eventuali inadempienze e sanzioni (art. 5 della polizza) e atteso che la stessa non condizionava affatto il pagamento del debito garantito alla previa escussione del contraente.
Infatti, in relazione alla particolarità della fattispecie, si ritiene contrario al dovere di correttezza (che civilisticamente è riconducibile nella fattispecie normativa di cui all'art. 1175 c.c. e pubblicisticamente rientra nell’ambito del principio onnicomprensivo di imparzialità di cui al citato art. 97 Cost.) il comportamento dell'Amministrazione comunale che si sia avvalsa del disposto dell'art. 3 l. n. 47/191985, pur in presenza di polizza fideiussoria prodotta dal titolare all'atto del rilascio della concessione edilizia e agendo con notevole ritardo per ottenere il pagamento della sanzione per l’intero (lett. c) dell’art. 3 l. 47/1985 cit.).
Tanto più, come già detto, che le previsioni legislative di sanzioni per il ritardato pagamento degli oneri concessori si giustificano con la necessità, per l'ente locale, di disporre tempestivamente delle somme spettanti, atteso l'interesse pubblico alla celere realizzazione e completamento delle opere di urbanizzazione.
Il ritardo con cui il Comune ha proceduto alla richiesta di pagamento e l’assenza di qualsivoglia tentativo di escussione della fideiussione, comportano, all’evidenza, una violazione del dovere di correttezza che avrebbe dovuto improntare il comportamento dell'Amministrazione comunale, in considerazione del fatto che l’Amministrazione non è un soggetto che agisce per massimizzare il suo profitto (il che potrebbe giustificare l’opzione di applicare soltanto le sanzioni per massimizzare gli introiti), ma è un soggetto che agisce per realizzare nel modo migliore possibile un interesse pubblico che le è stato affidato dalla legge e che consiste, appunto, nella celere realizzazione delle opere di urbanizzazione (e, quindi, nella pronta disponibilità delle somme ad esse relative).
Pertanto, in presenza di una fideiussione, come quella descritta, il rilevante ritardo (come quello di specie) con cui il Comune agisce per riscuotere le somme a titolo di oneri di urbanizzazione dovuti, se non può impedire del tutto l’applicazione delle sanzioni, atteso il loro carattere automatico, scaturente dal disposto di cui all’art. 3 l. 47/1985 cit., impedisce tuttavia l’applicazione delle sanzioni massime (lett. b e c dell’anzidetto art. 3).
Conseguentemente, nel caso in esame, appare compatibile con l’interesse pubblico azionato, con il tenore della norma e con i principi costituzionali di buona fede che ispirano i rapporti tra cittadino e P.A. la riscossione della sanzione soltanto nella limitata misura di cui alla lett. a), mentre le maggiori sanzioni sono da ritenersi illegittime, poiché verosimilmente, escutendo la fideiussione, il Comune avrebbe ottenuto la somma e non avrebbe potuto quindi applicare alcuna ulteriore sanzione.
Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni, l’appello può essere accolto soltanto in parte, nei sensi sopra precisati e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata deve ritenersi che la sanzione sia escutibile soltanto nel minimo, indicato dalla lett. a) dell’art. 3 l. 47/1985 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.11.2014 n. 5734 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI1. Competenza all'adozione dell'ordinanza di rimozione rifiuti ex art. 192, comma 3 del Codice dell’Ambiente.
La competenza all'adozione dell'ordinanza ex art. 192, comma 3, del Codice dell’Ambiente -secondo il quale “chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2” (abbandono e deposito incontrollato di rifiuti) “è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo”- spetta al sindaco e non al dirigente dell’ente locale.
2. Sulla necessità che l'ordinanza ex art. 192, comma 3 del Codice dell’Ambiente sia proceduta da comunicazione di avvio procedimento.
L'ordinanza ex art. 192, comma 3, del Codice dell’Ambiente deve essere proceduta da comunicazione di avvio procedimento poiché, nella materia de qua, tale comunicazione si configura come un adempimento indispensabile al fine dell’effettiva instaurazione di un contraddittorio procedimentale con gli interessati, atteso che, secondo la disposizione di legge, l’ordine di rimozione può essere adottato esclusivamente “in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo” .

E’ controversa la legittimità del provvedimento con cui il Sindaco di Lavagna ha ordinato alla Società ricorrente di rimuovere i rifiuti pericolosi (materiale inerte contenente amianto) casualmente rinvenuti all’interno di un’intercapedine sottostante la passeggiata comunale.
L’Amministrazione procedente ha fatto proprie le valutazioni del personale comunale che, all’esito di un sopralluogo, aveva ricondotto la presenza dei rifiuti alla Società concessionaria del limitrofo tratto di arenile, collegato all’intercapedine da una scalinata.
Al momento del sopralluogo, peraltro, l’accesso all’intercapedine era precluso da un muro di mattoni che, a giudizio del personale comunale, sarebbe stato recentemente edificato proprio allo scopo di occultare la presenza del materiale pericoloso.
Le censure di legittimità dedotte dalla parte ricorrente, nel contesto di sei motivi di ricorso, possono essere suddivise in due gruppi: quelle del primo gruppo, tese a denunciare la sussistenza di vizi prevalentemente formali, sono accomunate dalla contestazione inerente alla natura del rimedio azionato dall’Amministrazione; gli altri tre motivi di ricorso contengono rilievi intesi ad escludere ogni responsabilità del privato in relazione al deposito dei rifiuti pericolosi che formano oggetto del provvedimento impugnato.
In via preliminare, deve provvedersi all’esatta qualificazione del provvedimento impugnato, attesa la contraddittorietà delle indicazioni emergenti dalla lettera del medesimo che, nelle premesse, richiama sia il potere sindacale di emanare ordinanze contingibili e urgenti in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale (art. 50, comma 5, d.lgs. n. 267/2000 – t.u. enti locali) sia il potere di ordinare la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti ex art. 192 del d.lgs. n. 152/2006 (codice dell’ambiente).
Evidenti ragioni di carattere logico precludono la possibilità di qualificare il provvedimento come una sorta di atto complesso, ossia come “ordinario” provvedimento volto alla rimozione di rifiuti e, al contempo, come rimedio extra ordinem per fronteggiare un’eccezionale esigenza di tutela della salute pubblica.
Si tratta, d’altronde, di due poteri ripristinatori ontologicamente diversi, il primo dei quali presuppone l’accertamento della responsabilità dei soggetti che hanno abbandonato i rifiuti e il secondo, che prescinde da tale accertamento, muove da una situazione di pericolo per la salute pubblica (cfr. TAR Piemonte, sez. II, 09.02.2012, n. 172).
Nonostante l’esplicito richiamo contenuto nelle premesse, l’atto in questione non può essere considerato, come pretenderebbe parte ricorrente, una ordinanza contingibile e urgente ex art. 50, comma 5, t.u. enti locali, facendo difetto nella fattispecie i presupposti fondamentali richiesti per l’esercizio del relativo potere, vale a dire l’esistenza di una situazione di eccezionalità, non fronteggiabile con gli strumenti giuridici ordinari previsti dall’ordinamento, e il mancato accertamento di specifiche responsabilità in ordine all’abbandono dei rifiuti.
In accordo con la difesa dell’Amministrazione, deve ritenersi, invece, che il provvedimento in questione vada qualificato come ordinanza ex art. 192, comma 3, codice dell’ambiente, secondo il quale “chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2” (abbandono e deposito incontrollato di rifiuti) “è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all’esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate”.
L’Amministrazione procedente, infatti, si è limitata ad una sintetica ricostruzione dei fatti e ad affermare, richiamando la relazione del sopralluogo effettuato dal proprio personale, la responsabilità dell’odierna ricorrente, senza tuttavia menzionare particolari situazioni di pericolo per la sanità e l’igiene pubblica che, in ipotesi, avrebbero imposto l’utilizzo di rimedi extra ordinem né rendere conto dell’espletamento di alcuna attività istruttoria volta all’individuazione dei pericoli suddetti.
Le conclusioni che precedono comportano la reiezione della censura dedotta con il primo motivo di ricorso, concernente l’improprio utilizzo del potere di ordinanza ex art. 50, comma 5, t.u. enti locali.
E’ destituito di fondamento anche il terzo motivo di ricorso, relativo alla titolarità del potere esercitato nella fattispecie: l’art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006, infatti, è una norma speciale sopravvenuta rispetto all’art. 107, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000, cosicché la competenza a disporre con ordinanza le operazioni necessarie per la rimozione e lo smaltimento dei rifiuti abbandonati spetta al sindaco e non al dirigente dell’ente locale (Cons. Stato, sez. V, 25.08.2008, n. 4061).
E’ fondato e meritevole di accoglimento, invece, il secondo motivo di ricorso, con cui viene denunciata l’illegittimità dell’atto per mancata comunicazione di avvio del procedimento, genericamente (e inesattamente) giustificata dall’Amministrazione con riferimento a pretese ragioni di celerità connesse alla tutela della “sicurezza pubblica”.
Come precisato dal Consiglio di Stato con la citata decisione n. 4061 del 2008, infatti, la preventiva, formale comunicazione dell’avvio del procedimento si configura, nella materia de qua, come “un adempimento indispensabile al fine dell’effettiva instaurazione di un contraddittorio procedimentale con gli interessati”, atteso che l’ordine di rimozione può essere adottato esclusivamente “in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo” (cfr. anche TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 02.09.2009, n. 4598).
La difesa comunale afferma che l’omissione dell’adempimento in parola sarebbe stata imposta dalla necessità di provvedere con assoluta urgenza, a causa della pericolosità del materiale da rimuovere, ma tale assunto è smentito, di fatto, dalla tempistica dello specifico procedimento, atteso che l’ordinanza di rimozione è stata adottata a distanza di quasi due mesi dalla relazione di sopralluogo nella quale si riferiva con certezza la presenza di amianto.
Inoltre, non può ritenersi che, nel caso in esame, la comunicazione di avvio del procedimento avrebbe rappresentato l’adempimento di un obbligo meramente formale in quanto, alla luce dei rilievi formulati nel ricorso circa l’assenza di responsabilità per l’abbandono dei rifiuti, non si può certo ritenere a priori che l’apporto procedimentale del privato non sarebbe stato idoneo ad influire sull’esito del procedimento.
Non può trovare applicazione, pertanto, il disposto dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990.
Le considerazioni che precedono sono sufficienti a fondare la diagnosi di fondatezza del ricorso, a prescindere dal vaglio dei rilievi formulati con i residui tre motivi di gravame che richiederebbe accertamenti istruttori complessi e tempi non brevi.
La presente pronuncia, d’altronde, risulta pienamente satisfattiva dell’interesse azionato da parte ricorrente in quanto, essendo già intervenuta la rimozione dei rifiuti ad opera del Comune, deve escludersi la possibilità di riedizione dell’attività amministrativa che ha condotto all’adozione del provvedimento illegittimo
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Liguria, Sez. II, sentenza 21.11.2014 n. 1698 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI1. Oneri per la sicurezza. Omessa indicazione. Immediata efficacia lesiva. Appalti di servizi di natura intellettuale. Giudizio di anomalia. Esclusione.
1.1. L’omessa indicazione nella lettera di invito dei costi per la sicurezza non soggetti a ribasso costituisce una circostanza direttamente incidente sulla formulazione dell’offerta e, in conseguenza, deve essere immediatamente contestata senza attendere l’esito sfavorevole della gara.
1.2. In ogni caso, negli appalti di servizi di natura intellettuale non occorre indicare gli oneri per la sicurezza, poiché le attività da svolgersi non sono caratterizzate da profili di interesse in tema di sicurezza sul lavoro.
In particolare, non si profilano in tale ambito rischi da interferenze esterne (derivanti, ad esempio, dalle particolari condizioni dei luoghi in cui dovrà svolgersi l’attività) ed è per questa ragione che l’art. 26, comma 3-bis, del d.lgs. n. 81/2008, esclude espressamente l’obbligo per la stazione appaltante di indicare detti oneri nel bando di gara.
L’indicazione dei costi aziendali per la sicurezza da parte dei singoli concorrenti, invece, risulta funzionale al giudizio di anomalia e nessuna disposizione normativa prevede la comminatoria di esclusione per l'omessa indicazione degli stessi nell’offerta.

2. Petitum. Rinnovo operazioni di gara. Subentro. Interesse a ricorrere. Carenza.
Qualora la domanda giurisdizionale promossa dall’impresa concorrente esclusa non sia volta a conseguire l’aggiudicazione della gara, neppure in via subordinata o alternativa, ma a conseguire esclusivamente il rinnovo delle operazioni di gara e, allo stesso tempo, l’accoglimento delle censure formulate comporti proprio l’aggiudicazione direttamente in favore della ricorrente, il ricorso è inammissibile per carenza di interesse.
Con il primo motivo di ricorso, l’esponente denuncia la violazione dell’art. 86, comma 3-bis, del d.lgs. n. 163/2006 (codice dei contratti pubblici), in forza del quale andrebbero inderogabilmente indicati, anche negli appalti di servizi, i costi relativi alla sicurezza.
Nel caso in esame, l’omissione sarebbe stata duplice: la stazione appaltante non ha indicato, nell’avviso pubblico della procedura negoziata e nella successiva lettera di invito, i costi per la sicurezza non soggetti a ribasso di cui i concorrenti avrebbero dovuto tenere conto nella predisposizione delle offerte (cd. “oneri da interferenze”); l’aggiudicataria, poi, non ha indicato nella propria offerta i costi per la sicurezza da rischio specifico (cd. “oneri da rischio aziendale”), ma vi ha provveduto solo nella successiva fase di verifica di non anomalia.
Anche la seconda omissione, peraltro, sarebbe imputabile all’erronea formulazione della legge di gara che non aveva previsto l’obbligo di indicare i costi della sicurezza inerenti all’attività svolta da ciascun concorrente e non aveva predisposto alcun modello da utilizzarsi allo scopo.
Tali doglianze sono tardive e, comunque, destituite di giuridico fondamento.
L’omessa indicazione nella lettera di invito dei costi per la sicurezza non soggetti a ribasso, infatti, costituisce una circostanza direttamente incidente sulla formulazione dell’offerta e, in conseguenza, avrebbe dovuto essere immediatamente contestata, per rilevare il pregiudizio che ne derivava ai danni della concorrente, senza attendere l’esito sfavorevole della gara (Cons. Stato, sez. IV, 07.11.2012, n. 5671; idem, 26.11.2009, n. 7442; TAR Liguria, sez. II, 21.03.2014, n. 453).
In ogni caso, la giurisprudenza amministrativa, dopo talune oscillazioni, ha chiarito che negli appalti di servizi di natura intellettuale, qual è pacificamente quello che forma oggetto della presente contestazione giurisdizionale, non occorre indicare gli oneri per la sicurezza, poiché le attività da svolgersi non sono caratterizzate da profili di interesse in tema di sicurezza sul lavoro (cfr., fra le ultime, Cons. Stato, sez. V, 17.06.2014, n. 3054).
In particolare, non si profilano in tale ambito rischi da interferenze esterne (derivanti, ad esempio, dalle particolari condizioni dei luoghi in cui dovrà svolgersi l’attività) ed è per questa ragione che l’art. 26, comma 3-bis, del d.lgs. n. 81/2008, esclude espressamente l’obbligo per la stazione appaltante di indicare detti oneri nel bando di gara (TAR Puglia, Lecce, sez. I, 28.02.2012, n. 378).
L’indicazione dei costi aziendali per la sicurezza da parte dei singoli concorrenti, invece, risulta funzionale al giudizio di anomalia e nessuna disposizione normativa prevede la comminatoria di esclusione per l'omessa indicazione degli stessi nell’offerta (Cons. Stato, sez. V, 17.06.2014, n. 3056; TAR Liguria, sez. II, 29.08.2014, n. 1323).
Va soggiunto che, nel caso in esame, la lex specialis nulla prevedeva in ordine all’eventuale indicazione degli oneri aziendali già nell’offerta e che, comunque, l’aggiudicataria non ha avuto difficoltà a specificare detti oneri in sede di verifica dell’anomalia.
La ricorrente, invece, non ha interesse a formulare le censure dedotte con il secondo (anche se contraddistinto con il n. 1.1) motivo di ricorso, inerenti alla pretesa anomalia dell’offerta aggiudicataria.
L’eventuale accoglimento del motivo, infatti, non comporterebbe né la riedizione dell’intera procedura competitiva né l’aggiudicazione in favore della ricorrente, ma solo lo scorrimento della graduatoria e la conseguente aggiudicazione in favore di una delle concorrenti che vi occupano una posizione anteriore alla ricorrente.
In ogni caso, i rilievi formulati nel contesto del motivo -riferendosi ad una pretesa inadeguatezza delle prestazioni professionali previste dall’aggiudicataria, in termini di impegno orario, rispetto alla complessità dell’incarico da svolgere– non sono idonei a rivelare, anche alla luce dei dettagliati chiarimenti forniti dall’aggiudicataria medesima, alcun profilo di manifesta illogicità del giudizio di non anomalia motivatamente reso dalla stazione appaltante (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Liguria, Sez. II, sentenza 21.11.2014 n. 1690 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Sulla natura delle controversie in materia di oneri di urbanizzazione.
Le controversie in tema di oneri di urbanizzazione e di costo di costruzione introducono un giudizio su un rapporto involgente posizioni di diritto soggettivo, che, come tale, sfugge ai termini decadenziali del giudizio impugnatorio ed è attivabile nell’ordinario termine di prescrizione.
2. Sulle condizioni di operatività dell'esonero dal contributo per le opere da realizzare in zona agricola in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo ex art. 9, co. 1, lett. a), legge n. 10/1977.
L’esonero dal contributo per il rilascio della concessione edilizia relativamente alle opere da realizzare nelle zone agricole in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale previsto dall’art. 9, co. 1, lett. a), della legge n. 10/1977, subordinava la gratuità della concessione a due condizioni: la destinazione dell’opera alla conduzione del fondo la titolarità della qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale, per tale dovendosi intendere “l'imprenditore che dedichi alla attività agricola almeno due terzi del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dall'attività medesima almeno due terzi del proprio reddito globale da lavoro risultante dalla propria posizione fiscale”, la cui sussistenza è onere del ricorrente dimostrare.
3. Rilevanza anche dei volumi interrati ai fini del computo degli oneri di urbanizzazione.
Ove non si tratti di opere di modeste dimensioni e con destinazione delle stesse ad usi episodici o meramente complementari, o comunque escluse dagli strumenti urbanistici, anche i locali interrati producono carico urbanistico e rilevano ai fini del computo degli oneri di urbanizzazione.

3.1. Le censure, che saranno esaminate congiuntamente, sono infondate.
3.1.1. L’art. 9, co. 1, lett. a), della legge n. 10/1977, applicabile ratione temporis, prevedeva l’esonero dal contributo per il rilascio della concessione edilizia relativamente alle opere da realizzare nelle zone agricole in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell'art. 12 della legge n. 153/1975.
Come si vede, la norma subordinava la gratuità della concessione a due condizioni, una oggettiva, ovvero la destinazione dell’opera alla conduzione del fondo, e l’altra soggettiva, ovvero la titolarità della qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale, per tale dovendosi intendere “l'imprenditore che dedichi alla attività agricola almeno due terzi del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dall'attività medesima almeno due terzi del proprio reddito globale da lavoro risultante dalla propria posizione fiscale”, secondo la definizione dettata dall’art. 12 l. n. 153/1975 cit.; ed anche a voler ammettere che lo scantinato abusivo per cui è causa debba presumersi destinato a contribuire alla conduzione del fondo di proprietà del ricorrente, nella specie è proprio il requisito soggettivo a fare difetto: non solo, infatti, il ricorrente medesimo non ne ha dimostrato la sussistenza, come sarebbe stato suo onere (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. V, 09.04.2013, n. 1935), ma la documentazione in atti attesta il contrario (basti esaminare la nota di trascrizione dell’atto d’obbligo del 12.04.1991, ove il ricorrente è qualificato come “infermiere professionale”, circostanza palesemente incompatibile con il contestuale possesso della qualità di imprenditore agricolo a titolo principale.
Del pari, gli altri soggetti menzionati nella nota vi sono qualificati, rispettivamente come “bidella” la signora D.V., moglie del ricorrente, e “pensionato” il signor F.G.).
3.1.2. Quanto alla debenza o meno del contributo di concessione per la realizzazione di locali interrati, ai sensi dell’art. 18 delle N.T.A. del P.R.G. di San Giuliano Terme, non può dubitarsi del fatto che la disposizione dianzi citata, nell’indicare al punto 5 i volumi rilevanti ai fini della individuazione delle caratteristiche quantitative delle opere realizzabili nel territorio comunale, vi comprenda anche i volumi interrati, di modo che il successivo rinvio alle “superfici utili” indicate al precedente punto 4 non può essere inteso ai soli piani fuori terra, come pretenderebbe il ricorrente in virtù di una interpretazione rigidamente letterale, ma a tutte le superfici utili di calpestio, ivi incluse quelle interrate e con la sola eccezione prevista dallo strumento urbanistico per le superfici –fuori terra o interrate– aventi specifiche destinazioni pertinenziali (autorimesse e locali tecnici, le cui caratteristiche non ha il manufatto realizzato dal ricorrente, oltretutto di dimensioni oggettivamente non esigue).
Diversamente, la menzione dei volumi interrati al punto 5 resterebbe priva di effetti, in aperto contrasto, peraltro, con il principio invalso secondo cui, ove non si tratti di opere di modeste dimensioni e con destinazione delle stesse ad usi episodici o meramente complementari, o comunque escluse dagli strumenti urbanistici, anche i locali interrati producono carico urbanistico e rilevano ai fini del computo degli oneri di urbanizzazione (fra le altre, cfr. Cons. Stato, sez. V, 15.02.2001, n. 790; id., sez. IV, 03.05.2000, n. 2614).
Conferma ne sia che lo stesso ricorrente, nell’istanza di condono, definisce “superficie utile” di 50,04 mq quella del manufatto in questione, salvo invocare le agevolazioni di legge previste per la destinazione all’attività agricola (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 21.11.2014 n. 1826 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Annullamento, da parte della Soprintendenza, dell'autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune senza adeguata motivazione.
E' legittimo il provvedimento con cui la Soprintendenza annulla l’autorizzazione rilasciata dall'amministrazione comunale, ex art. 7 della legge n. 1497/1939, nell’ambito di un procedimento di condono edilizio, qualora tale autorizzazione sia priva di motivazione e fondata sul mero rinvio per relationem al parere della Commissione Edilizia Integrata.
Come noto, infatti, nel sistema di tutela delle bellezze naturali apprestato dalla legge n. 1497/1939 è il rilascio del titolo abilitativo a dover adeguatamente esternare il percorso logico seguito dall’amministrazione procedente per escludere l’esistenza di un pregiudizio ai beni protetti dal vincolo paesaggistico, o, comunque, per affermare la prevalenza dell’interesse individuale su quello pubblico tutelato dall’apposizione del vincolo ambientale, mentre per il caso di diniego la giurisprudenza ha frequentemente ritenuto idonea una motivazione anche succinta, fondata sulla mera contrarietà tra la presenza del manufatto e la bellezza naturale dei luoghi.

2. Nozione di “visibilità” ai fini della valutazione di compatibilità paesaggistica.
Ai fini della valutazione di compatibilità paesaggistica, la nozione di “visibilità” dell'opera nel contesto paesaggistico tutelato non può ritenersi limitata a particolari punti di osservazione, ma deve riguardare l'apprezzamento puntuale e concreto dell'effettiva compatibilità dell'intervento, e di tutti gli elementi che ne determinano l’impatto paesaggistico, con i valori ambientali propri del sito vincolato.
Né, evidentemente, la similarità della copertura a quella di altre costruzioni della zona di per sé determina il corretto inserimento ambientale del manufatto, in assenza di una puntuale e concreta verifica della compatibilità dei materiali costruttivi utilizzati (nel caso di specie, lamiera) con le caratteristiche del sito vincolato; così come il rilascio del nulla osta idrogeologico attiene a profili che non rilevano ai fini dell’inserimento paesaggistico-ambientale delle opere abusive.

3. Motivi per i quali la Soprintendenza può annullare l'autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune.
L'autorizzazione paesaggistica può venire annullata ad opera della Soprintendenza per qualsiasi vizio di legittimità, ivi compresa l'assenza, nel provvedimento di base, di una corretta indicazione delle ragioni sottese alla positiva valutazione, quanto a compatibilità paesaggistica, dell'intervento progettato; fermo restando che nulla impedirebbe all’atto di annullamento di limitarsi a constatare il difetto di motivazione dell’autorizzazione comunale, senza addentrarsi in valutazioni di merito.
4. Decorrenza del termine di sessanta giorni assegnato all'amministrazione statale per l'esercizio del potere di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica.
Il termine di sessanta giorni assegnato all'amministrazione statale per l'esercizio del potere di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica decorre dal momento in cui la documentazione perviene completa all'organo competente a decidere, fermo restando che il termine predetto non può essere sospeso, interrotto o prorogato arbitrariamente al di fuori di reali esigenze istruttorie, per finalità puramente dilatorie.
5. Inoperatività del silenzio-assenso sull'istanza di condono in caso di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica intervenuta tempestivamente da parte della Soprintendenza.
Il combinato disposto dell’art. 35 e dell’art. 32 co. 1 della legge n. 47/1985 conduce ad affermare che il silenzio-assenso sull’istanza di condono edilizio inerente opere abusive realizzate in area sottoposta a vincolo si perfeziona unicamente in presenza del parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, e non anche di parere negativo, ovvero di annullamento ministeriale del parere favorevole, e che il termine di sessanta giorni si colloca all’interno dello spazio temporale occorrente per la formazione del titolo abilitativo tacito; cosicché non può dirsi formato l’invocato silenzio-assenso, qualora l’annullamento ministeriale dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune sia intervenuto tempestivamente.

4.1. Le censure sono infondate.
4.1.1. Al contrario di quanto sostenuto in ricorso, le valutazioni espresse dalla Soprintendenza non trasmodano in controllo di merito, ma restano ancorate al tipico parametro di legittimità costituito dal difetto di motivazione dell’autorizzazione rilasciata dal Comune. Quest’ultima non lascia, infatti, in alcun modo emergere le ragioni sottese al giudizio favorevole alla condonabilità della costruzione realizzata dalla originaria ricorrente e si limita a un puro e semplice rinvio per relationem al parere della C.E.I., non corredato di alcun riferimento alle ragioni poste dalla commissione integrata a sostegno delle proprie valutazioni.
Per questo aspetto, appaiono dunque ineccepibili i rilievi della Soprintendenza, cui il parere in questione neppure risulta trasmesso (si veda la scheda illustrativa in data 08.02.1998, inviata dal Comune alla Soprintendenza e recante la semplice indicazione dell’esistenza del parere favorevole C.E.I.) circa l’impossibilità di apprezzare i criteri applicati dal Comune onde pervenire al rilascio dell’autorizzazione.
Del resto, nel sistema di tutela delle bellezze naturali apprestato dalla legge n. 1497/1939 è appunto il rilascio del titolo abilitativo a dover adeguatamente esternare il percorso logico seguito dall’amministrazione procedente per escludere l’esistenza di un pregiudizio ai beni protetti dal vincolo paesaggistico, o, comunque, per affermare la prevalenza dell’interesse individuale su quello pubblico tutelato dall’apposizione dei vincolo ambientale, mentre per il caso di diniego la giurisprudenza ha frequentemente ritenuto idonea una motivazione anche succinta, fondata sulla mera contrarietà tra la presenza del manufatto e la bellezza naturale dei luoghi (cfr. TAR Toscana, sez. III, 29.05.2007, n. 823).
4.1.2. Si aggiunga in ogni caso che, per come formulato, il parere della commissione integrata è tutt’altro che idoneo a legittimare nella sostanza il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, non potendosi all’uopo considerare sufficiente il requisito della poca visibilità dalla “strada pubblica e dal canale adiacente” a fronte del principio, invalso, secondo cui ai fini della valutazione di compatibilità la nozione di “visibilità” dell'opera nel contesto paesaggistico tutelato non può ritenersi limitata a particolari punti di osservazione, ma deve riguardare l'apprezzamento puntuale e concreto dell'effettiva compatibilità dell'intervento, e di tutti gli elementi che ne determinano l’impatto paesaggistico, con i valori ambientali propri del sito vincolato (da ultimo, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 11.09.2013, n. 4493, e id., 10.05.2013, n. 2535, ma già id., 28.10.2002, n. 5881).
Né, evidentemente, la similarità della copertura a quella di altre costruzioni della zona di per sé determina il corretto inserimento ambientale del manufatto, in assenza di una puntuale e concreta verifica della compatibilità dei materiali costruttivi utilizzati (lamiera) con le caratteristiche del sito vincolato; così come il rilascio del nulla osta idrogeologico attiene a profili che non rilevano ai fini dell’inserimento paesaggistico-ambientale delle opere abusive.
Lungi dal sostituire il proprio giudizio a quello formulato dal Comune, dunque la Soprintendenza non ha fatto altro che colmare un manifesto vuoto motivazionale attraverso considerazioni che valgono altresì a evidenziare –attraverso l’insistito richiamo all’alto valore ambientale dell’area– l’inconsistenza delle ragioni addotte dal Comune per giustificare, nel caso di specie, l’assentibilità delle opere.
E tanto basta a motivare l’annullamento, essendo pacificamente legittimo che l'autorizzazione paesaggistica possa venire annullata ad opera della Soprintendenza per qualsiasi vizio di legittimità, ivi compresa l'assenza, nel provvedimento di base, di una corretta indicazione delle ragioni sottese alla positiva valutazione, quanto a compatibilità paesaggistica, dell'intervento progettato; fermo restando che nulla impedirebbe all’atto di annullamento di limitarsi a constatare il difetto di motivazione dell’autorizzazione comunale, senza addentrarsi in valutazioni di merito (fra le altre, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 11.09.2013, n. 4481; id., 17.07.2013, n. 3896; id., 05.04.2013, n. 1876; id., 18.01.2012, n. 173).
4.2.3. Quanto alla presunta tardività del provvedimento impugnato, si ricorda che per giurisprudenza consolidata il termine di sessanta giorni assegnato all'amministrazione statale per l'esercizio del potere di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica decorre dal momento in cui la documentazione perviene completa all'organo competente a decidere, fermo restando che il termine predetto non può essere sospeso, interrotto o prorogato arbitrariamente al di fuori di reali esigenze istruttorie, per finalità puramente dilatorie (per tutte, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 29.05.2008, n. 2538).
Nella specie, la documentazione completa risulta pervenuta alla Soprintendenza il 20.04.1998, come si afferma nello stesso provvedimento impugnato, e, in mancanza di elementi di prova che valgano a smentire tale attestazione, non può che concludersi per la tempestività del decreto di annullamento, adottato il 24.04.1998.
E’ in atti, del resto, la nota di trasmissione della pratica dal Comune alla Soprintendenza in data 26.02.1996 recante, in calce, il timbro “documentazione incompleta – vedi allegato” sottoscritto dal Soprintendente il 13.03.1996; l’allegato, pure presente, contiene una lista di documenti mancanti, con evidenziata la voce “documentazione fotografica originale e in copia” e l’aggiunta manoscritta “ove sia più chiaramente visibile il manufatto”, a conferma della non pretestuosità della richiesta di integrazione, e il tutto porta il timbro di restituzione al Comune datato 15–20.03.1996.
5. Venendo al ricorso n. 1718/1999 R.G., avente ad oggetto il diniego di condono del 20.04.1999, la rilevata infondatezza dell’impugnativa proposta avverso l’annullamento ministeriale dell’autorizzazione paesaggistica si trasmette alle censure di invalidità derivata articolate con il primo motivo, e sostanzialmente ripetitive dei motivi di gravame contenuti nel ricorso 2045/1998 R.G..
5.2. Con il secondo motivo, si sostiene che il diniego di condono sarebbe stato pronunciato quando si era oramai formato sull’istanza il silenzio-assenso, ai sensi dell’art. 35 della legge n. 47/1985. In contrario, sia sufficiente osservare che, per giurisprudenza costante, il combinato disposto dell’art. 35 e dell’art. 32, co. 1, della legge n. 47/1985 conduce ad affermare che il silenzio-assenso sull’istanza di condono edilizio inerente opere abusive realizzate in area sottoposta a vincolo si perfeziona unicamente in presenza del parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, e non anche di parere negativo, ovvero di annullamento ministeriale del parere favorevole, e che il termine di sessanta giorni si colloca all’interno dello spazio temporale occorrente per la formazione del titolo abilitativo tacito (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 07.09.2012, n. 4747); e poiché, per le ragioni suesposte, nella specie l’annullamento ministeriale dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune è pervenuto tempestivamente, neppure può dirsi formato l’invocato silenzio-assenso (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 21.11.2014 n. 1819  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATABed & breakfast senza permessi. Non è cambio di destinazione d’uso, niente stop per regolamento. Spazi privati. Anche gli asili nido possono essere allestiti nell’appartamento nel rispetto delle regole comuni.
Aguzzare l'ingegno e inventarsi un mestiere, soprattutto quando le offerte di lavoro sono ridotte al lumicino, può rivelarsi la scelta giusta. Se poi l'impiego in questione si svolge direttamente a casa e comporta investimenti contenuti, l'idea comincia a essere davvero appetibile. È il caso dei bed and breakfast e degli asili nido famiglia, due modi intelligenti per guadagnare utilizzando l'alloggio in cui si risiede, sia esso di proprietà o in affitto.
Il bed and breakfast è un'attività a carattere saltuario, svolta a conduzione familiare da privati che utilizzano parte della propria casa per offrire un servizio di alloggio e prima colazione. In condominio non è necessaria l'approvazione dell'assemblea, a meno che gli atti notarili di acquisto o il regolamento condominiale non vietino espressamente questo tipo di attività, differente dalla pensione o dall'affittacamere.
Con la sentenza 20.11.2014 n. 24707, confermando la decisione della Corte d'appello, la Corte di Cassazione -Sez. II civile- ha inoltre stabilito che l'attività di b&b è consentita anche in presenza di un regolamento condominiale che vieti, come nel caso specifico, di «destinare gli appartamenti a uso diverso da quello di civile abitazione o di ufficio professionale privato». Secondo il giudice di appello «l'utilizzo degli appartamenti a tale scopo non comporta il cambio di destinazione d'uso ai fini urbanistici» e, cosa ancora più importante, proprio la definizione di “civile abitazione” citata nel regolamento, risulta essere un presupposto fondamentale per lo svolgimento dell'attività di b&b.
Il condòmino può anche realizzare tutte le opere che ritiene opportune, a patto che non provochino danni alle cose comuni o pregiudizi alle proprietà esclusive altrui.
Per prima cosa, occorre recarsi allo Sportello unico della attività produttive del Comune d'appartenenza e compilare la Scia, la segnalazione certificata di inizio attività. Non serve nessuna iscrizione alla sezione speciale del registro delle imprese, mentre devono essere rispettati alcuni requisiti, come quelli igienico-sanitari previsti dal regolamento edilizio e dal regolamento d'igiene comunale, oltre alla normativa vigente in materia di sicurezza e di somministrazione di cibi e bevande. In linea di massima, anche se ogni regione detta le proprie regole, è necessario che le stanze abbiano dimensioni adeguate e siano presenti due servizi igienici (se l'attività si svolge in più di una stanza). E ancora occorre garantire: l'accesso diretto alle camere da letto destinate agli ospiti; il cambio di biancheria almeno tre volte alla settimana (e all'arrivo do ogni nuovo ospite) e la pulizia quotidiana dei servizi.
Il responsabile dell'attività, oltre a registrare le presenze e comunicarle alle autorità di pubblica sicurezza, è tenuto a sottoscrivere una polizza assicurativa di responsabilità civile, per eventuali danni arrecati agli ospiti. Le tariffe, sono decise liberamente e vanno comunicate alla Provincia, che ogni anno redige un elenco dettagliato con le strutture ricettive operanti nel territorio di competenza.
Per quanto riguarda gli asili nido in famiglia, bisogna prestare un po' più di attenzione al regolamento condominiale. Qualora, ad esempio, non siano consentiti «assembramenti o passaggi più o meno consistenti di persone che possano determinare un disturbo per la collettività condominiale», anche se non esplicitamente indicato il servizio può essere vietato.
Appurata la possibilità di iniziare l'attività in condominio, occorre presentare il progetto a Comune e Asl, con la descrizione dettagliata della propria attività. Anche in questo caso ci sono dei requisiti da rispettare e, come per i b&b, ogni regione ha dettato le proprie norme. A cominciare dai locali in cui si svolge il servizio: c'è bisogno di uno spazio per l'accoglienza; un'area gioco protetta; una zona riposo con lettini separata dal resto della casa; un bagno con fasciatoio e una cucina dove preparare i pasti.
In Trentino, la regione italiana dove il nido famiglia è più diffuso, il responsabile dell'attività è obbligato a seguire un corso di formazione da 250 ore, con lezioni in aula e tirocinio pratico. Solitamente, si possono accudire fino a un massimo di sei bambini e i costi variano dai 3 ai 6 euro all'ora, senza nessuna quota d'iscrizione.
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In sintesi
01 IL REGOLAMENTO
Con la sentenza 24707 del 20.11.2014 la Cassazione ha inoltre stabilito che l’attività di b&b è consentita anche in presenza di un regolamento condominiale che vieti, come nel caso specifico, di «destinare gli appartamenti a uso diverso da quello di civile abitazione o di ufficio professionale privato»
02 NIENTE PARTITA IVA
L’attività di bed and breakfast non è considerata un vero e proprio lavoro e quindi non necessita di iscrizione alla Camera di Commercio e apertura di partita Iva
03 LA SOSPENSIONE
Il responsabile dell’attività è però obbligato a sospenderla per tre mesi l’anno, anche non consecutivi, e affittare un numero massimo di tre camere per sei posti letto.
04 L’ASILO NIDO
Un po’ più complesso è avviare un nido famiglia. In molti casi è obbligatorio un titolo di studio, in altri è sufficiente seguire un corso ad hoc
Non è sempre necessario costituire un’impresa o far parte di una cooperativa: se, ad esempio, ad avviare l’asilo è una famiglia, basterà una scrittura privata tra le famiglie associate. Attenzione al regolamento: se, esempio, non siano consentiti «assembramenti o passaggi più o meno consistenti di persone che possano determinare un disturbo per la collettività condominiale», anche se non esplicitamente indicato il servizio può essere vietato
 (articolo Il Sole 24 Ore del 02.12.2014).
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MASSIMA
Non è illegittimo adibire l’abitazione privata condominiale ad attività commerciale di “affitta camere”, purché non si dimostri l’effettivo pregiudizio in danno ai vicini di casa.
Le disposizioni contenute nel regolamento condominiale che si risolvano nella compressione delle facoltà e dei poteri inerenti al diritto di proprietà dei singoli partecipanti, devono essere espressamente e chiaramente manifestate dal testo o, comunque, devono risultare da una volontà desumibile in modo non equivoco da esso.
L’interpretazione del giudice di merito del regolamento condominiale è insindacabile dalla Cassazione salvo vizi logici. E il giudice di appello, nel caso di specie, con ragionamento «coerente» e «logico» ha ritenuto che il regolamento non vietasse l’attività ricettiva «tenuto conto che la destinazione a civile abitazione costituisce il presupposto per la utilizzazione di una unità abitativa ai fini dell’attività di bed and breakfast».
Una affermazione coerente anche con il regolamento regionale del Lazio n. 16 del 2008, in cui si chiarisce che l’utilizzo degli appartamenti a tale scopo non comporta il cambio di destinazione d’uso ai fini urbanistici
(link a http://renatodisa.com).

APPALTISi tratta dunque di stabilire se la mancata dichiarazione della presenza di soggetti «cessati» nel periodo compreso tra la pubblicazione del bando di gara ed il termine di presentazione dell'istanza di partecipazione potesse dar luogo, nel contesto normativo nel quale si è innestato il procedimento di gara, all'espulsione della procedura.
Se è pacifico che una tale omessa dichiarazione dovesse dar luogo alla sanzione espulsiva in ipotesi di cessazioni intervenute nell'anno precedente la pubblicazione del bando di gara perché così espressamente previsto dalla legge, è anche vero che una lettura di tale disposizione tendente a tratteggiare un'esenzione da tali obblighi dichiarativi per le cessazioni intervenute dopo la pubblicazione del bando non sarebbe in linea con la ratio e le finalità della previsione normativa del requisito e del connesso obbligo di dichiararlo. Una contraria lettura condurrebbe ad assoggettare ad un trattamento meno rigoroso tutte quelle variazioni societarie che, poste in essere in occasione dell'indizione della gara, si prestano agevolmente a finalità elusive della disciplina il cui rigore è stato, invero, ampiamente tratteggiato dalla giurisprudenza amministrativa.
In tal senso il periodo, a ritroso, di un anno dalla pubblicazione del bando di gara nel quale considerare rilevanti le cd. «cessazioni» deve considerarsi, secondo una lettura che garantisca anche una certa effettività alla disposizione, il limite massimo entro il quale l'amministrazione può considerare le stesse rilevanti ai fini dell'accertamento della sussistenza dei requisiti di ammissione.
Nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del decreto legge n. 70 del 2011 con il quale fu ridotto da tre ad un anno il medesimo periodo, si legge, in linea con tale impostazione, che tale contrazione del periodo di riferimento «consente […] il permanere di un congruo periodo idoneo a evitare che la cessazione dalle cariche di soggetti condannati consenta automaticamente la partecipazione alle gare» (atto Camera 4357, disegno di legge «conversione in legge del decreto-legge 13.05.2011, n. 70, concernente Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l'economia»).
L'interpretazione logica della disposizione deve condurre, a fortiori, a ritenere sussistente l'obbligo di produrre le dichiarazioni di moralità anche per gli amministratori in carica al momento della pubblicazione del bando e cessati successivamente, in quanto il periodo intercorrente fra la data di pubblicazione del bando e quella di presentazione della domanda rappresenta l'arco temporale più rilevante ai fini della dichiarazione medesima; la ratio evidente della norma è quella di escludere dalla partecipazione le società i cui soggetti abbiano o abbiano avuto un significativo ruolo decisionale e gestionale nella compagine di appartenenza. In tal senso è anche la condivisibile giurisprudenza del Consiglio di Stato che, con riferimento ad ipotesi successiva all'introduzione della comminatoria di nullità delle clausole dei bandi in violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione di cui all'art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, ha sottolineato, con sentenza n. 6271 del 2013 che:
- rispetto agli obblighi di cui all’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, deve ritenersi che la data della pubblicazione del bando di gara costituisce il discrimine temporale che definisce sia i soggetti in carica sia quelli cessati, imponendo le dichiarazioni di rito ad entrambe le categorie con riferimento quindi tanto alla situazione esistente a quella data quanto a quella antecedente;
- tale onere dichiarativo rimane quindi indifferente al mutamento, dopo il giorno di pubblicazione dell’atto indittivo, delle persone nelle cariche sociali e negli incarichi previsti dalla norma;
- è priva di consistenza giuridica la tesi secondo la quale il soggetto cessato dalla carica nel periodo tra l’indizione del bando e la presentazione dell’offerta non sarebbe tenuto a rendere la dichiarazione del pregiudizio penale;
- tale prospettazione presuppone l’esistenza di una vacatio tra l’indizione del bando e la presentazione dell’offerta, una specie di zona neutra che non trova ragione né nella ratio della norma né nell’interpretazione letterale, atteso che la norma non individua i soggetti tenuti alla dichiarazione del pregiudizio penale esclusivamente in coloro che sono amministratori muniti di poteri rappresentativi al momento dell’offerta, sicché non può che farsi riferimento alla data di indizione del bando.

Premesso che dopo il restyling dell'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 operato, da ultimo, con il d.l. n. 90 del 2014 nel testo risultante dalla conversione in legge, una fattispecie quale quella sottoposta all'attenzione del Tribunale avrebbe verosimilmente scontato gli effetti della distinzione tra «irregolarità essenziali» ed «irregolarità non essenziali» introdotta dall'art. 39, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014 con le conseguenze che, dall'applicazione di tale disposizione, sarebbero ipoteticamente derivate.
L'inapplicabilità, come si è sopra specificato, della predetta disposizione al caso di specie, impone di valutare la censura di parte ricorrente con un approccio scevro da ogni suggestione a cui la predetta innovazione legislativa può dar luogo in termini di estensione dei confini entro i quali è ammesso il soccorso istruttorio.
Si tratta dunque di stabilire se la mancata dichiarazione della presenza di soggetti «cessati» nel periodo compreso tra la pubblicazione del bando di gara ed il termine di presentazione dell'istanza di partecipazione potesse dar luogo, nel contesto normativo nel quale si è innestato il procedimento di gara, all'espulsione della procedura.
Se è pacifico che una tale omessa dichiarazione dovesse dar luogo alla sanzione espulsiva in ipotesi di cessazioni intervenute nell'anno precedente la pubblicazione del bando di gara perché così espressamente previsto dalla legge, è anche vero che una lettura di tale disposizione tendente a tratteggiare un'esenzione da tali obblighi dichiarativi per le cessazioni intervenute dopo la pubblicazione del bando non sarebbe in linea con la ratio e le finalità della previsione normativa del requisito e del connesso obbligo di dichiararlo. Una contraria lettura condurrebbe ad assoggettare ad un trattamento meno rigoroso tutte quelle variazioni societarie che, poste in essere in occasione dell'indizione della gara, si prestano agevolmente a finalità elusive della disciplina il cui rigore è stato, invero, ampiamente tratteggiato dalla giurisprudenza amministrativa.
In tal senso il periodo, a ritroso, di un anno dalla pubblicazione del bando di gara nel quale considerare rilevanti le cd. «cessazioni» deve considerarsi, secondo una lettura che garantisca anche una certa effettività alla disposizione, il limite massimo entro il quale l'amministrazione può considerare le stesse rilevanti ai fini dell'accertamento della sussistenza dei requisiti di ammissione.
Nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del decreto legge n. 70 del 2011 con il quale fu ridotto da tre ad un anno il medesimo periodo, si legge, in linea con tale impostazione, che tale contrazione del periodo di riferimento «consente […] il permanere di un congruo periodo idoneo a evitare che la cessazione dalle cariche di soggetti condannati consenta automaticamente la partecipazione alle gare» (atto Camera 4357, disegno di legge «conversione in legge del decreto-legge 13.05.2011, n. 70, concernente Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l'economia»).
L'interpretazione logica della disposizione deve condurre, a fortiori, a ritenere sussistente l'obbligo di produrre le dichiarazioni di moralità anche per gli amministratori in carica al momento della pubblicazione del bando e cessati successivamente, in quanto il periodo intercorrente fra la data di pubblicazione del bando e quella di presentazione della domanda rappresenta l'arco temporale più rilevante ai fini della dichiarazione medesima (TAR Emilia Romagna, Bologna, 29.04.2013, n. 322); la ratio evidente della norma è quella di escludere dalla partecipazione le società i cui soggetti abbiano o abbiano avuto un significativo ruolo decisionale e gestionale nella compagine di appartenenza. In tal senso è anche la condivisibile giurisprudenza del Consiglio di Stato che, con riferimento ad ipotesi successiva all'introduzione della comminatoria di nullità delle clausole dei bandi in violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione di cui all'art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, ha sottolineato, con sentenza n. 6271 del 2013 che:
- rispetto agli obblighi di cui all’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, deve ritenersi che la data della pubblicazione del bando di gara costituisce il discrimine temporale che definisce sia i soggetti in carica sia quelli cessati, imponendo le dichiarazioni di rito ad entrambe le categorie con riferimento quindi tanto alla situazione esistente a quella data quanto a quella antecedente;
- tale onere dichiarativo rimane quindi indifferente al mutamento, dopo il giorno di pubblicazione dell’atto indittivo, delle persone nelle cariche sociali e negli incarichi previsti dalla norma;
- è priva di consistenza giuridica la tesi secondo la quale il soggetto cessato dalla carica nel periodo tra l’indizione del bando e la presentazione dell’offerta non sarebbe tenuto a rendere la dichiarazione del pregiudizio penale;
- tale prospettazione presuppone l’esistenza di una vacatio tra l’indizione del bando e la presentazione dell’offerta, una specie di zona neutra che non trova ragione né nella ratio della norma né nell’interpretazione letterale, atteso che la norma non individua i soggetti tenuti alla dichiarazione del pregiudizio penale esclusivamente in coloro che sono amministratori muniti di poteri rappresentativi al momento dell’offerta, sicché non può che farsi riferimento alla data di indizione del bando (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 20.11.2014 n. 2927 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATARelativamente alla mancata indicazione, nell’atto di accertamento di inottemperanza all'ordinanza di demolizione, dei dati catastali, per costante giurisprudenza amministrativa, “scaduto il termine di novanta giorni per la demolizione fissato nell'ingiunzione di demolizione ai sensi dell'art. 7 l. n. 47 del 1985, l'acquisizione della proprietà dell'opera abusiva, del sedime e dell'area di pertinenza si verifica di diritto, ed è subordinata soltanto all'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione, anche se l'ingiunzione non identifica l'area passibile di acquisizione”.
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Il provvedimento di acquisizione al patrimonio del comune di un'opera abusivamente realizzata ha come unico presupposto l'accertata inottemperanza ad un ordine di demolizione del manufatto abusivo, di cui è meramente dichiarativo, con la conseguenza che, essendo atto dovuto, è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata inottemperanza, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico alla sua adozione.
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Il provvedimento dirigenziale di acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive nonché del terreno sottostante e circostante costituisce atto dichiarativo dell'intervenuta acquisizione "ex lege" in conseguenza dell'inutile decorso del termine fissato dall'art. 7 L. n. 47 del 1985 al trasgressore per l'ottemperanza all'ingiunzione di demolizione.
Tale atto, quindi, può essere annullato, in sede giurisdizionale amministrativa, soltanto in accoglimento di censure dirette a contestare la verificazione dell'acquisizione, per mancanza di un presupposto necessario richiesto dalla legge (come la mancata preventiva notifica dell'ingiunzione di demolizione, ovvero la già avvenuta tempestiva spontanea ottemperanza alla stessa), e non anche in accoglimento di censure, quali quelle espresse dal ricorrente nel caso di specie, asserente un vizio di identificazione del terreno di sua proprietà contenuto nell’ordine di demolizione.
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Per consolidata giurisprudenza amministrativa, “la comunicazione di avvio del procedimento amministrativo, prescritta dall’art. 7 della legge 07.08.1990 n. 241, deve ritenersi non richiesta ai fini dell’adozione degli atti di repressione degli abusi edilizi. Infatti, tali procedimenti essendo tipizzati, in quanto compiutamente disciplinati da legge speciale e presupponendo meri accertamenti tecnici sulla consistenza e sul carattere abusivo delle opere realizzate, non richiedono l’apporto partecipativo del destinatario”.
A ciò si aggiunga che “l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale di un'opera edilizia abusiva consegue all'inottemperanza all'ordine di demolizione come atto dovuto e non necessita del previo avviso dell'inizio del procedimento, non essendo questo dovuto nei casi in cui l'interessato non possa apportare all'azione amministrativa procedimentalizzata una qualche utilità”.

5. Il ricorso è infondato.
5.1. Relativamente alla mancata indicazione, nell’atto di accertamento di inottemperanza impugnato, dei dati catastali, per costante giurisprudenza amministrativa, “scaduto il termine di novanta giorni per la demolizione fissato nell'ingiunzione di demolizione ai sensi dell'art. 7 l. n. 47 del 1985, l'acquisizione della proprietà dell'opera abusiva, del sedime e dell'area di pertinenza si verifica di diritto, ed è subordinata soltanto all'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione, anche se l'ingiunzione non identifica l'area passibile di acquisizione” (in tal senso Consiglio Stato sez. V, 26.01.2000, n. 341; TAR Sicilia, sez. III, 20.06.2006, n. 1499).
Nella specie, il provvedimento impugnato appare perfetto, in quanto contiene il riferimento all’ordine di demolizione rimasto inottemperato –come relazionato dal Comando della Polizia Municipale il 27/10/2011- ed è, quindi, corredato di tutti i presupposti necessari.
5.2. Relativamente al postulato difetto di motivazione, osserva il Collegio che “il provvedimento di acquisizione al patrimonio del comune di un'opera abusivamente realizzata ha come unico presupposto l'accertata inottemperanza ad un ordine di demolizione del manufatto abusivo, di cui è meramente dichiarativo, con la conseguenza che, essendo atto dovuto, è sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata inottemperanza, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico alla sua adozione” (TAR Campania, sez. IV, Napoli, 17.06.2002, n. 3620).
5.3. Con riferimento ai vizi contenuti nell’ingiunzione di demolizione, deve rilevarsi che il provvedimento dirigenziale di acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive nonché del terreno sottostante e circostante costituisce atto dichiarativo dell'intervenuta acquisizione "ex lege" in conseguenza dell'inutile decorso del termine fissato dall'art. 7 L. n. 47 del 1985 al trasgressore per l'ottemperanza all'ingiunzione di demolizione. Tale atto, quindi, può essere annullato, in sede giurisdizionale amministrativa, soltanto in accoglimento di censure dirette a contestare la verificazione dell'acquisizione, per mancanza di un presupposto necessario richiesto dalla legge (come la mancata preventiva notifica dell'ingiunzione di demolizione, ovvero la già avvenuta tempestiva spontanea ottemperanza alla stessa), e non anche in accoglimento di censure, quali quelle espresse dal ricorrente nel caso di specie, asserente un vizio di identificazione del terreno di sua proprietà contenuto nell’ordine di demolizione.
Infatti, considerata l’omessa impugnazione, da parte dell’odierno ricorrente, dell’ordinanza di demolizione n. 2 del 17/02/2011, notificata in data 26/02/2011, divenuta ormai inoppugnabile, alla stregua del superiore indirizzo giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, esso è ormai decaduto dalla possibilità di rimettere in discussione l’atto di accertamento di inottemperanza costituente mero atto consequenziale rispetto al provvedimento presupposto rappresentato, appunto, dall’ordinanza di demolizione, a meno di vizi propri ed autonomi dell’atto di accertamento medesimo. Nel caso di specie deve, infatti, rilevarsi che con il ricorso il ricorrente muove, avverso il provvedimento gravato, anche censure che avrebbero dovuto rivolgere nei confronti del provvedimento di demolizione, viceversa mai impugnato.
5.4. Relativamente, infine, alla dedotta violazione dell’art. 7 L. 241/1990 per omessa comunicazione di avvio del procedimento finalizzato alla demolizione dell’opera abusiva –in disparte quanto già riferito in ordine alla inoppugnabilità dell’ordinanza di demolizione n. 2 del 17/02/2011– rileva comunque il Collegio che per consolidata giurisprudenza amministrativa, “la comunicazione di avvio del procedimento amministrativo, prescritta dall’art. 7 della legge 07.08.1990 n. 241, deve ritenersi non richiesta ai fini dell’adozione degli atti di repressione degli abusi edilizi. Infatti, tali procedimenti essendo tipizzati, in quanto compiutamente disciplinati da legge speciale e presupponendo meri accertamenti tecnici sulla consistenza e sul carattere abusivo delle opere realizzate, non richiedono l’apporto partecipativo del destinatario” (Cons. St., V, 08.02.2011 n. 840).
A ciò si aggiunga che “l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale di un'opera edilizia abusiva consegue all'inottemperanza all'ordine di demolizione come atto dovuto e non necessita del previo avviso dell'inizio del procedimento, non essendo questo dovuto nei casi in cui l'interessato non possa apportare all'azione amministrativa procedimentalizzata una qualche utilità” (TAR Campania sez. IV, Napoli, 17.06.2002, n. 3620; TAR Sicilia, sez. III, 11.05.2006, n. 1126) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 20.11.2014 n. 2898 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl proprietario deve ritenersi passivamente legittimato rispetto al provvedimento di demolizione, indipendentemente dall'essere o meno estraneo alla realizzazione dell’abuso. Tuttavia, nel caso in cui il proprietario dimostri la sua assoluta estraneità all’abuso edilizio commesso da altri e manifesti il suo attivo interessamento, con i mezzi consentitigli dall'ordinamento, per la rimozione dell'opera abusiva, resta salva la sua tutela dagli effetti dell'inottemperanza all'ordine di demolizione che lo stesso sia stato impossibilitato a eseguire.
Secondo la consolidata giurisprudenza condivisa dal Collegio, l’estraneità del proprietario agli abusi edilizi commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità non implica l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l’inidoneità del provvedimento repressivo a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene.
Sul punto, infatti, la Corte Costituzionale ha precisato che l'acquisizione gratuita dell'area non è una misura strumentale per consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma costituisce una sanzione autonoma che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione, abilitando l'Amministrazione ad una scelta fra la demolizione d'ufficio e la conservazione del bene, definitivamente già acquisito, in presenza di prevalenti interessi pubblici, vale a dire per la destinazione a fini pubblici, e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali.
Ne discende che, essendo l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale una sanzione prevista per l'ipotesi di inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, essa si riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso non potendo operare nella sfera giuridica di altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell'area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offerti dall'ordinamento.
La Cassazione ha, inoltre, affermato che al fine di configurare la responsabilità del proprietario di un'area per la realizzazione di una costruzione abusiva è necessaria la sussistenza di elementi in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che questi abbia concorso, anche solo moralmente, con il committente o l'esecutore dei lavori, tenendo conto della piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e dell'interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione, così come dei rapporti di parentela o affinità tra responsabile e proprietario, della sua eventuale presenza in loco, dello svolgimento di attività di vigilanza dell'esecuzione dei lavori, del regime patrimoniale dei coniugi, ovvero di tutte quelle situazioni e comportamenti positivi o negativi dai quali possano trarsi elementi integrativi della colpa.

L'art. 31, commi 2 e 3, del D.P.R. n. 380/2001 prevede che "il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, ingiunge al proprietario e al responsabile dell' abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3. Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune".
Dall'esame della disposizione richiamata emerge che il proprietario deve ritenersi passivamente legittimato rispetto al provvedimento di demolizione, indipendentemente dall'essere o meno estraneo alla realizzazione dell’abuso. Tuttavia, nel caso in cui il proprietario dimostri la sua assoluta estraneità all’abuso edilizio commesso da altri e manifesti il suo attivo interessamento, con i mezzi consentitigli dall'ordinamento, per la rimozione dell'opera abusiva, resta salva la sua tutela dagli effetti dell'inottemperanza all'ordine di demolizione che lo stesso sia stato impossibilitato a eseguire (cfr. tra le tante Cons. Stato, IV, 03.05.2011, n. 2639; TAR Lazio, Roma, II, 14.02.2011, n. 1395; TAR Umbria, 25.11.2008, n. 787).
Secondo la consolidata giurisprudenza condivisa dal Collegio, l’estraneità del proprietario agli abusi edilizi commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità non implica l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l’inidoneità del provvedimento repressivo a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene (cfr. in termini Tar Lazio, Latina, 01.09.2008, n. 1026; Tar Campania, Napoli, II, 19.10.2006, n. 8673).
Sul punto, infatti, la Corte Costituzionale (cfr. sentenza n. 345 del 15.07.1991, citata da parte ricorrente) ha precisato che l'acquisizione gratuita dell'area non è una misura strumentale per consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma costituisce una sanzione autonoma che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione, abilitando l'Amministrazione ad una scelta fra la demolizione d'ufficio e la conservazione del bene, definitivamente già acquisito, in presenza di prevalenti interessi pubblici, vale a dire per la destinazione a fini pubblici, e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali. Ne discende che, essendo l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale una sanzione prevista per l'ipotesi di inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, essa si riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso non potendo operare nella sfera giuridica di altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell'area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offerti dall'ordinamento.
La Cassazione ha, inoltre, affermato che al fine di configurare la responsabilità del proprietario di un'area per la realizzazione di una costruzione abusiva è necessaria la sussistenza di elementi in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che questi abbia concorso, anche solo moralmente, con il committente o l'esecutore dei lavori, tenendo conto della piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e dell'interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione, così come dei rapporti di parentela o affinità tra responsabile e proprietario, della sua eventuale presenza in loco, dello svolgimento di attività di vigilanza dell'esecuzione dei lavori, del regime patrimoniale dei coniugi, ovvero di tutte quelle situazioni e comportamenti positivi o negativi dai quali possano trarsi elementi integrativi della colpa (cfr. Cassazione penale, sez. III, 12.04.2005, n. 26121) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 20.11.2014 n. 2889 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Per le attività extra non autorizzate il dipendente deve versare all'amministrazione i compensi netti, non lordi.
L’art. 53, comma 7, del d.l.vo n. 165/2001 stabilisce che i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza, rinviando, in relazione ai professori ordinari, agli statuti e ai regolamenti degli atenei in ordine alla determinazione dei criteri e delle procedure per il rilascio dell’autorizzazione.
La norma prevede, altresì, il versamento in favore dell’amministrazione di appartenenza dei compensi illegittimamente percepiti dal pubblico dipendente, ma non chiarisce se il recupero delle somme debba avvenire al lordo o scomputando le imposte già corrisposte dal contribuente.
Sul punto il Tribunale ribadisce che la norma deve essere interpretata nel senso di prevedere il recupero al netto delle imposte già corrisposte, in quanto la richiesta di restituzione dei compensi illegittimamente percepiti dal pubblico dipendente non può che avere ad oggetto “le somme da quest'ultimo percepite in eccesso, ossia quanto e solo quanto effettivamente sia entrato nella sfera patrimoniale del dipendente, non potendosi, invece, pretendere la ripetizione di somme al lordo delle ritenute fiscali (e previdenziali e assistenziali), dal momento che le stesse non siano mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente”.

Con decreto del Direttore Generale, Rep. n. 3327/2013 prot. n. 39355, datato 11.12.2013, il Politecnico di Milano ha disposto nei confronti di M.G., professore ordinario a tempo pieno presso il medesimo istituto, il recupero delle somme percepite in forza di incarichi esterni assunti senza l’autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza.
In particolare, l’amministrazione ha preteso la restituzione di complessivi euro 42.250,23 calcolati al lordo delle imposte dovute.
Il fatto concreto posto a fondamento del provvedimento impugnato non è oggetto di contestazione; viceversa, il ricorrente si duole della pretesa dell’amministrazione di recuperare i compensi da lui percepiti al lordo delle imposte e sostiene che il recupero possa essere effettuato solo al netto dei tributi già applicati sulle somme percepite per gli incarichi non autorizzati.
La domanda è fondata.
La questione è già stata esaminata dal Tribunale con la sentenza n. 614, del 07.03.2013, proprio in relazione ad altri incarichi assunti da G. senza autorizzazione.
Vale premettere che l’art. 53, comma 7, del d.l.vo n. 165/2001 stabilisce che i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza, rinviando, in relazione ai professori ordinari, agli statuti e ai regolamenti degli atenei in ordine alla determinazione dei criteri e delle procedure per il rilascio dell’autorizzazione.
La norma prevede, altresì, il versamento in favore dell’amministrazione di appartenenza dei compensi illegittimamente percepiti dal pubblico dipendente, ma non chiarisce se il recupero delle somme debba avvenire al lordo o scomputando le imposte già corrisposte dal contribuente.
Sul punto il Tribunale ribadisce che la norma deve essere interpretata nel senso di prevedere il recupero al netto delle imposte già corrisposte, in quanto la richiesta di restituzione dei compensi illegittimamente percepiti dal pubblico dipendente non può che avere ad oggetto “le somme da quest'ultimo percepite in eccesso, ossia quanto e solo quanto effettivamente sia entrato nella sfera patrimoniale del dipendente, non potendosi, invece, pretendere la ripetizione di somme al lordo delle ritenute fiscali (e previdenziali e assistenziali), dal momento che le stesse non siano mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente” (cfr., Consiglio Stato, sez. III, 04.07.2011, n. 3984 e Tar Lombardia Milano, sez. IV, 07.03.2013, n. 614).
Ne deriva che il ricorso, in parte qua, deve essere accolto, con conseguente annullamento della determinazione amministrativa nella parte in cui ha disposto il recupero delle somme al lordo e non al netto delle imposte già versate dal ricorrente (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 20.11.2014 n. 2789 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa cauzione provvisoria non deve essere necessariamente firmata da tutte le imprese della costituenda ATI, alla luce di quanto chiarito dal Consiglio di Stato, Adunanza plenaria – 04/10/2005 n. 8.
In buona sostanza, in caso di raggruppamento la garanzia fideiussoria non richiede necessariamente la sottoscrizione delle imprese associate, operando la garanzia stessa fra garante e beneficiario (quest’ultimo, nel caso di specie, identificabile nella stazione appaltante), con piena efficacia anche se uno dei soggetti garantiti non è a conoscenza del contratto.
Ciò che rileva è che la cauzione provvisoria, nel caso di costituenda ATI, sia intestata a tutte le imprese associate.
Nel caso in esame, l’ATI e l’allegato alla polizza fideiussoria specifica che la garanzia è prestata per entrambe le componenti e specifica la ragione sociale e la sede di ciascuna. Dunque la polizza consente con immediatezza di ritenere assolta la garanzia prevista dall'art. 75 del codice, senza imporre un lavorio interpretativo in ordine all'individuazione dell'esatta portata soggettiva ed oggettiva del patto contrattuale.
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Il Consiglio di Stato ha precisato che <<alla stregua del condivisibile orientamento ermeneutico sostenuto da questo Consiglio (Cons. Stato, Ad. Plen., 13.06.2012, n. 22 e 05.07.2012, n. 26), nelle procedure aventi per oggetto l’affidamento di servizi, l'obbligo, nella specie adempiuto, di provvedere alla specificazione delle parti del servizio da eseguire ad opera delle singole imprese raggruppate o consorziate, sancito dall'art. 37, comma 4, del codice dei contratti pubblici, è espressione di un principio generale che non consente distinzioni legate alla natura morfologica del raggruppamento (verticale o orizzontale), non distinguendo il dettato normativo tra associazioni di tipo orizzontale e associazioni di tipo verticale, alla tipologia delle prestazioni (principali o secondarie, scorporabili o unitarie) o al dato cronologico del momento della costituzione dell'associazione (costituita o costituenda)>>.
Comunque, anche se la modifica introdotta con D.L. 95/2012 conv. in L. 135/2012 ha limitato l’applicazione dell’enunciato principio ai soli appalti di lavori, nel caso di specie l’adempimento si correla a una precisa scelta della stazione appaltante, la quale preclude di qualificare la condotta dell’ATI vincitrice come assunta in violazione di una norma di legge.
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Nel settore dei servizi, in mancanza di una predeterminazione normativa o regolamentare dei requisiti di capacità tecnico-organizzativa ed economico-finanziaria, è stato stabilito che spetta alla stazione appaltante il compito di definire nella lex specialis, in relazione al contenuto della prestazione, i requisiti di idoneità che devono essere posseduti dalle imprese componenti il raggruppamento.
In difetto di una clausola che introduca specifici requisiti di qualificazione in capo alle singole imprese riunite in ATI, i medesimi devono essere posseduti dal raggruppamento nel suo complesso.
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L’avvenuta valorizzazione –per attestare la capacità tecnica e professionale– di servizi analoghi a quelli oggetto dell’appalto permette all’amministrazione di apprezzare, in concreto, la specifica attitudine dell’impresa all’effettiva, puntuale e compiuta realizzazione delle prestazioni oggetto della gara, costituendo le precedenti esperienze significativi elementi sintomatici in tal senso.

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Considerato:
- che, secondo quanto statuito da TAR Puglia Lecce, sez. II – 07/05/2014 n. 1179, la cauzione provvisoria non doveva essere necessariamente firmata da tutte le imprese della costituenda ATI, alla luce di quanto chiarito dal Consiglio di Stato, Adunanza plenaria – 04/10/2005 n. 8;
- che, in buona sostanza, in caso di raggruppamento la garanzia fideiussoria non richiede necessariamente la sottoscrizione delle imprese associate, operando la garanzia stessa fra garante e beneficiario (quest’ultimo, nel caso di specie, identificabile nella stazione appaltante), con piena efficacia anche se uno dei soggetti garantiti non è a conoscenza del contratto (Consiglio di Stato, sez. VI – 27/03/2012 n. 1799);
- che ciò che rileva è che la cauzione provvisoria, nel caso di costituenda ATI, sia intestata a tutte le imprese associate (Consiglio di Stato, sez. VI – 23/01/2013 n. 387);
- che, nel caso in esame, l’ATI formata da Cascina Paradiso Fa e Cooperazione Famiglia figura come contraente, e l’allegato alla polizza fideiussoria specifica che la garanzia è prestata per entrambe le componenti e specifica la ragione sociale e la sede di ciascuna;
- che dunque la polizza consente con immediatezza di ritenere assolta la garanzia prevista dall'art. 75 del codice, senza imporre un lavorio interpretativo in ordine all'individuazione dell'esatta portata soggettiva ed oggettiva del patto contrattuale (cfr. a contrario Consiglio di Stato, sez. IV – 13/03/2014 n. 1213);
- che per il resto neppure la lex specialis stabiliva l’obbligo testuale di una pluralità di sottoscrizioni nel caso di RTI, in disparte la significativa portata dell’art. 46-bis del D.Lgs. 163/2006;
Ritenuto:
- che, in risposta alla domanda di chiarimenti della controinteressata, la stazione appaltante ha puntualizzato che la dichiarazione delle imprese in ATI doveva comprendere la quota di partecipazione al raggruppamento di ciascuna impresa associata e le parti del servizio da eseguire da parte dei singoli operatori riuniti (cfr. chiarimento del 28/07/2014 – doc. 2 controinteressata);
- che la dichiarazione presentata è perfettamente conforme alle indicazioni fornite dall’Ente locale;
- che il Consiglio di Stato (sez. V – 02/07/2014 n. 3317) ha precisato che <<alla stregua del condivisibile orientamento ermeneutico sostenuto da questo Consiglio (Cons. Stato, Ad. Plen., 13.06.2012, n. 22 e 05.07.2012, n. 26), nelle procedure aventi per oggetto l’affidamento di servizi, l'obbligo, nella specie adempiuto, di provvedere alla specificazione delle parti del servizio da eseguire ad opera delle singole imprese raggruppate o consorziate, sancito dall'art. 37, comma 4, del codice dei contratti pubblici, è espressione di un principio generale che non consente distinzioni legate alla natura morfologica del raggruppamento (verticale o orizzontale), non distinguendo il dettato normativo tra associazioni di tipo orizzontale e associazioni di tipo verticale, alla tipologia delle prestazioni (principali o secondarie, scorporabili o unitarie) o al dato cronologico del momento della costituzione dell'associazione (costituita o costituenda)>>;
- che detto principio è stato ribadito da Consiglio di Stato, sez. V – 17/07/2014 n. 3787;
- che, anche se la modifica introdotta con D.L. 95/2012 conv. in L. 135/2012 ha limitato l’applicazione dell’enunciato principio ai soli appalti di lavori, nel caso di specie l’adempimento si correla a una precisa scelta della stazione appaltante, la quale preclude di qualificare la condotta dell’ATI vincitrice come assunta in violazione di una norma di legge;
- che peraltro, nello specifico, non appare neppure convincente la classificazione del raggruppamento vincitore come di tipo verticale, poiché dall’esame delle prestazioni elencate all’art. 1 del capitolato d’oneri, non risultano enucleabili servizi di tipo secondario o accessorio;
- che relativamente alle molteplici ma unitarie attività evocate, le due associate hanno effettuato una ripartizione interna (l’una si sarebbe occupata di coordinamento e attività educativa e l’altra di personale ausiliario, approvvigionamenti e attività accessorie), che non introduce una parcellizzazione fra singole prestazioni principali e specifiche prestazioni secondarie, ma risulta operata nel contesto inscindibile del Servizio “Asilo nido comunale” (cfr. Consiglio di Stato, sez V – 16/04/2013 n. 2093);
- che infatti il servizio, inteso nel suo complesso, si articola in attività educative e attività di vigilanza, assistenza, cura dell’igiene personale, pulizia, acquisto, preparazione e distribuzione pasti, manutenzione locali e attrezzature e attività amministrativa;
- che le singole prestazioni erogate ai bambini in tenera età, sono strettamente coordinate e tra loro trasversali, senza che sia possibile riconoscere maggior spessore ad alcune di esse (si pensi all’attività di intrattenimento rispetto a quella di pulizia e vigilanza);
Atteso:
- che la disciplina della selezione non racchiude alcuna disposizione che imponga la corrispondenza tra quota di partecipazione al raggruppamento e requisiti di partecipazione alla gara (cfr. si vedano punto 3 e 11 del bando);
- che nel settore dei servizi, in mancanza di una predeterminazione normativa o regolamentare dei requisiti di capacità tecnico-organizzativa ed economico-finanziaria, è stato stabilito che spetta alla stazione appaltante il compito di definire nella lex specialis, in relazione al contenuto della prestazione, i requisiti di idoneità che devono essere posseduti dalle imprese componenti il raggruppamento (cfr. TAR Lazio Roma, sez. II-quater – 15/09/2014 n. 9670, che richiama Consiglio di Stato, Adunanza plenaria – 13/06/2012 n. 22);
- che, in difetto di una clausola che introducesse specifici requisiti di qualificazione in capo alle singole imprese riunite in ATI, i medesimi dovevano essere posseduti dal raggruppamento nel suo complesso;
- che di conseguenza la capogruppo mandataria poteva da sola soddisfare i requisiti di partecipazione stabiliti dalla legge di gara (circostanza comprovata dall’apposita dichiarazione resa da Cascina Paradiso Fa – doc. 5 controinteressata);
Evidenziato:
- che la mandante non può essere ritenuta responsabile di una dichiarazione falsa per aver erroneamente compilato il modello prestampato (allegato n. 2 del bando);
- che infatti il modulo utilizzato per il concorrente singolo (non modificabile dal compilatore dell’istanza) esigeva l’attestazione di un requisito che, nel caso dell’ATI, doveva essere posseduto dal raggruppamento nel suo complesso;
- che la lex specialis non racchiudeva regole specifiche per le dichiarazioni da rendere da parte delle imprese in raggruppamento, cosicché risulta in questo caso giustificato il ricorso al “soccorso istruttorio” ad opera della stazione appaltante;
- che la mandante Cooperazione Famiglia risulta in possesso di un fatturato per servizi analoghi superiore a quello stabilito (importo del contratto elevato del 50%);
- che le prescrizioni del bando sul punto devono essere interpretate in senso conforme all’ordinamento comunitario, teso alla massima apertura alla concorrenza tra le imprese sul mercato;
- che in questo senso l’avvenuta valorizzazione –per attestare la capacità tecnica e professionale– di servizi analoghi a quelli oggetto dell’appalto permette all’amministrazione di apprezzare, in concreto, la specifica attitudine dell’impresa all’effettiva, puntuale e compiuta realizzazione delle prestazioni oggetto della gara, costituendo le precedenti esperienze significativi elementi sintomatici in tal senso (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV – 11/11/2014 n. 5530);
- che la menzione del “servizio oggetto della presente procedura” (punto 11 del bando, paragrafo n. 2) attiene viceversa al diverso requisito della capacità finanziaria e economica, e dunque non consente di esigere la “prestazione” di un servizio identico a quello in esame (anche alla luce di quanto stabilito al punto 11, par. 3, lettera a, ove si richiedono espressamente “servizi analoghi”) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 20.11.2014 n. 1259 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sul diritto di accesso ad un esposto alla P.A. nei propri confronti.
Il diritto di accesso è ormai pacificamente riconosciuto come diritto soggettivo ad un’informazione qualificata, a fronte del quale l’amministrazione pone in essere un’attività materiale vincolata.
L’istanza del richiedente deve essere sorretta da un interesse giuridicamente rilevante, così inteso come un qualsiasi interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non emulativo, non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all’istante da uno specifico nesso.
Il diritto alla trasparenza dell’azione amministrativa costituisce una situazione giuridica attiva meritevole di autonoma protezione, da garantire qualora sia funzionale a qualunque forma di tutela, sia giudiziale che stragiudiziale, anche prima e indipendentemente dall'effettivo esercizio di un'azione giudiziale.
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Il privato che subisce un procedimento di controllo vanta un interesse qualificato a conoscere tutti i documenti utilizzati per l’esercizio del potere –inclusi, di regola, gli esposti e le denunce che hanno attivato l’azione dell’autorità– suscettibili per il loro particolare contenuto probatorio di concorrere all’accertamento di fatti pregiudizievoli per il denunciato.
L’esposto, una volta pervenuto nella sfera di conoscenza dell’amministrazione, costituisce un documento che assume rilievo procedimentale come presupposto di un’attività ispettiva o di un intervento in autotutela, e di conseguenza il denunciante perde il controllo sulla propria segnalazione la quale diventa un elemento nella disponibilità dell’amministrazione.
La sua divulgazione non è preclusa da esigenze di tutela della riservatezza, giacché il predetto diritto non assume un’estensione tale da includere il diritto all’anonimato di colui che rende una dichiarazione a carico di terzi.
La tolleranza verso denunce segrete e/o anonime è un valore estraneo al nostro ordinamento giuridico e gli autori degli esposti sono tutelati dagli strumenti predisposti dall’ordinamento contro ogni forma di ritorsione o vendetta privata.
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Non può seriamente dubitarsi che la conoscenza integrale dell’esposto rappresenti uno strumento indispensabile per la tutela degli interessi giuridici dell’istante, essendo intuitivo che solo in questo modo egli potrebbe proporre (eventualmente) contro-denunce a tutela della propria immagine verso l’esterno.
Detto rilievo rende privi di qualsiasi fondamento giuridico i dubbi sull’uso strumentale e ritorsivo della conoscenza dell’esposto che ha dato luogo ai procedimenti a carico del ricorrente, non potendo ammettersi che pretese esigenze di riservatezza possano determinare un vulnus intollerabile ad un diritto fondamentale della persona, quale quello dell’onore.
Il principio di trasparenza dell’attività amministrativa vale sia per il denunciato nei confronti del denunciante sia in senso inverso, in quanto la posizione di denunciante legittima l’accesso agli atti della procedura che ha preso origine dall’esposto.
Infatti, specularmente, la qualità di autore di un esposto che abbia dato luogo a un procedimento lato sensu sanzionatorio è circostanza idonea a radicare la titolarità di una situazione giuridicamente rilevante di accesso agli atti della pubblica amministrazione.
E' pur vero che, in un caso particolare sul quale si è confrontata la giurisprudenza –ossia quello dell’accesso ai verbali redatti dalle autorità amministrative (INPS e INAIL), titolari delle funzioni di vigilanza sui rapporti di lavoro– è stata affermata una stringente esigenza di tutela dei lavoratori che hanno reso le dichiarazioni agli organi ispettivi, per il possibile rischio di condotte ritorsive provenienti dalla parte “forte” del rapporto contrattuale.
E' stato tuttavia affermato che le suesposte necessità appaiono in ogni caso recessive, rispetto alle esigenze difensive del datore, ove il rapporto d’impiego sia cessato.

... per l'esercizio del diritto di accesso MEDIANTE ESTRAZIONE DI COPIA, ALLE GENERALITA’ DELL’AUTORE DELLA SEGNALAZIONE DEL 23/09/2013, TRASMESSA ALL’A.S.L. DI BERGAMO.
...
Rilevato:
- che il diritto di accesso è ormai pacificamente riconosciuto come diritto soggettivo ad un’informazione qualificata, a fronte del quale l’amministrazione pone in essere un’attività materiale vincolata;
- che l’istanza del richiedente deve essere sorretta da un interesse giuridicamente rilevante, così inteso come un qualsiasi interesse che sia serio, effettivo, autonomo, non emulativo, non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all’istante da uno specifico nesso;
- che il diritto alla trasparenza dell’azione amministrativa costituisce una situazione giuridica attiva meritevole di autonoma protezione, da garantire qualora sia funzionale a qualunque forma di tutela, sia giudiziale che stragiudiziale, anche prima e indipendentemente dall'effettivo esercizio di un'azione giudiziale (Consiglio di Stato, sez. V – 23/02/2010 n. 1067);
Considerato:
- che il privato che subisce un procedimento di controllo vanta un interesse qualificato a conoscere tutti i documenti utilizzati per l’esercizio del potere –inclusi, di regola, gli esposti e le denunce che hanno attivato l’azione dell’autorità– suscettibili per il loro particolare contenuto probatorio di concorrere all’accertamento di fatti pregiudizievoli per il denunciato (Consiglio di Stato, sez. V – 19/05/2009 n. 3081; sez. VI – 25/06/2007 n. 3601);
- che l’esposto, una volta pervenuto nella sfera di conoscenza dell’amministrazione, costituisce un documento che assume rilievo procedimentale come presupposto di un’attività ispettiva o di un intervento in autotutela, e di conseguenza il denunciante perde il controllo sulla propria segnalazione la quale diventa un elemento nella disponibilità dell’amministrazione;
- che la sua divulgazione non è preclusa da esigenze di tutela della riservatezza, giacché il predetto diritto non assume un’estensione tale da includere il diritto all’anonimato di colui che rende una dichiarazione a carico di terzi (TAR Veneto, sez. III – 03/02/2012 n. 116);
- che la tolleranza verso denunce segrete e/o anonime è un valore estraneo al nostro ordinamento giuridico (si veda la sentenza di questo TAR 29/10/2008 n. 1469), e gli autori degli esposti sono tutelati dagli strumenti predisposti dall’ordinamento contro ogni forma di ritorsione o vendetta privata;
Tenuto conto:
- che non può pertanto seriamente dubitarsi che la conoscenza integrale dell’esposto rappresenti uno strumento indispensabile per la tutela degli interessi giuridici dell’istante, essendo intuitivo che solo in questo modo egli potrebbe proporre (eventualmente) contro-denunce a tutela della propria immagine verso l’esterno;
- che detto rilievo rende privi di qualsiasi fondamento giuridico i dubbi sull’uso strumentale e ritorsivo della conoscenza dell’esposto che ha dato luogo ai procedimenti a carico del ricorrente, non potendo ammettersi che pretese esigenze di riservatezza possano determinare un vulnus intollerabile ad un diritto fondamentale della persona, quale quello dell’onore (Consiglio di Stato, sez. V – 28/09/2012 n. 5132);
- che il principio di trasparenza dell’attività amministrativa vale sia per il denunciato nei confronti del denunciante sia in senso inverso, in quanto la posizione di denunciante legittima l’accesso agli atti della procedura che ha preso origine dall’esposto;
- che infatti, specularmente, la qualità di autore di un esposto che abbia dato luogo a un procedimento lato sensu sanzionatorio è circostanza idonea a radicare la titolarità di una situazione giuridicamente rilevante di accesso agli atti della pubblica amministrazione (TAR Toscana, sez. III – 16/10/2014 n. 1569 e la giurisprudenza ivi richiamata);
- che è pur vero che, in un caso particolare sul quale si è confrontata la giurisprudenza –ossia quello dell’accesso ai verbali redatti dalle autorità amministrative (INPS e INAIL), titolari delle funzioni di vigilanza sui rapporti di lavoro– è stata affermata una stringente esigenza di tutela dei lavoratori che hanno reso le dichiarazioni agli organi ispettivi, per il possibile rischio di condotte ritorsive provenienti dalla parte “forte” del rapporto contrattuale;
- che è stato tuttavia affermato che le suesposte necessità appaiono in ogni caso recessive, rispetto alle esigenze difensive del datore, ove il rapporto d’impiego sia cessato (cfr. TAR Umbria – 21/01/2013 n. 31) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 20.11.2014 n. 1251 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALIAgli avvocati serve il contratto. Non basta la delibera per avviare rapporti col comune. CASSAZIONE/ Sentenza sulle prestazioni d'opera rese dai professionisti alla p.a..
Una semplice delibera della giunta comunale è del tutto inidonea a far sorgere il vincolo negoziale tra l'ente pubblico e un professionista: è necessario un regolare contratto formale tra le parti.

Questo hanno affermato i giudici della Sez. I civile della Corte di Cassazione con sentenza 19.11.2014 n. 24654.
È evidente, secondo i giudici di piazza Cavour, che in tema di rapporto di prestazione d'opera professionale con la p.a. la delibera della giunta comunale rappresenti una fase meramente preparatoria e che, pertanto, non sembra assolutamente idonea a dar luogo a quelli che sono gli elementi essenziali dell'attività negoziale e, anzi, risulta essere, in un certo qual senso, attività del tutto autonoma rispetto alla successiva ed eventuale fase di definizione del contratto tra l'organo che rappresenterà l'ente pubblico e il professionista. La vicenda posta all'attenzione dei giudici di legittimità era centrata sulla assenza di un contratto formale tra la pubblica amministrazione e il professionista e dall'esistenza della sola delibera di giunta.
Gli Ermellini hanno osservato come in un rapporto di opera professionale con la p.a., la fase della deliberazione della giunta comunale a contrarre va a concretizzarsi in attività interna alla stessa amministrazione, meramente preparatoria, e perciò «inidonea a dar luogo all'incontro di consensi e irrilevante ai fini della individuazione della disciplina negoziale; e conserva perciò piena autonomia, logica e giuridica, rispetto alla successiva (e solo eventuale) attività negoziale esterna dell'ente pubblico».
Sarà logica conseguenza che tale attività preparatoria dovrà «tradursi» nella stipulazione documentale di un contratto, che nel caso era di opera professionale sarà disciplinato dalle disposizioni comuni degli artt. 1325 e 1350 n. 13 cod. civ. E dal contratto dovrà, inoltre, desumersi la concreta instaurazione del rapporto con le indispensabili determinazioni in ordine alla prestazione da rendere e al compenso da corrispondere (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.12.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PATRIMONIO1. Beni pubblici. Affidamento a privati. Qualificazione del rapporto. Nomen iuris individuato dalle parti contraenti. Irrilevanza.
In tema di rapporti negoziali aventi ad oggetto beni pubblici, la formale qualificazione quale concessione dei provvedimenti e dei contratti intercorsi tra P.A. e privati non è vincolante per il giudice avendo esclusivo rilievo la natura ed il fine del potere esercitato in concreto dall’Amministrazione, e dovendo essere necessariamente preceduti da concessione amministrativa, in senso tecnico, soltanto gli atti di disposizione di diritti inerenti beni appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile.
2. (segue): attività di camping su area di proprietà comunale. Concessione di servizio pubblico locale. Insussistenza.
Nel caso di affidamento a privati di un fondo di proprietà comunale al fine di esercitare attività economica di gestione di camping, non si ha una forma di concessione di servizio pubblico locale. In linea di principio, alla luce dell’ampia formulazione di cui all’art. 112 del T.u.e.l. approvato con D.lgs. 267/2000, l’attività economica di gestione di un campeggio potrebbe ricondursi al concetto di servizio pubblico locale soltanto allorquando vi sia -tra l’altro- l’assenza ovvero l’inadeguatezza del mercato di riferimento ovvero nell'ipotesi in cui l’Amministrazione concedente imponga al concessionario obblighi di servizio pubblico a tutela della collettività, quali la continuità e doverosità e/o la sottoposizione ad un regime regolatorio delle tariffe.
3. Diniego di proroga di concessione di bene pubblico. Gara pubblica. Necessità. Giurisdizione. Appartiene al Giudice Amministrativo.
3.1. Nell'ipotesi in cui la P.A. conceda a privati beni pubblici, ai sensi dell'art. 3, comma 1, R.D. n. 2240/1923 ed in applicazione dei principi di trasparenza, eguaglianza e non discriminazione, deve indire un procedimento di evidenza pubblica, per darli in concessione al migliore offerente, sia perché da tale concessione la medesima P.A. ricava un'entrata, sia perché la concessione di un bene pubblico costituisce un'occasione di guadagno per il soggetto privato che utilizza tale bene.
3.2. Il provvedimento della P.A. concedente che neghi al concessionario di bene pubblico il richiesto rinnovo del rapporto contrattuale in scadenza, si inserisce nella fase pubblicistica di scelta del soggetto contraente che assume carattere tipicamente autoritativo, si da radicare la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di controversie aventi ad oggetto “atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici” di cui all’art. 133, c. 1, lett. b), cod. proc. amm..
3.3. La necessità della P.A. di procedere all’affidamento in uso di un bene pubblico mediante procedimento ad evidenza pubblica, risponde a un preciso obbligo ai sensi del diritto comunitario ed interno. Anche i provvedimenti concessori di beni pubblici di rilevanza economica sono soggetti alla regola dell’evidenza pubblica in applicazione dei principi di trasparenza, eguaglianza e non discriminazione, fornendosi una occasione di guadagno a soggetti operanti sul mercato.
3.4. La posizione del gestore c.d. uscente aspirante al rinnovo o proroga di un rapporto contrattuale pubblico in scadenza, presenta carattere del tutto recessivo rispetto alla scelta dell’Amministrazione di indire una gara per la scelta del contraente, anche laddove una limitata possibilità di proroga dell'affidamento in scadenza sia consentita dalla lex specialis o in ragione di circostanze eccezionali non imputabili all'Amministrazione, potendo quest'ultima comunque liberamente optare per l'indizione della gara, senza onere di particolare motivazione essendo imposto un particolare onere motivazionale solo nell’ipotesi opposta.

4. Beni appartenenti al patrimonio pubblico disponibile di Comuni. Ordine di rilascio. Controversie. Giurisdizione. Appartiene all'A.G.O.
Va dichiarato il difetto di giurisdizione circa controversie aventi ad oggetto la domanda di annullamento dell'ordine di rilascio di beni pubblici appartenenti al patrimonio disponibile di Amministrazione comunale, formulata da concessionario di tali beni, poiché nei confronti di tali beni l'A.C. è sfornita di potestà autoritativa, essendo il potere di autotutela pubblicistica (c.d. polizia demaniale) di cui all’art. 823 c.c. circoscritto alla tutela dei beni appartenenti al demanio ed al patrimonio indisponibile.

2. E’ materia del contendere la legittimità del provvedimento, emesso il 31.10.2013, con cui il Comune di Terni ha respinto l’istanza della ricorrente di proroga all'uso temporaneo degli immobili di proprietà del medesimo Comune necessari per l'esercizio del campeggio in località Campacci di Marmore ed intimatone la riconsegna entro il 31.12.2013.
3. Preliminarmente deve essere esaminata la questione di giurisdizione.
Ad avviso della ricorrente, il rapporto intercorso con l’Amministrazione comunale inerente l’utilizzo dell’area adibita a campeggio sarebbe di tipo privatistico, riconducibile allo schema tipico della locazione, avendo ad oggetto beni del patrimonio disponibile comunale, non essendo l’area de qua destinata ad un pubblico servizio (art. 826 c.c.) e dovendosi altresì escludere i tratti distintivi della concessione di servizio pubblico locale.
A prescindere da ogni considerazione in merito alla strumentalità di tali affermazioni, poiché la ricorrente avrebbe allora dovuto coerentemente adire il giudice ordinario, osserva il Collegio quanto segue.

Anzitutto, la formale qualificazione quale concessione dei provvedimenti e dei contratti intercorsi tra le parti, come noto, non è vincolante per il giudice (ex multis Consiglio di Stato sez. V, 16.09.2011, n. 5211; T.A.R. Campania-Napoli sez I, 06.02.2006, n. 1623) avendo esclusivo rilievo la natura ed il fine del potere esercitato in concreto dall’Amministrazione, e dovendo essere necessariamente preceduti da concessione amministrativa, in senso tecnico, soltanto gli atti di disposizione di diritti inerenti beni appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile (ex multis Cassazione Sez. Unite, 26.06.2003, 10157).
In linea di principio, alla luce dell’ampia formulazione di cui all’art. 112 del T.u.e.l. approvato con D.lgs. 267/2000, l’attività economica di gestione di un campeggio potrebbe ricondursi al concetto di servizio pubblico locale soltanto allorquando vi sia -tra l’altro- l’assenza ovvero l’inadeguatezza del mercato di riferimento, circostanza non prospettata dalle parti né desumibile dagli atti versati in giudizio.
Emerge invece nei vari provvedimenti di “concessione” annuale depositati, il completo disinteresse dell’Amministrazione nella imposizione di obblighi di servizio pubblico a tutela della collettività, quali la continuità e doverosità (TAR Puglia-Bari sez. I, 11.10.2012, n. 1756) e/o la sottoposizione ad un regime regolatorio delle tariffe, si da far ritenere l’attività in questione quale libera attività di impresa.
Ciò premesso, risulta del tutto indimostrata dal Comune l’asserita appartenenza dell’area de qua al patrimonio indisponibile comunale (né tantomeno al demanio); infatti, ai sensi dell’art. 826 c.c. non si rinviene come il bene in esame possa ricomprendersi tra detti beni, tranne per l’ipotesi, di cui all’ultimo comma, di destinazione ad un pubblico servizio, destinazione tuttavia negata dalla stessa Amministrazione.
Ritiene tuttavia il Collegio che indipendentemente dalla qualificazione del bene in questione e del servizio di gestione del campeggio quale servizio pubblico, l’attività di cui si chiede annullamento presenti carattere autoritativo limitatamente al diniego di proroga del contratto in luogo dell’esperimento di evidenza pubblica, tale da radicare in parte qua la giurisdizione di legittimità del giudice adito.
Infatti, trattandosi di terreni comunque di proprietà comunale, risulta decisivo il rilievo secondo cui l'Amministrazione, una volta deciso di volerli concedere ad un soggetto privato, ai sensi dell'art. 3, comma 1, R.D. n. 2240/1923 ed in applicazione dei principi di trasparenza, eguaglianza e non discriminazione, deve indire un procedimento di evidenza pubblica, per darli in concessione al migliore offerente, sia perché da tale concessione il Comune ricava un'entrata, sia perché la concessione di un bene pubblico costituisce un'occasione di guadagno per il soggetto privato che utilizza tale bene.
A riprova di ciò, va richiamato l'orientamento giurisprudenziale in materia di concessioni demaniali marittime (cfr. Consiglio di Stato sez. VI 25.01.2005, n. 168; id. sez. IV, 26.03.2013, n. 1698) quello in tema impianti pubblicitari (cfr. Consiglio di Stato Ad. Plen., 25.02.2013, n. 5), oltre a quello relativo alle cave di proprietà comunale (ex multis TAR Basilicata 30.08.2013, n. 406).
Ne consegue che il provvedimento impugnato, nella parte in cui nega il richiesto rinnovo del rapporto contrattuale in scadenza, si inserisce nella fase pubblicistica di scelta del soggetto contraente che assume carattere tipicamente autoritativo, si da radicare la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di controversie aventi ad oggetto “atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici” di cui all’art.133 c. 1 lett. b) cod. proc. amm.
Tanto più che, come si vedrà in prosieguo, il motivo o almeno uno dei motivi per cui il Comune resistente ha optato per il diniego dell’istanza di rinnovo consiste proprio nella volontà di procedere alla scelta del concessionario mediante evidenza pubblica.
3.1. Deve invece dichiararsi il difetto di giurisdizione per quanto riguarda la domanda di annullamento dei provvedimenti impugnati inerenti l’ordine di rilascio della struttura ricettiva entro il termine del 31 dicembre 2013, trattandosi di intimazione al rilascio di immobile appartenente al patrimonio comunale disponibile nei confronti del quale il Comune è sfornito di potestà autoritativa, essendo il potere di autotutela pubblicistica (c.d. polizia demaniale) di cui all’art. 823 c.c. circoscritto alla tutela dei beni appartenenti al demanio ed al patrimonio indisponibile (ex multis Consiglio di Stato sez. V, 06.12.2007, n. 6259; TAR Campania-Napoli sez. VII, 01.09.2011, n. 4269; id. 12.03.2010, n.1390; TAR Lombardia-Milano, sez. III, 14.03.2012, n.854).
A diverse conclusioni non può giungersi nemmeno per ragioni di connessione e concentrazione della tutela giurisdizionale, dal momento il giudice della giurisdizione afferma all’opposto il tendenziale criterio della inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione (ex multis Cassazione Sez. Un. 07.06.2012, n. 9185; id. 25.02.2011, n. 4615; id. 12.03.2010, n.1390; id. 24.06.2009, n. 14805; id. 28.02.2007, n. 4636; cfr. Consiglio di Stato sez IV, 04.02.2011, n. 804; TAR Campania Salerno, sez. II, 14.01.2011, n. 43)
3.2. Va dunque affermata la giurisdizione del giudice amministrativo limitatamente alla domanda di annullamento dei provvedimenti impugnati inerenti il diniego dell’istanza di proroga, mentre sussiste il difetto di giurisdizione in favore del giudice ordinario quanto alla concorrente domanda demolitoria avente ad oggetto l’ordine di rilascio della struttura.
4. Può prescindersi, per ragioni di economia processuale, dalle eccezioni in rito di inammissibilità sollevate dalla difesa civica, poiché il ricorso è in parte qua infondato nel merito.
5. Ritiene il Collegio dirimente la necessità del Comune di Terni, inequivocabilmente manifestata nei provvedimenti impugnati, di procedere all’affidamento in uso del campeggio mediante procedimento ad evidenza pubblica, come suo preciso obbligo ai sensi del diritto comunitario ed interno.
Secondo giurisprudenza del tutto consolidata da cui il Collegio non ha ragione per discostarsi, anche i provvedimenti concessori di beni pubblici di rilevanza economica sono soggetti alla regola dell’evidenza pubblica (ex multis Consiglio di Stato sez VI, 25.09.2009, n. 5765, TAR Campania-Napoli, sez VII, 09.07.2009, n. 3828; Consiglio di Stato sez VI, 25.01.2005, n. 168) in applicazione dei principi di trasparenza, eguaglianza e non discriminazione, fornendosi una occasione di guadagno a soggetti operanti sul mercato (ex multis TAR Liguria sez. I, 24.04.2013, n. 718).
D’altronde secondo giurisprudenza altrettanto pacifica, la posizione del gestore c.d. uscente aspirante al rinnovo o proroga di un rapporto contrattuale pubblico in scadenza, presenta carattere del tutto recessivo rispetto alla scelta dell’Amministrazione di indire una gara per la scelta del contraente, anche laddove una limitata possibilità di proroga dell'affidamento in scadenza sia consentita dalla lex specialis o in ragione di circostanze eccezionali non imputabili all'Amministrazione, potendo quest'ultima comunque liberamente optare per l'indizione della gara, senza onere di particolare motivazione (ex multis TAR Puglia-Lecce sez. II, 03.01.2013, n. 8; TAR Puglia-Bari sez. I, 20.08.2012 n. 1579; Consiglio di Stato sez. VI, 24.11.2011, n. 6194) essendo imposto un particolare onere motivazionale solo nell’ipotesi opposta (Consiglio di Stato sez. III, 01.08.2014, n. 4081; TAR Trentino Alto Adige 03.04.2013, n. 114).
Alla luce di tali considerazioni, possono agevolmente respingersi le doglianze di cui ai primi tre motivi di gravame.
5.1. Parimenti prive di pregio risultano le ulteriori censure dedotte.
5.2. Nessuna consistenza ha la doglianza di lesione dell’affidamento ingenerato nei confronti della Pellegrini, dal momento che a parte l’assorbente rilievo in merito al carattere sempre espressamente temporaneo e precario del rapporto in questione, la stessa deliberazione G.C. 214/2013 indicava inequivocabilmente nel 31.12.2013 il termine improrogabile per la prosecuzione del rapporto.
5.3. Va infine escluso ogni effetto viziante alla pur sussistente violazione dell’art. 10-bis della legge 241/1990, atteso il carattere del tutto vincolato dell’attività comunale all’osservanza delle regole dell’evidenza pubblica che ne imponevano il diniego del richiesto rinnovo, si da escludere - seppur in via necessariamente prognostica - la possibilità di addivenire ad un diverso esito procedimentale.
6. Per i suesposti motivi il ricorso va in parte respinto, mentre va dichiarato il difetto di giurisdizione sulla residua parte, come da motivazione; quanto alla conseguente traslatio iudicii, occorre salvaguardare il principio della salvezza degli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda proposta al giudice privo di giurisdizione nel processo davanti al giudice che ne risulta munito, secondo le disposizioni di cui all’art 11 cod. proc. amm. (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Umbria, sentenza 19.11.2014 n. 549  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nei delitti contro la fede pubblica l’innocuità del falso non va ritenuta con riferimento all’uso che si intende fare del documento, ma solo se si esclude l’idoneità dell’atto falso ad ingannare comunque la fede pubblica.
Sussiste, pertanto, il falso innocuo solo quando esso si riveli in concreto inidoneo a ledere l’interesse tutelato dalla genuinità dei documenti e cioè quando non abbia la capacità di conseguire uno scopo antigiuridico, nel senso che l’infedele attestazione (nel falso ideologico) o la compiuta alterazione (nel falso materiale) appaiano del tutto irrilevanti ai fini del significato dell’atto e del suo valore probatorio e, pertanto, inidonee al conseguimento delle finalità che con l’atto falso si intendevano raggiungere; in tal caso, infatti, la falsità non esplica effetti sulla funzione documentale che l’atto è chiamato a svolgere, che è quella di attestare i dati in esso indicati, con la conseguenza che l’innocuità non deve essere valutata con riferimento all’uso che dell’atto falso venga fatto.

3. Il ricorso è infondato.
4. Come chiarito dal prevalente e condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, infatti, nei delitti contro la fede pubblica l’innocuità del falso non va ritenuta con riferimento all’uso che si intende fare del documento, ma solo se si esclude l’idoneità dell’atto falso ad ingannare comunque la fede pubblica (cfr. Cass., sez. III, 19.07.2011, n. 34901, rv. 250825; Cass., sez. V, 30/09/1997, n. 11681).
Sussiste, pertanto, il falso innocuo solo quando esso si riveli in concreto inidoneo a ledere l’interesse tutelato dalla genuinità dei documenti e cioè quando non abbia la capacità di conseguire uno scopo antigiuridico, nel senso che l’infedele attestazione (nel falso ideologico) o la compiuta alterazione (nel falso materiale) appaiano del tutto irrilevanti ai fini del significato dell’atto e del suo valore probatorio e, pertanto, inidonee al conseguimento delle finalità che con l’atto falso si intendevano raggiungere; in tal caso, infatti, la falsità non esplica effetti sulla funzione documentale che l’atto è chiamato a svolgere, che è quella di attestare i dati in esso indicati, con la conseguenza che l’innocuità non deve essere valutata con riferimento all’uso che dell’atto falso venga fatto (cfr. Cass., sez. V, 17.10.2013, n. 2809, rv. 258946; Cass., sez. V, 07/11/2007, n. 3564).
Orbene tali caratteristiche non sono certamente riscontrabili nella falsificazione addebitata all’imputato, che, in violazione di quanto previsto dall’art. 38, co. 1, lett. c), d.lgs. 12.4.2006, n. 163, ha falsamente attestato di possedere i requisiti per partecipare alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti pubblici, laddove dal certificato del casellario giudiziale si evince, invece, che egli ha riportato una sentenza di condanna (passata in giudicato l’01.12.2005, quindi precedentemente alla data di presentazione della richiesta di partecipazione alla gara bandita dalla società appaltante in precedenza indicata), per il reato di corruzione; circostanza espressamente presa in considerazione dalla menzionata disposizione normativa, quale causa di esclusione della possibilità di partecipare alle procedure di evidenza pubblica in tema di concessioni e di appalti.
Appare, dunque, evidente l’idoneità dell’atto ad ingannare la fede pubblica, nell’attestare il possesso da parte del soggetto richiedente dei requisiti previsti dalla legge per partecipare alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti pubblici, tacendo, al tempo stesso, l’esistenza di una specifica causa di esclusione, normativamente prevista dalla disciplina in materia.
Ne consegue che tutte le considerazioni svolte, peraltro genericamente, dal L. sulla incongruità della disciplina normativa in tema di formalità da rispettate per la partecipazione a gare pubbliche, sul carattere innocuo del falso e sulla pretesa “buona fede” dell’imputato, desumibile dalla dedotta innocuità del falso, non colgono nel segno, stante l’impossibilità di configurare, per le ragioni innanzi apposte, la falsa dichiarazione proveniente dal L. in termini di falso innocuo.
Corretto, pertanto, è l’assunto della corte territoriale, che, con motivazione sintetica, ma esaustiva, nell’escludere la configurabilità di un falso innocuo, ha evidenziato l’idoneità dell’anzidetta dichiarazione a fuorviare l’ente appaltante nelle sue valutazioni (cfr. p. 4 della sentenza impugnata).
5. Sulla base delle svolte considerazioni, dunque, il ricorso va rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 18.11.2014 n. 47601 - link a http://renatodisa.com).

VARI: In tema di comodato l’art. 1810 c.c.. stabilisce una regola, e due eccezioni ad essa. La regola è che l’immobile concesso in comodato debba essere restituito non appena il comodante lo richieda. Le due eccezioni sono: (a) che sia stato pattuito espressamente un termine di durata; (b) che il termine di durata del comodato “risulti dall’uso cui la cosa è destinata”.
La norma prevede dunque tre ipotesi: quella in cui al comodato non sa fissato alcun termine; quella in cui sia fissato un termine esplicito, e quella in cui sia fissato un termine implicito. Il termine di durata risultante “dall’uso cui la cosa è destinata”, cui fa riferimento l’art. 1810 c.c., è un termine implicito. In quanto implicito può non essere previsto espressamente, ma in quanto termine deve essere inequivoco. Tale ipotesi ricorre, ad esempio, nel caso di comodato di un immobile destinato ad ammassare prodotti agricoli all’epoca del raccolto: in una simile ipotesi è innegabile che, terminata l’epoca del raccolto, il comodato cessa; ovvero nel caso di comodato di un immobile per consentire al comodatario di soggiornarvi durante gli studi universitari.
L’apposizione al comodato d’un termine derivante “dall’uso cui la cosa è destinata” non può invece ravvisarsi nel solo fatto che nell’immobile si svolga una determinata attività, commerciale o di altro tipo: per la semplice ragione che tale attività potrebbe non avere alcun termine prevedibile, nel qual caso il comodato sarebbe di fatto sine die. Conclusione, quest’ultima, che snaturerebbe la causa del contratto (il “prestito ad uso” degli antichi) ed esproprierebbe di fatto il comodante.
Esistono attività il cui svolgimento è necessariamente espressione d’un termine implicito di durata del comodato (esigenze temporanee, occupazioni stagionali, necessità transeunti); ed attività che non sono soggette ad alcun termine di durata. Solo il primo tipo di attività, se svolte nell’immobile dato in comodato, consentono di ritenere che quest’ultimo sia soggetto ad un termine implicito.
Nel caso di specie la Corte d’appello ha confuso il termine del comodato col termine dell’attività che si svolge nell’immobile dato in comodato, ritenendo che il fatto stesso che nell’immobile si svolga una attività commerciale ancori la durata del comodato alla cessazione di quell’attività.

1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di violazione di legge di cui all’art. 360, n. 3, c.p.c. Si assumono violati gli artt. 1803, 1809 e 1810 c.c..
Espone, al riguardo, che l’immobile era stato concesso in comodato senza fissazione di termine: esso pertanto doveva ritenersi “precario”, e risolubile ad nutum del comodante.
1.2. Il motivo è fondato.
La Corte d’appello ha correttamente ritenuto che, anche quando un immobile sia concesso in comodato senza fissazione espressa d’un termine, l’apposizione d’un termine di durata possa comunque desumersi dall’uso cui è destinato il bene.
Ne ha tratto però l’erronea conseguenza che quando l’immobile oggetto di comodato sia destinato ad un uso specifico, la restituzione potrebbe essere domandata solo una volta che sia cessato dell’uso cui l’immobile è destinato.
1.3. Tale affermazione della Corte d’appello è erronea in diritto.
L’errore in ture commesso dalla Corte d’appello è consistito nel ritenere che il comodato di un immobile che sia destinato ad una determinata attività sia implicitamente soggetto ad un termine di durata corrispondente alla durata dell’attività che vi si svolge.
Questa interpretazione non è consentita dall’art. 1810 c.c..
Tale norma stabilisce infatti una regola, e due eccezioni ad essa.
La regola è che l’immobile concesso in comodato debba essere restituito non appena il comodante lo richieda.
Le due eccezioni sono:
(a) che sia stato pattuito espressamente un termine di durata;
(b) che il termine di durata del comodato “risulti dall’uso cui la cosa è destinata”.
La norma prevede dunque tre ipotesi: quella in cui al comodato non sa fissato alcun termine; quella in cui sia fissato un termine esplicito, e quella in cui sia fissato un termine implicito.
Il termine di durata risultante “dall’uso cui la cosa è destinata”, cui fa riferimento l’art. 1810 c.c., è un termine implicito. In quanto implicito può non essere previsto espressamente, ma in quanto termine deve essere inequivoco.
Tale ipotesi ricorre, ad esempio, nel caso di comodato di un immobile destinato ad ammassare prodotti agricoli all’epoca del raccolto: in una simile ipotesi è innegabile che, terminata l’epoca del raccolto, il comodato cessa; ovvero nel caso di comodato di un immobile per consentire al comodatario di soggiornarvi durante gli studi universitari.
L’apposizione al comodato d’un termine derivante “dall’uso cui la cosa è destinata” non può invece ravvisarsi nel solo fatto che nell’immobile si svolga una determinata attività, commerciale o di altro tipo: per la semplice ragione che tale attività potrebbe non avere alcun termine prevedibile, nel qual caso il comodato sarebbe di fatto sine die. Conclusione, quest’ultima, che snaturerebbe la causa del contratto (il “prestito ad uso” degli antichi) ed esproprierebbe di fatto il comodante.
Esistono infatti attività il cui svolgimento è necessariamente espressione d’un termine implicito di durata del comodato (esigenze temporanee, occupazioni stagionali, necessità transeunti); ed attività che non sono soggette ad alcun termine di durata. Solo il primo tipo di attività, se svolte nell’immobile dato in comodato, consentono di ritenere che quest’ultimo sia soggetto ad un termine implicito.
La Corte d’appello ha dunque confuso il termine del comodato col termine dell’attività che si svolge nell’immobile dato in comodato, ritenendo che il fatto stesso che nell’immobile si svolga una attività commerciale ancori la durata del comodato alla cessazione di quell’attività.
Tale conclusione è tuttavia non solo contraria alla lettera dell’art. 1810 c.c., per quanto già detto, ma anche insostenibile sul piano logico, perché condurrebbe a conclusioni aberranti, ed in particolare:
(a) il comodato di immobili destinato ad attività che vi si svolgono sine die, sarebbe pur esso sine die;
(b) poiché la destinazione d’uso dipende dalla volontà del comodatario, e poiché non può concepirsi che un immobile non abbia una destinazione d’uso (sia pure solo di svago), a seguire il ragionamento della Corte d’appello la durata di ogni comodato finirebbe per essere rimessa alla volontà mera del comodatario.
Le conclusioni che precedono sono state già più volte affermate da questa Corte: pacifico, in particolare, è il principio secondo cui il termine del comodato può risultare dall’uso cui la cosa deve essere destinata solo “se tale uso abbia in sé connaturata una durata predeterminata nel tempo”. In mancanza, invece, di particolari prescrizioni di durata, ovvero di elementi certi ed oggettivi che consentano ab origine di prestabilirla, l’uso corrispondente alla generica destinazione dell’immobile configura un comodato a tempo indeterminato e, perciò, a titolo precario, e, dunque, revocabile ad nutum da parte del comodante, a norma dell’art. 1810 c.c. (Cass. civ., sez. III, 25.06.2013, n. 15877, nonché, in precedenza, Cass. civ., sez. un., 09.02.2011, n. 3168).
1.4. La sentenza impugnata deve dunque essere cassata, in applicazione del seguente principio di diritto: La circostanza che nell’immobile dato in comodato sia svolta una attività commerciale non basta per ritenere quel comodato soggetto ad un termine implicito, ai sensi dell’art. 1810 c.c., e di conseguenza che il comodante non possa chiedere la restituzione dell’immobile sino a che non cessi l’attività in esso svolta (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 18.11.2014 n. 24468 - link a http://renatodisa.com).

INCARICHI PROFESSIONALIPec ricevuta anche con la casella piena.
Occhio alla Pec. Dopo il decreto semplificazioni 90/2014 gli avvocati amministrativisti hanno l'obbligo di controllare la propria Posta elettronica certificata: la comunicazione di cancelleria si dà comunque per ricevuta anche se la casella è piena o il messaggio risulta segnato come letto. E ciò perché l'articolo 42 del decreto legge ha esteso in tutto e per tutto al processo davanti al Tar e al Consiglio di stato la disciplina delle comunicazioni a mezzo Pec del processo civile contenuta nell'art. 16 del dl 179/2012.

È quanto emerge dalla sentenza 18.11.2014 n. 11534 della Sez. III-bis del TAR Lazio-Roma.
Alla controversia si applicano le vecchie regole, ma le nuove costituiscono soprattutto chiarimenti, come ha spiegato il Cds. La parte non può essere rimessa in termini per ottemperare alla richiesta di integrazione del contraddittorio: è escluso infatti che possa trovare ingresso la tesi secondo cui non sarebbe stata ricevuta dalla parte la Pec con cui la segreteria della sezione terza bis del Tar Lazio ha comunicato il deposito della ordinanza «incriminata»; sbaglia infatti quest'ultima a sostenere che la comunicazione in oggetto avrebbe dovuto essere inviata all'account di posta elettronica certificata del difensore domiciliatario laddove è lo stesso ricorrente che ha indicato nel ricorso introduttivo il proprio account di posta elettronica certificata al quale ricevere le comunicazioni, in alternativa a quello del domiciliatario.
Alla data del messaggio, comunque, era già stato emanato il dl 90/2014 che dispone l'obbligo di controllare la casella Pec e pone a carico del destinatario la mancata ricezione per cause imputabili a quest'ultimo. E in ogni caso l'obbligo a carico del difensore scaturisce già dall'art. 16, comma 3, dl 185/2008, secondo cui le comunicazioni tra i soggetti che hanno provveduto agli adempimenti previsti, possono essere inviate attraverso Pec «senza che il destinatario debba dichiarare la propria disponibilità ad accettarne l'utilizzo». Spese di giudizio compensate (articolo ItaliaOggi del 29.11.2014).

ESPROPRIAZIONE1. Espropriazione per pubblica utilità. Controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi e i comportamenti, riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere della P.A. Giurisdizione. Appartiene al G.A. Questioni pregiudiziali attinenti a diritti. Potere del G.A. di pronunciarsi incidenter tantum. Sussiste.
1.1. Rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi e i comportamenti, riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere della Pubblica amministrazione in materia di espropriazione per pubblica utilità ai sensi dell'art. 133, comma 1, lett. g), del c.p.a.
1.2. Il G.A., a norma dell'art. 8 c.p.a., ha il potere di pronunciarsi, incidenter tantum, su questioni pregiudiziali, ancorché veicolate in via di eccezione, attinenti a diritti (con esclusione, in ogni caso, dell'incidente di falso e delle questioni sullo stato e capacità delle persone), ai circoscritti fini della soluzione della vertenza ad esso demandata in via principale.

2. (segue): natura della pretesa del proprietario illegittimamente spogliato di un'area per fini pubblicistici. Unicità e complessità della pretesa. Acquisto per usucapione ventennale dell'area appresa dalla P.A. Ammissibilità.
2.1. Il proprietario di un’area illegittimamente occupata dalla P.A. al fine di realizzarvi opera pubblica o di pubblica utilità può perseguire in sede giurisdizionale una pretesa che è sostanzialmente unica (in quanto è fondata sullo ius omnes alios excludendi insito nel diritto di proprietà ex art. 832 Cod. civ.), ma al contempo è anche complessa (in quanto si può articolare rispettivamente sia in una richiesta restitutoria che in una risarcitoria; ovvero soltanto in quella risarcitoria, laddove il bene sia stato irreversibilmente trasformato e l’Amministrazione intenda utilizzarlo per fini pubblicistici).
2.2. Sebbene vada qualificata come un illecito permanente l’occupazione di suolo privato da parte della P.A. per fini pubblicistici in assenza di un titolo valido, nondimeno l'illecito de quo è suscettibile di cessare per effetto rispettivamente di un accordo transattivo; ovvero di un provvedimento ex art. 42-bis del d.p.r. n. 327/2001, o infine a seguito dell’accertamento dell’usucapione del bene da parte dell’occupante che lo ha trasformato.

3. (segue): interversione del possesso. Decorrenza. A partire dalla scadenza del termine di occupazione legittima.
Nel caso in cui la Pubblica amministrazione occupi, in via d'urgenza e in vista dell'espropriazione, un fondo privato senza far poi luogo all'adozione del provvedimento di esproprio nei termini previsti dall'art. 22-bis, comma 6, T.U. 08.06.2001 n. 327, la detenzione del fondo -per un primo periodo- sarà legittima.
Conseguentemente tale rapporto di fatto con la cosa non è utile per far maturare l'usucapione acquisitiva, mentre una volta scaduto il termine di occupazione legittima, la mancata restituzione del fondo legittimamente occupato (ma non altrettanto legittimamente espropriato in assenza di decreto di esproprio) e la contemporanea utilizzazione delle opere pubbliche realizzate sul fondo possono qualificarsi come atti di opposizione nei confronti del proprietario-possessore, compiuti dalla P.A., ai sensi dell'art. 1141 comma 2 Cod. civ., come tali idonei a trasformare l’originaria detenzione in possesso.
Pertanto, verificandosi il mutamento della detenzione in possesso, inizia a decorrere il termine utile per realizzare l'acquisto per usucapione prevista dall'art. 1158 Cod. civ..

4. (segue): eccezione di usucapione. Questione incidentale ex art. 8 c.p.a. esaminabile dal G.A.
4.1. Ove il privato, spogliato del proprio fondo per fini pubblicistici, agisca in sede giurisdizionale lamentando la mancata emissione del decreto di espropriazione e chiedendo la restituzione delle aree, l'eccezione di usucapione sollevata dall'Amministrazione non sposta la giurisdizione al Giudice ordinario, per cui il giudice amministrativo può e deve pronunciarsi anche sull'eccezione di usucapione.
Per questo, ai sensi dell'art. 8 c. proc. amm. trattandosi di una questione incidentale relativa a diritti la cui risoluzione è necessaria per pronunciare sulla questione principale, sulla domanda di restituzione di un'area occupata illegittimamente dinanzi al giudice amministrativo, il giudice può accertare se sia intervenuta l'acquisizione per usucapione ventennale, ai sensi dell'art. 1158 c.c., ed accertare la venuta in esistenza del diritto di proprietà della p.a., in conseguenza del mero possesso ultraventennale.
Tra richiesta risarcitoria e azione restitutoria c’è un’intima connessione in quanto ontologicamente sono entrambe due profili opposti di un’unica questione, afferente la materia espropriativa.
4.2. Rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative al risarcimento danni da occupazione di aree private per fini pubblicistici, le relative eccezioni e le domande riconvenzionali -ivi comprese quelle relative all'accertamento del compimento dell'usucapione in favore della p.a.- su beni illegittimamente occupati con irreversibile trasformazione del bene immobile e ultimazione dei lavori, senza che alla dichiarazione di pubblica utilità sia seguito il tempestivo decreto di esproprio o altro atto idoneo a produrre l'effetto traslativo della proprietà.
4.3. L’eventuale accertamento, in via incidentale, dell’eccepito acquisto per usucapione della P.A. della proprietà del bene privato, è idoneo a determinare l’estinzione dei diritti azionati dal privato medesimo e fa venir meno "ab origine" l'elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria, consistente nell’illiceità della condotta lesiva della situazione giuridica soggettiva dedotta, non solo per il periodo successivo al decorso del termine ventennale, ma anche per quello anteriore, in virtù della retroattività degli effetti dell’acquisto a titolo originario per usucapione.

5. (segue): omessa pronuncia del G.A. sull'eccezione di usucapione. Errore di procedura. Rinvio al primo giudice. Necessità.
Laddove il Giudice di primo grado ometta di pronunciarsi sull'eccezione di usucapione sollevata dalla P.A. che abbia illecitamente trasformato un bene privato per finalità pubblicistiche, si ha un “difetto di procedura” della sentenza, che non consente di trattenere la totalità della causa in decisione, per l’effetto devolutivo dell'appello.
Cosicché è necessario rinviare al primo giudice per “errore di procedura” non potendo essere sottratte a tutte le parti, ivi compresi i soggetti controinteressati, le piene garanzie del doppio grado di giudizio.

Come è noto, rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti, gli accordi e i comportamenti, riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere della Pubblica amministrazione in materia di espropriazione per pubblica utilità ai sensi dell'art. 133, comma 1, lett. g), del c.p.a. .
Il G.A. tuttavia, a norma dell'art. 8 c,p,a,, ha il potere di pronunciarsi, incidenter tantum, su questioni pregiudiziali, ancorché veicolate in via di eccezione, attinenti a diritti (con esclusione, in ogni caso, dell'incidente di falso e delle questioni sullo stato e capacità delle persone), ai circoscritti fini della soluzione della vertenza ad esso demandata in via principale (cfr. in senso sostanzialmente analogo: Consiglio di Stato sez. IV 16/04/2014 n. 1883).
Ciò posto nel caso in esame,dato che la Corte di Cassazione con ordinanza delle Sezioni Unite del 30.06.2009, su ricorso di AQP Sp.a., ha dichiarato la giurisdizione del giudice amministrativo proprio in ordine alla cognizione della controversia in esame, è evidente che il TAR dovesse conoscere, seppur in via incidentale, di tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti la cui risoluzione si appalesasse necessaria per pronunciare sulla questione principale.
Ciò perché il proprietario di un’area illegittimamente occupata persegue una pretesa che è sostanzialmente unica (in quanto è fondata sullo ius omnes alios excludendi insito nel diritto di proprietà ex art. 832 Cod. civ.), ma al contempo è anche complessa (in quanto si può articolare rispettivamente sia in una richiesta restitutoria che in una risarcitoria; ovvero soltanto in quella risarcitoria, laddove il bene sia stato irreversibilmente trasformato e l’Amministrazione intenda utilizzarlo per fini pubblicistici).
La Cassazione Civile, se pure ha definito l’occupazione in assenza di un titolo valido come un illecito permanente, nondimeno ha rilevate che esso è suscettibile di cessare per effetto rispettivamente di un accordo transattivo; ovvero di un provvedimento ex art. 42-bis del d.p.r. n. 327/2001, o infine a seguito dell’accertamento dell’usucapione del bene da parte dell’occupante che lo ha trasformato (cfr. Cassazione Civile Sez. I, ord. 15.05.2013, n. 11684) .
Nel caso in cui la Pubblica amministrazione occupi, in via d'urgenza e in vista dell'espropriazione, un fondo senza far poi luogo all'adozione del provvedimento di esproprio nei termini previsti dall'art. 22-bis, comma 6, T.U. 08.06.2001 n. 327, la detenzione del fondo -per un primo periodo- sarà legittima. Conseguentemente tale rapporto di fatto con la cosa non è utile per far maturare l'usucapione acquisitiva, mentre una volta scaduto il termine di occupazione legittima, la mancata restituzione del fondo legittimamente occupato (ma non altrettanto legittimamente espropriato in assenza di decreto di esproprio) e la contemporanea utilizzazione delle opere pubbliche realizzate sul fondo possono qualificarsi come atti di opposizione nei confronti del proprietario-possessore, compiuti dalla P.A., ai sensi dell'art. 1141, comma 2, Cod. civ., come tali idonei a trasformare l’originaria detenzione in possesso. Pertanto, verificandosi il mutamento della detenzione in possesso, inizia a decorrere il termine utile per realizzare l'acquisto per usucapione prevista dall'art. 1158 Cod. civ. (così: C.G.A. Reg. Sicilia Sez. giurisdizionale 14.01.2013 n. 9).
In ogni caso, ove la parte ricorrente lamenti la mancata emissione del decreto di espropriazione e chieda la restituzione delle aree, l'eccezione di usucapione sollevata dall'Amministrazione non sposta la giurisdizione al Giudice ordinario, per cui il giudice amministrativo può e deve pronunciarsi anche sull'eccezione di usucapione.
Per questo, ai sensi dell'art. 8 c. proc. amm. trattandosi di una questione incidentale relativa a diritti la cui risoluzione è necessaria per pronunciare sulla questione principale, sulla domanda di restituzione di un'area occupata illegittimamente dinanzi al giudice amministrativo, il giudice può accertare se sia intervenuta l'acquisizione per usucapione ventennale, ai sensi dell'art. 1158 c.c., ed accertare la venuta in esistenza del diritto di proprietà della p.a., in conseguenza del mero possesso ultraventennale (cfr. C.G.A. n. 9 cit.).
Tra richiesta risarcitoria e azione restitutoria c’è un’intima connessione in quanto ontologicamente sono entrambe due profili opposti di un’unica questione, afferente la materia espropriativa.
Dunque rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative al risarcimento danni da occupazione, le relative eccezioni e le domande riconvenzionali –ivi comprese quelle relative all'accertamento del compimento dell'usucapione in favore della p.a.- su beni illegittimamente occupati con irreversibile trasformazione del bene immobile e ultimazione dei lavori, senza che alla dichiarazione di pubblica utilità sia seguito il tempestivo decreto di esproprio o altro atto idoneo a produrre l'effetto traslativo della proprietà.
Nel caso in esame la richiesta di accertamento della sussistenza di un’usucapione dall’AQP, introdotta in via di “eccezione riconvenzionale”, restava dunque attratta nella sfera di cognizione del giudice amministrativo della domanda principale in forza del generale principio di cui all’art. 8 Cod. proc. amm. .
Pertanto la dichiarazione del difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sulla predetta domanda riconvenzionale statuita dal TAR non può essere condivisa.
L’eventuale accertamento, in via incidentale, dell’eccepito acquisto per usucapione della P.A. della proprietà del bene privato, determinerebbe infatti l’estinzione dei diritti azionati dal privato medesimo e farebbe venir meno "ab origine" l'elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria, consistente nell’illiceità della condotta lesiva della situazione giuridica soggettiva dedotta, non solo per il periodo successivo al decorso del termine ventennale, ma anche per quello anteriore, in virtù della retroattività degli effetti dell’acquisto a titolo originario per usucapione.
La mancata pronuncia sul punto tuttavia deve essere ritenuta un “difetto di procedura” della sentenza appellata, che non consente di trattenere la totalità della causa in decisione, per l’effetto devolutivo dell'appello.
In tal senso si è infatti espressa anche la difesa del Datoli che, in via subordinata al rigetto dei relativi motivi, nella sua memoria di replica per la discussione, aveva comunque richiesto specificamente il rinvio al primo giudice.
In conclusione l’accoglimento dei motivi in esame determina dunque l’annullamento della sentenza ed al contempo la necessità di rinvio al primo giudice per “errore di procedura” (sia pure su una questione altamente opinabile ed incerta). Tale rinvio infatti appare esclusivamente ancorato all’evidente esigenza di non sottrarre a tutte le parti, ivi compresi i soggetti controinteressati, le piene garanzie del doppio grado di giudizio specie sui profili di fatto della vicenda (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.11.2014 n. 5665 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Legittimazione a ricorrere in materia di urbanistica e edilizia. Criterio della c.d. vicinitas. Sufficienza.
1.1. In materia di urbanistica e edilizia, è sufficiente a legittimare la proposizione da parte del vicino dell’impugnazione in sede giurisdizionale del titolo edilizio, la mera vicinitas, ossia il collegamento stabile con la zona interessata dai lavori. Infatti, la c.d. vicinitas è di per sé sufficiente al fine di configurare l’interesse al ricorso, così come previsto dall’art. 100 c.p.c..

1.2. In presenza del requisito della vicinitas non è necessario accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino o no un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione. Specie se si considerano i consistenti oneri economici collegati al contenzioso, deve escludersi, di norma, che vi sia una qualsiasi necessità di accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino, o no, un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione.
La realizzazione di consistenti interventi che comportano un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio è pregiudizievole ‘in re ipsa’, in quanto il nocumento è immediatamente conseguente all’inevitabile diminuzione della qualità panoramica, ambientale, paesaggistica; o anche solo alla possibile diminuzione di valore dell’immobile connesso con l’eccesso di offerta sul mercato.
1.3. In presenza del requisito della vicinitas, è senz'altro legittimato a insorgere in sede giurisdizionale avverso titolo edilizio rilasciato a favore di terzo il proprietario del fondo confinante con l'area interessata da intervento edilizio consistente in un aumento di volumetria e nell'innalzamento dei colmi rispetto all’edificio preesistente, posto che tale intervento finisce per minare le vedute, diminuendo comunque la fruizione dell’area, della luce ed il valore dello stabile del ricorrente.

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5. Ristrutturazione edilizia. Nozione. Ristrutturazione edilizia pesante. Riforma di cui all'art. 30, comma 1°, lettera a) D.L. n. 69/2013 conv. in legge n. 98/2013. Ristrutturazione di edifici ruinati. Presupposti.
5.1. Anteriormente alla novella di cui all'articolo 30, comma 1, lettera a), del D.L. n. 69/2013 convertito nella legge 98/2013, l’art. 3, comma 1, lett. d), D.P.R. 06.06.2001, n. 380 riconduceva la nozione di ‘ristrutturazione edilizia’ alla finalità di recupero del patrimonio esistente: per cui, nei casi in cui ricorra la demolizione parziale o totale dell’edificio, la ricostruzione deve rispettare le linee essenziali della sagoma; l’identità della complessiva volumetria del fabbricato, e la copertura dell'area di sedime.
5.2. Anteriormente alla novella di cui all'articolo 30, comma 1, lettera a), del D.L. n. 69/2013 convertito nella legge 98/2013, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), D.P.R. 06.06.2001, n. 380, l’intervento di ristrutturazione edilizia si doveva tradurre nell’esatto ripristino dell'edificio operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio, e, in particolare, senza aumenti né delle volumetrie, né delle superfici occupate, e né delle originarie sagome di ingombro perché altrimenti, qualora si fossero verificati i detti incrementi, si sarebbe trattato di ‘nuova costruzione’, che quindi doveva rispettare tutte le specifiche norme in materia di nuove edificazioni.
5.3. Anteriormente alla novella di cui all'articolo 30, comma 1, lettera a), del D.L. n. 69/2013 convertito nella legge 98/2013, l’art. 3, comma 1, lett. d), D.P.R. 06.06.2001, n. 380 prevedeva la "ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente" e di conseguenza collegava direttamente e funzionalmente la demolizione e la ricostruzione in un unico contesto e quindi li disciplinava di norma nello stesso provvedimento.
Tale inscindibile nesso non è stato superato nemmeno dall'articolo 30, comma 1, lettera a), del D.L. n. 69/2013 convertito nella legge 98/2013) che, di recente, ha novellato l'art. 3 lett. d) ultimo cpv. del Testo Unico Edilizia di cui al D.P.R. 380/2001 distinguendo nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia:
   i) gli interventi contestuali cioè “quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente”;
   ii) “ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”.
5.4. Anche nel vigore della novella di cui all'articolo 30, comma 1, lettera a), del D.L. n. 69/2013 convertito nella legge 98/2013, nel caso di rovina di edificio risalente ad epoca remota (nella specie quasi 28 anni), ove il proprietario non possa fornire una prova documentale certa dello status quo ante antecedente, il rilascio del permesso edilizio per la ricostruzione dell'immobile deve comunque rispettare la disciplina urbanistica in vigore al momento della presentazione dell’istanza.
Il riferimento alle mappe catastali costituisce un elemento probatorio generico e di carattere sussidiario e, notoriamente, esse non assumono una rilevanza probatoria per provare la reale precedente consistenza dell’immobile. Pertanto, in difetto di elementi che diano la certezza assoluta delle originarie dimensioni, non si può procedere alla autonoma ricostruzione di un edificio demolito da tempo come ristrutturazione, ma si deve fare richiesta di “nuova costruzione”.

__1.§. Preliminarmente deve essere affrontata la censura di carenza di interesse a ricorrere della sig.ra Iorio, che non sarebbe stata rilevata in primo grado: il TAR avrebbe ritenuto sufficiente a legittimare la proposizione dell’impugnazione del titolo edilizio, la mera vicinitas, ovvero il collegamento stabile con la zona interessata dai lavori.
Secondo l’appellante invece, tale requisito, da interpretare in senso relativo, non esimerebbe la confinante dall’obbligo di dimostrare il pregiudizio -personale, attuale e concreto- derivante dall’esecuzione del provvedimento gravato.
L’assunto è privo di pregio.
Secondo un orientamento costante di questo Collegio, dal quale non v’è motivo per discostarsi, la c.d. vicinitas è di per sé sufficiente al fine di configurare l’interesse al ricorso, così come previsto dall’art. 100 c.p.c. (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV 22.01.2013 n. 361; id. 17.09.2012 n. 4926; id. 29.08.2012 n. 4643; id. 10.07.2012 n. 4088; C.G.A. della Regione Siciliana 04.06.2013 n. 553).
In presenza del suddetto requisito “non è necessario accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino o no un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione. Specie se si considerano i consistenti oneri economici collegati al contenzioso, deve escludersi, di norma, che vi sia una qualsiasi necessità di accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino, o no, un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione.
La realizzazione di consistenti interventi che comportano un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio è pregiudizievole ‘in re ipsa’, in quanto il nocumento è immediatamente conseguente all’inevitabile diminuzione della qualità panoramica, ambientale, paesaggistica; o anche solo alla possibile diminuzione di valore dell’immobile connesso con l’eccesso di offerta sul mercato
" (cfr. Consiglio di Stato Sez. IV 18.04.2014 n. 1995).
La vicinitas, normalmente, è dunque condizione necessaria e sufficiente a fondare la legittimazione e l’interesse al ricorso (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 10.06.2014 n. 2965; id. 13.03.2014 n. 1210; id. 13.11.2012 n. 5715; id. 17.09.2012, n. 4924).
Nella fattispecie in esame, si rileva che comunque la posizione legittimante della ricorrente in primo grado appare direttamente collegata alla circostanza per cui l’intervento previsto nel titolo edilizio annullato, prevedendo una maggiore volumetria ed innalzamento dei colmi rispetto all’edificio preesistente, avrebbe finito per minare le vedute, diminuendo comunque la fruizione dell’area, della luce ed il valore dello stabile.
In definitiva del tutto esattamente il TAR ha ritenuto sussistente l’interesse al ricorso della controinteressata alla verifica giudiziale della legittimità del titolo edilizio dei confinanti.
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__4.§. Infine l’appellante censura, nel merito, la sentenza di primo grado, assumendo l’inesattezza della qualificazione da parte del TAR dell’intervento edilizio come “nuova costruzione”, solo perché sarebbe stata erroneamente ritenuta rilevante la mancata contestualità fra demolizione e ricostruzione.
Quest’ultimo fatto invece non si attaglierebbe alla fattispecie de qua poiché qui la demolizione, a suo tempo, era scaturita da ragioni di pubblica incolumità. In tali casi sussisterebbe, in deroga alle norme ordinarie, un diritto imprescrittibile alla ricostruzione, collegato alla ratio emergenziale che aveva imposto l’emanazione del provvedimento di demolizione.
Il giudice di prime cure avrebbe dunque erroneamente quantificato le dimensioni dell’immobile preesistente e, su tale dato, avrebbe annullato il permesso di costruire.
Come risulterebbe da una perizia del 1981 le dimensioni dell’edificio oggetto del titolo edilizio annullato in primo grado, coinciderebbero sostanzialmente con quelle dell’edificio demolito nel 1981, il quale, tra l’altro, non sarebbe mai stato eliminato dalla documentazione catastale.
Il motivo è infondato.
In primo luogo deve escludersi che, in materia, siano configurabili diritti “imprescrittibili” rispetto alla posizione di un proprietario di un immobile demolito per pubblica incolumità.
E’ evidente che, in assenza di una specifica norma di legge che disponga espressamente in tal senso, tale fattispecie non può certo essere ricondotta al novero dei “diritti indisponibili” di cui all’art. 2934, II° co. c.c.. La giurisprudenza di questo Collegio, formatasi sul testo in vigore al momento dei provvedimenti impugnati in prime cure, aveva affermato che “L’art. 3 comma 1 lett. d), D.P.R. 06.06.2001, n. 380 riconduce, come è noto, la nozione di ‘ristrutturazione edilizia’ alla finalità di recupero del patrimonio esistente: per cui, nei casi in cui ricorra la demolizione parziale o totale dell’edificio, la ricostruzione deve rispettare le linee essenziali della sagoma; l’identità della complessiva volumetria del fabbricato, e la copertura dell'area di sedime" (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 21.10.2013 n. 5120; id. 30.05.2013 n. 2972).
L’intervento si doveva cioè tradurre nell’esatto ripristino dell'edificio operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio, e, in particolare, senza aumenti né delle volumetrie, né delle superfici occupate, e né delle originarie sagome di ingombro perché altrimenti, qualora si fossero verificati i detti incrementi, si sarebbe trattato di ‘nuova costruzione’, che quindi doveva rispettare tutte le specifiche norme in materia di nuove edificazioni (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 29.05.2014 n. 2781; id. 06.12.2013 n. 5822; id. 02.12.2013 n. 5733; sez. III 20.11.2013 n. 5488).
Infatti al tempo dell’emanazione dei provvedimenti, il testo (derivante dalle modifiche di cui al d.lgs. 27.12.2002, n. 301) dell’art. 3 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380 al comma 1°, lettera d), prevedeva la "ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente" e di conseguenza collegava direttamente e funzionalmente la demolizione e la ricostruzione in un unico contesto e quindi li disciplinava di norma nello stesso provvedimento.
Nel concreto caso in esame ha ragione il TAR quando sottolinea che l’opera edilizia eseguita dall’appellante non poteva essere ascritta alle ipotesi di “ristrutturazione”, sia a causa della mancanza del nesso di contestualità che necessariamente deve legare la demolizione -a prescindere dalla ragione ad essa sottesa- e la successiva ricostruzione e sia per il differente dimensionamento.
Nel caso in esame non vi sono dubbi che l’opera edilizia iniziata dall’appellante non potesse affatto essere qualificata come di “ristrutturazione” sia pure nella forma di intervento di demolizione e di ricostruzione (c.d. “ristrutturazione pesante”).
Il progetto presentato da Iorio Gaetano prevedeva la realizzazione di un fabbricato di circa 342 mc., differente per tipologia costruttiva e per destinazioni d’uso, che non poteva in alcun modo essere riconducibile ai due vecchi immobili di piccole dimensioni (per lo stesso appellante una assommava a mq. 51,83 e l’altro a mq. 5,1).
Tale inscindibile nesso, del resto, non è stato superato nemmeno dall'articolo 30, comma 1, lettera a), del d.l. 69/2013 (convertito nella legge 98/2013) che, di recente, ha novellato l'art. 3, lett. d), ultimo cpv. del Testo Unico Edilizia di cui al D.P.R. 380/2001 distinguendo nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia:
- gli interventi contestuali cioè “quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente”;
- i “ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.”
In sostanza anche adesso la notevole distantia temporis (quasi 28 anni) dalla demolizione dell’immobile originario fa sì che, -nel caso in cui il proprietario non possa fornire una prova documentale certa dello status quo ante antecedente- il rilascio del permesso edilizio deve comunque rispettare la disciplina urbanistica in vigore al momento della presentazione dell’istanza.
Anche il riferimento alle mappe catastali costituisce un elemento probatorio generico e di carattere sussidiario e, notoriamente, esse non assumono una rilevanza probatoria per provare la reale precedente consistenza dell’immobile.
Pertanto, anche adesso, in difetto di elementi che diano la certezza assoluta delle originarie dimensioni, non si può procedere alla autonoma ricostruzione di un edificio demolito da tempo come ristrutturazione, ma si deve fare richiesta di “nuova costruzione”.
Con tutte le relative conseguenze ed implicazioni
(massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.11.2014 n. 5662 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa c.d. vicinitas è di per sé sufficiente al fine di configurare l’interesse al ricorso, così come previsto dall’art. 100 c.p.c..
In presenza del suddetto requisito “non è necessario accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino o no un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione. Specie se si considerano i consistenti oneri economici collegati al contenzioso, deve escludersi, di norma, che vi sia una qualsiasi necessità di accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino, o no, un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione. La realizzazione di consistenti interventi che comportano un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio è pregiudizievole ‘in re ipsa’, in quanto il nocumento è immediatamente conseguente all’inevitabile diminuzione della qualità panoramica, ambientale, paesaggistica; o anche solo alla possibile diminuzione di valore dell’immobile connesso con l’eccesso di offerta sul mercato".
La vicinitas, normalmente, è dunque condizione necessaria e sufficiente a fondare la legittimazione e l’interesse al ricorso.

L’assunto è privo di pregio.
Secondo un orientamento costante di questo Collegio, dal quale non v’è motivo per discostarsi, la c.d. vicinitas è di per sé sufficiente al fine di configurare l’interesse al ricorso, così come previsto dall’art. 100 c.p.c. (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV 22.01.2013 n. 361; id. 17.09.2012 n. 4926; id. 29.08.2012 n. 4643; id. 10.07.2012 n. 4088; C.G.A. della Regione Siciliana 04.06.2013 n. 553).
In presenza del suddetto requisito “non è necessario accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino o no un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione. Specie se si considerano i consistenti oneri economici collegati al contenzioso, deve escludersi, di norma, che vi sia una qualsiasi necessità di accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall’atto impugnato comportino, o no, un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l’impugnazione.
La realizzazione di consistenti interventi che comportano un’alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio è pregiudizievole ‘in re ipsa’, in quanto il nocumento è immediatamente conseguente all’inevitabile diminuzione della qualità panoramica, ambientale, paesaggistica; o anche solo alla possibile diminuzione di valore dell’immobile connesso con l’eccesso di offerta sul mercato
" (cfr. Consiglio di Stato Sez. IV 18.04.2014 n. 1995).
La vicinitas, normalmente, è dunque condizione necessaria e sufficiente a fondare la legittimazione e l’interesse al ricorso (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 10.06.2014 n. 2965; id. 13.03.2014 n. 1210; id. 13.11.2012 n. 5715; id. 17.09.2012, n. 4924).
Nella fattispecie in esame, si rileva che comunque la posizione legittimante della ricorrente in primo grado appare direttamente collegata alla circostanza per cui l’intervento previsto nel titolo edilizio annullato, prevedendo una maggiore volumetria ed innalzamento dei colmi rispetto all’edificio preesistente, avrebbe finito per minare le vedute, diminuendo comunque la fruizione dell’area, della luce ed il valore dello stabile.
In definitiva del tutto esattamente il TAR ha ritenuto sussistente l’interesse al ricorso della controinteressata alla verifica giudiziale della legittimità del titolo edilizio dei confinanti
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.11.2014 n. 5662 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza di questo Collegio, formatasi sul testo in vigore al momento dei provvedimenti impugnati in prime cure, aveva affermato che “L’art. 3, comma 1, lett. d), D.P.R. 06.06.2001, n. 380 riconduce, come è noto, la nozione di ‘ristrutturazione edilizia’ alla finalità di recupero del patrimonio esistente: per cui, nei casi in cui ricorra la demolizione parziale o totale dell’edificio, la ricostruzione deve rispettare le linee essenziali della sagoma; l’identità della complessiva volumetria del fabbricato, e la copertura dell'area di sedime".
L’intervento si doveva cioè tradurre nell’esatto ripristino dell'edificio operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio, e, in particolare, senza aumenti né delle volumetrie, né delle superfici occupate, e né delle originarie sagome di ingombro perché altrimenti, qualora si fossero verificati i detti incrementi, si sarebbe trattato di ‘nuova costruzione’, che quindi doveva rispettare tutte le specifiche norme in materia di nuove edificazioni.
Infatti al tempo dell’emanazione dei provvedimenti, il testo (derivante dalle modifiche di cui al d.lgs. 27.12.2002, n. 301) dell’art. 3 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380 al comma 1°, lettera d), prevedeva la "ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente" e di conseguenza collegava direttamente e funzionalmente la demolizione e la ricostruzione in un unico contesto e quindi li disciplinava di norma nello stesso provvedimento.

Il motivo è infondato.
In primo luogo deve escludersi che, in materia, siano configurabili diritti “imprescrittibili” rispetto alla posizione di un proprietario di un immobile demolito per pubblica incolumità.
E’ evidente che, in assenza di una specifica norma di legge che disponga espressamente in tal senso, tale fattispecie non può certo essere ricondotta al novero dei “diritti indisponibili” di cui all’art. 2934, II° co. c.c.. La giurisprudenza di questo Collegio, formatasi sul testo in vigore al momento dei provvedimenti impugnati in prime cure, aveva affermato che “L’art. 3, comma 1, lett. d), D.P.R. 06.06.2001, n. 380 riconduce, come è noto, la nozione di ‘ristrutturazione edilizia’ alla finalità di recupero del patrimonio esistente: per cui, nei casi in cui ricorra la demolizione parziale o totale dell’edificio, la ricostruzione deve rispettare le linee essenziali della sagoma; l’identità della complessiva volumetria del fabbricato, e la copertura dell'area di sedime" (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 21.10.2013 n. 5120; id. 30.05.2013 n. 2972).
L’intervento si doveva cioè tradurre nell’esatto ripristino dell'edificio operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio, e, in particolare, senza aumenti né delle volumetrie, né delle superfici occupate, e né delle originarie sagome di ingombro perché altrimenti, qualora si fossero verificati i detti incrementi, si sarebbe trattato di ‘nuova costruzione’, che quindi doveva rispettare tutte le specifiche norme in materia di nuove edificazioni (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 29.05.2014 n. 2781; id. 06.12.2013 n. 5822; id. 02.12.2013 n. 5733; sez. III 20.11.2013 n. 5488).
Infatti al tempo dell’emanazione dei provvedimenti, il testo (derivante dalle modifiche di cui al d.lgs. 27.12.2002, n. 301) dell’art. 3 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380 al comma 1°, lettera d), prevedeva la "ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente" e di conseguenza collegava direttamente e funzionalmente la demolizione e la ricostruzione in un unico contesto e quindi li disciplinava di norma nello stesso provvedimento.
Nel concreto caso in esame ha ragione il TAR quando sottolinea che l’opera edilizia eseguita dall’appellante non poteva essere ascritta alle ipotesi di “ristrutturazione”, sia a causa della mancanza del nesso di contestualità che necessariamente deve legare la demolizione -a prescindere dalla ragione ad essa sottesa- e la successiva ricostruzione e sia per il differente dimensionamento.
Nel caso in esame non vi sono dubbi che l’opera edilizia iniziata dall’appellante non potesse affatto essere qualificata come di “ristrutturazione” sia pure nella forma di intervento di demolizione e di ricostruzione (c.d. “ristrutturazione pesante”)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.11.2014 n. 5662 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl collegio ritiene di dover aderire a quell’indirizzo giurisprudenziale che interpreta la previsione normativa che impone all’impresa di dimostrare la completa ed effettiva dissociazione della condotta penalmente sanzionata dei soggetti cessati dalla carica nell'anno antecedente la data di pubblicazione del bando di gara secondo un criterio di equilibrio e proporzionalità, onde evitare il raggiungimento di conclusioni eccessivamente punitive che possono comportare una sostanziale paralisi di attività imprenditoriali, senza una reale ragione di interesse generale sufficiente a giustificare tali esiti di assoluto rigore.
In tale ottica, se da un lato la dissociazione, non trattandosi di istituto giuridico codificato, può aver luogo in svariate forme, purché risulti esistente, univoca e completa, dall’altro le concrete modalità di soddisfacimento dell’onere probatorio richiesto all’impresa non possono essere individuate aprioristicamente ma vanno correttamente parametrate alla specificità del caso specifico oggetto di valutazione.

La doglianza non è fondata.
Ritiene in proposito il collegio di dover aderire a quell’indirizzo giurisprudenziale che interpreta la previsione normativa che impone all’impresa di dimostrare la completa ed effettiva dissociazione della condotta penalmente sanzionata dei soggetti cessati dalla carica nell'anno antecedente la data di pubblicazione del bando di gara secondo un criterio di equilibrio e proporzionalità, onde evitare il raggiungimento di conclusioni eccessivamente punitive che possono comportare una sostanziale paralisi di attività imprenditoriali, senza una reale ragione di interesse generale sufficiente a giustificare tali esiti di assoluto rigore (cfr., in termini, TAR Campania, sez. III, 20.12.2013, n. 5965).
In tale ottica, se da un lato la dissociazione, non trattandosi di istituto giuridico codificato, può aver luogo in svariate forme, purché risulti esistente, univoca e completa, dall’altro le concrete modalità di soddisfacimento dell’onere probatorio richiesto all’impresa non possono essere individuate aprioristicamente ma vanno correttamente parametrate alla specificità del caso specifico oggetto di valutazione.
Nel caso in esame, non emergono elementi tali, quali ad esempio la sussistenza di rapporti di parentela con il nuovo amministratore e/o il possesso di quote sociali in capo al precedente legale rappresentante, che possano far supporre che la dissociazione sia una mera “operazione di facciata” e che il soggetto cessato possa ancora ingerirsi nelle attività della nuova compagine sociale e minarne la moralità professionale.
Di fronte a una simile circostanza fattuale, la dimostrazione della dissociazione può essere fornita anche attraverso la semplice produzione di un verbale dell'assemblea della società in cui sia chiaramente indicata la volontà di dissociazione; e ciò anche se la società abbia anche meramente dichiarato la intenzione di riservarsi la possibilità di intentare una causa civile di responsabilità nei confronti del soggetto cessato e non anche dimostrato di averla concretamente iniziata.
La scelta di intraprendere o meno l’azione di responsabilità, del resto, risponde a una serie di valutazioni spettanti alla compagine sociale e connesse a una serie di fattori (quali la sussistenza e la possibilità di dimostrare un danno risarcibile derivante dalla condotta illecita dell’amministratore, nonché l’entità del danno stesso) che rispondono a logiche giuscivilistiche differenti rispetto agli interessi tutelati dalla previsione sulla dissociazione.
Non appare dunque congruo imporre in ogni caso alla società, al solo fine strumentale di poter continuare a partecipare a gare pubbliche, l’avvio dell’azione di responsabilità contro l’amministratore al fine di dimostrare la concreta dissociazione dal suo operato (Cons. Stato, sez. V, 28.07.2014, n. 3992; 14.09.2010, n. 6694; 11.09.2007, n. 4804).
Ritiene conseguentemente il Collegio che la produzione del verbale assembleare sopra citato faccia piena fede circa la effettività dell'intento della Krea di dissociarsi dalla condotta dell'ex legale rappresentante ed è quindi idonea e sufficiente a fornire la dimostrazione richiesta dall'art. 38, comma 1, lettera c), del D.Lgs. n. 163/2006.
Conclusivamente, il ricorso principale va accolto mentre quello principale deve essere respinto, con annullamento, per l’effetto, dell’aggiudicazione della gara a Impresalv srl e con obbligo per la stazione appaltante di aggiudicare la gara stessa alla ricorrente Segipa s.r.l. (fatti salvi gli accertamenti preliminari d’obbligo).
L’aggiudicazione della gara alla ricorrente principale costituisce adeguato risarcimento in forma specifica, restando dunque irrilevante quant’altro e diversamente preteso a titolo risarcitorio (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 18.11.2014 n. 2914 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Dinanzi ad una condotta prolungata nel tempo di un pubblico ufficiale, il quale, dietro pagamento, vanifica la sua funzione di controllo nell’acquisizione di forniture pubbliche, è ravvisabile una vendita della funzione, nel senso di mercimonio della discrezionalità da parte del soggetto, in luogo di una pluralità di episodi di corruzione uniti in continuazione.
Ne deriva che non è possibile dichiarare di prescrizione per alcune porzioni della condotta medesima, non potendo le stesse essere considerate singoli reati.

5. Appare, altresì, destituita di fondamento la censura concernente la pretesa estinzione del reato in addebito, ancorché limitatamente alle condotte antecedenti il 04.06.2008.
Al C. è contestato, infatti, il delitto di cui agli artt. 319 e 321 cod. pen., in particolare per avere concorso con l’Assessore alle Infrastrutture Ch.Re. , di cui era il Capo di Gabinetto, a ricevere ingenti somme di denaro (tra i 200.000 e 250.000 Euro all’anno secondo quanto riferito da Ma.Gi. , v. ordinanza riguardante Ch. prodotta dalla difesa del ricorrente) che con frequenza annuale all’amministratore regionale venivano corrisposte da varie persone per conto di società del gruppo Mantovani e del Consorzio Venezia Nuova.
Orbene, secondo la prospettazione d’accusa, la dazione di dette somme è andata avanti fino a poco tempo prima dell’emissione della misura cautelare ed in particolare dal 2005 al 2012 secondo l’imputazione di cui al capo 8) dell’ordinanza cautelare ed anzi fino al giorno 07.02.2013 secondo la distinta ordinanza resa dallo stesso Tribunale del Riesame di Venezia in data 28/06/2014 concernente il Ch. in prima persona (v. copia provvedimento prodotto dalla difesa del ricorrente).
Detto altrimenti, il flusso di denaro pervenuto all’amministratore regionale costituiva il corrispettivo della vendita della sua funzione, messa al servizio dei soggetti corruttori, che in tal modo ne avevano acquisito la disponibilità, presente e futura, a soddisfare le rispettive esigenze.
In tal modo inquadrata la fattispecie, deve rilevarsi che, secondo quanto già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte e di questa Sezione, essa ricadeva già nel fuoco della previsione dell’art. 319 cod. pen. nella versione antecedente la novella rappresentata dalla legge n. 190 del 2012, essendosi infatti stabilito che dinanzi ad una condotta prolungata nel tempo di un pubblico ufficiale (nella specie: un primario ospedaliero) il quale, dietro pagamento, vanificava la sua funzione di controllo nell’acquisizione di forniture pubbliche, correttamente il giudice di merito aveva ravvisato una vendita della funzione, nel senso di mercimonio della discrezionalità da parte del soggetto, in luogo di una pluralità di episodi di corruzione uniti in continuazione, derivandone la correttezza della mancata dichiarazione di prescrizione per alcune porzioni della condotta medesima, erroneamente ritenute singoli reati (Cass. Sez. 6 sent. n. 34735 del 14/06/2011, Anzillotti e altri).
Principio ribadito da Sez. 6 sent. n. 9079 del 24/01/2013, Di Nardo e altri, Rv. 254162 in cui si è affermato che la messa a disposizione del proprio ufficio corrisponde oggi alla fattispecie di cui al nuovo testo dell’art. 318 cod. pen. e che tale condotta, peraltro, già rientrava nell’art. 319 cod. pen. costituendo atto contrario ai doveri d’ufficio e atteso che le due norme prevedono la medesima pena (massima), stante l’evidente continuità normativa tra le stesse, appare irrilevante chiedersi se una condotta pregressa rientri nell’una o nell’altra disposizione; nonché da Sez. 6 sent. n. 9883 del 15/10/2013, Terenghi, Rv. 258521 la quale ha stabilito che la riconduzione della vendita della funzione all’attuale art. 318 cod. pen. non incide sulla natura del fatto pregresso, che resta riconducibile all’art. 319 cod. pen. vigente all’epoca dei fatti, anche sotto il profilo della sanzione in quanto norma più favorevole dell’attuale art. 319 cod. pen..
La giurisprudenza di questa sezione ha, inoltre, affermato gli altri principi secondo cui i fatti di corruzione impropria per atto conforme ai doveri d’ufficio continuano ad essere penalmente rilevanti ai sensi dell’art. 318 cod. pen. per come novellato dalla legge 190 del 2012 che, nella sua ampia previsione, li ricomprende integralmente (Cass. sez. 6 sent. n. 19189 dello 11/01/2013, Abruzzese, Rv. 255073) ed anzi che la nuova norma ha allargato l’area di punibilità ad ogni fattispecie di monetizzazione del munus publicus, pur se sganciata da una logica di “formale sinallagmaticità” (Sez. 6 sent. del 13/01/2014, Menna).
La fattispecie considerata dalla prima delle citate pronunzie appare del tutto sovrapponibile a quella in esame, con l’aggiunta che –al pari di quanto già rilevato con le successive decisioni– devesi oggi prendere atto dell’intervenuta trasposizione normativa da parte del legislatore di quell’orientamento giurisprudenziale, mediante la previsione del nuovo art. 318 cod. pen. che sanziona espressamente la corruzione per la funzione, rompendo con l’impostazione propria del dispositivo normativo ancorato al rapporto sinallagmatico tra atto dell’ufficio (contrario o dovuto) ed accettazione di promessa e/o percezione di utilità da parte del pubblico agente.
Trattasi, invero, di impostazione che ancora permane nel sistema, dal momento che la legge n. 190 del 2012 non ha eliminato l’ipotesi di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (nuovo art. 319 cod. pen.), il quale è però sanzionato in maniera più grave rispetto alla figura di reato di cui all’art. 318 cod. pen..
Ad avviso di questo Collegio, anzi, la stessa collocazione topografica delle due norme, in rapporto di progressione sanzionatoria tra loro, evidenzia che alla luce della revisione normativa la previsione di base è appunto costituita dall’art. 318 cod. pen., la cui presenza infatti ha eliminato la necessità non solo di prevedere un’espressa sanzione per la corruzione collegata al compimento di atti dell’ufficio non contrari a legge ma anche di stabilire il compimento o meno di un atto dell’ufficio e la relativa natura, mentre il nuovo art. 319 cod. pen. contempla i casi di maggiore gravità, in cui il pubblico ufficiale omette o ritarda un atto di sua competenza o ne compie di addirittura contrari ai doveri d’ufficio, situazioni che come tali esigono una risposta più rigorosa da parte dell’ordinamento.
Non v’è dubbio, tuttavia, che come nella fattispecie, possano darsi casi in cui all’accettazione di indebite promesse o (evenienza più verosimile) alla percezione di indebite utilità collegate semplicemente all’esercizio della pubblica funzione si accompagnino situazioni in cui è, invece, riconoscibile il sinallagma tra quelle ed il compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio ovvero l’omissione o il ritardo di un atto dovuto.
In tali casi, si pone il problema di definire i rapporti tra le due figure di reato di cui agli artt. 318 e 319 cod. pen., al fine di stabilire se debbano applicarsi congiuntamente o meno.
A tale riguardo, ritiene il collegio, in linea di continuità con la richiamata giurisprudenza, che l’art. 318 cod. pen. non abbia coperto integralmente l’area della vendita della funzione, ma soltanto quelle situazioni in cui non sia noto il finalismo del suo mercimonio o in cui l’oggetto di questo sia sicuramente rappresentato da un atto dell’ufficio.
Residua, infatti, tuttora un’area di applicabilità dell’art. 319 cod. pen. quando la vendita della funzione sia connotata da uno o più atti contrari ai doveri d’ufficio, accompagnati da indebite dazioni di denaro o prestazioni d’utilità, sia antecedenti che susseguenti rispetto all’atto tipico, il quale finisce semplicemente per evidenziare il punto più alto di contrarietà ai doveri di correttezza che si impongono al pubblico agente.
Deve, pertanto, essere riaffermata la perdurante validità della citata giurisprudenza (su tutte Sez. 6 n. 34735/11 Anzillotti e al.) che, alla luce del mutato quadro normativo determinato dalla legge n. 190 del 2012, finisce per costituire applicazione della categoria dogmatica della progressione criminosa, che consente di individuare un unico reato (e un’unica pena) in fattispecie, come quella in esame, al confine tra l’applicabilità del concorso di norme sullo stesso fatto ed il concorso materiale di reati (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 17.11.2014 n. 47271 - link a http://renatodisa.com).

APPALTI1. Appalti pubblici. Requisiti di carattere generale. Certificazione di qualità. Produzione a pena di esclusione. Equivalenza.
Nel caso in cui un bando di gara prescriva, a pena di esclusione, l'obbligo di produrre la certificazione di qualità UNI EN ISO 9001:2000 che riporti la dicitura “Progettazione, costruzione, installazione, manutenzione e ristrutturazione di: impianti di riscaldamento, termosanitari, condizionamento, cogenerazione e loro gestione” e “Progettazione, costruzione, ristrutturazione e manutenzione di immobili”, deve ritenersi equivalente la certificazione di qualità UNI EN ISO 9001:2008 avente ad oggetto attività di «Progettazione, installazione, manutenzione e conduzione, anche in global service, di impianti tecnologici».
Detta certificazione di qualità, difatti, definisce i requisiti, di carattere generale, implementabili da ogni tipologia di organizzazione relativa al settore di accreditamento rientrando, quindi, nella previsione del bando concernente le attività di servizi integrati «agli immobili e/o agli impianti», e, per altro verso, è comprensiva delle capacità dell’impresa certificata di governare le caratteristiche del servizio e dei prodotti forniti, in modo da erogare effettivamente la qualità attesa, e quindi comprende anche i c.d. servizi di governo.

2. (segue): associazione temporanea di impresa. Requisiti di capacità economico-finanziaria. Corrispondenza tra quote di qualificazione e quote di esecuzione. Necessità. Non sussiste.
In tema di gara per l'affidamento di appalti pubblici di servizi, con riferimento a concorrenti che assumano le vesti di associazione temporanea d’impresa, i requisiti di capacità economico-finanziaria vanno riferiti all’a.t.i. nel suo complesso in virtù della disciplina degli artt. 37 e 41 d.lgs. n. 163/2006 (nel testo applicabile ratione temporis alla presente procedura di gara, il cui bando è stato pubblicato nel luglio 2010) in quanto, nel settore dei servizi e delle forniture, prevede solo che, in caso di a.t.i. orizzontale, debbano essere specificate nell’offerta le parti del servizio o della fornitura che saranno eseguite dalle singole imprese associate o associande, ma non impone una rigida corrispondenza tra quota di qualificazione e quota di esecuzione, essendo rimessa alla stazione appaltante la determinazione dei requisiti di qualificazione con riguardo ad ogni singola gara.
3. (segue): moralità professionale. Soggetto tenuto alla dichiarazione. Procura limitata a determinati contratti non oggetto della gara. Obbligo. Non sussiste. Dichiarazione del responsabile tecnico. Mancata previsione della lex specialis. Necessità. Non sussiste. Omessa dichiarazione. Sussistenza dei requisiti. Esclusione. Inammissibilità.
3.1. In tema di dichiarazioni di moralità professionale, qualora il disciplinare di gara preveda l’onere dichiarativo ex art. 38 d.lgs. 163/2006 con riguardo ai «procuratori dotati di poteri decisionali rilevanti e sostanziali che non siano di sola rappresentanza esterna dell’impresa», nel caso in cui i poteri conferiti a uno dei procuratori siano limitati a contratti di valore sproporzionati per difetto rispetto ai lotti oggetto della gara, non può configurarsi un potere gestorio idoneo a considerare detto soggetto quale amministratore di fatto tenuto all’obbligo dichiarativo in esame.
3.2. In tema di dichiarazioni di moralità professionale, in difetto di espressa previsione della lex specialis, l’onere dichiarativo ex art. 38, commi 1 e 2, d.lgs. n. 163 del 2006 non può ritenersi esteso anche alla figura del responsabile tecnico.
3.3. In tema di dichiarazioni di moralità professionale, in caso di mancata comminatoria di esclusione contenuta nella lex specialis con riguardo a dette dichiarazioni relative a determinate categorie di cariche sociali e/o aziendali, l’esclusione non può essere disposta per la mera omessa dichiarazione, ma solo qualora si riscontri l’effettiva assenza del requisito.

4. (segue): apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche. Procedure concluse o pendenti alla data di entrata in vigore del d.l. 07.05.2012, n. 52. Seduta pubblica. Obbligatorietà. Non sussiste.
In tema di apertura dei plichi contenti le offerte tecniche, l’art. 12 d.l. 07.05.2012, n. 52, convertito nella legge 06.07.2012, n. 94, ha innovativamente previsto l’obbligo della commissione di gara di aprire in seduta pubblica detti plichi, mentre, per le procedure concluse o pendenti alla data del 09.05.2012, ha previsto la sanatoria del vizio ritenuto sussistente dalla sentenza Ad. Plen. n. 13/2011, per il caso in cui i medesimi plichi siano stati aperti in seduta riservata, di guisa che l’obbligo della seduta pubblica per la fase di apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche va ritenuto sussistente solo per le gare indette dopo l’entrata in vigore della citata disposizione.

6.1. In accoglimento dell’appello proposto avverso le statuizioni sub 2.(i) e 2.(ii), è decisivo rilevare che:
- il bando di gara, al punto III.2.3, lett. a), prescriveva, tra i requisiti di capacità tecnica, il «possesso della certificazione UNI EN ISO 9001:2000 per l’attività di servizi integrati agli immobili e/o agli impianti»;
- la stazione appaltante, con il chiarimento n. 7, confermava l’equivalenza, con la certificazione quale prevista nel bando, del «certificato di qualità UNI EN ISO 9001:2000 che riporti la dicitura “Progettazione, costruzione, installazione, manutenzione e ristrutturazione di: impianti di riscaldamento, termosanitari, condizionamento, cogenerazione e loro gestione” e “Progettazione, costruzione, ristrutturazione e manutenzione di immobili”»;
- la certificazione di qualità UNI EN ISO 9001:2008, prodotta in sede di gara dalla S.A.C.C.I.R. s.p.a., datata 21.01.2010, si riferisce, tra l’altro, al settore di accreditamento EAC 28 e, per quanto qui interessa, ha ad oggetto attività di «Progettazione, installazione, manutenzione e conduzione, anche in global service, di impianti tecnologici»;
- tale certificazione di qualità –che, in quanto tale, definisce i requisiti, di carattere generale, implementabili da ogni tipologia di organizzazione relativa al settore di accreditamento che, nel caso concreto, viene in rilievo–, contemplante la gestione delle elencate attività in global service, per un verso, rientra nella previsione del bando concernente le attività di servizi integrati «agli immobili e/o agli impianti», e, per altro verso, è comprensiva delle capacità dell’impresa certificata di governare le caratteristiche del servizio e dei prodotti forniti, in modo da erogare effettivamente la qualità attesa, e quindi comprende anche i c.d. servizi di governo (v., nello stesso senso, in fattispecie analoga, Cons. St., Sez. VI, 10.05.2013, n. 2563).
Pertanto, contrariamente a quanto ritenuto nell’impugnata sentenza, la mandataria dell’a.t.i. terza classificata, S.A.C.C.I.R. s.p.a., indicata quale esecutrice del 100% dei servizi di governo e del 64% dei servizi di manutenzione, deve considerarsi munita del requisito di capacità tecnica previsto al punto III.2.3 del bando di gara (dove, peraltro, manca una specificazione esatta del settore di accreditamento, discorrendosi genericamente di “certificazione UNI EN ISO 9001:2000 per l’attività di servizi integrati agli immobili e/o agli impianti”), e, in riforma dell’impugnata sentenza, il correlativo motivo di ricorso incidentale deve dunque essere disatteso, con conseguente ammissibilità del ricorso principale di primo grado (e dei relativi motivi aggiunti).
6.2. Scendendo all’esame dei motivi del ricorso principale di prima istanza, si premette che, per ragioni di economia processuale, in via preliminare si affrontano i motivi di natura escludente dedotti avverso l’ammissione alla gara dell’aggiudicataria a.t.i. Manitalidea, la cui infondatezza –per le ragioni di seguito esposte– esime dall’esame dei motivi dedotti dall’originaria ricorrente, terza classificata, nei confronti della seconda classificata CNS, per il venir meno del correlativo interesse a ricorrere.
6.2.1. Privi di pregio sono i motivi sub 3.c) e 3.f), tra di loro connessi e da esaminare congiuntamente, di asserita violazione dell’art. 37, commi 4 e 13, d.lgs. n. 163 del 2006, sotto vari profili.
In linea di fatto, si rileva che l’a.t.i. aggiudicataria ha indicato la mandataria Manitalidea s.p.a. quale esecutrice della quota del 60% delle prestazioni d’appalto, mentre la mandante Manital s.c.p.a. è stata indicata quale esecutrice della quota del 40% dell’attività di manutenzione impiantistica e di pulizia.
Occorre, altresì, rimarcare che il disciplinare di gara, per un verso, precisa che, in caso di associazione temporanea d’impresa, i requisiti di capacità economico-finanziaria di cui al punto III.2.2. lett. b) del bando di gara vanno riferiti all’a.t.i. nel suo complesso (v. anche i chiarimenti sul punto forniti dalla stazione appaltante), e che, per altro verso, secondo l’orientamento di questo Consiglio di Stato, formatosi sulla disciplina degli artt. 37 e 41 d.lgs. n. 163/2006 (nel testo applicabile ratione temporis alla presente procedura di gara, il cui bando è stato pubblicato nel luglio 2010), questa, nel settore dei servizi e delle forniture, prevede solo che, in caso di a.t.i. orizzontale, devono essere specificate nell’offerta le parti del servizio o della fornitura che saranno eseguite dalle singole imprese associate o associande, ma non impone una rigida corrispondenza tra quota di qualificazione e quota di esecuzione, essendo rimessa alla stazione appaltante la determinazione dei requisiti di qualificazione con riguardo ad ogni singola gara (v. Cons. St., Ad. Plen., 05.07.2012, n. 26; Cons. St., Ad. Plen., 13.06.2012, n. 22).
Il fatturato specifico richiesto è, quindi, stato correttamente riferito all’a.t.i. nel suo complesso, e non alle singole imprese associate in rapporto alla quota di esecuzione, in aderenza alla disciplina della lex specialis [v., in senso conforme, la recente sent. Ad. Plen., 28.08.2014, n. 27, affermativa del principio secondo cui, ai sensi dell’art. 37, commi 4 e 13, nel testo antecedente alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 2-bis, lett. a), d.l. 06.07.2012 n. 95, convertito nella legge 07.08.2012 n. 135, negli appalti di servizi da affidarsi a raggruppamenti temporanei di imprese non vige ex lege il principio della necessaria corrispondenza tra la qualificazione di ciascuna impresa e la quota della prestazione di rispettiva pertinenza, essendo la relativa disciplina rimessa alle disposizioni della lex specialis della gara; nello stesso senso, Cons. St., Sez. III, 30.09.2014, n. 4865].
In reiezione del correlativo, ulteriore profilo di censura, deve ritenersi legittima la mancata indicazione delle parti o quote di esecuzione delle prestazioni assegnate alle imprese consorziate della mandataria Manital s.c.p.a., trattandosi di consorzio stabile che, a norma dell’art. 34, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006, è assoggettato alla disciplina dell’art. 36 d.lgs. n. 163 del 2006, il cui comma 5 si limita a richiedere l’indicazione delle imprese consorziate per le quali il consorzio concorre, mentre la disciplina di cui all’art. 37 d.lgs. n. 163 del 2006, invocata dall’odierna appellante, in virtù del richiamo contenuto nell’art. 34, comma 1, lett. d) ed e), d.lgs. n. 163 del 2006, si applica ai raggruppamenti d’impresa ed ai consorzi ordinari, e non anche ai consorzi stabili (v. sul punto, per tutte, Cons. St., Sez. V, 13.10.2010, n. 7470).
6.2.2. Destituito di fondamento è il motivo sub 3.d) –con cui è stata dedotta l’illegittima duplicazione dei requisiti di qualificazione economico-finanziaria [con particolare riguardo al dichiarato fatturato specifico nel biennio, ai sensi del punto III.2.2 lett. b) del bando] nell’ambito dell’a.t.i. Manitalidea, sotto il profilo che la mandataria Manitalidea s.p.a sarebbe, a sua volta, consorziata del consorzio stabile Manital s.c.p.a., associata dell’a.t.i. aggiudicataria–, in quanto, per un verso, la documentazione richiesta (e prodotta) in sede di gara (di cui al punto 6 del disciplinare, non specificamente impugnato) deve ritenersi idonea a consentire una valutazione compiuta del requisito del fatturato specifico (mentre rientrava nella discrezionalità tecnica della stazione appaltante chiedere eventuali integrazioni e chiarimenti, in caso di ritenuta incertezza probatoria), e, per altro verso, dalla documentazione versata in giudizio emerge de plano che il fatturato specifico dichiarato dalla mandataria Manitalidea s.p.a. deriva da una serie di specifici contratti intestati esclusivamente a detta società e non concorre al raggiungimento del fatturato dichiarato dalla mandante Manital s.c.p.a., mentre il fatturato dichiarato da quest’ultima è imputabile ad una serie di specifici contratti intestati esclusivamente a Manital s.c.p.a. e non concorre al raggiungimento del fatturato dichiarato dalla mandataria (v. dichiarazione ex art. 47 d.P.R. n. 445 del 2000 della società di revisione Aleph Auditing s.r.l. del 09.07.2012, resa ad integrazione di precedente dichiarazione del 26.09.2011).
6.2.3. Del pari infondata è la doglianza relativa alla mancanza di dichiarazioni di moralità professionale ex art. 38, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006, in relazione ad un procuratore speciale (cessato dalla carica) della Manitalidea s.p.a. (Longoni Paolo), un procuratore speciale (cessato dalla carica) del consorzio Manital s.c.p.a. (Serra Domenico), un procuratore speciale della consorziata Res Nova s.p.a. (Roperto Francesco) e un responsabile tecnico della consorziata Futuro 2000 (Li Vigni Pietro), in quanto:
- il disciplinare di gara prevede l’onere dichiarativo con riguardo ai «procuratori dotati di poteri decisionali rilevanti e sostanziali che non siano di sola rappresentanza esterna dell’impresa»;
- i primi due procuratori speciali, Longoni e Serra, non solo erano cessati dalla carica ed il disciplinare non si riferiva espressamente anche ai procuratori cessati, ma i poteri conferiti al primo erano limitati a contratti di valore non superiore ad euro 2.000.000, e, dunque, sono da ritenersi del tutto sproporzionati, per difetto, rispetto al valore dei lotti in questione, con conseguente inconfigurabilità di un potere gestorio idoneo a considerarlo amministratore di fatto soggetto all’obbligo dichiarativo in esame, mentre il secondo risulta munito di procura speciale risalente al 06.02.2003, di durata annuale a decorrere dalla firma della medesima, con conseguente sostanziale cessazione dalla carica ampiamente prima del triennio antecedente la data di pubblicazione del bando (sebbene dalla certificazione CC.I.A.A. risulti la formale iscrizione della cessazione solo a far tempo dal 05.05.2008);
- pure al procuratore speciale della consorziata Res Nova s.p.a. (Roperto Francesco) non risultano essere stati conferiti poteri gestori assimilabili a quelli propri di un amministratore di fatto, essendo allo stesso conferiti poteri di rappresentanza limitatamente ad una specifica commessa esulante dall’ambito oggettivo della presente gara d’appalto;
- in difetto di espressa previsione della lex specialis, l’onere dichiarativo ex art. 38, commi 1 e 2, d.lgs. n. 163 del 2006 non può ritenersi esteso anche alla figura del responsabile tecnico (nella specie, al sign. Li Vigni Pietro, responsabile tecnico della consorziata Futuro 2000), né risulta dimostrata l’effettiva insussistenza del requisito in capo al medesimo (sul principio secondo cui, in caso di mancata comminatoria di esclusione contenuta nella lex specialis con riguardo alle dichiarazioni di moralità professionale relative a determinate categorie di cariche sociali e/o aziendali, l’esclusione non può essere disposta per la mera omessa dichiarazione, ma solo qualora si riscontri l’effettiva assenza del requisito, v. Ad. Plen. 16.10.2013, n. 23).
6.2.4. Infine, in reiezione del motivo sub 3.g), dedotto in via subordinata, è sufficiente rilevare che l’art. 12 d.l. 07.05.2012, n. 52, convertito nella legge 06.07.2012, n. 94, ha innovativamente previsto l’obbligo della commissione di gara di aprire in seduta pubblica i plichi contenenti le offerte tecniche, mentre, per le procedure concluse o pendenti alla data del 09.05.2012, ha previsto la sanatoria del vizio ritenuto sussistente dalla sentenza Ad. Plen. n. 13/2011, per il caso in cui i medesimi plichi siano stati aperti in seduta riservata, di guisa che l’obbligo della seduta pubblica per la fase di apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche va ritenuto sussistente solo per le gare indette dopo l’entrata in vigore della citata disposizione, con la conseguenza che l’invocata disciplina non risulta applicabile ratione temporis alla gara sub iudice [trattandosi di gara indetta nel luglio 2010, ed essendo l’apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche avvenuta il 17.02.2011 (in seduta riservata)] (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.11.2014 n. 5608 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Ove dalle proposte rivolte dai pubblici ufficiali anche le presunte vittime finiscano per ricevere un indebito vantaggio, il fatto dev’essere qualificato non come concussione ma come induzione indebita, in quanto la vittima accetta la proposta del pubblico ufficiale non per evitare un male ingiusto, ma per conseguire un vantaggio indebito.
4.2. Le conclusioni della Corte territoriale non possono essere condivise, dovendo riconoscersi la fondatezza dei motivi dedotti dai ricorrenti, soprattutto a seguito dell’intervento delle Sezioni unite di questa Corte che, con la sentenza n. 12228 del 24.10.2013 (ric. Maldera ed altri), hanno chiarito la distinzione tra concussione e il nuovo reato di induzione, superando, almeno in parte, alcune incertezze applicative e interpretative registratesi all’interno della stessa Cassazione.
La sentenza impugnata ha, in sostanza, ritenuto che le condotte poste in essere dagli imputati abbiano dato luogo a vere e proprie forme di costrizione, rispetto alle quali le vittime non hanno potuto far altro che accettare le proposte ricevute dai pubblici ufficiali.
Secondo la citata sentenza delle Sezioni unite la costrizione, cui oggi fa riferimento esclusivo l’articolo 317 c.p., coincide con il concetto di minaccia, intesa come annuncio da parte dell’agente di un male o danno ingiusto , ossia una condotta illecita in grado di incutere timore in chi la percepisce, così da pregiudicarne l’integrità del benessere psichico e la libertà di autodeterminazione, precisando che può assumere anche forme implicite o allusive o addirittura presentarsi come un consiglio, un’esortazione purché evidenzi comunque una carica oggettivamente intimidatoria.
Pertanto la concussione, che origina da un abuso della qualità o dei poteri, si concretizza nel prospettare un male ingiusto così da porre la vittima in una condizione di sostanziale mancanza di alternativa, tale da cedere la propria disponibilità a dare o promettere una qualche utilità sapendo che non è dovuta, pur di evitare il male più grave minacciato.
Diversamente, come è noto, nel reato previsto dall’articolo 319-quater c.p. viene replicato il riferimento all’abuso della qualità e dei poteri da parte del soggetto attivo, ma l’elemento oggettivo della sua condotta consiste nell’indurre taluno a dare o promettere indebitamente. Viene così realizzato quello sdoppiamento, con definitiva separazione, della costrizione e dell’induzione , indistintamente richiamate nell’originaria formulazione dell’articolo 317 c.p. prima della riforma di cui alla Legge 06.11.2012, n. 190.
Oggi, come avvertono le Sezioni unite, a seguito di tale modifica normativa ai due concetti deve necessariamente attribuirsi un diverso significato non solo in senso naturalistico, dal momento che il verbo indurre cui si riferisce l’articolo 319-quater c.p., svolge una funzione di selettività residuale perché è destinato a coprire quegli spazi non riferibili alla costrizione di cui all’articolo 317 c.p., cioè quei comportamento pur sempre abusivi, ma che non si concretizzino nella minaccia di un male ingiusto e, quindi, non pongano il destinatario dinanzi ad una alternativa obbligata tra due mali ingiusti.
Coerentemente l’induzione si caratterizza per avere l’attitudine ad alterare comunque il processo volitivo altrui, ma lasciando, rispetto alla costrizione, un margine maggiore di decisione autonoma, tale da far ritenere che l’indotto possa resistere alle pressioni indebite, con la conseguenza che in caso di adesione a tali pressioni si giustifichi la sua punibilità.
Non è un caso che la sentenza Maldera delle Sezioni unite individui nella previsione della punibilità del privato il vero indice rivelatore del significato dell’induzione . Nella dimensione dell’articolo 319-quater c.p. la volontà del privato non viene piegata dalla pressione del soggetto attivo, ma solo condizionata ed orientata da pressioni psichiche che possono assumere diverse forme, ma tutte diverse dalla minaccia (e dalla violenza), quindi prive del carattere tendenzialmente coartante.
Per questa ragione le Sezioni unite, nella citata sentenza Maldera, finiscono per assumere quale criterio distintivo tra i due concetti la dicotomia minaccia–non minaccia, riconoscendo che può essere induzione una condotta quale la persuasione, la suggestione, l’allusione, lo stesso silenzio, purché non si risolva in una forma di minaccia implicita di un danno antigiuridico senza alcun vantaggio indebito per il privato.
Infine, è il vantaggio indebito che individua la fattispecie induttiva e che, come si è detto, giustifica la punibilità dell’indotto così come prevista dall’articolo 319-quater c.p., comma 2, in quanto da costui l’ordinamento penale esige il dovere di resistere alla pressione. In questo modo il legislatore si propone lo scopo di disincentivare forme di sfruttamento opportunistico della relazione viziata dall’abuso della controparte pubblica imponendo al privato, nei rapporti con l’amministrazione, di non perseguire vantaggi ingiusti che possono derivare anche da situazioni generate da abusi patiti ad opera di funzionari pubblici.
La conclusione cui giungono le Sezioni unite, con la decisione più volte citata, è che il reato di induzione indebita si configura quando il funzionario pubblico pone in essere l’abuso induttivo operando da una posizione di forza e sfruttando la situazione di debolezza del privato che presta acquiescenza alla richiesta, non per evitare un danno ingiusto, ma per conseguire un vantaggio indebito. E’ evidente la collocazione della nuova induzione a metà strada tra la concussione e la corruzione: della prima conserva l’elemento dello sfruttamento della posizione di potere di cui l’agente abusa; della corruzione eredita la plurisoggettività della struttura del reato che diventa a concorso tendenzialmente necessario.
Come molto opportunamente avverte la sentenza Maldera, i parametri del danno ingiusto e del vantaggio indebito, individuati per distinguere la concussione dall’induzione, non sempre riescono a raggiungere lo scopo, in quanto in talune fattispecie concrete possono presentarsi contemporaneamente, sicché spetta all’interprete valutare a quale di essi attribuire maggiore significatività.
Ai criteri sopra sinteticamente esposti il Collegio ritiene di adeguarsi nell’accertamento della corretta qualificazione dei fatti oggetto di contestazione nel presente processo.
5. La Corte d’appello di Palermo ha bene evidenziato in fatto che gli imputati utilizzavano sempre la stessa tecnica per convincere le proprie vittime ad aderire alle loro proposte: effettuavano controlli presso gli esercizi commerciali che reputavano appetibili, talvolta anche al di fuori della loro competenza territoriale, rappresentando ai titolari la gravità della situazione riscontrata e le possibili conseguenze per l’attività commerciale, come la chiusura ovvero il pagamento di sanzioni elevate, quindi proponevano una soluzione da cui derivava per loro una utilità, soluzione che la vittima accettava per evitare le possibili conseguenze dei controlli effettuati: così è accaduto per quanto riguarda gli episodi presso la rivendita di automobili del (OMISSIS), presso l’autorimessa del (OMISSIS) e presso il negozio dell’(OMISSIS); lo stesso è avvenuto negli altri due episodi ai danni di (OMISSIS) e di (OMISSIS).
I giudici hanno osservato che in tutti i capi di imputazione risulta contestata specificamente la condotta di costrizione e mai quella di induzione, rilevando che in tutte le fattispecie i pubblici ufficiali non si sono limitati a determinare, in maniera subdola e larvata, uno stato di soggezione nel soggetto passivo al fine di vedere soddisfatte le loro legittime pretese ma esplicitarono, in modo palese, le loro intenzioni nei confronti dei soggetti passivi, costringendo questi ultimi a conferire ai predetti le utilità richieste al fine di non subire le conseguenze loro prospettate, consistite, nella maggior parte dei casi, nella chiusura dell’attività commerciale (…) ed in altri nell’irrogazione di multe salatissime che avrebbero potuto avere effetti nefasti sulla prosecuzione dell’attività d’impresa.
In questo modo, il carattere costrittivo delle condotte viene messo in relazione alla manifestazione esplicita delle pretese illegittime dei vigili urbani, con una argomentazione che non dimostra la natura minatoria delle richieste e, inoltre, non prende in minima considerazione il vantaggio indebito che le presunte vittime hanno conseguito nei vari episodi contestati: infatti, risulta apodittica l’affermazione della sentenza là dove assume che le persone offese non sono state poste nella facoltà di operare una libera scelta, ma sono state costrette ad erogare le prestazioni richieste per non patire il pregiudizio minacciato.
Invece, emerge con una certa evidenza, dalla stessa ricostruzione dei fatti contenuta nella sentenza, che gli imputati non hanno posto in essere condotte minacciose, rientranti nel concetto di costrizione come sopra inteso, in quanto prospettare l’applicazione di multe ovvero la chiusura di attività in presenza di violazioni amministrative effettivamente riscontrate non coincide con il prospettare un danno contra ius. Infatti, in tutti gli episodi contestati, gli imputati rappresentavano, sicuramente in maniera subdola, le possibili conseguenze che potevano derivare dagli illeciti amministrativi dopo avere accertato tali illeciti, a cui potevano effettivamente seguire le multe e, in alcuni casi più gravi, la chiusura dell’attività.
Ma soprattutto, i giudici non hanno considerato che dalle proposte rivolte dai pubblici ufficiali anche le presunte vittime finivano per ricevere un indebito vantaggio: in tutti gli episodi le vittime accettano le proposte degli imputati non per evitare un male ingiusto, ma per conseguire il vantaggio indebito di non pagare le multe ed evitare la chiusura dei loro esercizi commerciali.
(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) dinanzi alla contestazione degli illeciti amministrativi e alla successiva proposta rivolta loro dagli imputati vi aderiscono opportunisticamente per conseguire comunque un vantaggio indebito, adesione che non comporta la configurabilità di una ipotesi di corruzione proprio perché la condotta dei pubblici funzionari rientra nel concetto di induzione, nel senso che da parte loro vi è stata una condotta persuasiva e suggestiva realizzata abusando della posizione rivestita, che ha condizionato fortemente il processo formativo della volontà delle vittime, sicché deve escludersi la sussistenza di un accordo corruttivo che necessità di una base paritaria. Un discorso analogo deve essere fatto anche per l’episodio in cui è stato riconosciuto il tentativo di concussione.
Identica è stata la strategia dell’imputato che ha prima contestato al (OMISSIS) una serie di violazioni per le autovetture dell’autosalone parcheggiate irregolarmente e successivamente gli ha proposto una permuta per l’acquisto di un’auto in esposizione, attraverso una pressione morale con una capacità di condizionare la libertà di autodeterminazione più blanda, che ha lasciato al destinatario un ampio margine di decisione, tanto da rifiutare la proposta, situazione che giustifica la riqualificazione in termini di induzione tentata.
D’altra parte, la sussistenza del vantaggio indebito ricavato dai privati assurge a criterio discriminante rispetto alla ritenuta ipotesi di concussione e orienta definitivamente a favore dell’induzione indebita di cui all’articolo 319-quater c.p., che deve essere inteso nella sua specifica unitarietà di reato plurisoggettivo a concorso necessario, in cui devono confluire le condotte delle due parti protagoniste.
Ne consegue che ai fini della riqualificazione non ha rilievo la circostanza che nella specie non possano essere presi in considerazione ai fini della responsabilità i soggetti indotti, dovendo farsi comunque riferimento al reato così come configurato in astratto dalla norma incriminatrice (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 13.11.2014 n. 47014 - link a http://renatodisa.com).

CONDOMINIODistacco senza oneri «eccessivi». Riscaldamento. La Cassazione chiarisce che non si può chiedere il rimborso di quanto già pagato.
In caso di distacco, il regolamento non può prevedere oneri economici eccessivi a carico del distaccato. D’altro canto, anche se è stato determinato da insufficienza di erogazione di calore dell’impianto centralizzato, il condomino non può chiedere in restituzione quanto già pagato.
Sul punto si è pronunziata la Corte di Cassazione -Sez. II civile- con sentenza 13.11.2014 n. 24209.
La Corte, aderendo all’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, ha confermato la legittimità del distacco per il quale, sussistendo i presupposti, non era (così come non lo è oggi a seguito della riforma del condominio) necessaria alcuna approvazione o autorizzazione da parte dei condomini.
Per quanto attiene alla determinazione delle spese che il condomino deve continuare a pagare, è utile richiamare altra sentenza della Corte di cassazione (sentenza 9526/2014) che, pur pronunziandosi su un caso avvento anni addietro, ha colto l’occasione per fare chiarezza su un punto dubbio contenuto nella riforma del condominio.
È infatti stato ribadito il principio in base al quale a seguito del distacco, gli altri condòmini devono essere tenuti indenni da aggravi di spese. Pertanto il distaccato continua a essere obbligato a partecipare alle spese di manutenzione e di consumo del carburante o di esercizio se e nella misura in cui il distacco non ha comportato una diminuzione degli oneri del servizio a carico degli altri condomini. Nulla di meno, ma neanche nulla di più.
La sentenza 24209/2014 si sofferma su quest’altro aspetto. Se è vero che il distaccato deve tenere indenni gli altri condomini dall’aggravio di spese, è altrettanto vero che il regolamento condominiale non può prevedere a suo carico un onere di contribuzione maggiore. Ne consegue che i regolamenti (o le delibere assembleari) che hanno determinato a forfait una quantificazione, potrebbero essere viziati da nullità (rilevabile quindi in ogni tempo) se prevedono un onere di spesa maggiore rispetto a quanto dovuto.
Il caso sottoposto all’attenzione della Corte vedeva il distacco determinato da un’insufficiente erogazione del calore dell’impianto centralizzato. L’esonero dalla contribuzione, però, ha effetto solo per il futuro. Il condòmino che lamenta il disservizio non può pertanto chiedere restituzioni o danni per quanto pagato in passato.
Il distacco è il rimedio più estremo. In caso di disservizio il condòmino può percorrere anche altre strade. Per esempio provocando una delibera condominiale attinente agli eventuali interventi necessari per la piena funzionalità. In alternativa, può rivolgersi direttamente all’autorità giudiziaria per ottenere un provvedimento che obblighi il condominio ad adottare tutto quanto necessario per sopperire a guasti o deficienze. Eventualmente, se ricorrono i presupposti, può anche richiedere il risarcimento del danno (Cassazione, sentenza 19616/2012)
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.12.2014).
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MASSIMA
Legittima la rinuncia di un condomino all’uso dell’impianto centralizzato anche senza necessità di autorizzazione o approvazione da parte degli altri condomini, purché l’impianto non ne sia pregiudicato, con il conseguente esonero, in applicazione del principio contenuto nell’art. 1123, II cc, dall’obbligo di sostenere le spese per l’uso del servizio centralizzato e l’obbligo di pagare solo le spese di conservazione (link a http://renatodisa.com).

APPALTIOnere dichiarativo ex art. 38 D.Lgs. 163/2006. Esteso agli institori. Nozione di institore. Sussistenza della preposizione institoria. Difetto probatorio. Delegati ai sensi dell’art. 2 Legge n. 287/1991. Preposti ai sensi dell’art. 71 D.Lgs. 59/2010.
1.1. L’institore, secondo parte della giurisprudenza, rientra tra i soggetti indicati dall'art. 38 d.lgs. 163/2006, ed è tenuto, quindi, a rendere la correlata dichiarazione attestante il possesso dei requisiti di ordine generale.
1.2. Ai sensi dell’art. 2203 c.c. “È institore colui che è preposto dal titolare all'esercizio di un'impresa commerciale”. L’institore è, dunque, tra gli ausiliari subordinati dell'imprenditore, quello fornito dei maggiori poteri di rappresentanza e di amministrazione dell’impresa, così da essere definito un “alter ego” dell’imprenditore.
1.3. Perché un determinato dipendente possa essere qualificato institore occorre avere riguardo al tipo di poteri ad esso conferiti, potendosi ravvisare una vera e propria preposizione institoria solo laddove risulti l’attribuzione al soggetto degli ampi poteri rappresentativi che connotano la figura e che normalmente risultano contenuti nella procura a questi conferita, che è pure è soggetta a pubblicità mediante inserimento nel registro delle imprese.
1.4. La giurisprudenza ha costantemente collegato l’accertamento della sussistenza della preposizione institoria alla produzione documentale acquisita agli atti del giudizio. La giurisprudenza ha altresì rilevato come l’individuazione dei dipendenti muniti di poteri institori deve essere effettuata non solo in base alle qualifiche formali possedute, ma anche alla stregua dei poteri sostanziali attribuiti, con conseguente inclusione, nel novero dei soggetti muniti di poteri di rappresentanza, delle sole persone fisiche in grado di impegnare la società verso i terzi.
1.5. Al fine di ritenere sussistente l’esistenza di poteri rappresentativi non è sufficiente il mero richiamo all’art. 2 della legge 287/1991, norma peraltro oggi abrogata ad opera del d.lgs. n. 59/2011, atteso che la disposizione in questione, alla luce del suo letterale tenore e della sua stessa ratio, finalizzata alla regolamentazione dell’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, nulla dice sulla necessità che il delegato iscritto fosse munito di poteri rappresentativi, né collegava in via automatica alla esistenza della delega il conferimento di poteri qualificabili come institori.
1.6. Al fine di ritenere sussistente l’esistenza di poteri rappresentativi non è sufficiente il mero richiamo al termine “persona preposta all’attività commerciale” contenuto nell’art. 71 del d.lgs. 59/2010, laddove difetti la prova dell’esistenza della citata “preposizione” all’attività commerciale o ad un ramo di essa.

Come noto, l’articolo 2203 del codice civile stabilisce che “È institore colui che è preposto dal titolare all'esercizio di un'impresa commerciale”.
L’institore è, dunque, tra gli ausiliari subordinati dell'imprenditore, quello fornito dei maggiori poteri di rappresentanza e di amministrazione dell’impresa, così da essere definito un “alter ego” dell’imprenditore.
Perché un determinato dipendente possa essere qualificato institore occorre avere riguardo al tipo di poteri ad esso conferiti, potendosi ravvisare una vera e propria preposizione institoria solo laddove risulti l’attribuzione al soggetto degli ampi poteri rappresentativi che connotano la figura e che normalmente risultano contenuti nella procura a questi conferita, che è pure è soggetta a pubblicità mediante inserimento nel registro delle imprese (TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 08.03.2010, n. 311).
Proprio in considerazione della specialità della disciplina applicabile, la giurisprudenza ha costantemente collegato l’accertamento della sussistenza della preposizione institoria alla produzione documentale acquisita agli atti del giudizio (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 14.02.2011, n. 939 e TAR Calabria, Catanzaro, n. 311/2010, cit. che rileva come “principio fondamentale è che i poteri dell'institore sono determinati in relazione al contenuto della preposizione”).
La giurisprudenza ha pure rilevato come l’individuazione dei dipendenti muniti di poteri institori deve essere effettuata non solo in base alle qualifiche formali possedute, ma anche alla stregua dei poteri sostanziali attribuiti, con conseguente inclusione, nel novero dei soggetti muniti di poteri di rappresentanza, delle sole persone fisiche in grado di impegnare la società verso i terzi (TAR Veneto, Venezia, sez. I, 18.11.2010, n. 6069).
Nel caso in esame, parte ricorrente si è limitata a desumere la sussistenza dei poteri institori dal fatto che sei collaboratori siano indicati, nella visura camerale, come delegati ai sensi dell’art. 2 della legge 287 del 25.08.1991 e dalla esistenza di uno scontrino rilasciato da un bar gestito dalla controinteressata, che peraltro non menziona l’esistenza di un eventuale preposto.
La visura camerale, tuttavia, che pure contempla, in altra parte, i soggetti muniti di poteri institori, nulla dice in ordine ai poteri attribuiti ai delegati iscritti nel registro degli esercenti il commercio, né risultano prodotti in atti ulteriori documenti dai quali desumere i concreti poteri attribuiti.
Al fine di ritenere sussistente l’esistenza di poteri rappresentativi non è, infine, sufficiente il mero richiamo all’art. 2 della legge 287/1991, norma peraltro oggi abrogata ad opera del d.lgs. n. 59/2011, atteso che la disposizione in questione, alla luce del suo letterale tenore e della sua stessa ratio, finalizzata alla regolamentazione dell’attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, nulla dice sulla necessità che il delegato iscritto fosse munito di poteri rappresentativi, né collegava in via automatica alla esistenza della delega il conferimento di poteri qualificabili come institori.
Neppure probante appare il richiamo al termine “persona preposta all’attività commerciale” contenuto nell’art. 71 del d.lgs. 59/2010, peraltro neppure direttamente applicabile alla fattispecie in esame, risultando l’impianto probatorio del ricorso carente proprio in punto di prova dell’esistenza della citata “preposizione” all’attività commerciale o ad un ramo di essa.
La mancanza di poteri institori nei soggetti indicati come delegati nella visura camerale comporta la reiezione della unica censura articolata in ricorso (massima tratta da www.ricerca-amministrativa.it - TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 13.11.2014 n. 11403 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria per opere ricadenti in zone sottoposte a vincolo, nella specie previsto dall’art. 32 l. n. 47 del 1985, l’esistenza del vincolo va valutata al momento in cui deve essere presa in considerazione la domanda di condono, a prescindere dall’epoca della sua introduzione e, quindi, anche per le opere eseguite anteriormente all’apposizione del vincolo in questione; tale valutazione corrisponde all’esigenza di vagliare l’attuale compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente.
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In relazione alla disciplina del condono edilizio della l. n. 47 del 1985 e delle connesse questioni (poste dall’art. 33) relative ai procedimenti di condono riguardanti territori con vincoli di inedificabilità relativa, si deve avere riguardo al regime vincolistico sussistente alla data di esame della domanda di sanatoria, secondo il principio tempus regit actum; quanto ai vincoli di inedificabilità assoluta, se è vero che alla stregua dell’art. 33 l. n. 47 del 1985 il vincolo di inedificabilità assoluta non può operare in modo retroattivo, tuttavia non si può considerare inesistente per il solo fatto che sia sopravvenuto all’edificazione (ciò che paradossalmente porterebbe a ritenere senz’altro sanabili gli interventi, i quali pertanto fruirebbero di un regime più favorevole di quello riservato agli abusi interessati da vincoli sopravvenuti di inedificabilità relativa).
Pertanto, se il vincolo di inedificabilità assoluta sopravvenuto non può considerarsi sic et simpliciter inesistente, ne discende che gli va applicato lo stesso regime della previsione generale dell’art. 32, 1º comma, stessa l. n. 47 del 1985, che subordina il rilascio della concessione in sanatoria per opere su aree sottoposte a vincolo al parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo medesimo.

Quanto argomentato in merito alla verifica del vincolo al momento in cui l’istanza di condono viene ad essere esaminata, è in linea con la giurisprudenza di questo Consiglio.
È ius receptum, infatti, che, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria per opere ricadenti in zone sottoposte a vincolo, nella specie previsto dall’art. 32 l. n. 47 del 1985, l’esistenza del vincolo va valutata al momento in cui deve essere presa in considerazione la domanda di condono, a prescindere dall’epoca della sua introduzione e, quindi, anche per le opere eseguite anteriormente all’apposizione del vincolo in questione; tale valutazione corrisponde all’esigenza di vagliare l’attuale compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente (ex multis: Cons. Stato, Ad. plen., 22.07.1999, n. 20; IV, 29.11.2012, n. 6082; IV, 11.03.2013, n. 1464; VI, 31.05.2013, n. 3015).
In relazione alla disciplina del condono edilizio della l. n. 47 del 1985 e delle connesse questioni (poste dall’art. 33) relative ai procedimenti di condono riguardanti territori con vincoli di inedificabilità relativa, si deve avere riguardo al regime vincolistico sussistente alla data di esame della domanda di sanatoria, secondo il principio tempus regit actum; quanto ai vincoli di inedificabilità assoluta, se è vero che alla stregua dell’art. 33 l. n. 47 del 1985 il vincolo di inedificabilità assoluta non può operare in modo retroattivo, tuttavia non si può considerare inesistente per il solo fatto che sia sopravvenuto all’edificazione (ciò che paradossalmente porterebbe a ritenere senz’altro sanabili gli interventi, i quali pertanto fruirebbero di un regime più favorevole di quello riservato agli abusi interessati da vincoli sopravvenuti di inedificabilità relativa); pertanto, se il vincolo di inedificabilità assoluta sopravvenuto non può considerarsi sic et simpliciter inesistente, ne discende che gli va applicato lo stesso regime della previsione generale dell’art. 32, 1º comma, stessa l. n. 47 del 1985, che subordina il rilascio della concessione in sanatoria per opere su aree sottoposte a vincolo al parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo medesimo (Cons. Stato, sez. VI, 06.05.2013, n. 2409) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.11.2014 n. 5549 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: È diffamazione definire moroso un condomino al di fuori dell’assemblea e davanti a terzi estranei.
La critica nei confronti di un condomino può legittimamente estrinsecarsi all’interno di un’assemblea condominiale o nei rapporti con l’amministratore, ma non può di certo legittimare affermazioni offensive rivolte nei confronti di terzi, tanto più se ignari ospiti della persona offesa (con riferimento alla condotta di colui che aveva definito un condomino “moroso” e “aduso a non pagare le rate condominiali”).

1. Il ricorso è infondato; occorre considerare, prima di tutto, che il travisamento, per essere rilevante in sede di legittimità, deve essere di tale portata da scardinare il costrutto argomentativo della sentenza; nel caso di specie la verità oggettiva dei fatti dedotta dal ricorrente attiene esclusivamente al mancato pagamento delle spese condominiali, circostanza che non avrebbe comportato comunque la sussistenza della invocata scriminante del diritto di critica, sia perché la parte lesa, pur ammettendo di non aver pagato le spese condominiali, ha sostenuto di essere a sua volta in credito con il condominio (il che esclude la sua morosità, quantomeno fino a prova del contrario), sia perché il diritto di critica deve essere esercitato nel giusto contesto e tale non era certamente quello in cui si è manifestata la frase diffamatoria.
2. La critica nei confronti di un condomino può legittimamente estrinsecarsi all’interno di un’assemblea condominiale o nei rapporti con l’amministratore, ma di certo non può legittimare affermazioni offensive rivolte nei confronti di terzi, tanto più se, come nel caso di specie, ignari ospiti della persona offesa.
3. Nel caso di specie, poi, l’intento diffamatorio era implicito, ma evidente, né va dimenticato che il vizio di “travisamento della prova” può essere dedotto solo nell’ipotesi di decisione di appello difforme da quella di primo grado, in quanto nell’ipotesi di doppia pronuncia conforme il limite del “devolutum” non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità, salva l’ipotesi in cui il giudice di appello, al fine di rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, richiami atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (Cassazione penale, sez. 2, 28.05.2008, n. 25883).
In tema di ricorso per cassazione, quando ci si trova dinanzi a una “doppia pronuncia conforme” e cioè a una doppia pronuncia (in primo e in secondo grado) di eguale segno (vuoi di condanna, vuoi di assoluzione), l’eventuale vizio di travisamento può essere rilevato in sede di legittimità, ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c), solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (sez. 4, n. 20395 del 10.02.2009) (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 11.11.2014 n. 46498 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: La società titolare di concessione per lo sfruttamento delle sorgenti di acqua minerale laddove chiede al comune il rilascio di concessioni edilizie per la realizzazione di un nuovo padiglione dello stabilimento termale deve versare il contributo di costruzione.
Con il ricorso introduttivo del giudizio la società <Terme di Montepulciano s.p.a.>, titolare di concessione per lo sfruttamento delle sorgenti di acqua minerale in località S. Albino, espone di aver ottenuto dal Comune di Montepulciano il rilascio di concessioni edilizie per la realizzazione di un nuovo padiglione dello stabilimento termale (n. 234 del 1994, n. 21 del 1995, n. 213 del 1995).
La società ricorrente riferisce altresì di aver chiesto e ottenuto dall’Amministrazione comunale la sospensione del pagamento degli oneri concessori, nell’attesa dell’esito del contenzioso relativo alla loro debenza, garantendo la sospensione stessa dal rilascio di polizze fideiussorie.
Con la presenta azione la società ricorrente chiede l’accertamento della non debenza degli oneri concessori relativi alle opere edili autorizzate, ciò ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 10 del 1977, nonché dell’obbligo dell’Amministrazione di restituire le somme versate in acconto e di svincolare le garanzie fideiussorie.
Il Comune di Montepulciano non si è costituito in giudizio.
...
Il ricorso non può essere accolto.
L’art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 10 del 1977 richiede, affinché un certo intervento edilizio risulti gratuito (cfr., da ultimo, la sentenza della Sezione n. 1596 del 2014), la ricorrenza di due requisiti, da un lato il <requisito oggettivo> (deve trattarsi della edificazione di opera pubblica o di interesse generale) e dall’altro il <requisito soggettivo> (essere opere realizzate da “enti istituzionalmente competenti”).
Nella specie i suddetti requisiti non paiono sussistere.
In particolare deve evidenziarsi che il soggetto richiedente è una società per azioni, che ha un oggetto sociale commerciale (mirando al “commercio sotto qualsiasi forma delle acque delle fonti e dei fanghi”: cfr. statuto societario sub doc. 1 di parte ricorrente) e che quindi non può rientrare nel concetto normativo di “enti istituzionalmente competenti”; è vero che la giurisprudenza estende l’applicazione dell’invocato art. 9, comma 1, lett. f), della legge n. 10 del 1977 anche oltre i confini soggettivi dell’ente pubblico, ma richiedendo che il soggetto privato non agisca per fini di lucro e abbia un “legame istituzionale con l’azione amministrativa volta alla cura di interessi pubblici” (Cons. Stato, sez. 4^, 28.10.2011, n. 5799; id. 08.11.2011, n. 5903), elementi assenti nella fattispecie.
Qui si è in presenza di una società lucrativa che vuole “realizzare un nuovo padiglione” nel proprio stabilimento termale, attività edificatoria che non può dirsi sottratta al pagamento degli oneri concessori
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 11.11.2014 n. 1758 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAA mente dell'art. 9, t.u. ed. costituisce regola generale ed imperativa, in materia di governo del territorio, il rispetto delle previsioni del p.r.g. che impongano, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio: tali prescrizioni -di solito contenute nelle n.t.a.- sono vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto costruttivo.
Corollari immediati di tale principio fondamentale sono:
a) che quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando è concluso il relativo procedimento;
b) che in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa;
c) l'insurrogabilità dell'assenza del piano attuativo con l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio; invero, l'obbligo dell'interessato di realizzare direttamente le opere di urbanizzazione è idoneo a sopperire solo alla mancanza fisica e materiale di tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello strumento esecutivo;
d) l'inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo, circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile edificare vanificando la funzione del piano attuativo, la cui indefettibile approvazione, se ritarda, può essere stimolata dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema;
e) la necessità dello strumento attuativo anche in presenza di zone parzialmente urbanizzate che sono comunque esposte al rischio di compromissione dei valori urbanistici e nelle quali la pianificazione di dettaglio può conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto.
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Alla luce di tale normativa la giurisprudenza ha individuato, tuttavia, un’eccezione a tale stringente necessaria presenza di strumenti urbanistici per la disciplina del territorio: il cd “lotto intercluso”.
Tale fattispecie si realizza, secondo tale impostazione, allorquando l'area edificabile di proprietà del richiedente:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al p.r.g.
In sintesi, si consente l’intervento costruttivo diretto purché si accerti la sussistenza di una situazione di fatto perfettamente corrispondente a quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo di evitare defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di attività procedimentale per l'ente pubblico.
Quindi, lo strumento urbanistico deve considerarsi superfluo posto che è stata ormai raggiunta la piena edificazione e urbanizzazione della zona interessata, raggiungendo in tal modo la scopo e i risultati perseguiti dai piani esecutivi (i.e. piano attuativo).

L’appello è fondato e merita accoglimento.
Dirimente è la circostanza che il lotto di proprietà del sig. Bilancio risulta situato nella zona B del PRG, la quale si trova in una stato di completa urbanizzazione primaria e secondaria: ci si trova di fronte al cd. lotto intercluso, essendo assicurata nella zona la sufficiente presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
A mente dell'art. 9, t.u. ed. costituisce regola generale ed imperativa, in materia di governo del territorio, il rispetto delle previsioni del p.r.g. che impongano, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio: tali prescrizioni -di solito contenute nelle n.t.a.- sono vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto costruttivo (cfr. Cons. St., sez. IV, 30.12.2008, n. 6625).
Corollari immediati di tale principio fondamentale sono:
a) che quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando è concluso il relativo procedimento (cfr. Cons. St., sez. V, 01.04.1997, n. 300);
b) che in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa (cfr. Cons. St., sez. IV, 03.11.2008, n. 5471);
c) l'insurrogabilità dell'assenza del piano attuativo con l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio; invero, l'obbligo dell'interessato di realizzare direttamente le opere di urbanizzazione è idoneo a sopperire solo alla mancanza fisica e materiale di tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello strumento esecutivo (cfr. Cons. Sr., sez. IV, 26.01.1998, n. 67; Cass. pen., sez. III, 26.01.1998, n. 302; Cons. St., sez. V, 15.01.1997, n. 39);
d) l'inconfigurabilità di equipollenti al piano attuativo, circostanza questa che impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile edificare vanificando la funzione del piano attuativo, la cui indefettibile approvazione, se ritarda, può essere stimolata dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema (cfr. Cons. St., sez. IV, 30.12.2008, n. 6625);
e) la necessità dello strumento attuativo anche in presenza di zone parzialmente urbanizzate che sono comunque esposte al rischio di compromissione dei valori urbanistici e nelle quali la pianificazione di dettaglio può conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (cfr. Cass. pen., sez. III, 19.09.2008, n. 35880).
Alla luce di tale normativa la giurisprudenza ha individuato, tuttavia, un’eccezione a tale stringente necessaria presenza di strumenti urbanistici per la disciplina del territorio: il cd “lotto intercluso”.
Tale fattispecie si realizza, secondo tale impostazione, allorquando l'area edificabile di proprietà del richiedente:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al p.r.g.
In sintesi, si consente l’intervento costruttivo diretto purché si accerti la sussistenza di una situazione di fatto perfettamente corrispondente a quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo di evitare defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di attività procedimentale per l'ente pubblico (cfr. Cons. St., sez. IV, 29.01.2008, n. 268; sez. V, 03.03.2004, n. 1013; sez. IV, Sent., 10.06.2010, n. 3699).
Quindi, lo strumento urbanistico deve considerarsi superfluo posto che è stata ormai raggiunta la piena edificazione e urbanizzazione della zona interessata, raggiungendo in tal modo la scopo e i risultati perseguiti dai piani esecutivi (i.e. piano attuativo) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.11.2014 n. 5488 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: Lottizzazioni, titoli edilizi accessibili ai confinanti. Urbanistica, il Comune deve mostrare i titoli edilizi se il vicino ritiene di essere danneggiato dal progetto.
Anche senza l'accesso civico previsto dalla riforma Severino, l'amministrazione risulta tenuta a mostrare i documenti sulla lottizzazione dopo che il confinante si è rivolto al Tribunale contro la variante.

A stabilirlo, la sentenza 07.11.2014 n. 923, pubblicata dal TAR Marche.
Fuori, quindi, dall'armadio dell'ufficio, il placet al progetto. Il Comune, infatti, è tenuto a esibire i titoli edilizi rilevanti nell'ambito del programma di lottizzazione se uno dei proprietari, che nel frattempo si è rivolto al Tribunale, coinvolti nell'iniziativa ritiene di essere danneggiato dalla variante urbanistica adottata dall'amministrazione per il terreno attiguo al suo.
E ciò anche prima della novità legislativa rappresentata dall'accesso civico introdotto dalla riforma Severino: a tanto bastano le regole del testo unico dell'edilizia e della legge sulla trasparenza amministrativa.
Il Tar Marche ha, quindi, accolto il ricorso del confinante. L'ente locale non può, infatti, rifiutare di mostrare i documenti al richiedente, che è comproprietario del lotto interessato dall'intervento edilizio.
È lo stesso dpr 380/2001 a prescrivere che dopo il rilascio di un titolo edilizio deve essere dato l'avviso all'albo pretorio e che chiunque deve avere facoltà di accedere agli atti del procedimento, visionando sia gli atti amministrativi sia gli elaborati progettuali. Sul progetto della lottizzazione, quindi, non c'è privacy che tenga.
Nella specie il vicino ha soltanto l'esigenza di verificare la presenza di eventuali abusi edilizi o altre similari evenienze che possano ledere la sua proprietà, il che non implica quindi la conoscenza di dati sensibili. Diversamente si darebbe la possibilità agli autori di abusi edilizi di poter evitare qualsiasi controllo su impulso di parte (articolo ItaliaOggi del 09.12.2014).
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SENTENZA
3. Il ricorso è fondato e va dunque accolto.
In effetti, in materia di rilascio dei titoli edilizi esistono specifiche disposizioni di legge e regolamentari che, sulla scorta della nota disposizione di cui all’art. 31 della L. n. 1150/1942, come modificato dalla c.d. legge ponte n. 765/1967, prevedono un regime di pubblicità molto più esteso di quello che, prima dell’avvento del c.d. diritto di accesso civico (D.Lgs. n. 33/2013), era contemplato dalla L. n. 241/1990.
Si veda, in particolare, l’art. 20, comma 6, del T.U. n. 380/2001, nella parte in cui stabilisce che dell’avvenuto rilascio di un titolo edilizio va dato avviso all’albo pretorio. Tale disposizione non può che essere interpretata nel senso che tale onere di pubblicazione è funzionale a consentire a qualsiasi soggetto interessato di visionare gli atti del procedimento, in ragione di quel controllo “diffuso” sull’attività edilizia che il legislatore ha inteso garantire (vedasi anche l’art. 27, comma 3, del DPR n. 380/2001).
4. Ma nel caso di specie non è nemmeno necessario applicare tali disposizioni, visto che il ricorrente è comproprietario di un lotto di terreno attiguo a quelli di proprietà della ditta controinteressata e incluso nella medesima lottizzazione, e che egli è stato asseritamente danneggiato da alcune varianti urbanistiche ed edilizie che il Comune di Recanati ha approvato negli ultimi tempi. E tale affermazione non è meramente soggettiva, visto che pende già davanti a questo Tribunale il ricorso con cui il sig. C. chiede la condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni.
5. Sussistono quindi tutti i presupposti di cui all’art. 24, comma 7, L. n. 241/1990, considerato che in subiecta materia non può essere affermata l’esistenza di un diritto alla riservatezza in capo ai controinteressati.
In effetti, il ricorrente ha solo l’esigenza di verificare la presenza di eventuali abusi edilizi o altre similari evenienze che possano ledere la sua proprietà (e non importa se si tratti di proprietà individuale o di comproprietà), il che non implica quindi la conoscenza di dati sensibili. A voler diversamente opinare si darebbe, ad esempio, la possibilità agli autori di abusi edilizi di poter evitare qualsiasi controllo su impulso di parte, accampando un inesistente diritto alla riservatezza.
Naturalmente non è scontato che i documenti oggetto di accesso siano effettivamente utili al ricorrente nell’ambito del giudizio pendente (così come è da ribadire che la proposizione di istanze di accesso non riapre ex se i termini di impugnazione di provvedimenti ormai consolidatisi), ma in questa sede il giudice deve solo verificare la non manifesta inutilità della visione degli atti oggetto della richiesta di accesso.
Il Tribunale, per quanto detto in precedenza, non ritiene che la visione degli atti in argomento sia icto oculi irrilevante rispetto alle esigenze di tutela giurisdizionale delle ragioni del sig. C..
6. In conclusione, il ricorso va accolto, con conseguente condanna del Comune di Recanati a consentire al ricorrente la visione e l’estrazione di copia degli atti indicati nell’istanza di accesso del 18/02/2014 (per la parte rimasta inevasa), chiarita con le successive note del 10/03/2014 e del 23/04/2014.

EDILIZIA PRIVATA: Il frazionamento evincibile dai titoli di provenienza anche se semplicemente richiamato costituisce elemento utile per stabilire la linea di confine tra fondi limitrofi.
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7) Il primo motivo di ricorso principale e’ infondato.
La Corte di Appello ha desunto gli elementi utili ai fini dell’individuazione del confine tra gli immobili delle parti dal rogito notarile del (OMISSIS), con il quale (OMISSIS), originaria proprietaria dell’intero fondo, alienò a (OMISSIS) la particella 39/b di are due, venuta ad esistenza a seguito del tipo di frazionamento catastale redatto dal geom. (OMISSIS) in data 28.03.1959; frazionamento che, benché non allegato all’atto di vendita del (OMISSIS), il giudice del gravame ha ritenuto che fosse stato richiamato implicitamente, ma in modo preciso e puntuale, dai contraenti.
A tali conclusioni la sentenza impugnata è pervenuta sulla base di una motivazione immune da vizi logici, che muove dal rilievo secondo cui la particella 39/b non esisteva prima della vendita del (OMISSIS), e fu creata proprio a seguito del predetto piano di frazionamento ed in ragione dell’alienazione de qua; il che ha indotto la Corte territoriale a ritenere, anche in considerazione del breve lasso di tempo intercorso tra l’avvenuto frazionamento e l’atto di compravendita al quale il medesimo era strumentale, che le parti, nel riportare nell’atto di compravendita la particella 39/b quale elemento di identificazione del bene immobile venduto, abbiano inteso effettuare la vendita sulla base del predetto piano, al quale, quindi, rimasero inequivocabilmente vincolate.
Così statuendo, la sentenza gravata non si è discostata dal principio enunciato dalla giurisprudenza, secondo cui
il tipo di frazionamento, se espressamente richiamato nel titolo, concorre all’individuazione dell’immobile senza bisogno di particolari espressioni né di apposita sottoscrizione; trattandosi di documento redatto proprio allo scopo di individuare una determinata area, è sufficiente il semplice richiamo che ad esso venga fatto nel titolo, per ritenere che le parti, anche senza sottoscrivere il documento né indicare nel titolo la finalità del richiamo, abbiano inteso far riferimento a quel determinato bene (Cass. 07.02.2008 n. 2857; Cass. 26.01.1998 n. 711).
Il giudice di appello, infatti, ha interpretato il contratto di compravendita del (OMISSIS) e, fornendo una lettura plausibile e ragionevole degli accordi in esso racchiusi, ha maturato il convincimento secondo cui l’indicazione della particella 39/b, venuta ad esistenza solo a seguito del frazionamento del 28.03.1959, costituisse un inequivocabile riferimento a tale atto, ed equivalesse ad espresso richiamo dello stesso da parte di entrambi i contraenti.
La valutazione espressa al riguardo dalla Corte territoriale, essendo sorretta da una motivazione immune da vizi logici e giuridici, si sottrae al sindacato di questa Corte, in quanto,
come è noto, in tema di interpretazione del contratto, l’accertamento della volontà degli stipulanti, in relazione al contenuto del negozio, si traduce in un’indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito. Correttamente, pertanto, il giudice del gravame ha escluso la necessità di ricorrere, ai fini della determinazione della linea di confine, al criterio sussidiario e residuale delle mappe catastali, avendo proceduto a tale operazione sulla base di elementi desunti dal titolo negoziale intercorso tra la dante causa dell’attrice e il convenuto, di cui ha ritenuto che il tipo di frazionamento (OMISSIS) costituisse parte integrante.
Secondo l’orientamento di questa Corte, infatti,
in tema di azione di regolamento di confini, per l’individuazione della linea di separazione fra fondi limitrofi la base primaria dell’indagine del giudice di merito è costituita dall’esame e dalla valutazione dei titoli d’acquisto delle rispettive proprietà; solo la mancanza o l’insufficienza di indicazioni sul confine rilevabile dai titoli, ovvero la loro mancata produzione, giustifica il ricorso ad altri mezzi di prova, ivi comprese le risultanze delle mappe catastali (Cass. 09.10.2006 n. 21686; Cass. 15.11.2007 n, 23720; Cass. 06.05.2013 n. 10501) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 06.11.2014 n. 23695 - link a http://renatodisa.com).

ATTI AMMINISTRATIVINon sussiste alcun obbligo per la pubblica amministrazione di pronunciarsi su un'istanza del privato volta a ottenere da essa un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile dall'esterno l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità dell'atto amministrativo.
In effetti, l'esercizio del potere di autotutela e la discrezionalità dell'attività in tema di atti di ritiro discende dall'esigenza di certezza delle situazioni giuridiche e di efficienza gestionale che sono alla base dell’agire della pubblica amministrazione e che verrebbero a trovare detrimento da una ritenuta doverosità del riesame.

Infatti, non sussiste alcun obbligo per la pubblica amministrazione di pronunciarsi su un'istanza del privato volta a ottenere da essa un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile dall'esterno l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità dell'atto amministrativo (da ultimo Cons. Stato, Sez. IV, 26.08.2014, n. 4309).
In effetti, l'esercizio del potere di autotutela e la discrezionalità dell'attività in tema di atti di ritiro discende dall'esigenza di certezza delle situazioni giuridiche e di efficienza gestionale che sono alla base dell’agire della pubblica amministrazione e che verrebbero a trovare detrimento da una ritenuta doverosità del riesame (Cons. Stato, Sez. IV, 07.07.2014, n. 3426)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 06.11.2014 n. 1733 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Non comporta alcuna illegittimità la circostanza che una sola delle imprese, facenti parte di un unico raggruppamento temporaneo di imprese costituito per tale procedura, abbia effettuato il sopralluogo ai fini della conoscenza dei luoghi d'esecuzione del contratto, in quanto tale adempimento è strumentale alla conoscenza e, quindi, alla miglior formulazione dell'offerta, ossia ad uno scopo che, in caso di associazione temporanea di imprese, è raggiunto anche quando a ciò provveda una sola delle imprese associate, riferendone alle altre.
Il secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti è infondato.
L'art. 1, lett. H, del Disciplinare di gara reca l'obbligo, a pena di esclusione, di produrre attestazione rilasciata dal Responsabile Unico del Procedimento di avvenuto sopralluogo.
A parte i dubbi circa la legittimità di tale clausola –che, non essendo siffatto obbligo previsto per gli appalti di servizi in alcuna norma né di legge né regolamentare (TAR Toscana, Sez. I, 17.07.2014, n. 1308; TAR Sicilia–Palermo, Sez. II, 18.12.2012 n. 2656), appare in contrasto con il principio di tassatività delle clausole di esclusione di cui all’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, nel testo introdotto dal d.l. 13.05.2011, n. 70, conv. con mod. dalla l. 12.07.2011, n. 106– essa non prevedeva, in caso di partecipazione di Associazione Temporanea di Imprese, la necessità che il sopralluogo avvenisse ad opera di tutti i soggetti ad essa partecipanti.
Ed infatti, in materia di lavori pubblici la giurisprudenza del Consiglio di Stato è nel senso che non comporta alcuna illegittimità la circostanza che una sola delle imprese, facenti parte di un unico raggruppamento temporaneo di imprese costituito per tale procedura, abbia effettuato il sopralluogo ai fini della conoscenza dei luoghi d'esecuzione del contratto, in quanto tale adempimento è strumentale alla conoscenza e, quindi, alla miglior formulazione dell'offerta, ossia ad uno scopo che, in caso di associazione temporanea di imprese, è raggiunto anche quando a ciò provveda una sola delle imprese associate, riferendone alle altre (Cons. Stato, Sez. VI, 04.01.2002, n. 35).
La giurisprudenza citata invece dalla ricorrente (Cons. Stato, Sez. V, 28.05.2009, n. 2230) non risulta pertinente, atteso che nel caso in quella sede affrontato la lex specialis di gara specificamente prevedeva che, in caso di raggruppamento temporaneo di imprese, tutte le partecipanti dovessero procedere al sopralluogo obbligatorio
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 06.11.2014 n. 1733 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: Sull'illegittimità di una ordinanza sindacale contingibile ed urgente nei confronti di un privato circa la rimozione di una frana interessante una strada pubblica.
Anche a prescindere dall’esistenza o meno dei presupposti del provvedimento contingibile e urgente, si ravvisa, comunque, nell'operato dell'amministrazione comunale, uno sviamento per causa falsa, come denunciato con il secondo ed il quarto motivo di ricorso.
L'ordinanza contingibile ed urgente per pubblica e privata incolumità, infatti, può dirigersi nei confronti di privati proprietari per lavori da eseguirsi su beni che sono nella loro disponibilità, ma non può valere ad ordinare al privato l'esecuzione di lavori pubblici. In quest'ultima fattispecie incombe sull'ente proprietario della strada il potere-dovere di provvedere all'esecuzione dei lavori d'urgenza, salvo il recupero delle relative spese nei confronti del soggetto responsabile del danno.
Non appare quindi legittima questa sorta di sanzione ripristinatoria atipica, non prevista dall'ordinamento, mediante la quale l'ente comunale ordina un facere (esecuzione di lavori pubblici) su strada non privata ma comunale, lì dove avrebbe dovuto procedere alla realizzazione dei lavori di ripristino ponendo conseguentemente le relative spese a carico del responsabile del danno causato.
Inoltre, il notevole lasso di tempo (quasi cinque mesi) trascorso dall'incidente che avrebbe provocato il dissesto stradale conferma che l'ordinanza impugnata appare più diretta all'esecuzione coattiva dei lavori di ripristino a carico dei ricorrenti, che non a porre rimedio a una situazione di pericolo urgente e imprevedibile per la pubblica e privata incolumità.
Ugualmente, la verifica di eventuali alterazioni alla regimentazione delle acque meteoriche ed il ripristino di scoli o scarichi naturali eventualmente occlusi a seguito del dissesto franoso, costituiscono attività di accertamento tipicamente amministrative ed interessanti beni pubblici e che, pertanto, non possono essere demandate ai privati.

... per l'annullamento:
a) dell'ordinanza contigibile ed urgente n. 65 del 26.06.2014 a firma del Sindaco del Comune di Creazzo, notificata in data 26.06.2014, avente ad oggetto il ripristino della sede stradale di via Ronchi nel tratto a monte dei mappali catastalmente censiti al foglio 1, mapp. 882 e 887, provvedimento con cui è ordinato nell'interesse pubblico ai ricorrenti gli interventi di messa in sicurezza e ripristino definitivo della sede stradale in corrispondenza del fronte di frana entro 45 giorni dalla notifica del provvedimento stesso, disponendo altresì altre misure ed incombenti a carico dei ricorrenti;
b) degli atti istruttori e presupposti alla emissione dell'ordinanza di cui sub a), inclusa la perizia geologica del 10.02.2014, integrata in data 03.03.2014;
...
Rilevato che:
- con l’ordinanza contingibile ed urgente di cui in epigrafe, il Comune di Creazzo, in seguito a uno smottamento che aveva interessato nel febbraio 2014 la sede stradale di via Ronchi, ha ordinato ai ricorrenti, proprietari di un terreno situato a confine con la detta via, a tutela della pubblica incolumità ed integrità del patrimonio pubblico:
a) la completa rimozione del materiale di scavo depositato sui terreni di loro proprietà (deposito ritenuto concausa dell’evento franoso);
b) la verifica che non siano sopravvenute alterazioni alla regimentazione delle acque meteoriche, ripristinando eventuali scoli o scarichi naturali eventualmente occlusi a seguito del dissesto franoso; c) il ripristino della sede stradale in corrispondenza del fronte di frana;
Ritenuto che:
- L’eccezione d’inammissibilità del ricorso per mancata notifica dello stesso ad almeno uno dei controinteressati -identificati quest’ultimi negli abitanti della zona interessata dall’evento franoso- sia manifestamente infondata, trattandosi di soggetti non indicati nel testo del provvedimento impugnato e che in ogni caso non possono ricevere alcuna diretta lesione dall’accoglimento del ricorso, essendo questo diretto a stabilire se le predette opere debbano essere eseguite dai ricorrenti o dall’amministrazione;
- Prima di passare all’esame del merito dell’impugnativa, va evidenziato che i ricorrenti non hanno interesse a contestare la suddetta ordinanza nella parte in cui ha imposto loro la rimozione del materiale di scavo dalla ripa stradale, avendovi essi peraltro già provveduto (come comprovato dalla documentazione prodotta), incentrandosi, invece, il ricorso sulla contestazione degli obblighi di cui ai sopraindicati punti b) e c);
- In tale parte l’ordinanza impugnata appare manifestamente illegittima;
- Ed infatti, anche a prescindere dall’esistenza o meno dei presupposti del provvedimento contingibile e urgente, si ravvisa, comunque, nell'operato dell'amministrazione comunale, uno sviamento per causa falsa, come denunciato con il secondo ed il quarto motivo di ricorso.
L'ordinanza contingibile ed urgente per pubblica e privata incolumità, infatti, può dirigersi nei confronti di privati proprietari per lavori da eseguirsi su beni che sono nella loro disponibilità, ma non può valere ad ordinare al privato l'esecuzione di lavori pubblici. In quest'ultima fattispecie incombe sull'ente proprietario della strada il potere-dovere di provvedere all'esecuzione dei lavori d'urgenza, salvo il recupero delle relative spese nei confronti del soggetto responsabile del danno;
- Non appare quindi legittima questa sorta di sanzione ripristinatoria atipica, non prevista dall'ordinamento, mediante la quale l'ente comunale ordina un facere (esecuzione di lavori pubblici) su strada non privata ma comunale, lì dove avrebbe dovuto procedere alla realizzazione dei lavori di ripristino ponendo conseguentemente le relative spese a carico del responsabile del danno causato;
- Inoltre, il notevole lasso di tempo (quasi cinque mesi) trascorso dall'incidente che avrebbe provocato il dissesto stradale conferma che l'ordinanza impugnata appare più diretta all'esecuzione coattiva dei lavori di ripristino a carico dei ricorrenti, che non a porre rimedio a una situazione di pericolo urgente e imprevedibile per la pubblica e privata incolumità;
- Ugualmente, la verifica di eventuali alterazioni alla regimentazione delle acque meteoriche ed il ripristino di scoli o scarichi naturali eventualmente occlusi a seguito del dissesto franoso, costituiscono attività di accertamento tipicamente amministrative ed interessanti beni pubblici e che, pertanto, non possono essere demandate ai privati;
- Per tutti i suesposti motivi il ricorso va accolto nei suddetti limiti, con conseguente annullamento dell'ordinanza del Sindaco del Comune di Creazzo del 26.06.2014 nella parte in cui impone ai ricorrenti il ripristino della sede stradale e le suddette attività di verifica e di eventuale ripristino degli scoli pubblici (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 06.11.2014 n. 1363 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Ai fini dell’accertamento della controprestazione offerta dal corruttore, in tema di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, la nozione di “altra utilità” quale oggetto della dazione o della promessa al pubblico ufficiale non va circoscritta soltanto alle utilità di natura patrimoniale, ma comprende tutti quei vantaggi sociali le cui ricadute patrimoniali siano mediate e indirette (nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto accluso nel novero delle “altre utilità” anche le elargizioni di somme di denaro al circolo sportivo di cui faceva parte il corrotto pubblico ufficiale).
Inoltre, ai fini della dazione come corrispettivo della fattispecie prevista dall’art. 319 c.p., non è in alcun modo rilevante un lasso di tempo ampio con cui questa viene effettuata.
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Il ricorso è fondato e va accolto per le ragioni di seguito indicate.
Per quel che attiene al primo profilo di doglianza, erronea deve ritenersi l’impostazione argomentativa seguita dal Tribunale allorquando mostra di fondare la sua decisione sul carattere indiretto del vantaggio che sarebbe stato offerto al pubblico ufficiale dai vertici della società S.A., muovendo essenzialmente dal rilievo che il denaro, quale prezzo dell’ipotizzata corruzione, sarebbe stato corrisposto non al G., ma al gruppo sportivo dei Vigili che costituirebbe un suo ‘centro di interessi’.
Al riguardo, invero, la linea interpretativa tracciata da questa Suprema Corte (Sez. 6, n. 24656 del 18/06/2010, dep. 30/06/2010, Rv. 248001) è chiara nel ritenere che,
in tema di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, ai fini dell’accertamento della controprestazione offerta dal corruttore, la nozione di ‘altra utilità’ quale oggetto della dazione o della promessa al pubblico ufficiale non va circoscritta soltanto alle utilità di natura patrimoniale, ma comprende tutti quei vantaggi sociali le cui ricadute patrimoniali siano mediate e indirette.
In tal senso si è precisato, inoltre, che la nozione di ‘altra utilità’, quale oggetto della dazione o promessa, ricomprende qualsiasi vantaggio materiale o morale, patrimoniale o non patrimoniale, che abbia valore per il pubblico agente (Sez. 6, n. 29789 del 27/06/2013, dep. 11/07/2013, Rv. 255617).
Sotto altro profilo, v’è da osservare che nella decisione impugnata il Tribunale ha ritenuto ‘singolare’ il dato di fatto inerente alla ‘notevole’ distanza temporale tra l’accordo corruttivo –risalente a data precedente il maggio 2009– e il pagamento del prezzo della corruzione –collocato nel 2011– omettendo tuttavia di considerare le implicazioni della regula iuris definita da questa Suprema Corte (Sez. 6, n. 49547 del 03/10/2003, dep. 31/12/2003, Rv. 227888) allorquando ha precisato che il reato di corruzione di cui all’art. 319 cod. pen. sussiste ogni qual volta la dazione in favore del pubblico ufficiale costituisca il compenso dei favore ottenuto, a nulla rilevando che la stessa sia avvenuta a distanza di tempo dalla formazione dell’atto (in applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto corretta la decisione dei giudici di merito che aveva qualificato come corruzione propria l’emissione da parte di un assessore regionale di decreti di finanziamento di opere pubbliche, poi aggiudicate da un imprenditore edile, che aveva versato al primo, quale compenso per il favore ottenuto, un contributo elettorale in occasione di consultazioni svoltesi a distanza di anni) (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 05.11.2014 n. 45847 - link a http://renatodisa.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA - VARI: Condannato il proprietario di alcuni cani, per aver disturbato il riposo dei vicini non impedendo agli animali di latrare e per le esalazioni nauseabonde degli escrementi degli animali medesimi.
1. Il ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato e proposto fuori dai casi consentiti.
2. I motivi di gravame, essendo tra loro connessi, possono essere congiuntamente esaminato.
2.1. Dalla completa e corretta motivazione della sentenza impugnata emerge come la penale responsabilità sia stata fondata sulle precise e circostanziate dichiarazione della denunciante, (OMISSIS).
La quale, in dibattimento, ha deposto affermando che la sua abitazione è situata in uno degli edifici condominiali adiacenti all’abitazione del ricorrente e che, fin dall’anno 2008, si era verificata una situazione intollerabile, tanto da dover ricorrere, con il coniuge, alle cure di un psicologo e ad assumere farmaci per riposare, a causa dei forti cattivi odori (intensa puzza che penetrava nell’abitazione impedendo di aprire le imposte) e del rumore costante causati dalla presenza presso la dimora del (OMISSIS), di vari cani, custoditi dall’imputato nel giardino (confinante con quello della (OMISSIS)).
In particolare, il continuo abbaiare (di giorno e di notte) dei cani e l’odore determinato dalle deiezioni degli stessi erano diventati, a partire da quell’anno, talmente intollerabili che la (OMISSIS), dopo avere inutilmente richiesto all’imputato di modificare la situazione, si era rivolta dapprima ai vigili ed ai Carabinieri e successivamente anche al Sindaco, tanto che in più occasioni erano intervenuti gli organi competenti dell’A.S.L. proprio per verificare le modalità con cui erano tenuti i cani; tant’è che era stata emessa nei confronti del (OMISSIS) un’ordinanza sindacale (acquisita agli atti del processo) che gli imponeva lo spostamento degli animali.
I sopralluoghi del personale dell’Asl, come da deposizione del competente funzionario, avevano consentito di accertare la presenza di cinque cani, situati nelle immediate vicinanze della recinzione dell’edificio condominiale confinate, ed era stato rilevato l’odore abbastanza sgradevole; che, nonostante l’invito a spostare i cani e a tenere pulito il box che li accoglieva, le lamentele erano continuate al punto che da un ulteriore sopralluogo del (OMISSIS) era stata nuovamente accertata la presenza di un forte odore di escrementi e infine solo nell'(OMISSIS), a seguito di un incontro concordato con l’imputato, era stata accertata al presenza di due soli cani.
2.2. Alla luce di tali circostanze –dopo aver valutato l’inattendibilita’ di un teste a difesa (OMISSIS), che aveva riferito della presenza di due cani e dell’assenza di cattivi odori, in palese contrasto con quanto direttamente accertato dal personale della Asl, e dopo aver valutato l’irrilevanza di altro teste ( (OMISSIS)) che aveva parlato di riscontrate pulizie del box ma in un periodo successivo a quello delle verifiche dell’Asl– il Tribunale è pervenuto ad affermare la penale responsabilità dell’imputato con riferimento ad entrambi i reati ascrittigli sul condivisibile rilievo che, quanto al reato previsto dall’articolo 674 c.p., la configurabilità della fattispecie doveva ritenersi integrata sia per l’entità delle esalazioni maleodoranti (quali riferite dalla parte offesa e dal teste (OMISSIS) dell’Asl), determinate dalla presenza di più animali nel cortile dell’imputato (confinante con l’edificio condominiale interessato, ed in particolare con l’abitazione della parte civile, situata al piano terra) ed imputabili a quest’ultimo (ed alla mancata adozione delle cautele idonee ad evitare disturbi e molestie ai vicini) e sia per l’evidente superamento della richiesta tollerabilità, in ragione degli effetti provocati da tali esalazioni (dei quali aveva diffusamente riferito in dibattimento la parte civile).
Quanto al reato di cui all’articolo 659 c.p. il Tribunale ha osservato, rispondendo alle specifiche doglianze mosse dalla difesa – che, se è vero che la condotta produttiva di rumori deve incidere sulla tranquillità pubblica (in quanto l’interesse tutelato dalla norma è la pubblica quiete) e che la sola parte civile (costituita nel presente processo) ha presentato querela ed intrapreso specifiche azioni (anche giudiziarie) nei confronti dell’imputato, è altrettanto vero che, ai fini della configurabilità del reato, è sufficiente che l’evento di disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di persone, come era infatti accaduto nel caso di specie posto che, secondo quanto riferito dal teste (OMISSIS), vari erano stati i condomini che si erano lamentati delle modalità di tenuta dei cani, pur se, dopo che si era discusso della possibilità di intraprendere azioni giudiziarie e delle spese da sostenere, l’assemblea condominiale aveva deciso, a maggioranza di non procedere in via giudiziale, non incidendo ciò sulla potenzialità diffusiva del disturbo e non escludendo, quindi, l’esistenza del reato.
3. Alla luce di una motivazione così completa che, immune da qualsiasi rilievo di illogicità, ha tenuto conto di tutte le emergenze processuali acquisite nel corso del dibattimento, ed alla luce della corretta applicazione dei principi di diritto, quanto alla sussunzione del fatto nell’ambito delle fattispecie incriminatrici contestate, la doglianza –quantunque ricondotta nel vizio di motivazione ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e)– si risolve in una censura meramente fattuale, del tutto disancorata dalle emergenze probatorie che risultano dal testo del provvedimento impugnato, e fonda su deduzioni di carattere assertivo smentite dagli esiti dell’istruttoria dibattimentale riportati in sentenza.
Deve essere solo precisato, a conferma della corretta soluzione fornita dal giudice del merito, che la contravvenzione prevista dall’articolo 674 c.p. è configurabile anche nel caso di molestie olfattive con la specificazione che quando non esista una predeterminazione normativa dei limiti delle emissioni, si deve avere riguardo, condizione nella specie sussistente, al criterio della normale tollerabilità di cui all’articolo 844 c.c. (Sez. 3, n. 34896 del 14/07/2011, Ferrara, Rv. 250868), che comunque costituisce un referente normativo, per il cui accertamento non è certo necessario disporre perizia tecnica, potendo il giudice fondare il suo convincimento, come avvenuto nel caso di specie, su elementi probatori di diversa natura e dunque, anche ricorrendo alle sole dichiarazioni testimoniali dei confinanti (Sez. 3, n. 21138 del 02/04/2013, Bruzzi, non mass.).
Questa Corte ha già affermato che il reato previsto dall’articolo 674 c.p. è integrato dalle esalazioni maleodoranti provenienti da stalle, gabbie o promananti da escrementi di animali in numero rilevante (Sez. 1, n. 678 del 29/11/1995, dep. 22/01/1996, P.M. in proc. Viale, Rv. 203793) o quelle dovute alla presenza di numerosi cani tenuti in condizioni di sporcizia (Sez. 1, n. 10336 del 28/09/1993, Grandoni, dep. 15/11/1993, Rv. 197894).
Quanto invece al reato previsto dall’articolo 659 c.p., il tribunale si è attenuto al principio di diritto più volte affermato da questa Corte (da ultimo, Sez. 3, n. 40329 del 22/05/2014, Mocci, non mass.) secondo il quale, per aversi disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, è necessario che i rumori, gli schiamazzi e le altre fonti sonore indicate nella norma superino la normale tollerabilità ed abbiano attitudine a disturbare un numero indeterminato di persone, essendo stata tale ultima circostanza espressamente affermata in sentenza (v. pag. 5) sulla base della testimonianza (OMISSIS) (v. sub. 2.2. del considerato in diritto) ed anche sulla base della deposizione (OMISSIS) (v. 2.1. del considerato in diritto).
Consegue l’inammissibilità del ricorso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.11.2014 n. 45230 - link a http://renatodisa.com).

INCARICHI PROGETTUALI: La clausola contrattuale che sottoponga il sorgere del diritto al compenso da parte del professionista incaricato del progetto di un’opera all’intervenuto finanziamento dell’opera progettata non limita la responsabilità del committente il progetto, giacché non influisce sulle conseguenze del suo eventuale inadempimento, ma piuttosto delimita il contenuto del mandato conferito, facendo derivare i diritti del mandatario dal progetto finanziato e non dal progetto solo redatto.
Ne consegue che una clausola siffatta, non incidendo sulle conseguenze dell’inadempimento del predisponente, non può ritenersi vessatoria e non è, pertanto, abbisognevole di specifica approvazione per iscritto.

6. I motivi settimo, settimo-bis e ottavo del ricorso principale vanno esaminati congiuntamente per ragioni di connessione logica.
Con il settimo motivo si lamenta falsa applicazione dell’articolo 345 cod. proc. civ., per avere la Corte territoriale ritenuto di dover esaminare solo gli atti devoluti all’esame del collegio arbitrale.
Con il motivo settimo-bis si lamentano violazione o falsa applicazione degli articoli 1362, 1364, 1370 e 1341 cod. civ..
Il ricorrente si duole del fatto che la Corte territoriale abbia ritenuto che la convenzione inter partes subordinasse il pagamento del corrispettivo all’erogazione dei fondi, laddove l’accordo si riferiva alla concessione del finanziamento. D’altra parte, il contrario convincimento espresso dalla sentenza impugnata avrebbe dovuto comportare la qualificazione in termini di vessatorietàdella clausola così intesa.
Con ulteriore articolazione del motivo, si lamenta l’assenza di motivazione quanto al fatto che il (OMISSIS) non potesse comunque ottenere il riconoscimento della percentuale minima del 3%.
Con l’ottavo motivo si lamentano vizi motivazionali e violazione degli articoli 115 e 116 cod. proc. civ., in relazione all’esame dei documenti attestanti l’avvenuta concessione dei finanziamenti. Le censure non sono meritevoli di accoglimento.
La Corte di appello, dopo aver ribadito la validità della clausola contrattuale che sottoponga il sorgere del diritto al compenso da parte del professionista incaricato del progetto di un’opera pubblica, all’intervenuto finanziamento della stessa, ha osservato che nel caso mancava la prova dell’erogazione dei fondi alla AUSL; e che seppure una delibera li aveva assegnati a detto ente, proprio questo provvedimento aveva posto specifiche condizioni, fra cui la redazione dello stato di fattibilità dell’opera (pag. 11 della sentenza), che, nella specie, non risultavano essersi verificate. E dopo aver ripercorso le vicissitudini del contratto, ha concluso che non vi era la prova, gravante sul professionista, della avvenuta erogazione del finanziamento, che semmai in base agli elementi istruttori acquisiti non risultava mai corrisposto all’Azienda sanitaria.
Ha in tal modo puntualmente applicato e recepito la giurisprudenza di legittimità al riguardo, i cui principi giova appena riassumere:
A) il compenso spettante al professionista, ancorché elemento naturale del contratto di prestazione d’opera intellettuale, è liberamente determinabile dalle parti e può anche formare oggetto di rinuncia da parte del professionista, salva l’esistenza di specifiche norme proibitive che, limitando il potere di autonomia delle parti, rendano indisponibile il relativo diritto per la prestazione professionale e vincolante la determinazione del compenso stesso in base a tariffe. Tale soluzione non si pone in contrasto neppure col principio di inderogabilità dei minimi tariffari, previsto dalla Legge 05.05.1976, n. 340, come interpretata autenticamente dalla Legge 01.07.1977, n. 404, articolo 6, comma 1, normativa cui ha fatto seguito il Decreto Legge 02.03.1989, n. 65, articolo 4, comma 12-bis, convertito con modificazioni nella Legge 26 aprile 1989, n. 155;
B) la clausola in questione non limita, inoltre, la responsabilità del committente il progetto, giacché non influisce sulle conseguenze del suo eventuale inadempimento, ma piuttosto delimita il contenuto del mandato conferito, facendo derivare i diritti del mandatario dal progetto finanziato e non dal progetto solo redatto; per cui, non incidendo sulle conseguenze dell’inadempimento del predisponente, non può ritenersi vessatoria e non è, pertanto, abbisognevole di specifica approvazione per iscritto (Cass. 16620/2013; 19000/2004);
C) la condizione in essa apposta intanto può ritenersi avverata in quanto i fondi oggetto del finanziamento siano materialmente erogati all’amministrazione richiedente, non essendo sufficiente a tal fine la loro semplice assegnazione o, addirittura, la semplice inclusione dell’ente nell’elenco degli aventi diritto da parte delle autorità preposte alla loro concessione (Cass. Sez. Un. 18450/2005 e succ. conformi).
Al lume di questi principi, del tutto correttamente la sentenza impugnata, dopo aver esaminato proprio i documenti (ciò che peraltro esclude la dedotta violazione degli articoli 115 e 116 cod. proc. civ.), li ha interpretati nel senso che da essi non emergeva alcuna prova dell’effettiva erogazione dei fondi, peraltro gravante proprio sul professionista; con eguale conseguenza per l’ulteriore profilo della censura che investe il compenso del 3% che, secondo la clausola n. 10 del contratto, riprodotta dallo stesso ricorrente, rappresenta un acconto del corrispettivo, talché non può che seguire la sorte della domanda principale.
E d’altra parte il (OMISSIS) difetta di interesse a sostenere che nel caso la condizione apposta nella clausola si limitava a subordinare il compenso alla mera assegnazione alla AUSL del finanziamento, in quanto in tale ipotesi sarebbe mancata (nella Delib. e) nel contratto l’indicazione dei mezzi finanziari per far fronte all’obbligazione assunta nei confronti del professionista, determinandone la nullità assoluta ed insanabile per effetto della normativa contenuta nel Regio Decreto n. 2440 del 1923, nonché nella legislazione successiva (Cass. Sez. Un. 12195/2005 e succ.) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 30.10.2014 n. 23073 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: In materia edilizia la differente qualificazione tra provvedimenti di rinnovo della concessione edilizia e di proroga dei termini di ultimazione dei lavori è riscontrabile nel senso che mentre il rinnovo della concessione presuppone la sopravvenuta inefficacia dell'originario titolo concessorio e costituisce, a tutti gli effetti, una nuova concessione, la proroga è atto sfornito di propria autonomia, che accede all'originaria concessione ed opera semplicemente uno spostamento in avanti del suo termine (iniziale o finale) di efficacia.
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Per giurisprudenza pacifica, il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, prima della sua scadenza, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione che ha rilasciato il titolo ablativo che accerti l'impossibilità del rispetto del termine, ciò che avviene solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore.
Ed invero, l'apposizione dei termini di efficacia della concessione edilizia e gli istituti della proroga (nei casi consentiti dalla legge) e della decadenza di cui all’art. 15 D.P.R. 06.06.2001, n. 380 servono ad assicurare la certezza temporale dell'attività di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio, anche al fine di garantire un efficiente controllo sulla conformità dell'intervento edilizio a suo tempo autorizzato con il relativo titolo.
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La decadenza dal titolo edilizio opera di diritto e non è richiesta a tal fine l’adozione di un provvedimento espresso.
Nonostante la presenza di un minoritario orientamento diverso, la tesi prevalente in giurisprudenza che il Collegio condivide, si basa sulla lettera della legge, che fa dipendere la decadenza non da un atto amministrativo, costitutivo o dichiarativo, ma dal semplice fatto dell'inutile decorso del tempo.
Diversamente opinando, del resto, si farebbe dipendere la decadenza non solo da un comportamento dei titolari del permesso di costruire ma anche della Pubblica Amministrazione che potrebbe in taluni casi adottare un provvedimento espresso e in altri casi no, con possibili ipotesi di disparità di trattamento tra situazioni che nella sostanza si presenterebbero identiche.
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Il provvedimento di pronuncia di decadenza del titolo edilizio per la sua natura di atto dovuto è espressione di un potere strettamente vincolato non implicante, quindi, valutazioni discrezionali ma meri accertamenti tecnici, senza necessità della comunicazione di avvio del procedimento.

Ritiene anzitutto il Collegio di condividere le conclusioni dell’ufficio regionale quanto all’affermata decadenza della concessione edilizia n. 14/1986 a far data dall’11.03.1990.
Non è superfluo ricordare che in materia edilizia la differente qualificazione tra provvedimenti di rinnovo della concessione edilizia e di proroga dei termini di ultimazione dei lavori è riscontrabile nel senso che mentre il rinnovo della concessione presuppone la sopravvenuta inefficacia dell'originario titolo concessorio e costituisce, a tutti gli effetti, una nuova concessione, la proroga è atto sfornito di propria autonomia, che accede all'originaria concessione ed opera semplicemente uno spostamento in avanti del suo termine (iniziale o finale) di efficacia.
Ebbene, la prima richiesta inoltrata dalla sig.ra P. al comune di Maracalagonis è inequivocamente una mera richiesta di proroga, oltretutto immotivata, del termine di validità della concessione, il cui decorso non era mai stato sospeso dall’amministrazione che non risulta essere mai stata investita del problema relativo all’asserita presenza nelle vicinanze del cantiere di un traliccio dell’alta tensione.
In relazione ad essa il diniego dell’amministrazione è corretto, restando palesemente infondata la censura con la quale la ricorrente lamenta che il termine di efficacia della concessione n. 14/1986 era sospeso per effetto della predetta situazione di impossibilità nella prosecuzione dei lavori.
Per giurisprudenza pacifica, infatti, il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, prima della sua scadenza, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione che ha rilasciato il titolo ablativo che accerti l'impossibilità del rispetto del termine, ciò che avviene solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore (cfr: Tar Piemonte, n. 666 del 05.06.2012; Consiglio di Stato, sez. IV, 23.02.2012, n. 974).
Ed invero, l'apposizione dei termini di efficacia della concessione edilizia e gli istituti della proroga (nei casi consentiti dalla legge) e della decadenza di cui all’art. 15 D.P.R. 06.06.2001, n. 380 servono ad assicurare la certezza temporale dell'attività di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio, anche al fine di garantire un efficiente controllo sulla conformità dell'intervento edilizio a suo tempo autorizzato con il relativo titolo (così Cons. di St., V, 23.11.1996, n. 1414).
Mancando nel caso di specie sia una tempestiva richiesta di proroga, sia un formale provvedimento di sospensione del termine da parte dell’amministrazione, la concessione edilizia n. 14/1986 era da ritenersi decaduta fin dall’11.03.1990.
Sotto questo profilo non è decisivo in senso contrario l’argomento della ricorrente secondo il quale la decadenza della concessione doveva essere accertata dall’amministrazione comunale con un provvedimento espresso che, a sua volta, doveva essere preceduto dall’avviso di inizio del procedimento.
In primo luogo, la decadenza dal titolo edilizio opera di diritto e non è richiesta a tal fine l’adozione di un provvedimento espresso.
Nonostante la presenza di un minoritario orientamento diverso, la tesi prevalente in giurisprudenza che il Collegio condivide, si basa sulla lettera della legge, che fa dipendere la decadenza non da un atto amministrativo, costitutivo o dichiarativo, ma dal semplice fatto dell'inutile decorso del tempo (cfr. TAR Pescara, n. 61 del 04.02.2013; Consiglio di Stato, sentenza n. 2915/2012).
Diversamente opinando, del resto, si farebbe dipendere la decadenza non solo da un comportamento dei titolari del permesso di costruire ma anche della Pubblica Amministrazione che potrebbe in taluni casi adottare un provvedimento espresso e in altri casi no, con possibili ipotesi di disparità di trattamento tra situazioni che nella sostanza si presenterebbero identiche (cfr. Tar Roma sentenza n. 5530/2005; Consiglio di Stato, sentenza n. 2915/2012).
In ogni caso, nella vicenda in esame l’effetto ricognitorio connesso all’atto di decadenza formale asseritamente mancante, meramente accertativo –come detto- del verificarsi del presupposto fattuale del decorso del tempo, ben può rinvenirsi nella stessa impugnata determina n. 12 del 10.03.2008, nella quale, in parte motiva, si richiama per esteso la motivazione della nota regionale n. 5252/2008 sopra ricordata che ribadiva la sopravvenuta inefficacia della concessione edilizia n. 14/1986 per decorso del termine.
Con riguardo al secondo profilo della censura (mancato invio dell’avviso di inizio del procedimento), deve invece rilevarsi che il provvedimento di pronuncia di decadenza del titolo edilizio per la sua natura di atto dovuto è espressione di un potere strettamente vincolato non implicante, quindi, valutazioni discrezionali ma meri accertamenti tecnici, senza necessità della comunicazione di avvio del procedimento (cfr: Cons. Stato, Sez. V, n. 5691 dell’08.11.2012) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 30.10.2014 n. 880 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La mancata indicazione nel verbale di operazioni singolarmente prese in considerazione (quali, a titolo di esemplificazione, l’identificazione del soggetto responsabile della custodia dei plichi, ovvero il luogo di custodia dei plichi stessi nel tempo che separa ogni seduta dalla successiva) non può essere di per sé elevato a vizio del procedimento nel profilo della violazione di legge, stante l’acclarata assenza al riguardo di specifiche regole procedimentali a livello di disciplina generale.
In ordine alle modalità di conservazione delle offerte la giurisprudenza non risulta essersi unanimemente pronunciata sulla questione.
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Un primo orientamento risulta invero rigoroso in ordine all’individuazione delle misure da adottare per garantire la conservazione e l’integrità dei plichi contenenti le offerte, in modo che ne sia assicurata la segretezza, e richiede che le cautele adottate siano menzionate ed indicate nel verbale. di gara.
Secondo tale indirizzo “rigorista”, l’integrità dei plichi contenti le offerte costituisce garanzia della segretezza delle stesse e della parità di trattamento tra tutti i concorrenti, assicurando il rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità cui deve conformarsi l’azione amministrativa.
L’adesione a tale ordine di argomenti comporta le seguenti conseguenze:
1) l’individuazione di un soggetto responsabile della custodia dei plichi o di un consegnatario degli stessi;
2) l’insufficienza di verbalizzazioni con generico riferimento ai locali di custodia dei plichi, senza precisare se gli stessi –e, in particolare, proprio le buste recanti l’offerta tecnica- siano stati nuovamente risigillati o comunque richiusi in modo adeguato così da evitare qualsivoglia ipotesi di manomissione;
3) l’obbligo della commissione di adottare le cautele idonee a garantire la segretezza degli atti di gara ed a prevenire rischi di manomissioni, indicando nel verbale tali cautele e dando atto a verbale della integrità dei plichi;
4) nel verbale deve risultare il nominativo di colui cui siano materialmente consegnati i plichi, che ne assume le conseguenti responsabilità, ovvero –con chiarezza e univocità– deve essere indicato l’ufficio cui sono consegnati e all’interno del quale essi vanno conservati, con individuazione immediata del suo responsabile; in qualsiasi momento, ogni autorità giurisdizionale o amministrativa (e, a seconda dei casi e delle relative funzioni, anche di vigilanza) dalla lettura dei verbali di consegna deve poter agevolmente accertare quali siano stati i passaggi dei plichi, ove essi siano stati collocati nel corso del tempo, chi abbia posto mano su di essi e ogni altra circostanza attinente alla loro integrità e conservazione.
Va soggiunto che, sempre in coerenza con tale indirizzo della giurisprudenza, le cautele osservate possono reputarsi idonee allo scopo soltanto se con esse si verifica la conservazione dei plichi in luogo chiuso, non accessibile al pubblico, e con l’individuazione di un soggetto o ufficio responsabile dell’inaccessibilità del luogo a terzi; e che,sebbene non necessitano formule sacramentali, la verbalizzazione è legittima se, oltre ad elencare le cautele adottate, indica, sotto la responsabilità dei verbalizzanti, che le cautele sono state efficaci in quanto i plichi sono integri.
Sempre secondo l’orientamento giurisprudenziale ora in esame, le garanzie a cautela della integrità dei plichi integrerebbero una fattispecie di pericolo, non una fattispecie di danno.
In conseguenza di ciò, quindi, sarebbe sufficiente che dalle risultanze processuali emerga che, per inosservanza di norme precauzionali, la documentazione di gara sia rimasta esposta al rischio di manomissione per ritenere invalide le operazioni di gara, e senza che a carico dell’interessato possa configurarsi un onere di provare un concreto evento di danno.
Detto altrimenti, al fine di inficiare le operazioni di gara sarebbe pertanto di per sé condizione necessaria e sufficiente la mera esposizione al rischio di manomissione della documentazione oggetto di valutazione da parte della Commissione giudicatrice della gara medesima.
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Un secondo indirizzo giurisprudenziale reputa –per contro- che la mancata emersione dagli atti di gara dell’osservanza delle sopradescritte cautele assume soltanto un profilo indiziario rispetto alla dimostrazione di elementi che facciano dubitare della c.d. “genuinità” dei plichi, necessitando comunque la prova che vi sia stata una violazione dell’integrità e segretezza dei plichi medesimi.
Si è affermato in tal senso che la mancanza di una dettagliata indicazione nei verbali di gara delle specifiche modalità di custodia dei plichi e degli strumenti utilizzati per garantire la segretezza delle offerte non costituisce -di per sé- motivo di illegittimità delle operazioni di gara, dovendo invece aversi riguardo al fatto che, in concreto, non si sia verificata l’alterazione della documentazione.
Questo diverso indirizzo non condivide pertanto il più rigoroso orientamento precedentemente descritto, reputandolo espressione di un indirizzo meramente formalistico, con la conseguenza che la mancata indicazione in dettaglio, nei verbali di gara, delle specifiche modalità di custodia dei plichi e degli strumenti utilizzati per garantire la segretezza delle offerte non costituirebbe -di per sé motivo- di illegittimità del verbale medesimo e della complessiva attività posta in essere dalla Commissione di gara, laddove il concreto andamento di quest’ultima, ovvero ulteriori elementi non inducano a dubitare della corretta conservazione.
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La questione sottoposta all’esame del Collegio attiene dunque agli adempimenti della Commissione giudicatrice della gara che devono accompagnare le determinazioni di valutazione delle offerte, ove queste non si esauriscano in un’unica seduta: adempimenti che, come rilevato innanzi, investono le modalità di conservazione e di custodia dei plichi a prevenzione di manomissioni da cui possa derivare l’alterazioni di atti del procedimento quali inizialmente introdotti dai partecipati alla gara.
Va evidenziato al riguardo che si tratta di operazioni materiali che non coinvolgono la volontà negoziale dell’Amministrazione, ma che sono finalizzate a garantire la genuinità della documentazione sulla quale la Commissione giudicatrice della gara è chiamata ad esprimersi.
Invero, sul punto vi è una evidente lacuna normativa: le oscillazioni giurisprudenziali –che hanno evidenziato come possano esservi diverse soluzioni ragionevoli della questione– si sono verificate poiché sia il D.L.vo 163 del 2006, sia il suo regolamento attuativo approvato con D.P.R. 05.10.2010, n. 207, non recano sul punto disposizioni di dettaglio.
IL regolamento reca, al suo art. 117, un limitato rifermento alle sedute di gara, per le quali, in particolare, è prevista la possibilità di sospensione e di aggiornamento a data successiva, con esclusione della fase di apertura delle buste contenenti l’offerta economica.
In assenza di disposizioni espresse (che in materia risulterebbero essenziali per ridurre il contenzioso e rendere più certi gli esiti delle gare), e poiché l’ordinamento si sta senz’altro evolvendo verso l’affermazione di regole che non si basino su soluzioni formalistiche, il Collegio ritiene, quindi, che la mancata indicazione nel verbale di operazioni singolarmente prese in considerazione (quali, a titolo di esemplificazione, l’identificazione del soggetto responsabile della custodia dei plichi, ovvero il luogo di custodia dei plichi stessi nel tempo che separa ogni seduta dalla successiva) non possa essere di per sé elevato a vizio del procedimento nel profilo della violazione di legge, stante l’acclarata assenza al riguardo di specifiche regole procedimentali a livello di disciplina generale.
In assenza di disposizioni statali di rango legislativo o regolamentare, peraltro, le singole amministrazioni possono disciplinare le modalità di conservazione dei plichi con proprie regole generali ed astratte, volte ad evitare che i singoli funzionari possano liberamente decidere il da farsi.

6.2. Posto ciò, Olicar ha qui dedotto a sostegno della propria tesi (secondo la quale l’anzidetta mancanza inficerebbe ex se l’esito del procedimento di scelta del contraente) la circostanza che in tutti verbali di gara non sarebbe dato di rinvenire riferimenti di sorta in ordine alle modalità di conservazione delle offerte tecniche già aperte nel lasso di tempo intercorrente tra la conclusione della relativa seduta della Commissione di gara e quella successivamente tenuta da quest’ultima: circostanza, questa, confortata dalla stessa lettura del doc. 2 del fascicolo di primo grado.
Olicar, in particolare, richiama a conforto della propria tesi la sentenza n. 978 dd. 18.02.2013 resa da questa stessa Sezione, laddove tra l’altro –e per quanto qui segnatamente interessa– si afferma che “se il verbale indica che i plichi sono conservati in luogo chiuso, senza ulteriori specificazioni, e se in ciascun verbale si dichiara che i plichi pervenuti risultano tutti integri e debitamente sigillati e firmati sui lembi di chiusura, facendo il verbale prova fino a querela di falso, si deve escludere che sia avvenuta una manomissione e che le operazioni di gara siano illegittime”.
Ad avviso dell’appellata, quindi, l’enunciazione giurisprudenziale surriferita indicherebbe le circostanze minimali che dovrebbero essere menzionate nel verbale delle operazioni di gara al fine di garantire l’osservanza dei principi di segretezza, di intangibilità e di non conoscibilità delle offerte, assolutamente essenziali per il legittimo svolgimento dei procedimenti ad evidenza pubblica e che nella specie risulterebbero -per contro- palesemente violati a causa dell’omissione riscontrata al riguardo nel verbale che è stato redatto.
6.3.1. Il Collegio, per parte propria, rileva che nella stessa sentenza riferita da Olicar a sostegno della propria tesi si dà atto che la giurisprudenza non risulta essersi unanimemente pronunciata sulla questione.
6.3.2. Un primo orientamento risulta invero rigoroso in ordine all’individuazione delle misure da adottare per garantire la conservazione e l’integrità dei plichi contenenti le offerte, in modo che ne sia assicurata la segretezza, e richiede che le cautele adottate siano menzionate ed indicate nel verbale. di gara (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 27.07.2011, n. 4487; Sez. V, 21.05.2010, n. 3203, e 12.12.2009, n. 7804).
Secondo tale indirizzo “rigorista”, l’integrità dei plichi contenti le offerte costituisce garanzia della segretezza delle stesse e della parità di trattamento tra tutti i concorrenti, assicurando il rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità cui deve conformarsi l’azione amministrativa (così la Cons. Stato, Sez. V, 21.05.2010 n. 3203; cfr., altresì, negli stessi termini Cons. Stato, Sez. V, 20.03.2008 n. 1219).
L’adesione a tale ordine di argomenti comporta le seguenti conseguenze:
1) l’individuazione di un soggetto responsabile della custodia dei plichi o di un consegnatario degli stessi;
2) l’insufficienza di verbalizzazioni con generico riferimento ai locali di custodia dei plichi, senza precisare se gli stessi –e, in particolare, proprio le buste recanti l’offerta tecnica- siano stati nuovamente risigillati o comunque richiusi in modo adeguato così da evitare qualsivoglia ipotesi di manomissione (cfr. sul punto l’anzidetta sentenza di Cons. Stato, Sez. V, 21.05.2010 n. 3203);
3) l’obbligo della commissione di adottare le cautele idonee a garantire la segretezza degli atti di gara ed a prevenire rischi di manomissioni, indicando nel verbale tali cautele e dando atto a verbale della integrità dei plichi;
4) nel verbale deve risultare il nominativo di colui cui siano materialmente consegnati i plichi, che ne assume le conseguenti responsabilità, ovvero –con chiarezza e univocità– deve essere indicato l’ufficio cui sono consegnati e all’interno del quale essi vanno conservati, con individuazione immediata del suo responsabile; in qualsiasi momento, ogni autorità giurisdizionale o amministrativa (e, a seconda dei casi e delle relative funzioni, anche di vigilanza) dalla lettura dei verbali di consegna deve poter agevolmente accertare quali siano stati i passaggi dei plichi, ove essi siano stati collocati nel corso del tempo, chi abbia posto mano su di essi e ogni altra circostanza attinente alla loro integrità e conservazione.
Va soggiunto che, sempre in coerenza con tale indirizzo della giurisprudenza, le cautele osservate possono reputarsi idonee allo scopo soltanto se con esse si verifica la conservazione dei plichi in luogo chiuso, non accessibile al pubblico, e con l’individuazione di un soggetto o ufficio responsabile dell’inaccessibilità del luogo a terzi; e che,sebbene non necessitano formule sacramentali, la verbalizzazione è legittima se, oltre ad elencare le cautele adottate, indica, sotto la responsabilità dei verbalizzanti, che le cautele sono state efficaci in quanto i plichi sono integri (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 23.06.2011, n. 3803, 30.06.2011, n. 3902, e 27.07.2011, n. 4487).
Sempre secondo l’orientamento giurisprudenziale ora in esame, le garanzie a cautela della integrità dei plichi integrerebbero una fattispecie di pericolo, non una fattispecie di danno.
In conseguenza di ciò, quindi, sarebbe sufficiente che dalle risultanze processuali emerga che, per inosservanza di norme precauzionali, la documentazione di gara sia rimasta esposta al rischio di manomissione per ritenere invalide le operazioni di gara, e senza che a carico dell’interessato possa configurarsi un onere di provare un concreto evento di danno (così Cons. Stato, Sez. V, 21.05.2010, n. 3203).
Detto altrimenti, al fine di inficiare le operazioni di gara sarebbe pertanto di per sé condizione necessaria e sufficiente la mera esposizione al rischio di manomissione della documentazione oggetto di valutazione da parte della Commissione giudicatrice della gara medesima (Cons. Stato, Sez. V, 16.03.2011, n. 1617).
6.3.3. Un secondo indirizzo giurisprudenziale reputa –per contro- che la mancata emersione dagli atti di gara dell’osservanza delle sopradescritte cautele assume soltanto un profilo indiziario rispetto alla dimostrazione di elementi che facciano dubitare della c.d. “genuinità” dei plichi, necessitando comunque la prova che vi sia stata una violazione dell’integrità e segretezza dei plichi medesimi.
Si è affermato in tal senso che la mancanza di una dettagliata indicazione nei verbali di gara delle specifiche modalità di custodia dei plichi e degli strumenti utilizzati per garantire la segretezza delle offerte non costituisce -di per sé- motivo di illegittimità delle operazioni di gara, dovendo invece aversi riguardo al fatto che, in concreto, non si sia verificata l’alterazione della documentazione (così Cons. Stato, Sez. V, 22.02.2011 n. 1094, 25.07.2006 n. 4657, 10.05.2005 n. 2342 e 20.09.2001 n. 4973; Sez. IV, 05.10.2005 n. 5360).
Questo diverso indirizzo non condivide pertanto il più rigoroso orientamento precedentemente descritto, reputandolo espressione di un indirizzo meramente formalistico, con la conseguenza che la mancata indicazione in dettaglio, nei verbali di gara, delle specifiche modalità di custodia dei plichi e degli strumenti utilizzati per garantire la segretezza delle offerte non costituirebbe -di per sé motivo- di illegittimità del verbale medesimo e della complessiva attività posta in essere dalla Commissione di gara, laddove il concreto andamento di quest’ultima, ovvero ulteriori elementi non inducano a dubitare della corretta conservazione.
6.3.4. La questione sottoposta all’esame del Collegio attiene dunque agli adempimenti della Commissione giudicatrice della gara che devono accompagnare le determinazioni di valutazione delle offerte, ove queste non si esauriscano in un’unica seduta: adempimenti che, come rilevato innanzi, investono le modalità di conservazione e di custodia dei plichi a prevenzione di manomissioni da cui possa derivare l’alterazioni di atti del procedimento quali inizialmente introdotti dai partecipati alla gara.
Va evidenziato al riguardo che si tratta di operazioni materiali che non coinvolgono la volontà negoziale dell’Amministrazione, ma che sono finalizzate a garantire la genuinità della documentazione sulla quale la Commissione giudicatrice della gara è chiamata ad esprimersi.
Invero, sul punto vi è una evidente lacuna normativa: le oscillazioni giurisprudenziali –che hanno evidenziato come possano esservi diverse soluzioni ragionevoli della questione– si sono verificate poiché sia il D.L.vo 163 del 2006, sia il suo regolamento attuativo approvato con D.P.R. 05.10.2010, n. 207, non recano sul punto disposizioni di dettaglio.
IL regolamento reca, al suo art. 117, un limitato rifermento alle sedute di gara, per le quali, in particolare, è prevista la possibilità di sospensione e di aggiornamento a data successiva, con esclusione della fase di apertura delle buste contenenti l’offerta economica.
6.3.5. In assenza di disposizioni espresse (che in materia risulterebbero essenziali per ridurre il contenzioso e rendere più certi gli esiti delle gare), e poiché l’ordinamento si sta senz’altro evolvendo verso l’affermazione di regole che non si basino su soluzioni formalistiche, il Collegio ritiene, quindi, che la mancata indicazione nel verbale di operazioni singolarmente prese in considerazione (quali, a titolo di esemplificazione, l’identificazione del soggetto responsabile della custodia dei plichi, ovvero il luogo di custodia dei plichi stessi nel tempo che separa ogni seduta dalla successiva) non possa essere di per sé elevato a vizio del procedimento nel profilo della violazione di legge, stante l’acclarata assenza al riguardo di specifiche regole procedimentali a livello di disciplina generale.
In assenza di disposizioni statali di rango legislativo o regolamentare, peraltro, le singole amministrazioni possono disciplinare le modalità di conservazione dei plichi con proprie regole generali ed astratte, volte ad evitare che i singoli funzionari possano liberamente decidere il da farsi.
Non dovendosi applicare nella gara de qua specifiche disposizioni di ius scriptum, il Collegio deve pertanto a questo punto soffermarsi sugli adempimenti complessivamente compiuti dalla Commissione a salvaguardia della segretezza delle offerte, dell’integrità degli atti di gara e del pericolo di manomissione.
L’atto da esaminare per verificare se vi sono state idonee operazioni di salvaguardia della genuinità e della integrità dei plichi è ovviamente il verbale che deve accompagnare le operazioni di gara.
Il verbale è redatto in via ordinaria per ogni adunanza dell’organo collegiale ed ha funzione ricognitiva e documentale delle operazioni compiute e delle deliberazioni assunte.
L’art. 78, comma 1, del D.L.vo 163 del 2006 indica gli elementi informativi essenziali e minimali da cui deve essere assistito il verbale da redigersi per “ogni contratto”.
Ivi, peraltro, come sopra osservato, il legislatore non ha preso in alcuna considerazione le modalità di custodia dei plichi nella fase che intercorre fra una seduta e l’altra: ossia, ancora una volta non si rinviene nell’ordinamento un puntuale dato normativo al quale raccordare il giudizio di sufficienza della verbalizzazione e ricavare, quindi, il contestato elemento invalidante della gara.
Queste notazioni di fondo, pertanto, inducono il Collegio a concludere nel senso che –fermi restando sul piano funzionale i principi di sufficienza e di esaustività del verbale- la mancata e pedissequa indicazione in ciascun verbale di gara delle operazioni specificatamente finalizzate alla custodia dei plichi non può tradursi, con carattere di automatismo, in effetto viziante del procedimento di scelta del contraente, non potendosi pertanto collegare per implicito all’insufficienza della verbalizzazione il pregiudizio alla segretezza ed all’integrità delle offerte.
Tale conclusione risulta, del resto, coerente al generale principio di conservazione degli atti giuridici, il quale porta ad escludere che l’atto deliberativo possa essere viziato per incompletezza dell’atto descrittivo delle operazioni materiali, tecniche ed intellettive ad esso preordinate, salvo i casi in cui puntuali regole dettate dall’Amministrazione aggiudicatrice indichino il contenuto essenziale del verbale.
Ne consegue che ogni contestazione del concorrente -volta ad ipotizzare una possibile manomissione, o esposizione a manomissione dei plichi, idonea ad introdurre un vulnus alla regolarità del procedimento di selezione del contraente- non può trovare sostegno nel mero dato formale delle indicazioni che si rinvengono nel verbale redatto per ogni adunanza della Commissione preposta all’esame delle offerte, ma deve essere suffragata dall’allegazione di puntuali circostanze ed elementi che, su un piano di effettività e di efficienza causale, abbiano inciso sulla c.d. “genuinità” dell’offerta, che va preservata in corso di gara.
Né va sottaciuto che, per quanto le modalità di conservazione siano state accurate e rigorose (ad es. chiusura in cassaforte o altro) non si potrà mai escludere che vi sia stata una dolosa manipolazione, ad esempio ad opera di chi conosceva la combinazione per aprire la cassaforte), e -nondimeno- che chi sia interessato a farlo possa darne la prova; e –-per contro, e altrettanto ragionevolmente- il fatto che le modalità di conservazione siano state meno rigorose non autorizza a presumere che la manipolazione vi sia stata, a meno che non vengano prodotte in tal senso prove o quanto meno indizi.
In linea di principio tutto quanto sopra consente pure di affermare che sussiste un vizio invalidante del procedimento di scelta del contraente soltanto qualora esso sia positivamente provato (se del caso all’esito o nel corso di un processo penale), o quanto meno vi siano seri indizi, che la documentazione di gara sia stata manipolata negli intervalli fra un’operazione e l’altra, e che in tale ordine delle cose dalla menzione a verbale delle modalità di conservazione della documentazione medesima discende il mero effetto della precostituzione di una prova dotata di fede privilegiata, a’ sensi degli artt. 2699 e 2700 cod. civ., idonea quindi a prevenire o a rendere comunque più difficoltose future contestazioni: ma, per quanto detto innanzi, tali menzioni a verbale, ancorché accurate nel loro contenuto, comunque non impediranno l’esercizio dei poteri della autorità giudiziaria ovvero, a chi vi abbia interesse, il fornire la prova dell’avvenuta manipolazione, se del caso anche con il procedimento di querela di falso di cui all’art. 77 e ss. cod. proc. amm. e di cui alla disciplina dell’art. 221 cod. proc. civ. ivi presupposta; e -allo stesso modo- la mancanza o l’incompletezza della verbalizzazione medesima, ovvero l’eventuale inadeguatezza delle modalità di custodia prescelte avranno soltanto l’effetto di rendere meno arduo il compito di chi voglia raggiungere quella prova, ovvero rappresentare quegli indizi (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.10.2014 n. 5060 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAPannelli liberi in condominio. L'assemblea non può vietare l'impianto nelle parti comuni. Il tribunale di Milano: sul fotovoltaico la maggioranza qualificata indica solo le modalità.
L'assemblea non può vietare al condomino di utilizzare il tetto per la posa di pannelli fotovoltaici per la produzione di energia elettrica a uso esclusivo del proprio appartamento. Gli altri comproprietari, infatti, possono tutt'al più deliberare con la maggioranza qualificata di cui all'art. 1122-bis c.c. di prescrivere al condomino delle modalità alternative per la realizzazione dell'opera o imporre cautele a salvaguardia della stabilità, della sicurezza o del decoro architettonico dell'edificio condominiale. Il condomino interessato alla costruzione dell'impianto può quindi limitarsi a manifestare tale sua intenzione all'amministratore, informandolo del contenuto specifico e delle modalità di esecuzione dell'intervento.

Questi i chiarimenti contenuti nell'interessante sentenza 07.10.2014 n. 11707, con la quale il TRIBUNALE di Milano, Sez. XIII civile, ha fatto applicazione della nuova fattispecie di cui all'art. 1122-bis introdotto dalla legge di riforma del condominio n. 220/2012.
Nella specie il condomino proprietario dell'ultimo piano intendeva installare sul tetto dello stabile condominiale otto pannelli fotovoltaici per la produzione di energia elettrica a uso del proprio appartamento e, a tale scopo, si era premurato di avvertire del suo proposito l'amministratore, inviandogli uno schema relativo all'ubicazione e alla forma dei pannelli. L'assemblea condominiale, nel valutare il punto all'ordine del giorno relativo a tale intervento, aveva quindi negato al comproprietario la possibilità di procedere all'installazione degli stessi. Di qui l'impugnazione della deliberazione assembleare.
Il tribunale di Milano ha quindi esaminato la vicenda alla luce del predetto art. 1122-bis c.c. che, di fatto, ha introdotto un vero e proprio diritto soggettivo dei condomini a utilizzare le parti comuni per l'installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili a uso esclusivo delle singole unità immobiliari. La norma in questione, che a prima vista può apparire singolare nella cornice del diritto condominiale, deve essere però interpretata, come correttamente messo in evidenza dal giudice meneghino, alla luce dei criteri generali di utilizzo dei beni comuni di cui all'art. 1102 c.c., in base al quale ciascun comproprietario può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.
Fermo lo schema procedimentale previsto dal citato art. 1122-bis c.c., dovere del condomino di informare preventivamente l'amministratore, il quale a sua volta riferisce all'assemblea, il tribunale di Milano ha quindi efficacemente messo in rilievo come l'organo assembleare esorbiti dalle proprie competenze laddove si arroghi il diritto di vietare tout court al condomino di realizzare un intervento del genere. Anche perché il legislatore ha comunque previsto la possibilità che l'assemblea, a maggioranza qualificata, possa tutelare le parti comuni sia prescrivendo al condominio modalità alternative di realizzazione dell'impianto sia imponendogli ulteriori cautele a salvaguardia dell'edificio condominiale sia subordinandone l'esecuzione alla prestazione di idonea garanzia per i danni eventuali.
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Le novità introdotte con la riforma. Resta il limite invalicabile del danno.
Con la riforma del condominio è stata consentita l'installazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili (fotovoltaico, solare termico ecc.) destinati al servizio di singole unità immobiliari sul lastrico solare, su ogni altra idonea superficie comune e sulle parti di proprietà individuale dell'interessato.
Se un condomino utilizza detti spazi di proprietà esclusiva non ci sono particolari problemi, ma non possono essere arrecati danni alle parti comuni (per esempio collocando i pannelli in giardino davanti alla finestra delle scale con conseguente riduzione della luminosità), né è possibile creare fastidiose immissioni luminose tali da obbligare i vicini all'inevitabile chiusura degli infissi: in tal caso infatti questi ultimi possono rivolgersi al giudice per richiedere la modifica dell'inclinazione dei pannelli in modo da evitare la riflessione della luce solare.
In ogni caso deve essere rispettato il decoro architettonico dell'edificio. Tale limite, nonostante il silenzio del legislatore, a differenza di quanto prescritto per l'installazione di antenne private, dovrebbe riguardare pure l'installazione di impianti fotovoltaici. Del resto tale conclusione sembra trovare indiretta conferma nella legge di riforma della disciplina condominiale che prevede, a tutela della stabilità, della sicurezza o del decoro architettonico dell'edificio, che l'assemblea condominiale possa prescrivere modalità alternative di esecuzione dei lavori o imporre cautele.
Pannelli solari e modifiche alle parti comuni. Merita di essere precisato che se il singolo condomino intende realizzare gli impianti sopra indicati è libero di agire senza interpellare l'amministratore e poi l'assemblea. Ciò è particolarmente evidente se gli impianti sono realizzati nella sola struttura immobiliare di chi è titolare dell'alloggio al cui servizio sono destinati: in tal caso non essendovi alcuna invasione nelle parti collettive il diritto di proprietà dell'alloggio permette al singolo di eseguire i lavori in piena libertà.
Esiste però un'eccezione a questa regola. Qualora l'installazione degli impianti richieda necessariamente modificazioni delle parti comuni, l'interessato deve darne comunicazione all'amministratore, indicando il contenuto specifico e le modalità di esecuzione degli interventi. Se si presume che, nella quasi totalità dei casi, il condomino non sia un tecnico professionista, questa comunicazione dovrebbe essere accompagnata da una relazione tecnica che evidenzi quanto prescritto dalla norma. La stessa ha quindi lo scopo di permettere all'amministratore e all'assemblea di evidenziare all'interessato un eventuale intervento sostitutivo rispetto a quello preventivato di contenuto meno invasivo per le parti condominiali coinvolte.
I poteri dell'assemblea. L'assemblea può intervenire e imporre, con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno i due terzi del valore dell'edificio, adeguate modalità alternative di esecuzione o imporre cautele a salvaguardia della stabilità, della sicurezza o del decoro architettonico dell'edificio. L'assemblea, con la medesima maggioranza, può altresì subordinare l'installazione dei pannelli alla prestazione, da parte dell'interessato, di idonea garanzia per i danni eventuali.
Tale disciplina coglie quindi in pieno l'esigenza di tutelare l'estetica e l'aspetto architettonico dell'edificio. Tuttavia non si comprende perché occorra una maggioranza così alta, vista la necessità di tutela dell'interesse della collettività a fronte di quello di un singolo condomino. Poiché si tratta di una forma di tutela dell'edificio da eventuali danni che potrebbero derivare a causa dell'intervento del singolo, a rigor di logica sarebbe stato più corretto prescrivere le ordinarie maggioranze dell'assemblea di prima e seconda convocazione.
La ripartizione del lastrico. Uno degli aspetti più problematici dell'installazione da parte del singolo di pannelli solari (fotovoltaici o solare termico) sul tetto o su altre parti comuni riguarda la necessità di garantire, ai sensi dell'art. 1102 c.c., il pari utilizzo agli altri condomini.
Certo è che non è possibile occupare in via permanente tutto o quasi il lastrico o il cortile o il tetto. Per questo motivo è tecnicamente impossibile, per esempio, che in un palazzo di dieci piani tutti i condomini possano utilizzare il tetto per posare i propri pannelli solari in quanto lo spazio non è sufficiente. In altre parole, ciascun comproprietario potrebbe avere interesse a installare pannelli per produrre energia, ma potrebbe non essere sufficiente per tutti la superficie a disposizione, o sopportabile dalla struttura il peso di più impianti ecc. Dette eventualità fanno sì che la disponibilità dell'installazione non sia affatto scontata, ma debba essere valutata caso per caso, considerando la volontà e gli interessi di tutti i condomini.
In effetti è vero che il singolo condomino può usare la cosa comune a suo piacimento, secondo le proprie necessità e convenienze, e nella sua interezza, indipendentemente dal fatto che sia titolare di un piccolo o grosso appartamento, ma ciò non deve però danneggiare gli altri condomini. In quest'ottica è molto importante quanto affermato dalla legge di riforma del condominio, la quale prevede che l'assemblea, a richiesta degli interessati, proceda a ripartire l'uso del lastrico solare e delle altre superfici comuni, salvaguardando le diverse forme di utilizzo previste dal regolamento di condominio o comunque in atto, che si potranno eventualmente comprimere, ma non sopprimere del tutto (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.12.2014).

CONDOMINIOVillette a schiera nel condominio. Beni comuni. Per la Cassazione necessario fare riferimento al rogito.
La nozione di «condominio» in senso proprio non riguarda solamente gli edifici che si estendono in verticale ma si può applicare anche ai corpi di fabbrica adiacenti orizzontalmente (come i villini «a schiera»). Anche questi ultimi possono essere dotati di strutture portanti e di impianti essenziali comuni «se non risulta il contrario dal titolo» (Cassazione, sentenza 8066/2005). Un principio che è divenuto norma, contenuta nell’articolo 1117-bis del Codice civile (introdotto dalla legge 220/2012).
La Corte di Cassazione (Sez. II civile, sentenza 06.10.2014 n. 20986) si è occupata, di recente, della fattispecie riguardante i proprietari di una villetta (attori) che convenivano in giudizio il condominio per accertare che la villa di loro proprietà non faceva parte della compagine condominiale. Questi condòmini non avevano pagato le spese e avevano ricevuto un decreto ingiuntivo, al quale avevano fatto opposizione.
I giudici della Cassazione, preliminarmente, precisavano che, per parlare di condominio, è necessario non solo indagare sulla funzione delle parti comuni ma anche sull’atto d’acquisto (il «titolo»). Solo così si può rimuovere ogni dubbio sulla comproprietà (in comunione) di determinati beni. La Corte d’appello aveva ritenuto che la comproprietà di alcuni beni derivasse direttamente dal titolo d’acquisto della proprietà, in ragione della formulazione letterale dell’atto.
Atto dove peraltro non risultavano individuate le parti comuni tra l’edificio acquistato dai ricorrenti e gli altri edifici inseriti nel complesso immobiliare, ma si prevedeva espressamente l’acquisto della quota di 39/100 dei diritti sulle parti comuni del condominio di cui l’immobile faceva parte. La Cassazione, acquisendo il ragionamento della Corte d’appello, ha ritenuto che la partecipazione dei padroni delle villette alla comunione non poteva comunque essere esclusa dall’accertamento che l’immobile non fruisse dei beni e servizi comuni.
L’accertamento della natura non condominiale di un bene –per mancanza del presupposto della relazione di accessorietà strumentale e funzionale con le unità immobiliari comprese nel condominio- non esclude quindi l’eventuale comunione su di esso instaurata per volontà delle parti, sulla base del contenuto dell’atto di acquisto dell’immobile. I proprietari delle villette sono stati così giudicati vincolati al pagamento degli oneri condominiali
   (articolo Il Sole 24 Ore del 02.12.2014).

EDILIZIA PRIVATAServe la Dia per il soppalco. Tar Campania e permessi di costruire.
Non basta la Dia ma serve il permesso di costruire quando si scopre che nel soppalco c'è il bagno, per quanto chimico: ciò significa che i locali sono comunque abitabili.

È quanto emerge dalla sentenza 25.09.2014 n. 5027, pubblicata dal TAR Campania-Napoli, Sez. IV.
Confermato l'ordine di demolizione di due soppalchi di otto metri quadrati ciascuno impostati a due metri dal calpestìo.
Non ha buon gioco il proprietario a sostenere che si tratta di semplici magazzini. In realtà dal sopralluogo emerge che si tratta di strutture servite da una scala, dotate di wc, perfettamente abitabili anche perché posti a un'altezza compatibile con la natura residenziale, vale a dire a un metro settanta centimetri dalla copertura.
In realtà si tratta di un'opera qualificabile come ristrutturazione edilizia ai sensi dell'articolo 10 del testo unico sull'edilizia, come tale soggetta al rilascio del permesso di costruire, aumentando la superficie utile. E il soppalco deve ritenersi abitabile sia per la presenza del bagno chimico sia per la presenza di un bagno chimico.
Ancora: per l'ordinanza di demolizione emessa dall'ente locale non sussiste alcun obbligo da parte dell'amministrazione di comunicare l'avvio del procedimento, essendo questa un atto repressivo tipizzato e vincolato, per il quale, dunque, non è richiesta alcuna partecipazione del privato destinatario, che non avrebbe alcuna utilità, vista la natura dell'atto.
Al proprietario del manufatto non resta che pagare le spese processuali al Comune (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.12.2014).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza è pacificamente orientata nel ritenere che per l'ordinanza di demolizione non sussiste alcun obbligo della P.A. di comunicare l'avvio del procedimento, essendo questa un atto repressivo tipizzato e vincolato, per il quale, dunque, non è richiesta alcuna partecipazione del privato destinatario, che non avrebbe alcuna utilità, stante la natura dell’atto.
Infine, va respinta la censura sotto il profilo della violazione delle disposizioni sulla previa comunicazione di avvio del procedimento.
Contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, la giurisprudenza è pacificamente orientata nel ritenere che per l'ordinanza di demolizione non sussiste alcun obbligo della P.A. di comunicare l'avvio del procedimento, essendo questa un atto repressivo tipizzato e vincolato, per il quale, dunque, non è richiesta alcuna partecipazione del privato destinatario, che non avrebbe alcuna utilità, stante la natura dell’atto (ex plurimis, solo per citare alcune tra le più recenti, Cons. St., sez. VI 31.05.2013 n. 3010; id., 24.05.2013 n. 2873; sez. V, 06.06.2012, n. 3337; TAR Napoli, sez. VIII, 26.03.2014 n. 1780; id., sez. III, 20.03.2014, n. 1596; sez. VII, 05.03.2014, n. 1332; id., 01.10.2012, n. 4005; sez. II, 14.12.2012, n. 5214; sez. IV, 17.01.2014, n. 314; id., 08.04.2013, n. 1830) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 25.09.2014 n. 502 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa trasformazione di un’area boscata di mq. 277 in zona pavimentata con calcestruzzo cementizio hanno indubbiamente mutato la conformazione urbanistica del territorio e, come tali, richiedevano il preventivo rilascio del permesso di costruire ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 10 del D.P.R. n. 380/2001 oltre che della autorizzazione paesaggistica trattandosi di zona vincolata ai sensi del D.Lgs. 22.01.2004 n. 42 in virtù del D.M. 22.12.1965 recante dichiarazione di notevole interesse pubblico ai sensi della L. 29.06.1939 n. 1497.
Si aggiunga che tale conclusione è coerente con gli approdi della giurisprudenza amministrativa secondo cui occorre il titolo concessorio per tutte le opere che modifichino stabilmente il terreno per un uso per cui sia necessaria una preventiva valutazione di opportunità e di convenienza per l'armonioso sviluppo dell'aggregato urbano.
Rientra, pertanto, tra tali opere lo sbancamento di un terreno, pur in assenza di opere in muratura, dando luogo a modificazione della precedente conformazione di una determinata area e dell’ambiente circostante.

L’argomentazione non persuade.
A conclusioni opposte deve pervenirsi in considerazione delle dimensioni e della natura del variato assetto orografico del territorio, trattandosi di una indubbia alterazione dello stato dei luoghi, con trasformazione di un’area boscata di mq. 277 in zona pavimentata con calcestruzzo cementizio. Tali opere hanno indubbiamente mutato la conformazione urbanistica del territorio e, come tali, richiedevano il preventivo rilascio del permesso di costruire ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 10 del D.P.R. n. 380/2001 oltre che della autorizzazione paesaggistica trattandosi di zona vincolata ai sensi del D.Lgs. 22.01.2004 n. 42 in virtù del D.M. 22.12.1965 recante dichiarazione di notevole interesse pubblico ai sensi della L. 29.06.1939 n. 1497.
Si aggiunga che tale conclusione è coerente con gli approdi della giurisprudenza amministrativa (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 04.05.2012 n. 2044; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 23.04.2009 n. 2141; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 20.10.2003 n. 12922; TAR Piemonte, 14.12.2005 n. 4057; TAR Lazio, Roma, 08.05.2002, n. 4039; TAR Sicilia, Palermo, 25.05.2005 n. 883) secondo cui occorre il titolo concessorio per tutte le opere che modifichino stabilmente il terreno per un uso per cui sia necessaria una preventiva valutazione di opportunità e di convenienza per l'armonioso sviluppo dell'aggregato urbano. Rientra, pertanto, tra tali opere lo sbancamento di un terreno, pur in assenza di opere in muratura, dando luogo a modificazione della precedente conformazione di una determinata area e dell’ambiente circostante.
Non può dubitarsi quindi della legittimità dell’ordine di demolizione.
Com'è noto nelle zone soggette a vincoli di cui al D.Lgs. n. 42/2004 ogni intervento non rientrante tra quelli di cui all'art. 149 deve essere preceduto da specifica autorizzazione paesaggistica e, in assenza di quest'ultima, le opere senza titolo debbono essere ridotte in pristino ai sensi dell'art. 167 dello stesso decreto legislativo.
Allo stesso modo l'art. 27 del D.P.R. n. 380/2001 prevede che "il dirigente o il responsabile, quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla legge 18.04.1962, n. 167 , e successive modificazioni ed integrazioni, nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi".
Nel caso di specie è incontestata la presenza di vincoli paesaggistici sull'area in questione così come l'insussistenza di un titolo per le opere realizzate e, pertanto, correttamente ne è stata ordinata la riduzione in pristino dello stato dei luoghi ai sensi dell’art. 27 del DPR n. 380/2001 e dell’art. 167 del D.lgs. n. 4272004.
Neppure merita condivisione la deduzione che si incentra sulla mancata esplicitazione circa l’attualità dell’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi.
Sotto un primo profilo, non è stato in alcun modo comprovata la presunta risalenza nel tempo delle opere e, inoltre, in ogni caso il potere di reprimere abusi edilizi non è soggetto né a prescrizione, né a decadenza stante il carattere permanentemente illegale dell'abuso edilizio medesimo, per cui non è configurabile alcun possibile affidamento del privato sulla legittimità di opere edilizie in realtà abusive. Conseguentemente il doveroso provvedimento demolitorio non necessita di alcuna specifica motivazione, sull'esistenza di un interesse pubblico alla rimozione dell'opera abusiva perché tale interesse pubblico sussiste in re ipsa
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 01.09.2014 n. 4639 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per pacifico e consolidato orientamento giurisprudenziale, ove le opere risultino diverse da quelle sanabili e indicate nell’art. 167 del Codice dei beni culturali, le competenti autorità non possono che emanare un atto dal contenuto vincolato e cioè esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica, con l’unica eccezione a tale rigida prescrizione per il caso in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Difatti, per pacifico e consolidato orientamento giurisprudenziale, ove le opere risultino diverse da quelle sanabili e indicate nell’art. 167 del Codice dei beni culturali, le competenti autorità non possono che emanare un atto dal contenuto vincolato e cioè esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica (Consiglio di Stato, Sez. VI, 20.06.2012 n. 3578), con l’unica eccezione a tale rigida prescrizione per il caso -non ravvisabile nella fattispecie in esame- in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Alla fattispecie, pertanto, è applicabile l’art. 21-octies della L. 241/1990 che statuisce la non annullabilità del provvedimento adottato in violazione delle norme sul procedimento amministrativo qualora per la sua natura vincolata sia palese che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente adottato.
Attesa la natura dovuta del diniego di accertamento di conformità e di compatibilità paesaggistica per le ragioni illustrate, il relativo procedimento non è quindi inficiato dall’omissione del preavviso di rigetto dell’istanza
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 01.09.2014 n. 4639 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Trattasi della realizzazione abusiva di scale, terrazzamenti e piazzali esterni alla casa colonica, mediante lo spianamento di area agricola, determinanti un’alterazione urbanisticamente rilevante dello stato dei luoghi soggetta al regime del permesso di costruire (anziché della d.i.a.) e non qualificabili alla stregua di opere pertinenziali della casa colonica.
Infatti, l’insegnamento giurisprudenziale consolidato in “subiecta materia” ha chiarito che la realizzazione di un piazzale attraverso lo spianamento e la deruralizzazione di un’area agricola, pur senza l’esecuzione di opere in muratura (e, quindi, senza incremento di volumi utili), non può essere considerato opera meramente pertinenziale (ai fini urbanistici ed edilizi) e determina comunque una alterazione significativa dell’assetto del territorio rilevante sotto il profilo edilizio e urbanistico.

Il ricorso è infondato nel merito e va respinto.
Innanzitutto, è necessario rammentare –in punto di fatto– che l’impugnato diniego di permesso di costruire in sanatoria si basa sulla seguente motivazione: “….. L’intervento di cui si chiede sanatoria di fatto aumenta notevolmente le superfici sui piazzali esterni e determina anche un uso esclusivo ed indipendente dal bene principale….”.
Ciò premesso, il Collegio ritiene sufficiente osservare, sinteticamente, -in diritto- che (come, peraltro, già rilevato nella fase cautelare del giudizio), tutte le censure formulate dalla ricorrente appaiono prive di pregio giuridico, ove si consideri, in primo luogo, che trattasi della realizzazione abusiva di scale, terrazzamenti e piazzali esterni alla casa colonica, mediante lo spianamento di area agricola, determinanti un’alterazione urbanisticamente rilevante dello stato dei luoghi soggetta al regime del permesso di costruire (anziché della d.i.a.) e non qualificabili alla stregua di opere pertinenziali della casa colonica.
Infatti, l’insegnamento giurisprudenziale consolidato in “subiecta materia” ha chiarito che la realizzazione di un piazzale attraverso lo spianamento e la deruralizzazione di un’area agricola, pur senza l’esecuzione di opere in muratura (e, quindi, senza incremento di volumi utili), non può essere considerato opera meramente pertinenziale (ai fini urbanistici ed edilizi) e determina comunque una alterazione significativa dell’assetto del territorio rilevante sotto il profilo edilizio e urbanistico (“ex multis”: Consiglio di Stato, IV Sezione, 13.01.2010 n. 41; TAR Puglia Bari, III Sezione, 26.02.2009 n. 404; TAR Piemonte, I Sezione, 25.10.2007 n. 3242).
Peraltro, va sottolineato che il richiamato art. 33 del Regolamento Edilizio vigente nel Comune di Francavilla Fontana indica quali opere pertinenziali: i “gazebo”, i “pergolati”, e le “serre solari”, ossia solo dei manufatti precari di modesta dimensione consistenti in una struttura leggera costituita da elementi facilmente rimovibili.
In conclusione, le opere realizzate abusivamente dalla ricorrente, in difformità dal permesso di costruire n. 48/2008, (scale, terrazzamenti e piazzali esterni alla casa colonica) non hanno carattere pertinenziale ed aumentano notevolmente le superfici deruralizzate esterne alla casa colonica, in violazione dei parametri previsti e delle tipologie di opere ammesse (“solamente case coloniche con specifici annessi e dipendenze”) per la zona “E1” dalle N.T.A. del Programma di Fabbricazione vigente nel Comune di Francavilla Fontana
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 05.08.2014 n. 2128 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - SEGRETARI COMUNALI: Competenza del segretario comunale in materia di sanzioni disciplinari.
Osserva il Collegio come sia incontroverso in causa la circostanza che il Comune non abbia provveduto alla nomina del Direttore Generale per cui, ai sensi di quanto espressamente disposto dal Regolamento dei servizi e degli uffici, non v’è dubbio che spetti al Segretario Comunale la competenza generale in ordine ai procedimenti disciplinari.
Nel detto Regolamento, peraltro, non è prevista alcuna limitazione a tale competenza nel caso in cui vi sia un rapporto gerarchico e tale profilo non è stato fatto oggetto di alcuna specifica censura in primo grado.
Erroneamente, pertanto, il Tar ha ritenuto illegittima la coincidenza tra le funzioni di Segretario e di superiore gerarchico, senza considerare che tale possibilità era consentita dal richiamato Regolamento comunale dei servizi e degli uffici.
Il Segretario Comunale infatti, non aveva avuto l'incarico di svolgere le funzioni di Direttore Generale, al quale compete la gestione del personale, bensì lo specifico ed esclusivo compito, a seguito della delibera G.M. 287/1997, di esprimere un mero parere preventivo di legittimità sulle proposte di deliberazioni relative ai piani urbanistici attuativi.

FATTO
Il Comune di Cermenate, con delibera G.M. n. 287 del 25.10.1997, stabiliva di richiedere in via generale al Segretario Comunale il parere preventivo di legittimità sulle proposte di deliberazioni relative ai piani urbanistici attuativi.
Per quanto sopra, nell'ambito del procedimento di approvazione del Piano di Recupero denominato Via Scalambrini, il Segretario richiedeva per ben due volte al Geom. Summa, quale Responsabile del Settore urbanistica edilizia privata e pubblica, di eliminare alcune irregolarità riscontrate nella documentazione relativa al piano in questione.
Sennonché entrambe tali richieste rimanevano senza riscontro.
In conseguenza di ciò a carico del Summa veniva avviato dal Segretario Comunale un procedimento disciplinare, all'esito del quale veniva irrogata la sanzione della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per dieci giorni decorrenti dal 19.06.1998.
Ritenendo illegittima tale determinazione, il Summa proponeva ricorso al Tar Lombardia chiedendone l'annullamento.
Peraltro, nelle more del giudizio, il ricorrente veniva licenziato per recidiva ed il relativo provvedimento veniva confermato dal Tribunale di Como con sentenza n. 338 del 2000.
Il Tar adito, con sentenza n. 6625/2001, accoglieva il ricorso.
Avverso detta sentenza il Comune di Cermenate ha quindi interposto l’odierno appello, chiedendone l'integrale riforma.
L’appellato Geom. Summa, costituitosi in giudizio, decedeva nel 2011 e pertanto, con ordinanza n. 2759/2013, la Sezione ha dato atto dell'interruzione del processo.
Il ricorso è stato quindi riassunto dal Comune di Cermenate e, con successive memorie, le parti hanno insistito nelle rispettive tesi.
Alla pubblica udienza del 16.01.2014 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. Con l’unico articolato mezzo di censura il Comune di Cermenate deduce l'erroneità della sentenza gravata, laddove ha censurato la circostanza per cui al Segretario Comunale sarebbero stati attribuiti anche “... poteri gerarchici nei confronti del ricorrente, assimilabili a quelli di capo ufficio”, con conseguente illegittima coincidenza tra le funzioni di Segretario e di superiore gerarchico al quale spettano “... solo le segnalazioni e l'applicazione delle sanzioni più lievi”.
Assume, al riguardo, che ai sensi degli artt. 6 e 7 del Regolamento dei servizi e degli uffici adottato dal Comune con delibera G.M. n. 60 del 07.04.1998 spetta al Direttore Generale o, in mancanza, al Segretario Comunale, provvedere alle contestazioni di addebito e all'irrogazione delle sanzioni disciplinari e tale disposizione non trova deroghe per il caso di sussistenza di un rapporto gerarchico tra l'organo procedente e il destinatario del provvedimento sanzionatorio.
Rileva, peraltro, che il sopra detto Regolamento non è stato impugnato dal ricorrente con la conseguenza che, sotto tale profilo, il ricorso risulterebbe inammissibile.
Sostiene, infine, che nella specie non si sarebbe configurato alcun rapporto gerarchico tra il Segretario Comunale e il Summa e che comunque, anche laddove esistente, tale rapporto oltre ad implicare il potere di segnalazione e di applicazione delle sanzioni più lievi, non escluderebbe quello di applicare le sanzioni più gravi.
2. La doglianza è da condividere.
3. Ed invero, osserva il Collegio come sia incontroverso in causa la circostanza che il Comune di Cermenate non abbia provveduto alla nomina del Direttore Generale per cui, ai sensi di quanto espressamente disposto dal Regolamento dei servizi e degli uffici approvato con la delibera n. 60/1998, non v’è dubbio che spetti al Segretario Comunale la competenza generale in ordine ai procedimenti disciplinari.
Nel detto Regolamento, peraltro, non è prevista alcuna limitazione a tale competenza nel caso in cui vi sia un rapporto gerarchico e tale profilo non è stato fatto oggetto di alcuna specifica censura in primo grado.
Erroneamente, pertanto, il Tar ha ritenuto illegittima la coincidenza tra le funzioni di Segretario e di superiore gerarchico, senza considerare che tale possibilità era consentita dal richiamato Regolamento comunale dei servizi e degli uffici, non impugnato dal Geom. Summa.
A ciò aggiungasi che, in ogni caso, nella specie non sussisteva alcun formale né sostanziale rapporto gerarchico.
Il Segretario Comunale infatti, non aveva avuto l'incarico di svolgere le funzioni di Direttore Generale, al quale compete la gestione del personale, bensì lo specifico ed esclusivo compito, a seguito della delibera G.M. 287/1997, di esprimere un mero parere preventivo di legittimità sulle proposte di deliberazioni relative ai piani urbanistici attuativi.
Funzione questa, all’evidenza, che non implicava l'attribuzione di alcun potere gerarchico nei confronti del Summa.
Anche sotto questo profilo,quindi, il primo giudice ha errato nel ritenere che al Segretario Comunale fossero stati attribuiti “... poteri gerarchici nei confronti del ricorrente, assimilabili a quelli di capo ufficio”, facendo discendere da tale insussistente presupposto l’illegittimità della determinazione impugnata.
4. Per quanto sopra l'appello si appalesa fondato e, come tale, da accogliere con conseguente riforma della gravata sentenza (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.05.2014 n. 2433 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO ALL'01.12.2014

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UTILITA'

SICUREZZA LAVORO: Quaderni Tecnici per i cantieri temporanei o mobili - Reti di sicurezza (ottobre 2014 - tratto da www.inail.it).

SICUREZZA LAVORO: Quaderni Tecnici per i cantieri temporanei o mobili - Scale portatili (ottobre 2014 - tratto da www.inail.it).

SICUREZZA LAVORO: Quaderni Tecnici per i cantieri temporanei o mobili - Sistemi di protezione degli scavi a cielo aperto (ottobre 2014 - tratto da www.inail.it).

SICUREZZA LAVORO: Quaderni Tecnici per i cantieri temporanei o mobili - Sistemi di protezione individuale dalle cadute (ottobre 2014 - tratto da www.inail.it).

SICUREZZA LAVORO: Quaderni Tecnici per i cantieri temporanei o mobili - Ponteggi fissi (ottobre 2014 - tratto da www.inail.it).

SICUREZZA LAVORO: Quaderni Tecnici per i cantieri temporanei o mobili - Ancoraggi (ottobre 2014 - tratto da www.inail.it).

SICUREZZA LAVORO: Quaderni Tecnici per i cantieri temporanei o mobili - Parapetti provvisori (ottobre 2014 - tratto da www.inail.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Rinnovo delle autorizzazioni “ordinarie” alle emissioni in atmosfera (ANCE di Bergamo, circolare 28.11.2014 n. 211).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Depositi di GPL fino a 13 m3. Indicazioni applicative del DM 04.03.2014 di modifica del DM 14.05.2004 (Ministero dell'Interno, Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile, nota 21.11.2014 n. 13818 di prot.).

INCARICHI PROGETTUALI: OGGETTO: CFP per aggiornamento Informale - Modulo di autocertificazione (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 19.11.2014 n. 449).
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Si veda anche il modulo di autocertificazione editabile.

ENTI LOCALI: OGGETTO: Consulenza giuridica – L’obbligo di tracciabilità previsto dall’articolo 25, comma 5, della legge 13.05.1999, n. 133, trova applicazione anche nei confronti delle associazioni senza fini di lucro e delle associazioni pro-loco (Agenzia delle Entrate, risoluzione 19.11.2014 n. 102/E).

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Rapporti tra indennità di turno e disposizioni di cui al comma 2 dell’art. 24 del CCNL del 14.09.2000 (Ministero dell'Economia e delle Finanze, Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, nota 16.06.02014 n. 51662 di prot.).
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L'operatore di polizia locale che presta servizio in turno in un giorno festivo infrasettimanale non ha diritto ad un riposo compensativo ma solo ad una maggiorazione retributiva.

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGOLe relazioni sindacali nel pubblico impiego ... Gli obblighi del datore spesso dimenticati (CGIL-FP di Bergamo, nota 17.11.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: RSU 2015 (C.S.A. di Roma, comunicato 31.10.2014 n. 2).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 49 dell'01.2014, "Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato" (L.R. 28.11.2014 n. 31).

VARI: G.U. 28.11.2014 n. 277 "Semplificazione fiscale e dichiarazione dei redditi precompilata" (D.Lgs. 21.11.2014 n. 175).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 48 del 27.11.2014, "Integrazioni alla legge regionale 05.12.2008, n. 31 (Testo unico delle leggi regionali in materia di agricoltura, foreste, pesca e sviluppo rurale). Istituzione della Banca della Terra Lombarda" (L.R. 26.11.2014 n. 30).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 48 del 27.11.2014, "Disposizioni in materia di servizio idrico integrato. Modifiche al Titolo V, Capi I, II e III, della legge regionale 12.12.2003, n. 26 (Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche)" (L.R. 26.11.2014 n. 29).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 25.11.2014, "Settimo aggiornamento 2014 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 20.11.2014 n. 10908).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 21.11.2014, "Disposizioni relative al rilascio, ai sensi dell’art. 29 commi 2 e 3 del d.lgs. 46/2014, della prima autorizzazione integrata ambientale alle installazioni esistenti «non già soggette ad AIA»" (deliberazione G.R. 14.11.2014 n. 2645).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 18.11.2014, "Finanziamento interventi per l’adeguamento strutturale e antisismico degli edifici scolastici, nonché di costruzione di nuovi immobili sostitutivi di edifici esistenti a rischio sismico, a valere sul fondo per interventi straordinari della presidenza del Consiglio dei Ministri" (deliberazione G.R. 14.11.2014 n. 2640).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 18.11.2014 n. 268 "Istituzione dell’elenco degli alberi monumentali d’Italia e principi e criteri direttivi per il loro censimento" (Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, decreto 23.10.2014).

ENTI LOCALI: G.U. 17.11.2014 n. 267 "Approvazione del modello tipo della Dichiarazione Sostitutiva Unica a fini ISEE, dell’attestazione, nonché delle relative istruzioni per la compilazione ai sensi dell’articolo 10, comma 3, del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 05.12.2013, n. 159" (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, decreto 07.11.2014).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: P. Palazzi, Sblocca Italia - perplessità - nuovo articolo 6, comma 5, D.P.R. 380/2001 - CIAL e CATASTO... un altro disastro ... e vediamo il perché (28.11.2014 - link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATA: F. Lorenzotti, La manutenzione straordinaria in edilizia dopo la conversione in legge del decreto “Sblocca Italia” (26.11.2014 - link a www.diritto.it).

APPALTI - ESPROPRIAZIONE: M. C. Agnello, La comunicazione di avvio del procedimento in due fattispecie paradigmatiche affrontate dalla giustizia amministrativa: l’annullamento dell’aggiudicazione provvisoria e l’espropriazione per pubblica utilità connessa a variante di piano urbanistico (25.11.2014 - link a www.diritto.it).

ENTI LOCALI: Tracciabilità dei pagamenti anche per associazioni no profit e pro-loco (20.11.2014 - tratto da www.ispoa.it).

APPALTI: A. Masaracchia, Un orientamento troppo "morbido" che va oltre la norma (commento a Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 05.11.2014 n. 5456) (tratto da www.centrostudicni.it).
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La novità della fattispecie decisa dalla sentenza in esame è che in questo caso il RUP era stato chiamato a far parte come semplice membro della commissione di gara. Il che costituisce un qualcosa di nuovo rispetto alla giurisprudenza precedente, la quale si era unicamente riferita al cumulo di funzioni tra RUP e presidente di commissione.

CORTE DEI CONTI

APPALTI: Debito fuori bilancio.
La corresponsione di interessi di mora per ritardato pagamento da parte di un ente locale dà luogo a un debito fuori bilancio, in quanto l’obbligazione è sprovvista del requisito dell’utilità per l’ente ed è da considerarsi fuori bilancio ogni debito che non risulti preventivamente previsto nel bilancio dell’ente e quindi impegnato su quel bilancio a fronte di obbligazione giuridicamente perfezionata.
A nulla rileva la circostanza che l’ente abbia previsto in apposito capitolo di bilancio uno stanziamento per far fronte a interessi di mora per ritardati pagamenti.
Inoltre, nel caso in questione, l’obbligo alla corresponsione degli interessi di mora è stabilito da sentenza esecutiva del tribunale, ciò che dà luogo a debito fuori bilancio ai sensi dell’art. 194, comma 1, lettera a) TUEL. Lo stesso art. 194, comma 1, stabilisce che il riconoscimento del debito fuori bilancio necessita di delibera consiliare.
La stessa delibera, a norma dell’art. 23, comma 5 della legge 289/2002 (legge finanziaria per il 2003) dovrà essere trasmessa alla Procura della Corte dei conti per la valutazione di eventuali responsabilità.

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Il Sindaco del Comune di Parma ha formulato alla Sezione una richiesta di parere in ordine alla necessità o meno di adottare un atto consiliare di riconoscimento di debito fuori bilancio, a seguito di richiesta di interessi per ritardato pagamento, avanzata da alcune imprese.
Nella richiesta di parere si precisa che l’Ente ha comunque predisposto, nel PEG allegato al bilancio di previsione per il 2014, un capitolo “per interessi per ritardato pagamento” con gli stanziamenti finalizzati a far fronte alle richieste di corresponsione di interessi di mora che alcune imprese hanno avanzato in riferimento ai ritardati pagamenti avvenuti negli anni dal 2010 al 2012.
...
Il quesito sul quale la Sezione è chiamata a pronunciarsi riguarda la necessità di assoggettare alla procedura di riconoscimento dei debiti fuori bilancio, di cui all’art. 194 TUEL, la corresponsione delle somme assegnate ai creditori a titolo di interessi per ritardato pagamento a seguito di sentenza del tribunale, ovvero se sia possibile procedere con atti gestionali delegati sulla base delle disponibilità di bilancio e degli indirizzi contenuti nella RPP e nel PEG.
La risposta è univocamente determinata dall’art. 194, comma 1, lettera a), del D.lgs. 267/2000 (TUEL). Precisa infatti la norma che
gli enti locali riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da sentenze esecutive, (e da altre fattispecie, eventi o incombenze) con delibera consiliare.
Il caso prospettato nella richiesta di parere è dunque tipicamente contemplato dalla lettera della norma. Né può dubitarsi circa la natura di debito fuori bilancio della spesa per corresponsione di interessi di mora, in quanto essa è evidentemente sprovvista del requisito dell’utilità per l’ente (art. 194, comma 1, lettera e TUEL).
Come precisato inoltre in alcune deliberazioni di Sezioni regionali di controllo della Corte (cfr., per tutte, Sezione di controllo per la Regione Sardegna, deliberazione n. 118/2011/PAR),
deve ritenersi debito fuori bilancio “ogni debito che non risulti preventivamente previsto nel bilancio dell’ente e, quindi, impegnato, su quel bilancio, nelle forme di legge, in coincidenza con l’assunzione di un’obbligazione giuridicamente perfezionata”.
A nulla rileva in proposito che in apposito capitolo del PEG l’Ente in questione abbia inserito uno stanziamento volto a fronteggiare la spesa per interessi per ritardato pagamento di somme dovute in esercizi precedenti.
La delibera consiliare si rende pertanto necessaria per il riconoscimento motivato del debito fuori bilancio, cioè per accertare che l’obbligazione si riferisce a funzioni e servizi di propria competenza e, nel caso in questione, che essa deriva da sentenza esecutiva del tribunale. Esso dovrà contenere inoltre le indicazioni sul quantum riconosciuto della spesa che dovrà essere posta a carico del bilancio dell’Ente.

Infine,
la deliberazione dovrà essere trasmessa alla Procura della Corte dei conti. L’art. 23 della legge 27.12.2002 (legge finanziaria per il 2003), che dispone in materia di razionalizzazione delle spese e flessibilità di bilancio, pone infatti quest’obbligo in capo all’Ente (comma 5) per la valutazione di eventuali responsabilità per danno erariale connesse all’emersione del debito fuori bilancio (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 20.11.2014 n. 205).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Ai progettisti incentivi tagliati solo per le attività svolte dopo metà agosto.
Il personale degli uffici tecnici dei Comuni va incentivato con le nuove regole che le singole amministrazioni si devono dare in attuazione dei principi dettati dal Dl 90/2014 per le attività svolte successivamente alla metà dello scorso mese di agosto, cioè dopo l'entrata in vigore della legge di conversione.
Le attività svolte precedentemente devono essere incentivate con le regole previgenti.

La pronuncia
Sono queste le principali indicazioni contenute nel parere 13.11.2014 n. 300 della sezione regionale di controllo della Corte dei Conti della Lombardia, che riprende e amplia i primi suggerimenti della deliberazione della sezione Emilia-Romagna della magistratura contabile, parere 19.09.2014 n. 183.
In questo modo si colma l'assenza di una specifica disposizione per la fase di prima applicazione, mentre lo stesso provvedimento detta regole precise per l'entrata in vigore delle nuove regole sulla incentivazione degli avvocati e sulla erogazione dei diritti di rogito ai segretari.
Ambedue questi documenti fanno riferimento alle indicazioni dettate dalla sezione Autonomie della Corte dei Conti nella deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG, che affrontò una questione analoga: la decorrenza della applicazione del taglio di questa incentivazione.
La competenza
Queste indicazioni scelgono la strada della «competenza», quindi i compensi devono essere calcolati sulla base delle regole in vigore al momento in cui le attività sono state svolte, e non quella della «cassa», per la quale i compensi dovrebbero seguire le regole in vigore al momento in cui sono effettuati i pagamenti, strada che negli anni scorsi fu invece suggerita dalla Ragioneria generale dello Stato.
Sono molto importanti anche le indicazioni che il parere dei giudici contabili lombardi dà sulla fase di prima applicazione, intendendo come tale quella che intercorre tra la data di entrata in vigore della legge di conversione, l'approvazione del regolamento e la stipula del contratto decentrato: «L'ente, rimanendo per il resto libero nell'esercizio della propria attività discrezionale, nel periodo transitorio dovrà fare riferimento, quanto ai presupposti e ai beneficiari dell'incentivo, alla previgente disciplina mentre, per quel che concerne l'ammontare complessivo delle risorse destinabili al singolo beneficiario, al limite inderogabile fissato dalla norma con riferimento al trattamento economico spettante al momento dell'erogazione».
Sulla decorrenza del divieto di erogazione del compenso ai dirigenti la sezione regionale di controllo della Corte dei Conti dell'Emilia-Romagna ha chiarito dal canto suo che «fino all'entrata in vigore della legge di conversione anche il dirigente di ruolo di un ufficio tecnico del Comune potrebbe beneficiare degli incentivi, in quanto il contratto collettivo nazionale di lavoro dell'area II prevede espressamente quale deroga al principio dell'onnicomprensività la spettanza di incentivi per la progettazione» (commento tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Richiesta di parere inerente all’impatto derivante dall’applicazione degli artt. 9 d.l. 66/2014 – 23 d.l. 90/2014 sulle procedure di affidamento di servizi e di acquisto di beni e forniture - Ricorso alle centrali di committenza nelle ipotesi previste dall’art. 12511 d.lgs. 163/2006 e nelle ipotesi di cottimo fiduciario sotto i 40.000,00 euro – Ammissibilità - Possibilità di acquistare beni e servizi al di fuori del MEPA - Ammissibilità condizionata dal limite imperativo ed ablativo del rispetto dei limiti massimi dei prezzi presenti sul mercato elettronico - Possibilità, in caso di evento con artista curato da un’agenzia di spettacoli non iscritta al MEPA, di procedere all’affidamento diretto previsto dall’art. 57 d.lgs. 163/2006 – Ammissibilità - Possibilità di collaborazione diretta con associazioni di promozione culturale o sportiva, che non possono iscriversi al MEPA, con il pagamento di una prestazione di servizi in occasione di manifestazioni ed eventi inseriti nel calendario istituzionale - Ammissibilità con limiti.
L’ordinamento privilegia gli strumenti delle centrali di committenza e delle procedure selettive nel presupposto, imposto anche dal diritto comunitario, che la massima concorrenzialità consenta i migliori risparmi di spesa, contemperando però tale esigenza con il principio di efficienza dell’azione amministrativa in quanto –come è facile arguire– il ricorso a tali procedure implica sicuri costi temporali e procedimentali incompatibili con l’agere quotidiano di un ufficio pubblico.
Questa è la ragione per cui gli acquisti sotto i 40mila euro possono essere fatti direttamente dall’Ufficio economale senza attivazione di procedure concorrenziali. Nulla osta, pertanto, all’adozione delle procedure più garantistiche e al ricorso alle centrali di committenza ove l’ente locale, nel caso specifico, ritenga maggiormente opportuno intraprendere questa seconda strada.
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Si può ritenere che i Comuni siano legittimati ad acquistare beni e servizi al di fuori del MEPA con il limite imperativo ed ablativo dell’assoluto rispetto dei limiti massimi di prezzo presenti sul mercato elettronico.
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Il mero presupposto soggettivo, e cioè l’impossibilità di aderire al mercato elettronico non può essere da solo requisito sufficiente per derogare al medesimo, considerato che la ragione della sua istituzione risponde ad esigenze di carattere pubblicistico di trasparenza, imparzialità ed economicità che sono prevalenti rispetto a quelle del singolo soggetto associativo di collaborare con l’ente pubblico, quand'anche tale volontà non sia supportata da finalità lucrative ma dal perseguimento di scopi ideali, che però assumono rilevanza economica, trattandosi di prestazioni fornite a titolo oneroso.
Diverso è il caso in cui l’associazione sia in grado di fornire un servizio non rinvenibile sul mercato elettronico (ovvero, per quanto detto sopra, rinvenibile ad un prezzo/qualità superiore): in questo caso non sembrano esservi preclusioni a consentire tale collaborazione diretta, purché appunto limitata a prestazioni non altrimenti rinvenibili sui mercati elettronici.

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Con istanza in data 30.09.2014, trasmessa dal Presidente del Consiglio delle Autonomie Locali della Liguria con nota n. 89 del 10.10.2014 ed assunta al protocollo della Segreteria della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Liguria il 14 ottobre con il n. 0002842 – 14.10.2014 – SC _ LIG - T85 – A, il Sindaco del Comune di Loano ha inviato al Consiglio delle Autonomie Locali una richiesta di parere inerente all’impatto derivante dall’applicazione degli artt. 9 d.l. n. 66/2014 – 23 d.l. n. 90/2014 sulle procedure di affidamento di servizi e di acquisto di beni e forniture.
In particolare l’Ente chiede se:
a) sia da escludersi l’applicabilità del ricorso alle centrali di committenza nelle ipotesi previste dall’art. 12511 d.lgs. 163/2006 e nelle ipotesi di cottimo fiduciario sotto i 40.000,00 euro, in considerazione che in tali casi la normativa consente di non intraprendere la procedura concorsuale;
b) sia possibile acquistare beni e servizi al di fuori del MEPA qualora il ricorso all’esterno persegua l’obiettivo del contenimento della spesa pubblica;
c) sia possibile, qualora si debba organizzare un evento con un determinato artista curato in esclusiva da un’agenzia di spettacoli non iscritta al MEPA, procedere all’affidamento diretto previsto dall’art. 57 d.lgs. 163/2006, senza ricorrere al mercato elettronico;
d) sia ammissibile una collaborazione diretta con associazioni di promozione culturale o sportiva, che non possono iscriversi al MEPA, con il pagamento di una prestazione di servizi in occasione di manifestazioni ed eventi inseriti nel calendario istituzionale.
...
L’art. 333-bis d.lgs. 12.04.2006 n. 163, introdotto dall’art. 23-ter d.l. 24.06.2014, n. 90, conv. in l. 11.08.2014 n. 114, prevede che <<i Comuni non capoluoghi di provincia procedono all’acquisizione di lavori, beni e servizi nell’ambito delle unioni dei comuni di cui all’art. 32 del decreto legislativo 18.08.2000 n. 267, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici anche delle province, ovvero ricorrendo ad un soggetto aggregatore o alle province, ai sensi della legge 07.04.2014 n. 56. In alternativa, gli stessi Comuni possono acquisire beni e servizi attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da Consip S.p.A. o da altro soggetto aggregatore di riferimento>>.
L’art. 12511 d.lgs. 163/2006 specifica che <<Per servizi o forniture inferiori a quarantamila euro è consentito l’affidamento diretto da parte del responsabile del procedimento>>.
L’art. 1449, 450 l. 27.12.2006 n. 296 indica che <<449. Nel rispetto del sistema delle convenzioni di cui agli articoli 26 della legge 23.12.1999 n. 488 e successive modificazioni, e 58 della legge 23.12.2000 n. 388, tutte le amministrazioni statali centrali e periferiche sono tenute ad approvvigionarsi utilizzando le convenzioni quadro. Le restanti amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001 n. 165 possono ricorrere alle convenzioni di cui al presente comma e al comma 456 del presente articolo, ovvero ne utilizzano i parametri di prezzo–qualità come limiti massimi per la stipulazione dei contratti. Gli enti del Servizio sanitario nazionale sono in ogni caso tenuti ad approvvigionarsi utilizzando le convenzioni stipulate dalle centrali regionali di riferimento ovvero, qualora non siano operative convenzioni regionali, le convenzioni quadro stipulate da Consip S.p.A.
450. Dal 01.07.2007, le amministrazioni statali centrali e periferiche per gli acquisti di beni e servizi al di sotto della soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione di cui all’articolo 328, comma 1, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010 n. 207. Fermi restando gli obblighi e le facoltà previsti dal comma 449 del presente articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001 n. 165 per gli acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo 328
>>.
L’art. 572 d.lgs. 163/2006 consente la procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara <<qualora, per ragioni di natura tecnica o artistica ovvero attinenti alla tutela di diritti esclusivi, il contratto possa essere affidato unicamente ad un operatore economico determinato>>.
Il secondo e il quarto quesito formulato dal Comune di Loano sono già stati oggetto di approfondimento da parte delle Sezioni Regionali di controllo.
C.d.C. Sez. contr. Marche 27.11.2012 n. 169 e 25.03.2013 n. 17, C.d.C. Sez. contr. Lombardia 26.03.2013 n. 112 e C.d.C. Sez. contr. Piemonte 23.05.2013 n. 211 ritengono che
sussista un obbligo di ricorso ad un mercato elettronico, sia esso quello della pubblica amministrazione, ovvero quello realizzato direttamente dalla stazione appaltante o dalle centrali di committenza, al fine di garantire la tracciabilità dell’intera procedura di acquisto ed una maggiore trasparenza della stessa, con conseguente riduzione dei margini di discrezionalità dell’affidamento e la possibilità, da parte di imprese concorrenti che riescano ad offrire prezzi più convenienti, di aderire ai medesimi mercati. La Sezione piemontese, peraltro, ha specificato come tale obbligo venga meno nell’ipotesi di indisponibilità o inidoneità dei beni presenti su tali mercati a soddisfare le esigenze dell’ente locale richiedente.
C.d.C. Sez. contr. Toscana 30.05.2013 n. 151 e C.d.C. Sez. contr. Emilia Romagna 17.12.2013 n. 286 specificano che
i principi generali di economicità e di efficienza dell’azione amministrativa, perseguiti dalle disposizioni sopra richiamate, consentono di mitigare l’obbligo di ricorrere ai mercati elettronici ogni qualvolta il ricorso all’esterno persegua la ratio di contenimento della spesa pubblica insita nelle varie norme.
3. La valutazione della Sezione sulle questioni sottoposte
La richiesta di parere concerne distintamente cinque quesiti relativi, lato sensu, ai limiti di derogabilità alle procedure elettroniche, o comunque concorrenziali, per l’acquisto di beni e servizi da parte degli enti locali.
Con il primo quesito, in particolare, si chiede se l’art. 23-ter d.l. 24.06.2014, n. 90, conv. in l. 11.08.2014 n. 114, che ha introdotto l’art. 333-bis d.lgs. 163/2006, escluda <<l’applicabilità del ricorso alle centrali di committenza nelle ipotesi di una procedura di affidamento diretto in base all’art. 125 comma 11 del codice dei contratti e nelle ipotesi di cottimo fiduciario sotto i 40.000,00 euro, atteso che in tali casi la normativa ammette la non attivazione della procedura concorsuale>>.
In altre parole, il Comune intende sapere se sia possibile anche in questi casi ricorrere alle centrali di committenza –che in ipotesi dovrebbero assicurare risparmi di non minima entità avendo la possibilità di fare ordini di rilevante entità- anche nelle fattispecie in cui l’ordinamento consente l’acquisizione mediante amministrazione diretta per ragioni di semplificazione e di celerità, stante il ridotto importo della medesima.
La risposta è positiva.
L’ordinamento privilegia gli strumenti delle centrali di committenza e delle procedure selettive nel presupposto, imposto anche dal diritto comunitario, che la massima concorrenzialità consenta i migliori risparmi di spesa, contemperando però tale esigenza con il principio di efficienza dell’azione amministrativa in quanto –come è facile arguire– il ricorso a tali procedure implica sicuri costi temporali e procedimentali incompatibili con l’agere quotidiano di un ufficio pubblico.
Questa è la ragione per cui gli acquisti sotto i 40mila euro possono essere fatti direttamente dall’Ufficio economale senza attivazione di procedure concorrenziali. Nulla osta, pertanto, all’adozione delle procedure più garantistiche e al ricorso alle centrali di committenza ove l’ente locale, nel caso specifico, ritenga maggiormente opportuno intraprendere questa seconda strada.

Con il secondo e il quarto quesito, che possono essere affrontati congiuntamente, il Comune di Loano chiede se sia possibile acquistare beni e servizi al di fuori del MEPA (Mercato Elettronico delle Pubbliche Amministrazioni), eventualmente anche solo limitatamente alle spese economali.
La questione è più complessa della precedente.
L’art. 1450 l. 296/2006 dispone che <<fermi restando gli obblighi e le facoltà previsti dal comma 449 del presente articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001 n. 165 [tra cui rientrano gli enti locali] per gli acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo 328>>.
Il chiaro obbligo di ricorso ad un mercato elettronico (altro significato semantico non può assumere la locuzione <<sono tenuti>>), previsto dal comma 450, deve però tenere conto dell’espressa clausola di riserva prevista dalla disposizione che si pone in una evidente posizione di sussidiarietà rispetto alle <<facoltà previst[e] dal comma 449 del presente articolo>>, le quali ricomprendono la possibilità per gli enti locali di rivolgersi al libero mercato con il limite imperativo, soggetto alla eterointegrazione prevista dall’art. 1339 c.c., dello stesso prezzo – qualità/quantità previsto dal sistema delle convenzioni CONSIP e dei mercati elettronici.
Tale interpretazione congiunta, oltre a coordinarsi sistematicamente con il principio generale di economicità dell’attività amministrativa, codificato nell’art. 11 l. 7.08.1990 n. 241, trova ulteriore conferma letterale nell’ultima parte dell’art. 1449 l. cit. che espressamente stabilisce che i soli <<enti del Servizio sanitario nazionale sono in ogni caso tenuti ad approvvigionarsi utilizzando le convenzioni stipulate dalle centrali regionali di riferimento ovvero, qualora non siano operative convenzioni regionali, le convenzioni quadro stipulate da Consip S.p.A.>>.
Pertanto
si può ritenere che i Comuni siano legittimati ad acquistare beni e servizi al di fuori del MEPA con il limite imperativo ed ablativo dell’assoluto rispetto dei limiti massimi di prezzo presenti sul mercato elettronico.
Con il terzo quesito il Comune di Loano chiede se sia possibile procedere all’affidamento diretto mediante trattativa privata senza pubblicazione di bando qualora si intenda organizzare un evento con un determinato artista curato in esclusiva da un’agenzia di spettacoli non iscritta al MEPA.
La risposta è ugualmente positiva.
In primo luogo
si deve rilevare come la prestazione artistica non possa rientrare di per sé nella materia dell’appalto di servizi, costituendo una prestazione di opera professionale disciplinata dall’art. 2229 c.c. Non sussistono pertanto, ab origine, le ragioni per l’applicazione del codice dei contratti pubblici alla fattispecie in esame.
Quand’anche si dovesse ritenere che la medesima possa rientrare tra gli appalti di servizi, essa deve essere ricompresa nell’ambito di applicazione dell’art. 572 d.lgs. 163/2006 che consente la procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara <<qualora, per ragioni di natura tecnica o artistica … il contratto possa essere affidato unicamente ad un operatore economico determinato>>. E’ di tutta evidenza che l’infungibilità della prestazione artistica rende la medesima inidonea ad essere oggetto di procedure comparative o elettroniche (le quali, tra l’altro, possono essere utilizzate solo per acquistare beni e servizi tra cui certamente non può rientrare quella in questione).
Infine, con il quarto quesito l’Ente locale chiede se, in presenza di manifestazioni ed eventi inseriti nel calendario istituzionale, sia possibile la collaborazione diretta con associazioni di promozione culturale e sportiva che, in quanto tali, non possono iscriversi al MEPA, con il pagamento di una prestazione di servizi.
Anche in quest’ultimo caso la risposta è positiva, seppure con alcune precisazioni.
Il mero presupposto soggettivo, e cioè l’impossibilità di aderire al mercato elettronico non può essere da solo requisito sufficiente per derogare al medesimo, considerato che la ragione della sua istituzione risponde ad esigenze di carattere pubblicistico di trasparenza, imparzialità ed economicità che sono prevalenti rispetto a quelle del singolo soggetto associativo di collaborare con l’ente pubblico, quand'anche tale volontà non sia supportata da finalità lucrative ma dal perseguimento di scopi ideali, che però assumono rilevanza economica, trattandosi di prestazioni fornite a titolo oneroso.
Diverso è il caso in cui l’associazione sia in grado di fornire un servizio non rinvenibile sul mercato elettronico (ovvero, per quanto detto sopra, rinvenibile ad un prezzo/qualità superiore): in questo caso non sembrano esservi preclusioni a consentire tale collaborazione diretta, purché appunto limitata a prestazioni non altrimenti rinvenibili sui mercati elettronici
(Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 10.11.2014 n. 64).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOGli incarichi a contratto nelle Autonomie territoriali sono regolamentati dall’art. 110 del TUEL (D.Lgs. n. 267/2000).
I detti incarichi possono avere a oggetto anche il conferimento di funzioni dirigenziali a soggetti che non abbiano con l’ente un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in virtù di un criterio di attribuzione fondato sull’“intuitus personae”.
Al di fuori della dotazione organica della dirigenza o dell’area direttiva, per gli enti in cui tale dotazione è comunque prevista, possono essere conferiti, con contratto a tempo determinato, incarichi per i soli dirigenti e le alte specializzazioni (art. 110, comma 2, 1° periodo). In questi casi, gli incarichi così conferibili non possono superare il 5% del totale della dotazione organica “della dirigenza e dell’area direttiva”
(vd. art. 110, comma 2, 2° periodo).
Per gli Enti di piccole dimensioni possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica dell’ente, contratti a tempo determinato “di dirigenti, alte specializzazioni o funzionari dell’area direttiva, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire” (art. 110, comma 2, 3° periodo). Tali contratti sono stipulati in misura complessivamente non superiore al 5% della dotazione organica dell’ente. Infine, per gli enti con dotazione inferiore alle 20 unità è consentito il conferimento di un solo incarico.
Tutti gli Enti presi in considerazione dal secondo comma dell’art. 110 del TUEL devono procedere a stabilire limiti, criteri e modalità di stipula dei relativi contratti in sede di adozione del Regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi.
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Il comma 6 dell’articolo 19 D.Lgs. n. 165/2001 prevede che gli incarichi dirigenziali di cui ai precedenti commi da 1 a 5 “sono conferiti, fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza, o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato.(…)”.
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Il requisito del possesso del diploma di laurea costituisce requisito essenziale per l’accesso alle qualifiche dirigenziali nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, co. 2, del D.Lgs. n. 165/2001, trattandosi di un requisito di base e necessariamente propedeutico, come si evince dalla lettura del necessariamente correlato art. 28 successivo, che disciplina l’accesso alla qualifica dirigenziale.

Né tale piana interpretazione può subire eccezioni allorché il conferimento dell’incarico provenga da un Ente Locale con contratto a termine (giusta il combinato disposto dell’art. 110 TUEL e del comma 6 dell’art. 19 D.Lgs. n. 165/2001), ipotesi nella quale, anzi, l’accesso alla dirigenza è consentito dal comma 6 a soggetti particolarmente qualificati che, oltre al requisito di base del titolo di studio, posseggano alternativamente uno o più degli ulteriori requisiti di specifica preparazione ed esperienza professionale.
E’ stato infatti affermato che “le previsioni normative in esame non sono sostitutive del requisito di base del possesso della laurea, ma sono aggiuntive, nel senso che, purché in possesso del diploma di laurea, i soggetti che siano dotati di uno dei requisiti delineati nell’art. 19, comma 6, possono ottenere un incarico dirigenziale temporaneo”.
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Con la nota indicata in epigrafe l’Ente ha formulato alla Sezione una richiesta di motivato avviso in materia di corretta interpretazione del dettato normativo del comma 6 dell’art. 19 del Testo unico sul rapporto di p.i. di cui al D.Lgs. n. 165/2001 e s.m. e i. in vista del conferimento di un incarico dirigenziale a tempo determinato.
...
1. Ritiene il Collegio di dover preliminarmente procedere a un inquadramento sistematico della disciplina sul conferimento degli incarichi a contratto negli Enti locali, anche a fini di utilità generale per la platea degli Enti potenzialmente interessati a conoscere l’avviso interpretativo della Sezione sulle tematiche di che trattasi.
Come noto,
gli incarichi a contratto nelle Autonomie territoriali sono regolamentati dall’art. 110 del TUEL (D.Lgs. n. 267/2000).
I detti incarichi possono avere a oggetto anche il conferimento di funzioni dirigenziali a soggetti che non abbiano con l’ente un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in virtù di un criterio di attribuzione fondato sull’“intuitus personae”.
Al di fuori della dotazione organica della dirigenza o dell’area direttiva, per gli enti in cui tale dotazione è comunque prevista, possono essere conferiti, con contratto a tempo determinato, incarichi per i soli dirigenti e le alte specializzazioni (art. 110, comma 2, 1° periodo). In questi casi, gli incarichi così conferibili non possono superare il 5% del totale della dotazione organica “della dirigenza e dell’area direttiva
(vd. art. 110, comma 2, 2° periodo).
Per gli Enti di piccole dimensioni possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica dell’ente, contratti a tempo determinato “di dirigenti, alte specializzazioni o funzionari dell’area direttiva, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire (art. 110, comma 2, 3° periodo). Tali contratti sono stipulati in misura complessivamente non superiore al 5% della dotazione organica dell’ente. Infine, per gli enti con dotazione inferiore alle 20 unità è consentito il conferimento di un solo incarico.
Tutti gli Enti presi in considerazione dal secondo comma dell’art. 110 del TUEL devono procedere a stabilire limiti, criteri e modalità di stipula dei relativi contratti in sede di adozione del Regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi.

Tale surrichiamata disciplina non trova più nel TUEL la propria fonte esclusiva, posto che puntuali norme sono state inserite nel già citato D.Lgs. n. 165/2001, nonché in disposizioni di carattere ordinamentale recate da varie leggi finanziarie.
In particolare, talune disposizioni dell’art. 19 del D.Lgs. n. 165/2001 sono state espressamente estese alle Amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, e quindi anche ai Comuni e alle Province, già in forza dell’intervento interpretativo fornito dalla Corte costituzionale con la decisione n. 324/2010.
Detta estensione è stata poi normativizzata a opera del comma 6-ter dell’art. 19, introdotto dall’art. 40, comma 1, lett. f), del D.Lgs. n. 150/2009.
In particolare, per quel che qui interessa,
il comma 6 dell’articolo 19 citato prevede che gli incarichi dirigenziali di cui ai precedenti commi da 1 a 5 “sono conferiti, fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza, o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato.(…)”.
Ricordato che talune questioni riconducibili ai rapporti tra l’art. 110 TUEL e l’art. 19 -commi 6 e 6-bis- del D.Lgs. n. 165/2001 sono state scrutinate dalle Sezioni riunite di questa Corte con le delibere nn. 12-13-14/CONTR/11, tutte dell’08.02.2011, conviene affrontare nello specifico il quesito inerente al possesso del diploma di laurea quale requisito necessario ai fini del conferimento dell’incarico di che trattasi.
Riferisce l’Ente istante che, a una lettura testuale, parrebbero distinguersi all’interno del comma 6, due ipotesi, delle quali la prima sembrerebbe ammettere il conferimento di incarichi a “persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali”; mentre la seconda lo prevederebbe per i soggetti “che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria”.
Nella prima, sostiene l’Ente, non verrebbe fatto alcun riferimento al possesso di una formazione universitaria (diploma di laurea), supponendosi che l’affidamento possa avvenire anche a favore di soggetti non laureati, purché sussistano gli altri requisiti.
Accedendo a tale interpretazione, dovrebbe ritenersi operante una deroga rispetto alla disciplina generale sui requisiti necessari per l’accesso alle qualifiche dirigenziali, recata dall’art. 28, comma 2, del D.Lgs. 165/2001, non riguardando il citato comma 6 dell’art. 19 procedure concorsuali pubblicistiche per l’accesso al pubblico impiego.
La riferita opzione ermeneutica si fonderebbe sull’assunto secondo cui la qualificazione professionale, particolare e comprovata, acquisibile “sul campo” per il fatto di aver svolto funzioni dirigenziali in organismi o enti o aziende pubblici o privati per almeno un quinquennio, costituirebbe requisito professionale alternativo rispetto alla particolare “specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria”.
Tale tesi, tuttavia, non è stata ritenuta condivisibile da pacifica e consolidata giurisprudenza di questa Magistratura contabile, formatasi sia in sede consultiva (vd. ex plurimis sez. reg.le Basilicata, delib. n. 29/2011/PAR) che in sede di controllo di legittimità (cfr. sez. controllo di legittimità su atti del Governo delib. n. 3/2003 e sez. del controllo di legittimità su atti del Governo e delle Amm.ni dello Stato n. 2/2005/P).
A tale conclusione si è pervenuti in base a una lettura non solo “testuale”, ma altresì sistematica del richiamato comma 6, secondo cui
il requisito del possesso del diploma di laurea costituisce requisito essenziale per l’accesso alle qualifiche dirigenziali nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, co. 2, del D.Lgs. n. 165/2001, trattandosi di un requisito di base e necessariamente propedeutico, come si evince dalla lettura del necessariamente correlato art. 28 successivo, che disciplina l’accesso alla qualifica dirigenziale.
Né tale piana interpretazione può subire eccezioni allorché il conferimento dell’incarico provenga da un Ente Locale con contratto a termine (giusta il combinato disposto dell’art. 110 TUEL e del comma 6 dell’art. 19 D.Lgs. n. 165/2001), ipotesi nella quale, anzi, l’accesso alla dirigenza è consentito dal comma 6 a soggetti particolarmente qualificati che, oltre al requisito di base del titolo di studio, posseggano alternativamente uno o più degli ulteriori requisiti di specifica preparazione ed esperienza professionale.
E’ stato infatti affermato che “le previsioni normative in esame non sono sostitutive del requisito di base del possesso della laurea, ma sono aggiuntive, nel senso che, purché in possesso del diploma di laurea, i soggetti che siano dotati di uno dei requisiti delineati nell’art. 19, comma 6, possono ottenere un incarico dirigenziale temporaneo (vd. sez. reg.le Lombardia delib. n. 504/2011 e, già in precedenza alla novella normativa recata dall’art. 40 del D.Lgs. n. 150/2009, delib. n. 20/2006).
Peraltro, come ricordato, a identiche conclusioni era pervenuta la giurisprudenza di legittimità di questa Magistratura contabile ancor prima dell’estensione della disposizione dell’originario comma 6 alle Autonomie locali, pervenendo alla ricusazione del visto a un provvedimento di nomina a dirigente di seconda fascia di un soggetto esterno al ruolo dirigenziale dell’Amministrazione per difetto del titolo adeguato di studio (vd. delib. n. 3/2003 della Sez. centrale di legittimità su atti del Governo).
Osservava la Sezione che, “
a tacere che il richiamo contenuto nell’art. 19, c. 6, alla <formazione universitaria e post-universitaria> equivale nella sostanza a quello fatto dall’art. 28 novellato dello stesso decreto legislativo n. 165/2001 al diploma di laurea, osserva la Sezione che il criterio secondo il quale il legislatore ha inteso disciplinare l’immissione nell’esercizio di funzioni dirigenziali di soggetti, quali essi siano, in precedenza già non investiti di tale qualifica, risulta evidentemente informato alla volontà di acquisire professionalità estranee, tali da presentare qualità aggiuntive e comunque non minori rispetto ai già elevati requisiti previsti per le nomine di funzionari appartenenti ai ruoli dirigenziali.
Tanto premesso, consegue da ciò attraverso una lettura sistematica dell’art. 19, c. 6, che la facoltà da tale norma prevista richiede, nei suoi destinatari, il concorrente possesso di una particolare specializzazione, sia professionale, che culturale e scientifica; quando si passi all’accertamento di tali requisiti, in relazione alle funzioni da attribuire, l’interprete, dal canto suo, non può sottrarsi alla verifica, sotto ogni profilo, della presenza di tutti gli elementi che complessivamente rendono il soggetto idoneo all’incarico.
Ne discende che, ferma rimanendo l’esigenza dell’accertamento di un livello di formazione culturale identificabile nel possesso della laurea, gli elementi che configurano e completano in estranei il profilo della professionalità debbano, insieme ad altri, ricavarsi dal già disimpegnato esercizio di funzioni almeno di pari rilevanza di quelle previste nel nuovo compito.
Quindi, oltre all’accertato possesso di sufficiente formazione culturale, in un contesto normativo in cui è però prevista l’attribuzione di incarichi dirigenziali previa verifica della sussistenza di livelli di formazione particolarmente elevati, occorre che la valutazione venga estesa ad un puntuale esame dei curricula degli incaricandi
”.
A conclusioni analoghe è poi giunto anche il Dipartimento per la funzione pubblica, con parere n. 35/2008, nel quale ha stabilito che per gli Enti locali il requisito del titolo di studio richiesto dalla legge per il conferimento di incarico dirigenziale è lo stesso disposto, in generale, dall’art. 28 del D.Lgs. 165/2001, e consiste nel titolo di laurea.
A conferma delle argomentazioni, peraltro univocamente orientate, articolate a sostegno della tesi della necessarietà del possesso del titolo di laurea per il conferimento di qualsivoglia incarico di funzioni dirigenziali, anche a tempo determinato, per tutte le PPAA, compresi gli Enti locali, vale ricordare che la stessa Corte costituzionale, con la già richiamata decisione n. 324 del 2010, ha ritenuto che la disciplina dettata dall’art. 19, commi 6 e 6-bis del D.Lgs. n. 165/2001, riguardi tutte le amministrazioni pubbliche, anche quelle locali, e attiene ai requisiti soggettivi che devono essere posseduti dal privato contraente, requisiti che, dunque, non possono che essere identici per tutte le fattispecie in cui si dà luogo a un incarico dirigenziale.
Gli indirizzi ermeneutici sopra riportati, ai quali il Collegio aderisce, rimangono inalterati pur nell’intervenuta modifica normativamente introdotta alla disciplina del conseguimento del titolo di “formazione universitaria” e del relativo valore legale, che, ai fini del conferimenti degli incarichi de quibus, non può essere inferiore al possesso del titolo di laurea specialistica o magistrale ovvero al diploma di laurea conseguito secondo l’ordinamento didattico previgente al regolamento di cui al decreto del Ministro dell’università, ricerca scientifica e tecnologica 03.11.1999, n. 509 (vd. art. 6, ult. periodo, come introdotto dall’art. 2, comma 8-quater, del D.L. n. 101/2013, convertito in legge n. 125/2013, peraltro correttamente richiamato dall’Amministrazione istante).
Su tale consolidato impianto interpretativo si innestano le recentissime novelle normative recate sul dettato dall’art. 11, comma 1, lett. a), del D.L. 24.06.2014, che, nel mantenere fermi i requisiti già normativamente fissati per la qualifica da ricoprire, espressamente introduce il necessario previo esperimento di apposita procedura selettiva pubblica, volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, “il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell’incarico”.

2. Ritiene il Collegio di dover ancora formulare indirizzi in merito all’ulteriore quesito posto nell’odierna richiesta, specificatamente volto a individuare la corretta interpretazione dell’inciso “non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione” che nel testo del più volte richiamato comma 6 dell’art. 19 segue il riferimento alle “persone di particolare e comprovata qualificazione professionale” le quali, in presenza di tutti i requisiti normativamente posti, possono essere destinatarie degli incarichi di funzioni dirigenziali di che si sta trattando.
Ora, facendo applicazione dei consueti canoni ermeneutici, in primo luogo di quello letterale, può agevolmente inferirsi che l’inciso “non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione” deve coordinarsi con la “particolare e comprovata qualificazione professionale” che deve essere posseduta dai soggetti estranei incaricandi (le “persone” del dettato normativo considerato), la quale qualificazione, peraltro, deve essere in concreto valutata dall’Amministrazione conferente in stretta e inscindibile connessione con la particolarità dei compiti che la medesima intende affrontare e portare a compimento.
In altri termini,
ritiene il Collegio che il comma 6, avente valenza di norma di carattere complementare all’ordinario sistema di provvista delle professionalità dirigenziali, sia finalizzato ad accrescere le capacità operative delle Amministrazioni attingendo a un bacino più ampio di quello delle unità dirigenziali già presenti nei ruoli delle Amministrazioni medesime, all’uopo acquisendo professionalità esterne altamente specializzate e qualificate, con esperienze maturate in ruoli dirigenziali disimpegnati per almeno un quinquennio presso aziende od organismi pubblici o privati, ovvero in possesso di valori culturali e scientifici ricavati dalla formazione universitaria e post-universitaria, o da pubblicazioni scientifiche, ovvero, ulteriormente, in quanto provenienti dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e degli avvocati e procuratori dello Stato (soggetti, questi ultimi, già direttamente considerati idonei dalla norma, per la posizione rivestita, all’espletamento di un compito dirigenziale).
Tale elencazione è stata ulteriormente ampliata ad opera dell’art. 40, comma 1, lett. e), del D.Lgs. 27.10.2009, n. 150 (c.d. riforma “Brunetta”), che, tra le altre modifiche, ha aggiunto anche la previsione delle “persone” che per almeno un quinquennio abbiano maturato esperienze professionali in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza, oltreché in possesso del necessario, relativo titolo di studio di “formazione universitaria", come sopra definito.
L’impianto normativo così ricostruito è stato fatto oggetto di una ponderosa attività ermeneutica da parte di questa Corte, in particolare in sede di giurisprudenza di legittimità.
Si è così chiarito che, rispetto all’originaria formulazione, le modifiche apportate dal ricordato art. 40, comma 1, lette. e) della “legge Brunetta” “tendono a limitare ulteriormente la facoltà di ricorrere a soggetti esterni, consentendone il conferimento a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale solo nell’ipotesi in cui (…)tale qualificazione non sia rinvenibile nell’ambito del personale dirigenziale dell’Amministrazione”.
In tal modo, si osserva, “la disposizione citata crea un onere di previa verifica della sussistenza di risorse interne all’Amministrazione in possesso dei requisiti professionali richiesti dall’incarico: soltanto ove tale indagine dia esito negativo sarà possibile attribuire il posto vacante a soggetto esterno, se dotato della particolare specializzazione richiesta” (cfr. delib. Corte dei conti n. SCCLEG/18/2010/PREV).
In definitiva,
coerentemente agli ordinari canoni secondo cui compete all’Amministrazione conferente dotare di adeguata motivazione la scelta amministrativo/gestionale in concreto operata, è rimesso all’operato dell’Ente procedere preliminarmente alla ricognizione delle professionalità interne, potendo, solo in caso di esito negativo di tale verifica, procedere alla provvista all’esterno della professionalità necessaria all’assolvimento dei compiti connessi all’incarico.
Nelle suesposte considerazioni è il parere della Sezione (Corte dei Conti, Sez. controllo Friuli Venezia Giulia, parere 07.10.2014 n. 159).

INCARICHI PROFESSIONALII presupposti di legittimità per il ricorso ad incarichi di collaborazione sono specificamente enucleati dall’art. 7 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165 (norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).
I citati presupposti costituiscono la codificazione di quanto ampiamente affermato dalla giurisprudenza contabile in ordine al conferimento di atti riferiti all’estesa tipologia di spese soggette a controllo da parte della Sezione (le consulenze, gli studi, le ricerche, le spese per relazioni, rappresentanza, mostre, convegni, pubblicità)
.
In particolare,
la disciplina vigente prevede che:
a)
l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell'amministrazione conferente; è stato in proposito chiarito che: “il requisito della corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento all’amministrazione conferente è determinato dal poter ricorrere a contratti di collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla legge”;
b)
l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno.
Al proposito va rammentato che
in base ai principi generali di organizzazione amministrativa gli enti pubblici devono di norma svolgere i compiti istituzionali avvalendosi di proprio personale. Tale regola trae il suo fondamento dal principio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione e il conferimento degli incarichi di consulenza a professionisti esterni alla P.A. si pone come eccezione in presenza di speciali e peculiari condizioni.
D’altro canto il legislatore ha ormai da ben oltre un decennio previsto in linea generale l’eccezionalità del ricorso a collaborazioni esterne condizionandolo all’assenza di personale idoneo (art. 7, co. 6, d.lgs. n. 165/2001), ribadendo più volte tale regola e la necessità di fornire adeguata motivazione in caso di ricorso all’esterno dell’amministrazione;

c)
la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata e deve soddisfare esigenze straordinarie ed eccezionali; non è ammesso il rinnovo; l'eventuale proroga dell'incarico originario è consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di affidamento dell'incarico;
d)
devono essere preventivamente determinati durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione;
e)
deve sussistere il requisito della “comprovata specializzazione anche universitaria”: le amministrazioni, per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, possono conferire incarichi individuali (con contratti di lavoro autonomo professionale, occasionale o di collaborazione coordinata e continuativa) a esperti muniti di tale requisito. Si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione universitaria in caso di stipulazione di contratti di collaborazione di natura occasionale o coordinata e continuativa per attività che debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che operino nel campo dell'arte, dello spettacolo, dei mestieri artigianali o dell’attività informatica nonché a supporto dell’attività didattica e di ricerca, per i servizi di orientamento, compreso il collocamento, e di certificazione dei contratti di lavoro di cui al decreto legislativo 10.09.2003, n. 276, purché senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ferma restando la necessità di accertare la maturata esperienza nel settore.
Va inoltre aggiunto, sotto un profilo generale, che
in caso di conferimento di un incarico di studio o di consulenza occorre altresì osservare i limiti di spesa introdotti dall’art. 6, co. 7, d.l. 78/2010 convertito con legge. n. 122/2010 e s.m.i..

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La Provincia di Asti con nota pervenuta in data 11.07.2014, prot. n. 7166, ha trasmesso a questa Sezione Regionale di Controllo, ai sensi dell’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266, la determinazione del Dirigente del Servizio programmazione e gestione finanziaria, n. 2682 del 25.06.2014, avente ad oggetto l’affidamento dell’incarico di assistenza in ordine al servizio di tenuta della contabilità IVA e adempimenti fiscali per il periodo 01.07.2014-30.06.2015, a favore del dr. G.M.L., già affidatario del suddetto incarico per il periodo luglio 2011-giugno 2014, per una spesa complessiva di € 6.400,00.
Dall’esame di tale determinazione, come rilevato con nota istruttoria, si è evinto che non risultava:
- l’espletamento di una procedura comparativa adeguatamente pubblicizzata,
- la previa circostanziata ricognizione dell’assenza di strutture organizzative o professionalità interne all’ente in grado di svolgere l’incarico,
- l’eccezionalità e la straordinarietà delle esigenze da soddisfare con l’incarico conferito,
- l’avvenuta pubblicazione sul sito web dell’incarico, né l’inclusione o meno dell’incarico nell’ambito del programma da approvarsi ai sensi dell’art. 42, co. 2, d.lgs. n. 267/2000.
Con nota istruttoria prot. 7329 del 22.07.2014 il Magistrato istruttore richiedeva alla Provincia di Asti atti, documenti e informazioni a chiarimento di quanto sopra.
Con nota di risposta prot. 73910/2014 del 06.08.2014, a firma del Dirigente del Servizio programmazione e gestione finanziaria, pervenuta al prot. n. 7686 del 06.08.2014, l’ente comunicava “che con nota prot. n. 52258/2014 è stata inviata a tre professionisti iscritti all’albo dei Dottori commercialisti la richiesta di preventivo per l’affidamento di servizio di tenuta contabilità IVA ed adempimenti fiscali per il periodo luglio 2014/giugno 2015, stante la mancanza di professionalità interne a cui affidare la gestione della normativa fiscale e che potesse assicurare altresì la necessaria consulenza agli uffici dell’Ente”.
La nota proseguiva inoltre descrivendo la situazione dell’ente in particolare sotto il profilo della dotazione di personale, dando atto che la situazione era peggiorata rispetto al periodo di vigenza del precedente affidamento di consulenza fiscale, conferito per il periodo 01.07.2011-30.06.2014.
Sotto il profilo procedurale l’ente comunicava poi “in ordine alla procedura comparativa scelta, alle modalità e formalizzazione dell’affidamento sono state seguite le disposizioni previste dal vigente REGOLAMENTO PER I LAVORI LE FORNITURE E I SERVIZI IN ECONOMIA E PER LA GESTIONE DELL’ALBO FORNITORI” aggiungendo che “Con determina dirigenziale n. 2682 del 25/06/2014, a seguito dell’esame comparato dei curricula si è quindi proceduto all’affidamento al dott. Garbarino Mario Luciano del servizio di tenuta contabilità IVA e adempimenti fiscali”.
Quanto alla pubblicazione, infine, l’ente aggiungeva “si precisa che la determina di affidamento dell’incarico succitata è stata pubblicata in data 07/07/2014 (ed è tutt’ora visibile) sul sito web della provincia di Asti, nell’area Amministrazione Trasparente= Consulenti e Collaboratori = categoria Programmazione e Gestione Finanziaria”.
Non ritenendo superati tutti i rilievi mossi sull’atto oggetto di controllo, il Magistrato istruttore chiedeva al Presidente della Sezione la convocazione dell’odierna adunanza per l’esame collegiale della questione.
...
I. L’art. 1, comma 173, della legge 23.12.2005, n. 266, ha previsto che gli atti di spesa relativi ai precedenti commi 9, 10, 56 e 57 di importo superiore a 5.000 euro devono essere trasmessi alla competente sezione della Corte dei conti per l'esercizio del controllo successivo sulla gestione. La finalità di tale previsione normativa è riconducibile all’accertamento, di tipo collaborativo, da parte della Corte, dell’idoneità dell’attività amministrativa posta in essere dagli enti controllati a raggiungere determinati risultati, attraverso una verifica della sua efficacia, efficienza ed economicità, che non può comunque prescindere da un riscontro della conformità della stessa a norme giuridiche.
La giurisprudenza contabile ha già affermato che ”
l’accertamento dell’illegittimità per il mancato rispetto di uno o più dei requisiti di legge (talora verificabile nei limiti di sindacabilità di scelte discrezionali) comporta da un lato l’obbligo di rimuovere, ove possibile, l’atto con un provvedimento di secondo grado e dall’altro la responsabilità del soggetto che lo ha posto in essere” (Sez. reg. contr. Lombardia, n. 244/2008).
Preliminarmente alla verifica di conformità alla legge dell’incarico conferito dalla Provincia di Asti occorre rammentare che
i presupposti di legittimità per il ricorso ad incarichi di collaborazione sono specificamente enucleati dall’art. 7 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165 (norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche). I citati presupposti costituiscono la codificazione di quanto ampiamente affermato dalla giurisprudenza contabile in ordine al conferimento di atti riferiti all’estesa tipologia di spese soggette a controllo da parte della Sezione (le consulenze, gli studi, le ricerche, le spese per relazioni, rappresentanza, mostre, convegni, pubblicità); in tal senso, si richiama la recente deliberazione di questa Sezione n. 362/2013/SRCPIE/INPR.
In particolare,
la disciplina vigente prevede che:
a)
l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell'amministrazione conferente; è stato in proposito chiarito che: “il requisito della corrispondenza della prestazione alla competenza attribuita dall’ordinamento all’amministrazione conferente è determinato dal poter ricorrere a contratti di collaborazione autonoma solo con riferimento alle attività istituzionali stabilite dalla legge (Sez. contr. Reg. Lombardia, n. 37/2009, nonché Sez. Reg. Lombardia, n. 244/08);
b)
l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno.
Al proposito va rammentato che
in base ai principi generali di organizzazione amministrativa gli enti pubblici devono di norma svolgere i compiti istituzionali avvalendosi di proprio personale. Tale regola trae il suo fondamento dal principio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione e il conferimento degli incarichi di consulenza a professionisti esterni alla P.A. si pone come eccezione in presenza di speciali e peculiari condizioni.
D’altro canto il legislatore ha ormai da ben oltre un decennio previsto in linea generale l’eccezionalità del ricorso a collaborazioni esterne condizionandolo all’assenza di personale idoneo (art. 7, co. 6, d.lgs. n. 165/2001), ribadendo più volte tale regola e la necessità di fornire adeguata motivazione in caso di ricorso all’esterno dell’amministrazione;

c)
la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata e deve soddisfare esigenze straordinarie ed eccezionali; non è ammesso il rinnovo; l'eventuale proroga dell'incarico originario è consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di affidamento dell'incarico;
d)
devono essere preventivamente determinati durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione;
e)
deve sussistere il requisito della “comprovata specializzazione anche universitaria”: le amministrazioni, per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, possono conferire incarichi individuali (con contratti di lavoro autonomo professionale, occasionale o di collaborazione coordinata e continuativa) a esperti muniti di tale requisito. Si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione universitaria in caso di stipulazione di contratti di collaborazione di natura occasionale o coordinata e continuativa per attività che debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che operino nel campo dell'arte, dello spettacolo, dei mestieri artigianali o dell’attività informatica nonché a supporto dell’attività didattica e di ricerca, per i servizi di orientamento, compreso il collocamento, e di certificazione dei contratti di lavoro di cui al decreto legislativo 10.09.2003, n. 276, purché senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ferma restando la necessità di accertare la maturata esperienza nel settore.
Va inoltre aggiunto, sotto un profilo generale, che
in caso di conferimento di un incarico di studio o di consulenza occorre altresì osservare i limiti di spesa introdotti dall’art. 6, co. 7, d.l. 78/2010 convertito con legge. n. 122/2010 e s.m.i. (salve particolari ipotesi.; es. la copertura della spesa mediante finanziamenti aggiuntivi e specifici trasferiti da altri soggetti pubblici o privati, cfr. sez. contr. Piemonte 25.10.2013, n. 362).
II. Esaurita questa breve ricognizione dei presupposti di legittimità per il conferimento dell’incarico occorre evidenziare che all’esito dei chiarimenti forniti dalla Provincia di Asti con la nota pervenuta il 06.08.2014, mentre per gli aspetti inerenti alla pubblicazione sul sito web dell’ente risultano essere state fornite indicazioni adeguate e chiarificatorie, in ordine ai restanti rilievi non può dirsi ugualmente.
1. Innanzitutto sotto il profilo procedurale va osservato che
l’obbligo di seguire procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione è puntualmente declinato nel comma 6-bis del richiamato art. 7 D.Lgs. n. 165/2001. Tale obbligo è considerato dalla giurisprudenza amministrativa un adempimento essenziale per la legittima attribuzione di incarichi di collaborazione; in proposito è stato affermato che “il conferimento di incarichi di collaborazione esterna da parte delle P.A. deve avvenire previo esperimento di procedure para-selettive e non già in base alla sola valutazione di idoneità del prescelto (TAR Puglia n. 494 del 19.02.2007).
Tale obbligo deve ritenersi generalizzato, in ossequio ai principi generali di trasparenza, pubblicità e massima partecipazione: la giurisprudenza amministrativa ha poi ricordato che “
l'affidamento di incarichi di consulenza e/o di collaborazione da conferire a soggetti esterni alla Pubblica amministrazione non può prescindere dal preventivo svolgimento di una selezione comparativa adeguatamente pubblicizzata” (Cons. St., 28.05.2010, n. 3405) ed ancora: “qualsivoglia pubblica amministrazione può legittimamente conferire ad un professionista esterno un incarico di collaborazione, di consulenza, di studio, di ricerca o quant’altro, mediante qualunque tipologia di lavoro autonomo, continuativo o anche occasionale, solo a seguito dell’espletamento di una procedura comparativa previamente disciplinata ed adottata e adeguatamente pubblicizzata, derivandone in caso di omissione l’illegittimità dell’affidamento della prestazione del servizio” (TAR Piemonte, 29.09.2008 n. 2106; cfr. Corte Conti sez. reg. contr. Lombardia, 11.02.2009. n. 37; 27.11.2012, n. 509 che ribadiscono i principi in questione).
Anche a livello centrale la magistratura contabile ha avuto modo di statuire che: “
il comma 6-bis dell’art. 7 del d.lgs. n. 165/2001, prevedendo l’obbligo per le amministrazioni di disciplinare e rendere pubbliche le procedure comparative per il conferimento di incarichi di collaborazione, ha in concreto posto la necessità dell’espletamento della procedura concorsuale, nella considerazione che un simile modus operandi, implicando il rispetto di precisi adempimenti procedurali e moduli operativi, concorra a rendere l’operato dell’Amministrazione conforme ai parametri di efficienza, efficacia, economicità e trasparenza, costituzionalmente tutelati ex art. 97” (Corte Conti, sez. centrale controllo prev. legittimità Stato, 02.10.2012, n. 23; analogamente la stessa sezione, delibera 26.10.2011, n. 21).
Pertanto,
il ricorso a procedure comparative adeguatamente pubblicizzate può essere derogato con affidamento diretto nei limitati casi individuati dalla giurisprudenza:
a) procedura comparativa andata deserta;
b) unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo;
c) assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della collaborazione in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale, ricordando che la “particolare urgenza” deve essere “connessa alla realizzazione dell’attività discendente dall’incarico
(ex plurimis, deliberazione Sez. Contr. Lombardia n. 67/2012/IADC).
In conseguenza di quanto detto dunque, come ripetutamente chiarito dalla giurisprudenza contabile,
non può ritenersi legittima la previsione di affidamenti di incarichi senza procedura comparativa al di sotto di una soglia individuata in valore monetario (o di un numero massimo di ore della prestazione richiesta al collaboratore), poiché “la materia è del tutto estranea a quella degli appalti di lavori, di beni o servizi, pertanto non può farsi ricorso neppure per analogia a detti criteri”, in particolare agli affidamenti in economia (Corte Conti, Sez. contr. Reg. Lombardia, n. 37/09; Sez. contr. Prov. Trento, n. 2/10 e n. 8/10; cfr le recenti Sez. contr. reg. Piemonte n. 362/2013; 421/2013).
In proposito va rilevato il fatto che
in passato questa Sezione (deliberazione 20.12.2012, n. 5) ha già avuto modo di affermare, esaminando un regolamento comunale che prevedeva l’osservanza di una procedura comparativa, resa pubblica con pubblicazione all’albo pretorio, solo per incarichi di importo superiore ad € 5.000,00, che una siffatta disciplina “non risulta conforme a quanto prevede l’art. 7, comma 6-bis, del D.lgs. n. 165/2001, come introdotto dall’art. 32 D.L. 223/2006 e relativa legge di conversione, a mente del quale “Le amministrazioni pubbliche disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione”, senza lasciare spazio all’introduzione di soglie di valore al di sotto delle quali le procedure comparative non sono necessarie o non sono rese pubbliche.”
La sezione piemontese puntualizzava altresì “
Va aggiunto che si è posto il problema del se e in quali limiti sia consentito l’affidamento diretto dell’incarico senza ricorrere a procedure concorsuali, in taluni casi facendo riferimento ai limiti previsti nel codice degli appalti pubblici. La materia, peraltro, è del tutto estranea a quella degli appalti di lavori, di beni o servizi, cui, quindi, non può farsi ricorso neppure per analogia. Va quindi ribadito che il ricorso a procedure concorsuali deve essere generalizzato, salve circostanze del tutto particolari ed eccezionali (quali, ad es., la procedura concorsuale andata deserta, l’unicità della prestazione sotto il profilo soggettivo, l’assoluta urgenza determinata dalla imprevedibile necessità della consulenza in relazione ad un termine prefissato o ad un evento eccezionale, ecc.) (cfr. Sez. Lombardia Del. n. 379 del 26.06.2009)” (cfr. di recente sez. controllo Piemonte, 11.4.2014, n. 11). Di conseguenza in questa sede non è applicabile la disciplina di cui al d.lgs. n. 163/2006.
In proposito, quindi,
la risposta fornita dall’ente provinciale secondo cui sarebbero state seguite le disposizioni previste dal Regolamento per i lavori, le forniture e i servizi in economia non è affatto idonea a giustificare l’operato dell’ente, anzi non fa altro che confermare che non è stata osservata la procedura corretta. Infatti in proposito trattandosi di collaborazione esterna di carattere professionale, e non già di appalto di servizi di cui al d.lgs. n. 163/2006, avrebbe dovuto esser osservato il disposto dell’art. 142 “Selezione degli esperti mediante procedure comparative” del “Regolamento degli uffici e dei servizi del personale provinciale”, adottato dalla Provincia di Asti con DGP n. 38 del 21.2.2011.
Nel caso di specie
l’attivazione di una procedura ultraristretta (richiesta di preventivo rivolta a 3 professionisti) per la selezione del consulente esterno non risulta essere in linea con la previsione di cui all’art. 7, co. 6-bis, d.lgs. n. 165/2001, né risulta essere rispettosa dell’art. 142 del citato Regolamento provinciale che prevede che l’amministrazione debba procedere “alla selezione degli esperti esterni ai quali conferire incarichi professionali mediante procedure comparative, pubblicizzate con appositi avvisi …” e che “la Pubblicazione dell’avviso deve avvenire almeno 15 giorni prima della scadenza del termine previsto per la presentazione delle domande”.
La procedura seguita dalla Provincia di Asti, non appare dunque legittima.

E’ infatti evidente che
l’ente riservandosi di scegliere di volta in volta i soggetti esterni da incaricare sulla base di una comparazione del tutto ristretta a pochi, rectius a pochissimi soggetti (come nell’incarico in questione) individuati discrezionalmente dall’amministrazione, attiva un procedimento che non solo non garantisce una pubblicità minimamente adeguata, ma che rischia di divenire strumento idoneo a consentire di fatto affidamenti di tipo fiduciario in radicale contrasto con il dettato legislativo.
Nella fattispecie dunque la procedura seguita dall’Amministrazione provinciale non risulta conforme alla disciplina legislativa ed in particolare alla previsione circa la necessità di una procedura comparativa adeguatamente pubblicizzata, né alla specifica normativa regolamentare dell’ente che prevede l’espletamento di una procedura aperta con pubblicazione di un avviso di selezione.
2. In secondo luogo nel caso di specie non risulta in alcun modo che l’Ente, prima di procedere all’avvio dell’iter procedimentale per l’affidamento dell’incarico, abbia effettuato una puntuale ricognizione circa l’assenza di strutture organizzative o professionalità interne all’ente in grado di far fronte all’esigenza sottesa all’incarico in questione.
Invero nella risposta istruttoria il Dirigente si è limitato ad affermare in modo peraltro generico “le condizioni dell’ente, in particolare le sue attuali dimensioni e le ridotte risorse di personale, inducono ad attestare che, anche ad una reale e circostanziata ricognizione, siano assenti strutture organizzative o professionalità interne in grado di assicurare detto servizio specialistico”. Aggiungendo ancora che all’interno del settore “non sono presenti figure professionali in possesso dell’abilitazione di ragioniere/dottore commercialista o comunque necessari per l’espletamento del servizio oggetto della presente”.
In realtà quanto riferito nella nota non dà nessun riscontro di quella preventiva ricognizione che l’ente avrebbe per legge dovuto effettuare, anzi la stessa formulazione letterale della nota conferma il fatto che non sia stata fatta preventivamente tale ricognizione. Ciò è tanto più grave in ragione del fatto il “Regolamento degli uffici e dei servizi del personale provinciale” nell’ambito del capo XII “Conferimento di incarichi professionali ad esperti esterni all’amministrazione” prevede all’art. 141 quale presupposto per l’affidamento di incarichi esterni che “Il dirigente competente deve aver preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili all’interno del Servizio e delle altre strutture dell’Ente. La verifica deve essere adeguatamente riportata nel provvedimento di attivazione della procedura”.
Anche il fatto che non vi sarebbero dipendenti muniti dell’abilitazione quale ragioniere/dottore commercialista appare irrilevante, posto che per lo svolgimento dei compiti nel settore fiscale nell’ambito di un ente pubblico non è necessaria tale abilitazione, propeduetica all’iscrizione del relativo albo per l’esercizio della libera professione. Parimenti l’affermazione circa il fatto che non vi sarebbero figure idonee allo svolgimento dei compiti in questione risulta apodittica e pare scontrarsi con la realtà effettiva.
Invero la stessa natura dell’incarico (attività di tenuta della contabilità e adempimenti fiscali) depone nel senso che nel caso di specie sia stato fatto ricorso all’esterno della struttura per far fronte ad un’ordinaria esigenza che avrebbe potuto essere normalmente fronteggiata con le risorse interne.
E’ infatti evidente che
la legittimità di un incarico di assistenza e consulenza in campo fiscale e tributario per le esigenze di una Provincia, presupporrebbe la mancanza in tutta la struttura amministrativa dell’ente di alcuna figura professionale in grado di far fronte ad adempimenti di carattere fiscale e tributario e munita delle necessarie conoscenze per far fronte ad ordinarie esigenze cui in detto campo è chiamata ad operare qualsivoglia amministrazione pubblica.
Dunque quanto dichiarato dal Dirigente della Provincia di Asti circa l’assenza di figure professionali in grado di fronteggiare il compito in questione appare del tutto inverosimile atteso che si tratta di un ente pubblico di considerevoli dimensioni, munito di un’apposita articolazione nell’ambito finanziario. Infatti dalla risposta istruttoria del 06.08.2014 e dai relativi allegati trasmessi, emerge il fatto che all’interno della Provincia esiste un’apposita articolazione denominata “Servizio Programmazione e gestione Finanziaria”, munita di vari dipendenti di categorie “C” e “D”. In particolare dall’elenco del personale in servizio suddiviso per qualifica e mansione presso la suddetta articolazione, allegato alla nota di risposta dell’ente locale, risultano effettivamente assegnati: tre funzionari finanziari, tutti inquadrati quali “D6”, sei Coordinatori amministrativo-contabile, tutti appartenenti alla categoria apicale “D” (di cui tre D1, due D3 ed uno D4), ed ancora 4 istruttori amministrativo-contabili appartenenti alla categoria “C” (due C5, uno C3 ed uno C2).
Del resto proprio il citato Servizio, secondo informazioni fornite dalla stessa Provincia mediante il proprio sito accessibile alla generalità degli utenti, è intestatario tra le varie ordinarie competenze (nell’ambito dell’ufficio spese) della gestione degli “Adempimenti fiscali in materia di IVA, IRAP,INPS ed Irpef …” nonché della ”Consulenza a tutti gli uffici per le informazioni necessarie all'attività in materia finanziaria”. In siffatto quadro è evidente che non possa risultare veritiero il fatto per cui la Provincia sarebbe priva di qualsivoglia figura professionale in alcun modo idonea a occuparsi di tematiche ed adempimenti in campo fiscale e tributario.
Tale circostanza si riverbera indubbiamente sulla legittimità della determinazione di conferimento dell’incarico a favore del dott. G., non constando affatto un presupposto essenziale affinché l’Amministrazione possa rivolgersi all’esterno della propria struttura.
Dagli elementi sopra rappresentati
emerge altresì in modo evidente il fatto che l’incarico esterno sia stato attribuito non già per fare fronte ad esigenze eccezionali e straordinarie dell’Ente pubblico, ma per ottemperare ad una serie di precisi ed inderogabili obblighi di legge ed espletare compiti del tutto ordinari e di assoluta routine per qualunque organizzazione amministrativa. Infatti il suddetto incarico ha come oggetto non già un’attività peculiare e non consueta della Provincia, ma inequivocamente compiti inerenti l’ordinaria gestione amministrativa (compresa la consulenza agli uffici dell’ente). D’altro canto il fatto che l’incarico de quo non attenga ad un’esigenza dell’ente locale temporanea ed eccezionale (bensì di carattere ordinario e stabile) è altresì confermato dal fatto il consulente esterno è affidatario del servizio di assistenza e consulenza ininterrottamente sin dal luglio 2011, come esplicitato nella stessa premessa della determinazione dirigenziale n. 2682 del 25.06.2014.
In proposito
la condotta in questione appare altresì illegittima in quanto in puntuale contrasto con quanto previsto dall’art. 7, co. 6, d.lgs. n. 165/2001, come modificato dall’art. 46, comma 1, D.L. 25.06.2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla L. 06.08.2008, n. 133, nella parte in cui dispone “Il ricorso a contratti di collaborazione coordinata e continuativa per lo svolgimento di funzioni ordinarie o l'utilizzo dei collaboratori come lavoratori subordinati è causa di responsabilità amministrativa per il dirigente che ha stipulato i contratti”.
Alla luce delle argomentazioni sopra esposte l’attribuzione della consulenza de qua da parte dell’amministrazione, altresì alla luce della previsione di cui al d.lgs. n. 165/2001 che delinea una espressa fattispecie di responsabilità erariale, impone la trasmissione della presente delibera alla Procura regionale per il Piemonte per quanto di propria competenza.

3. L’atto di conferimento dell’incarico in questione si appalesa altresì in contrasto con la disciplina di legge anche in ordine alla mancata inclusione nel programma di competenza del Consiglio Provinciale ai sensi dell’art. 42 d.lgs. n. 267/2000.
La Provincia di Asti a seguito delle contestazioni mosse in sede istruttoria circa la mancanza di ogni riferimento all’inclusione nell’ambito del programma annuale non ha fornito alcuna giustificazione al riguardo.
Nel caso di specie, trovando applicazione –come già detto- la disciplina generale di cui all’art. 7 d.lgs n. 165/2001 e le puntuali previsioni dettate successivamente in materia dal legislatore in materia di incarichi e non certo la normativa del codice dei contratti pubblici, doveva osservarsi altresì il vincolo della programmazione imposto dall’art. 3, co. 55, l. n. 244/2007, così come modificato dall’art. 46, co. 2, d.l. 112/2008.
In conclusione alle rilevate irregolarità dell’attribuzione della collaborazione consegue l’obbligo della Provincia di Asti di conformare la propria azione amministrativa in materia di affidamento di incarichi alla legge e di dare tempestivo riscontro alla Sezione delle iniziative assunte (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 26.09.2014 n. 194).

PUBBLICO IMPIEGO: Un caso di danno erariale per uso eccessivo di buoni-pasto.
All’esame del giudice d’appello è pervenuto un incredibile quanto sintomatico caso di mala gestio, tipico, purtroppo, di una cultura amministrativa fin troppo caratterizzata da distorte interpretazioni normative.
Il fatto
La sezione contabile campana aveva condannato un nutrito numero di funzionari statali, il dirigente e il vice di un Centro per la giustizia minorile, nonché i reggenti dei servizi nei quali il Centro si articolava, per le irregolarità commesse nella gestione dei buoni-pasto.
In esito al giudizio di primo grado era emerso che il dirigente si era limitato a chiedere ai servizi chi beneficiasse dei buoni-pasto, senza effettuare alcun controllo sui presupposti dell’erogazione; i servizi, a loro volta, inoltravano solo il numero dei buoni-pasto occorrenti (e i nominativi dei beneficiari), senza effettuare verifiche in merito alle modalità di attribuzione; la direzione del Centro, infine, recepiva pedissequamente i prospetti dei servizi, inviando, alla società erogatrice, la conseguente richiesta di buoni-pasto.
La sentenza di primo grado aveva condannato i direttori dei servizi poiché questi “avevano autonomia funzionale” e, nel segnalare il quantitativo necessario di buoni-pasto, non avevano evidenziato all’Ufficio di livello gerarchico superiore di aver omesso i necessari controlli preventivi; la responsabilità dei dirigenti del Centro, invece, è stata dichiarata per omessa vigilanza.
Incertezza normativa?
In sede di appello, i dipendenti hanno sostenuto che la normativa di settore non prevedeva una obbligatoria pausa-pranzo, puntualizzando che l’articolo 19, comma 4, del Ccnl Ministeri, stipulato nel 1995, stabiliva solamente che la pausa dovesse essere prevista, ma non necessariamente effettuata.
Il giudice di secondo grado, negando fondamento alle tesi dei ricorrenti, ha statuito che “l’art. 19, comma 4, del Ccnl del 16.05.1995 ha disposto che nel caso di prolungamento dell’orario di Servizio oltre sei ore deve essere prevista una pausa che comunque non può essere inferiore ai 30 minuti” (disposizione ribadita ed attuata dall’art. 7 del Ccnl del 12.01.1996).
Nello stesso senso, è stato precisato, si esprimevano l’articolo 2, comma 11, della legge n. 550/1995 (come interpretato dall’articolo 3 della legge n. 334/1997) e l’articolo 4 del Ccnl del 30.04.1996 (comparto Ministeri).
Medesime conclusioni l’organo giudicante ha tratto, inoltre, dall’esame della circolare del ministero della Giustizia del 10.02.1998. Ha infatti precisato come la stessa abbia espressamente puntualizzato che, per maturare il diritto al buono-pasto, fosse, di norma, imprescindibile effettuare la pausa-pranzo, specificando, altresì, che, in alcuni eccezionali casi, il dipendente avrebbe anche potuto rinunciare, con il consenso dell’ente, alla pausa-pranzo, pur conservando il diritto al buono-pasto. Tale assenso, però, avrebbe potuto essere concesso solo per motivate esigenze di Servizio.
La circolare, ha soggiunto la sezione, non ha neppure previsto un diritto del dipendente a rinunciare alla pausa, pur percependo il buono-pasto, ma ha semplicemente chiarito che una simile ipotesi, del tutto eccezionale, si sarebbe potuta verificare quando, per esigenze di Servizio, l’attività lavorativa avrebbe dovuto essere prestata senza interruzioni o attraverso turnazioni di almeno otto ore continuative senza pausa (ai sensi dell’articolo 22 della legge n. 724/1994).
Attraverso un diverso approccio alla tematica e aderendo, implicitamente, alla tesi della eccezionalità della mancata effettuazione della pausa-pranzo, gli appellanti hanno affermato la “sussistenza dei presupposti per la concessione ‘in deroga’ del buono-pasto anche senza pausa-pranzo”, o che si sarebbero verificate le condizioni per poter desumere, dalle condotte poste in essere, una “rinunzia alla pausa, accettata dalla amministrazione”. In particolare, hanno insistito sul fatto che la presenza di determinate circostanze (la situazione organizzativa degli uffici, caratterizzata da carenze di organico; il fatto che rinuncia e accettazione dovevano essere considerate implicite nella richiesta di buoni-pasto (elenchi dei beneficiari) inoltrata dai vari Servizi e nella liquidazione del beneficio; il mancato recupero dei buoni-pasto, da intendersi come approvazione dell’operato degli Uffici) avrebbe indotto i funzionari a supporre la legittimità del loro operato.
Il Collegio ha dissentito da tale prospettazione, ribadendo che la pausa-pranzo non può essere elusa, e che un’eventuale rinuncia può essere consentita solo sulla base di esigenze di Servizio concretamente accertate.
Nessuna rilevanza, poi, è stata attribuita al verbale di riunione sindacale (svoltasi in un Servizio) che avrebbe consentito di erogare i buoni pasto, aggiungendo i 30 minuti di pausa al termine dell’orario giornaliero, per di più senza effettiva prestazione di lavoro: sia perché il verbale costituiva una mera manifestazione di intenti purché un vero e proprio accordo, sia perché, comunque, una simile contrattazione decentrata sarebbe stata affetta da illegittimità per contrasto con il superiore livello (nazionale) di contrattazione.
Modello organizzativo e responsabilità
I ricorrenti, che rivestivano nell’ambito dell’organizzazione amministrativa ruoli diversi, in parte gerarchicamente ordinati ed in parte sovrapponibili tra loro, come spesso accade, hanno sostenuto le tesi più diversificate al fine di provare l’assenza di responsabilità personale ma, al contempo, la colpevolezza dei colleghi, sia che questi fossero superiori gerarchici che dipendenti subordinati.
In tale armonico scenario, nell’ambito del quale piovevano accuse incrociate, infine, il dirigente del Centro ha asserito che, a prescindere dalla generica sovraordinazione del Centro rispetto agli uffici coinvolti nel giudizio, “i Direttori delle varie strutture operavano in piena autonomia”.
Il Collegio di secondo grado ha evidenziato la sovraordinazione gerarchica del dirigente del Centro rispetto ai direttori dei vari servizi nei quali il Centro si articolava e ribadito che la gestione delle somme di denaro relative ai buoni era affidata ai Centri di giustizia minorile in qualità di funzionari delegati. “Tali richieste di elenchi implicavano inequivocabilmente una delega all’accertamento delle condizioni per l’attribuzione dei buoni”. Sarebbe bastato, in buona sostanza, applicare criteri logici e di buon senso.
Conclusioni
Il tenore delle argomentazioni del Collegio non poteva che portare alla conclusione della “mancanza di violazioni gravemente colpevoli dei doveri di ufficio da parte degli uffici ministeriali, che si limitavano ad accreditare somme, ma non avevano competenza nella verifica della sussistenza dei requisiti per la concessione dei buoni-pasto (diversamente dal Centro e dagli uffici sottordinati) e non risulta fossero a precisa conoscenza degli orari di lavoro rispettati da ogni dipendente in Servizio in sede periferica”.
Relativamente al vice-dirigente, la sezione ha deliberato che “non può affermarsi che egli non avesse alcun compito in materia e si limitasse a dare attuazione alle direttive dell’altro appellante, dovendosi invece ritenere che la violazione dei doveri di ufficio nella verifica della debenza dei buoni e quindi la causazione del danno sia imputabile in primo luogo al F. (il vice direttore del centro, che gestiva le pratiche dei buoni pasto solo con delega di firma), che istruiva le pratiche e firmava (sia pure per delega) gli atti di spesa, assumendosene la responsabilità ”.
Per quanto riguarda il dirigente del Centro, infine, partendo dalla constatazione che era titolare di poteri di indirizzo e direttiva, la sua responsabilità è stata accertata poiché “non prese alcuna concreta iniziativa correttiva dell’operato del suo vice (ordini o direttive, revoca della delega di firma o simili), benché fosse a perfetta conoscenza delle modalità di concessione dei buoni-pasto senza pausa-pranzo” (se non altro, e con sintetica valutazione, poiché egli stesso beneficiava dei buoni-pasto senza effettuare pausa).
In merito all’elemento soggettivo della responsabilità, il giudice regionale aveva condannato gli appellanti considerando il loro comportamento come frutto di dolo; i funzionari statali avevano negato che un tale atteggiamento psicologico avesse caratterizzato la loro condotta, affermando di aver operato, in perfetta buona fede, entro un quadro normativo incerto e pieno di sfumature grigie.
La sezione d’appello ha invece ribadito che il quadro normativo era perfettamente comprensibile, statuendo che “la chiarezza della normativa sui buoni-pasto emerge anche dal fatto che solo presso il Centro in oggetto si instaurò la prassi di conferire tale beneficio senza che si effettuasse la pausa-pranzo, tanto è vero che al singolo Centro venne attribuita quasi la metà dell’importo per i buoni-pasto complessivamente speso per tutti i Centri di giustizia minorile italiani (…); senza considerare che presso altri uffici della stessa amministrazione si dava corretta applicazione alle norme in esame, imponendo la pausa-pranzo come presupposto del beneficio in questione”.
Non sembra improprio, in conclusione, affermare che i buoni pasto, per una volta, discostandosi dalla loro naturale funzione, sono risultati altamente indigesti (commento tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com  - Corte dei Conti, Sez. II centrale di appello, sentenza 05.09.2014 n. 534).

ARAN

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ E’ obbligatorio fruire di almeno due settimane di ferie durante l’anno di maturazione? I residui giorni possono essere fruiti entro i diciotto messi successivi all’anno di maturazione?
Relativamente a tali problematiche, si ritiene utile precisare quanto segue:
a) le previsioni dell’art. 10, comma 1, del D.Lgs. n. 66/2003, espressamente, impongono, come obbligatoria, la fruizione da parte del lavoratore, entro l'anno di maturazione, di almeno due settimane di ferie, che, in presenza di una richiesta in tal senso del lavoratore stesso, devono essere continuative;
b) i termini per la fruizione delle ferie continuano ad essere quelli indicati nell'art. 18 del CCNL del 06.07.1995, sia per l'eventuale differimento per esigenze personali (entro il 30 aprile dell’anno successivo a quello di maturazione) sia per il differimento per esigenze di servizio (30 giugno dell’anno successivo a quello di maturazione), e la loro violazione si può tradurre solo in una forma di inadempimento contrattuale, anche suscettibile di dar luogo a contenzioso giudiziario.
Il diverso termine dei 18 mesi successivi all’anno di maturazione, previsto dal D.Lgs. n. 66/2003, per la fruizione delle ferie eccedenti le due settimane, che obbligatoriamente devono essere fruite nell’anno di maturazione deve intendersi utile ai soli fini della possibile applicazione delle sanzioni amministrative, di cui all’art. 18-bis del medesimo D.Lgs. n. 66/2003.
Il dipendente, quindi, non può chiedere di spostare la fruizione fino al 18° mese successivo a quello di maturazione; né tale spostamento può essere autonomamente operato dal datore di lavoro (parere 14.10.2014 n. RAL-1722 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Nell’ambito di un servizio associato di polizia municipale relativo a tre comuni, l’unico dipendente di polizia municipale, titolare di posizione organizzativa, ha diritto in occasione della festività del santo patrono ad usufruire della giornata di recupero su ogni singolo comune visto che i dipendenti degli altri uffici nell’occasione della festività usufruiscono della giornata non lavorativa in quanto “festiva”?
In ordine a tale problematica, si ritiene utile precisare quanto segue:
1. in base alla disciplina contrattuale (art. 18, comma 6, del CCNL del 06.07.1995) si considera giorno festivo solo quello coincidente con la ricorrenza del Santo Patrono della località in cui il dipendente presta effettivamente servizio, purché si tratti di un giorno lavorativo;
2. conseguentemente, ad avviso della scrivente Agenzia, tale festività nell’anno ordinariamente non può che essere unica, anche nella particolare ipotesi prospettata, stante comunque l’unicità ed unitarietà del rapporto di lavoro del dipendente (con l’ente di appartenenza) anche in presenza di un servizio associato;
3. già in altre occasioni, con riferimento ad ipotesi similari, è stato evidenziato che se alcuni dipendenti, per una particolare articolazione dell’orario di servizio, si trovano a svolgere la loro attività lavorativa anche in una sede di lavoro diversa da quella ordinaria dove ricade, in giorno diverso, la festa del Santo Patrono, questa produce necessariamente la chiusura degli uffici e rende, conseguentemente, inutile la prestazione di lavoro dei suddetti dipendenti in quella sede;
4. per quella giornata, sembra ragionevole ipotizzare far rientrare i dipendenti di cui si tratta nella sede ordinaria (comune di appartenenza del dipendente o comune individuato come sede dell’ufficio associato), per rendere la normale prestazione lavorativa, poiché potranno usufruire della giornata festiva del Santo Patrono quando questa si verificherà nella suddetta sede, che per essi è comunque la sede effettiva di lavoro;
5. analogamente il lavoratore renderà la propria prestazione lavorativa anche presso l’altro ente diversa dalla sede ordinaria e da quella presso la quale ricade il Santo Patrono;
6. è evidente, peraltro, che l’amministrazione deve adottare i preventivi atti organizzativi in ordine alle modalità di utilizzazione;
7. con specifico riferimento alla fattispecie in esame, pertanto, al fine di evitare la duplicazione o la triplicazione del beneficio (non considerata dal CCNL e possibile fonte di costi aggiuntivi), potrebbe acquistare un rilievo particolare l’adozione di una regolamentazione in tal senso nella convenzione di utilizzo parziale del personale, che è alla base del servizio associato (parere 14.10.2014 n. RAL-1719 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Un dipendente assente per malattia, alla fine del predetto periodo, deve necessariamente rientrare in servizio o può, senza che vi sia ripresa dell’attività lavorativa, fruire immediatamente delle ferie subito dopo il termine del periodo di malattia?
In relazione a tale problematica, si rileva che nessuna disposizione, legale o contrattuale, vieta in assoluto la fruizione delle ferie da parte del dipendente, dopo la fruizione di un periodo di assenza per malattia dello stesso.
Tuttavia, si deve ricordare che, in base all’art. 2109 del codice civile e all’art. 18 del CCNL del 06.07.1995, la fruizione delle ferie deve essere sempre preventivamente autorizzata dal competente dirigente, che deve valutare la compatibilità delle stesse con le prioritarie esigenze di servizio.
Pertanto, il dipendente dovrà sempre formulare in via preventiva una specifica richiesta in tal senso al dirigente e solo a seguito dell’intervenuta autorizzazione potrà assentarsi dal servizio a titolo ferie (parere 14.10.2014 n. RAL-1718 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Se dal calcolo delle ferie maturate risulta un numero non intero, come devono essere arrotondate le frazioni?
L’avviso dell’Agenzia è nel senso che, se dal calcolo delle ferie maturate dal personale risultano, oltre a giornate intere, anche delle frazioni, sia ragionevole, in assenza di espresse previsioni al riguardo, procedere ad arrotondamenti all’unità superiore in presenza di frazioni superiori a ½ (>0,5) (parere 14.10.2014 n. RAL-1710 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ In caso di assenza per malattia di un dipendente con rapporto di lavoro a tempo pieno, con retribuzione prima al 90% e successivamente al 50%, allo stesso devono essere proporzionalmente ridotte anche le ferie relative ai suddetti periodi?
Ai sensi dell’art. 18, comma 15, del CCNL del 06.07.1995 “il periodo di ferie non è riducibile per assenze per malattia o infortunio, anche se tali assenze si siano protratte per l’intero anno solare” (parere 04.11.2013 n. RAL-1599 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Si chiede di sapere quanti sono i giorni di ferie spettanti nelle seguenti ipotesi:
a) lavoratore a tempo parziale con un orario di 21 ore settimanali, articolato su cinque giorni lavorativi settimanali su sei;
b) lavoratore a tempo parziale con un orario di 27 ore settimanali, articolato su cinque giorni lavorativi settimanali su sei.

Relativamente a tale particolare problematica, si ritiene utile precisare quanto segue:
a) in entrambi i casi sottoposti, sembrano venire in considerazione rapporti di lavoro a tempo parziale di tipo misto. Infatti, ai fini della determinazione concreta dei contenuti del rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo misto, occorre tenere conto della definizione contenuta nell’art. 1, comma 2, lett. d-bis, del D.Lgs. n. 61/2000, introdotto dall'art. 1, comma 1, lettera a), del D.Lgs. n. 100/2001. In sostanza l’orario ridotto prescelto deve essere distribuito in modo tale da realizzare sia le condizioni tipiche del tempo parziale orizzontale (orario ridotto in tutti i giorni della settimana) sia quelle proprie del tempo parziale verticale (attività lavorativa concentrata a tempo pieno in alcuni giorni della settimana, del mese o dell’anno con conseguente assenza della prestazione lavorativa negli altri giorni);
b) trattandosi di rapporti di lavoro a tempo parziale di tipo misto, ai sensi dell’art. 6, comma 8, del CCNL del 14.09.2000, per le ferie (ma anche per tutte le altre tipologie di assenza) trovano applicazione entrambe le forme di riproporzionamento previste, sia quella per il tempo parziale verticale che quella per il tipo orizzontale; pertanto, ai fini della quantificazione dei giorni di ferie spettanti, in considerazione dell’articolazione dell’orario solo su 5 giorni (rispetto ai 6 previsti per il tempo pieno), troverà applicazione la medesima regola prevista per il tempo parziale verticale. Per ciò che attiene al trattamento economico delle stesse, invece, troverà applicazione il riproporzionamento previsto per il tempo parziale orizzontale, nel senso che esso sarà commisurato alla durata della prestazione giornaliera (che sarà diverso nei casi considerati per effetto della diversa durata della prestazione lavorativa prevista nell’uno e nell’altro caso);
c) come detto, il calcolo per la quantificazione delle ferie è lo stesso previsto per il rapporto a tempo parziale di tipo verticale: i lavoratori hanno diritto a un numero di giorni di ferie proporzionati al numero di giornate lavorative prestate nell'anno. Nei casi prospettati le ferie sono pari ai 5/6 di quelle previste per i lavoratori a tempo pieno in quanto la settimana lavorativa è articolata su 6 giorni. L'unica particolarità è che, come previsto dall'art. 6, comma 8, del CCNL del 14.09.2000, il trattamento economico di ciascuna giornata di ferie è commisurato alla effettiva durata della prestazione giornaliera nell’uno e nell’altro caso.
Pure in mancanza di una espressa indicazione in tal senso nell’art. 6, comma 8, del CCNL del 14.09.2000, si ritiene ragionevole che, se il principio di proporzionalità trova applicazione nel caso delle ferie, esso, nell’ambito di un rapporto a tempo parziale verticale, non può non trovare applicazione anche per le quattro giornate di riposo dell’art. 18, comma 6, del CCNL del 06.07.1995.
Conseguentemente, esso troverà applicazione anche nel caso del rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo misto (parere 28.10.2013 n. RAL-1579 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Un dipendente usufruisce nel 2012 di un giorno in più di ferie rispetto a quelle spettanti; è possibile detrarre il giorno dal quantitativo delle ferie spettanti per il 2013?
La soluzione proposta non può essere in alcun modo condivisa. Infatti, essa si tradurrebbe nella sostanziale ammissibilità della anticipazione in un anno delle ferie relative all’anno successivo, che, nel lavoro pubblico come in quello privato, non è mai stata possibile o lecita (parere 28.10.2013 n. RAL-1567 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Un dipendente precedentemente licenziata, a seguito di sentenza del giudice del lavoro, è stata reintegrata in servizio, con il riconoscimento delle retribuzioni dovute dalla data di cessazione del rapporto a quella della reintegrazione.
Può essere accolta la richiesta della suddetta dipendente volta ad ottenere il riconoscimento delle ferie per il periodo di sospensione del rapporto di lavoro?

Durante il periodo di sospensione del rapporto di lavoro, intercorrente tra il licenziamento e la reintegrazione in servizio disposta dal giudice del lavoro, il dipendente non matura ferie, per la mancanza del necessario presupposto della prestazione lavorativa effettivamente resa (sul necessario collegamento delle ferie al servizio effettivamente prestato si veda (CdS, Sez. III n. 1127/1988; Corte Cass. n. 6872 del 1988 e n. 504 del 1985; sull’impossibilità di maturare le ferie in caso di assenza non retribuita si veda Corte Cass. 1315 del 1985).
Infatti, anche la giurisprudenza tende a collegare il diritto alla maturazione delle ferie al solo servizio effettivamente prestato (parere 07.08.2012 n. RAL-1431 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Se un lavoratore (turnista o meno) è richiamato in servizio dalle ferie nella giornata del sabato, non lavorativa, quale disciplina contrattuale trova applicazione? E nel caso in cui il richiamo in servizio avvenga, invece, nel giorno del riposo settimanale?
Nel caso in cui il dipendente sia richiamato dalle ferie nella giornata del sabato non lavorativa (come può avvenire in presenza di una settimana lavorativa articolata su cinque giorni), allo stesso andrà applicata (secondo le regole generali valevoli per tutti i lavoratori che si trovano nella medesima condizione, a prescindere dal richiamo dalle ferie) la disciplina dell’art. 24, comma 3, del CCNL del 14.09.2000: a richiesta del dipendente, per le ore di lavoro effettivamente prestate, allo stesso è riconosciuto o un riposo compensativo di durata equivalente oppure alla corresponsione del compenso per lavoro straordinario non festivo.
Nella diversa ipotesi del richiamo nel giorno del riposo settimanale, al lavoratore andrà applicata, invece, la disciplina dell’art. 24, comma 1, del CCNL del 14.09.2000.
Secondo la norma richiamata, per la prestazione resa, il lavoratore ha diritto al pagamento di un compenso aggiuntivo pari ad una maggiorazione del 50% della retribuzione oraria di cui all'art. 52, comma 2, lett. b), del CCNL del 14.09.2000, come sostituito dall’art. 10 del CCNL del 09.05.2006, commisurato alle ore di lavoro effettivamente prestate (pertanto, ad esempio, fatto 100 il valore della retribuzione oraria di cui all’art. 52, comma 2, lett. b, l’importo del compenso dovuto al lavoratore sarà pari a 50 -e non a 150 come pure ipotizzato sulla base di distorte interpretazioni di carattere estensivo- per ogni ora di lavoro prestato) e, accanto alla remunerazione, anche un riposo compensativo di durata esattamente corrispondente a quella della prestazione lavorativa (parere 07.08.2012 n. RAL-1429 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ In materia di sospensione della fruizione delle ferie per motivi di servizio si chiede: presso un ente, una giornata lavorativa della settimana si svolge dalle ore 8,00 alle ore 14,00. Se un dipendente (turnista o meno) è richiamato in servizio dalle ferie in questa giornata e lavora solo dalle 10, alle 14,00, come deve essere valutata questa prestazione, anche sotto il profilo del trattamento economico?
In mancanza di una diversa e specifica disciplina nell’ambito delle previsioni dell’art. 18, comma 11, del CCNL del 06.07.1995, si ritiene che il dipendente richiamato dalle ferie per motivi di servizio sia tenuto a rendere l’ordinaria prestazione di lavoro, anche sotto il profilo della durata.
Pertanto, rispetto a questa fattispecie, non assume alcun rilievo l’ora specifica in cui si sia presentato in servizio. Infatti, la giornata del rientro in servizio è tornata ad essere una ordinaria giornata lavorativa (la stessa sarà fruita dal dipendente nel prosieguo del tempo).
Se, quindi, il richiamo avviene in una giornata in cui l’orario di lavoro ha una durata di sei ore e la prestazione effettiva del dipendente si svolge per quattro ore, questi avrà comunque un debito orario di due ore (che potrà recuperare successivamente).
Analogo discorso vale nel caso di un eventuale rientro nelle sole ore pomeridiane.
Non si pone, quindi, un problema di particolare trattamento economico da riconoscere al dipendente, in quanto venendo in considerazione una ordinaria giornata lavorative essa viene remunerata nell’ambito dello stipendio mensile (parere 07.08.2012 n. RAL-1428 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Una dipendente assunta a tempo determinato,è stata assente dal lavoro, prima a titolo di congedo di maternità e poi di congedo parentale, per l’intera durata del contratto di lavoro.
La suddetta dipendente ha diritto al pagamento delle ferie non godute?

In materia di “monetizzazione” delle ferie, la regola generale, sancita dall’art. 18 del CCNL del 06.07.1995, è che essa può aver luogo solo all’atto della cessazione del rapporto di lavoro ed esclusivamente con riferimento a quelle non godute dal dipendente per rilevanti ed indifferibili ragioni di servizio, risultanti da atto formale avente date certa (comprovante la richiesta del dipendente di fruizione delle ferie e l’impossibilità di assegnazione delle stesse da parte del datore di lavoro per le ragioni di servizio di cui si è detto).
Questa Agenzia ha già chiarito che la monetizzazione delle ferie, all’atto della risoluzione del rapporto di lavoro, deve ritenersi consentita, oltre che nei casi espressamente indicati nel CCNL, anche in ogni caso in cui la mancata fruizione delle stesse sia determinata da eventi oggettivi di carattere impeditivo non imputabili al dipendente, nel senso cioè che si tratti di eventi tali da non essere in alcun modo riconducibili ad una precisa volontà in tal senso del dipendente.
Si fa l’ipotesi, ad esempio, della malattia del dipendente che, per il suo protrarsi nel tempo fino alla data di collocamento a riposo, non abbia lasciato alcuna possibilità di fruizione delle ferie da parte del dipendente stesso. Alla stessa fattispecie si può ricondurre anche la particolare fattispecie esposta, in quanto il godimento dei periodi di congedo di maternità e di congedo parentale, previsti dalla legge a favore della lavoratrice, hanno impedito la fruizione dei giorni di ferie a questa spettanti in base alla durata del contratto a termine.
In proposito, si ritiene che la monetizzazione possa avere luogo solo con riferimento ai giorni di ferie maturati nell’ambito del periodo di congedo di maternità (cinque mesi complessivi + l’eventuale periodo di astensione obbligatoria anticipata fruita dal dipendente dato che, per legge è equiparato al congedo di maternità) nonché nel periodo di 30 giorni di congedo parentale che, come espressamente previsto dall’art. 17, comma 5, del CCNL del 14.09.2000, è retribuito per intero e non riduce le ferie.
Per gli ulteriori periodi di assenza per congedo parentale fruiti dalla lavoratrice, al di là dei trenta giorni complessivi presi in considerazione dalla disciplina contrattuale, trova applicazione l’art. 34 del D.Lgs. n. 151/2001, secondo il quale:
a) “Per i periodi di congedo parentale di cui all'articolo 32 alle lavoratrici e ai lavoratori è dovuta fino al terzo anno di vita del bambino, un'indennità pari al 30 per cento della retribuzione, per un periodo massimo complessivo tra i genitori di sei mesi.” (comma 1);
b) “I periodi di congedo parentale sono computati nell'anzianità' di servizio, esclusi gli effetti relativi alle ferie …”. ( comma 5). Proprio tale ultima previsione consente di escludere che i periodi di congedo parentale di cui si tratta possano essere computati ai fini della maturazione delle ferie (parere 07.08.2012 n. RAL-1425 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Presso un ente il personale dirigente e non dirigente non ha fruito delle ferie maturate nei termini previsti dai contratti. Si è così determinata una situazione di accumulo negli anni di “ferie storiche”.
Come comportarsi?
E’ corretto disporre un piano di smaltimento e, qualora non svolto, è possibile eliminare le ferie?
In quali responsabilità incorrono i dirigenti?

Per quanto di competenza, si ritiene utile fornire le seguenti indicazioni di carattere generale relative alle modalità applicative delle vigenti regole contrattuali in materia di fruizione e di eventuale monetizzazione delle ferie.
Come già evidenziato in diversi orientamenti applicativi già formulati in materia dall’ARAN, le situazioni di accumulo nel tempo di diversi giorni di ferie non godute con conseguente richiesta di monetizzazione all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, devono considerarsi aspetti patologici della disciplina dell’istituto. Infatti, occorre ricordare che nella vigente regolamentazione, fermo restando la necessità di assicurare la fruizione del diritto da parte del dipendente, l’ente, in base, alle previsioni dell’art. 18 del CCNL del 06.07.1995, è chiamato a governare responsabilmente l’istituto attraverso la programmazione delle ferie. Tale aspetto assume particolare rilevo anche nei casi in cui il dipendente non abbia fruito delle ferie nell’anno di maturazione per ragioni di servizio. Infatti, l’istituto non dipende, nelle sue applicazioni, esclusivamente dalla volontà del dipendente. L'art. 2109 c.c. espressamente stabilisce che le ferie sono assegnate dal datore di lavoro, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del lavoratore. L'applicazione di tale disciplina, pertanto, nel caso di inerzia del lavoratore o di mancata predisposizione del piano ferie annuale, consente all'ente anche la possibilità di assegnazione di ufficio delle ferie. L’art. 2109 c.c. espressamente stabilisce che le ferie sono assegnate dal datore di lavoro, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del lavoratore. L’applicazione di tale disciplina, pertanto, nel caso di inerzia del lavoratore o di mancata predisposizione del piano ferie annuale, consente all’ente anche la possibilità di assegnazione di ufficio delle ferie. Si veda, su tale materia, anche l’art. 10, comma 2, del D.Lgs. n. 66/2003.
Relativamente alle modalità temporali di fruizione delle ferie annuali, la disciplina del D.Lgs. n. 213/2004 si applica a tutti i datori di lavoro pubblici e privati dall'01.09.2004, facendo salva la eventuale disciplina contrattuale vigente in materia di ferie.
Conseguentemente la disciplina dei CCNL in materia di ferie è sempre valida ed efficace, deve essere quindi rispettata come vincolo negoziale. I termini di fruizione delle ferie previsti dall’art.18 del CCNL del 06.07.1995 devono, quindi, ritenersi prevalenti rispetto a quelli previsti dal D.Lgs. n. 66/2003, nel testo modificato dal D.Lgs. n. 213/2004, per la esplicita salvaguardia disciplina contrattuale contenuta nel citati decreti; indicazioni in tal senso si ricavano dai contenuti della circolare n. 8/2005 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Pertanto, i termini per la fruizione delle ferie continuano ad essere quelli indicati nell'art. 18 del CCNL del 06.07.1995, sia per l'eventuale differimento per esigenze personali (entro il 30 aprile dell’anno successivo a quello di maturazione) sia per il differimento per esigenze di servizio (30 giugno dell’anno successivo a quello di maturazione), e la loro violazione si può tradurre solo in una forma di inadempimento contrattuale,anche suscettibile di dar luogo a contenzioso giudiziario. In tal senso, si è espressamente pronunciato il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con la circolare n.8 del 2005. Il diverso termine dei 18 mesi successivi all’anno di maturazione, previsto dal D.Lgs. n. 66/2003, per la fruizione delle ferie eccedenti le due settimane che obbligatoriamente devono essere fruite nell’anno di maturazione, come confermato dal Ministero del Lavoro nella medesima circolare n.8 del 2005, deve intendersi utile ai soli fini della possibile applicazione delle sanzioni amministrative, di cui all’art. 18-bis del medesimo D.lgs. n. 66/2003. Il dipendente, quindi, non può chiedere di spostare la fruizione fino al 18° mese successivo a quello di maturazione; né tale spostamento può essere autonomamente operato dal datore di lavoro.
La disciplina legale (D.Lgs. n. 213/2004) ha valore, invece, per quanto riguarda gli aspetti sanzionatori collegati ai seguenti inadempimenti:
a) mancata concessione di due settimane di ferie nel primo anno di maturazione, l'iniziativa compete sempre al dirigente, non occorre necessariamente la domanda del lavoratore (art. 2119 del codice civile);
b) mancata concessione di altre due settimane di ferie entro i 18 mesi successivi all'anno di maturazione.
In materia di fruizione di ferie, si richiamano i seguenti principi già espressi nei vari orientamenti applicativi rilasciati da parte dell’Agenzia:
a) le ferie sono un diritto irrinunciabile;
b) le ferie non fruite nel periodo previsto dal CCNL, possono sempre essere fruite anche in periodi successivi; infatti, la data del 30 giugno dell’anno successivo a quello di maturazione è solo il termine massimo entro il quale il datore di lavoro ha la possibilità di richiedere il differimento delle ferie precedentemente maturate dal dipendente e non fruite fino a tale momento per esigenze di servizio;
c) la monetizzazione delle ferie è consentita solo al momento della cessazione del rapporto di lavoro;
d) il divieto di monetizzazione è anche contenuto nel D.Lgs. n.66/2003.
Per il caso della mancata fruizione delle ferie per ragioni di servizio entro il primo semestre o nel caso di mancata fruizione derivi dalla mancata richiesta del dipendente dopo tale termine, si richiamano i contenuti dello specifico orientamento applicativo RAL 498, secondo il quale:
◦ in queste ipotesi, patologiche e che dovrebbero essere perciò anche di eccezionale verificazione, esclusa sia la monetizzazione delle ferie sia la perdita delle stesse, dato che si tratta di un diritto irrinunciabile, il dipendente può fruirne anche al di là dei termini fissati ma è l’amministrazione, eventualmente, a fissare i periodi di fruizione, in applicazione dell’art. 2109 del c.c., anche in mancanza di richieste del dipendente (le ferie sono assegnate dal datore di lavoro tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del lavoratore);
◦ normalmente, infatti, l’amministrazione garantisce la continuità dei servizi ed assicura il godimento delle ferie ai propri dipendenti, nel rispetto anche delle scadenze previste dal contratto, avvalendosi del citato art.2109 del c.c. attraverso la predisposizione di appositi e completi piani ferie e in caso di inerzia dei lavoratori o di mancata predisposizione dei piani stessi anche attraverso l’assegnazione d’ufficio delle ferie;
◦ in caso di disfunzioni organizzative determinatesi a seguito della cattiva gestione dei poteri datoriali, tra cui rientrano sicuramente quelli di amministrazione del personale, e tradottesi in un danno, anche funzionale, per l’amministrazione, il dirigente potrebbe essere chiamato a risponderne alla luce di quella responsabilità dirigenziale più volte richiamata dal D.Lgs. n. 165/2001.
Alla luce della suesposta ricostruzione delle vigenti regole legali e contrattuali in materia, si può affermare che esse richiedano comunque l’attribuzione e, quindi, la fruizione delle ferie entro l’anno solare successivo a quello di maturazione e comunque entro i termini fissati dal D.Lgs. n. 66/2003.
In materia di “monetizzazione” delle ferie, la regola generale sancita dall’art. 18 del CCNL del 06.07.1995 è che essa può aver luogo solo all’atto della cessazione del rapporto di lavoro ed esclusivamente con riferimento a quelle non godute dal dipendente per rilevanti ed indifferibili ragioni di servizio, risultanti da atto formale avente data certa (comprovante la richiesta del dipendente di fruizione delle ferie e l’impossibilità di assegnazione delle stesse da parte del datore di lavoro per le ragioni di servizio di cui si è detto).
Relativamente al precedente punto, si può affermare che qualunque atto formale, di data certa, dell’ente comprovante la richiesta del dipendente di fruizione delle ferie e l’impossibilità di assegnazione delle stesse da parte del datore di lavoro per rilevanti e perciò indifferibili esigenze di servizio è sufficiente ai fini dell’applicazione della disciplina contrattuale (utili indicazioni si possono ritrovare nella sentenza del CDS, sez.V, n. 7989/2001). La mancanza dei requisiti contrattuali non consente, pertanto, la “monetizzazione” delle ferie. Per ulteriori indicazioni, si rinvia ai contenuti degli orientamenti applicativi RAL 484 e ss (in particolare agli orientamenti RAL 486 e RAL 487 per l’ipotesi delle dimissioni del dipendente).
In base all’art. 10 del CCNL del 05.10.2001, il compenso per ferie non godute deve essere determinato con riferimento all’anno di mancata fruizione delle stesse e, quindi, con riferimento all’anno di maturazione dato che le ferie dovrebbe essere godute dal dipendente nel corso dell’anno di maturazione; nessuna regola contrattuale o legale prevede o prescrive la rivalutazione, annuale, degli importi dei compensi per ferie non godute.
Nel sistema complessivo delineato dal D.Lgs. n. 165/2001, tutte le attività connesse all’amministrazione e gestione del personale sono rimesse all’autonoma valutazione e decisione degli Enti, con conseguente e piena assunzione di responsabilità in materia. Inoltre, già nella vigenza dell’originario testo del D.Lgs. n. 29/1993, ma a maggior ragione dopo l'avvenuto completamento del processo di privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico ad opera dei DD.Lgs. n. 80/1998 e n. 387/1998, l'attività di gestione del personale non costituisce più attività amministrativa e non richiede quindi determine amministrative o altri provvedimenti amministrativi. Essa, infatti, in base all'art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001, rientra tra quelle ricondotte alla esclusiva competenza del dirigente ("del responsabile del servizio, in caso di enti privi di dirigenza") che vi provvede con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro e, quindi, con atti di diritto privato. Nell’ambito di ciascun ente o amministrazione, quindi, compete al responsabile della struttura organizzativa presso la quale presta servizio il dipendente, secondo il disegno organizzativo definito nel regolamento di organizzazione dell’ente (art. 2 D.Lgs. n. 165/2001 – art. 89 D.Lgs. n. 267/2000), o alla diversa figura eventualmente individuata nello stesso regolamento, il compito di assicurare che le ferie rinviate per indifferibili esigenze di servizio siano fruite nel primo semestre dell’anno successivo, tenendo conto anche delle richieste del dipendente (ma si ricordi che in materia è sempre applicabile l’art. 2109, comma 2, del codice civile) oppure anche oltre detto termine, ove le esigenze di servizio abbiano impedito la fruizione delle ferie entro il termine del 30 giugno dell’anno successivo a quello di maturazione. Pertanto, in caso di disfunzioni organizzative determinatesi a seguito della cattiva gestione dei poteri datoriali, tra cui rientrano sicuramente quelli di amministrazione del personale, anche con riferimento all’applicazione delle regole in materia di ferie, tradottesi in un danno, funzionale o anche patrimoniale per l’ente, il dirigente potrebbe essere chiamato a risponderne alla luce di quella responsabilità dirigenziale più volte richiamata dal D.Lgs. n. 165/2001.
Analoghe considerazioni valgono anche per la dirigenza.
In relazione a tale categoria di personale, per completezza informativa, si ritiene utile aggiungere anche che, secondo la giurisprudenza (Cassazione civile, sez. lav., 27.08.1996, n. 7883; Cassazione civile, sez. lav., 07.03.1996, n. 1793; Cassazione civile, sez. lav., 06.11.1982, n. 5825; Corte appello Milano, 29.11.2001; Pretura Como, 01.10.1985; Cass. Sez. Lav. n. 11786/2005; Cons. Stato n. 560/2007), il diritto al compenso sostitutivo delle ferie (monetizzazione) non spetta quando il mancato godimento delle stesse sia imputabile esclusivamente al dirigente, circostanza che ricorre tutte le volte in cui il dirigente abbia il potere di attribuirsi le ferie senza alcuna ingerenza del datore di lavoro, salvo che non sia dimostrata la ricorrenza di eccezionali ed obiettive necessità aziendali ostative alla fruizione delle stesse (parere 07.08.2012 n. RAL-1424 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Il termine massimo di fruizione delle ferie è quello previsto dall’art. 10 del D.Lgs. n. 66/2003 (18 mesi successivi allo scadere dell’anno di maturazione delle ferie) o quello dell’art. 18 del CCNL del 06.07.1995 (il 30 giugno dell’anno successivo a quello di maturazione delle ferie)?
La disciplina del D.Lgs. n. 213/2004 si applica a tutti i datori di lavoro pubblici e privati dall'01.09.2004, facendo comunque salva la eventuale disciplina contrattuale vigente in materia di ferie.
Conseguentemente la disciplina dei CCNL in materia di ferie è sempre valida ed efficace e deve essere, quindi, rispettata come vincolo negoziale.
I termini di fruizione delle ferie previsti dall’art.18 del CCNL del 06.07.1995 devono, quindi, ritenersi prevalenti rispetto a quelli previsti dal D.Lgs. n. 66/2003, nel testo modificato dal D.Lgs. n. 213/2004, per la esplicita salvaguardia disciplina contrattuale contenuta nel citati decreti (indicazioni in tal senso si ricavano dai contenuti della circolare n. 8/2005 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in particolare ai punti 16 e 17).
I termini, quindi, per la fruizione delle ferie continuano ad essere quelli indicati nell'art. 18 del CCNL del 06.07.1995, sia per l'eventuale differimento per esigenze personali sia per il differimento per esigenze di servizio, e la loro violazione si può tradurre solo in una forma di inadempimento contrattuale, anche suscettibile di dar luogo a contenzioso giudiziario (Ministero del Lavoro, circolare n. 8 del 2005).
Il diverso termine dei 18 mesi successivi all’anno di maturazione, previsto dal D.Lgs. n. 66/2003, per la fruizione delle ferie eccedenti le due settimane che obbligatoriamente devono essere fruite nell’anno di maturazione, come confermato dal Ministero del Lavoro nella medesima circolare n. 8 del 2005, deve intendersi utile ai soli fini della possibile applicazione delle sanzioni amministrative, di cui all’art. 18-bis del medesimo D.Lgs. n. 66/2003.
Il dipendente, quindi, non può chiedere di spostare la fruizione fino al 18° mese successivo a quello di maturazione; né tale spostamento può essere operato dal datore di lavoro.
La disciplina legale (D.Lgs. n. 213/2004) ha valore, invece, per quanto riguarda gli aspetti sanzionatori collegati ai seguenti inadempimenti:
a) mancata concessione di due settimane di ferie nel primo anno di maturazione, l'iniziativa compete sempre al dirigente, non occorre necessariamente la domanda del lavoratore (art. 2119 del codice civile);
b) mancata concessione di altre due settimane di ferie entro i 18 mesi successivi all'anno di maturazione (parere 07.08.2012 n. RAL-1423 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Ad un dipendente è stata applicata la sospensione cautelare facoltativa dal servizio in corso di procedimento penale, ai sensi dell’art. 5, comma 2, del CCNL dell’11.04.2008.
Poiché al momento della sospensione il suddetto dipendente aveva maturato e non goduto un discreto numero giorni di ferie, lo stesso può fruirne a seguito della riammissione in servizio, anche in assenza all’epoca di istanze di rinvio?

L’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che al lavoratore, a seguito della riammissione in servizio, debba essere riconosciuta la possibilità di fruire del residuo di ferie maturate e non godute nella fase del rapporto di lavoro antecedente alla applicazione della misura cautelare della sospensione dal servizio.
Infatti, anche se il dipendente all’epoca non ha presentato domanda di fruizione di quelle ferie, non può trascurarsi la rilevanza del “factum principis” rappresentato dall’adozione da parte del datore di lavoro di un provvedimento di sospensione, successivamente venuto meno, che comunque, oggettivamente, ha impedito il godimento delle ferie maturate.
In proposito, si ritiene utile richiamare i seguenti principi già espressi nei vari orientamenti applicativi pubblicati sul sito istituzionale www.aranagenzia.it:
1 le ferie sono un diritto irrinunciabile;
2 le ferie non fruite nel periodo previsto dal CCNL, possono sempre essere fruite anche in periodi successivi;
3 la monetizzazione delle ferie è consentita solo al momento della cessazione del rapporto di lavoro;
4 il divieto di monetizzazione è contenuto anche nel D.Lgs. n. 66/2003.
Nell’ipotesi considerata, quindi, potrebbe trovare applicazione, in via analogica, la previsione dell’art. 18, comma 15, del CCNL del 06.07.1995 che, per i casi di malattia protrattasi per lungo tempo, prevede che la fruizione delle ferie maturate e non godute sia preventivamente autorizzata dal dirigente, in relazione alle esigenze di servizio, anche al di là dei termini ordinariamente previsti a tal fine (30 aprile e 30 giugno dell’anno successivo a quello di maturazione).
Si ricorda che, durante il periodo di sospensione cautelare, il dipendente non matura ferie, per la mancanza del necessario presupposto della prestazione lavorativa effettivamente reso (sul necessario collegamento delle ferie al servizio effettivamente prestato si veda Corte Cass. n. 6872 del 1988 e n. 504 del 1985 – sull’impossibilità di maturare le ferie in caso di assenza non retribuita si veda Corte Cass. 1315 del 1985).
Per il futuro, si consiglia, comunque, maggiore attenzione anche al problema del consistente accumulo di ferie non godute nel corso degli anni, che emerge chiaramente anche nella fattispecie prospettata con riferimento al periodo antecedente alla sospensione.
Come già evidenziato in altri orientamenti applicativi, con riferimento all’istituto delle ferie, le situazioni di accumulo di ferie non godute dai lavoratori devono considerarsi aspetti patologici della disciplina dell’istituto.
Infatti, occorre ricordare che nella vigente regolamentazione, fermo restando la necessità di assicurare la fruizione del diritto da parte del dipendente, l’ente, in base, alle previsioni dell’art. 18 del CCNL del 06.07.1995, è chiamato a governare responsabilmente l’istituto attraverso la programmazione delle ferie.
Tale aspetto assume particolare rilevo anche nei casi in cui il dipendente non abbia fruito delle ferie nell’anno di maturazione per ragioni di servizio.
Infatti, l’istituto non dipende, nelle sue applicazioni, esclusivamente dalla volontà del dipendente. L'art. 2109 c.c. espressamente stabilisce che le ferie sono assegnate dal datore di lavoro, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del lavoratore.
L'applicazione di tale disciplina, pertanto, nel caso di inerzia del lavoratore o di mancata predisposizione del piano ferie annuale, consente all'ente anche la possibilità di assegnazione di ufficio delle ferie. L’art.2109 c.c., infatti, espressamente stabilisce che le ferie sono assegnate dal datore di lavoro, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del lavoratore.
Su tale materia, si suggerisce di prendere visione delle previsioni contenute nell’art. 10, comma 2, del D.Lgs. n. 66/2003 (parere 07.08.2012 n. RAL-1421 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ In una Unione di Comuni alcuni dipendenti prestano servizio presso due enti.
Possono essere riconosciuti due giorni festivi qualora, nel medesimo anno, la ricorrenza del Santo Patrono dovesse coincidere con i giorni in cui il dipendente deve prestare servizio nei due enti (ad esempio, il 10 agosto nell’ente A ed il 7 ottobre nell’ente B)?

In materia, si evidenzia quanto segue:
1 .in base alla disciplina contrattuale (art. 18, comma 6, del CCNL del 06.07.1995) si considera giorno festivo solo quello coincidente con la ricorrenza del Santo Patrono della località in cui il dipendente presta effettivamente servizio, purché si tratti di un giorno lavorativo;
2 .conseguentemente, ad avviso della scrivente Agenzia, tale festività nell’anno ordinariamente non può che essere unica, anche nella particolare ipotesi prospettata, stante comunque l’unicità ed unitarietà del rapporto di lavoro, come evidenziato dalle stesse previsioni dell’art. 14, commi 1 e 2, del CCNL del 22.01.2004;
3. già in altre occasioni, con riferimento ad ipotesi similari, è stato evidenziato che se alcuni dipendenti, per una particolare articolazione dell’orario di servizio, si trovano a svolgere la loro attività lavorativa anche in una sede di lavoro diversa da quella ordinaria dove ricade, in giorno diverso, la festa del Santo Patrono, questa produce necessariamente la chiusura degli uffici e rende, conseguentemente, inutile la prestazione di lavoro dei suddetti dipendenti in quella sede;
4. per quella giornata, sembra ragionevole ipotizzare far rientrare i dipendenti di cui si tratta nella sede ordinaria, per rendere la normale prestazione lavorativa, poiché potranno usufruire della giornata festiva del Santo Patrono quando questa si verificherà nella suddetta sede, che per essi è comunque la sede effettiva di lavoro;
5. è evidente, peraltro, che l’amministrazione deve adottare i preventivi atti organizzativi in ordine alle modalità di utilizzazione;
6. con specifico riferimento alla fattispecie in esame, pertanto, al fine di evitare la duplicazione del beneficio (non considerata dal CCNL e fonte di costi aggiuntivi), acquista un rilievo particolare l’adozione di una regolamentazione in tal senso nella convenzione di utilizzo parziale del personale, stipulata ai sensi del citato art. 14, comma 1, del CCNL del 22.01.2004 (parere 07.08.2012 n. RAL-1419 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ I lavoratori assunti con contratto di lavoro a termine possono fruire delle ferie maturate e non godute nell’ambito di un precedente rapporto a termine con lo stesso ente oppure queste ferie devono essere monetizzate?
All’atto della scadenza di un contratto di lavoro a tempo determinato, con l’estinzione del rapporto di lavoro, come noto, vengono meno tutte quelle situazioni soggettive che in quel rapporto trovavano il proprio fondamento (ferie, malattia, aspettative, ecc.).
Non si ritiene, pertanto che, nel caso in cui con il medesimo dipendente venga stipulato un nuovo contratto di lavoro a termine, lo stesso possa fruire delle ferie maturate nel precedente rapporto a termine nell’ambito del nuovo rapporto di lavoro. Tale esclusione trova applicazione anche nel caso in cui il nuovo contratto a termine segua senza soluzione di continuità quello precedente venuto a scadenza.
Come evidenziato nell’orientamento RAL 511, anche il dipendente assunto a termine, alla scadenza di tale tipologia di rapporto di lavoro, ha diritto alla monetizzazione delle ferie maturate e non fruite, alle stesse condizioni e negli stessi limiti stabiliti per il personale a tempo indeterminato; tale orientamento non può non trovare applicazione anche nel caso prospettato.
In materia di “monetizzazione” delle ferie, si deve ricordare che, in generale, sulla base dell’art. 18 del CCNL del 06.07.1995 , essa può aver luogo solo all’atto della cessazione del rapporto di lavoro ed esclusivamente con riferimento a quelle non godute dal dipendente per rilevanti ed indifferibili ragioni di servizio, risultanti da atto formale avente data certa (comprovante la richiesta del dipendente di fruizione delle ferie e l’impossibilità di assegnazione delle stesse da parte del datore di lavoro per le ragioni di servizio di cui si è detto).
Con riferimento a tale ultimo aspetto, si può affermare che qualunque atto formale, di data certa, dell’ente comprovante la richiesta del dipendente di fruizione delle ferie e l’impossibilità di assegnazione delle stesse da parte del datore di lavoro per rilevanti e perciò indifferibili esigenze di servizio è sufficiente ai fini dell’applicazione della disciplina contrattuale (utili indicazioni si possono ritrovare nella sentenza del CDS, sez. V, n. 7989/2001).
La mancanza dei requisiti contrattuali non consente, pertanto, la “monetizzazione” delle ferie (parere 19.07.2012 n. RAL-1318 - link a www.arangenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: FERIE E FESTIVITA'/ FERIE/ Per i lavoratori turnisti, le giornate festive infrasettimanali ricadenti in un periodo di ferie devono essere escluse dal conteggio delle giornate di ferie complessivamente godute nel periodo stesso oppure devono essere fruite anch’esse come giornate di ferie?
Se il turno è stato articolato sui giorni lavorativi della settimana (cinque o sei, secondo la specifica organizzazione del tempo di lavoro adottata), esso ricomprende anche le eventuali festività infrasettimanali ricadenti in tale arco temporale e che, conseguentemente, tali giornate per i turnisti devono considerarsi lavorative, con diritto alla corresponsione della sola indennità di turno festivo.
Pertanto, se nel giorno di festività infrasettimanale, il lavoratore, sulla base delle caratteristiche dell'organizzazione del turno adottata, dovrebbe ordinariamente prestare servizio, nel momento in cui decide di fruire di un periodo di ferie comprendente anche il suddetto giorno, questo non può non essere computato come giorno di ferie.
A tal fine è sufficiente la sola considerazione del fatto che, se non avesse fruito delle ferie, in quella giornata avrebbe dovuto rendere comunque la sua prestazione lavorativa (parere 18.07.2012 n. RAL-1306 - link a www.arangenzia.it).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI: La gestione associata.
DOMANDA:
Può essere stipulata una convenzione attuativa per la gestione associata dell'area tecnica nella quale vengono inserite 4 funzioni fondamentali previste dal D.L. 95/2012: catasto, urbanistica, protezione civile e rifiuti, senza stipulare singole convenzioni?
RISPOSTA:
L’art. 1, comma 530, della legge n. 147/2013 impone ai comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti entro il 31.12.2014 di completare il convenzionamento per la gestione delle funzioni fondamentali, così come elencate dal comma 1 dell’art. 14 del d.l. 78/2010 e successive modificazioni. Per formalizzare il convenzionamento può essere sufficiente anche la sottoscrizione di un’unica convenzione che raggruppi più funzioni fondamentali. La convenzione è un accordo di natura contrattuale con il quale gli enti regolano, in piene autonomia, aspetti di comune interesse patrimoniale e non.
Dette convenzioni sono disciplinate dall’art. 30 del Tuel che prevede due modalità per l'esercizio associato delle funzioni e dei servizi in convenzione e precisamente o la costituzione di uffici comuni che operano con personale distaccato dagli enti partecipanti, ai quali affidare l'esercizio delle funzioni o dei servizi in luogo degli enti partecipanti all'accordo, ovvero la delega di funzioni da parte degli enti partecipanti all'accordo a favore di uno di essi, che opera in luogo e per conto degli enti deleganti (comune capofila) (cfr. comma 4).
La Corte dei Conti ed in particolare la sezione regionale di controllo per la Lombardia con parere 10.12.2012 n. 513 ha fornito suggerimenti operativi per la redazione delle convenzioni per la gestione associate delle funzioni che non siano elusive degli intenti perseguiti dal legislatore di riduzione della spesa e di efficacia, efficienza ed economicità delle gestione.
La corte ha precisato: ”Per quel che concerne la concreta organizzazione di ciascuna funzione, è evidente che gli Enti interessati alla gestione associata debbano unificare gli uffici e, a seconda delle attività che in concreto caratterizzano la funzione, prevedere la responsabilità del servizio in capo ad un unico soggetto che disponga dei necessari poteri organizzativi e gestionali, nominato secondo le indicazioni contenute nell’art. 109 del Tuel. L’esercizio unificato o associato della funzione implica che sia ripensata ed organizzata ciascuna attività, cosicché ciascun compito che caratterizza la funzione sia considerato in modo unitario e non quale sommatoria di più attività simili. Lo svolgimento unitario di ciascuna funzione non implica necessariamente che la stessa debba far capo ad un unico ufficio in un solo Comune, potendosi ritenere, in relazione ad alcune funzioni, che sia possibile il mantenimento di più uffici in Enti diversi. Ma anche in questi casi l’unitarietà della funzione comporta che la stessa sia espressione di un disegno unitario guidato e coordinato da un Responsabile, senza potersi escludere, in linea di principio, che specifici compiti ed attività siano demandati ad altri dipendenti o anche agli organi di vertice dell’amministrazione comunale partecipante alla convenzione” (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: La tracciabilità dei rifiuti.
DOMANDA:
Alla luce della recente normativa inerente all’obbligo di utilizzo del sistema SISTRI, una Piattaforma Ecologica, gestita in proprio dal Comune ed autorizzata dalla Provincia, in cui vengono conferiti anche rifiuti urbani pericolosi è obbligata a mantenere l’iscrizione al SISTRI?
In caso di risposta affermativa, il numero dei dipendenti, che determina l’eventuale esclusione dall’obbligo d’iscrizione, deve essere calcolato, nel caso specifico di un Comune, in base al numero totale dei dipendenti oppure devono essere conteggiati solo i dipendenti direttamente coinvolti nella gestione della Piattaforma (operatori ecologici impiegati in Piattaforma - istruttore amministrativo Servizio Ecologia).
RISPOSTA:
Va premesso che il nuovo Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI) risulta istituito, ai sensi dell’articolo 189 del D.leg.vo n. 152/2006 e dell’articolo 14-bis del decreto-legge n. 78/2009 conv. con modificazioni, dalla legge n. 102 del 2009, con decreto del Ministero dell’ambiente 17.12.2009, al fine di rendere digitali le tradizionali scritture ambientali (registro di carico e scarico, formulario e Mud) attraverso dispositivi elettronici.
In sostanza si tratta di un sistema che si colloca nel più ampio quadro di innovazione e modernizzazione della Pubblica Amministrazione per permettere l'informatizzazione dell'intera filiera dei rifiuti speciali a livello nazionale e dei rifiuti urbani per la Regione Campania. Ciò premesso si osserva che, come rilevato anche dall’ANCI Lombardia, “tutti gli enti locali (regioni, province, comuni), qualora producano rifiuti pericolosi sono quindi tenuti ad iscriversi al SISTRI, come produttori di rifiuti pericolosi, secondo la tempistica di cui all’articolo 1, comma 1, lettere a) e b), del DM 17.12.2009. Gli stessi soggetti, qualora titolari di autorizzazioni di impianti di recupero/smaltimento di rifiuti urbani sono, altresì, obbligati ad iscriversi al SISTRI, ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lettera a), dello stesso decreto, nella categoria recuperatori/smaltitori. I centri di raccolta che operano ai sensi del DM 08.04.2008 sono esentati dall’obbligo di iscrizione. I comuni non sono, invece, tenuti ad iscriversi al SISTRI come produttori di rifiuti urbani. Solo i comuni della regione Campania devono, ai sensi dell’articolo 2 del citato DM 17.12.2009, iscriversi al SISTRI, come produttori di rifiuti urbani”.
La stessa Anci Lombardia ha quindi rilevato che risulta “sicuramente più opportuno e più facile avviare SISTRI ponendo in capo anche al soggetto giuridico gestore della piattaforma ecologica, a tutti gli effetti considerata unità locale, l’obbligatorietà della iscrizione al SISTRI con tutti gli adempimenti conseguenti” e ciò in quanto “…..così facendo, si raggiungerebbero facilmente molti degli obiettivi di SISTRI con una netta semplificazione dei processi e delle modalità operative che nessuno esclude possano essere ulteriormente approfonditi ed eventualmente migliorati in successive fasi”.
Per quanto attiene il numero dei dipendenti che determina l’eventuale esenzione dall’obbligo di iscrizione si osserva infine che l’art. 1 del cit. DM fa riferimento in generale ai “dipendenti” di enti o imprese produttori di rifiuti senza alcuna ulteriore specificazione o deroga onde si è dell’avviso che una interpretazione che ne limiti l’applicazione ai soli impiegati nella gestione della piattaforma non trovi un sicuro fondamento normativo (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le opere a scomputo.
DOMANDA:
Per opere a scomputo di opere di urbanizzazione una ditta (che è diventata stazione appaltante) ha effettuato una gara con relativa richiesta del CIG.
In questo caso il Comune non deve comunicare nulla all'Osservatorio regionale dei LL.PP.?
RISPOSTA:
L’articolo 32, comma 1, lett. g), primo periodo, del Codice dei contratti, attribuisce al privato, titolare del permesso di costruire, la funzione di stazione appaltante per la realizzazione delle opere a scomputo dei relativi oneri di urbanizzazione; il privato è, dunque, esclusivo responsabile dell’attività di progettazione, affidamento ed esecuzione delle opere di urbanizzazione, ferma restando la vigilanza da parte dell’amministrazione consistente, tra l’altro, nell’approvazione del progetto e del collaudo.
La norma configura una titolarità "diretta" della funzione di stazione appaltante in capo al privato titolare del permesso di costruire (ovvero titolare del piano di lottizzazione o di altro strumento urbanistico attuativo contemplante l'esecuzione di opere di urbanizzazione), che, in quanto "altro soggetto aggiudicatore", è tenuto ad appaltare tali opere a terzi, nel rispetto del Codice e della normativa sulle gare pubbliche (procedure di gara previste dal Codice -procedura aperta o ristretta e, solo nei casi tassativamente indicati dagli artt. 56 e 57, la procedura negoziata-, le norme sulla pubblicità, quelle sul rispetto dei termini, sui requisiti di partecipazione, la cauzione provvisoria, i criteri di aggiudicazione -prezzo più basso o offerta economicamente più vantaggiosa-, la disciplina delle offerte anomale, la corresponsione del contributo all'Autorità, le comunicazioni obbligatorie all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici).
Quindi, l’affidamento e l’esecuzione delle opere di urbanizzazione sono sottoposti alla vigilanza dell’Autorità, e le relative informazioni sono da ritenersi obbligatorie e, di conseguenza, devono essere comunicate all’Osservatorio dei contratti pubblici (“i dati riguardanti l'affidamento e la realizzazione delle opere di urbanizzazione sono compresi nelle comunicazioni obbligatorie all' Osservatorio dei Contratti pubblici”, cfr. Determinazione Avcp n. 7 del 16.07.2009) (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le misure progettuali.
DOMANDA:
In merito alla tolleranza prevista dal DPR 380/2001 art. 34, comma 2-ter, si chiede: la flessibilità del 2% è ammessa solo rispetto alle misure previste in progetto o anche rispetto ai parametri fissati dal piano urbanistico?
Il 2% aggiuntivo é in deroga agli indici di piano, alla volumetria assentita col piano di recupero, alla volumetria prevista dagli ambiti di trasformazione o, sommata a quanto concesso dal titolo abilitativo, vi deve restare compresa? Idem dicasi per le altezze e le superfici coperte? Il 2% va anche in deroga al DM 1444/1968 per le distanze?
RISPOSTA:
Il quesito in esame concerne l’interpretazione dell’art. 34, comma 2-ter, del D.P.R. n. 380/2001 che così recita: «Ai fini dell'applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali».
L’articolo 34 del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia disciplina gli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, prevedendone la rimozione o la demolizione a spese dei responsabili degli abusi, ovvero l’applicazione di una sanzione nel caso in cui le misure predette arrechino pregiudizio.
Il testo dell’articolo in esame, così come la relazione illustrativa al D.L. 13 n. 70/2011 (che ha introdotto la versione vigente del comma 2-ter), prevedono espressamente che nella definizione di parziale difformità del titolo abilitativo siano comprese le violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali.
Già dal tenore letterale si intuisce come la misura suindicata si riferisca esclusivamente alle misure previste in progetto e non anche ai parametri urbanistici. A conferma di ciò, il TAR Basilicata (sentenza n. 574 del 02.10.2013) ha statuito che il comma 2-ter dell’art. 34 DPR n. 380/2001 (introdotto dall’art. 5, comma 2, lett. a, n. 5, D.L. n. 70/20011 conv. nella L. n. 106/2011), il quale prevede che “non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2% delle misure progettuali” non trova sempre attuazione, atteso che l’eccedenza nella misura massima del 2% non può comunque violare i parametri urbanistici stabiliti dagli strumenti urbanistici.
Discorso diverso va fatto per quanto riguarda il rapporto tra la disposizione in esame e il D.M. n. 1444/1968 in materia di distanze. In questo caso, infatti, si ritiene che la costruzione realizzata ad una distanza inferiore a quella prevista e progettata ma contenuta nella soglia del 2%, sia da considerare come errore costruttivo tollerato che non determina violazione edilizia. Il D.L. n. 70/2011, infatti, contempla nella tolleranza lo scostamento dei distacchi tra cui pertanto può ricomprendersi lo scostamento delle distanze tra edifici (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ La carta non tramonta. Non può essere negata la copia dei documenti. Ai consiglieri può essere riconosciuto l'accesso all'intranet del comune.
Ai fini dell'esercizio del diritto di accesso da parte di un consigliere comunale, i documenti richiesti possono essere rilasciati dagli uffici comunali esclusivamente su supporto informatico o devono essere forniti anche in forma cartacea?
Il diritto di accesso e di informazione dei consiglieri comunali nei confronti della p.a. è disciplinato dall'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che riconosce ai consiglieri comunali e provinciali il «diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato».
Dal contenuto della citata norma si evince il riconoscimento, in capo al consigliere comunale, di un diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del comune di residenza (art. 10, Tuel) che, più in generale, nei confronti della p.a. quale disciplinato dalla legge n. 241/1990.
Tale maggiore ampiezza di legittimazione è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, onde poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza dell'amministrazione, considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata (cfr. pareri del 23 giugno e del 07.07.2011, resi dalla commissione per l'accesso ai documenti amministrativi).
La citata Commissione si è espressa su un quesito posto dal segretario di un comune, relativo all'accesso dei consiglieri comunali all'albo pretorio on-line.
Si chiedeva, in particolare, di sapere se il regolamento comunale sull'accesso ai documenti amministrativi potesse prevedere che gli interessati all'accesso, e in particolare i consiglieri comunali, non dovessero più richiedere copia cartacea di quanto già pubblicato nell'albo pretorio on-line.
In merito, la commissione ha ritenuto di esprimere parere negativo, sia perché l'esercizio del diritto d'accesso non ha alcun rapporto con il valore legale del documento al quale si chiede di accedere, sia perché non tutti possono essere in grado di connettersi con la rete comunale e di navigare in essa.
Pertanto, il mancato rilascio della copia cartacea potrebbe costituire una discriminazione dei soggetti privi di adeguata cultura informatica, con conseguente lesione sia del principio generale di uguaglianza che dello specifico diritto d'accesso, che pure attiene a quelle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti a tutti i cittadini.
Va, però, considerato che il legislatore con l'art. 32 della legge n. 69 del 18.06.2009, per comprimere le spese correnti, finalità che rientra tra le esigenze generali prioritarie della politica economica finanziaria nazionale, ha espressamente previsto la pubblicazione on-line.
Tali esigenze non vengono compromesse qualora le copie in forma cartacea (quelle rilasciate per e-mail sono praticamente a costo zero e quindi gratuite) siano richieste da privati cittadini, dal momento che, in tal caso, l'accesso è subordinato ad un sia pur limitato onere finanziario a carico del richiedente.
Possono, però, essere compromesse nel caso in cui i consiglieri comunali avanzino richieste generalizzate o, comunque, di dimensioni manifestamente esorbitanti, con conseguente, ingiustificato aggravio economico e operativo per il comune.
Fermo restando, dunque, alla luce dei sopra citati pareri, che non può essere negata la copia cartacea dei documenti richiesti, dovrebbe evitarsi la presentazione, da parte dei consiglieri, di istanze eccessivamente onerose per l'ente.
Proprio al fine di evitare che le continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio della ordinaria attività amministrativa dell'ente locale, la Commissione per l'accesso, con parere del 29.11.2011, ha riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di avere accesso diretto al sistema informatico interno dell'ente attraverso l'uso di password di servizio (articolo ItaliaOggi del 28.11.2014 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

TRIBUTI: Tasi sui fabbricati demoliti.
Domanda
I fabbricati che sono stati demoliti o che sono oggetto di restauro e risanamento conservativo o di ristrutturazione edilizia o ancora di ristrutturazione urbanistica come devono essere considerati ai fini del Tributo sui servizi indivisibili (Tasi)?
Risposta
Come è noto, la legge del 27.12.2013, numero 147, detta legge di stabilità per l'anno 2014, composta di un solo articolo, al comma 639, ha introdotto, a partire dall'anno 2014, una nuova imposta, detta imposta unica comunale (Iuc).
Il tributo, pur definito come «imposta unica», contiene al suo interno la componente patrimoniale, data dall'Imposta municipale propria (Imu), e la componente relativa ai servizi.
La componente relativa ai servizi, a sua volta, si articola:
- nella Tasi, che è un tributo dovuto per i servizi indivisibili resi dai comuni;
- nella Tari, che è un tributo dovuto per finanziare i costi del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti.
Ora, ai fini della Tasi, i fabbricati, individuati dalla legge numero 457 del 1978, che sono stati demoliti o che sono oggetto di restauro e risanamento conservativo o di ristrutturazione edilizia o ancora di ristrutturazione urbanistica devono essere considerati come area edificabile. E, al riguardo, si ricorda che, ai sensi dell'articolo 36, comma 2, del decreto legge numero 223, del 2006, convertito con la legge numero 248, del 2006, «un'area è da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal comune, indipendentemente dall'approvazione della regione e dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo» (articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014).

TRIBUTI: Tasi, la quota del proprietario.
Domanda
Quale proprietario del bene, sono tenuto al pagamento della quota del Tributo sui servizi indivisibili (Tasi) non versato dall'occupante un appartamento di mia proprietà?
Risposta
La Tasi (tassa sui servizi indivisibili) è un tributo istituito per coprire le spese sostenute dai comuni nell'espletamento di servizi necessari per la collettività, quali: servizi di illuminazione pubblica, servizi per la manutenzione delle strade, servizi per la cura del verde pubblico, servizi per la pubblica sicurezza e la vigilanza, nonché servizi per la protezione civile, servizi per le aree cimiteriali ecc.
Essa è dovuta, come già si è avuto modo di dire, anche dall'occupante del bene in una misura determinata dal comune con proprio regolamento.
Pertanto, la Tasi, per lo stesso immobile, se posseduto da un soggetto diverso dal titolare del diritto reale, è dovuta da due soggetti distinti, ciascuno dei quali ha un'autonoma obbligazione tributaria. Ne consegue che, se l'utilizzatore dell'immobile non provvede al versamento della quota di sua spettanza, il proprietario del bene non ha alcuna responsabilità e il comune non potrà chiedergli il versamento del tributo, omesso dal detentore del bene.
Se i detentori del bene sono più di uno, allora la responsabilità per il pagamento della Tasi è solidale tra i detentori, per cui il comune, in caso di inadempienza, si può rivolgersi all'uno o all'altro dei coobbligati per la riscossione del dovuto (articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014).

TRIBUTI: Esenzione Imu collinare.
Domanda
Proprietario di un terreno non edificabile, vorrei conferma che anche ai fini Imu continua a valere, come mi è stato detto, l'esenzione prevista per i terreni collinari e montani.
Risposta
La risposta è affermativa, almeno in linea di principio. Infatti, l'art. 7, lett. h), del dlgs n. 504/1992 (che stabiliva l'esenzione ai fini Ici) è richiamato dalla disciplina Imu (duplice richiamo nell'articolo 9, 8° c. del dlgs n. 23/2011 e nell'articolo 13, 13° c. del dl «Salva Italia» n. 201/2011), ma alla condizione, peraltro già prevista in vigenza dell'Ici, che i terreni in questione siano «agricoli» nel senso stabilito dall'art. 2, lett. c) del dlgs n. 504/92: ciò significa che i terreni in questione devono essere «adibiti all'esercizio delle attività indicate nell'art. 2135 del codice civile» e pertanto alla coltivazione del fondo, alla selvicoltura, all'allevamento di animali e attività connesse.
Il semplice possesso di terreni in comuni (o parti di comuni) ricadenti nell'ambito dell'art. 7 del dlgs n.504/92 non è quindi sufficiente a legittimare l'esenzione da Imu. Ricordiamo che un elenco dei predetti comuni (o zone di essi) «ricadenti in aree montane o di collina delimitate ai sensi dell'articolo 15 della L. n. 984/1977» è allegato alla circolare del ministero delle finanze n. 9/1993.
Segnaliamo anche che l'art. 4, c. 5-bis del dl n. 16/2012, introdotto nella recente conversione in legge (L. n. 44/2012), ha stabilito che «Con decreto di natura non regolamentare del ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, possono essere individuati comuni nei quali si applica l'esenzione di cui alla lettera h) del comma 1 dell'articolo 7 del dlgs n. 504/1992, sulla base della altitudine riportata nell'elenco dei comuni italiani predisposto dall'Istituto nazionale di statistica (Istat), nonché, eventualmente, anche sulla base della redditività dei terreni». Riservandosi tale facoltà, il ministro dell'economia può pertanto emanare, in qualsiasi momento (non è previsto alcun termine), un decreto che modifica radicalmente l'elenco dei comuni (attualmente sono moltissimi) nei quali l'esenzione opera.
Ricordiamo infine, per necessaria completezza, che, sempre nella conversione in legge del dl n. 16/2012, nell'art. 4 sono state tra l'altro, da un lato, inserite norme agevolative per la determinazione dell'Imu relativa ai terreni agricoli posseduti e condotti da coltivatori diretti o da imprenditori agricoli professionali e per i fabbricati rurali strumentali ubicati in comuni montani o parzialmente montani, dall'altro ulteriormente elevato a 135 il moltiplicatore generale da applicare al reddito dominicale (da rivalutare del 25%, come già si faceva per l'Ici) dei terreni agricoli e di quelli non coltivati; resta invece confermato a 110 il moltiplicatore previsto «per i terreni agricoli, nonché per quelli non coltivati, posseduti e condotti dai coltivatori diretti e dagli imprenditori agricoli professionali iscritti nella previdenza agricola» (articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014).

TRIBUTI: Imu e invenduto.
Domanda
Impresa di costruzioni edili con un magazzino di immobili invenduti a causa della crisi economica: è vero che spetta una specifica agevolazione Imu? Quale e in quali termini?
Risposta
L'art. 13, c. 9-bis del dl «Salva Italia» n. 201/2011 prevede: «I comuni possono ridurre l'aliquota di base fino allo 0,38% per i fabbricati costruiti e destinati dall'impresa costruttrice alla vendita, fintanto che permanga tale destinazione e non siano in ogni caso locati, e comunque per un periodo non superiore a tre anni dall'ultimazione dei lavori».
Questi i termini e le condizioni dell'agevolazione che, tuttavia, per poter in concreto operare, deve essere espressamente deliberata dal Comune. In mancanza, resta applicabile a tali immobili l'aliquota ordinaria. In ogni caso, ai fini dell'acconto da versare entro il 18 giugno prossimo occorrerà applicare l'aliquota ordinaria di legge (0,76%) e verificare poi se il Comune avrà deliberato (lo può fare entro il 30 settembre) di introdurre la predetta agevolazione e/o di modificare le aliquote rispetto a quelle di legge.
In sede di acconto (dovuto entro il 17 dicembre) dovrà essere versata l'imposta a conguaglio per l'intero anno, determinata con le aliquote definitive applicabili in ogni singolo comune e, in mancanza, con quelle di legge, scomputando l'importo già versato a titolo di acconto.
Si segnala che anche il governo si è riservato la facoltà di modificare le aliquote e le detrazioni con uno o più Provvedimenti da emanare entro il termine del 10.12.2012 (articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Partecipate senza conflitti. Incompatibilità per i dipendenti delle in house. Solo queste società sono articolazioni interne degli enti controllanti.
Sussiste una causa d'incompatibilità di cui all'art. 67-quater, comma 11, del decreto legge 22.06.2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 134, nei confronti del presidente e amministratore di una società a partecipazione pubblica, che eserciti attività libero-professionali correlate alle opere e ai lavori della ricostruzione post-sisma?

La questione prospettata è complessa e di non agevole decisione, non potendosi prescindere dall'esatto inquadramento delle società in esame, la cui natura e il cui regime giuridico costituiscono oggetto di dibattito tra gli operatori del diritto.
In assenza di elementi specifici riguardanti l'entità della partecipazione comunale e il tipo di attività svolta dall'impresa, le considerazioni che seguono fanno necessariamente riferimento ai diversi modelli di società partecipata in astratto ipotizzabili e dovranno essere adattate alle specificità del caso concreto. Nell'affrontare la problematica, si deve comunque tenere conto, da un lato, della ratio della norma e, dall'altro, delle direttive ermeneutiche elaborate dalla giurisprudenza. Sotto il primo profilo, in linea con le disposizioni che sanciscono analoghe ipotesi d'incompatibilità, la finalità della norma richiamata può essere ravvisata nell'esigenza di impedire che possano concorrere all'esercizio delle funzioni degli organi di governo degli enti ivi indicati soggetti portatori di interessi confliggenti con quelli degli enti medesimi o i quali si trovino comunque in condizioni che ne possano compromettere l'imparzialità.
Peraltro, le cause ostative all'espletamento del mandato elettivo, pur essendo di stretta interpretazione e, quindi, non suscettibili di applicazione analogica, possono essere intese in maniera estensiva, nel rispetto del canone di ragionevolezza (ex multis, Corte costituzionale, sentenza 20.02.1997, n. 44).
Premessa, quindi, l'ammissibilità di un'interpretazione estensiva, ove necessaria per salvaguardare le finalità perseguite dalla norma, nella fattispecie, si tratta sostanzialmente di verificare se e in quali termini le società partecipate da un'istituzione locale possano essere considerate entità assimilabili agli enti di stampo pubblicistico. Sul punto, la giurisprudenza ha elaborato una serie di univoci criteri ai quali ricorrere per stabilire se la veste privatistica di un'impresa abbia carattere meramente formale.
In tal senso, particolarmente pregnanti sono alcune recenti sentenze dei giudici di legittimità secondo cui le società di capitali, costituite o comunque partecipate da soggetti pubblici per il perseguimento delle finalità loro proprie non cessano di essere società di diritto privato, la cui disciplina, se non diversamente disposto, risiede nelle norme dettate dal codice civile, tanto più alla luce dell'art. 4 della legge 20.03.1975, n. 70, a tenore del quale occorre l'intervento del legislatore per l'istituzione di un ente pubblico.
In linea generale, pertanto, le società a partecipazione pubblica sono enti di diritto privato, dotate di autonoma personalità giuridica e conseguentemente non assimilabili a una pubblica amministrazione ai fini che qui interessano (in tal senso, cfr. anche Corte di cassazione, Sezioni Unite Civili, ordinanza 19.12.2009, n. 26806; Id, sentenza 09.03.2012, n. 3692).Nondimeno, a diverse conclusioni si deve pervenire qualora si tratti di società di fonte legale, regolate da una disciplina sui generis di chiara impronta pubblicistica (quale, per esempio, la Rai.: cfr. Corte di cassazione, sezioni unite civili, ordinanza 22.12.2009, n. 27092), nonché laddove ricorrano i connotati qualificanti del cosiddetto in house providing, figura di origine eminentemente giurisprudenziale, in seguito recepita in diverse disposizioni normative e, in particolare, dall'art. 113 del dlgs n. 267 del 2000.
Tre condizioni connotano la società in house: la natura esclusivamente pubblica dei soci, l'esercizio dell'attività in prevalenza a favore dei soci stessi e la sottoposizione a un controllo corrispondente a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici. Tali caratteristiche non consentono alla società in house di collocarsi alla stregua di un'entità posta al di fuori dell'ente o degli enti pubblici da cui promana, i quali ne dispongono come di una propria articolazione interna.
In altri termini, la stessa non è altro che una longa manus dell'amministrazione e non può considerarsi terza rispetto al soggetto controllante. Alla luce della giurisprudenza evocata, la situazione d'incompatibilità sussiste, pertanto, ogni qual volta l'interessato sia dipendente di una società sottoposta a un peculiare regime di carattere pubblicistico ovvero di una società partecipata ascrivibile al novero delle società in house (articolo ItaliaOggi del 21.11.2014).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Impianti fotovoltaici.
Domanda
Lessi tempo addietro un qualcosa su come calcolare l'aumento della rendita di un immobile a seguito dell'installazione di un impianto fotovoltaico. Potete darmene gentilmente nozione, dal momento che non ricordo più dove la lessi?
Risposta
Verosimilmente il cortese lettore si riferisce a un «question time» in commissione finanze della Camera del 30/04/2014. In quella sede il sottosegretario all'economia Zanetti ebbe a precisare che, per quel che concerne gli incrementi delle rendite degli immobili, la variazione della rendita deve avvenire soltanto quando l'impianto fotovoltaico «integrato» incrementa il valore capitale (o la redditività ordinaria) del 15%, con ulteriori salvaguardie (potenza nominale inferiore a 3 kwt per ogni unità, potenza nominale complessiva non superiore a tre volte il numero delle unità immobiliari e volume dell'impianto inferiore a 150 mc per le installazioni a terra) in presenza delle quali non risulta obbligatoria la dichiarazione di variazione in catasto (articolo ItaliaOggi Sette del 17.11.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Terrazze a verde.
Domanda
Il mio architetto mi ha detto che posso usufruire della detrazione del 65% per il risparmio energetico ricoprendo il mio terrazzo «a verde». Dal momento che l'affermazione mi lascia un po' perplesso, chiedo il parere dei vostri esperti.
Risposta
Il ministero per l'ambiente, comitato per lo sviluppo del verde pubblico, ha, delibera n. 10017 del 13.05.2014, precisato che le coperture «a verde» di terrazze e tettoie, a meno che non si tratti di opere dal mero valore estetico e/o paesaggistico e privi di apprezzabili effetti sul piano del risparmio energetico, fruiscono della detrazione fiscale del 65% prevista per gli interventi di miglioramento delle prestazioni energetiche delle unità immobiliari (articolo ItaliaOggi Sette del 17.11.2014).

URBANISTICA: Comune di Gaeta - Parere in merito alla necessità di acquisire il parere regionale di cui all'art. 16 della legge 1150/1942 in merito a modifiche apportate a piani attuativi già approvati (Regione Lazio, parere 17.10.2014 n. 296506 di prot.).

URBANISTICA: Comune di Tivoli - Parere in merito all'acquisizione del parere paesaggistico di cui agli artt. 16 e 28 della Legge n. 1150/1942 nell'ambito del procedimento di formazione degli strumenti urbanistici attuativi previsto dalla L.R. n. 36/1987 (Regione Lazio, parere 12.07.2012 n. 14717 di prot.).

NEWS

EDILIZIA PRIVATAPer gli interventi liberi sparisce il "Docfa". Catasto: gli oneri di aggiornamento passano a carico delle Entrate, ma si rischia di gonfiare nuovamente l'arretrato.
Con lo Sblocca-Italia (articolo 17, comma 1, lettera c, punto 3) viene prevista una modifica all'art. 6, comma 5, del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Dpr 380/2001) che ingenera però dei problemi in tema di procedimenti di variazione catastale di immobili già censiti.
L'art. 6 del testo unico disciplina le tipologie degli interventi liberi ... (... continua) (articolo Il Sole 24 Ore del 26.11.2014).

EDILIZIA PRIVATASanzioni per le vecchie violazioni. Saranno i comuni a modulare la cifra da pagare, variabile da 2mile a 20mila euro.
Edilizia: la novità dello Sblocca-Italia per chi non adempie alle ordinanze di demolizione operative per irregolarità permanenti.

Il decreto Sblocca-Italia (Dl 133/2014, divenuto legge 164) ha già messo in moto le amministrazioni comunali per irrogare e riscuotere sanzioni pecuniarie a carico di tutti coloro che risultino non aver adempiuto ad ordinanze di demolizione per abusi edilizi.
La norma (art. 31, comma q-bis, del Dpr 380/2001, introdotto in sede di conversione del decreto 133) è di immediata applicazione ... (... continua) (articolo Il Sole 24 Ore del 26.11.2014).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAInammissibili le Pec seriali. Vietati invii tesi a frenare l'ufficio per avere indennizzi. Bloccato dalla Gdf il sistema usato da una ditta sfruttando la norma del dl del Fare.
Vietato inviare alla p.a. centinaia di richieste via Pec, tutte uguali, solo al fine di paralizzare l'attività del Comune e ottenere, quindi, l'indennizzo previsto dalla legge per il danno da ritardo. A seguito del procedimento penale (n. 4941/14/21) avviato dalla procura di Imperia è stato bloccato, nei giorni scorsi, dalla Guardia di finanza, il dominio internet di una società che intendeva sfruttare, a proprio vantaggio la difficoltà per il comune di rispondere entro i termini fissati dalla legge.

La giurisprudenza (da ultimo il Consiglio di stato, sez. V, con la sentenza 3045/2013) ha più volte affermato il diritto, per gli operatori economici, di ottenere un risarcimento poiché il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento è sempre un costo.
Per evitare ogni dubbio sul fronte del riconoscimento dell'indennizzo per il disagio sopportato dal privato a seguito della violazione dei termini di conclusione del procedimento, è intervenuto il legislatore: nell'estate del 2013, con una specifica modifica all'articolo 2-bis della legge 241/1990 introdotta dal decreto del Fare (dl 69/2013) è stato previsto l'indennizzo da erogare in ogni caso, a prescindere da una causa. Nel senso che il pagamento delle somme è dovuto anche nell'eventualità in cui il ritardo nella emanazione dell'atto sia connesso ad un comportamento scusabile e astrattamente lecito.
In seguito è stata emanata anche, il 9 gennaio scorso, una specifica direttiva da parte del Ministero della semplificazione, con la quale è stata fissata in 30 euro la misura dell'indennizzo per ogni giorno di ritardo, nel limite massimo di 2 mila euro. Da qui, la strumentale iniziativa di inviare centinaia di Pec ai comuni inventata dalla ditta, tutti relativi all'installazione di cartelloni pubblicitari.
Per fronteggiare la situazione, tuttavia, i comuni non sono rimasti inerti. Ad esempio, il comune di Arona ha predisposto una nota fatta girare via web, che ha fornito indicazioni su come gestire il problema. E anche il Consorzio dei comuni trentini, con una circolare del 29 ottobre, si è mosso in tal senso, dando atto dell'apertura di un'inchiesta da parte della magistratura per il reato ipotizzato di interruzione o turbativa di pubblico servizio (articolo ItaliaOggi del 25.11.2014).

LAVORI PUBBLICIAppalti, rischi penali per chi permette varianti ingiustificate. Anticorruzione. L’allarme dell’Anac.
Più sono «aggressivi» i ribassi con i quali vengono aggiudicati gli appalti, più frequenti sono le varianti in corso d’opera, che spesso consentono all’appaltatore di recuperare gli “sconti” offerti all’inizio e si giustificano solo formalmente con le classiche «cause impreviste e imprevedibili» che permettono di riformare i contratti. E non è solo un fatto di frequenza:?quando il ribasso d’asta iniziale è stato superiore al 30%, almeno il 50% delle varianti approvate presentano problemi di varia importanza, che se messi sotto controllo potrebbero sfociare in responsabilità anche penali nei confronti di chi ha aggiudicato la gara. Non solo: nel 90% dei casi, l’importo della variante è vicinissimo al ribasso d’asta iniziale, annullando di fatto il risparmio.
A dirlo è il primo esame delle varianti effettuato dall’Autorità nazionale anticorruzione guidata da Raffaele Cantone. Il rapporto a volte perverso fra aggiudicazioni con ribassi extra e “correzioni” successive in corso d’opera è un fatto noto, al punto che proprio per contrastare fenomeni di questo tipo il decreto sulla Pubblica amministrazione (articolo 37 del Dl 90/2014)?ha imposto agli enti pubblici di trasmettere le varianti all’Autorità. I numeri elaborati dall’Anac, però, offrono per la prima volta una misurazione puntuale del fenomeno, e già evidenziano «condotte ricorrenti» che «nella loro reiterazione testimoniano un’applicazione distorta dell’istituto della variante in corso d’opera».
Il rapporto evidenzia in particolare undici di queste condotte ricorrenti, a partire dalle varianti approvate sulla base di «motivazioni non coerenti» o addirittura «in sanatoria» di lavori già eseguiti o ultimati fino alle modifiche che coprono errori di progettazione oppure che si presentano come migliorative, ma in realtà finiscono per «comportare una sensibile riduzione della qualità complessiva della realizzazione», per esempio quando prevedono l’utilizzo di materiali e tecnologie meno pregiate di quelle previste nel contratto originario senza però modificare il costo.
L’analisi dell’Anac non si limita, tuttavia, a passare in rassegna la “fenomenologia della variante”. Il passaggio cruciale, anzi, è quello successivo, che porta l’autorità a evidenziare le ricadute che queste prassi possono avere in termini di responsabilità a carico delle stazioni appaltanti. Il Codice dei contratti (articolo 132 del Dlgs 163/2006) permette infatti di modificare il contratto iniziale solo quando ricorrono precise circostanze, come le cause o i rinvenimenti «imprevisti e imprevedibili» oppure le «sopravvenute disposizioni legislative e regolamentari» che mettono fuori regola l’appalto originario.
L’ampia maggioranza dei casi arrivati all'Anac sono giustificati con il primo gruppo di motivazioni, quelle legate ai fattori imprevedibili, che però nelle relazioni dei responsabili del procedimento spesso non sono dimostrate e servono «a nascondere carenze progettuali». Quando il responsabile unico del procedimento riporta nella relazione «circostanze non veritiere» oppure «motivazioni incoerenti con gli elementi di fatto», avverte il documento firmato da Cantone, non si limita a perseguire «una scarsa trasparenza amministrativa», ma rischia di «integrare la fattispecie penalmente rilevante di falso in atto pubblico». Non solo, perché?con la trasmissione della relazione all’Anac può scattare la sanzione fino a 51.545 euro dedicata dal Codice (articolo 6, comma 11 del Dlgs 163/2006) a chi «fornisce informazioni o esibisce documenti non veritieri»: a far scattare la sanzione sarebbe la stessa Autorità.
Conseguenze importanti possono ricadere anche sul responsabile del procedimento che approva varianti «in sanatoria», per regolarizzare opere già eseguite. Chi firma queste correzioni ex post, spiega l’Anac, «finisce per declinare alle proprie funzioni di controllo, nonché ai compiti di vigilanza sull’ammissibilità delle varianti in corso d’opera», e presta il fianco alle responsabilità erariali e disciplinari
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGOSpazio agli incarichi per i pensionati. Pubblico impiego. Una circolare limiterà il divieto.
Il divieto di conferire a pensionati incarichi dirigenziali o direttivi, di studio o di consulenza o, ancora, cariche di governo di amministrazioni, enti o società controllate nonché authority, compresa la Consob, non si applicherà ai commissari straordinari nominati temporaneamente al vertice di enti pubblici o per specifici mandati governativi. E lo stesso vale per la nomina di eventuali sub-commissari. Esclusi dal divieto saranno, poi, gli incarichi di ricerca (l’amministrazione che li conferisce deve aver prima definito uno specifico programma di ricerca) e quelli di docenza, a patto che siano “effettivi” e non fatti per aggirare il divieto. E consentiti saranno pure gli incarichi in commissioni di concorso e gara oppure la partecipazione a organi collegiali consultivi, come per esempio gli organi collegiali delle scuole.
Eccole le attese eccezioni alla norma contenuta nel decreto Madia (articolo 6 del Dl 90/2014), in vigore dal 25 giugno, che ha perfezionato il divieto di affidare incarichi soggetti in quiescenza. Sono specificate in una circolare della Funzione pubblica di imminente uscita.
Un divieto già voluto due anni fa dal Governo Monti (Dl 95/2012, articolo 5) ma che è stato facilmente aggirato con numerose nomine successive, non solo governative. Ora il nuovo Esecutivo è tornato sul punto con un orientamento rafforzato dalla volontà di realizzare una vera e propria “staffetta generazionale” nelle pubbliche amministrazioni, da realizzare anche con strumenti come il divieto del trattenimento in servizio, sul quale pure è attesa una circolare interpretativa.
Tra i divieti che dovranno rispettare tutte le amministrazioni la circolare interpretativa messa a punto a palazzo Vidoni comprende anche quelli per contratti d’opera intellettuale a pensionati. Ma non, per esempio, per altri tipi di contratti d’opera, come un caso di cui s’è occupata anche la Corte dei conti, di conferimenti d’incarico a un falegname in pensione da parte di un ateneo universitario per la realizzazione di un mobile. Possibili, inoltre, incarichi di carattere professionale, come per esempio quelli legati ad attività legale o sanitaria, a patto di non ricadere nei casi super gettonati di studio e consulenza.
La circolare è molto attesa dalle amministrazioni che, in queste settimane, hanno inviato numerosi quesiti alla Funzione pubblica. Ma offre un’interpretazione che dovrebbe proteggere la norma anche da eventuali ricorsi alla Consulta, visto che si escluderebbe la volontà di qualunque forma di discriminazione nei confronti dei pensionati. Obiettivo vero è evitare aggiramenti a un divieto con incarichi camuffati, in particolare di consulenza e studio, con cui di fatto si sono finora attribuiti incarichi direttivi.
Le nomine vietate sono quelle successive all’entrata in vigore del decreto e vale per tutti i pensionati, compresi quelli degli organi costituzionali, i quali ultimi si devono adeguare alle nuove norme nell’ambito dello loro autonomia.
Nella circolare si invitano le amministrazioni anche a non dare incarichi a persone prossime alla pensione, a meno di non optare per la gratuità. Una carta, quest’ultima, prevista dalla norma e che consente il superamento di tutti i divieti indicati solo a patto che, appunto, l'incarico sia gratuito, non più lungo di un anno e non sia prorogabile né rinnovabile
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIOLa polizza non è d’obbligo. Amministratore senza responsabilità se si verifica un «caso fortuito». Assicurazioni. Contro le calamità (come i nubifragi) nessun vincolo - Mandato dell’assemblea per il contratto.
Nubifragi e altre calamità naturali che stanno flagellando la Penisola spingono a chiedersi se ci siano delle reponsabilità (del sindaco o del prefetto, della Protezione civile e anche dell’amministratore di condominio) e se ci sia, per il professionista, l’obbligo di assicurare l’edificio a tutela delle parti comuni e di compiere tutti quegli atti conservativi e quelle azioni a tutela della sicurezza del condominio.
Nonostante il comune convincimento che l’amministratore sia tenuto per legge ad assicurare l’immobile a lui affidato, la normativa nulla prevede al riguardo. In particolare, la giurisprudenza di legittimità (Cassazione civile, sezione III, n. 15872 del 06.07.2010, confortata dalla Cassazione civile 8233 del 03.04.1997 e 15735 del 13.08.2004) ha affermato che «l’amministratore non è legittimato a concludere il contratto di assicurazione del fabbricato se non abbia ricevuto l’autorizzazione da una deliberazione dell’assemblea dei partecipanti alla comunione».
La Corte aggiunge che l’articolo 1130, n. 4 del Codice civile obbliga l’amministratore a eseguire gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio, intendendo con ciò riferirsi ai soli atti materiali (riparazione dei muri portanti, di tetti e lastrici) e giudiziali (azioni contro comportamenti illeciti posti in essere da terzi) necessari per la salvaguardia della integrità dell’edificio.
Tra questi atti non si può far rientrare il contratto di assicurazione, perché questo non ha gli scopi conservativi ai quali si riferisce la norma, avendo, viceversa, come suo unico e diverso fine quello di evitare pregiudizi economici ai proprietari dell’edificio danneggiato.
Il Governo, dopo averci provato invano con il Dl 59/2012, che prevedeva l’obbligo di estendere la garanzia assicurativa anche alle calamità naturali, consentendo uno sgravio fiscale (ma questa parte non fu convertita in legge), ora sta effettuando studi per introdurre l’obbligatorietà dell’assicurazione sui fabbricati in caso di calamità naturali, senza che questo comporti, come invece oggi accade nelle zone a rischio, un eccessivo aumento dei premi assicurativi per il privato.
Ma che cosa succede all’amministratore quando il fabbricato viene colpito da un evento climatico estremo? La Cassazione, con ordinanza 3767 del 18.02.2014, esprimendosi in un caso in cui il responsabile poteva essere considerato il Comune, ha ritenuto che la responsabilità oggettiva per le cose in custodia in base all’articolo 2015 del Codice civile, che ben può essere attribuita all’amministratore per i beni e gli impianti comuni in condominio, può essere esclusa solamente dal caso fortuito che interrompe il nesso causale tra i beni sottoposti alla sua custodia e il danno lamentato, intendendosi come «caso fortuito» un fatto estraneo, eccezionale e imprevedibile e, quindi, inevitabile.
Insomma, la Corte ha individuato il caso fortuito nel nubifragio che colpì il Comune di Acri tra la notte del 27 e 28.11.1984, e che comportò l’allagamento del fabbricato che si sarebbe comunque verificato, a prescindere dalla idoneità o meno delle opere poste in essere dall’amministratore a evitare o contenere tale evento.
Chiarito questo aspetto, occorre affrontarne un altro. L’amministratore di condominio, in caso di un evento naturale di estrema entità e gravità, può essere ritenuto responsabile penalmente? La responsabilità penale dell’amministratore va ricondotta nell’ambito della disposizione di cui all’articolo 40, secondo comma, del Codice penale, per cui «non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo». Per rispondere del mancato impedimento di un evento, quindi, è necessario che esista un obbligo giuridico di attivarsi allo scopo.
È quindi chiaro che l’amministratore non ha l’obbligo di assicurare il fabbricato, se non su espressa autorizzazione dell’assemblea di condominio e che questi eventi climatici sono considerati casi fortuiti che interrompono il nesso causale nella responsabilità oggettiva dei beni e degli impianti in custodia dell’amministratore. Quindi, anche sotto questo profilo l’amministratore non potrà essere ritenuto responsabile delle conseguenze e dei danni cagionati dall’evento medesimo
 (articolo Il Sole 24 Ore del 25.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIODopo la condanna non è facile tornare alla professione. Reati. Lo strumento della riabilitazione.
L’amministratore condannato penalmente può tornare a svolgere l’attività ma solo a determinate condizioni.
L’articolo 71-bis, comma 1, lettera b) delle Disposizioni di attuazione del Codice civile, introdotto dalla legge 220/2012, stabilisce che non possono svolgere l’attività di amministratore coloro che sono stati condannati per delitti contro la pubblica amministrazione o contro l’amministrazione della giustizia, la fede pubblica, il patrimonio o per ogni altro delitto non colposo per il quale la legge commina la pena della reclusione non inferiore, nel minimo, a due anni e, nel massimo, a cinque anni. Sono altresì esclusi (lettera c) i sottoposti a misure di prevenzione divenute definitive salvo che non sia la riabilitazione.
Dal confronto delle due norme si deduce che la riabilitazione (articolo 178 del Codice penale) viene specificatamente prevista solo nel caso in cui vi sia stata la sottoposizione a misure di prevenzione divenute definitive (lettera c), mentre non viene fatto alcun riferimento a tale istituto nel caso di condanna dell’amministratore, con sentenza passata in giudicato, per uno di quei reati indicati nella lettera b. L’articolo 14 delle preleggi al Codice civile, esclude infatti l’interpretazione analogica in ordine alle norme eccezionali (come quella dell’articolo 71-bis). Per tali norme vige il principio di stretta interpretazione.
L’istituto della riabilitazione, però, può essere applicabile anche ai condannati per i delitti di cui al citato primo comma, lettera b) quando ricorrano determinate condizioni. La Cassazione (sentenza 6617/2000) ha infatti chiarito che, ai fini della decorrenza del termine per poter ottenere la riabilitazione, si fa riferimento, oltre all’avvenuta esecuzione della pena, anche alla sua eventuale estinzione per altra causa, quale è quella prodotta, appunto, dalla sospensione condizionale della pena (ma non dall’abrogazione o depenalizzazione del reato).
Per presentare la domanda di riabilitazione servono questi presupposti: a) devono essere trascorsi almeno tre anni (otto, se vi è stata dichiarazione di recidiva e dieci, se vi è dichiarazione di delinquenza abituale, professionale o per tendenza) dal momento in cui la pena è espiata, l’ammenda o multa pagata, o dalla data del passaggio in giudicato della sentenza in caso di pena sospesa; b) durante il periodo il condannato non deve avere denunce o pendenze; c) il richiedente non deve essere stato sottoposto a misura di sicurezza (salvo sia stata revocata); d) deve essere stato risarcito il danno.
La riabilitazione consente alla persona condannata, che ha manifestato segni di ravvedimento, di ottenere l’estinzione delle pene accessorie e di ogni altro effetto penale della condanna. La persona riacquista le capacità eventualmente perdute e la capacità di esercitare quei diritti e quei doveri ai quali aveva dovuto rinunciare a causa della sentenza di condanna
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.11.2014).

ENTI LOCALIConti p.a., grandi pulizie al via. Occorre riaccertare crediti e debiti: sì solo a quelli esigibili. Conto alla rovescia per l'operatività della riforma della contabilità di regioni ed enti locali.
Dal prossimo anno, i bilanci di regioni ed enti locali cambieranno pelle.
Lo prevede la riforma della contabilità pubblica varata dal dlgs 118/2011 (come modificato e integrato dal recente dlgs 126/2014), le cui disposizioni, dopo un periodo di sperimentazione triennale che ha coinvolto una minoranza di amministrazioni, saranno applicabili a tutte a decorrere dal 01.01.2015.
Si tratta di una rivoluzione finora rimasta sotto traccia e perlopiù confinata nel mondo dei «ragionieri» pubblici. Ma le sue implicazioni andranno ben oltre, coinvolgendo in modo diretto i professionisti dei controlli, ossia i revisori dei conti, e indirettamente tutti gli stakeholders della p.a. locale (fornitori e semplici cittadini).
In estrema sintesi, la riforma (che è stata portata avanti in parallelo anche per le altre amministrazioni pubbliche) si prefigge due obiettivi di fondo: 1) uniformare il linguaggio contabile di tutti i livelli di governo, in modo da rendere i rispettivi bilanci facilmente confrontabili e aggregabili; 2) fare in modo che i conti siano più trasparenti, disinnescando la prassi (diffusa) di nascondere le magagne finanziarie sotto il tappeto.
La normativa finora vigente, in effetti, non si è dimostrata in grado di rappresentare correttamente la situazione finanziaria, patrimoniale ed economica degli enti, come confermato dalle difficoltà nel determinare l'esatta dimensione dello stock di debiti commerciali.
Inoltre, la babele di regole di registrazione di entrate e spese ha creato enormi disallineamenti fra debiti e crediti reciproci: per esempio, molti comuni attendono di ricevere dalle regioni somme che per queste ultime non sono dovute o lo sono con una tempistica diversa.
Per ovviare a tali criticità, la riforma mette in campo due strumenti: da un lato, definisce un unico sistema di classificazione contabile (un po' come fa il codice civile per le imprese private). Si tratta del cosiddetto piano dei conti integrato, che consente la rilevazione contestuale dei fatti gestionali in termini finanziari ed economico-patrimoniali. In tal modo, sarà possibile confrontare in modo più agevole le singole voci fra i diversi enti.
Dall'altro lato, introduce in contabilità finanziaria una nuova regola (la cosiddetta competenza potenziata) per la copertura delle spese. In pratica, queste ultime dovranno obbligatoriamente essere finanziate o da entrate già disponibili o da entrate che diventeranno esigibili contestualmente alle spese medesime. In pratica, nel nuovo regime saranno tassativamente vietati gli impieghi di risorse future, in modo da responsabilizzare gli amministratori ed evitare l'avvio di opere prive di adeguate coperture finanziarie. Simmetricamente, sarà possibile verificare in modo più agevole lo stato di avanzamento dei singoli lavori, individuando i ritardi e i possibili danni per le casse pubbliche (si pensi alla prassi, non infrequente purtroppo, delle amministrazioni che attivano prestiti onerosi per finanziare opere che non partono).
Nella nuova contabilità, inoltre, i bilanci dovranno contenere solo crediti e debiti (che in contabilità pubblica sia chiamano residui attivi e residui passivi) effettivamente esigibili, evitando di gonfiare l'attivo o di tenere ferme risorse che non verranno utilizzate e dovrebbero essere riprogrammate.
Ciò imporrà fin da subito una profonda ripulitura dei conti, che partirà da quelli attuali, attraverso l'obbligo di procedere (contestualmente all'approvazione del rendiconto 2014, ossia entro il prossimo 30 aprile) al cosiddetto riaccertamento straordinario dei residui (attivi e passivi). In molti casi, tale operazione farà emergere dei disavanzi (talora anche consistenti) che dovranno essere assorbiti entro dieci anni.
Sempre per puntellare gli equilibri finanziari, infine, viene imposto di congelare una quota delle proprie entrate di dubbia o difficile esazione in un fondo non impegnabile, che dovrà essere attentamente monitorato nel corso della gestione e in sede di bilancio consuntivo per valutarne l'adeguatezza ed eventualmente integrarlo. Questo per evitare che risorse «ballerine» vengano utilizzare per finanziare spese certe, con il rischio che nei già traballanti conti comunali si aprano ulteriori buchi. L'entità dell'accantonamento a fondo dovrà essere direttamente proporzionale all'entità delle previsioni di entrata e inversamente proporzionale alla capacità di riscossione mostrata da ciascun ente nel quinquennio precedente: in altri termini, tanto più si prevede di incassare e tanto meno si è effettivamente incassato negli ultimi cinque anni, tanto più alto dovrà essere il fondo.
La riforma avrà un avvio graduale: per il primo anno, infatti, la funzione autorizzatoria sarà svolta ancora dai vecchi schemi di bilancio, a cui saranno affiancati quelli nuovi con funzione conoscitiva. La grammatica, però, sarà già quella dettata dalla competenza finanziaria potenziata, con obbligo di costituire il fondo crediti di dubbia esigibilità (articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

SICUREZZA LAVOROValutazioni rischi al raddoppio. Atti duplicati in caso di nuove imprese o rielaborazione. Le misure in materia di lavoro della legge europea 2013-bis, operative dal 25/2011.
Le scartoffie vincono ancora. Di turno, stavolta, è la sicurezza del lavoro con la duplicazione di atti e documenti che comprovino l'effettuazione della valutazione dei rischi. Dal 25 novembre, infatti, l'impresa che diventi «datore di lavoro» (cioè assuma lavoratori, non necessariamente con contratto dipendente) deve «immediatamente» dimostrare con «idonea documentazione» di avere adempiuto l'obbligo di valutazione rischi di cui potrà/dovrà fare dettagliata relazione in uno specifico documento (DVR) entro 90 giorni.
Stessa cosa in caso di rielaborazione della valutazione rischi, in occasione di modifiche del processo produttivo o dell'organizzazione del lavoro o per altre necessità: l'impresa è tenuta a dimostrare «immediatamente» con «idonea documentazione» di aver effettuato la rielaborazione, anche se di essa potrà/dovrà aggiornare il DVR entro 30 giorni. In entrambi i casi (nuove imprese/rielaborazione), inoltre, il datore di lavoro deve dare «immediata» comunicazione al rappresentante dei lavoratori (Rls), che deve peraltro poter accedere, su sua richiesta, alla «idonea documentazione».

A introdurre i nuovi obblighi è la legge n. 161/2014, c.d. Comunitaria 2013-bis, in vigore proprio dal 25 novembre (pubblicata sul S.O. n. 83 alla G.U. n. 261/2014), che modifica gli artt. 28 e 29 del T.u. sicurezza approvato dal dlgs n. 81/2008.
La valutazione dei rischi. Il T.u. sicurezza definisce la valutazione dei rischi come «valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell'ambito dell'organizzazione in cui prestano la propria attività finalizzata a individuare le adeguate misure di prevenzione e di protezione e a elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza».
L'operazione va effettuata da tutti i datori di lavoro, in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp: persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali prescritti dal T.u. all'art. 32, designata dal datore di lavoro a cui risponde, per coordinare il servizio di prevenzione e protezione dai rischi in azienda) e previa consultazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (Rls: persona eletta dai lavoratori per essere rappresentati per ciò che riguarda gli aspetti di salute e sicurezza sul lavoro), nonché, nei casi di sorveglianza sanitaria, con la collaborazione del medico competente.
Il DVR. Al termine della procedura di valutazione deve essere elaborato uno specifico documento che può essere tenuto su supporto informatico, purché sia munito di data certa. Il documento, in particolare, deve contenere:
a) una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l'attività lavorativa, nella quale siano specificati i criteri adottati per la valutazione stessa;
b) l'indicazione delle misure di prevenzione e protezione attuate e dei dispositivi di protezione individuali adottati;
c) il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza;
d) l'individuazione delle procedure per l'attuazione delle misure da realizzare, nonché dei ruoli dell'organizzazione aziendale che vi debbono provvedere;
e) l'indicazione del nominativo del responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp), del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (Rls) e del medico competente che ha partecipato alla valutazione del rischio;
f) l'individuazione delle mansioni che eventualmente espongono i lavoratori a rischi specifici che richiedono una riconosciuta capacità professionale, specifica esperienza, adeguata formazione e addestramento.
Nuovi datori di lavoro. L'art. 28 prevede che, in caso di costituzione di nuova impresa, il datore di lavoro è tenuto a effettuare immediatamente la valutazione dei rischi e a elaborare il DVR entro 90 giorni. Ciò vale fino al 24 novembre; dal giorno seguente opera la norma della legge n. 161/2014 (art. 13, comma 1, lett. a), che aggiunge in coda al comma 3-bis del citato art. 28 i seguenti periodi: «Anche in caso di costituzione di nuova impresa, il datore di lavoro deve comunque dare immediata evidenza attraverso idonea documentazione dell'adempimento degli obblighi di cui al comma 2, lettere b), c), d), e) ed f), e al comma 3, e immediata comunicazione al rappresentante dei lavoratori sicurezza. A tale documentazione accede, su richiesta, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza».
Gli obblighi previsti al comma 2, lettere b, c, d, e, f sono indicati in tabella. Del loro assolvimento, in virtù della disposizione in vigore dal 25 novembre, il datore di lavoro deve dare «immediata» evidenza con «idonea documentazione»; e inoltre deve darne «immediata» comunicazione al rappresentante dei lavoratori (Rls) che, su richiesta, potrà accedere alla documentazione. Il nuovo adempimento, pertanto, costringerà le imprese a elaborare prima il documento di valutazione dei rischi, cioè prima di procedere alla prima assunzione di personale (che la trasformerà in un «datore di lavoro» soggetto alle norme sulla sicurezza sul lavoro).
Rielaborazione della valutazione rischi. L'art. 29 del T.u. sicurezza prevede che la valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata in occasione di modifiche del processo produttivo oppure dell'organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori oppure in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione oppure in seguito a infortuni significativi oppure quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità.
A seguito della rielaborazione, anche le misure di prevenzione debbono essere aggiornate; e il documento di valutazione rischi (DVR) deve essere rielaborato nel termine di 30 giorni. Ciò vale fino al 24 novembre; dal giorno seguente opera la norma della legge n. 161/2014 (art. 13, comma 1, lett. b, che aggiunge in coda al comma 3 del citato art. 29 i seguenti periodi: «Anche in caso di rielaborazione della valutazione dei rischi, il datore di lavoro deve comunque dare immediata evidenza, attraverso idonea documentazione, dell'aggiornamento delle misure di prevenzione e immediata comunicazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. A tale documentazione accede, su richiesta, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza».
Responsabilità del datore di lavoro. Il fine della modifica legislativa è quello di risolvere la procedura d'infrazione n. 2010/4227 per il mancato corretto recepimento degli artt. 5 e 9 della direttiva Ue 89/391 in materia di sicurezza sul lavoro che avrebbe avuto, secondo la commissione europea, l'effetto di una sorta di «deresponsabilizzazione» del datore di lavoro, nel periodo di vacatio dei termini (90/30 giorni) per la redazione del documento di valutazione.
In particolare, la Commissione rileva che l'ordinamento italiano sembrerebbe permettere ai datori di lavoro di essere dispensati, sia pure per un tempo limitato (90/30 giorni), dall'obbligo di disporre di un documento di valutazione rischi (anche se la valutazione è immediata) nonché dell'obbligo di assicurarsi che i lavoratori abbiano accesso al documento stesso. Questo ad avviso della Commissione appare contrario alla direttiva 89/391 la quale non lascia spazio all'interpretazione degli Stati membri sul momento di formalizzazione della valutazione dei rischi (art. 9).
Inoltre, il rinvio della redazione del documento di valutazione rischi potrebbe comportare per un periodo non trascurabile la mancata o insufficiente valutazione del rischio per i lavoratori, quindi l'insufficiente tutela degli stessi, perché ad avviso della Commissione solo la formalizzazione di un documento costituisce valida certificazione dell'effettiva esecuzione della valutazione dei rischi (articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIATutela acque verso standard Ue. Stretta contro l'inquinamento acustico e il legno illegale. In arrivo l'adeguamento a norme comunitarie anche su valutazione impatto ambientale.
Stretta su sostanze inquinanti nelle acque e trattamento delle reflue, nuove regole su inquinamento acustico da infrastrutture, attività industriali e impianti eolici.

Con l'approdo sulla Gazzetta ufficiale delle attese «Leggi europee 2013 - bis» unitamente a un dm del Minambiente si riduce il gap tra le norme ambientali nazionali e quelle comunitarie.
Le nuove leggi 154/2014 e 161/2014 avviano, infatti, il recepimento entro tempi certi delle direttive Ue su tutela delle acque e abbattimento del rumore, mentre il dm 17.10.2014 rivede gli standard di qualità delle acque con nuovi obblighi di depurazione.
A spingere verso l'adeguamento alle ultime norme verdi Ue concorrono anche il decreto legislativo in corso di pubblicazione sulla lotta al legno da disboscamento illegale e la «Legge di delegazione europea 2014» licenziata dal Consiglio dei ministri il 30.10.2014 che aprirà la strada all'attuazione delle più recenti regole comunitarie sulla valutazione di impatto ambientale.
Sostanze pericolose nelle acque. È affidato al Governo dalla legge 154/2014 (cd. «Legge di delegazione europea 2013 - bis», G.U. 28.10.2014 n. 251) il recepimento della direttiva 2013/39/Ue che allarga l'elenco delle cd. «sostanze prioritari», ossia delle particelle chimiche che presentano un alto rischio per l'ambiente acquatico.
Mediante decreto legislativo l'esecutivo dovrà, infatti, entro luglio 2015 tradurre sul piano nazionale le nuove disposizioni recate dal provvedimento Ue che (mediante la modifica delle precedenti direttive 2000/60/Ue e 2008/105/Ue) introduce 12 nuove sostanze tra quelle da monitorare. L'upgrade delle norme nazionali arriverà presumibilmente con la riscrittura del dlgs 152/2006 (cd. «Codice ambientale»), nella cui Parte III trovano già collocazione le regole sancite dalle citate direttive 2000 e 2008.
Standard qualità acque. Con decreto ministeriale 17.10.2014 (G.U. del 10.11.2014, n. 261) il dicastero dell'ambiente ha inoltre definito (in attuazione del dlgs 190/2005, atto di recepimento della direttiva 2008/56/Ce) i nuovi requisiti e traguardi per conseguire il buono stato ambientale delle acque marine.
Tra le prescrizioni direttamente applicabili vi è l'obbligo di prevedere sistemi di trattamento secondario sia delle acque reflue provenienti da agglomerati con carico generato da oltre 2 mila abitanti e punto di scarico in acque interne, sia di quelle derivanti da insediamenti di oltre 10 mila abitanti con scarico in acque marine costiere. Lo stesso Dm prescrive l'obbligo di un trattamento più spinto (di quello attualmente previsto dall'articolo 105, comma 3 del dlgs 152/2006) per le acque reflue urbane provenienti da agglomerati con oltre 10 mila abitanti che scaricano in acque recipienti individuate in aree sensibili, ove non si riesca a dimostrare che la percentuale di fosforo e azoto in entrata agli impianti di depurazione sia almeno del 75% inferiore a quella prevista dal citato «Codice ambientale».
Così come dovranno, infine, essere ridotti i carichi di nutrienti derivanti da fonti diffuse afferenti all'ambiente marino, e questo mediante apporti fluviali e dilavamenti.
Inquinamento acustico. Parte con la delega conferita al governo dalla legge 161/2014 (cd. «Europea 2013 - bis», G.U. del 10.11.2014, n. 261) l'adeguamento alle norme Ue in materia di contenimento del rumore nell'ambiente esterno ed abitativo.
Mediante decreti legislativi l'Esecutivo dovrà entro il maggio 2016 dare completa attuazione alle prescrizioni recate dalle direttive 2002/49/CE, 2000/14/Ce e 2006/123/Ce e dal regolamento (Ce) n. 765/2008 mediante la riscrittura delle norme nazionali recate dalla legge 447/1995 (e relativi attuativi) e dal dlgs 194/2005 (rimasto invece sostanzialmente inapplicato, per mancanza dei relativi decreti regolamentari).
Con la riformulazione della disciplina in parola (atto necessario per dare vigore alle novità previste dal decreto del 2005 e armonizzare, di conseguenza, quella della legge del 1995) arriveranno anche nuove regole per l'abbattimento dell'inquinamento acustico proveniente dalle grandi infrastrutture di trasporto (come aeroporti, assi ferroviari e stradali ad alta percorrenza) ed attività industriali (porti compresi).
Saranno altresì introdotte nuove regole per il rumore prodotto da attività sportive e impianti eolici, così come saranno rivisti i requisiti acustici degli edifici (già previsti dal dpcm 05.12.1997, ma disapplicabili dal 2009 in virtù della legge 96/2010 - cd. «Comunitaria 2009» - e della sentenza della Corte Costituzionale 103/2013).
Le altre novità in arrivo. Entro la deadline fissata dall'Ue nel 20.05.2016 l'Italia dovrà adeguare l'Ordinamento interno (anche in questo caso mediante la riformulazione del Dlgs 152/2006) alla all'esordiente direttiva 2014/101/Ue (Guue 31.10.2014 n. L 311) recante le norme tecniche sul monitoraggio della qualità biologica delle acque (in aggiornamento di quelle previste dal citato e analogo provvedimento 2000/60/Ce).
Scatteranno invece a breve, dopo l'imminente pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del decreto legislativo che rende operative sul piano nazionale le regole contro il disboscamento selvaggio sancite dai regolamenti Ue 2173/2005 e 995/2010/Ue, sia il divieto d'importare legno illegalmente tagliato che gli obblighi di tracciamento e iscrizione ad apposito Registro per gli operatori del settore. Il tutto presidiato da sanzioni che puniranno a titolo di illecito penale i casi più gravi con l'arresto fino ad un anno e la confisca del corpo del reato.
Arriverà infine con la nuova legge di delegazione europea 2014 (il cui Ddl di iniziativa governativa è già stato licenziato dal Consiglio dei ministri lo scorso 30 ottobre) il recepimento della direttiva 2014/52/Ue sulla valutazione dell'impatto ambientale di progetti pubblici e privati, le cui norme imporranno la riscrittura (entro il termine finale del 16.05.2017 imposto dall'Ue) della Parte II del Dlgs 152/2006, dedicata alla materia.
Il nuovo provvedimento Ue, lo ricordiamo, modifica la direttiva madre 2011/92/Ue introducendo, tra le altre, nuovi aspetti da considerare nella valutazione ambientale, come sensibilità di determinate aree, gravi incidenti e calamità naturali dovuti a cambiamenti climatici, impatto delle demolizioni, rischi per il patrimonio culturale dovuti alla realizzazione di nuovi progetti (articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Rotatorie multiple, da destra si vince. CIRCOLAZIONE/2 Parere del Mintrasporti.
Nell'accesso alle rotatorie stradali con ingresso multiplo il conducente posizionato sulla corsia di sinistra deve dare la precedenza a quello in arrivo dalla sua destra.

Lo ha evidenziato il Ministero dei trasporti con il parere n. 2534/2014.
È complesso circolare affiancati nelle rotatorie stradali e in prossimità di questi manufatti. Non solo perché sconsigliato ma anche perché gli autisti sono puntuali nel tagliare la strada ed effettuare manovre repentine. Un piccolo comune emiliano ha quindi richiesto chiarimenti al ministero per limitare i rischi e disciplinare meglio la circolazione.
Le rotatorie di dimensioni più limitate sono state disciplinate con il dm 19.04.2006, specifica innanzitutto il parere centrale, laddove al paragrafo 4.5 specifica che la circolazione sull'anello deve avvenire sempre su un'unica corsia «lungo la quale i veicoli devono necessariamente procedere in accodamento, godendo del diritto di precedenza». I maggiori problemi sorgono per i manufatti che non rispettano questo dm e sono quindi costruiti per regolare la circolazione di maggiori volumi di traffico, ammettendo la circolazione su più corsie. In questi casi le criticità si verificano nell'ingresso e nell'uscita dal manufatto. L'immissione a due corsie è regolata dalla disciplina generale della precedenza a destra, specifica il ministero.
Quindi l'utente posizionato sulla corsia di sinistra nell'ingresso sull'anello deve dare la precedenza al conducente posizionato sulla corsia di destra. Se le condizioni del traffico lo richiedono le due corsie potrebbero essere specializzate, conclude il parere, previa idonea segnaletica ad hoc. L'immissione a destra indirizzerebbe verso la prima uscita mentre l'accesso a sinistra per tutte le altre direzioni di marcia (articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014).

EDILIZIA PRIVATAVarianti ai permessi: possibile la Scia. Titoli abilitativi: come cambiano le procedure.
Il decreto Sblocca Italia accorcia la lista degli interventi edilizi realizzabili con la dichiarazione di inizio attività (Dia) e amplia l'elenco di quelli per i quali è sufficiente la segnalazione certificata di inizio attività (Scia). Diventa anche più facile realizzare, in regime di attività di edilizia libera, alcune tipologie di manutenzioni straordinarie.

Con le modifiche introdotte dal Dl 133/2014 all'articolo 22 del Dpr 380/2001, d'ora in avanti potranno essere eseguiti con Scia, e non più con Dia, tutti gli interventi non classificati tra le attività di edilizia libera e quelli per i quali non è richiesto il permesso di costruire, a condizione che siano conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente. Di fatto si restringono (... continua) (articolo Il Sole 24 Ore del 24.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sanzioni rafforzate sui mini-abusi. Mille euro per chi non invia all'ufficio la comunicazione di inizio lavori.
Dl sblocca-Italia. Punita anche l'inottemperanza all'ordine di demolizione con una multa fino a 20mila euro.

Avviare ristrutturazioni di immobili o nuove costruzioni senza essere in regola con i titoli edilizi necessari costa sempre di più.
Con la legge di conversione del Dl 133/2014 sblocca-Italia (legge 164/2014) sono state introdotte sanzioni maggiorate a carico di chi trasgredisce le regole che autorizzano nuove costruzioni e le ristrutturazioni. (... continua) (articolo Il Sole 24 Ore del 24.11.2014).

APPALTISugli appalti controlli solo formali. Quasi assente la valutazione su fornitori ed esecuzione dei lavori.
Contratti. L'analisi di PromoPa Fondazione: nel 68% dei casi si sceglie in base al prezzo più basso.

Le stazioni appaltanti fanno ampio utilizzo delle procedure negoziate per l'affidamento degli appalti, in un contesto di forte contrazione del mercato e con una maggiore complessità dei percorsi selettivi.
La fondazione PromoPA e l'Università di Roma Tor Vergata hanno analizzato, nell'edizione 2014 del rapporto «Come appalta la Pa» (che sarà presentato domani a Roma alla sede Ance) le dinamiche del sistema degli affidamenti di lavori, servizi e forniture, mediante un confronto con gli esperti delle amministrazioni aggiudicatrici e l'elaborazione delle informazioni rilasciate dall'Autorità di vigilanza. (... continua) (articolo Il Sole 24 Ore del 24.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALIEntro giovedì primi "censimenti" dalle Province. Legge Dalrio. La staffetta con le Regioni.
Le Province devono cominciare a svolgere da subito, e le città metropolitane dovranno cominciare dal prossimo 1° gennaio, i compiti loro attribuiti in materia di minoranze linguistiche, mentre l'esercizio delle funzioni trasferite dalla Regioni sarà fissato da queste.

Entro novembre le Province dovranno censire (... continua) (articolo Il Sole 24 Ore del 24.11.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi, multe a chi non demolisce. Sanzioni (reiterabili) fino a 20mila euro a carico dell'attuale proprietario dell'immobile.
Prime incertezze applicative sul decreto legge 133/2014 (cosiddetto "Sblocca Italia"), convertito nella legge 164/2014 ed entrato in vigore dal 12 novembre scorso.

La norma prevede, infatti, un'immediata sanzione pecuniaria tra 2mila e 20mila euro per gli abusi edilizi di maggior calibro e in particolare per i casi di demolizioni non eseguite spontaneamente.
Dopo il pagamento di una prima sanzione, imposta dalla legge statale, le Regioni potranno prevedere che le sanzioni stesse siano periodicamente reiterabili qualora l'ordine di demolizione non venga eseguito nemmeno dopo il primo pagamento. Questo rischio di sanzioni rinnovate ciclicamente riguarda gli interventi realizzati senza permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali (articolo 31, commi 4-bis e 4-quater del Dpr 380/2001, introdotti dalla legge 164/2014).
Sono interessati dalla novità una schiera di abusivisti, destinatari di ordinanze non eseguite, che confidavano nell'inerzia delle amministrazioni o nelle lungaggini della giustizia amministrativa. Oggi, proprio per rimediare a situazioni di abusivismo rimaste nel limbo della mancata esecuzione, l'articolo 17 del Dl 133/2014 prevede una sanzione supplementare collegata alla mera inottemperanza all'ordine di ripristino e quindi non sostitutiva della demolizione.
Chi realizza un abuso edilizio integrale (senza permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali) ha 90 giorni di tempo per eliminarlo o per mettersi in regola con un eventuale permesso in sanatoria. Già dal 91º giorno successivo all'invito del Comune a demolire (articolo 31 del Dpr 380/2001, Testo Unico Edilizia), le Regioni potranno deliberare la reiterabilità della sanzione, facendo scattare una nuova sanzione pecuniaria che potrebbe essere anche trimestrale, trattandosi di abusi edilizi di particolare gravità.
Indipendentemente dalla reiterazione, che spetta agli enti territoriali decidere, la prima richiesta, appunto da 2mila a 20mila euro, è oggi inevitabile perché prevista direttamente dal legislatore statale. Questa sanzione pecuniaria colpisce il proprietario attuale dell'immobile, senza che abbia rilievo la circostanza che l'abuso sia stato eseguito da altri o anni prima. La sanzione colpisce anche coloro i quali hanno un ricorso pendente, visto che ne sono esclusi solo coloro i quali hanno ottenuto un sospensiva da parte del giudice amministrativo.
Poiché si tratta di una sanzione di tipo dissuasivo, finalizzata a rendere effettiva la demolizione disposta dal Comune, risulta difficile pensare alla possibilità di un ricorso che ostacoli la riscossione: la sanzione pecuniaria completa, infatti, la reazione dell'ordinamento contro gli abusi di maggiori dimensioni e non riapre i termini per contestare innanzi il Tar l'ordine di demolizione del Comune (che andava impugnato nei 60 giorni).
In taluni casi, si può pensare a chiedere una sanatoria specialmente se l'evoluzione dello strumento urbanistico recepisce l'abuso e quindi rende possibile chiedere il rilascio del permesso di costruire che sani la situazione: sul punto, tuttavia, vi è un contrasto giurisprudenziale in quanto gli articoli 36 e 37 del Dpr 380/2001 richiedono una doppia conformità per la sanatoria, ossia la conformità sia al momento della realizzazione dell'abuso, sia al momento della richiesta di sanatoria.
In specifici casi può essere possibile far presente l'esistenza di difficoltà tecniche nell'eliminazione dell'abuso (quando cioè si intaccherebbe la struttura di un edificio, come prevede l'articolo 33 del Dpr 380/2001 per le ristrutturazioni in totale difformità). Anche questa, tuttavia, è una strada difficile da percorrere, perché presuppone un vero e proprio dissesto statico di opere illegittime nell'eliminazione dell'abuso
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 Le altre novità dello «Sblocca Italia»
COMUNICAZIONE D'INIZIO ATTIVITÀ
Nel decreto legge 133/14 sono state introdotte alcune modifiche alla disciplina relativa al Testo unico dell'edilizia sull'attività edilizia libera.
Si tratta, nello specifico, degli interventi per i quali non è richiesto alcun titolo abilitativo e che si possono effettuare liberamente.
Per quanto concerne gli interventi esenti anche dalla comunicazione d'inizio lavori, alcune novità sono previste poi in materia di manutenzione ordinaria.
Il Dl 133/2014 inserisce, infatti, un richiamo normativo al fine di definire gli interventi di manutenzione ordinaria, ossia gli interventi edilizi che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie a integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti
SEGNALAZIONE CERTIFICATA D'INIZIO ATTIVITÀ
La Segnalazione certificata di inizio attività (Scia) prende il posto a tutti gli effetti della Dia e si applica in tutti i casi intermedi rispetto a quelli di calibro superiore all'edilizia libera (articolo 6 Dpr 380/2001, edilizia libera) e di calibro inferiore all'attività che richiede permesso di costruire (articolo 10 Dpr 380/2001). Serve una doppia valutazione di coerenza alla previsione e di conformità alle previsioni di strumenti urbanistici, regolamenti edilizi e della disciplina urbanistica edilizia vigente. L'errore non è consentito perché se c'è discordanza tra le previsioni del Testo unico e le normative locali, prevale la norma più di dettaglio e cioè quella che motivatamente imponga un titolo diverso dalla Scia. Il limite massimo per modificare con Scia il permesso di costruire, è rappresentato dalla dichiarazione di ultimazione dei lavori
PERMESSO DI COSTRUIRE
Lo Sblocca Italia introduce due novità in materia di permesso di costruire.
La prima riguarda il termine per l'istruttoria; non è, infatti, più prevista una durata doppia (120 e non 60 giorni) per i Comuni con popolazione superiore ai 100mila abitanti.
La possibilità di avere tempi più lunghi per l'istruttoria viene mantenuta solo per i progetti particolarmente complessi.
In tutti i Comuni il permesso di costruire deve quindi essere rilasciato entro 90 giorni (60 giorni per l'istruttoria della domanda e 30 per la decisione).
Il Dl 133/2014 ha inoltre ampliato i casi in cui è possibile ricorrere alla proroga del permesso di costruire mentre rimangono invariati i termini di decadenza del titolo edilizio: un anno dal rilascio per l'avvio dei lavori e tre anni, successivi all'avvio, per il completamento dell'opera
I PERMESSI IN DEROGA
Per facilitare e incentivare gli interventi volti al recupero edilizio e alla riqualificazione urbana lo Sblocca Italia ha previsto che i permessi di costruire possano essere in deroga (anche alle destinazioni d'uso) per gli interventi privati di ristrutturazione edilizia attuati anche in aree industriali dismesse.
Questa previsione permette di intervenire anche sforando i limiti del piano regolatore, quali destinazioni d'uso, altezze, indici edilizi, previo accertamento dell'interesse pubblico con specifica delibera del consiglio comunale. Il mutamento della destinazione d'uso non deve, tuttavia, comportare un aumento della superficie coperta prima dell'intervento di ristrutturazione, ossia un aumento di superficie coperta rispetto a quella esistente prima dell'intervento
L'APPARATO SANZIONATORIO
Rafforzate le sanzioni per la mancata presentazione della comunicazione d'inizio lavori. L'omessa trasmissione della comunicazione d'inizio lavori, prevista per alcune opere di edilizia libera, o della comunicazione asseverata da un tecnico abilitato, per gli interventi di manutenzione straordinaria e le opere di modifica interna sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti all'esercizio di impresa, o di modifica della destinazione d'uso degli stessi, comporta la sanzione pecuniaria di mille euro. Quest'ultima viene ridotta di due terzi nel caso in cui la comunicazione d'inizio lavori venga effettuata spontaneamente se l'intervento è ancora in corso di esecuzione. L'incremento della sanzione si deve anzitutto al tentativo di combattere il fenomeno dell'abusivismo edilizio
GLI ONERI DI CONCESSIONE
Le semplificazioni dello Sblocca Italia hanno un contrappeso di tipo economico. Alle agevolazioni burocratiche, che consentono un più semplice riordino delle unità immobiliari, corrisponde la possibilità per i Comuni di modulare gli oneri di concessione. Questi si suddividono in costo di costruzione e oneri di urbanizzazione: i primi sono una percentuale sul valore delle opere che si realizzano; i secondi corrispondono all'aumento del peso urbanistico dell'intervento e quindi delle spese che l'ente locale sopporta per consentire standard qualitativi adeguati. Mentre si esclude il contributo di costruzione per le opere di manutenzione straordinaria, è previsto uno sconto del 20% sui costi di costruzione per le ristrutturazioni, ma solo per le ristrutturazioni ed il recupero di immobili dismessi
 (articolo Il Sole 24 Ore del 23.11.2014).

CONSIGLIERI COMUNALI: Online solo i redditi degli eletti. Per gli altri la p.a. autocertificherà il deposito dei dati. Il presidente dell'Anac ha annunciato il restyling del decreto su pubblicità e trasparenza.
Dietrofront sugli obblighi di pubblicità e trasparenza nella p.a. I dati patrimoniali e reddituali dovranno essere pubblicati online solo da chi ricopre cariche elettive. Per gli incarichi non elettivi, invece, potrebbe bastare «un'attestazione da parte dell'ente che la documentazione su redditi e patrimonio è stata depositata».
E a quel punto chiunque abbia un interesse giuridicamente tutelato potrebbe chiedere di accedervi. Senza però la necessità di mettere tutto indiscriminatamente online. Perché «le norme su pubblicità e trasparenza realizzano una significative compressione della privacy e per questo vanno contemperate in base al rischio effettivo». Per il dlgs 33/2013, che tanti problemi applicativi sta creando agli enti locali e alla pubblica amministrazione, sembra essere arrivato il momento di «fare il tagliando».

Ad annunciarlo è stato Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, che ha confermato la prossima presentazione di un pacchetto di emendamenti all'interno del disegno di legge delega sulla riforma della p.a. all'esame del senato.
Secondo Cantone, il maggiore punto debole della normativa su pubblicità e trasparenza risiede nel fatto che impone adempimenti in maniera indifferenziata, con il rischio di vanificare la ratio stessa della legge che è la prevenzione della corruzione. Proprio qui, secondo il presidente dell'Anac, si deve intervenire.
«È necessaria una graduazione della pubblicità dei dati in relazione alla tipologia di incarichi», ha osservato Cantone parlando all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. «Le regole non possono essere le stesse per il comune di 5 mila anime e per il grande ente previdenziale. Bisogna capire che la funzione delle norme sulla trasparenza è la prevenzione della corruzione e che obblighi eccessivamente restrittivi finiscono per realizzare l'effetto contrario».
Dopo l'auspicio del ministro della funzione pubblica Maria Anna Madia, che all'assemblea Anci svoltasi a Milano aveva messo in guardia dal rischio di «un'eccessiva procedimentalizzazione degli obblighi di pubblicità», le parole del numero uno dell'Anac sembrano voler marcare una distanza rispetto all'istituto dell'«accesso civico» che costituisce il vero elemento di novità del dlgs 33, avendo mandato in soffitta il diritto d'accesso disciplinato dalla legge 241/1990 sul procedimento amministrativo (articolo ItaliaOggi del 22.11.2014).

INCARICHI PROFESSIONALI: Polizze omnibus ai professionisti. Danni a terzi risarciti anche fuori dai termini di copertura. Il governo prepara un ventaglio di emendamenti in campo assicurativo alla legge di stabilità.
Il professionista sarà coperto da una polizza assicurativa che risarcirà i danni da lui commessi a terzi nell'ambito della propria attività, anche quando questi «sinistri professionali» siano stati denunciati al di fuori del periodo di stipula dei contratti.
L'importante è che la richiesta di risarcimento da parte del terzo danneggiato sia pervenuta all'assicuratore durante il tempo per il quale è stata stipulata l'assicurazione. A fronte dell'obbligatorietà dell'assicurazione per la responsabilità civile per l'attività professionale, si potranno offrire polizze differenziate nelle condizioni economiche, che garantiscano la prestazione assicurativa prevista dall'articolo 1917 c.c. prive delle clausole cosiddette claims made. Ma in virtù della nuova clausola l'assicuratore si obbliga a tenere indenne l'assicurato-professionista dalle conseguenze dannose dei fatti illeciti da lui commessi anche prima della stipula.

La novità è contenuta in un pacchetto di norme redatte dal ministero dello sviluppo economico, che fonti interne a palazzo Ghigi sostengono confluiranno nella legge di stabilità 2015 in materia assicurativa. Norme che prevedono anche una definizione della tabella unica, a livello nazionale, per l'attribuzione del valore alle menomazioni di non lieve entità di cui all'articolo 138 del dlgs 07.09.2005, n. 209 (codice delle assicurazioni private).
E l'attribuzione della medesima sottoclasse riconosciuta dalla vecchia compagnia assicurativa al fine di garantire (almeno) il medesimo trattamento economico. Ma c'è anche altro. In materia di responsabilità civile auto viene previsto l'inserimento di modelli contrattuali che garantiscano all'assicurato significative riduzioni del premio in caso di installazione di strumenti elettronici che registrano l'attività del veicolo, ciò tuttavia in assenza di meccanismi fidelizzanti nel tempo.
In deroga agli articoli contenuti nel libro IV, titolo I, capo V, del codice civile, viene stabilito che, a fronte dell'ottenimento di sconti di livello significativo a favore dell'assicurato, il diritto al risarcimento dei danni derivanti dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti non sia cedibile a terzi senza il consenso dell'assicuratore.
La responsabilità civile per l'attività professionale, la cui obbligatorietà è stata di recente introdotta è, infatti, strettamente connessa alla modifica normativa, di cui all'art. 3, c. 5, lett. e) del dl 13.08.2011, n. 138, convertito, con modificazioni, in legge 14.09.2011, n. 148, la quale ha disposto che i professionisti sono tenuti a stipulare idonea assicurazione per la responsabilità civile per l'attività professionale da essi svolta.
Un simile obbligo dal lato della domanda richiede la garanzia che, dal lato dell'offerta, vi sia un effettivo contesto concorrenziale e modelli contrattuali che evitino il rischio di sfruttamento, in termini di premi elevati e/o di clausole vincolanti e/o abbinamenti di più servizi, della rigidità della domanda (articolo ItaliaOggi del 21.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Province, esuberi in periferia. Dipendenti verso tribunali, agenzie, Motorizzazione. LEGGE DI STABILITA'/ Ecco tutte le novità degli emendamenti presentati dal governo.
I dipendenti provinciali in mobilità saranno dirottati nelle articolazioni periferiche dello stato: non solo uffici giudiziari, ma anche agenzie fiscali (Demanio, Entrate), motorizzazione civile e scuole. Sarà sostanzialmente questa la soluzione alla trattativa che il governo sta conducendo con le autonomie (regioni in primis) per risolvere la grana dei 20 mila lavoratori in esubero originati dalla trasformazione delle province in enti di secondo livello.
L'accordo sarà trasposto in un emendamento alla legge di stabilità, anche se per il momento non si sa ancora se la proposta arriverà già alla camera o durante il passaggio al senato.

Ieri il governo ha scoperto le carte, prima con il ministro delle riforme Maria Elena Boschi, in audizione in Bicamerale per il federalismo, e poi con il viceministro all'economia Enrico Morando durante i lavori della manovra in commissione bilancio alla camera. Dall'esecutivo, ovviamente, bocche cucite sui dettagli dell'accordo. Ma qualcosa trapela ugualmente.
Al momento, l'intesa potrebbe essere trovata sulla proposta delle regioni di dirottare verso le amministrazioni periferiche dello stato i dipendenti in eccesso. Tribunali, scuole, uffici della Motorizzazione civile e delle Agenzie fiscali sarebbero tenuti ad assumere gli esuberi delle province con precedenza rispetto alle proprie graduatorie. E per sfoltire il contingente umano da trasferire, saranno previsti prepensionamenti per coloro che hanno maturato i requisiti pre riforma Fornero.
In attesa che il governo formalizzi gli emendamenti pro comuni che recepiscono l'accordo raggiunto con l'Anci per alleggerire gli oneri della manovra e della riforma della contabilità (oltre alla partenza soft per il fondo crediti di dubbia esigibilità, si prevede la spalmatura fino a 30 anni dei buchi di bilancio che dovessero emergere dal riaccertamento dei residui attivi, ma anche la possibilità di utilizzare il 50% degli oneri di urbanizzazione per finanziare la spesa corrente, nonché la copertura statale per i nuovi mutui e la possibilità di rinegoziare i vecchi prestiti), la giornata di ieri ha visto l'approvazione di un nutrito pacchetti di emendamenti molto eterogenei. Dalla carta acquisti, al rifinanziamento della legge Sabatini, dall'Iva sugli ebook al made in Italy passando per l'agroalimentare. Vediamoli nel dettaglio.
Carta acquisti. Il governo ha presentato un emendamento che punta a «garantire» la continuità del programma carta acquisti per cittadini comunitari ed extracomunitari e la sperimentazione nei 12 comuni con popolazione superiore ai 250mila abitanti. L'emendamento rimedia alla mancata conversione della norma contenuta nell'articolo 9, comma 15, del dl 150/2013 (decreto proroga termini).
Tale disposizione garantiva la continuità del programma Carta acquisti consentendo a Poste italiane di erogare il servizio di pagamento in favore degli aventi diritto alla social card in attesa dell'espletamento della gara per la nuova aggiudicazione del servizio. Lo stralcio della norma in sede di conversione in legge del decreto avrebbe privato Poste Italiane della titolarità giuridica ad effettuare il servizio con l'effetto di dover recuperare dai soggetti indigenti le somme erogate da gennaio 2014 a marzo 2014, quando la società, dopo aver vinto la gara indetta dal Mef ha stipulato il relativo contratto.
Non cambia nulla invece sulle condizioni personali per usufruire della carta acquisti a cui già possono accedere gli extracomunitari con regolare permesso di soggiorno di lungo periodo,
Più risorse per la non autosufficienza. In arrivo 150 milioni di euro in più nel 2015 per la non autosufficienza i cui fondi per l'anno prossimo salgono a 400 milioni di euro. Ad annunciarlo il relatore alla legge di stabilità, Mauro Guerra. Restano confermati gli stanziamenti a decorrere dal 2016 che ammontano a 250 milioni di euro l'anno.
Legge Sabatini. Via libera al rifinanziamento della legge Sabatini, che prevede incentivi all'acquisto di beni strumentali per le imprese. Il governo ha stanziato 12 milioni di euro per il 2015, 31,6 milioni di euro per il 2016 e 46,6 per il 2017.
Iva sull'ebook. La commissione ha dato il via libera all'emendamento presentato dal ministro per i beni culturali Dario Franceschini che taglia l'aliquota Iva per gli e-book dal 22% al 4% (si veda ItaliaOgggi di ieri). I libri e i periodici in formato elettronico vengono quindi equiparati a quelli in formato cartaceo. Il minor gettito, pari a 7,2 milioni di euro all'anno, viene coperto dal fondo per interventi strutturali di politica economica.
Fondo emergenze. In arrivo 60 milioni di euro per il fondo per le emergenze nazionali per l'anno 2015. Le risorse, si legge nella relazione tecnica all'emendamento, saranno prelevate da quelle destinate alla copertura del pagamento dei mutui, che «per il prossimo anno sono eccedenti rispetto al fabbisogno».
Ice. Il governo stanziera' 220 mln di euro nel triennio 2015-2017 per le attivita' dell'Ice. Nel dettaglio, per la realizzazione delle azioni relative al piano straordinario per la promozione del made in Italy e l'attrazione degli investimenti in Italia verranno assegnati all'Ice per il triennio 2015-2017 ulteriori 130 milioni di euro per l'anno 2015, 50 milioni di euro per il 2016 e 40 milioni di euro per il 2017.
Agricoltura. Per incentivare l'imprenditoria giovanile in agricoltura e favorire il ricambio generazionale alla guida delle aziende agricole, il governo rifinanzia con 30 mln di euro (10 mln l'anno per il triennio 2015/2017) la concessione di mutui agevolati per gli investimenti.
I fondi andranno in abbattimento degli interessi e avranno come destinazione l'Ismea, l'istituto per i servizi al mercato agroalimentare controllato dal dicastero delle politiche agricole, che gestisce le agevolazioni all'autoimprenditorialità e all'autoimpiego in agricoltura.
Inoltre, il governo destina altri 30 mln di euro al finanziamento dei contratti di filiera agricola e agroalimentare e di distretto, concepiti con la Finanziaria 2003 (legge 289/2002, art. 66) (articolo ItaliaOggi del 21.11.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Alberi monumentali da censire. Entro il 31/7.
Entro il 31 luglio del prossimo anno, i comuni dovranno effettuare il censimento degli alberi monumentali che ricadono nel proprio territorio. La raccolta di questi dati, effettuata su base regionale, confluirà in un elenco generale degli alberi monumentali d'Italia alla cui gestione provvederà il Corpo forestale dello stato.

Sono queste alcune delle indicazioni contenute nel testo del decreto 23/10/2014 del ministero delle politiche Agricole, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dello scorso 18 novembre, in attuazione delle disposizioni previste all'articolo 7, comma 2, della legge n. 10 del 2013, recante norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani.
Un elenco che, come detto, per formarsi necessita dei dati inseriti a livello regionale e che, a loro volta, devono fondarsi sugli elenchi degli alberi monumentali che tutti i comuni del territorio nazionale sono tenuti a redigere sulla base di un censimento da effettuare nel proprio territorio.
Pertanto, occorrerà che entro il 31 luglio del prossimo anno i comuni, sotto il coordinamento delle regioni, completino le operazioni relative al predetto censimento, così da permettere alle Regioni di redigere i successivi elenchi entro il 31.12.2015. Il decreto in esame evidenzia altresì le modalità di realizzazione del censimento. Questo, potrà essere effettuato sia mediante ricognizione territoriale con rilevazione diretta che attraverso la verifica sul posto delle segnalazioni pervenute dai cittadini, dalle associazioni, dalle scuole e dal mondo dell'associazionismo.
La definizione di «albero monumentale» raggruppa una vasta gamma di possibilità. Pertanto, al fine di garantire una uniformità dei dati che dovranno confluire nell'elenco nazionale, il decreto ministeriale rileva che è necessario utilizzare un'apposita scheda di segnalazione che i comuni e i soggetti segnalatori potranno reperire al sito internet www.corpoforestale.it. Una volta redatto e ottenuto il via libera dalla regione, l'elenco dovrà essere affisso all'albo pretorio del comune e aggiornato con cadenza almeno annuale (articolo ItaliaOggi del 21.11.2014).

TRIBUTI: Terreni, esenzioni Imu solo sopra i 600 metri. Pronto il dm. Fino a 280 metri contribuenti alla cassa il 16/12.
È in dirittura d'arrivo il decreto del Mef che individuerà i comuni nei quali i terreni agricoli continueranno a non pagare l'Imu. L'esenzione piena rimarrà solo nei municipi collocati ad oltre 600 metri sul livello del mare, mentre fra 281 e 600 metri sarà limitata ai terreni posseduti da coltivatori diretti o imprenditori agricoli professionali. Fino a 280 metri, invece, tutti dovranno presentarsi alla cassa già il prossimo 16 dicembre, versando l'intera imposta dovuta per il 2014.
Il provvedimento, ora alla firma del ministro Pier Carlo Padoan, dà attuazione all'art. 22, comma 2, del dl 66/2014, che ha imposto di circoscrivere l'esenzione per i terreni agricoli prevista dall'art. 7, comma 1, lett. h, del dlgs 504/1992 sulla base della diversa altitudine dei comuni e diversificando quelli posseduti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali iscritti nella previdenza agricola.
Dal provvedimento è atteso un maggior gettito pari a 350 milioni di euro, che saranno immediatamente recuperati al bilancio dello Stato decurtando il fondo di solidarietà dei comuni esclusi dall'ambito di applicazione dell'esenzione. Non a caso, i più allarmati (dopo i contribuenti) sono proprio i sindaci, che temono di perdere altre risorse. Mentre, infatti, i tagli al fondo saranno automatici, le maggiori entrate tributarie rischiano di essere aleatorie, dato che si tratta di far pagare contribuenti che finora non hanno mai versato né l'Imu né l'Ici.
Ricordiamo, infatti, che, in base alle regole attuali, nelle aree montane e di collina non sono soggetti ad imposta né i terreni agricoli né quelli diversi (ad esempio quelli incolti). Finora, ha fatto fede l'elenco allegato alla circolare 9/1993. Il nuovo decreto, invece, modifica radicalmente il quadro, individuando tre diverse fasce altimetriche. In quella più alta (oltre i 600 metri), l'esenzione continuerà a essere totale: nessuno dovrà pagare e i comuni non subiranno nuovi tagli.
Nella fascia intermedia (fra 281 e 600 metri), l'esenzione sarà solo parziale, ossia limitata ai coltivatori diretti e agli iap. Fino a 280 metri, infine, l'esenzione verrà cancellata del tutto. Negli ultimi due casi, i comuni vedranno aprirsi un buco, che in teoria dovrebbe essere riempito dai versamenti dei contribuenti, che saranno chiamati a pagare già il prossimo 16 dicembre. In proposito, merita ricordare che, a causa della tardiva approvazione del decreto, per i terreni non più esenti non è stato versato alcun acconto a giugno, per cui in sede di saldo occorrerà sborsare l'importo dovuto per l'intero anno.
La base imponibile si ottiene applicando all'ammontare del reddito dominicale risultante in catasto, vigente al 1° gennaio dell'anno di imposizione, rivalutato del 25%, un moltiplicatore pari a 130, che scende a 110 per i coltivatori diretti e gli iap. A favore di questi ultimi, inoltre, è prevista una franchigia di 6 mila euro e una riduzione per scaglioni sull'eccedenza fino a 32 mila euro. Rimangono esenti i terreni a immutabile destinazione agro-silvo-pastorale a proprietà collettiva indivisibile e inusucapibile (articolo ItaliaOggi del 19.11.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Semplificazioni e recupero, spinta all'edilizia. Più facile dividere e unire alloggi, sconti agli oneri. Ma non tutto si applica subito.
Con lo Sblocca-Italia (decreto legge 12.09.2014, n. 133, convertito dalla legge 11.11.2014, n. 164, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 262 dell'11 novembre) si allarga il raggio di azione dell'edilizia libera, gli interventi cioè di manutenzione e piccola trasformazione realizzabili con semplice comunicazione di inizio attività (Cil) asseverata da un progettista.
Diventano in particolare liberi, e gratuiti (purché non venga alterata la volumetria complessiva dell'edificio), i frazionamenti o accorpamenti di unità immobiliari, e più in generale tutte le manutenzioni straordinarie che comportino anche modifiche a volumi e superfici delle singole unità.
È questa la semplificazione più chiara e di impatto più ampio, potenzialmente in grado di interessare tutti i circa 26 milioni di italiani proprietari di casa, tra quelle introdotte dallo Sblocca-Italia. Inoltre, dopo le modifiche alle superfici degli alloggi, grazie allo Sblocca-Italia sarà possibile affidare al Comune tutte le pratiche di modifica catastale con semplice comunicazione di fine lavori.
In tutto nel Dl 133/2014 ci sono 48 modifiche al Testo unico edilizia (Dpr 380/2001), che si pongono tre obiettivi: allargare l'edilizia autocertificata, favorire il recupero e la riqualificazione (con sconti agli oneri, varianti semplificate, incentivi in cubature per delocalizzare, cambio d'uso più facile), semplificare la disciplina edilizia (pompe di calore in Cil ordinaria, tempi rapidi sui permessi di costruire, proroghe e varianti non essenziali più facili, debutto del permesso di costruire convenzionato).
Le procedure
L'edilizia realizzabile con semplice "asseverazione" del progettista abilitato, anziché dover aspettare il provvedimento espresso del Comune, ha debuttato nel 1997 (governo Prodi I) con la Dia, e da allora si è via via allargata con un orientamento legislativo sostanzialmente condiviso, pur con sfumature. Il Pd, ad esempio, ha aggiunto in commissione Ambiente alla Camera un emendamento allo Sblocca-Italia che impone alle Regioni di rafforzare i controlli sull'attività edilizia libera (Cil e Cil asseverata).
Il recupero
Il secondo filone dello Sblocca-Italia sono gli incentivi al recupero. Il contributo costo di costruzione è sempre ridotto del 20%, rispetto ai casi di nuova costruzione, per gli interventi di recupero o riuso di immobili dismessi o in via di dimissione, purché non in variante. Altri sconti agli oneri e al contributo sono invece subordinati all'attuazione comunale.
Si cerca di spingere i Comuni (ma la norma è di indirizzo) a riqualificare aree con edifici incongrui anche con «forme di compensazione rispondenti all'interesse pubblico». Poco incisive, e soggette all'attuazione regionale, sembrano anche le norme che dovrebbero facilitare i cambi di destinazione d'uso.
Sempre per incentivare il recupero si ammette la richiesta, da parte dei privati, di permessi di costruire in deroga al Prg per interventi di ristrutturazione edilizia, previa deliberazione del consiglio comunale. La norma è però controversa, tant'è che il Parlamento ha tolto l'estensione anche alla ristrutturazione urbanistica.
I tempi
In materia di semplificazione, viene eliminato il raddoppio del termine per l'istruttoria (da 60 a 120 giorni) per i Comuni con oltre 100mila abitanti; è prevista la possibilità di chiedere la proroga della validità del permesso per difficoltà tecniche o fatti sopravvenuti; possibile infine chiedere con semplice Scia alcune varianti non essenziali al progetto.
Tre modifiche che puntano a semplificare un po' la vita ai cittadini anche in caso di interventi più complessi (ristrutturazioni edilizie con cambio di volume o prospetti, ampliamenti, nuove costruzioni). Debutta infine a livello nazionale il permesso di costruire convenzionato, già presente in alcune leggi regionali.
C'è poi il regolamento edilizio unico. Atteso da professionisti e imprese per eliminare la babele di regole comunali diverse una dall'altra, il regolamento unico resta tuttavia, per ora, solo un obiettivo dopo le norme dello Sblocca-Italia
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.11.2014 - tratto da www.fiscooggi.it).

EDILIZIA PRIVATAP.a., niente più ripensamenti. Uno scudo su Scia, revoca e annullamento d'ufficio. Più tutele per le imprese con le modifiche alla legge sul procedimento amministrativo.
Più tutele per le imprese, messe al riparo da brutte sorprese da parte della pubblica amministrazione. Si tratta di modifiche alla legge generale sul procedimento amministrativo (n. 241/1990), che intervengono sulla Scia, sulla revoca e sull'annullamento d'ufficio, attuate dal decreto Sblocca Italia, convertito nella legge. n. 164 pubblicata sul S.O. della G.U. n. 262 dell'11/11.

Il senso degli interventi è bloccare il ripensamento dell'amministrazione e consolidare la posizione dell'impresa, che non può essere messa fuori gioco all'improvviso. Così viene alzato uno scudo a protezione della segnalazione certificata di inizio attività (Scia), che non può essere revocata o annullata a meno che non vi siano pericoli per rilevanti interessi pubblici e sempre che non si possa rimediare con qualche accorgimento e senza bloccare l'attività in corso.
Qui siamo di fronte a un perfezionamento di uno strumento di semplificazione del procedimento amministrativo. La revoca degli atti amministrativi, poi, potrà avvenire solo sopravviene un mutamento imprevedibile della situazione: la pubblica amministrazione è sempre nella condizione di cambiare idea e prendere una nuova decisione in una situazione che è cambiata, ma solo se la modifica non potesse essere prevista; mai la revoca potrà toccare benefici economici e solo per un ripensamento della p.a. sulla valutazione degli interessi pubblici.
Qui siamo di fronte non a una semplificazione, ma a una norma di garanzia che argina la discrezionalità amministrativa. A volte la valutazione modificata dell'interesse pubblico deriva da differenti scelte d'indirizzo politico. La norma vuole proteggere le imprese da prese di posizione che potrebbero rasentare l'arbitrio. La manovra sull'annullamento d'ufficio blinda gli atti amministrativi illegittimi, ma che prendono una decisione di fatto corretta.
La norma si concentra sul risultato dell'attività amministrativa, mettendo in un angolo i cavilli da leguleio. Se l'atto prende la giusta decisione non potrà essere azzerato, solo per un vizio di forma o di procedura. La direzione complessiva del decreto è quella del giusto procedimento amministrativo, con una riduzione dell'ambito di vigilanza e controllo, da riservare solo al merito dei problemi (e non alla forma degli atti). D'altra parte nei casi di atti formalmente invalidi, ma sostanzialmente corretti, non è neppure possibile l'annullamento in sede giurisdizionale. Ora l'atto viziato nella forma o nella procedura non può essere annullato né dai Tar né dalla p.a. che lo ha adottato.
Scia. La Scia, Segnalazione certificata di inizio attività, nei casi in cui è ammessa, consente di avviare immediatamente l'attività, anche se all'amministrazione è riservata la possibilità di intervenire per bloccare o impedire la prosecuzione (articolo 19 della legge 241/1990). Il decreto Sblocca Italia interviene a limitare la possibilità per l'amministrazione di assumere determinazioni in via di autotutela e cioè per stoppare la Scia.
In base alle nuove norme, questo potrà avvenire solo in presenza del pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l'ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo motivato accertamento dell'impossibilità di tutelare comunque tali interessi mediante conformazione dell'attività dei privati alla normativa vigente.
In base all'articolo 19 della legge 241/1990 la pubblica amministrazione ha 60 giorni di tempo per disporre il divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti e ha, senza limiti di tempo, il potere di revoca e di annullamento di ufficio (cosiddetta autotutela). La norma in esame limita la possibilità della autotutela alle ipotesi di pregiudizio per rilevanti interessi, ma solo dopo avere escluso che l'attività possa continuare, anche se seguendo alcune specifiche precauzioni, che sta alla stessa amministrazione di indicare.
Revoca. La legge 241/1990 stabilisce la facoltà di revoca del provvedimento amministrativo a efficacia durevole, da parte della p.a. (articolo 21-quinquies). In particolare la p.a. può tornare sui propri passi e revocare l'atto precedente solo in tre casi: 1) mutamento della situazione di fatto; 2) insorgenza di un nuovo interesse pubblico; 3) riconsiderazione dell'interesse pubblico originario.
Il decreto Sblocca Italia prevede che la revoca per mutamento della situazione di fatto è possibile solo se tale mutamento fosse «non prevedibile al momento dell'adozione del provvedimento»: questo significa che la p.a. non può revocare nel caso in cui l'evoluzione fosse prevedibile. Inoltre, per quanto riguarda le ipotesi di una nuova valutazione dell'interesse pubblico originario, il decreto Sblocca Italia esclude la revoca per i provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici.
Questo significa che i vantaggi economici rimangono fermi, nonostante la rivalutazione dell'interesse pubblico. Rimane fermo che la revoca, quando ancora possibile, espone l'amministrazione all'obbligo di indennizzare economicamente il privato che patisce pregiudizio per effetto del nuovo provvedimento. Se, poi, la revoca incide su un rapporto contrattuale (per esempio la revoca di una concessione), l'indennizzo è parametrato al danno emergente (senza considerare la perdita di lucro).
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Limitazioni al potere di annullamento.
In base al decreto legge Sblocca Italia, viene limitato il potere della p.a. di annullare d'ufficio i propri provvedimenti amministrativi illegittimi (articolo 21-nonies della legge n. 241/1990). In effetti il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati. Mentre la revoca agisce su atti legittimi, l'annullamento presuppone provvedimenti amministrativi invalidi.
La norma di riferimento, nella sua versione vigente, consente di annullare il provvedimento affetto da qualsiasi vizio. Il decreto Sblocca Italia limite tale potere e salva i provvedimenti formalmente illegittimi, ma «buoni» nella sostanza. In particolare la p.a. non potrà far decadere i provvedimenti adottati in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato; i provvedimenti rimangono validi anche nel caso di mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo. Come dire l'impossibilità di annullamento non sana le responsabilità disciplinari del funzionario che ha adottato un atto formalmente illegittimo.
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Conferenza servizi, cambia la decorrenza.
Il decreto Sblocca Italia modifica due aspetti della disciplina della conferenza di servizi. La conferenza di servizi serve ad acquisire velocemente e in unico contesto i pareri delle varie amministrazioni coinvolte, per esempio, in una stessa opera pubblica oppure per fare assumere, sempre in unico contesto, le decisioni che devono contribuire a un'unica finalità.
La legge prevede due tipi di conferenza dei servizi: istruttoria e decisoria. Nel caso della conferenza istruttoria, il procedimento non è necessario ai fini dell'adozione del provvedimento finale, ma può essere utile per consentire un confronto tra le amministrazioni portatrici di più interessi pubblici coinvolti nel procedimento. La conferenza decisoria, invece, interviene nei procedimenti che prevedono, per il loro perfezionamento, l'assenso, sotto forma di intesa, concerto, nulla osta, o comunque altrimenti denominato, di più amministrazioni.
La prima modifica del decreto Sblocca Italia riguarda i termini di validità dei pareri autorizzazioni, concessioni, nulla osta o atti di assenso comunque denominati, acquisiti nell'ambito della conferenza di servizi, che, nella versione attuale, decorrono dal momento della loro espressione. La novità sposta la decorrenza all'adozione del provvedimento conclusivo della conferenza, in modo da armonizzare i tempi di validità degli atti endoprocedimentali acquisiti all'interno di una conferenza con quelli del provvedimento finale.
La relazione illustrativa al provvedimento spiega la finalità pratica della norma: nel caso di conferenza di servizi per l'ottenimento dell'autorizzazione unica alla realizzazione di un'opera, tra il rilascio dei singoli atti di assenso e l'autorizzazione finale intercorrono anche anni, e quindi quando l'amministrazione proponente è messa nella condizione di poter iniziare i lavori, i termini di validità dei singoli pareri si siano già notevolmente ridotti. In secondo luogo, il decreto in esame qualifica come atto di alta amministrazione la deliberazione del consiglio dei ministri, a cui l'amministrazione procedente rimette la decisione conclusiva nei casi di dissenso tra amministrazioni statali all'interno delle conferenza.
Questo serve a limitare e di molto la possibilità che gli atti siano bocciati dal Tar. Per gli atti di alta amministrazione, infatti, i magistrati possono intervenire con un annullamento solo in caso di palese illegittimità, contraddittorietà e irragionevolezza. In sostanza questo potrà avvenire mai o quasi mai (articolo ItaliaOggi Sette del 17.11.2014).

APPALTIAppalti, bandi standardizzati. I costi della sicurezza possono essere chiesti in offerta. Pubblicato in G.U. il modello Anac per l'affidamento dei lavori pubblici oltre 150 mila.
Più certezza negli appalti pubblici di lavori con il bando-tipo Anac, che detta le regole per gestire le procedure; i costi della sicurezza possono essere sempre chiesti in offerta. Mentre costo del lavoro richiesto soltanto per appalti edili e conferma della verifica dei requisiti con il sistema Avcpass. Infine, clausole di esclusione anche per rispetto della legge anticorruzione.

Sono alcune delle indicazioni fornite dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) con il bando-tipo n. 2 del 02.09.2014, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del n. 246 del 22.10.2014.
Il documento è stato emesso in attuazione dell'art. 64, comma 4-bis, del dlgs 163/2006 (codice dei contratti pubblici) e consiste in un modello di disciplinare di gara per procedura aperta di un appalto di sola esecuzione di lavori di importo superiore a 150 mila euro con aggiudicazione al prezzo più basso. Il documento, finalizzato a dare regole certe e omogenee per ogni appalto, si compone di un contenuto prescrittivo vincolante, in cui sono ricomprese le clausole relative alle cause tassative di esclusione, e di un contenuto prescrittivo discrezionale, riferito ad aspetti della procedura che devono necessariamente essere regolamentati nella documentazione di gara.
Per quel che riguarda la qualificazione dei concorrenti il bando-tipo riporta correttamente tutte le modifiche intervenute rispetto alla qualificazione per lavori appartenenti alla categoria prevalente e quella per lavori specialistici (parere Consiglio di stato del 26.06.2013, n. 3014 e Dpr 30.10.2013). Si mette l'accento, in particolare, sul fatto che la nuova disciplina comporta, fra le altre cose, che alcune categorie (OS 3-impianti idrico sanitari, OS 8-opere di impermeabilizzazione, OS 20A e OS 20B-rilievi topografici e indagini geognostiche), possono essere svolte dall'aggiudicatario se ne ha l'attestazione di qualificazione, oppure affidate in subappalto.
La norma quindi, chiarisce l'Anac, non comporta più l'obbligo, in questi casi (assenza del requisito) di raggrupparsi con l'impresa specialistica per le parti di opere che l'aggiudicatario non può eseguire per carenza di qualificazione. Uno dei chiarimenti di maggiore rilevanza attiene alla disciplina degli oneri di sicurezza, che non sono oggetto di ribasso in sede di gara. A tale riguardo l'Anac, dopo avere richiamato l'articolo 84, comma 7 del codice dei contratti (che include i costi della sicurezza fra gli elementi oggetto di verifica delle offerte anomale, ma impone la richiesta di indicazione in sede di offerta soltanto nel settore delle forniture e dei servizi, ma non nei lavori), precisa che tali costi possono essere richiesti (ma non a pena di esclusione) anche negli appalti di lavori.
L'unica differenza risiede nel fatto che se il concorrente non fornisce le indicazioni la stazione appaltante non può procedere automaticamente all'esclusione dalla gara come avverrebbe se si fosse in un appalto di forniture o di servizi. Fra le diverse indicazioni emerge anche quella sul costo del lavoro, elemento utile nell'aggiudicazione con offerte a prezzi unitari e che quindi può essere richiesto soltanto per gli appalti di natura edile o prevalentemente edile, mentre risulterebbe inapplicabile negli altri casi.
Per la verifica dei requisiti confermata l'utilizzabilità del sistema Avcpass messo a punto dall'Anac. In merito alla disciplina sui raggruppamenti temporanei di imprese si dà atto dell'abrogazione del comma 11 dell'articolo 37 del dlgs 163/2006 (abolizione del principio di corrispondenza fra quote di requisiti di qualificazione, di partecipazione al raggruppamento e quote di esecuzione dei lavori), con la conseguenza che la quota di partecipazione in Ati non può superare la percentuale dei requisiti di qualificazione che il concorrente raggruppato possiede. L'Anac ricorda anche che la mandataria deve partecipare con una quota (e con requisiti) sempre superiori a ciascuna delle mandanti.
Sul subappalto, in attuazione dell'articolo 118 del codice e dell'articolo 170 del dpr 207/2010, l'Anac conferma l'obbligo per i concorrenti di indicare i lavori o le parti dei lavori che vuole sub-affidare o concedere in cottimo, avvertendo che senza questa dichiarazione il subappalto risulta vietato. Inoltre si prende atto della recente giurisprudenza sul cosiddetto subappalto necessario (obbligo di indicare in offerta i nominativi dei subappaltatori se il concorrente non possiede i requisiti per i lavori a qualificazione obbligatoria, cioè per i lavori che l'impresa generale non possiede) e si precisa che la mancanza di questa indicazione determina l'esclusione dalla gara.
Sulle cause di esclusione il bando-tipo chiede alle stazioni appaltanti (con lo schema di disciplinare) di inserire una clausola finalizzata (in base alla legge anticorruzione 190/2012) a richiedere ai concorrenti un'apposita dichiarazione relativa all'assenza di rapporti contrattuali con dipendenti pubblici che abbiano cessato il rapporto di lavoro, nei tre anni successivi a tale cessazione, divieto che opera laddove i dipendenti abbiano esercitato poteri autoritativi o negoziali nei confronti del concorrente stesso (articolo ItaliaOggi Sette del 17.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Sì al soccorso istruttorio, non prima di aver pagato una sanzione.
Possibile il «soccorso istruttorio» in gara per l'assenza di documenti o dichiarazioni, previo pagamento di una sanzione, ma non quando è violata la segretezza delle offerte.

È questo uno dei casi di irregolarità dichiarate non sanabili dall'Anac in base al recente vademecum messo in consultazione pubblica con il quale si forniscono indicazioni alle stazioni appaltanti sulle modalità applicative dell'articolo 39 del decreto 90/2014 (legge 114/2014).
La norma del decreto 90 ha introdotto il principio per cui possibile sanabile ogni carenza, omissione o irregolarità «essenziale» dell'offerta (pagando una sanzione non superiore a 50 mila euro) con l'unico limite derivante dall'esigenza di garantire l'inalterabilità del contenuto dell'offerta, la certezza sulla provenienza e sulla segretezza dell'offerta, nonché le situazioni in cui versano i concorrenti alla scadenza del termine di partecipazione alla gara.
L'Anac interviene per chiarire quali irregolarità essenziali non possono essere oggetto di sanatoria: in primis si dice che il soccorso istruttorio non vale «per supplire a carenze dell'offerta» o per l'assenza di un requisito (ben diverso è invece il caso in cui manchi il documento relativo al requisito, che invece esiste in concreto).
Fra le irregolarità essenziali non sanabili si citano: la mancata indicazione del riferimento di gara sulla busta esterna o il mancato inserimento in due diverse buste dell'offerta tecnica e di quella economica; la mancata sottoscrizione dell'offerta da parte del titolare dell'impresa; la mancata sigillatura dei plichi; il mancato sopralluogo; l'assenza della dichiarazione di ricorso all'avvalimento.
Non sanabile è anche il mancato versamento del contributo dovuto all'Anac per partecipare alle gare. Sono invece regolarità essenziali, ma sanabili quelle relative a «irregolarità nella redazione della dichiarazione, oltre l'omissione e l'incompletezza, che non consentano alla stazione appaltante di individuare con chiarezza il soggetto e il contenuto della dichiarazione stessa, ai fini dell'individuazione dei singoli requisiti di ordine generale che devono essere posseduti dal concorrente».
Un esempio: avere fatto il sopralluogo, ma non avere dichiarato la data di effettuazione le documento di gara. Vi sono infine irregolarità non essenziali ma che toccano elementi indispensabili (per esempio l'indicazione della posizione Inps, Inail, Cassa edile, ai fini della verifica della regolarità contributiva). In questi casi l'amministrazione deve invitare il concorrente a sanare l'irregolarità senza però chiedere di pagare la sanzione (articolo ItaliaOggi Sette del 17.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’Italia digitale avanza al Nord. Con lo sblocca-Italia obbligo di dotazioni avanzate nelle abitazioni.
L’Italia delle tecnologie dell’informazione si muove a due velocità: il Centro-Nord va a un passo decisamente più sostenuto di alcune aree del Meridione. Ed è probabilmente questo scarto che relega il nostro Paese nella parte bassa delle classifiche europee relative alle infrastrutture e dotazioni digitali e agli investimenti per svilupparle.

Lo dimostra l’analisi del centro studi della web agency MM One group, che elaborando una serie di dati Istat ha fotografato il grado di informatizzazione di ciascuna regione italiana in tre ambiti: quello imprenditoriale, della pubblica amministrazione e dei cittadini. Sono stati presi in considerazione vari fattori. Tra gli altri: la disponibilità di personal computer; gli accessi a internet; l’uso della rete sia per la vendita, sia per l’acquisizione di informazioni o l’accesso a servizi; il dialogo online con la pubblica amministrazione; la titolarità (questo soprattutto per imprese e uffici pubblici) di siti . Il risultato, seppure con alcuni distinguo, è sempre lo stesso: ai posti alti delle tre classifiche si situano le regioni centro-settentrionali, mentre a fare da fanalino di coda sono le realtà del Sud.
Il dato è eclatante riguardo, in particolare, al livello di informatizzazione raggiunto da aziende e famiglie. In relazione al primo ambito, l’elaborazione assegna infatti i primi cinque posti a regioni del Nord : primo il Trentino Alto Adige, secondo il Friuli Venezia Giulia, terza la Lombardia, quarta l’Emilia Romagna, quinto il Veneto. A voler proseguire nella classifica, al sesto posto c’è la Toscana, al settimo il Piemonte e all’ottavo la Sardegna.
Di contro, Campania, Puglia, Sicilia e Calabria occupano, rispettivamente, le ultime quattro posizioni, anche se poi per trovare l’ultimissima in classifica bisogna risalire al Nord, dove la Liguria fa registrare performance poco lusinghiere in tutti e tre i settori: ventesima nella graduatoria riservata alla aziende, diciottesima in quella dei servizi digitali della Pa, dodicesima nell’informatizzazione delle famiglie.
La Liguria non è l’unica regione del Nord a scivolare nelle parti basse della classifica. Per esempio, si può registrare un quattordicesimo posto della Valle d’Aosta nella graduatoria relativa alle imprese, così come una tredicesima posizione del Piemonte in quella riferita ai cittadini, nonché la maglia nera della provincia autonoma di Trento nella digitalizzazione della Pa, scavalcata solo dal Molise. Tra le regioni del Nord, la Liguria è però quella che non riesce mai a riscattarsi. Il Trentino, per esempio, oltre al primo posto della graduatoria relativa alle imprese, si situa al sesto in quella che riguarda i cittadini, dove la Valle d’Aosta agguanta la terza posizione.
Lo stesso discorso non si può, invece, fare per le regioni meridionali, che non brillano in nessuna delle tre classifiche: non si va più in là di un settimo posto conquistato dalla Puglia nell’informatizzazione della pubblica amministrazione.
Diventa, pertanto, urgente colmare il divario e portare tutte le regioni a viaggiare a velocità simili. Anche perché l’economia generata da internet assume sempre più valore, è in grado di generare posti di lavoro, di ridurre determinati costi (come quelli delle transazioni commerciali) e di creare servizi più efficienti.
L’imperativo è, dunque, accelerare nell’applicazione dell’agenda digitale. Gli ultimi Governi ci hanno provato in diverse riprese, ma i risultati sono stati finora scarsi e poco coordinati. Sull’argomento è tornato, da ultimo, il decreto legge sblocca-Italia (Dl 133/2014, convertito dalla legge 164) con la norma che impone, a partire dal 1° luglio prossimo, la realizzazione di infrastrutture digitali tanto negli edifici di nuova costruzione che in quelli ristrutturati.
In particolare, si chiede che siano realizzati punti di accesso per i servizi in fibra ottica a banda ultralarga. In questo modo gli immobili potranno beneficiare - ai fini della cessione, dell’affitto o della vendita - dell’etichetta, volontaria e non vincolante, di “edificio predisposto alla banda larga”, patente che dovrà essere rilasciata da un tecnico abilitato
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAIl labirinto dei regolamenti edilizi. In attesa del modello unico definizioni e calcoli diversi da Comune a Comune.
Il primo passo verso l’unificazione dei regolamenti edilizi è realtà: nella legge di conversione del decreto Sblocca-Italia (legge 164/2014, pubblicata sulla «Gazzetta» dell’11 novembre) è avviato il percorso che vede coinvolti Comuni e Regioni verso l’adozione di un modello unico di regolamento, da adattare comunque alle realtà locali. Ma i tempi per arrivare a questo traguardo non sono ancora definiti. Nell’attesa, proprietari di immobili e professionisti devono ancora fare i conti con gli oltre 8mila regolamenti edilizi, diversi da Comune a Comune.
Le differenze
Secondo la definizione contenuta nell’articolo 4 del Testo unico dell’edilizia (Dpr 380/2001) i regolamenti edilizi comunali disciplinano le modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto delle normative tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili.
Architetti, ingegneri, geometri e, più in generale, tutti i professionisti dell’edilizia, quando si trovano ad approcciare interventi ricadenti nel territorio di più Comuni ad oggi devono confrontarsi con normative a volte anche profondamente (e ingiustificatamente) discordanti tra loro.
Queste difformità possono riguardare anche definizioni fondamentali, quale quella relativa alla superficie degli edifici a volte definita utile lorda (Sul) o di pavimento (Slp) e da cui, ai fini urbanistici, vengono normalmente escluse (ma ogni Comune ha le sue regole) le aree porticate, le logge, le autorimesse, piuttosto che i vani tecnici.
Così il regolamento edilizio del Comune di Milano del 1999 -regolamento che resterà in vigore sino alla pubblicazione del nuovo regolamento edilizio (si veda l’articolo a fianco)- esclude dal conteggio della Slp gli spazi comuni destinati ad attività di pertinenza dell’intero fabbricato, mentre Bologna non conteggia gli spazi di servizio dell’unità edilizia di uso comune e gli spazi tecnici collegati a parti comuni.
I regolamenti comunali possono poi disporre distanze maggiori rispetto a quella di 3 metri prescritta dal Codice civile. Sfruttando questa possibilità, i Comuni di Bologna, Firenze e Lecce, ad esempio, hanno quindi previsto una distanza minima di 5 metri; il regolamento milanese del 1999, invece, dispone una distanza dal confine di 3 metri, pari a quella del Codice.
E così, ancora, non mancano discordanze riguardo all’altezza massima. Il Comune di Lecce ha previsto che l’altezza massima dei fabbricati sia pari alla distanza misurata in verticale tra il punto più basso del marciapiede a filo fabbricato, o del terreno adiacente, e la quota dell’intradosso dell’ultimo solaio orizzontale di copertura dei locali abitativi.
Il regolamento edilizio di Napoli, invece, prevede che l’altezza massima delle costruzioni sia equivalente all’altezza maggiore tra tutte quelle relative alla facciata della costruzione, la quale è a sua volta definita come l’altezza all’estradosso del solaio di copertura del piano utile più alto.
Verso il modello unico
Il decreto Sblocca Italia prevede che il Governo, le Regioni e le autonomie locali concludano in sede di Conferenza unificata accordi o intese per adottare uno schema di regolamento edilizio-tipo.
Il regolamento edilizio-tipo costituirà il riferimento a cui i Comuni dovranno attenersi e dal quale non potranno discostarsi significativamente nell’adozione della regolamentazione locale. A dettare i tempi di adeguamento saranno però gli accordi.
La norma costituisce un primo importante passo verso l’omogeneità delle disposizioni in materia edilizia. Ma i tempi di adozione del regolamento-tipo e dell’adeguamento dei regolamenti locali verosimilmente non saranno brevi. Il nuovo regolamento unico richiederà ai Comuni anche un’importante attività di coordinamento rispetto alle previsioni, anche terminologiche, contenute nei propri strumenti urbanistici
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Ferie in dodicesimi a inizio e fine carriera.
Gli incarichi di posizione organizzativa possono essere conferiti a dipendenti di categoria D, posizione giuridica 1, anche se nell'ente vi sono dipendenti di categoria D posizione giuridica 3. In questo caso non matura neppure il diritto al riconoscimento delle mansioni superiori. Le ferie maturano in dodicesimi solo nel primo e nell'ultimo anno di attività, mentre in tutti gli altri anni possono essere godute senza questa limitazione.

Possono essere così riassunte le più recenti indicazioni dettate dall'Aran nella applicazione dei contratti collettivi dei dipendenti degli enti locali.
Il contratto del 31.03.1999 stabilisce che gli incarichi di posizione organizzativa siano conferiti a dipendenti di categoria D, senza operare distinzioni tra le posizioni giuridiche di inquadramento iniziale.
Molto opportunamente l'Aran ricorda che le amministrazioni devono comunque essere molto prudenti nell'applicazione della disposizione contrattuale. Il che vuol dire in concreto che si devono applicare in modo “rigoroso” i criteri che le amministrazioni si devono preventivamente dare, sulla base delle previsioni dettate dal contratto nazionale.
In questa sede gli enti possono darsi delle specifiche regole, anche per quanto riguarda il conferimento degli incarichi a dipendenti di categoria D1 o D3. E ancora l’Aran chiarisce che, nel caso in cui l’incarico di posizione organizzativa sia conferita ad un dipendente di categoria D1, non si debbano conferire allo stesso mansioni superiori
Le ferie non devono essere ordinariamente godute per dodicesimi, quindi solamente dopo che esse sono maturate nel corso dell’anno. Per il personale del comparto Regioni ed enti locali le disposizioni contrattuali, che sono contenute nell’articolo 18 del contratto del 6 luglio 1995, impongono infatti il godimento in dodicesimi solamente nel primo e nell’ultimo anno, per cui –in assenza di una specifica disposizione- nella gran parte del periodo lavorativo i dipendenti possono godere delle ferie dell’anno anche se le stesse non sono ancora maturate.
L’Aran ritiene cioè che non vi sia un principio legislativo di carattere generale dettato dalla legislazione, ma che la materia sia compresa tra quelle contrattuali, quindi con la possibilità di avere regole differenziate tra i vari comparti
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.11.2014).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAL'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe sull'interessato, e non sull'amministrazione, la quale, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione.
Ai sensi dell’art. 63, comma 1, e dell’art. 64, comma 1, c.p.a. spetta al ricorrente, l'onere della prova in relazione a circostanze che rientrano nella sua piena disponibilità.
Nello specifico, la prova circa il tempo di ultimazione delle opere edilizie è stato sempre posto sul privato, e non sull'Amministrazione, dato che solo l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto.
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Il Collegio non ritiene che i rilevamenti tratti da Google Earth prodotti in giudizio possano costituire, di per sé ed in assenza di più circostanziati elementi che la ricorrente non ha fornito, documenti idonei al prefato scopo e ciò, in particolare, in considerazione della provenienza del suddetto rilevamento, delle incertezze in merito all’epoca di risalenza delle immagini visualizzate (come emerge dallo stesso sito – alla pagina: https://support.google.com/earth/answer/21417?hl=it – per impostazione predefinita il software “visualizza le immagini di qualità migliore disponibili per una determinata località”, con la precisazione che “a volte potrebbero essere visualizzate immagini meno recenti se sono più nitide rispetto a quelle più recenti”), della genericità delle informazioni relative ai metodi di esecuzione del rilevamento medesimo (a tale riguardo si osserva, peraltro, che le immagini depositate in giudizio risultano essere tratte dalla versione “base” del software e non da quelle più evolute predisposte per scopi commerciali).

Occorre chiarire, infatti, che, come evidenziato dalla consolidata giurisprudenza, l'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe sull'interessato, e non sull'amministrazione, la quale, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione (Cons. St., sez. IV, 14.02.2012, n. 703; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 02.07.2010, n. 16569).
Si sottolinea, sul punto, che, ai sensi dell’art. 63, comma 1, e dell’art. 64, comma 1, c.p.a. spetta al ricorrente, l'onere della prova in relazione a circostanze che rientrano nella sua piena disponibilità (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 10/01/2014 n. 46. Consiglio di Stato sez. III 13/09/2013 n. 4546).
Nello specifico, la prova circa il tempo di ultimazione delle opere edilizie è stato sempre posto sul privato, e non sull'Amministrazione, dato che solo l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto (cfr. infra multa Consiglio di Stato Sez. VI 20.12.2013 n. 6159; Consiglio di Stato sez. V 20.08.2013 n. 4182; Consiglio di Stato sez. V 15.07.2013 n. 3834; Consiglio di Stato Sez. VI 01.02.2013 n. 631).
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Del pari, il Collegio non ritiene che i rilevamenti tratti da Google Earth prodotti in giudizio possano costituire, di per sé ed in assenza di più circostanziati elementi che la ricorrente non ha fornito, documenti idonei al prefato scopo e ciò, in particolare, in considerazione della provenienza del suddetto rilevamento, delle incertezze in merito all’epoca di risalenza delle immagini visualizzate (come emerge dallo stesso sito – alla pagina: https://support.google.com/earth/answer/21417?hl=it – per impostazione predefinita il software “visualizza le immagini di qualità migliore disponibili per una determinata località”, con la precisazione che “a volte potrebbero essere visualizzate immagini meno recenti se sono più nitide rispetto a quelle più recenti”), della genericità delle informazioni relative ai metodi di esecuzione del rilevamento medesimo (a tale riguardo si osserva, peraltro, che le immagini depositate in giudizio risultano essere tratte dalla versione “base” del software e non da quelle più evolute predisposte per scopi commerciali) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 27.11.2014 n. 6118 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALILegali, tariffe controllate. Sanzioni in arrivo per compensi fuori misura. La Cassazione sul patto di quota lite. Le parcelle sono valutabili.
Linea dura della Suprema corte sul patto di quota lite. Rischia infatti di essere sanzionato l'avvocato che chiede compensi sproporzionati rispetto all'attività che dovrà svolgere. Ma non solo: è legittima una valutazione preventiva della parcella.

Sono queste le conclusioni a cui sono giunte le Sezioni unite civili della Corte di cassazione con la sentenza 25.11.2014 n. 25012.
Il giudici di piazza Cavour hanno respinto il ricorso di un legale che aveva fatto sottoscrivere al cliente una scrittura privata nella quale era previsto un compenso del 30% in relazione a una richiesta di risarcimento del danno per un incidente stradale.
Per questo motivo il legale era stato sospeso e poi censurato.
Ora gli Ermellini hanno reso definitivo il verdetto. Sul punto, la Cassazione ha spiegato che l'art. 45 del codice deontologico forense, nel testo modificato con la delibera dell'organismo di autogoverno dell'avvocatura del 18.01.2007, conseguente alla riforma legislativa del 2006, consente all'avvocato di pattuire «con il cliente compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti», alla condizione, tuttavia, «che i compensi siano proporzionati all'attività svolta».
La possibilità di pattuire tariffe speculative si accompagna, quindi, all'introduzione di particolare cautele sul piano deontologico, tese a prevenire il rischio di abusi commessi a danno del cliente e a precludere la conclusione di accordi iniqui.
La proporzione e la ragionevolezza nella pattuizione del compenso rimangono l'essenza comportamentale richiesta all'avvocato, indipendentemente dalle modalità di determinazione del corrispettivo a lui spettante.
La norma dell'art. 45 del codice deontologico riproduce infatti la previsione contenuta nell'art. 43, punto II, dello stesso codice, che vieta all'avvocato di «richiedere compensi manifestamente sproporzionati all'attività svolta. Peraltro», aggiunge la Corte, «l'aleatorietà dell'accordo quotalizio non esclude la possibilità di valutarne l'equità» se, cioè, la stima effettuata dalle parti era, all'epoca della conclusione dell'accordo che lega compenso e risultato, ragionevole o, al contrario, sproporzionata per eccesso rispetto alla tariffa di mercato, tenuto conto di tutti i fattori rilevanti, in particolare del valore e della complessità della lite e della natura del servizio professionale, comprensivo dell'assunzione del rischio (articolo ItaliaOggi del 26.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Il concordato evita la gara. Consiglio di stato/ok al recesso da un rti.
In una gara di appalto pubblico è legittimo il recesso dal raggruppamento temporaneo (Rti) da parte di una impresa che ha fatto richiesta di concordato preventivo anche dopo la presentazione dell'offerta.

La III Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 21.11.2014 n. 5752 ha esaminato gli effetti derivanti dal recesso da un raggruppamento temporaneo di imprese da parte di una impresa che aveva formulato richiesta di concordato preventivo dopo avere anche effettuato una cessione di un ramo d'azienda.
Tutto ciò era avvenuto successivamente alla presentazione dell'offerta e, quindi, in apparente violazione del disposto di cui all'articolo 37 del codice dei contratti pubblici (dlgs 163/2006) che vieta qualsiasi modificazione nei raggruppamenti temporanei di impresa fatta eccezione per fallimento della mandataria o di una mandante Per i giudici il recesso è ammissibile a condizione in primo luogo che –all'inizio della gara– i requisiti di qualificazione siano posseduti da tutte le imprese partecipanti al Rti compreso quella che recede al momento della presentazione dell'offerta, pena la violazione del principio della par condicio tra i concorrenti.
In secondo luogo la sentenza precisa che non ha più rilievo e non viola il principio della par condicio, il fatto che l'impresa (qualificata al momento della domanda di partecipazione) abbia poi esercitato il recesso nel corso della procedura, anche eventualmente per aver perso i requisiti di partecipazione; ma ciò vale a condizione che sia avvenuto «per ragioni legate all'evoluzione delle attività imprenditoriali che prescindono dalla singola gara, come ad esempio nel caso di cessione del ramo di azienda» e di richiesta di concordato preventivo.
Viceversa sarebbe illegittima la modifica soggettiva successiva all'offerta, finalizzata a non soggiacere a conseguenze dovute alla mancanza di requisito (articolo ItaliaOggi del 25.11.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Il Comune con garanzia fideiussoria può applicare subito le sanzioni per mancato versamento di contributi concessori.
Con la sentenza 21.11.2014 n. 5734, la V Sez. del Consiglio di Stato ha ribadito il maggioritario orientamento della giurisprudenza amministrativa, secondo il quale
l'esistenza di una garanzia fideiussoria (a presidio dell’obbligo di pagamento dei contributi concessori), non comporta per l'Amministrazione comunale il dovere di chiedere l'adempimento al fideiussore prima di poter irrogare le sanzioni per omesso o ritardato pagamento dei contributi concessori, né tale dovere potrebbe farsi discendere dal richiamo all'articolo 1227 Cc, che è disposizione riferibile alle sole obbligazioni di natura risarcitoria, e non anche a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura sanzionatoria, come è quella in esame (cfr. Consiglio di Stato, sezione IV, 19.11.2012, n. 5818; Consiglio di Stato, sezione IV, 30.07.2012, n. 4320; Consiglio di Stato, sezione V, 24.03.2005, n. 1250; Consiglio di Stato, sezione V, 11.11.2005, n. 6345; Consiglio di Stato, sezione V, 16.07.2007, n. 4025).
Contrasto di opinioni in giurisprudenza
Non persuasivo viene invece giudicato dalla III sezione il diverso orientamento, seguito dai Tar e da una parte dello stesso Consiglio di Stato, secondo cui le previsioni legislative di sanzioni per il ritardato pagamento degli oneri concessori si giustificano con la necessità, per l'ente locale, di disporre tempestivamente delle somme spettanti, atteso l'interesse pubblico alla celere realizzazione e completamento delle opere di urbanizzazione; la scelta del Comune di non incamerare la fideiussione tempestivamente si porrebbe, pertanto, in contrasto con l'esigenza di una celere acquisizione della disponibilità delle somme e determina nel contempo un ingiustificato aggravamento della posizione del debitore.
Per questo secondo orientamento, tale scelta del Comune finirebbe per ledere il principio di correttezza e buona fede, tenuto conto che al privato è stato imposto un onere finanziario (costo della polizza) per una finalità (certezza di tempi nella disponibilità della somma) che l'Ente pubblico, per scelta non aderente alla funzione della disposizione normativa, abbandona per perseguire, nella sostanza, una finalità secondaria (ottenere una consistente maggior somma) a danno del privato, il quale presumibilmente non adempie nei termini per temporanei problemi di liquidità, tenuto conto che l'obbligazione di pagamento non viene meno, ma cambia soltanto il soggetto creditore (da Comune ad assicurazione), con l'aggravio del pagamento degli interessi convenuti in polizza (cfr. Consiglio di Stato, sezione V, 10.01.2003, n. 32).
La tesi ritenuta preferibile
In conclusione, secondo la sentenza n. 5734/2014, la sanzione scaturente dalla applicazione dell'articolo 3, legge n. 47 del 1985, è da considerare regolata da tutte le disposizioni di principio in materia di obbligazioni e in particolare dal principio secondo il quale il creditore ha il dovere di cooperare con il debitore per il puntuale adempimento dell'obbligazione (cfr., cit. Consiglio di Stato, sezione V, 10.01.2003, n. 32 e Consiglio di Stato, sezione I, 17.05.2013, n. 11663) (commento tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'incompatibilità di un componente emersa durante la valutazione, fa cadere la commissione di gara.
Riguardo al funzionamento di quella peculiare forma di organo collegiale che è la commissione giudicatrice chiamata a valutare le offerte pervenute nell’ambito di una procedura di evidenza pubblica, naturale punto di partenza è l’orientamento fatto proprio nel tempo dal Consiglio di Stato, secondo il quale non esiste un principio assoluto di unicità o immodificabilità delle commissioni giudicatrici, poiché tale principio è destinato ad incontrare deroghe ogni volta vi sia un caso di indisponibilità da parte di uno dei componenti della commissione a svolgere le proprie funzioni.
Il caso
Ciò posto, mentre è stata ammessa, per conseguenza, la sostituzione avvenuta per indisponibilità di un componente in un momento in cui la commissione non aveva ancora cominciato le operazioni valutative (cfr. Consiglio di Stato, sezione III, 25.02.2013, n. 1169), secondo il Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.11.2014 n. 5732, la nomina di una commissione di gara contenente un commissario incompatibile non solo inficia le decisioni e le determinazioni a valle, assunte dalla commissione stessa in quanto manifestazioni di volontà complessa imputabili a tale organo, ma preclude anche la nomina di tutti i medesimi commissari (e non solo di quello dichiarato incompatibile), a tutela dei principi di trasparenza e di imparzialità delle operazioni di gara.
La deroga imposta dai principi di trasparenza e imparzialità
Emerge, quindi, come al di fuori di tali limitati casi in cui la commissione non abbia ancora iniziato ad operare, la giurisprudenza consideri questo organismo quale organo collegiale centrale a garanzia dell’imparzialità e della professionalità, sotto il profilo tecnico, delle valutazioni effettuate nelle gare pubbliche idonee a determinare la graduatoria, e quindi la vittoria, di un appalto pubblico.
Pertanto, ogni qualvolta emergano elementi che siano idonei, anche soltanto sotto il profilo potenziale, a comprometterne tale delicato e cruciale ruolo di garante di imparzialità delle valutazioni affidato alle commissioni di gara, la semplice sostituzione di un componente rispetto al quale sia imputabile la causa di illegittimità dovrebbe dunque ritenersi né ammissibile, né consentita, in particolare nelle ipotesi in cui la commissione abbia già operato e fornito le sue valutazioni in merito alle offerte presentate, come nel caso di specie e come l’ordinanza cautelare di questo Consiglio ha sinteticamente evidenziato.
L’osservazione critica
La delicatezza evidente degli interessi in gioco, quando si tratta di selezionare le offerte delle imprese interessate ad aggiudicarsi una commessa della Pa, rende plausibile l’orientamento, rigoroso, ispirato all’idea che il rischio che il ruolo e l’attività di uno dei commissari dichiarato incompatibile possano avere inciso nei confronti anche degli altri commissari durante le operazioni di gara, influenzandoli verso un determinato esito valutativo, impedisce la sua semplice sostituzione ed implica la decadenza e la necessaria sostituzione di tutti gli altri commissari.
Se una notazione di ordine critico si può fare, al riguardo, è che il sistema deve peraltro trovare una sua coerenza sistemica, che sembra smarrirsi di fronte ad es., per quanto qui interessa, all’articolo 1, comma 1-ter, della legge 20/1994, che tende ad escludere una responsabilità amministrativa in capo a coloro che si siano limitati ad influire sul convincimento degli altri componenti, attraverso la partecipazione alla discussione, senza partecipare alla votazione finale (commento tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il documento unico di regolarità contributiva è una dichiarazione di scienza che si colloca fra gli atti di certificazione o di attestazione aventi carattere meramente dichiarativo di dati in possesso dell'ente, assistiti da pubblica fede ai sensi dell'articolo 2700 c.c. e facenti pertanto prova fino a querela di falso; le inesattezze o gli errori contenuti in detto contenuto, investendo posizioni di diritto soggettivo, possono essere corretti solo dal giudice ordinario o all'esito della proposizione della querela di falso o a seguito di un'ordinaria controversia in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria.
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L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha tra l'altro precisato, quanto al contenuto del d.u.r.c., che "la valutazione compiuta dagli enti previdenziali sia vincolante per le stazioni appaltanti e preclusa, ad esse, una valutazione autonoma" e che "... la mancanza di d.u.r.c. comporta una presunzione legale iuris et de iure di gravità delle violazioni previdenziali", enunciando poi il principio di diritto secondo cui "ai sensi e per gli effetti dell'art. 38, comma 1, lett. i), d.lgs. n. 163 del 2006, anche nel testo vigente anteriormente al d.l. n. 70 del 2011, secondo cui costituiscono causa di esclusione dalle gare di appalto le gravi violazioni alle norme in materia previdenziale e assistenziale, la nozione di violazione grave non è rimessa alla valutazione caso per caso della stazione appaltante, ma si desume dalla disciplina del documento unico di regolarità contributiva; ne consegue che la verifica della regolarità contributiva delle imprese partecipanti a procedure di gara per l'aggiudicazione di appalti con la pubblica amministrazione è demandata agli istituti di previdenza, le cui certificazioni (d.u.r.c.) si impongono alle stazioni appaltanti che non possono sindacarne il contenuto".

Ciò posto, com'è noto, il documento unico di regolarità contributiva è una dichiarazione di scienza che si colloca fra gli atti di certificazione o di attestazione aventi carattere meramente dichiarativo di dati in possesso dell'ente, assistiti da pubblica fede ai sensi dell'articolo 2700 c.c. e facenti pertanto prova fino a querela di falso; le inesattezze o gli errori contenuti in detto contenuto, investendo posizioni di diritto soggettivo, possono essere corretti solo dal giudice ordinario o all'esito della proposizione della querela di falso o a seguito di un'ordinaria controversia in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria (Cons. St., sez. V, 17.05.2013, n. 2682; da ultimo, Cons. St., V, 26.03.2014, n. 1468).
L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 8 del 04.05.2012, ha tra l'altro precisato, quanto al contenuto del d.u.r.c., che "la valutazione compiuta dagli enti previdenziali sia vincolante per le stazioni appaltanti e preclusa, ad esse, una valutazione autonoma" e che "... la mancanza di d.u.r.c. comporta una presunzione legale iuris et de iure di gravità delle violazioni previdenziali", enunciando poi il principio di diritto secondo cui "ai sensi e per gli effetti dell'art. 38, comma 1, lett. i), d.lgs. n. 163 del 2006, anche nel testo vigente anteriormente al d.l. n. 70 del 2011, secondo cui costituiscono causa di esclusione dalle gare di appalto le gravi violazioni alle norme in materia previdenziale e assistenziale, la nozione di violazione grave non è rimessa alla valutazione caso per caso della stazione appaltante, ma si desume dalla disciplina del documento unico di regolarità contributiva; ne consegue che la verifica della regolarità contributiva delle imprese partecipanti a procedure di gara per l'aggiudicazione di appalti con la pubblica amministrazione è demandata agli istituti di previdenza, le cui certificazioni (d.u.r.c.) si impongono alle stazioni appaltanti che non possono sindacarne il contenuto" (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 21.11.2014 n. 5731 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il danno da mancata aggiudicazione richiede la prova rigorosa delle specifiche voci che lo compongono.
Il principio di diritto
L’impresa che si ritenga pregiudicata da un comportamento della Pa non può limitarsi ad indicare il fatto (anche se incontestato) dell’effetto pregiudizievole prodotto dall’attività dell’Amministrazione in termini di contrazione delle vendite, ma deve adempiere all’onere indefettibile di rigorosa prova e quantificazione delle varie “voci di danno” da tale “fatto” derivanti e cioè delle singole perdite economiche prodotte dal fatto dannoso.
E’ evidente, infatti, che la perdita di fatturato non costituisce di per sé voce di danno, quanto piuttosto l’evento lesivo, dal quale derivano “voci di danno”, in astratto coerenti con la lesione lamentata, che la domanda risarcitoria deve necessariamente specificare e quantificare al fine di consentire al giudice adìto di stabilire, mediante un giudizio ipotetico, se, in che misura e con riferimento a quali specifici aspetti si sarebbe incrementata (o non sarebbe diminuita) la sfera giuridica del ricorrente in caso di legittimo esercizio dei poteri della stazione appaltante, così da poter stabilire, in base alla sua concreta consistenza, quale pregiudizio egli abbia eventualmente sofferto e quindi quali siano le distinte conseguenze economiche negative che hanno fatto ingresso in quella sfera.

E’ questo l’importante principio di diritto affermato dal Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 21.11.2014 n. 5729.
L’onere della prova è a carico dell’impresa che lamenti una diminuzione del fatturato
Ad avviso dei giudici di Palazzo Spada, non può infatti considerarsi assolto detto onere probatorio quando l’impresa non abbia dedotto e provato le specifiche voci di danno correlate all’evento della perdita di fatturato (ad es. la mancata percezione dell’utile, la perdita del consolidamento o comunque di posizioni dell’impresa sul mercato, le diminuzioni del proprio avviamento o della sua capacità di innovazione e ricerca, il fermo od il rallentamento della sua capacità produttiva, il danno curriculare ecc.); in tal caso, infatti, il singolo, relativo, pregiudizio economico non è risarcibile; né, in mancanza di specifica pretesa di tali voci (ed in particolare della prima), è possibile al Giudice una loro individuazione e quantificazione in via presuntiva e deduttiva, dal momento che ciò si porrebbe in insanabile contrasto col principio del preciso onere per il danneggiato di allegare e provare tutti gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria.
Nemmeno, ha aggiunto il Consiglio di Stato, può considerarsi di per sé “voce di danno” la mera perdita del fatturato, dal momento che, ai fini della decisione sulla domanda risarcitoria, non può prescindersi dall’esame concreto delle voci che la compongono, posto che il risarcimento deve ristorare tutto il danno effettivamente subìto, ma non può eccederlo, perché non può tradursi in uno strumento di arricchimento (Consiglio di Stato, sezione IV, 13.12.2013, n. 6000).
Necessaria la prova rigorosa della percentuale di utile effettivo che l’impresa aggiudicataria avrebbe conseguito
Ne discende, in particolare, che il danno consistente nella perdita dell’utile (quello più all’evidenza connaturato alla perdita di fatturato) non può essere ricostruito in via presuntiva dal giudice, essendo ormai pacifico in giurisprudenza l'onere dell'impresa di una prova rigorosa della percentuale di utile effettivo che essa avrebbe conseguito qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto ( Consiglio di Stato, sezione V, 06.04.2009, n. 2143; 17.10.2008, n. 5098; 05.04.2005, n. 1563; sezione VI, 04.04.2003, n. 478; da ultimo, Consiglio di Stato, sezione V, n. 5846/2012 e IV, n. 6000/2013, cit. ), o, mutatis mutandis, dell’utile traibile dalla fornitura nel caso in cui non si fosse contratta.
A ben vedere, ha concluso la III sezione, va respinta la domanda risarcitoria quando sia mancata la prova, ancor prima della “entità del pregiudizio”, della stessa “sussistenza” del danno, in ragione della mancata specificazione delle singole voci di danno (commento tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell'art. 11, d.P.R. n. 380/2001, la proprietà del suolo non è condizione indispensabile per il conseguimento o il rilascio del permesso di costruire, essendo sufficiente che il richiedente abbia titolo per richiederlo.
Sono pertanto legittimati a richiedere il permesso di costruire, i soggetti che hanno la disponibilità giuridica dell'area e la titolarità di un diritto reale o personale di godimento che dia facoltà di eseguire le opere oggetto del progetto.
Nel caso di specie tale legittimazione è da ritenersi sussistente, ciò in quanto il ricorrente -anche ove non abbia la proprietà dell’area su cui sono state realizzate le opere in questione- dispone, pacificamente, di un diritto di “uso esclusivo con destinazione a giardino” sulla stessa, titolo idoneo in considerazione anche della tipologia di opere realizzate, qualificate dalla stessa amministrazione comunale quali “opere di giardinaggio e sistemazione esterna”.
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Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, nel corso dell'istruttoria sul rilascio del permesso di costruire, il Comune ha l'obbligo di verificare che esista il titolo per intervenire sull'immobile per il quale è richiesto il permesso di costruire e che, quindi, questo sia rilasciato al proprietario dell'area o a chi abbia titolo per richiederla.
A carico dell'amministrazione incombe, però, solo tale adempimento e non, invece, di compiere complesse ricognizioni giuridico-documentali ovvero accertamenti in ordine ad eventuali pretese che potrebbero essere avanzate da soggetti estranei al rapporto concessorio.
Una volta appurata la sussistenza di un titolo il Comune è, dunque, tenuto al rilascio del permesso di costruire -sempre che sussistessero gli ulteriori presupposti richiesti dall’art. 36, d.P.R. n. 380/2001- non dovendo entrare nel merito di possibili contestazioni o controversie con i condomini.

Il Collegio ritiene di confermare le valutazioni espresse in sede cautelare circa la fondatezza del ricorso.
Quanto all’area identificata in catasto al foglio 3, mappale 1979, essa è stata usucapita dal sig. P., così come affermato nella sentenza del Tribunale di Como del 12.06.2008 (p. 4) ed ammesso dagli stessi controinteressati (v. doc. n. 1).
Quanto all’area di cui al mappale 1598, ne è contestata la proprietà ma è pacifico il diritto di uso esclusivo, con destinazione a giardino, in capo al sig. P..
Anche ove le opere siano state realizzate, per la gran parte, su quest’ultimo mappale, ad avviso del Collegio, il ricorrente dispone comunque di titolo idoneo per ottenere a nome proprio il permesso di costruire in sanatoria, senza che gli altri condomini possano legittimamente opporvisi.
Ai sensi dell'art. 11, d.P.R. n. 380/2001, la proprietà del suolo non è condizione indispensabile per il conseguimento o il rilascio del permesso di costruire, essendo sufficiente che il richiedente abbia titolo per richiederlo.
Sono pertanto legittimati a richiedere il permesso di costruire, i soggetti che hanno la disponibilità giuridica dell'area e la titolarità di un diritto reale o personale di godimento che dia facoltà di eseguire le opere oggetto del progetto.
Nel caso di specie tale legittimazione è da ritenersi sussistente, ciò in quanto il ricorrente -anche ove non abbia la proprietà dell’area su cui sono state realizzate le opere in questione- dispone, pacificamente, di un diritto di “uso esclusivo con destinazione a giardino” sulla stessa, titolo idoneo in considerazione anche della tipologia di opere realizzate, qualificate dalla stessa amministrazione comunale quali “opere di giardinaggio e sistemazione esterna” (cfr. parere della commissione edilizia per i beni ambientali del 05.12.2008: doc. n. 15 del ricorrente).
Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, nel corso dell'istruttoria sul rilascio del permesso di costruire, il Comune ha l'obbligo di verificare che esista il titolo per intervenire sull'immobile per il quale è richiesto il permesso di costruire e che, quindi, questo sia rilasciato al proprietario dell'area o a chi abbia titolo per richiederla (cfr. ex multis: Cons. Stato, sez. V, 07.07.2005 n. 3730; TAR Lombardia, Brescia, 19.10.2005 n. 995).
A carico dell'amministrazione incombe, però, solo tale adempimento e non, invece, di compiere complesse ricognizioni giuridico-documentali ovvero accertamenti in ordine ad eventuali pretese che potrebbero essere avanzate da soggetti estranei al rapporto concessorio.
Una volta appurata la sussistenza di un titolo il Comune era, dunque, tenuto al rilascio del permesso di costruire -sempre che sussistessero gli ulteriori presupposti richiesti dall’art. 36, d.P.R. n. 380/2001- non dovendo entrare nel merito di possibili contestazioni o controversie con i condomini.
L’eventuale mancato rispetto, da parte del sig. P., del vincolo di destinazione d'uso dell’area in questione derivante dal titolo di acquisto è questione che concerne le relazioni privatistiche tra condomini, cui resta estranea l’amministrazione: il rilascio del permesso di costruire avviene, difatti, con la clausola della salvezza dei diritti dei terzi, diritti che sono tutelabili dinanzi alla competente autorità giudiziaria.
Per le ragioni esposte il ricorso è fondato e va pertanto accolto, con assorbimento delle ulteriori censure dedotte. Per l’effetto vanno annullati il provvedimento del 07.10.2009, di diniego di permesso di costruire e l’ordinanza di demolizione n. 2 del 21.10.2009, viziata per illegittimità derivata
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 21.11.2014 n. 2814 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Questo Tribunale ha più volte ribadito il proprio orientamento sul punto che il potere di applicare misure repressive in materia urbanistica ed edilizia può essere esercitato in ogni tempo, senza necessità, per i relativi provvedimenti, di alcuna specifica motivazione in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico a disporre una demolizione.
Questo TAR, pertanto, non condivide l’orientamento difforme, espresso ad esempio da C.d.S. sez. V 04.03.2008 n. 883, secondo il quale invece “il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso” e “il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza” potrebbero ingenerare un affidamento del privato, rispetto al quale sussisterebbe un “onere di congrua motivazione” circa il “pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato”.
In proposito, si impone anzitutto il rilievo fatto proprio dalla citata decisione C.d.S. 5509/2009, ovvero che di affidamento si può parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente e in modo compiuto reso nota la propria posizione alla p.a., venga indotto da un provvedimento della stessa a ritenere la legittimità del proprio operato, non già nel caso che rileva, in cui si commette un abuso a tutta insaputa della p.a. medesima.
Inoltre, come osservato dalla Sezione nella pure citata sentenza 860/2010, l’abuso edilizio integra un illecito permanente, rappresentato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi; di talché ogni provvedimento repressivo dell’amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito, ma interviene su una situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento.

Parimenti è infondato il secondo motivo, incentrato sulla pretesa illegittimità della repressione del cd. “abuso risalente”.
Questo Tribunale ha più volte ribadito il proprio orientamento sul punto, e affermato già con la sentenza sez. I 22.02.2010 n. 860, che il potere di applicare misure repressive in materia urbanistica ed edilizia può essere esercitato in ogni tempo, senza necessità, per i relativi provvedimenti, di alcuna specifica motivazione in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico a disporre una demolizione; in senso conforme anche numerose decisioni del C.d.S., ad esempio sez. IV, 15.09.2009, n. 5509, che si cita per tutte.
Questo TAR, pertanto, non condivide l’orientamento difforme, espresso ad esempio da C.d.S. sez. V 04.03.2008 n. 883, secondo il quale invece “il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso” e “il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza” potrebbero ingenerare un affidamento del privato, rispetto al quale sussisterebbe un “onere di congrua motivazione” circa il “pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato”.
In proposito, si impone anzitutto il rilievo fatto proprio dalla citata decisione C.d.S. 5509/2009, ovvero che di affidamento si può parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente e in modo compiuto reso nota la propria posizione alla p.a., venga indotto da un provvedimento della stessa a ritenere la legittimità del proprio operato, non già nel caso che rileva, in cui si commette un abuso a tutta insaputa della p.a. medesima.
Inoltre, come osservato dalla Sezione nella pure citata sentenza 860/2010, l’abuso edilizio integra un illecito permanente, rappresentato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi; di talché ogni provvedimento repressivo dell’amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito, ma interviene su una situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 21.11.2014 n. 1282 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Si controverte della corretta interpretazione dell’art. 17, comma 3, lettera b), T.U. 380/2001, secondo il quale, alla lettera, “Il contributo di costruzione non é dovuto:… b) per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari…”.
Si deve decidere allora se la norma si applichi al solo caso in cui l’intervento riguardi un edificio già in origine unifamiliare, ovvero anche al caso, che ricorre nella specie, come pacifico, in cui si accorpino più unità abitative in un edificio originariamente plurifamiliare e si crei un edificio unifamiliare come risultato finale.
Secondo giurisprudenza, l’esenzione in esame si giustifica come aiuto alla famiglia che, banalmente, necessiti di ulteriore spazio per la propria decorosa sistemazione abitativa: è quindi del tutto conforme a questa logica applicarla al solo caso di ampliamento dell’unità unifamiliare esistente, e non a quello per cui è causa, di accorpamento in una di più unità preesistenti.

Si controverte della corretta interpretazione dell’art. 17, comma 3, lettera b), T.U. 380/2001, secondo il quale, alla lettera, “Il contributo di costruzione non é dovuto:… b) per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari…”. Si deve decidere allora se la norma si applichi al solo caso in cui l’intervento riguardi un edificio già in origine unifamiliare, ovvero anche al caso, che ricorre nella specie, come pacifico, in cui si accorpino più unità abitative in un edificio originariamente plurifamiliare e si crei un edificio unifamiliare come risultato finale.
In proposito, si devono richiamare i principi già condivisi da questo Tribunale nella sentenza sez. I 23.10.2014 n. 1111: il contributo di cui si ragiona è un tributo propriamente detto perché ha natura di prestazione patrimoniale imposta per ragioni di pubblica utilità – così fra le molte C.d.S. sez. V 13.03.2014 n. 2438 e, nella giurisprudenza della Sezione, sez. I 03.05.2014 n. 464; di conseguenza, le ipotesi in cui esso non è dovuto hanno natura di esenzioni tributarie, di carattere eccezionale, e quindi insuscettibile di interpretazioni estensive ed analogiche, in quanto eccezioni al principio costituzionale di capacità contributiva, come ritenuto da costante giurisprudenza della Corte costituzionale, da ultimo 20.04.2012 n. 103, e nella fattispecie in esame in modo specifico da TAR Campania Napoli sez. VIII 09.05.2012 n. 2136.
Ciò posto, si deve osservare che, sempre secondo la giurisprudenza –la decisione del TAR Napoli citata, nonché TAR Campania Salerno sez. I 08.01.2013 n. 25 e TAR Marche 10.05.2012 n. 310- l’esenzione in esame si giustifica come aiuto alla famiglia che, banalmente, necessiti di ulteriore spazio per la propria decorosa sistemazione abitativa: è quindi del tutto conforme a questa logica applicarla al solo caso di ampliamento dell’unità unifamiliare esistente, e non a quello per cui è causa, di accorpamento in una di più unità preesistenti (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 21.11.2014 n. 1280 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: No al licenziamento senza preavviso del dipendente pubblico in difetto di sentenza di condanna.
Interessante questione è quella decisa con la sentenza 20.11.2014 n. 24728 dalla Suprema Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la quale quest'ultima si è pronunciata in tema di licenziamento, senza preavviso, di un dipendente di un ente pubblico arrestato in flagranza di reato per il delitto di corruzione e destinatario di un provvedimento di custodia cautelare in carcere.
L'impugnazione
Nella fattispecie, l'ente aveva impugnato presso la Corte d'Appello il lodo con il quale il collegio di disciplina costituito presso il suo dipartimento del personale aveva annullato il suddetto licenziamento senza preavviso, adducendo quale motivazione che il collegio aveva disapplicato l'articolo 68, comma 8, lettera g), del contratto collettivo, sul presupposto che esso contrastasse con il disposto normativo di cui alla legge 97/2001, e poi perché non aveva tenuto conto che le disposizioni del suo statuto regionale conferivano autonomia normativa all'ente in materia di stato giuridico ed economico dei suoi impiegati e funzionari.
La Corte d'Appello rigettava l'impugnazione ritenendo che la legge 97/2001 avesse disciplinato esaustivamente il rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare e, di conseguenza, dovesse ritenersi illegittima la disposizione contenuta nella contrattazione collettiva, addotta a fondamento del provvedimento espulsivo.
La Cassazione
A tale decisione non si atteneva l'ente pubblico il quale impugnava la decisione per cassazione, osservando che la fattispecie in esame, cioè il licenziamento senza preavviso di un dipendente per l'arresto in flagranza per i reati di peculato, concussione e corruzione, non fosse espressamente disciplinato dalla legge 97/2001 e che, in ogni caso, essendo tale fatto configurabile come grave infedeltà, lo stesso avesse forza tale da rompere, in maniera irreversibile ed irrimediabile, il rapporto di fiducia tra la pubblica amministrazione ed il lavoratore medesimo.
Osservava, inoltre, l'ente che la norma contenuta nel contratto collettivo costituiva integrazione della norma contenuta nella legge suddetta.
La decisione
Il giudice di legittimità non ha condiviso tale assunto, osservando intanto che le disposizioni contenute nel contratto collettivo non possono mai prevalere sulla normativa prevista dalla legge. In particolare, quest'ultima, nel regolare il rapporto tra procedimento penale e quello disciplinare, ha stabilito che l'estinzione del rapporto di lavoro o di impiego segue di diritto soltanto alla sentenza di condanna alla reclusione, non inferiore a tre anni, per i delitti di cui agli articoli 314, rimo comma, 317, 318, 319, 319-ter e 320 del codice penale, mentre negli altri casi l'estinzione può essere disposta soltanto a seguito di procedimento disciplinare.
La Corte ha, inoltre, considerato del tutto infondata non solo la tesi dell'ente secondo cui la previsione del contratto collettivo fosse del tutto autonoma rispetto alla disciplina di legge e che, addirittura, non interferirebbe sulla stessa, ma anche quella secondo cui l'autonomia normativa, conferita dallo statuto regionale in materia, fosse tale da poter attribuire al contratto collettivo un rango superiore a quello della legge (tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com).

APPALTI SERVIZILa giurisprudenza risulta orientata nel senso di considerare che per “servizi analoghi” vadano addirittura intesi quelli attinenti allo stesso settore dell’appalto da aggiudicare, ma concernenti, in riferimento allo specifico oggetto della procedura, tipologie diverse ed eterogenee.
Sotto il profilo del concetto di similarità dei servizi pregressi, invero, deve rammentarsi che i servizi analoghi non significano servizi identici, poiché la formula “servizi analoghi” implica la necessità di ricercare elementi di similitudine tra i servizi presi in considerazione, elementi che non possono che scaturire dal confronto tra le prestazioni oggetto dell’appalto da affidare e le prestazioni oggetto dei servizi indicati dai concorrenti al fine di dimostrare il possesso della capacità economico-finanziaria dal bando, senza quindi fermarsi alla verifica del tipo di contratto in cui tali prestazioni sono inserite.
“Pertanto, quando la lex specialis di gara richiede, come nella fattispecie, di dimostrare il pregresso svolgimento di servizi simili, non è consentito alla stazione appaltante di escludere i concorrenti che non abbiano svolto tutte le attività rientranti nell’oggetto dell’appalto, né le è consentito di assimilare impropriamente il concetto di servizi analoghi con quello di servizi identici, considerato che la ratio di siffatte clausole è proprio quella di perseguire un opportuno contemperamento tra l’esigenza di selezionare un imprenditore qualificato ed il principio della massima partecipazione alle gare pubbliche”.
Ne consegue, perciò, che è invece l’eventuale esclusione dalla valutazione, come servizio non analogo a quello oggetto della gara di appalto, di un servizio che con quello presenti alcuni aspetti in comune, che necessiterebbe di una motivazione logica, puntuale e razionale, coerentemente con la finalità che giustifica la richiesta ai concorrenti di documentare il pregresso svolgimento di servizi non identici, ma solo analoghi a quelli oggetto dell’appalto, finalità rintracciabile nell’acquisizione da parte dell’amministrazione appaltante dell’adeguata conoscenza della precedente attività svolta e nella conseguente possibilità di apprezzare, in concreto, la specifica attitudine alla effettiva, puntuale e compiuta realizzazione delle prestazioni oggetto della gara, costituendo le precedenti esperienze significativi elementi sintomatici in tal senso.

La giurisprudenza, d’altronde, risulta orientata nel senso di considerare che per “servizi analoghi” vadano addirittura intesi quelli attinenti allo stesso settore dell’appalto da aggiudicare, ma concernenti, in riferimento allo specifico oggetto della procedura, tipologie diverse ed eterogenee.
Sotto il profilo del concetto di similarità dei servizi pregressi, invero, deve rammentarsi che i servizi analoghi non significano servizi identici, poiché la formula “servizi analoghi” implica la necessità di ricercare elementi di similitudine tra i servizi presi in considerazione, elementi che non possono che scaturire dal confronto tra le prestazioni oggetto dell’appalto da affidare e le prestazioni oggetto dei servizi indicati dai concorrenti al fine di dimostrare il possesso della capacità economico-finanziaria dal bando, senza quindi fermarsi alla verifica del tipo di contratto in cui tali prestazioni sono inserite.
Pertanto, quando la lex specialis di gara richiede, come nella fattispecie, di dimostrare il pregresso svolgimento di servizi simili, non è consentito alla stazione appaltante di escludere i concorrenti che non abbiano svolto tutte le attività rientranti nell’oggetto dell’appalto, né le è consentito di assimilare impropriamente il concetto di servizi analoghi con quello di servizi identici, considerato che la ratio di siffatte clausole è proprio quella di perseguire un opportuno contemperamento tra l’esigenza di selezionare un imprenditore qualificato ed il principio della massima partecipazione alle gare pubbliche” (Cons. Stato, V, 25.06.2014, n. 3220).
Ne consegue, perciò, che è invece l’eventuale esclusione dalla valutazione, come servizio non analogo a quello oggetto della gara di appalto, di un servizio che con quello presenti alcuni aspetti in comune, che necessiterebbe di una motivazione logica, puntuale e razionale, coerentemente con la finalità che giustifica la richiesta ai concorrenti di documentare il pregresso svolgimento di servizi non identici, ma solo analoghi a quelli oggetto dell’appalto, finalità rintracciabile nell’acquisizione da parte dell’amministrazione appaltante dell’adeguata conoscenza della precedente attività svolta e nella conseguente possibilità di apprezzare, in concreto, la specifica attitudine alla effettiva, puntuale e compiuta realizzazione delle prestazioni oggetto della gara, costituendo le precedenti esperienze significativi elementi sintomatici in tal senso (Cons. Stato, sez. V, 08.04.2014 n. 1668; id., sez. III, 25.06.2013, n. 3437)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 20.11.2014 n. 2892 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In applicazione dei principi del “favor partecipationis” e di tutela dell'affidamento, non può procedersi all'esclusione di un'impresa nel caso in cui questa abbia compilato l'offerta in conformità al fac-simile all'uopo approntato dalla stazione appaltante, potendo eventuali parziali difformità rispetto al disciplinare costituire oggetto di richiesta di integrazione.
Oltre ciò, non può che essere condiviso, nel caso di specie, l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, in applicazione dei principi del “favor partecipationis” e di tutela dell'affidamento, non può procedersi all'esclusione di un'impresa nel caso in cui questa abbia compilato l'offerta in conformità al fac-simile all'uopo approntato dalla stazione appaltante, potendo eventuali parziali difformità rispetto al disciplinare costituire oggetto di richiesta di integrazione (Cons. Stato, V, 05.07.2011, n. 4029; VI, n. 7278, 10.11.2004) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 20.11.2014 n. 2892 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: In orario anomalo l’accesso non è abusivo. Non è reato il collegamento in tempi non previsti dalla prassi interna. Sistema informatico. La Cassazione annulla la condanna del dipendente.
È escluso il reato di accesso abusivo per il dipendente che entra nel sistema informatico in orari diversi da quelli previsti dalla prassi aziendale.
La Corte di Cassazione, -V Sez. penale- con la sentenza 19.11.2014  n. 47938, annulla la condanna nei confronti di un dipendente dell’agenzia delle Entrate che nel pomeriggio –quindi in orario di chiusura degli uffici al pubblico– aveva effettuato diverse operazioni relative alla posizione di uno studio professionale.
L’Agenzia gli aveva contestato, oltre all’accesso abusivo, anche l’abuso d’ufficio. Il presupposto della contestazione era che l’impiegato, con la sua “solerzia”, aveva procurato un ingiusto vantaggio allo studio, col quale avrebbe collaborato. L’ultima accusa era però caduta dopo la verifica della regolarità contabile, degli interventi effettuati.
Restava in piedi la contestazione dell’accesso abusivo, giustificata dall’ora anomala nella quale il lavoro era stato svolto. Una motivazione che il ricorrente ritiene non valida alla luce della giurisprudenza della Cassazione che, anche a Sezioni Unite, fa scattare il reato di accesso abusivo ,nonostante il dipendente sia abilitato quando vengono superati i limiti e le condizioni dell’abilitazione, indipendente mente dagli scopi per i quali il soggetto è andato oltre il “mandato”.
Il diretto interessato considera dunque ingiustificato qualunque addebito mosso solo in virtù dell’orario in cui aveva operato. E i giudici della Quinta sezione gli danno ragione. La Cassazione sottolinea che quando il reato (previsto dall’articolo 615-ter del Codice penale) viene contestato a un soggetto autorizzato all’accesso, quello che conta, perché l’accusa regga, è che questi, pur essendo entrato legittimamente, si sia trattenuto nel sistema oltre i limiti fissati dal titolare o vi abbia svolto attività non consentite dal suo contratto o dalla prassi aziendale. Nel caso esaminato non era accaduto nulla di tutto ciò.
Venuta meno l’imputazione dell’ingiusto vantaggio, la condanna inflitta dalla Corte d’appello si reggeva solo sulla circostanza che le pratiche erano state evase in un orario in cui l’ufficio era chiuso al pubblico. Per la Suprema corte non è una buona ragione. Eventuali disposizioni sulla collocazione oraria degli accessi telematici, nella giornata lavorativa del dipendente, non possono essere considerate rilevanti ai fini della violazione contestata.
Infatti, la norma incriminatrice tutela il domicilio informatico riguardo alle modalità che ne regolano l’accesso, allo scopo di dare la possibilità al titolare di esercitare il suo “potere di esclusione”. Obiettivo rispetto al quale sono del tutto irrilevanti le indicazioni sull’orario in cui chi è autorizzato ad operare può entrare nei programmi aziendali: i tempi riguardano semmai l’organizzazione interna dell’ufficio nel quale il sistema è operativo. Diverso, in questa prospettiva è il problema della permanenza nel sistema, che diventa penalmente rilevante se protratta oltre quanto stabilito dalle disposizioni del titolare
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.11.2014).

APPALTI: La moralità professionale si deve valutare in relazione alla gara pubblica e al reato.
La moralità professionale di chi partecipa ad una gara pubblica, deve essere valutata in ragione delle caratteristiche della gara e della gravità del reato in discussione.
Questo, il principio ribadito dal Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 18.11.2014 n. 5679, nell’ambito di una procedura ad evidenza pubblica concernente l’affidamento del servizio di recupero ed acquisto di veicoli oggetto di provvedimenti di sequestro amministrativo, fermo o confisca.
La vicenda
Nel caso in esame, la commissione di gara decideva di non ammettere un raggruppamento temporaneo, visto che era emersa la sussistenza, a carico di uno dei soggetti partecipanti, di un decreto penale di condanna, emesso perché “con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, quale custode giudiziario di un’autovettura sottoposta a sequestro preventivo penale, rifiutava indebitamente di consegnare il bene al legittimo proprietario chiedendogli il pagamento di spese non previste dal decreto di restituzione della Procura”. L’esclusione, era quindi fondata sulla violazione dell’articolo 38, comma 1, lett. c), del Dlgs 163/2006.
La decisione
Giunta la questione dinanzi al Consiglio di Stato, viene confermata la decisione assunta dalla commissione sulla base del fatto che l’articolo 38, comma 1, lett. c) contempla tra le ipotesi di esclusione anche quella di condanna con decreto penale divenuto irrevocabile. Secondo la decisione, la commissione ha inoltre correttamente rilevato che “trattasi di delitto in danno dello Stato, quindi già di per sé grave anche solo per la rubrica”. I Giudici, rilevano altresì che “nell’apprezzamento della gravità del reato ai sensi dell’articolo 38, comma 1, lett. c), del Codice dei contratti pubblici, la stazione appaltante dispone di ampia discrezionalità, non sindacabile dal giudice amministrativo se non per i noti profili di irrazionalità, illogicità, incongruità o travisamento dei fatti”.
La stazione appaltante, ha dunque legittimamente escluso il concorrente, visto che trattavasi di un delitto contro la pubblica amministrazione, strettamente attinente con l’oggetto della gara (tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com).

CONSIGLIERI COMUNALI: Il primario può fare il consigliere comunale. Consiglio di Stato. Nessuna incompatibilità nei centri con più di 10mila abitanti.
Il primario di una azienda sanitaria locale può essere nello stesso tempo consigliere comunale in un centro con più di 15mila abitanti, poiché le nuove norme “anticorruzione” nella pubblica amministrazione prevedono l’incompatibilità con la carica politica solo per il direttore generale, sanitario e amministrativo.
L’ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 12.11.2014 n. 5583.
I giudici hanno accolto il ricorso di un medico di una Asl con mansioni di dirigente medico di chirurgia generale e pronto soccorso contro l’incompatibilità contestatagli dal direttore generale per la contemporanea carica di componente dell’organo di indirizzo politico di una amministrazione locale, in generale vietata dall’articolo 12 del decreto attuativo della legge “anticorruzione” (Dlgs 39/2013) ai dirigenti, interni e esterni, di Pa, enti pubblici e di diritto privato sotto il controllo pubblico.
Il collegio, annullando lo “stop” al primario, ha spiegato che in tal caso va applicata la disciplina speciale per il personale del Servizio sanitario nazionale (articolo 14 della legge) che elenca i casi di contrasto tra gli incarichi direttivi e le cariche di componenti degli organi di indirizzo politico nelle amministrazioni statali, regionali e locali, incluso quello di consigliere (e assessore) nei Comuni medio-grandi come nel caso in esame.
Questa norma, afferma la sentenza, «prevede esplicitamente una disciplina apposita per il personale delle Asl e delle Aziende ospedaliere al fine di “comprendere” nel regime dell’incompatibilità i tre incarichi di vertice (direttore generale, direttore sanitario, direttore amministrativo)» e «implicitamente ma inequivocamente esclude da quel regime il personale ad essi subordinato, pur se rivestito di funzioni denominate “dirigenziali”». Per i giudici, la “ratio legis” sta nelle «caratteristiche peculiari alquanto diverse» dei dirigenti della Pa rispetto a quelle dei dirigenti medici i quali non hanno «competenze provvedimentali e gestionali, se non forse in misura del tutto marginale e limitata al momento organizzativo interno del reparto»
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.11.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Niente peculato per le telefonate private dall'ufficio se non c'è danno apprezzabile per la Pa.
Il dipendente pubblico che utilizza il telefono d'ufficio per fini personali ricade nel reato di peculato d'uso se produce un danno apprezzabile al patrimonio dell'amministrazione o danneggia la funzionalità dell'ufficio. Il comportamento deve ritenersi penalmente irrilevante se non presenta conseguenze economicamente e funzionalmente significative.
Con questo interessante distinguo la VI Sez. penale della Corte di Cassazione con la sentenza 10.11.2014 n. 46282 annulla, rinviandola ad altra sezione, la sentenza del 17.12.2013 con cui la Corte di Appello di Palermo ha condannato una dirigente del settore pubblico per peculato in quanto aveva utilizzato il telefono del proprio alloggio di servizio per telefonate private, procurando all'amministrazione di appartenenza "un danno economico stimabile in varie decine di euro, dunque non trascurabile, né al di sotto della soglia minima di rilevanza penale del fatto".
L'orientamento dirimente delle Sezioni Unite
Già le Sezioni Unite penali, con sentenza del 02.05.2013 n. 19054 ha sancito che il comportamento del dipendente pubblico che danneggia l'ente di appartenenza, con chiamate private dal cellulare di servizio, configura il reato di peculato d'uso.
In quell'occasione la Suprema Corte era stata chiamata ad accertare se l'utilizzo, per fini privati, di un'utenza telefonica, assegnata per ragioni di ufficio, integri o meno l'appropriazione richiesta per la configurabilità del delitto di cui all'articolo 314, secondo comma, del Codice penale, ovvero una condotta distrattiva o fraudolenta rispettivamente inquadrabile nel delitto di abuso di ufficio o in quello di truffa aggravata a danno dello Stato. Sulla questione si erano, infatti, sviluppati diversi orientamenti:
1) la condotta sopra descritta integrerebbe il reato di peculato d'uso, in quanto la stessa non realizzerebbe una appropriazione degli impulsi elettronici, "ma solo una interversione momentanea del possesso, seguita dalla restituzione immediata dell'apparecchio" (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 28.01.1996 n. 3009);
2) la condotta in esame integra gli estremi del reato di peculato comune in quanto "l'uso del telefono si connoterebbe non nella fruizione dell'apparecchio telefonico, in quanto tale, ma nell'utilizzazione dell'utenza telefonica, con la conseguenza che l'oggetto della condotta appropriativa sarebbe rappresentato dall'energia occorrente per le conversazioni la quale, possedendo valore economico, può costituire oggetto materiale del peculato in virtù della sua equiparazione alla "cosa mobile", con conseguente vera e definitiva appropriazione, da parte del pubblico funzionario, degli impulsi elettrici" (Cassazione penale, sezione VI, sentenze 15.01.2003 n. 10671 e 14.01.2003 n. 7347);
3) si tratterebbe di abuso di ufficio anche se non è configurabile nella condotta una violazione di norme di legge o di regolamento, quale elemento essenziale per la sussistenza della fattispecie (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 09.04.2008 n. 31688).
Le Sezioni Unite, con la richiamata sentenza n. 19054/2013 ha riconosciuto che, l'uso per fini personali da parte del pubblico funzionario, del telefono assegnatogli per esigenze di ufficio, riveste natura di peculato d'uso, in quanto l'agente distoglie il bene fisico costituito dall'apparecchio telefonico, di cui ha il possesso per ragioni di ufficio, dalla sua destinazione pubblicistica, piegandolo a fini personali, per il tempo dell'uso, restituendolo, alla cessazione dell'uso, alla sua destinazione originaria, essendo del tutto irrilevante il fatto che il bene stesso non fuoriesca materialmente dalla sfera di disponibilità della pubblica amministrazione.
La soglia di rilevanza penale
Il raggiungimento della soglia di rilevanza penale presuppone, però, l'offensività del fatto che, nel caso di specie, si realizza con la produzione di un apprezzabile danno al patrimonio della Pa o di terzi ovvero con una concreta lesione della funzionalità dell'Ufficio.
Nel rinviare ad altra sezione della Corte di Appello di Palermo la sentenza impugnata, la Corte di cassazione con la sentenza n. 46282/2014 in commento sottolinea che la significatività del danno procurato all'amministrazione di appartenenza deve essere valutata alla luce dell'arco temporale di utilizzo privato del telefono di servizio, verificando se si sia verificata in taluni giorni o periodi una concentrazione tale di chiamate da consentirne una valutazione unitaria.
Il riesame del ricorso presentato dal difensore dell'imputata dovrà, quindi, evidenziare se le condotte così unitariamente considerate superino o meno la soglia di rilevanza penale (tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com).

CONSIGLIERI COMUNALI: Nominare l'Assessore è scelta politica, ma revocarlo è scelta amministrativa che va motivata.
Gli atti di nomina e revoca degli Assessori degli Enti territoriali non hanno, secondo la giurisprudenza amministrativa, natura politica (fra molti, Consiglio di Stato, sezione V, sentenza n. 4905 del 25.08.2011; sezione V, n. 2357 del 27.04.2010; sezione V, n. 6253 del 12.10.2009), anche se l’articolo 46, comma 4, del Dlgs n. 267 del 18.08.2000, prevede che nell’ordinamento generale degli Enti locali “Il Sindaco e Presidente della Provincia possono revocare uno o più Assessori, dandone motivata comunicazione al Consiglio".
Inoltre, se è vero che la valutazione degli interessi coinvolti nel procedimento di revoca di un Assessore è rimessa in via esclusiva al Sindaco, cui compete in autonomia la scelta delle persone di cui avvalersi per l’amministrazione dell’ente e che possono essere anche esterne al Consiglio comunale (c.d. Assessori tecnici), è anche vero che il primo cittadino non decide in solitudine, atteso che la valutazione di merito delle scelte operate dal Sindaco è poi rimessa alla esclusiva valutazione del Consiglio comunale quale organo di indirizzo e di controllo dell’Ente.

Questa, in estrema sintesi, l’avviso espresso dal TAR Puglia-Lecce, Sez. I, nella sentenza 07.11.2014 n. 2692.
Le caratteristiche della revoca dell’Assessore
In concreto, hanno ribadito i giudici pugliesi sulla scorta di un preciso indirizzo giurisprudenziale (Tar Puglia Lecce, sez. I, n. 831 del 06.03.2007, n. 546 del 21.02.2008, n. 593 del 27.03.2009 e n. 1620 del 23.06.2009), la revoca dell’Assessore non può essere motivata da ragioni di carattere meramente politico, ma deve necessariamente radicarsi nell’esigenza primaria costituita dal buon andamento dell’organo di gestione, perché “una volta (…) che gli organi del comune si sono costituiti sulla base della legittimazione elettorale, essi devono pur sempre funzionare nell’interesse dell’intera collettività territoriale e nel rispetto del principio di imparzialità e buon andamento (articolo 97 della Costituzione)”. In altri termini, le ragioni meramente politiche si arrestano alla fase costitutiva.
Al riguardo, i giudici pugliesi fanno notare che la revoca dell’Assessore secondo l’articolo 46 Tuel, deve essere motivata, e ciò, evidentemente, non per ragioni politiche ma per le comuni esigenze di trasparenza, imparzialità e buon andamento. Le ragioni politiche possono assumere rilievo nella comunicazione della revoca che il Sindaco deve fare al Consiglio comunale: essa può incidere anche su valutazioni relative al rapporto di fiducia politica tra il Consiglio stesso ed il Sindaco.
Non sono però tali esigenze quelle poste alla base della motivazione espressamente richiesta dalla norma. Richiedendo una vera e propria motivazione -e non una mera illustrazione anche orale delle ragioni del Sindaco, ove richiesto dal Consiglio, così come può avvenire per le nomine degli Assessori- il legislatore dimostra infatti di ricondurre espressamente la revoca degli Assessori alle garanzie formali e sostanziali proprie dei provvedimenti amministrativi.
Da ciò si deduce agevolmente –ad avviso del Tar Puglia- che la revoca sindacale del singolo Assessore deve essere ispirata e motivata da ragioni che attengono comunque al buon andamento dell’organo di gestione e non a mere esigenze di partito o di coalizione, che devono restare decisamente sullo sfondo.
La regola della motivazione e le eccezioni
Alla regola della motivazione, secondo il Tar Puglia, fanno peraltro eccezione i casi in cui viene a mutare l’assetto politico risultante dalle urne e quindi la legittimazione elettorale degli organi di governo dell’ente (si pensi ad esempio ai casi di sopravvenuto mutamento della maggioranza con conseguente sfiducia del Sindaco e scioglimento del Consiglio comunale).
La rilevanza della ricorrenza di contrasti politici e amministrativi in ordine alle scelte dell’amministrazione comunale
Se la regola dell’insufficienza di un motivo puramente politico per la revoca dell’Assessore è legata alla necessità dell’esistenza di un interesse di carattere generale alla rimozione dell’Assessore, il riferimento alla previsione costituzionale del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione esige che la ricorrenza di questo interesse si concretizzi in comportamenti che siano stati formalizzati o documentati in qualche modo all’interno del circuito decisionale pubblico, ossia in specifiche circostanze che denotino la disfunzionalità dell’apparato pubblico (che si intende appunto superare e risolvere attraverso la revoca della funzione assessorile).
Il che non può riscontrarsi, ha aggiunto il Tar Puglia, laddove la sostanziale assenza di veri e propri contrasti politici e amministrativi in ordine alle scelte dell’amministrazione comunale o, comunque, concrete e specifiche disfunzioni all’interno della Giunta e dell’apparato amministrativo-politico in generale sia comprovata dalla circostanza che le delibere di Giunta siano state assunte all’unanimità e con la partecipazione prevalente del ricorrente (tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com).

EDILIZIA PRIVATAPermessi di costruire senza privacy. Tar Marche. Qualsiasi interessato ha diritto di accesso agli atti, anche prima della legge sulla trasparenza.
In tema di edilizia, l’accesso agli atti amministrativi e agli elaborati progettuali è garantito a qualsiasi soggetto interessato con la pubblicazione delle autorizzazioni approvate nell’albo pretorio della pubblica amministrazione. Una forma di pubblicità non prevista dalla normativa precedente, m€a nemmeno impedita da ragioni di riservatezza. E comunque più estesa di quella prevista dalla legge sul diritto d’accesso e utile al controllo pubblico dell’attività urbanistico-edilizia.
Lo ha stabilito il TAR Marche con la sentenza 07.11.2014 n. 923.
I giudici hanno accolto il ricorso di un privato a cui un Comune, per tutelare un presunto diritto alla riservatezza dei terzi interessati, aveva negato la visione dell’intera documentazione relativa ai titoli edilizi rilasciati ad un’azienda titolare di una lottizzazione comprendente un terreno di comproprietà. La documentazione era utile per una causa legale pendente contro lo stesso ente pubblico per il risarcimento dei danni derivanti da varianti urbanistiche ed edilizie.
A parere del collegio, l’accesso agli atti deve essere garantito in quanto necessario a curare o difendere gli interessi giuridici del richiedente secondo quanto stabilito in generale dalle norme sul procedimento amministrativo in tema di accesso (articolo 24 della legge 241/1990), ma in particolare da quelle del Testo unico in materia edilizia (Dpr 380/2001). Secondo il Tar, quest’ultime, obbligando la Pa a pubblicare nell’albo pretorio il concesso permesso di costruire (articolo 20, comma 6, del Testo unico), ne prevedono «un regime di pubblicità molto più esteso», almeno «prima dell’avvento del c.d. diritto di accesso civico» fissato con la legge sulla trasparenza (articolo 5 del Dlgs 33/2013).
Tale onere, afferma la sentenza, consente «a qualsiasi soggetto interessato di visionare gli atti del procedimento, in ragione di quel controllo “diffuso” sull’attività edilizia che il legislatore ha inteso garantire». Per questo poi, sull’accesso a tali atti «non può essere affermata l’esistenza di un diritto alla riservatezza» di terzi dato che, come nel caso in esame, chi li richiede «ha solo l’esigenza di verificare la presenza di eventuali abusi edilizi o altre similari evenienze che possano ledere la sua proprietà»
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.11.2014).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di rilascio dei titoli edilizi esistono specifiche disposizioni di legge e regolamentari che, sulla scorta della nota disposizione di cui all’art. 31 della L. n. 1150/1942, come modificato dalla c.d. legge ponte n. 765/1967, prevedono un regime di pubblicità molto più esteso di quello che, prima dell’avvento del c.d. diritto di accesso civico (D.Lgs. n. 33/2013), era contemplato dalla L. n. 241/1990.
Si veda, in particolare, l’art. 20, comma 6, del T.U. n. 380/2001, nella parte in cui stabilisce che dell’avvenuto rilascio di un titolo edilizio va dato avviso all’albo pretorio. Tale disposizione non può che essere interpretata nel senso che tale onere di pubblicazione è funzionale a consentire a qualsiasi soggetto interessato di visionare gli atti del procedimento, in ragione di quel controllo “diffuso” sull’attività edilizia che il legislatore ha inteso garantire (vedasi anche l’art. 27, comma 3, del DPR n. 380/2001).

Il ricorso è fondato e va dunque accolto.
In effetti, in materia di rilascio dei titoli edilizi esistono specifiche disposizioni di legge e regolamentari che, sulla scorta della nota disposizione di cui all’art. 31 della L. n. 1150/1942, come modificato dalla c.d. legge ponte n. 765/1967, prevedono un regime di pubblicità molto più esteso di quello che, prima dell’avvento del c.d. diritto di accesso civico (D.Lgs. n. 33/2013), era contemplato dalla L. n. 241/1990.
Si veda, in particolare, l’art. 20, comma 6, del T.U. n. 380/2001, nella parte in cui stabilisce che dell’avvenuto rilascio di un titolo edilizio va dato avviso all’albo pretorio. Tale disposizione non può che essere interpretata nel senso che tale onere di pubblicazione è funzionale a consentire a qualsiasi soggetto interessato di visionare gli atti del procedimento, in ragione di quel controllo “diffuso” sull’attività edilizia che il legislatore ha inteso garantire (vedasi anche l’art. 27, comma 3, del DPR n. 380/2001).
Ma nel caso di specie non è nemmeno necessario applicare tali disposizioni, visto che il ricorrente è comproprietario di un lotto di terreno attiguo a quelli di proprietà della ditta controinteressata e incluso nella medesima lottizzazione, e che egli è stato asseritamente danneggiato da alcune varianti urbanistiche ed edilizie che il Comune di Recanati ha approvato negli ultimi tempi. E tale affermazione non è meramente soggettiva, visto che pende già davanti a questo Tribunale il ricorso con cui il sig. C. chiede la condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni.
Sussistono quindi tutti i presupposti di cui all’art. 24, comma 7, L. n. 241/1990, considerato che in subiecta materia non può essere affermata l’esistenza di un diritto alla riservatezza in capo ai controinteressati.
In effetti, il ricorrente ha solo l’esigenza di verificare la presenza di eventuali abusi edilizi o altre similari evenienze che possano ledere la sua proprietà (e non importa se si tratti di proprietà individuale o di comproprietà), il che non implica quindi la conoscenza di dati sensibili. A voler diversamente opinare si darebbe, ad esempio, la possibilità agli autori di abusi edilizi di poter evitare qualsiasi controllo su impulso di parte, accampando un inesistente diritto alla riservatezza.
Naturalmente non è scontato che i documenti oggetto di accesso siano effettivamente utili al ricorrente nell’ambito del giudizio pendente (così come è da ribadire che la proposizione di istanze di accesso non riapre ex se i termini di impugnazione di provvedimenti ormai consolidatisi), ma in questa sede il giudice deve solo verificare la non manifesta inutilità della visione degli atti oggetto della richiesta di accesso.
Il Tribunale, per quanto detto in precedenza, non ritiene che la visione degli atti in argomento sia icto oculi irrilevante rispetto alle esigenze di tutela giurisdizionale delle ragioni del sig. C..
In conclusione, il ricorso va accolto, con conseguente condanna del Comune di Recanati a consentire al ricorrente la visione e l’estrazione di copia degli atti indicati nell’istanza di accesso del 18/2/2014 (per la parte rimasta inevasa), chiarita con le successive note del 10/03/2014 e del 23/04/2014 (TAR Marche,
sentenza 07.11.2014 n. 923 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: L'uso privato occasionale della macchina di servizio non costituisce peculato.
Non c'è reato di peculato nel caso in cui i massimi dirigenti di una azienda sanitaria abbiano utilizzato, in una sola occasione, l'auto di servizio con autista per affari personali.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 06.11.2014 n. 46061.
Il fatto
La vicenda vede coinvolti un commissario straordinario di un'azienda ospedaliera e il direttore sanitario; ai due dirigenti pubblici era stato contestato, in concorso fra loro, il delitto di peculato per avere fatto uso delle autovetture in dotazione all'ente, al di fuori dei compiti strettamente istituzionali, peraltro utilizzando anche l'autista per attività non riconducibili al suo servizio. Inoltre, al direttore sanitario era stato attribuito anche il reato di truffa aggravata perché aveva autorizzato, a favore dell'autista la liquidazione delle somme per lo svolgimento dello straordinario, relativo agli accompagnamenti non rientranti nei compiti istituzionali.
Il giudice di primo grado aveva escluso che le condotte contestate agli imputati integrassero il reato di peculato, in quanto è risultato che il direttore sanitario, fosse pienamente legittimato ad utilizzare l'autovettura con l'autista, precisando che i viaggi effettuati nel periodo considerato si esaurivano nel percorso casa-ufficio, ad eccezione di un unico episodio, che però è stato ritenuto irrilevante dal punto di vista penale. Per le stesse ragioni è stato assolto il commissario straordinario dell'Asl, al quale era stato contestato di avere autorizzato l'uso improprio delle autovetture; il manager della Asl è risultato del tutto estraneo alla vicenda.
L'esclusione del peculato ha, conseguentemente, determinato l'assoluzione del direttore sanitario anche dal reato di truffa. Avverso la decisione del Tribunale, il Procuratore ha proposto ricorso in Cassazione deducendo l'erronea applicazione della legge penale e la manifesta illogicità della motivazione. In particolare, il Procuratore ricorrente censura l'affermazione contenuta nella sentenza, secondo cui il tragitto casa-ufficio rientrerebbe nel concetto di attività istituzionale, in assenza di una specifica autorizzazione al riguardo; inoltre, contesta la ricostruzione operata dal giudice che ha limitato ad un unico episodio l'uso improprio dell'autovettura.
Va ricordato che il peculato, previsto e disciplinato dagli articoli 314 e 316 del Cp, è un delitto che si configura quando "il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di danaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria".
Il peculato è un "reato proprio", per cui può essere commesso, come stabilisce chiaramente l'incipit dell'articolo 314 del Cp, da un soggetto che rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. Ai fini della configurazione del reato, secondo la giurisprudenza di legittimità, per pubblico ufficiale deve intendersi sia colui che tramite la sua attività concorre a formare quella della Pa, sia colui che è chiamato a svolgere attività aventi carattere accessorio o sussidiario ai fini istituzionali (ovvero colui che partecipa al procedimento amministrativo, con funzioni, propedeutiche o accessorie, aventi effetti "certificativi, valutativi o autoritativi"), poiché, anche in tal caso, attraverso l'attività stessa, si verifica una partecipazione alla formazione della volontà dell'amministrazione pubblica.
La sentenza della Cassazione
I giudici di legittimità osservano che la sentenza impugnata, oltre ad aver accertato che l'uso dell''autovettura di servizio, da parte del direttore sanitario dell'Asl, è stato limitato al percorso casa-ufficio, ha anche precisato che un tale utilizzo non ha contravvenuto ad alcuna disposizione regolamentare che impedisse di impiegare l'autovettura, con autista, chiarendo, quindi, che l'accompagnamento in ufficio rientrava tra le ragioni di servizio.
La giurisprudenza ha avuto modo di affermare che l'uso dell'autovettura di servizio da parte del funzionario può essere disposto per compiere itinerari cittadini, compreso il percorso casa-ufficio, specificando che il limite dell'uso legittimo deve essere individuato nel divieto assoluto della utilizzazione per motivi personali e privati.
Ne consegue che qualora l'uso sia esclusivamente preordinato ad esigenze di servizio deve escludersi che possa ipotizzarsi quella forma di appropriazione che costituisce l'elemento materiale del peculato, in quanto il bene di cui il pubblico ufficiale ha la disponibilità rimane nell'ambito della sua normale destinazione giuridica, cioè nella sfera della pubblica amministrazione.
I giudici di legittimità concordano con quanto affermato dal Tribunale che ha escluso che vi sia stato un uso dell'autovettura per motivi personali; l'episodio incriminato non configura il reato ipotizzato, essendosi trattato di un uso momentaneo dell'autovettura, inidoneo a ledere in modo apprezzabile l'interesse all'integrità patrimoniale dell'amministrazione pubblica. Il ricorso è, pertanto, respinto (tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com).

APPALTI: Negli appalti dei Comuni il responsabile del procedimento può entrare in commissione.
Il responsabile unico del procedimento può essere nominato componente della commissione giudicatrice nelle gare con l'offerta economicamente più vantaggiosa.
Il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 05.11.2014 n. 5456 ribalta una linea interpretativa consolidata nella giurisprudenza amministrativa e sancisce che il responsabile del procedimento può essere componente della commissione giudicatrice, anche se non svolge le funzioni di presidente della stessa.
La norma
La disposizione su cui la pronunzia propone l'innovativa interpretazione è il comma 4 dell'articolo 84 del Codice dei contratti, nella quale si stabilisce che i commissari diversi dal presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta.
La giurisprudenza precedente
In precedenza la giurisprudenza si era posta su una linea interpretativa molto restrittiva, nella quale evidenziava come il rup, qualora soggetto non coincidente con la figura del presidente del particolare organo collegiale, non potesse essere nominato come altro componente, in quanto svolgente altra funzione nell'ambito dell'appalto.
La nuova sentenza
La sentenza del Consiglio di Stato rivede totalmente questa posizione, affermando che nelle procedure di appalti pubblici non vi è una incompatibilità assoluta e insuperabile tra le funzioni di responsabile del procedimento e quelle di componente di commissione di gara, poiché le prime non attengono a compiti di controllo, ma soltanto a verifica interna della correttezza del procedimento, in modo che non vi è sovrapposizione né identità tra controllato e controllante e le due funzioni restano compatibili tra loro.
L'analisi parte dal presupposto che nell'ambito degli enti locali non sussiste un rigido divieto di partecipazione dei dirigenti alle commissioni di gara e che il rafforzamento del modello della responsabilità dirigenziale nel pubblico impiego valorizza l'opposta esigenza, per la quale il dirigente deve seguire direttamente le procedure del cui risultato è tenuto a rispondere.
In questo quadro risulta dirimente l'articolo 107 del Dlgs 267/2000, che prevede tra le attribuzioni di competenza dirigenziale il potere di presiedere le commissioni di gara e di stipulare i contratti in correlazione con la responsabilità per l'esito delle gare medesime.
Le conseguenze
L'analisi evidenzia quindi come il dirigente o il responsabile di servizio esercitante le competenze previste dall'articolo 107 del Tuel intervenga nelle procedure di gara come figura con responsabilità piena, tale da consentirgli di ricoprire più ruoli e di superare l'incompatibilità funzionale definita dall'articolo 84, comma 4, del Codice.
La pronuncia del Consiglio di Stato, tuttavia, precisa come la condizione di incompatibilità sussista invece quando il dirigente o responsabile di servizio svolga il ruolo di direttore dell'esecuzione del contratto (dec). Inoltre, il dato interpretativo elaborato dal Consiglio di Stato non fornisce alcuna indicazione in merito ai casi nei quali il ruolo di Rup sia ricoperto da un soggetto che non sia dirigente o responsabile di servizio: in tal caso l'esimente non sembra potersi applicare e, pertanto, tale dipendente non potrà essere nominato componente della commissione giudicatrice (commento tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: L'obbligazione della Pa nei confronti del professionista nasce con il contratto di incarico.
La stipula del contratto costituisce la base giuridica da cui nasce l'obbligazione di una pubblica amministrazione nei confronti di un professionista; dalla fase precedente, cioè quella in cui l'ente ha assunto la determinazione a contrattare non scaturisce alcun vincolo per l'ente e non scaturisce una pretesa attivabile dinanzi al giudice ordinario per il professionista.
Sono queste le indicazioni di maggiore rilievo contenute nella sentenza n. 24654/2014 della I Sez. civile della Corte di Cassazione.
L'importanza della sentenza non è data tanto dall'affermare un principio innovativo, ma dal considerare una indicazione consolidata quella per cui gli obblighi delle Pa maturano solamente a far data dalla stipula del contratto.
Si deve considerare che le argomentazioni della sentenza sono sicuramente convincenti e la logica che è alla sua base è quanto mai stringente, ciò non di meno non si può mancare di sottolineare come la posizione delle amministrazioni venga tutelata in misura preponderante rispetto all'interesse dei professionisti.
Il principio
La sentenza della Cassazione considera principio acquisito che "a) in un rapporto di opera professionale con la Pa la fase della deliberazione a contrarre si concreta in attività interna alla stessa amministrazione, meramente preparatoria e perciò inidonea ai fini della individuazione della disciplina negoziale e conserva perciò piena autonomia –logica e giuridica- rispetto alla successiva (e solo eventuale) attività negoziale esterna dell'ente pubblico, la quale a) deve tradursi nella stipulazione documentale del contratto; b) è peraltro di competenza di un organo diverso (dalla giunta o dal consiglio) che per i comuni è il sindaco (ndr: la materia sia per la determinazione a contrarre che per il contratto è da considerare attribuita ai dirigenti, dal che ne consegue per questo aspetto un indebolimento della logica ispiratrice della pronuncia); c) comporta conseguentemente che è soltanto detto atto contrattuale quello in cui la menzionata normativa richiede la contestuale sottoscrizione del sindaco nella qualità di rappresentante legale dell'ente e del professionista".
Le prescrizioni del contratto
Altro passaggio di grande rilievo della sentenza è il seguente: sono esclusivamente le prescrizioni del contratto "a costituire il momento genetico dei diritti e delle obbligazioni di ciascuna delle parti, a consentire l'identificazione dello specifico contenuto negoziale che diverrà oggetto dei controlli dell'attività tutoria ed a garantire che le specifiche obbligazioni assunte dall'amministrazione traggano fonte e nel contempo sostegno nella esplicita previsione dei mezzi finanziari per far fronte al compenso da corrispondersi al professionista: perciò svolgendo la contestuale funzione di fissare il limite massimo della spesa sostenibile da ciascun ente pubblico" (commento tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIn linea di diritto va, comunque, osservato che il procedimento di valutazione di anomalia deve essere ampiamente motivato solo nel caso in cui abbia esito negativo e determini l’esclusione dalla gara dell’offerta mentre è sufficiente una motivazione meno ampia ed il riferimento alle giustificazioni fornite dai candidati qualora nell’ambito della discrezionalità tecnica riservata l’amministrazione, le stesse siano ritenute sufficienti.
Ancora, a titolo di premessa, si deve ricordare che le disposizioni in materia di verifica delle offerte anomale, contenute nell'art. 55 della direttiva CE n. 18/2004, e puntualmente recepite dagli artt. 87 e 88 del Codice dei contratti, rispondono primariamente allo scopo di garantire il concorrente contro il pericolo di perdere l'aggiudicazione, a motivo di una supposta anomalia dell'offerta, senza aver potuto dare tutte le giustificazioni del caso e senza che queste siano state debitamente prese in considerazione.
In altre parole, le disposizioni in esame (come molte altre delle direttive comunitarie) hanno lo scopo di tutelare la concorrenza e dunque di evitare che gli enti appaltanti possano eluderla eliminando le offerte migliori sotto il pretesto dell'anomalia.
Solo indirettamente e in via di fatto la verifica dell'anomalia tutela l'interesse del secondo graduato a vedere escluso il primo graduato.
E’ per questo che la giurisprudenza consolidata afferma che occorre una motivazione analitica e specifica solo nel caso che le giustificazioni vengano respinte, mentre quando vengono accolte è sufficiente che esse vengano richiamate a guisa di motivazione per relationem.
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A seguito dell'impugnativa del secondo classificato, il sindacato giurisdizionale sull'accettazione delle giustificazioni fornite dall'aggiudicatario è ammesso solo con riferimento ai vizi di manifesta e macroscopica erroneità e irragionevolezza; invero il giudizio di accettazione è espressione di un apprezzamento discrezionale riferito alla convenienza complessiva dell'offerta.
L'eventuale incongruità di taluni prezzi, o di talune voci di costo, non comporta necessariamente l'anomalia dell'offerta nel suo insieme, giacché quello che ha rilevanza determinante è, in ogni caso, l'importo complessivo.

7. Sono, altresì, inammissibili le censure dedotte con i motivi aggiunti di ricorso tutte dirette a contestare la valutazione di congruità delle offerte delle prime tre classificate, aggiudicatarie, a seguito del procedimento di verifica delle offerte sospette di anomalia, attivato dall’amministrazione ai sensi degli articoli 86 e seguenti del decreto legislativo 163 del 2006.
7.1. Le stesse, infatti, riguardano soltanto le prime tre classificate e nel caso del loro eventuale accoglimento non potrebbero che comportare lo scorrimento della ricorrente dall’ottava alla quinta posizione e, quindi, non utile per l’aggiudicazione che riguarda soltanto le prime tre classificate.
8. In linea di diritto va, comunque, osservato che il procedimento di valutazione di anomalia deve essere ampiamente motivato solo nel caso in cui abbia esito negativo e determini l’esclusione dalla gara dell’offerta mentre è sufficiente una motivazione meno ampia ed il riferimento alle giustificazioni fornite dai candidati qualora nell’ambito della discrezionalità tecnica riservata l’amministrazione, le stesse siano ritenute sufficienti.
8.1. Ancora, a titolo di premessa, si deve ricordare che le disposizioni in materia di verifica delle offerte anomale, contenute nell'art. 55 della direttiva CE n. 18/2004, e puntualmente recepite dagli artt. 87 e 88 del Codice dei contratti, rispondono primariamente allo scopo di garantire il concorrente contro il pericolo di perdere l'aggiudicazione, a motivo di una supposta anomalia dell'offerta, senza aver potuto dare tutte le giustificazioni del caso e senza che queste siano state debitamente prese in considerazione. In altre parole, le disposizioni in esame (come molte altre delle direttive comunitarie) hanno lo scopo di tutelare la concorrenza e dunque di evitare che gli enti appaltanti possano eluderla eliminando le offerte migliori sotto il pretesto dell'anomalia.
Solo indirettamente e in via di fatto la verifica dell'anomalia tutela l'interesse del secondo graduato a vedere escluso il primo graduato (Cons. Stato, sez. III 27/03/2014, n. 1487).
E’ per questo che la giurisprudenza consolidata afferma che occorre una motivazione analitica e specifica solo nel caso che le giustificazioni vengano respinte, mentre quando vengono accolte è sufficiente che esse vengano richiamate a guisa di motivazione per relationem.
8.2. Nella stessa logica, la giurisprudenza consolidata afferma che, a seguito dell'impugnativa del secondo classificato, il sindacato giurisdizionale sull'accettazione delle giustificazioni fornite dall'aggiudicatario è ammesso solo con riferimento ai vizi di manifesta e macroscopica erroneità e irragionevolezza; invero il giudizio di accettazione è espressione di un apprezzamento discrezionale riferito alla convenienza complessiva dell'offerta (Cons. Stato, sez. III 27/03/2014, n. 1487).
8.3. Un terzo principio consolidato in giurisprudenza è che l'eventuale incongruità di taluni prezzi, o di talune voci di costo, non comporta necessariamente l'anomalia dell'offerta nel suo insieme, giacché quello che ha rilevanza determinante è, in ogni caso, l'importo complessivo.
9. In applicazione di questi principi appaiono infondate le censure di cui ai motivi aggiunti di ricorso diretti a contestare genericamente il recepimento acritico delle giustificazioni fornite.
9.1. Non sono, poi, neppure condivisibili le argomentazioni svolte che contestano in modo più specifico la valutazione di congruità effettuata dalla stazione appaltante, o meglio le giustificazioni fornite, ritenute sufficienti dalla stazione appaltante, dell’offerta delle aggiudicatarie sempre nell’ambito del procedimento di anomalia.
Infatti, in applicazione dei principi sopra indicati sembrerebbe potersi escludere a priori che accettando le giustificazioni dell’aggiudicataria l'amministrazione sia incorsa nel vizio di manifesta erroneità ed irragionevolezza (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 30.10.2014 n. 1019 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Commissario di concorsi pubblici, per la qualità di esperto basta una conoscenza specifica della materia.
Secondo il Consiglio di Stato non è necessario che il componente della commissione giudicatrice sia in possesso di titoli culturali, accademici tali da richiedere pubblicazioni scientifiche nei temi oggetto di selezione ma è sufficiente una competenza approfondita e idonea a valutare i candidati.
I giudici infatti hanno stabilito che "la qualità di "esperto" comporta un'approfondita conoscenza della materia, con attività professionale accademica o di servizio, anche se non è necessario che siano prodotti titoli culturali eccezionali o pubblicazioni scientifiche".

Il fatto
Un Comune ha bandito un concorso interno per 12 posti di istruttore direttivo di Polizia municipale, ed è stata costituita la commissione giudicatrice, composta anche da due dirigenti della Polizia municipale. Il candidato, che non aveva ottenuto l'idoneità per questi posti, ha impugnato gli atti del concorso, sostenendo che i due dirigenti non erano in possesso dei titoli necessari per essere qualificati "esperti della materia oggetto del concorso", come stabiliva il regolamento di disciplina dell'accesso agli impieghi in questo Comune.
Il Tar ha accolto il ricorso, e il Comune ha proposto appello, che è stato considerato fondato dal Consiglio di Stato (Sez. V, sentenza 29.10.2014 n. 5341).
La sentenza
I giudici hanno basato la loro decisione sui seguenti argomenti:
1) Il concetto di "esperto" implica il possesso di un titolo di studio corrispondente alle materie oggetto delle prove concorsuali;
2) Tale concetto implica anche il possesso di un'attività professionale, accademica o di servizio;
3) Non è necessario che l'"esperto" sia in possesso di titoli culturali, accademici tali da richiedere pubblicazioni scientifiche nelle materie oggetto di selezione;
4) E' sufficiente una competenza specifica e idonea a valutare i candidati, in riferimento al caso concreto.
La valutazione della sentenza
La sentenza è puntuale e bene motivata. In particolare, si è precisata la necessità di una qualifica superiore a quella dei posti messa a concorso e si è stabilito che non è necessaria la presenza di titoli accademici eccezionali o di pubblicazioni scientifiche. Si è poi messo in luce -come punto importante dell'atto di nomina della commissione- che i due esperti nominati avevano svolto la loro attività lavorativa proprio nelle materie che erano oggetto del concorso.
Conseguenze per gli altri Comuni
La sentenza è rilevante anche per gli altri Comuni. Infatti, questi Enti allorché dovranno procedere alla nomina di "esperti" delle Commissioni di concorso, potranno seguire puntualmente i principi stabiliti da questa sentenza del Consiglio di Stato (tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com).

CONDOMINIONegligenza tutta da dimostrare. L'onere della prova al condomino infortunato per le scale. Lo ha chiarito la Cassazione in una sentenza in merito agli incidenti nelle parti comuni.
Il condomino che cada sulle scale per l'improvvisa interruzione del funzionamento dell'impianto di illuminazione ha l'onere di provare in giudizio sia il rapporto causale tra detta parte comune e l'incidente sia la negligenza del condominio nella custodia dell'impianto dal quale si sarebbe originato il danno.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione nella recente sentenza 27.10.2014 n. 22784.
Nella specie un condomino che sosteneva di essere caduto sulle scale per l'improvviso spegnimento dell'impianto di illuminazione aveva citato in giudizio il condominio, in persona del proprio amministratore, per sentirlo condannare al risarcimento dei danni che aveva subito a causa di tale incidente.
Il condominio, nel costituirsi in giudizio, aveva quindi chiamato in garanzia la propria assicurazione perché quest'ultima fosse condannata a risarcire il dovuto nel non creduto caso di accoglimento della domanda avanzata dal condomino. Sia in primo che in secondo grado la richiesta dell'incidentato era però stata respinta, con conseguente condanna alle spese processuali sostenute sia dal condominio sia dalla compagnia assicuratrice.
Entrambi i giudici di merito avevano, infatti, rilevato che il condomino non aveva fornito la prova né del difettoso funzionamento del timer dell'impianto di illuminazione, né il ritardo dell'amministratore condominiale nel porvi rimedio né, soprattutto, la circostanza che tale difetto di funzionamento fosse stato la causa della caduta.
La questione era quindi stata portata dal condomino all'esame della Corte di cassazione per ottenere l'annullamento della sentenza resa dai giudici di appello. Anche in questo caso, però, l'esito è stato negativo. La Suprema corte, infatti, ha evidenziato come in caso di incidenti in condominio l'onere della prova incomba comunque sul soggetto (condomino o terzo) che si assuma essere stato danneggiato in conseguenza del difetto di custodia e di manutenzione di un bene o di un impianto comune.
Quest'ultimo, in particolare, è chiamato a provare il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno, ossia deve dimostrare che l'evento dannoso si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, che sia propria del bene. A questo proposito la giurisprudenza di legittimità è solita ritenere che ove la cosa in custodia possa sprigionare una qualche energia o una dinamica interna alla sua struttura e tale da provocare il danno (come ad esempio una caldaia) la responsabilità per la verificazione degli eventi lesivi sia da considerarsi oggettiva, ritenendo quindi implicito e già dimostrato il predetto nesso causale.
Allorché, invece, si tratti di un bene di per sé statico e inerte che richieda l'agire umano per la verificazione di un evento lesivo (proprio come nel caso di specie della caduta sulle scale), spetta allora al danneggiato provare che lo stato dei luoghi presentasse peculiarità tali da renderne potenzialmente dannosa la normale utilizzazione.
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I principi generali sugli infortuni. D'obbligo adottare le misure per non recar pregiudizio.
Non è raro che all'interno del condominio si verifichino infortuni ai condomini o a terzi che utilizzino le parti comuni. In tali casi i danneggiati spesso pretendono di essere risarciti sull'erronea convinzione che il condominio, per il semplice fatto di essere custode delle parti comuni, sia obbligato a rispondere di qualunque incidente si verifichi su di esse.
Il più delle volte è invece necessario compiere un'indagine specifica, verificando anche la condotta (attiva o omissiva) del danneggiato e le sue conseguenze nella concreta dinamica del fatto dannoso.
Infortunio in condominio: i principi generali. Il condominio, in quanto custode dei beni e dei servizi comuni, è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie affinché le cose comuni non rechino pregiudizio ad alcuno: in caso contrario i comproprietari rispondono dei danni procurati ai medesimi condomini e ai terzi. Tale responsabilità si fonda sul rapporto oggettivo sussistente tra il condominio e la parte comune rispetto alla quale vi è il predetto obbligo di custodia (scale, cortile, androne ecc.) e prescinde, quindi, dalle caratteristiche del bene condominiale.
Di conseguenza il danneggiato non deve dimostrare il carattere insidioso della situazione di pericolo, e cioè che la stessa non fosse visibile a una certa distanza e che non fosse quindi evitabile con la normale prudenza: l'anomalia e il difetto di manutenzione di una parte comune che sia stata causa del danno è infatti sufficiente, di per sé, ad addebitare la responsabilità alla collettività condominiale e il danneggiato non ha l'onere di dimostrare il contrario. In ogni caso il bene condominiale, pur combinato con elementi esterni (per esempio le scale rese pericolose dalla caduta di olio, sapone, fogliame ecc.), deve necessariamente costituire la causa del danno.
Quando il condominio è responsabile per l'infortunio. Alla luce dei principi sopra espressi risulta evidente che ricorre per esempio la responsabilità del condominio nel caso in cui, per la scarsa illuminazione di una parte condominiale, un condominio (o un terzo) non abbia visto un muretto e sia precipitato lungo il vano scale o sia scivolato su una macchia di olio non visibile perché ricoperta da polvere. Lo stesso dicasi se i danni siano arrecati da sporgenze rispetto al piano di calpestio (in particolare un gancio, inserito in uno dei gradini della scala relativo a un cancello normalmente chiuso) o se nuovi manufatti collocati sul pavimento del cortile, per la posizione e per la novità dell'installazione, presentino i caratteri dell'insidia.
Allo stesso modo la collettività condominiale è obbligata a risarcire colui che abbia subito una frattura causata da una caduta provocata da un pezzo di moquette collocato nell'androne (con la parte pelosa rivolta verso il suolo e quella gommosa verso l'alto). In presenza di materiale caduto dal soffitto e dalle pareti della scala condominiale è inoltre legittima la richiesta di risarcimento danni di un condomino che si sia infortunato, anche in assenza di testimoni: secondo i giudici, infatti, in tali casi la causa del danno è da individuarsi presuntivamente in relazione al contesto.
Alle stesse conclusioni si deve arrivare ove un condomino cada in una strada interna al caseggiato e riesca a dimostrare le anomale condizioni della sede stradale e la loro oggettiva idoneità a provocare incidenti del genere di quello che si è verificato (per esempio la presenza di pietrisco sul fondo stradale). Anche nel caso in cui si verifichi una caduta, con conseguenti lesioni, su una rampa di scale dello stabile che dia accesso al cortile interno e che sia priva dell'apposito corrimano, si configura responsabilità per danni da cosa in custodia in capo al condominio.
Il comportamento del danneggiato. Non è possibile parlare di responsabilità del condominio-custode di fronte a un'ipotesi di utilizzazione impropria o anomala della parte comune da parte del danneggiato la cui pericolosità sia talmente evidente e immediatamente apprezzabile da chiunque, tale da renderla del tutto imprevedibile. Tale situazione ricorre, per esempio, nell'ipotesi in cui, abbandonando il tragitto predisposto al fine di raggiungere più velocemente la sua auto, un condomino (o un terzo) abbia scelto un percorso diverso tra fioriere e gradini nel quale sia poi caduto subendo gravi danni, anche a causa della scarsa visibilità. Del resto la Cassazione ha escluso la responsabilità del condominio in un altro caso di evidente comportamento colposo del condomino che, pur potendo verificare in condizioni di normale visibilità che il pavimento delle scale era scivoloso, non aveva prestato la dovuta particolare attenzione.
In un altro caso è stata invece esclusa la responsabilità del condominio per le lesioni subite da un minore il quale aveva impropriamente utilizzato, peraltro in ora serale e in condizioni di visibilità evidentemente non ottimale, il cortile destinato a parcheggio di autovetture per giocare a calcio e si era ferito a causa dei vetri di copertura delle grate di areazione del garage.
Il caso fortuito. Il condomino non è comunque responsabile se prova che i danni siano derivati da un caso fortuito, cioè dal fatto di un terzo o da forza maggiore (per esempio un'alluvione). Inoltre non può essere ritenuto responsabile il condominio per le lesioni derivate alla testa di un condomino dal distacco dell'intonaco relativo a una parte del balcone di proprietà esclusiva di altro condomino. Infatti è pacifico che per i danni che si siano verificati per fatto del terzo si interrompa il nesso causale tra questi e la parte condominiale che abbia occasionato l'evento. Tale principio, tra l'altro, vale anche se il terzo colpevole sia rimasto ignoto (articolo ItaliaOggi Sette del 24.11.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ENTI LOCALI: Sulla movida parla il consiglio. Il Consiglio di stato sul caso Venezia.
Stop alla delibera antischiamazzi nel centro storico. Ma non perché il comune non possa mettere paletti alla movida: l'ente locale è senz'altro competente eccome in materia di polizia urbana; il punto è che deve essere il consiglio comunale a occuparsene, senza poter delegare alla giunta la chiusura degli esercizi commerciali come i baretti del centro antico e il divieto di spettacoli di strada, con le relative multe a chi non si adegua. Risultato: è nullo il regolamento contro la movida selvaggia.

Lo stabilisce la sentenza 27.10.2014 n. 5288, pubblicata dalla V Sez. del Consiglio di Stato.
Il caso. A Venezia tornano l'allarme degrado, nonostante le proteste dei residenti che avevano fatto scattare la chiusura dei locali e lo stop alla musica dal vivo a partire dall'una del mattino, con la multa di 400 euro per i trasgressori. I commercianti non ottengono il risarcimento solo perché non riescono a dimostrare concretamente il danno patito dall'amministrazione. Fatto sta che palazzo Spada accoglie anche un motivo dell'appello incidentale subordinato dichiarando l'illegittimità di un altro articolo del regolamento che si era salvato dal Tar e l'intera delibera della giunta. Il tutto per eccesso di delega da parte del consiglio.
In effetti è proprio la natura del provvedimento antimovida che radica la competenza nel parlamentino e non nell'esecutivo comunale: l'atto individua le zone della società nelle quali si verificano fenomeni di degrado urbano o allarme sociale, con i giovani che prendono d'assalto i luoghi della vita notturna, con l'alcol che scorre a fiumi. L'esigenza di tutelare la qualità della vita, il riposo e le regole di vita civile tradiscono la natura regolamentare del provvedimento che è rivolto a un numero indeterminato di destinatari e, dunque, ha natura generale: l'individuazione concreta spetta esclusivamente al consiglio comunale, secondo l'ordinaria ripartizione delle competenze con la giunta coerentemente peraltro con la natura rappresentativa dell'organo consiliare.
E ciò indipendentemente da ogni considerazione sulla adeguatezza e sulla idoneità dell'istruttoria espletata al riguardo. Gli esercenti, tuttavia, non sono risarciti perché non forniscono alcun elemento probatorio del pregiudizio subito (articolo ItaliaOggi del 21.11.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Ordinanze d'urgenza comunali legittime anche senza comunicazione all'interessato.
Le ordinanze d'urgenza, anche se adottate in ritardo, non richiedono la comunicazione dell'avvio del procedimento agli interessati: questa l'affermazione contenuta nella sentenza 17.10.2014 n. 5308 della V Sez. del Consiglio di Stato.
I fatti di causa
Un Sindaco ha emanato un'ordinanza d'urgenza, nella quale ha imposto a una società di sospendere nel Comune l'attività di "lavaggio" e "nobilitazione pelli", "e di "emissione di fumi e vapori". La società ha ritenuto che l'ordinanza fosse illegittima e ha quindi proposto ricorso al Tar, che lo ha accolto con la motivazione che il provvedimento non era stato preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento.
Il Comune ha allora interposto appello, che è stato accolto.
La sentenza d'appello
I giudici del Consiglio di Stato hanno così argomentato:
1) non vi è l'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento in quanto l'ordinanza contingente e urgente non consente, per le esigenze di effettiva e particolare rapidità, il contraddittorio con l' interessato;
2) l'articolo 7 della legge 241/1990 non esenta dall'obbligo dell'avvio del procedimento un'intera categoria astratta di provvedimenti amministrativi, ma impone una verifica delle peculiari ragioni di ogni singolo caso;
3) è 'importante nell'adozione dell'ordinanza contingibile e urgente la valutazione dell'attualità della situazione di pericolo nel momento in cui il Sindaco provvede;
4) il tempo trascorso tra l'avvenimento e l'ordinanza non incide su questa regola, dal momento che nel caso di specie questa situazione si è manifestata per la prima volta.
L'orientamento applicato dai giudici
La sentenza, che richiama altra giurisprudenza del Consiglio di Sato (ad esempio, sezione I, 29.10.2008 n. 2442) è da condividere ed è bene motivata.
Il punto rilevante della motivazione della sentenza è l'attualità della situazione di pericolo in base alla quale il Sindaco provvede e non il tempo trascorso dal momento in base alla quale la situazione si è manifestata per la prima volta.
Conseguenze per gli altri Comuni
La sentenza costituisce un utile punto di riferimento per le ordinanze d'urgenza dei Sindaci perché le situazioni di urgenza devono essere valutate nel momento in cui le ordinanze sono emanate. E' peraltro opportuno che i Sindaci considerino con particolare attenzione sia il momento in cui la situazione di pericolo si manifesta, sia il momento dell'emanazione dell'ordinanza. Infatti, questo tempo non deve essere troppo ampio, perché un rilevante decorso del tempo potrebbe vanificare le ragioni della necessità e dell'urgenza che sono alla base dell'ordinanza (commento tratto da www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Tar Lecce. La spending non vincola l'avvocato.
La spending review non vincola l'avvocato che ha difeso il comune. Le difficoltà finanziarie del comune non possono danneggiare l'avvocato che ha difeso l'ente in giudizio: la delibera con cui l'amministrazione locale adotta un determinato impegno di spesa per il contenzioso non costituisce per il legale nominato un vincolo tale da ridurre le spettanze del professionista.

È quanto emerge dalla sentenza 14.10.2014 n. 2500, pubblicata dalla Sez. II del TAR Puglia-Lecce.
Accolto, dunque, il ricorso del legale che ha patrocinato l'ente davanti al giudice ordinario e amministrativo. È annullata la delibera della giunta che riconosceva i debiti fuori bilancio per il pagamento note specifiche al professionista «nella misura dei minimi tariffari all'epoca in vigore».
L'assunzione da parte del comune di un suo predeterminato impegno di spesa non condiziona l'avvocato che non ha firmato alcun accordo per decurtare il suo compenso. E ciò al di là delle conseguenze che possono derivare all'amministrazione locale sul piano giuridico-contabile. In tema di contratti con la pubblica amministrazione che devono essere stipulati ad substantiam per iscritto, il requisito della forma del contratto di patrocinio è soddisfatto con il rilascio al difensore della procura ex articolo 83 Cpc.
Il relativo esercizio della rappresentanza giudiziale, tramite la redazione e la sottoscrizione dell'atto difensivo perfeziona l'incontro di volontà fra le parti l'accordo contrattuale in forma scritta, che rende possibile l'identificazione del contenuto negoziale e i controlli dell'autorità tutoria e dunque risponde ai requisiti previsti per i contratti pubblici.
Da parte del comune manca ogni dimostrazione che le pretese avanzate da parte dell'avvocato non siano coerenti alle prestazioni professionali svolte. L'amministrazione paga le spese (articolo ItaliaOggi del 25.11.2014 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

EDILIZIA PRIVATASe la cartografia del PRG prevede l’allineamento dell’edificio al confine questo deroga alla regola generale dei 5 metri dal confine.
La Corte di Appello di Venezia ritiene che, qualora un PRG preveda in una NTA come regola generale la distanza di 5 metri dal confine, costituisca una norma speciale (che prevale su quella generale di cui sopra) la cartografia del PRG che consente l’allineamento dell’edificio a confine (e, quindi, l’edificio si può costruire a confine). Quindi la Corte risolve in base al principio di specialità l’annosa questione di quale disposizione prevalga nel caso di conflitto tra disposizioni normative e previsioni grafiche all’interno dello stesso PRG.
Si legge nella sentenza: “Il primo Giudice ha individuato quale norma regolante la distanza degli edifici dal confine di proprietà la norma amministrativa locale, richiamata dall’art 873 c.c., ma nell’individuare la norma amministrativa non ha applicato il criterio di specialità nell’interpretazione della norma amministrativa richiamata. Il Regolamento locale richiamato dall’art. 873 c.c. è costituito dal PRG del Comune di Thiene. Quest’ultimo prevede una norma generale determinante la distanza degli edifici dal confine, in via generale, e norme speciali per alcune zone specifiche del Comune di Thiene.
Per principio generale interpretativo delle norme, la norma speciale prevale sulla norma generale.
Gli edifici delle parti in causa sono pacificamente ubicati in centro storico e abbiamo visto che in questa zona, il P.R.G. di Thiene, cui rimandano l’art. 5 del regolamento edilizio e l’art. 13 delle N.T.A. del Comune di Thiene, per il centro storico, punto B), sopra illustrati, con riferimento all’edificio dell’appellante, prevede espressamente nella cartografia –planivolumetrico– l’allineamento a confine dell’edificio, come risulta dall’estratto del P.R.G. dei luoghi per cui è causa.
Il permesso a costruire rilasciato dal Comune di Thiene al Convenuto per ristrutturare l’edificio oggetto di causa è conforme al Regolamento locale (P.R.G.) richiamato dall’art. 873 c.c. quale fonte integrativa del C.C.
” (Corte d'Appello di Venezia, sentenza 23.09.2014 - tratto da e link a http://venetoius.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza amministrativa occupatasi del problema ha evidenziato che le previsioni per il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati –dettate in generale dalla l. n. 13/1989, poi trasfusa nel d.P.R. n. 380/2001, ed articolate in dettaglio nel d.m. 14.06.1989, n. 236– hanno elevato il livello di tutela dei soggetti portatori di minorazioni fisiche, oramai reputato interesse primario della collettività, da soddisfare con interventi tesi a rimuovere situazioni preclusive dello sviluppo della persona e dello svolgimento di una normale vita di relazione.
Peraltro, la giurisprudenza ha precisato che il sistema di tutela delle persone disabili è applicabile, nel concreto, compatibilmente con altri interessi pubblici, i quali non possono essere pretermessi, ma devono essere bilanciati con quello, superiore, alla tutela ottimale di tali persone: ne consegue che le misure necessarie a rendere effettiva la tutela delle persone disabili, sulla base degli artt. 2, 3 e 32 Cost., possono essere legittimamente graduate in vista dell’attuazione del principio della parità di trattamento, tenuto conto di tutti i valori costituzionali in gioco e fermo, comunque, il rispetto di un nucleo indefettibile di garanzie per gli interessati.
Il diniego sull’istanza di autorizzazione all’intervento diretto ad eliminare le barriere architettoniche sarà, dunque, consentito qualora non sia possibile realizzare le opere, senza pregiudizio di altri beni ugualmente tutelati, tenendo peraltro conto che di eliminazione delle barriere architettoniche si può parlare solo per le opere tecnicamente necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati, come ad es. servoscale ed ascensori, e non già per le opere tese alla migliore fruibilità dell’edificio ed alla maggiore comodità dei residenti, come ad es. porticati o tettoie.
Nell’ottica appena illustrata, va evidenziato che il Legislatore ha effettuato scelte puntuali in merito alla graduazione degli interessi coinvolti. Ad es., nel bilanciamento tra l’interesse alla salvaguardia del patrimonio storico-artistico nazionale e quello alla tutela del diritto alla salute e ad una normale vita di relazione delle persone disabili, la normativa ha dato prevalenza a quest’ultimo, consentendo il diniego dell’autorizzazione alla realizzazione degli interventi su un bene vincolato solo in caso di accertato e motivato serio pregiudizio del bene stesso. Al contrario, è stato ritenuto prevalente l’interesse al rispetto della normativa antincendio.
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Il Legislatore, con l'art. 79 del d.P.R. n. 380/2001 e con le norme dal medesimo richiamate (artt. 873 e 907 c.c.), ha ritenuto di comporre il contrasto dando prevalenza al diritto dei terzi di veder rispettate le distanze tra le costruzioni previste dalle norme del codice civile richiamate e, dunque, una distanza non inferiore a tre metri: ciò, al fine di garantire la salubrità delle costruzioni.
In altre parole, il Legislatore ha considerato l’interesse delle persone disabili recessivo rispetto al diritto alla salute dei soggetti “terzi” ed in specie dei proprietari di immobili finitimi, che non possono patire una lesione di siffatto diritto per effetto della costruzione di intercapedini, tali da incidere sulla salubrità delle costruzioni. E la scelta del Legislatore è stata ritenuta non illogica dalla giurisprudenza, attesa la pari rilevanza del diritto alla salute dei soggetti confinanti rispetto a quello dei portatori di minorazioni.
Peraltro, la giurisprudenza di merito ha chiarito come il comma 2 dell’art. 3 della l. n. 13/1989 (ora comma 2 dell’art. 79 del d.P.R. n. 380 cit.) debba interpretarsi nel senso che la distanza minima da mantenere, nella realizzazione delle opere dirette a rimuovere le barriere architettoniche, rispetto ai fabbricati vicini, in assenza di spazi o aree di proprietà o uso comune, è quella di tre metri prevista dalla prima parte dell’art. 873 c.c. (indicata anche dall’art. 907 c.c.), poiché il richiamo al citato art. 873 c.c. deve intendersi limitato alla sola prima parte di detta disposizione, con esclusione, pertanto, delle previsioni dei regolamenti locali.
La giurisprudenza di merito ha, inoltre, affermato che l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 79 del d.P.R. n. 380/2001 porta ad estendere la deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi (dettata nel comma 1 dell’art. 79 cit.) anche agli atti di normazione primaria, con il corollario di dover limitare al dato testuale il richiamo all’art. 873 c.c. e quindi dell’inapplicabilità ad una fattispecie del tutto analoga a quella ora in esame (installazione dell’ascensore esterno ad un edificio) della disciplina sulle distanze dai fabbricati alieni prevista dall’art. 9 del d.m. n. 1444/1968.
Ciò, al fine di garantire e realizzare il principio di uguaglianza sostanziale anche nei riguardi dei soggetti disabili, secondo l’insegnamento espresso dalla Corte costituzionale con la già ricordata sentenza n. 167/1999.
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L’inapplicabilità alle opere volte a rimuovere le barriere architettoniche della disciplina sulle maggiori distanze contenuta nei regolamenti edilizi comunali, discende dalla deroga espressa a detta disciplina stabilita dell’art. 79, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001.
Tale deroga verrebbe frustrata –e dunque la previsione che la contiene sarebbe inutiliter data– ove si ritenesse che il rinvio contenuto nel comma 2 dell’art. 79 cit. all’art. 873 c.c. riguardi anche la seconda parte di siffatta disposizione del codice civile (la quale, come già illustrato, ammette che nei regolamenti locali venga fissata una distanza maggiore di quella di mt. 3 prevista dalla prima parte dello stesso art. 873 c.c.).
In altre parole, il Legislatore sarebbe incorso in un’abnorme contraddizione, qualora avesse stabilito al comma 1 dell’art. 79 cit. l’inapplicabilità delle distanze previste nei regolamenti edilizi comunali alle opere (come gli ascensori esterni) volte a rimuovere le barriere architettoniche, per poi, invece, rendere applicabili le suddette distanze, tramite il rinvio all’art. 873 c.c. contenuto nel comma 2 del medesimo art. 79: ma la contraddizione si supera ritenendo che il rinvio operato dall’art. 79, comma 2, cit., riguardi solamente la prima parte dell’art. 873 c.c. e, dunque, renda applicabile alle opere in questione soltanto la distanza di mt. 3 stabilita dalla prima parte dell’ora vista disposizione codicistica.
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Per quanto concerne l’inapplicabilità delle distanze previste dal d.m. n. 1444/1968, si richiama –ad ulteriore supporto– il principio per cui la disciplina in materia di distanze non opera per quegli impianti che debbono considerarsi indispensabili ai fini di una reale abitabilità dell’appartamento e che riflettono l’evoluzione delle esigenze generali dei cittadini, senza trascurare che nel caso di specie sono tutelati primari valori costituzionali, mentre il diritto alla salute, di pari rango costituzionale, dei proprietari dei fabbricati alieni è già garantito con l’applicazione della distanza di mt. 3 ex artt. 873 e 907 c.c..

Formano oggetto di impugnazione il provvedimento comunale di archiviazione della richiesta della società ricorrente diretta al rilascio del permesso di costruire un ascensore esterno per disabili in un fabbricato civile ed il parere negativo della Commissione Edilizia Comunale sul quale si è basata la medesima archiviazione.
In particolare, il parere negativo richiama il mancato rispetto delle distanze ex d.m. n. 1444/1968, di quelle dettate dal codice civile e di quelle previste dal regolamento edilizio comunale.
La domanda di annullamento formulata con il ricorso è fondata e meritevole di accoglimento, per le ragioni che di seguito si espongono.
Va premesso al riguardo che l’art. 79 del d.P.R. n. 380/2001 (il quale ha riprodotto l’art. 3 della l. n. 13/1989), nel disciplinare le opere dirette all’eliminazione delle barriere architettoniche, ha disposto al comma 1 che tali opere possono essere realizzate in deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi, anche per i cortili e le chiostrine interni ai fabbricati o comuni o di uso comune a più fabbricati. Al comma 2 ha, poi, stabilito che è fatto salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli artt. 873 e 907 c.c. nell’ipotesi in cui tra le opere da realizzare ed i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune.
Il richiamato art. 873 c.c., dal canto suo, nel disciplinare le distanze tra le costruzioni, stabilisce che le costruzioni su fondi finitimi, se non unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri, potendo peraltro nei regolamenti locali essere dettata una distanza maggiore. L’art. 907 c.c., infine, stabilisce la medesima distanza di mt. 3 in relazione alla distanza delle costruzioni dalle vedute.
Così indicata la normativa di riferimento, la giurisprudenza amministrativa occupatasi del problema (v. TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, 24.02.2012, n. 87) ha evidenziato che le previsioni per il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati –dettate in generale dalla l. n. 13/1989, poi trasfusa nel d.P.R. n. 380/2001, ed articolate in dettaglio nel d.m. 14.06.1989, n. 236– hanno elevato il livello di tutela dei soggetti portatori di minorazioni fisiche, oramai reputato interesse primario della collettività, da soddisfare con interventi tesi a rimuovere situazioni preclusive dello sviluppo della persona e dello svolgimento di una normale vita di relazione (TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 14.11.2011, n. 5343; cfr., sul punto, Corte cost., 10.03.1999, n. 167 e 04.07.2008, n. 251).
Peraltro, la giurisprudenza ha precisato che il sistema di tutela delle persone disabili è applicabile, nel concreto, compatibilmente con altri interessi pubblici, i quali non possono essere pretermessi, ma devono essere bilanciati con quello, superiore, alla tutela ottimale di tali persone: ne consegue che le misure necessarie a rendere effettiva la tutela delle persone disabili, sulla base degli artt. 2, 3 e 32 Cost., possono essere legittimamente graduate in vista dell’attuazione del principio della parità di trattamento, tenuto conto di tutti i valori costituzionali in gioco e fermo, comunque, il rispetto di un nucleo indefettibile di garanzie per gli interessati.
Il diniego sull’istanza di autorizzazione all’intervento diretto ad eliminare le barriere architettoniche sarà, dunque, consentito qualora non sia possibile realizzare le opere, senza pregiudizio di altri beni ugualmente tutelati (TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, n. 87/2012, cit.), tenendo peraltro conto che di eliminazione delle barriere architettoniche si può parlare solo per le opere tecnicamente necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati, come ad es. servoscale ed ascensori, e non già per le opere tese alla migliore fruibilità dell’edificio ed alla maggiore comodità dei residenti, come ad es. porticati o tettoie (v. TAR Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 08.11.2011, n. 526).
Nell’ottica appena illustrata, va evidenziato che il Legislatore ha effettuato scelte puntuali in merito alla graduazione degli interessi coinvolti. Ad es., nel bilanciamento tra l’interesse alla salvaguardia del patrimonio storico-artistico nazionale e quello alla tutela del diritto alla salute e ad una normale vita di relazione delle persone disabili, la normativa ha dato prevalenza a quest’ultimo, consentendo il diniego dell’autorizzazione alla realizzazione degli interventi su un bene vincolato solo in caso di accertato e motivato serio pregiudizio del bene stesso (TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, n. 87/2012, cit., con i precedenti ivi elencati). Al contrario, è stato ritenuto prevalente l’interesse al rispetto della normativa antincendio (C.d.S., Sez. V, 08.03.2011, n. 1437).
Con riferimento, in particolare, al problema che qui rileva –cioè quello del contrasto tra l’interesse dei soggetti portatori di minorazioni fisiche e quello dei soggetti terzi (in particolare, i proprietari di fabbricati alieni)– il Legislatore, con il surriferito art. 79 del d.P.R. n. 380/2001 e con le norme dal medesimo richiamate (artt. 873 e 907 c.c.), ha ritenuto di comporre il contrasto dando prevalenza al diritto dei terzi di veder rispettate le distanze tra le costruzioni previste dalle norme del codice civile richiamate e, dunque, una distanza non inferiore a tre metri: ciò, al fine di garantire la salubrità delle costruzioni.
In altre parole, il Legislatore ha considerato l’interesse delle persone disabili recessivo rispetto al diritto alla salute dei soggetti “terzi” ed in specie dei proprietari di immobili finitimi, che non possono patire una lesione di siffatto diritto per effetto della costruzione di intercapedini, tali da incidere sulla salubrità delle costruzioni. E la scelta del Legislatore è stata ritenuta non illogica dalla giurisprudenza (TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, n. 87/2012, cit.), attesa la pari rilevanza del diritto alla salute dei soggetti confinanti rispetto a quello dei portatori di minorazioni.
Peraltro, la giurisprudenza di merito ha chiarito come il comma 2 dell’art. 3 della l. n. 13/1989 (ora comma 2 dell’art. 79 del d.P.R. n. 380 cit.) debba interpretarsi nel senso che la distanza minima da mantenere, nella realizzazione delle opere dirette a rimuovere le barriere architettoniche, rispetto ai fabbricati vicini, in assenza di spazi o aree di proprietà o uso comune, è quella di tre metri prevista dalla prima parte dell’art. 873 c.c. (indicata anche dall’art. 907 c.c.), poiché il richiamo al citato art. 873 c.c. deve intendersi limitato alla sola prima parte di detta disposizione, con esclusione, pertanto, delle previsioni dei regolamenti locali (Trib. Genova, 13.11.1997, in Arch. Locazioni, 1998, 86).
La giurisprudenza di merito ha, inoltre, affermato che l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 79 del d.P.R. n. 380/2001 porta ad estendere la deroga alle norme sulle distanze previste dai regolamenti edilizi (dettata nel comma 1 dell’art. 79 cit.) anche agli atti di normazione primaria, con il corollario di dover limitare al dato testuale il richiamo all’art. 873 c.c. e quindi dell’inapplicabilità ad una fattispecie del tutto analoga a quella ora in esame (installazione dell’ascensore esterno ad un edificio) della disciplina sulle distanze dai fabbricati alieni prevista dall’art. 9 del d.m. n. 1444/1968 (Trib. Monza, 01.10.2007, in Giur. Merito, 2008, 3, 728). Ciò, al fine di garantire e realizzare il principio di uguaglianza sostanziale anche nei riguardi dei soggetti disabili, secondo l’insegnamento espresso dalla Corte costituzionale con la già ricordata sentenza n. 167/1999.
Gli arresti ora riferiti debbono essere condivisi.
Invero, l’inapplicabilità alle opere volte a rimuovere le barriere architettoniche della disciplina sulle maggiori distanze contenuta nei regolamenti edilizi comunali, discende dalla deroga espressa a detta disciplina stabilita dell’art. 79, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001. Tale deroga verrebbe frustrata –e dunque la previsione che la contiene sarebbe inutiliter data– ove si ritenesse che il rinvio contenuto nel comma 2 dell’art. 79 cit. all’art. 873 c.c. riguardi anche la seconda parte di siffatta disposizione del codice civile (la quale, come già illustrato, ammette che nei regolamenti locali venga fissata una distanza maggiore di quella di mt. 3 prevista dalla prima parte dello stesso art. 873 c.c.).
In altre parole, il Legislatore sarebbe incorso in un’abnorme contraddizione, qualora avesse stabilito al comma 1 dell’art. 79 cit. l’inapplicabilità delle distanze previste nei regolamenti edilizi comunali alle opere (come gli ascensori esterni) volte a rimuovere le barriere architettoniche, per poi, invece, rendere applicabili le suddette distanze, tramite il rinvio all’art. 873 c.c. contenuto nel comma 2 del medesimo art. 79: ma la contraddizione si supera ritenendo –con la giurisprudenza sopra richiamata– che il rinvio operato dall’art. 79, comma 2, cit., riguardi solamente la prima parte dell’art. 873 c.c. e, dunque, renda applicabile alle opere in questione soltanto la distanza di mt. 3 stabilita dalla prima parte dell’ora vista disposizione codicistica.
Per quanto concerne, poi, l’inapplicabilità delle distanze previste dal d.m. n. 1444/1968, si richiama –ad ulteriore supporto– il principio per cui la disciplina in materia di distanze non opera per quegli impianti che debbono considerarsi indispensabili ai fini di una reale abitabilità dell’appartamento e che riflettono l’evoluzione delle esigenze generali dei cittadini (Pret. Catania, 20.03.1992, Lirosi c. Pantò), senza trascurare che nel caso di specie sono tutelati primari valori costituzionali, mentre il diritto alla salute, di pari rango costituzionale, dei proprietari dei fabbricati alieni è già garantito con l’applicazione della distanza di mt. 3 ex artt. 873 e 907 c.c. (TAR Lazio-Latina, sentenza 22.09.2014 n. 726 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Per l’ammissibilità della domanda risarcitoria nei confronti della P.A., non basta il solo annullamento del provvedimento lesivo, ma è, altresì, necessaria la sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa, dovendo quindi verificarsi se l’adozione e l’esecuzione dell’atto impugnato siano o meno avvenute in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede, a cui l’esercizio della funzione pubblica deve costantemente attenersi: ne consegue che il giudice amministrativo potrà affermare la responsabilità della P.A. per danni conseguenti ad un atto illegittimo, se la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto ed in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tali da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato.
In ogni caso, nella vicenda in esame non è rinvenibile l’elemento soggettivo della colpa della P.A., requisito necessario affinché possa configurarsi la responsabilità aquiliana della P.A. nelle materie diverse dagli appalti pubblici (Cass. civ., Sez. III, 28.10.2011, n. 22508; TAR Lazio, Latina, Sez. I, 21.10.2013, n. 779).
Ha affermato, infatti, la giurisprudenza (v. pure TAR Campania, Napoli, Sez. V, 08.07.2013, n. 3526; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 01.07.2013, n. 6495) che, per l’ammissibilità della domanda risarcitoria nei confronti della P.A., non basta il solo annullamento del provvedimento lesivo, ma è, altresì, necessaria la sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa, dovendo quindi verificarsi se l’adozione e l’esecuzione dell’atto impugnato siano o meno avvenute in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede, a cui l’esercizio della funzione pubblica deve costantemente attenersi: ne consegue che il giudice amministrativo potrà affermare la responsabilità della P.A. per danni conseguenti ad un atto illegittimo, se la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto ed in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tali da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato (TAR Lazio, Latina, Sez. I, n. 779/2013, cit.).
Orbene, la portata invero non perspicua dell’art. 79 del d.P.R. n. 380/2001 –che, come si è visto, al comma 1 prevede una deroga alle distanze stabilite dai regolamenti edilizi comunali, la cui portata sembrerebbe interamente annullata dal rinvio che il successivo comma 2 fa all’art. 873 c.c.– è tale da indurre il Collegio a concludere per l’esistenza, nel caso di specie, di un errore scusabile in capo al Comune di Sora: errore scusabile riconducibile alla non facile intelligibilità del menzionato dato normativo, oltre che all’esistenza di rari precedenti giurisprudenziali in materia, per giunta talvolta discordanti
(TAR Lazio-Latina, sentenza 22.09.2014 n. 726 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Appalto, offerta simbolica ko. Gare multiservizi, proposte viziate se prossime a zero. Tar Veneto: inammissibilità scaturente dalla mancanza di un elemento essenziale.
L'indicazione di un prezzo prossimo allo zero in relazione a uno dei servizi oggetto di gara si traduce in un'offerta completamente viziata sotto il profilo strutturale, ossia in un'offerta inammissibile per mancanza di uno dei suoi elementi essenziali come riportati nella lex specialis di gara, indipendentemente dal peso ponderale che a essi viene attribuito in sede di valutazione dell'offerta economica.
Lo ha stabilito il TAR Veneto, Sez. I, con la sentenza 11.09.2014 n. 1200.
La vicenda trae origine da una gara d'appalto indetta da un comune per l'affidamento triennale, con possibilità di rinnovo per altri due anni, del servizio di gestione delle attività di prelievo ematico a domicilio e nei punti periferici oltre che della gestione del servizio di segreteria.
La selezione è culminata nell'aggiudicazione in favore di un consorzio. E tuttavia il contratto non è mai stato stipulato per via del ricorso, presentato dalla seconda classificata, innanzi al giudice amministrativo. La ricorrente ha contestato la legittimità degli atti della selezione, in specie la scelta della stazione appaltante di aggiudicare la gara in favore del consorzio nonostante l'offerta da questi presentata contenesse una voce, relativa a uno dei tre servizi appaltati, quello «di accettazione amministrativa», con indicazione di un prezzo meramente simbolico (0,01 centesimi di euro l'anno); il consorzio, per garantirsi la vittoria, ha infatti costruito la propria offerta riversando il costo reale del servizio di segreteria sugli altri due rimanenti, rispettivamente, l'attività dei punti prelievo periferici e quella di prelievo a domicilio: il che, sempre secondo la tesi della ricorrente, non poteva che ritenersi in contrasto con i principi cardine delle procedure evidenziali oltre che con la stessa lex specialis, la quale giust'appunto imponeva ai concorrenti di proporre un prezzo per ciascuna delle tre prestazioni richieste; in questi termini, così ha concluso la seconda classificata, la stazione appaltante avrebbe dovuto escludere il consorzio per inammissibilità dell'offerta anziché affidargli il servizio appaltato.
Il tribunale ha respinto l'istanza cautelare. Ma il consiglio di stato, in sede di appello contro l'ordinanza reiettiva, ha confutato la tesi svolta dal giudice di prime cure, concedendo la sospensiva degli atti di gara.
Con la sentenza in esame il Tar si è occupato del merito della vicenda. La decisione trae l'abbrivio dallo stesso capitolato di gara che ha previsto l'attribuzione di uno specifico peso ponderale, nell'ambito della valutazione dell'offerta economica, con l'indicazione, per ogni voce del servizio, di un valore massimo di punteggio. Ciò premesso, i giudici toscani hanno rilevato come l'indicazione da parte del consorzio aggiudicatario di un importo pari a euro 0,01 per uno dei tre servizi appaltati raffigurasse «un prezzo meramente simbolico», che non consentiva, nella sua valenza quasi infinitesimale, se non addirittura inesistente, di attribuire a esso un punteggio che potesse ragionevolmente rapportarsi al valore concretamente indicato.
In altri termini, così si legge nella pronuncia in commento, «l'indicazione di un prezzo prossimo allo zero in relazione a uno dei servizi oggetto di gara, oltre a vanificare completamente la valenza delle altre offerte formulate, che in relazione a tale servizio non hanno potuto far altro che conseguire, in via del tutto anomala, un punteggio quasi inesistente, si traduce in un'offerta completamente viziata sotto il profilo strutturale, ossia in un'offerta inammissibile per mancanza di uno dei suoi elementi essenziali».
A detta del Tar, dunque, l'offerta di gara, oltre a non poter essere meramente simbolica, deve sempre poter essere valutata nella sua completezza, indipendentemente dalle indicazioni fornite dalla stazione appaltante e contenute nel bando o nel disciplinare di gara. Diversamente opinando, infatti, l'indicazione di prezzi fittizi, come tali, privi di un reale riscontro, affetta la complessità dell'offerta e obbliga la stazione appaltante a provvedere con l'esclusione dell'operatore economico.
Conseguentemente il Tar ha accolto il ricorso per l'effetto annullando l'aggiudicazione in favore del consorzio, e ordinando il subentro della seconda classificata (articolo ItaliaOggi Sette del 17.11.201).

URBANISTICALe zonizzazioni degli strumenti urbanistici si presumono conformative e non espropriative salva prova contraria.
La Corte di appello di Venezia afferma interessanti principi in materia di previsioni di zonizzazione contenute negli strumenti urbanistici. In particolare, la Corte, seguendo l’insegnamento della Corte di Cassazione, dice che le zonizzazioni previste dagli strumenti urbanistici si presumono avere natura conformativa e non espropriativa, fatta salva la prova contraria, che si può fornire mostrando che in concreto le disposizioni delle NTA (chiamate “indici”) consentono solo di realizzare opere pubbliche. Se così non è, la zonizzazione va considerata conformativa.
Nel caso in esame, il PRG prevedeva una zona da destinare a verde attrezzato a fini sportivi, su aree degradate alla periferia del centro abitato, perché in passato utilizzate come cave e discarica. L’intervento era subordinato a un progetto speciale, che poteva essere presentato e realizzato non solo dal Comune, ma anche dal proprietario, previa convenzione col Comune (Corte di Appello di Venezia, Sez. II civile, sentenza 20.06.2014 n. 1504 - link a http://venetoius.it).

EDILIZIA PRIVATAIn caso di reiterazione della domanda di concessione edilizia, quando quella precedentemente rilasciata sia decaduta per mancato inizio dei lavori, non ci si trova in presenza di provvedimenti meramente confermativi o di proroga della concessione già rilasciata ma di una nuova concessione, il cui rilascio è subordinato all'adempimento degli obblighi relativi.
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L’art. 4 della L. n. 10/1977 dispone testualmente che “Nell'atto di concessione sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori. Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno; il termine di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere abitabile o agibile, non può essere superiore a tre anni e può essere prorogato, con provvedimento motivato, solo per fatti estranei alla volontà del concessionario, che siano sopravvenuti a ritardare i lavori durante la loro esecuzione. Un periodo più lungo per l'ultimazione dei lavori può essere concesso esclusivamente in considerazione della mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive; ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari. Qualora i lavori non siano ultimati nel termine stabilito, il concessionario deve presentare istanza diretta ad ottenere una nuova concessione; in tal caso la nuova concessione concerne la parte non ultimata.”.
La decadenza dalla concessione edilizia per mancato inizio dei lavori nel termine prefissato, a norma dell'art. 4 della L. 28.01.1977 n. 10, è un istituto giuridico fondato sull'elemento oggettivo del decorso del tempo e, ai sensi dell'art. 4, 4º comma, della L. 28.01.1977 n. 10, i predetti termini indicati nell'atto sono intesi a dare certezza temporale all'attività edificatoria; detto istituto è rivolto, previo accertamento dello stato dell'attività costruttiva alla scadenza del termine suddetto, solo a dare certezza di una situazione già prodottasi al verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge.
Il termine per l'inizio dell'attività edificatoria non è suscettibile né di sospensione né di interruzione e non è, pertanto, prorogabile; se, infatti, scaduto il termine di validità del titolo autorizzatorio, l'attività di trasformazione edilizia non è ancora iniziata, prevale l'esigenza di consentire, nel preminente interesse pubblico, la rivalutazione della perdurante conformità dell'intervento assentito alla vigente normativa urbanistica, esigenza, che, invece, nell'ottica del legislatore, si attenua in presenza di un'attività edilizia già iniziata, benché non terminata per fatti indipendenti dalla volontà del costruttore.
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E' irrilevante lo stato di salute della ricorrente, quale manifestatosi successivamente al presunto inizio dei detti lavori di realizzazione degli edifici e ritenuto causa della predetta interruzione, indipendentemente dalla circostanza che il predetto stato sia stato previamente portato a conoscenza dell’amministrazione comunale interessata con l’istanza di proroga della concessione e non invece dedotto, esclusivamente, in un momento successivo, in sede di richiesta di riesame del rigetto di rilascio della nuova concessione edilizia.
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Deve rilevarsi che l'orientamento giurisprudenziale sulla necessità di un espresso provvedimento di decadenza della concessione edilizia non è costante.
Ed infatti una parte della giurisprudenza ritiene che la decadenza della concessione edilizia per mancato inizio ed ultimazione dei lavori non sia automatica e, pertanto, tale decadenza debba essere necessariamente dichiarata con apposito provvedimento, nei cui riguardi il privato non vanta che una posizione giuridica di interesse legittimo, sicché non è configurabile nella specie un giudizio d'accertamento e che, pertanto, affinché la concessione edilizia perda, per decadenza, la propria efficacia occorre un atto formale dell'amministrazione che renda operanti gli effetti della decadenza accertata.
La decadenza avrebbe, pertanto, dovuto formare oggetto di un apposito provvedimento sindacale, che ne avesse accertato i presupposti rendendone operanti gli effetti, come richiesto per tutti i casi di decadenza di concessioni edilizie, considerato che la perdita di efficacia della concessione è subordinata all'esplicazione di una potestà provvedimentale.
Il Collegio, in tale situazione, in aderenza all’orientamento che appare prevalente nella materia da ultimo, ritiene che debba farsi riferimento invece alla lettera della legge, la quale fa dipendere la decadenza, non da un atto amministrativo, costitutivo o dichiarativo, ma dal semplice fatto dell'inutile decorso del tempo.
Diversamente opinando, infatti, si farebbe dipendere la decadenza non solo da un comportamento dei titolari della concessione ma anche della Pubblica Amministrazione, ai fini dell’accertamento con apposito atto amministrativa dell’intervenuta decadenza della concessione edilizia per l’inutile scadenza del termine di inizio lavori, con probabili disparità di trattamento tra situazioni che nella sostanza si presentano identiche sul punto che interessa.
La decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio dei lavori, pertanto, opera di diritto, con la conseguenza che il provvedimento, ove adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi "ex se" con l'inutile decorso del termine. Segue da ciò che: a) l'eventuale provvedimento di decadenza è sufficientemente motivato con richiamo al termine ultimo previsto per l'inizio dei lavori, senza che sia necessaria una comparazione tra l'interesse del privato e quello pubblico, essendo quest'ultimo "ope legis" prevalente sul primo; b) non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento, essendo la decadenza un effetto "ipso iure" del mancato inizio dei lavori e non residuando all'amministrazione alcun margine per valutazioni di ordine discrezionale.
La decadenza della concessione edilizia si determina, pertanto, anche in assenza di un'espressa dichiarazione da parte dell’amministrazione competente.
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Ai fini della sussistenza -o meno- dei presupposti per la decadenza dalla concessione edilizia, l'effettivo inizio dei lavori relativi deve essere valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico e puntuale riferimento all'entità ed alle dimensioni dell'intervento edificatorio programmato ed autorizzato, all'evidente scopo di evitare che il termine prescritto possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e simbolici e non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione stessa di procedere alla costruzione dell'opera progettata.
L'inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza della concessione edilizia può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da manifestare una effettiva volontà da parte del concessionario di realizzare il manufatto assentito, non essendo sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione.
Pertanto l'inizio dei lavori non si configura con la sola esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento senza che sia manifestamente messa a punto l'organizzazione del cantiere e vi siano altri indizi che dimostrino il reale proposito del titolare della concessione edilizia di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione ed al completamento dell'opera.
E la declaratoria di decadenza della licenza edilizia per mancato inizio dei lavori entro il termine fissato è illegittima solo ove il titolare della concessione abbia eseguito "lo scavo ed il riempimento in conglomerato cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del piano di campagna entro il termine di legge" oppure lo sbancamento interessi un'area di vaste proporzioni.
Né si ritiene che assuma rilevanza, ai fini che interessano della verifica del regolare e tempestivo inizio dei lavori ai sensi dell’art. 4 della L. n. 10/1977, la circostanza che sia stata data comunicazione dell’inizio dei lavori come da nota prot. n. 06799 del 05.10.1994, atteso che la predetta circostanza non è idonea ad attestare l’effettivo inizio degli stessi, in assenza di positivi riscontri materiali al riguardo; ed altrettanto è a dirsi per la nomina del direttore dei lavori di cui alla nota prot. n. 06798 della medesima data.

Con il secondo motivo di censura di cui al ricorso sub A) e con il primo ed il secondo motivo di censura di cui al ricorso sub B), la ricorrente ha sostenuto che la concessione edilizia originariamente rilasciata non era decaduta per inutile decorso del termine di un anno senza inizio dei lavori sia perché i lavori erano, invece, iniziati sia perché, comunque, la decadenza non era stata dichiarata tempestivamente ed espressamente da parte del Comune; ha ulteriormente dedotto di avere presentato in data 15.03.1997 istanza di proroga della concessione edilizia rilasciatagli, che sarebbe, tuttavia, rimasta priva di riscontro da parte dell’amministrazione comunale.
Si premette che, in caso di reiterazione della domanda di concessione edilizia, quando quella precedentemente rilasciata sia decaduta per mancato inizio dei lavori, non ci si trova in presenza di provvedimenti meramente confermativi o di proroga della concessione già rilasciata ma di una nuova concessione, il cui rilascio è subordinato all'adempimento degli obblighi relativi.
Ne consegue la non rilevanza dell’argomentazione di cui da ultimo della difesa della ricorrente, secondo cui la richiesta di rilascio della seconda concessione edilizia, in realtà nella sostanza, andava interpretata da parte del Comune come istanza di proroga del termine della concessione edilizia già rilasciata, reiterativi della precedente istanza, tempestivamente presentata nelle more di decorrenza del termine annuale di inizio di lavori di costruzione in data 15.03.1997.
Ed infatti una volta ritenuta la sostanziale decadenza della predetta concessione edilizia, correttamente il Comune ha valutato la nuova istanza alla stregua di quanto emergeva dal suo dato testuale, ossia di richiesta di rilascio di una nuova concessione edilizia del medesimo contenuto.
L’art. 4 della L. n. 10/1977 dispone, infatti, testualmente che “Nell'atto di concessione sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori. Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno; il termine di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere abitabile o agibile, non può essere superiore a tre anni e può essere prorogato, con provvedimento motivato, solo per fatti estranei alla volontà del concessionario, che siano sopravvenuti a ritardare i lavori durante la loro esecuzione. Un periodo più lungo per l'ultimazione dei lavori può essere concesso esclusivamente in considerazione della mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive; ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari. Qualora i lavori non siano ultimati nel termine stabilito, il concessionario deve presentare istanza diretta ad ottenere una nuova concessione; in tal caso la nuova concessione concerne la parte non ultimata.”.
La decadenza dalla concessione edilizia per mancato inizio dei lavori nel termine prefissato, a norma dell'art. 4 della L. 28.01.1977 n. 10, è un istituto giuridico fondato sull'elemento oggettivo del decorso del tempo e, ai sensi dell'art. 4, 4º comma, della L. 28.01.1977 n. 10, i predetti termini indicati nell'atto sono intesi a dare certezza temporale all'attività edificatoria; detto istituto è rivolto, previo accertamento dello stato dell'attività costruttiva alla scadenza del termine suddetto, solo a dare certezza di una situazione già prodottasi al verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge (TAR Campania Napoli, sez. IV, 29.04.2004, n. 7513).
Il termine per l'inizio dell'attività edificatoria non è suscettibile né di sospensione né di interruzione e non è, pertanto, prorogabile; se, infatti, scaduto il termine di validità del titolo autorizzatorio, l'attività di trasformazione edilizia non è ancora iniziata, prevale l'esigenza di consentire, nel preminente interesse pubblico, la rivalutazione della perdurante conformità dell'intervento assentito alla vigente normativa urbanistica, esigenza, che, invece, nell'ottica del legislatore, si attenua in presenza di un'attività edilizia già iniziata, benché non terminata per fatti indipendenti dalla volontà del costruttore (TAR Sardegna, 06.08.2003, n. 1001).
Ne consegue, ai fini che interessano, la assoluta irrilevanza dello stato di salute della ricorrente, quale manifestatosi successivamente al presunto inizio dei detti lavori di realizzazione degli edifici e ritenuto causa della predetta interruzione, indipendentemente dalla circostanza che il predetto stato sia stato previamente portato a conoscenza dell’amministrazione comunale interessata con l’istanza di proroga della concessione e non invece dedotto, esclusivamente, in un momento successivo, in sede di richiesta di riesame del rigetto di rilascio della nuova concessione edilizia.
Ed infatti, alla luce della citata interpretazione oggettiva del suddetto termine di inizio lavori, la proroga dello stesso non sarebbe giuridicamente configurabile per alcun motivo, neppure quello inerente allo stato di salute del titola del titolo edificatorio.
Peraltro la ricorrente, considerata l’inerzia del Comune nel riscontrare la predetta istanza di proroga, presentata nelle more di decorrenza del termine annuale di inizio dei lavori (che si evidenzia non essere stata depositata nemmeno in copia nel presente giudizio né a cura della ricorrente, direttamente interessata, né a cura del Comune, che è rimasto, nella sostanza, assolutamente inottemperante all’O.P.I. n. 10/2005), avrebbe dovuto tempestivamente, e nei modi di legge, attivarsi contro la predetta inerzia, ai fini di fare valere, eventualmente, le proprie ragioni al riguardo nei confronti dell’amministrazione comunale.
Ciò premesso, deve rilevarsi che l'orientamento giurisprudenziale sulla necessità di un espresso provvedimento di decadenza non è costante.
Ed infatti una parte della giurisprudenza ritiene che la decadenza della concessione edilizia per mancato inizio ed ultimazione dei lavori non sia automatica e, pertanto, tale decadenza debba essere necessariamente dichiarata con apposito provvedimento, nei cui riguardi il privato non vanta che una posizione giuridica di interesse legittimo, sicché non è configurabile nella specie un giudizio d'accertamento (TAR Abruzzo Pescara, 28.06.2002, n. 595) e che, pertanto, affinché la concessione edilizia perda, per decadenza, la propria efficacia occorre un atto formale dell'amministrazione che renda operanti gli effetti della decadenza accertata (Consiglio Stato, sez. V, 26.06.2000, n. 3612).
La decadenza avrebbe, pertanto, dovuto formare oggetto di un apposito provvedimento sindacale, che ne avesse accertato i presupposti rendendone operanti gli effetti, come richiesto per tutti i casi di decadenza di concessioni edilizie (Cfr. da ultimo V, 15.06.1998, n. 834), considerato che la perdita di efficacia della concessione è subordinata all'esplicazione di una potestà provvedimentale.
Il Collegio, in tale situazione, in aderenza all’orientamento che appare prevalente nella materia da ultimo, ritiene che debba farsi riferimento invece alla lettera della legge, la quale fa dipendere la decadenza, non da un atto amministrativo, costitutivo o dichiarativo, ma dal semplice fatto dell'inutile decorso del tempo.
Diversamente opinando, infatti, si farebbe dipendere la decadenza non solo da un comportamento dei titolari della concessione ma anche della Pubblica Amministrazione, ai fini dell’accertamento con apposito atto amministrativa dell’intervenuta decadenza della concessione edilizia per l’inutile scadenza del termine di inizio lavori, con probabili disparità di trattamento tra situazioni che nella sostanza si presentano identiche sul punto che interessa.
La decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio dei lavori, pertanto, opera di diritto, con la conseguenza che il provvedimento, ove adottato, ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi "ex se" con l'inutile decorso del termine. Segue da ciò che: a) l'eventuale provvedimento di decadenza è sufficientemente motivato con richiamo al termine ultimo previsto per l'inizio dei lavori, senza che sia necessaria una comparazione tra l'interesse del privato e quello pubblico, essendo quest'ultimo "ope legis" prevalente sul primo; b) non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento, essendo la decadenza un effetto "ipso iure" del mancato inizio dei lavori e non residuando all'amministrazione alcun margine per valutazioni di ordine discrezionale (TAR Basilicata, 23.05.2003, n. 471).
La decadenza della concessione edilizia si determina, pertanto, anche in assenza di un'espressa dichiarazione da parte dell’amministrazione competente.
Ai fini della verifica dell’effettivo inizio dei suddetti lavori nei termini di legge di cui sopra, in punto di fatto, non può che prendersi dal contenuto essenziale del verbale di sopralluogo dell’U.T.C. del 27.02.1998, che, sebbene non depositato in copia agli atti del giudizio, nonostante apposita O.P.I. al riguardo, tuttavia è stato riportato, nella sua parte motivazionale, nel testo del provvedimento di cui al prot. n. 10466 del 05.11.1998, impugnato con il ricorso sub B), rileva la consistenza dei lavori effettuati quali “modesti sbancamenti di terreno oramai ricoperti di acqua e vegetazione”;
Si ricorda, infatti, come tale attestazione debba considerarsi veridica fino a prova contraria, prova che la ricorrente non è riuscita a fornire nel presente giudizio.
Ed infatti anche dall’elencazione dei lavori effettuati, come riportati nella richiesta di riesame, dette opere consistono in “picchettatura del terreno interessato dalla costruzione, livellamento del medesimo terreno al livello delle fondazioni, creazione degli scavi per il getto dei plinti di fondazione di entrambi gli assentiti edifici, realizzazione della strada di accesso”.
Ne consegue che, nella sostanza, non appare esservi un reale contrasto tra le parti in ordine alla natura dei detti lavori, che, secondo entrambe le rappresentazioni dello stato dei fatti, si sono fermati al livello dello sbancamento dei terreni e della loro preparazione all’edificazione, senza che, tuttavia, la edificazione in senso stretto, come intesa dalla prevalente giurisprudenza sul punto, possa effettivamente considerasi iniziata.
Ed infatti, ai fini della sussistenza -o meno- dei presupposti per la decadenza dalla concessione edilizia, l'effettivo inizio dei lavori relativi deve essere valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico e puntuale riferimento all'entità ed alle dimensioni dell'intervento edificatorio programmato ed autorizzato, all'evidente scopo di evitare che il termine prescritto possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e simbolici e non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione stessa di procedere alla costruzione dell'opera progettata (Consiglio Stato, sez. V, 16.11.1998, n. 1615).
L'inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza della concessione edilizia può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da manifestare una effettiva volontà da parte del concessionario di realizzare il manufatto assentito, non essendo sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione (Consiglio Stato, sez. V, 22.11.1993, n. 1165).
Pertanto l'inizio dei lavori non si configura con la sola esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento senza che sia manifestamente messa a punto l'organizzazione del cantiere e vi siano altri indizi che dimostrino il reale proposito del titolare della concessione edilizia di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione ed al completamento dell'opera (Consiglio Stato, sez. IV, 03.10.2000, n. 5242).
E la declaratoria di decadenza della licenza edilizia per mancato inizio dei lavori entro il termine fissato è illegittima solo ove il titolare della concessione abbia eseguito "lo scavo ed il riempimento in conglomerato cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del piano di campagna entro il termine di legge" (Consiglio Stato, sez. V, 15.10.1992, n. 1006) oppure lo sbancamento interessi un'area di vaste proporzioni (Consiglio Stato, sez. V, 13.05.1996, n. 535).
Né si ritiene che assuma rilevanza, ai fini che interessano della verifica del regolare e tempestivo inizio dei lavori ai sensi dell’art. 4 della L. n. 10/1977, la circostanza che sia stata data comunicazione dell’inizio dei lavori come da nota prot. n. 06799 del 05.10.1994, atteso che la predetta circostanza non è idonea ad attestare l’effettivo inizio degli stessi, in assenza di positivi riscontri materiali al riguardo; ed altrettanto è a dirsi per la nomina del direttore dei lavori di cui alla nota prot. n. 06798 della medesima data.
Non si riscontra, pertanto, la dedotta violazione dell’art. 8, co. 3, della L.R. n. 29/1997, il quale, nel prevedere le misure di salvaguardia, testualmente dispone che “3. All'interno delle zone A previste dall'articolo 7, comma 4, lettera a), numero 1), delle aree naturali protette individuate dal piano regionale, sono vietati: … omissis … q) la realizzazione di nuovi edifici all'interno delle zone territoriali omogenee E) previste dall'articolo 2 del decreto del Ministro per i lavori pubblici 02.04.1968, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 16.04.1968, n. 97, in cui sono comunque consentiti: 1) interventi già autorizzati e regolarmente iniziati alla data di entrata in vigore della presente legge”, atteso che, nel caso di specie, si è ritenuto che non vi fosse stato alcun effettivo inizio dei lavori tale da giustificare la mancata decadenza della concessione edilizia in precedenza rilasciata.
Il “regolare inizio”, alla data di entrata in vigore della presente legge, degli interventi già autorizzati, infatti, non può essere intesa in senso difforme dall’inizio dei lavori ai fini della decadenza dalla concessione edilizia di cui al richiamato art. 4 della L. n. 10/1977, indipendentemente dalla irrilevante circostanza che effettivamente il Comune abbia provveduto tempestivamente all’adozione di un atto formale ed espresso di decadenza (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 28.06.2005 n. 5370).

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